Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2019

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

 

         

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

PRIMA PARTE

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Scandali Stellari.

Demi Moore racconta: "Violentata a 15 anni".

Charlize Theron.

Brad Pitt e Angelina Jolie.

I Ritrovi delle Star.

Lorenzo Riva il super collezionista di Hollywood.

Benedetta Paravia.

Adelaide Manselli, ma tutti la conoscono con il nome di Anna Pannocchia.

Riconosciuti Figli d'arte. Camilli e gli altri.

Il maestro Riccardo Muti.

Plácido Domingo: l'highlander dell'opera.

Vittorio Grigolo: tenore rock.

Ezio Bosso ed “I Sani Cronici”.

Roberto Bolle ed i Ballerini.

L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona.

Canzoni stralunate.

Da Prince a Zucchero, le accuse di plagio più clamorose nella musica italiana.

Zucchero. Questa Italia non mi piace.

Nel nome di Mariele Ventre: gli eterni bambini dello Zecchino d’Oro.

I Tiromancino ed i Zampaglione.

Queste vuote teste di "Rap".

Chi decide cosa ascoltiamo?

Disco rotto. Meglio Live.

Ecco come funziona l'organizzazione dei concerti live in Italia.

Vercelli: sigilli a mille giostre in Italia autorizzate senza controlli in cambio di tangenti.

La storia non detta del Carnevale di Rio.

La Verità in tv è femmina. Roberta Petrelluzzi; Franca Leosini; Federica Sciarelli.

  I 30 anni di “Un giorno in pretura”.

“Tutta la verità” sui casi controversi. 

Blob Job di Marco Giusti.

La Claque non è Bue.

Se nei programmi passa quello che il pubblico vuole vedere.

La televisione si nutre del passato.

Televendita dell’arte.

Gli addetti stampa dello spettacolo: Enrico Lucherini.

Racconta Adriano Aragozzini.

Marracash.

Rino Barillari.

Giorgio Lotti.

Marcellino Radogna

Giovanni Ciacci.

Beppe Convertini.

Vieni avanti, Savoia: Emanuele Filiberto.

Gli influencer dello spettacolo & Company. Kim Kardashian, Chiara Biasi, Chiara Ferragni e Fedez, Giulia De Lellis, Greta Menchi, Valentina Pivati, Elisa Maino.

Maurizio Seymandi ed il telegattone.

I figli delle stelle.

Il bimbo di Benigni: Giorgio Cantarini.

Liam e Noel Gallagher. I fratelli coltelli degli Oasis.

Albertino.

Thegiornalisti.

I Cugini di Campagna.

Stefano De Martino.

Rocco Papaleo.

Rosanna Lambertucci.

Coez.

I Mogol.

Edoardo Bennato.

La vita normale del figlio di Bruce Springsteen.

Renato Zero.

Lino Capolicchio.

Non è la D'Urso.

Fuori la Ciccia. Vanessa Incontrada.

Andrea Delogu.

Michele Cucuzza.

Luca Sardella.

Amadeus ricorda gli anni bui.

Ilaria D’Amico.

Alessia Marcuzzi, un impensabile aneddoto.

Isola dei Famosi 2019: Riccardo Fogli e la verità sul tradimento.

Antonio Zequila: Er Mutanda.

Miriam Leone.

Dj Ringo.

Luca Argentero.

Camila Raznovich.

Selvaggia Lucarelli.

Barbara Chiappini.

Alba Parietti: “Alla camomilla dei buoni preferisco l’adrenalina dei cattivi”.

Lorella Cuccarini e Heather Parisi. Nemiche amatissime.

Viola Valentino.

Carolyn Smith.

Paola Ferrari.

Maurizio Costanzo e Maria De Filippi.

Maurizio Costanzo. Uno di Noi.

Pippo Baudo: «Non rimpiango niente (anzi, due cose)».

Smaila & Company. Le avventure dei Gatti di Vicolo Miracoli.

Enrico Vanzina.

I Montesano.

Lando Buzzanca.

Andrea Giordana.

Carlo Verdone.

Francesca Manzini.

La Super Simo.

Antonella Clerici, pop e imperfetta.

Fabio Volo.

Marisa Berenson.

Helmut Bergher: il diavolo.

Elisa Isoardi. 

Le Parodi e la cucina.

Mara Maionchi: “la starlette”.

Levante.

Il Watusso Edoardo Vianello.

Fabio Rovazzi contro i superficiali.

Tiziano Ferro e l'amore.

Ezio Greggio vs Vittorio Feltri.

Massimo Boldi.

Enrico Brignano.  

Stefano Accorsi.

Kasia Smutniak.

Francesca Barra.

Valeria Golino e le quote rosa.

Violante Placido.

Ornella Muti.

Silvio Berlusconi, la confessione di Carlo Freccero: "Perché devo tutto a lui".

Lucci tra Lele Mora e Emilio Fede.

Enrica Bonaccorti: "Perché mi hanno fatta fuori dalla tv”.

Gemma Galgani. Tina Cipollari. "Quanto prende al mese per fare la cafona".

L’irruenza di Magalli.

Caccia alla Volpe.

Nina Zilli.

Antonella Mosetti.

Art Attack Giovanni Muciaccia.

Antonio Lubrano: il difensore civico.

Manuela Blanchard: Manuela di Bim bum bam.

Simone Annicchiarico, l'astro nascente della tv scomparso.

Banfi e capelli.

Raffaella Carrà: "Se ho fatto delle cazzate è perché le avevo scelte io".

Marco Columbro: il templare.

Parla Carmen Russo ed Enzo Paolo Turchi.

Bertolino e il calcio per i bimbi delle favelas con la maglia dell’Inter.

Con Paolo Bonolis: addio “Libertà”.

Così diventai Carlo Conti.

Giorgio Panariello.

Parla Nek.

Ed Sheeran l'artista più ascoltato al mondo.

Alberto Camerini.

Marco Masini e la sfortuna.

L’ipocrisia su Mia Martini.

Loredana Bertè.

Grillo e Celentano. I Santoni della Tv. Ne parlano Michelle Hunziker, Antonio Ricci e Teo Teocoli.

Eros Ramazzotti.

Fiorello e il fastidio sui presunti compensi.

Rosalino Cellamare: detto Ron.

Parla il Pupo.

Sono Lory, non sono una santa.

Sabrina Paravicini: insultata perché malata.

Claudia Pandolfi. 

Sara Tommasi.

Piera Degli Esposti.

Justine Mattera ed i colpi di culo…

Valentina Ruggeri: “Così George Clooney mi ha scelto..” 

Dov’è la Vittoria (Risi)?

Le Donatella.

Viky Moore.

Sonia Eyes.

Franco Trentalance.

Davide Iovinella. Il calciatore porno.

Siffredi Family.

Amandha Fox a Pulsano.

Moana Conti.

Max Felicitas.

Valentine Demy.

LadyBlue – Angelica.

Veronica Rossi.

Sabrina Sabrok. Porno Satana.

Bridget the Midget - Cheryl Murphy: Porno sangue.

Malena. Filomena Mastromarino.

Valentina Nappi.

Carolina Abril.

Natalie Oliveros. Nome d'arte, Savanna Samson. Dal porno al Brunello.

Eva Henger.

Morena Capoccia.

Rossana Doll.

Omar Pedrini.

Ottavia Piccolo.

Miriana Trevisan.

Roberto Brunetti, “Er Patata”.

Tina Turner compie 80 anni.

Parla Stefania Casini.

Martina Smeraldi.

Milly D’Abbraccio.

Priscilla Salerno.

Giuseppe Povia.

Alanis Morissette.

Natalie Imbruglia.

Giordana Angi.

Piero Pelù.

Parla Giorgia.

Parla Luisa Corna.

Giorgio Mastrota.

Natalia Estrada senza rimpianti.

Parla Enrico Beruschi.

Parla Anna Maria Barbera.

Parla la cornuta Simona Izzo.

Parla il truffato Corrado Guzzanti.

Elena Santarelli e la guerra contro il tumore del figlio.

Si parla di Ambra Angiolini.

Francesco Renga.

Pamela Petrarolo.

Caterina Balivo.

Mara Venier.

Stella Manente. 

Che allegria, c'è Diaco.

Chi è Alessio Orsingher marito di Pierluigi Diaco.

Aldo Baglio confessa.

Franco Battiato: il ritorno del maestro.

Memo Remigi.

Quelli di Propaganda Live.

Milva ne fa 80.

Ornella Vanoni: ragazza irresistibile.

Peppino di Capri, 80 anni e non sentirli.

Gli ABBA: i giganti del Pop.

Rosalina Neri.

Giovanna Ralli.

Cucinotta: “51 anni di magia grazie a Massimo Troisi”.

Martina Colombari.

Paola Turci.

Sabrina Salerno.

Dramma per Valentina Persia. 

Si parla di Paola Barale.

Raz Degan.

Alena Seredova.

Eleonora Pedron.

La velina Mikaela Neaze Silva.

Lorena Bianchetti.

Bianca Guaccero.

Parla Rita Dalla Chiesa.

Ilary Blasi. Lady Totti.

Sylvie Lubamba riparte dalla moda.

Le Donatella tornano alla musica.

Ligabue tra Palco e realtà.

Le corna di Clizia Incorvaia a Francesco Sarcina.

Pippo Franco.

Christian De Sica.

Antonio Sorgentone.

Taylor Mega.

Giorgia Venturini.

Sara Manfuso.

 Hoara Borselli.

Gigi Marzullo.

Vittoria Hyde: front woman dei Vittoria and the Hyde Park.

Alfonso Signorini.

Edwige Fenech.

Tony Sperandeo.

Gli Iglesias.

Michelle Pfeiffer.

Jennifer Aniston.

Benji & Fede.

Romina Mondello. 

Daria Bignardi.

Federico Paciotti.

Giorgio Poi. 

Michele Bravi e quell’incidente mortale.

Domenico Diele.

Sabrina Ferilli.

Mariana Rodriguez.

Giusy Ferreri.

Elodie: "Sexy come Rihanna? Magari..."

Francesco Gabbani.

Ermal Meta: «Così ho scoperto l’Italia».

Magari Mika.

Magari Moro.

Meglio Mora.

Fabio Concato.

Niccolò Fabi.

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

1999-2009-2019. Pamela Prati: ogni dieci anni annuncia un matrimonio.

Carlo Taormina: “Se sono un grande avvocato…lo devo a mia moglie!”. 

Il Matrimonio di Eva Grimaldi.

Ana Bettz, la cantante imprenditrice.

Gabriel Garko.

L’amore saffico delle Spice Girls.

I Porconi del Gangnam.

Corinne Clery.

Catherine Spaak. Quella sex symbol rivoluzionaria ed eterna.

Il Personaggio Platinette.

Guillermo Mariotto: “una gran mignotta”.

Malgioglio intervista Cristiano.

Comanda Vladimir Luxuria.

Asia Comanda, Morgan subisce.

Gianluca Grignani.

Benji e Fede bullizzati.

Diana Del Bufalo.

J-Ax insulta Matteo Salvini. 

Fermato per furto il cantante Marco Carta.

Gerry Scotti.

Caduta Libera, il campione Nicolò Scalfi.

Caduta Libera. Il Campione Christian Fregoni.

Caduta Libera: battuto il campione Gabriele.

Giuseppe Cruciani: “Le mie passioni? La radio e le donne”.

Abramo Orlandini il maggiordomo di Vittorio Sgarbi.

Pio e Amedeo. I filosofi trash della tv.

Simona Tagli.

Ramona Badescu.

Mauro Marin.

La Gatta morta Marina La Rosa.

Al Gf la figlia d’arte Serena Rutelli.

Martina Nasoni, vincitrice del GF 2019

I guai di Gianni Nazzaro.

Gigi D’Alessio.

Gérard Depardieu.

Franca Valeri: non mi annoio.

Parla Lina Wertmüller.

Giancarlo Giannini.

Franco Zeffirelli teme la morte.

Guai, amori e Oscar di Vittorio Cecchi Gori.

Luca Barbareschi e "La mafia dei froci".

Lucrezia Lante della Rovere.

Il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione".

Umberto Orsini si racconta.

Pierfrancesco Favino e le donne.

Nicolas Vaporidis.

Giulio Scarpati, il medico in famiglia.

Pupi Avati.

Ferzan Ozpetek.

Maurizio Ferrini.

Ficarra e Picone.

Lizzo.

Mary Rider.

Rebecca Volpetti.

Gabriele Paolini.

Alex Britti.

Juliette Binoche.

Marta Flavi.

Le Rodriguez.

Mario Lavezzi.

Saverio Raimondo.

Gianna Nannini.

Creedence Clearwater Revival.

Red Hot Chili Peppers.

Andrea Scanzi.

Arturo Brachetti.

Roberto D’Agostino.

Mandy Jean Prince in arte Prince.

Luana Borgia.

Angela Gritti.

Francesca Conti Cortecchia.

Costantino Vitagliano.

Giuliano Fildigrano in arte Julius.

Maria Giovanna Ferrante diventata Mary Rider.

Viviana Bazzani.

La confessione di Ivana Spagna.

Monica Bellucci: «Non mi spaventa il corpo che cambia».

Giovanni Allevi.

Ronn Moss: il Ridge di “Beautiful”.

Keanu Reeves. Quello che non sapevate di lui.

Renzo Arbore.

Marisa Laurito ed i falli.

Sandra Milo ed il Fisco.

Claudia Gerini: ho detto tanti no.

Stefani Sandrelli apre il cuore.

Max Pezzali e gli 8-8-3.

Enrico Ruggeri.

Cesare Cremonini.

I Morandi.

Francesco Facchinetti: “Io, Jim Carrey e quel folle weekend…”. 

Daniele Bossari. 

Cristina Chiabotto.

Parla Gino Paoli.

Shel Shapiro.

Francis Ford Coppola: l’ultimo Re di Hollywood.

Essere Martin Scorsese.

Clint Eastwood.

Giorgio Tirabassi.

Quentin Tarantino.

Oliver Stone.

Parla Carla Signoris.

Parla Vasco.

Achille Lauro come l' armatore.

Salmo e i concerti sulla nave.

I Linea 77.

Una vita da Madonna.

Miles Davis.

Michael Stipe ed i Rem.

Elton John.

Lodovica Comello.

I Ricchi e Poveri.

Giorgio Moroder: Viva gli anni Ottanta!

Tatti Sanguineti. Patate, patacche e "fake".

Fonzie e la sua vita da dislessico.

Robert De Niro e la famiglia arcobaleno.

Al Pacino.

Jack Nicholson, il ghigno folle dell'antieroe di Hollywood.

Il segreto della longevità: Kirk e Anne Douglas.

Sofia Loren.

Gina Lollobrigida.

Claudia Cardinale.

Sharon Stone.

Olivia Newton-John: la guerriera.

Il 2 volte premio Oscar Jodie Foster.

Diane Keaton ed il suo funerale.

Buon compleanno Meryl Streep: l'attrice compie 70 anni.

Britney Spears, dramma senza fine.

Anna Mazzamauro.

Milena Vukotic: «Ero per tutti la Pina di Fantozzi.

Ilona Staller ed i suoi cimeli.

Barbara Bouchet.

Ludovica Frasca.

Angela Cavagna.

Paola Caruso: ci è o ci fa.

Debora Caprioglio.

Serena Grandi.

I Pentimenti di Claudia Koll.

Anna Falchi.

Tinto Brass, una grappa, un sigaro e i trastulli della provincia italiana.

Chi guida la Lamborghini?

Frankie Hi NRG.

Arisa

Annalisa

Emma Marrone.

Alessandra Amoroso.

I Boomdabash.

Antonella Ruggiero e la sua voce.

Marcella è Bella.

Rita Pavone.

Donatella Rettore.

Caterina Caselli: «Ho battuto il cancro, e sono tornata».

Gerardina Trovato.

Lo Stato Sociale.

Sara Wilma Milani.

I 50 anni di Jennifer Lopez.

Paolo Conte.

Lucio Dalla Genio senza tempo.

Bob Dylan: perché è il cantautore più influente del rock.

Nunzia De Girolamo: “Finalmente è esplosa la mia femminilità”.

Nathalie Caldonazzo.

Dilettatevi con Diletta.

Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina».

Aida Yespica.

Loretta Goggi.

Danika Mori.

Alessandro Haber.

Tutto su Pedro Almodovar.

Antonio Banderas.

Brigitte Bardot: la prima vera animalista.

Delon, vittima di una cultura del linciaggio.

Il professor Jovanotti.

Pilar Fogliati.

Philippe Daverio.

Alberto Angela.

Giacobbo, misteri in tv e ossa rotte.

Federico Fazzuoli, storico conduttore di “Linea Verde”.

Daniela Martani.

Laura Chiatti.

Bella Hadid.

Patrizia De Black.

Massimo Giletti.

Claudio Cecchetto.

Maria Teresa Ruta.

Vinicio Capossela.

Marco Ferradini ed il suo Teorema.

Maddalena Corvaglia.

Lucia Sinigagliesi: la donna del del Guinness World Records.

Serena Enardu.

Gianluca Vacchi.

Alberto Dandolo.

Robbie Williams.

Bill Murray, l’outsider.

John Travolta.

Takagi & Ketra.

James Senese.

Paolo Brosio.

Giulia Calcaterra.

Guido Bagatta.

Claudio Lippi.

Trio Medusa.

Isabella Ferrari.

Giangiacomo Schiavi. Il regista che ha fondato la TV.

Milly Carlucci.

Lucia Bosé.

Mina.

Patty Pravo.

Serena Autieri.

I Bastards Sons of Dioniso.

Paolo Vallesi.

Stefano Zandri, in arte Den Harrow.

Ndg (acronimo del suo vero nome, Nicolò Di Girolamo).

Eleonora Giorgi.

Aiello.

William Shatner.

Gregoraci e Briatore.

Andrea Roncato.

Flavio Insinna: "Grazie a Fabrizio Frizzi sono un conduttore".

Stefania Nobile e Wanna Marchi.

Achille Bonito Oliva.

Da Vasco a Loren, storie (famose) dal carcere: quando attori e cantanti finiscono dietro le sbarre.

Amanda Lear: 80 anni d’arte tra Disco music, pittura e teatro.

Silvio Orlando.

Nina Moric.

Richard Gere.

Irina Shayk.

Paola Senatore.

Antonio Albanese Cetto La Qualunque.

I Ghini.

Alessandro Gassmann.

Silvio e Gabriele Muccino, fratelli-coltelli.

Mauro Pagani racconta Guccini.

Gianni Fantoni.

Emily Ratajkowski: "È difficile essere sexy".

Valentina Dallari.

Marco Mengoni.

I Negramaro.

Francesco Incandela.

Giulia Accardi, la modella curvy.

I Ristoratori Vip. Abbasso i cuochi d'artificio. Chef Rubio & compagni...

Oliviero Toscani.

Raoul Bova.

Malika Ayane.

Ricky Gianco.

Raf e D’Art.

Francesco Nuti.

Anna Galiena.

Claudio De Tommasi, vj storico.

Beatrice Venezi.

Susanna Torretta e il giallo della morte della contessa Vacca Agusta.

 

TERZA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.

Claudio Bisio il comunista.

Al Bano nella lista nera di Kiev.

Toto Cutugno viene bandito in Ucraina.

Sanremo 2019: i cantanti che hanno vinto più volte il festival.

Michele Torpedine: il talent scout.

Festival di Sanremo: le 25 canzoni più belle di sempre.

Presentatori Sanremo: tutti i “condottieri” del Festival della Canzone Italiana.

Sanremo: tutte le vallette che hanno partecipato al Festival.

Aneddoti, curiosità e drammi, amori e scandali a Sanremo.

Johnny Dorelli: «Modugno arrivò secondo e mi prese a schiaffi al Festival.

I 12 big che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo.

La biellese Gilda, vinse un Festival (minore).

Guida minima ai conflitti d’interesse di Baglioni.

Mahmood. Il vincitore politicamente corretto.

Simone Cristicchi e la sua “Abbi cura di me”.

Sanremo, 30 fatti poco noti della serata finale.

Sanremo, il Festival dalla A alla Z.

Troppi compagnucci? Per la Rai si vive di "contiguità amicale".

Litigi e battute, Sanremo specchio d'Italia.

"Aiutini", code, bufale: tutto ciò che non vedete in tv.

Sanremo 2019, settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese.

Sanremo solo a Sinistra.

Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra".

Sandro Giacobbe: “Sanremo non ha voluto la mia canzone per Genova”.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli italiani e lo sport? Ne parlano tanto... ma ne fanno poco.

Milano-Cortina, le olimpiadi ed il Movimento 5 cerchi.

Coni, i conti che non tornano.

Il Podista Fantozzi.

Great e quel record nazionale negato perché non ha cittadinanza.

Osvaldo ballerino, seconda vita: nel calcio ero solo un numero.

Berruti: «I miei inaspettati 80 anni Sono bi-bastone, non più bi-turbo».

Mi ritiro…e poi?

L'addio al campo. Paolo Silvio Mazzoleni.

Antonio Cassano.

Balotelli e le balotellate.

Roma. Edin Dzeko, Capitan passato e Capitan futuro.

Miralem Pjanic.

Messi è meglio di Cristiano Ronaldo.

Cristiano Ronaldo: il comunista.

Ronaldo (il Fenomeno).

Maradona nella casa del sonno.

Dino Zoff.

Albertosi. Nome ordinario, Enrico. Nome straordinario, Ricky.

Buffon: "Qui per aiutare dalla panca".

Gigi Riva.

Tardelli, dall’urlo al Mondiale: «Ho 65 anni, mi sento un ragazzino».

Non sa chi è Paolo Rossi?

Gianluca Pagliuca.

Claudio Marchisio saluta il mondo del calcio.

Samuel Eto'o lascia.

Genio e Sregolatezza: Paul Gascoigne.

Eric Cantona.

Zlatan Ibrahimovic: La Furia.

Maldini Family.

Fiorentina, ecco Ribery.

Gabriel Batistuta.

Icardi e le regole del Mobbing.

Sandro Mazzola.

Gianni Rivera.

Calcio Dotto (Emanuele).

Sandro Piccinini.

Che brutto il calcio moderno, ha tolto l’anima al pallone.

"Così ho fatto entrare Italia-Germania nel mito".

San Siro: la storia di un tempio del calcio (1926-2019).

Sla, ecco perché uccide i calciatori.

Davide Astori, la scoperta agghiacciante: tra il 1980 e il 2015 190 giovani atleti morti come lui.

Sport e demenza.

Beppe Marotta vs Fabio Paratici.

Pallonari. Figli di…

Il Calciomercato. Il Romanzo dell’Estate.

Calcio e business: ecco le plusvalenze delle squadre di Serie A.

Prestiti e panchine: così il calcio italiano brucia i suoi giovani talenti.

Calcio, quanto ci costa la sicurezza negli stadi.

Ladri di Sport e pure di Calcio.

Platini. Quei sospetti di corruzione sull’assegnazione al Qatar dei mondiali.

Quelli che…sono in fuorigioco.

Zdenek Zeman.

Non solo Allegri e Mihajlovic, guarda le sexy figlie dei mister.

Il Guerriero Mihajlovic.

Morta la bimba di Luis Enrique.

Silvio Baldini: l’anarchico.

Stiamo Allegri.

Giovanni Galeone.

Maurizio Sarri. Da bancario a banchiere.

Il Giramondo Stramaccioni.

Arrigo Sacchi: «Vendevo scarpe».

Antonio Conte e la stella in panchina.

Calcio: Ritiri ed Ammutinamenti.

Ancelotti 60.

Trapattoni ne fa 80.

Quando gli allenatori "marcano visita".

Quei grandi allenatori che a volte ritornano.

Calcio, da Simeone a Mazzone: quando l'esultanza degli allenatori è una provocazione.

Thohir lascia l'Inter con un capolavoro.

Palermo calcio, Zamparini ai domiciliari.

Razzismo: così il calcio italiano si sta ribellando.

Questo calcio "sessista" e la saggezza della Morace.

Violenza di genere: due pesi e due misure.

Il Calcio e l’ideologia.

Il marcio nascosto di Calciopoli.

Bruno Pizzul.

Ma Baggio è Baggio.

Il Calcetto è per vecchietti.

Roberto Mancini. Il Ct della Nazionale dei Record.

Gli Immortali del Calcio.

Francesca Schiavone ed il cancro.

Le Ombre sull'alpinismo.

Tania Cagnotto.

Valentino Rossi, i primi 40 anni del Dottore di Tavullia.

Formula Uno, Hamilton 6 volte campione del mondo.

La vita spericolata di Raikkonen.

Schumacher family.

Damiano Caruso e la mafia.

Vincenzo Nibali.

Mario Cipollini.

Saronni vs Moser.

La Maledizione del Tour.

Il Doping. Tutti dopati. Armostrog: anche senza si vince lo stesso.

L’affaire Marco Pantani.

Schwazer, una perizia dei Ris per provare la sua innocenza.

Marcello Fiasconaro il re degli 800.

Potenza della Fede.

Benedetta Pilato: non ho l’età.

Magnini si ribella dopo la squalifica.

Le memorie di Adriano Panatta.

Nicola Pietrangeli ed il funerale al Foro Italico.

Dino Meneghin.

Messner, il Re degli Ottomila a quota 75.

Messner…e gli altri.

La discesista Sofia Goggia.

Manfred Moelgg, le 300 gare del veterano dello sci.

Lorenzo Bernardi: Mister Secolo della pallavolo.

Chiude la palestra di Oliva. Salvava i bimbi dalla strada.

Ai Giochi 2020 la boxe data in appalto. La crisi nerissima dell’ex nobile arte.

Frankie Dettori.

Varenne va in pensione.

Gli Scacchi. Garry Kasparov.

I 70 anni del bigliardino.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         1999-2009-2019. Pamela Prati: ogni dieci anni annuncia un matrimonio.

Scintille fra D'Agostino e la Prati: ​"Credere a te è come credere a Conte". La showgirl e il fondatore di Dagospia si confrontano sul caso Mark Caltagirone: Dago smonta la vicenda, la Prati ribatte colpo su colpo. Alessandro Zoppo, Lunedì 21/10/2019, su Il Giornale. Massimo Giletti riapre il caso Mark Caltagirone: Pamela Prati e Roberto D’Agostino sono protagonisti di un acceso faccia a faccia nella puntata di Non è l’Arena, andata in onda su La7 domenica 20 ottobre 2019. Ad un mese di distanza dalla sua ultima apparizione al programma, la Prati è in lacrime nel dichiarare subito la propria innocenza. “Io sono innocente – dice la showgirl –, non ho paura di vedere Roberto: anzi, lo voglio ringraziare perché mi ha salvato”. Il fondatore di Dagospia, il primo sito che con FanPage ha smascherato Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, traccia la sua linea in questa storia. “La storia di Pamela – spiega D’Agostino – è la spia di quella che è diventata la celebrità contemporanea, quella dei "morti di fama", di gente comune che scompare dopo l’effimero successo e non sa più come tornare di nuovo alla ribalta. La distinzione tra vita reale e reality scompare: si crea un personaggio e per mantenerlo si fa di tutto. Eliana Michelazzo nasce come una corteggiatrice di Uomini e Donne. Quando viene battuta, incontra la Perricciolo”. Da quell’incontro nasce il “sistema” che conduce al “Prati-gate”. “Sono vent’anni che fa questo impiccio – dichiara la Michelazzo riferendosi alla Petrricciolo in un’intervista esclusiva “rubata” dall’inviato Danilo Lupo –, solo che adesso le ha detto male”. Al ritorno in studio, di colpo, un blackout oscura La7: Non è l’Arena viene interrotto per diversi minuti. Tornato tutto alla normalità, arrivano l’avvocato Lina Caputo, la legale della Prati, e la psicoterapeuta Stefania Andreoli. “Prima nessuno indagava le fake news – prosegue D’Agostino –, come quando Lucherini annunciò la relazione tra Richard Burton e Florinda Bolkan, palesemente una fregnaccia”. “Oggi – aggiunge – le celebrità soffrono della sindrome da "Viale del tramonto", il lato buio della celebrità. Molti sono trafitti dalla celebrità, bisognerebbe fare una San Patrignano dei cerebrolesi”. “Quando trasmissioni e giornali hanno una storia bellissima come quella inventata da Pamela – rincara la dose Dago –, non vanno a controllare. Ormai c’è un meccanismo televisivo in cui uno propone un menù strappalacrime e viene invitato per dieci puntate”. “Io ho raccontato quello che stavo vivendo – ribatte la Prati –, la storia d’amore che vivevo sulla mia pelle”.

D’Agostino e Pamela Prati: “Tu giochi con le slot machine”. “Un tema che non viene spesso raccontato – dichiara D’Agostino – sono i problemi economici: il tuo ex manager ha detto che giochi con le slot machine. È stato pubblicato un documento secondo cui l’Agenzia delle Entrate ti ha chiesto 372mila euro”. “Sono entrata una volta con mia sorella in una sala Bingo – risponde la showgirl –, non è mica un reato. Io non gioco, non bevo e non mi drogo”. La sua legale specifica che all’Agenzia delle Entrate ha chiesto semplicemente la rottamazione di una cartella esattoriale: un problema risolto da tempo. Ma D’Agostino non è convinto. “Io la capisco – dice il giornalista –, Pamela ha utilizzato queste due ragazze per ritornare in pista”. Un’intervista ad Alessia Bausone, consigliere comunale di San Luca “adescata” da Caltagirone e poi querelata per diffamazione dalla Michelazzo, svela il meccanismo ideato dalle due agenti: una vera e propria trappola. “Ma Pamela – sostiene D’Agostino – aveva tutti i vantaggi ad essere complice di questa storia. Se uno crede per un anno a queste fregnacce bisogna portarlo da un dottore, ha qualche problema”. “Tu non l’hai vissuta la mia storia – replica la Prati –, stai dicendo delle cose che non sono vere. La sensibilità sai che cos’è D’Agostino?”. “Il tuo obiettivo – risponde Dago – era fare soldi con una storia inventata: miravi a tornare in televisione. Era un triangolo delle Bermude in cui loro due prendevano i soldi e lei era complice. Quando finisce la fama è così, tu facevi le inaugurazioni delle pizzerie”. “La storia di Pamela – la difende la dottoressa Andreoli – è paragonabile a quella di quelle donne che picchiate dai mariti si lasciano convincere a dichiarare di essere cadute per le scale”. D’Agostino accusa la Prati di non essere nuova ad inventare matrimoni: l’ha già fatto nel 1999 “con tale Bertolani” e nel 2009 con Daniel Sebastian Jabir. “Era diva e recidiva – tuona D’Agostino –, è un indotto che genera tanti soldi”. Dago cita inoltre un accordo di riservatezza firmato dalle tre “per evitare di sputtanarsi”. “Pamela – ribatte la Caputo – non ha commesso alcun reato e non ha guadagnato nulla”. “Allora – domanda D’Agostino – perché ha detto in televisione che si è sposata civilmente con Mark Caltagirone?”. “Non lo sai – gli risponde la Prati –, è perché ero manipolata”. “Uno crede in Pamela Prati – conclude Dago – come crede in Giuseppe Conte”.

Giuseppe Candela per Dagospia il 21 ottobre 2019. Il confronto tra Roberto D'Agostino e Pamela Prati manda in tilt pure La7! Salta il segnale per otto minuti che diventano dodici aggiungendo la pubblicità. A Non è l'Arena va in onda il Dago contro tutti perché la Prati si presenta in studio con il suo avvocato Lina Caputo e con la psicoterapeuta Stefania Andreoli che già un mese fa aveva realizzato il suo santino proprio da Giletti.  “Io sono innocente non ho paura di vedere Roberto: anzi, lo voglio ringraziare perché mi ha salvato”, dice la showgirl in apertura. D'Agostino parte da lontano per spiegare la bufala svelata da questo sito:  “La storia di Pamela è la spia di quella che è diventata la celebrità contemporanea, quella dei ‘morti di fama’, di gente comune che scompare dopo l’effimero successo e non sa più come tornare di nuovo alla ribalta. La distinzione tra vita reale e reality scompare: si crea un personaggio e per mantenerlo si fa di tutto. Eliana Michelazzo nasce come una corteggiatrice di Uomini e Donne. Quando viene battuta, incontra la Perricciolo”. Da quell’incontro nasce il sistema che porterà al Prati-gate. “Prima nessuno indagava sulle fake news, come quando Lucherini annunciò la relazione tra Richard Burton e Florinda Bolkan, palesemente una fregnaccia. Oggi le celebrità soffrono della sindrome da ‘Viale del tramonto’, il lato buio della celebrità. Molti sono trafitti dalla celebrità, bisognerebbe fare una San Patrignano dei ceLEbrolesi. Quando trasmissioni e giornali hanno una storia bellissima come quella inventata da Pamela non vanno a controllare. Ormai c’è un meccanismo televisivo in cui uno propone un menù strappalacrime e viene invitato per dieci puntate”, aggiunge Dago mentre la primadonna del Bagaglino prova a difendersi: “Io ho raccontato quello che stavo vivendo la storia d’amore che vivevo sulla mia pelle”. Dago sposta l'attenzione sugli argomenti più delicati: “Un tema che non viene spesso raccontato sono i problemi economici: il tuo ex manager ha detto che giochi con le slot machine, vai al Bingo. È stato pubblicato un documento secondo cui l’Agenzia delle Entrate ti ha chiesto 372mila euro”. Qualche giorno fa Diva e Donna l'aveva beccata al Bingo: “Sono entrata una volta con mia sorella in una sala Bingo, non è mica un reato. Io non gioco, non bevo e non mi drogo”. L'avvocato prova a sgonfiare l'argomento sottolineando che quasi tutti hanno problemi con il fisco ma viene fermata da Dago: "Ma parla per te." La Caputo insiste: "Non ha debiti di gioco. Ha avuto un debito per tasse con lo Stato, è stata chiesta la rottamazione. Non c'è più questo problema. E' stato risolto. Non c'è mai stato, invece, un problema con il Bingo". Dago non arretra: "Pamela ha utilizzato queste due ragazze per ritornare in pista. Aveva tutti i vantaggi ad essere complice di questa storia. Se uno crede per un anno a queste fregnacce bisogna portarlo da un dottore, ha qualche problema”. Il colpo finale citando Luigi Oliva, ex della Prati che proprio a questo sito aveva accennato ai problemi economici della showgirl: "Non è mai stato mio fidanzato, è disgustoso. Non ho mai usato nessuno. E' stato il contrario", ha replicato Pamela. “Tu non l’hai vissuta la mia storia, stai dicendo delle cose che non sono vere. La sensibilità sai che cos’è D’Agostino?”, urla l'attrice sarda ma Dago la incalza: “Il tuo obiettivo era fare soldi con una storia inventata: miravi a tornare in televisione. Era un triangolo delle Bermude in cui loro due prendevano i soldi e lei era complice. Quando finisce la fama è così, tu facevi le inaugurazioni delle pizzerie”.  Non la prima volta che inventa matrimoni, già nel 99 con Max Bertolani e nel 2009 con l'inesistente Juan Sebatian Jabir: "Era diva e recidiva, è un indotto che genera tanti soldi. Per evitare di sputtanarsi ha firmato con le due un accordo di riservatezza." La Caputo interviene: “Pamela non ha commesso alcun reato e non ha guadagnato nulla”, Dago chiede: “Allora perché ha detto in televisione che si è sposata civilmente con Mark Caltagirone? Lei ha usato queste due donne, lesbiche, per tornare in auge. Lei è complice, ovvio, se no la dovrebbero ricoverare”. “Non lo sai cosa ho passato, non sai cosa significa essere manipolati”. “Uno crede in Pamela Prati – conclude Dago – come crede in Giuseppe Conte”. Cosa sarebbe successo se Dagospia non avesse svelato la bufala? "Se non c'ero io a fare quell'inchiesta, la cosa finiva con un bel servizio a Verissimo, beccavano 30 - 40mila euro, prendevano un disgraziato che diceva di essere Mark Caltagirone, la foto con l'abito da sposa era già su Gente e sarebbe finito così. Come hanno fatto tante mezze calzette". Nel corso della serata Giletti e la Prati hanno attaccato Barbara D'Urso. La prima accennando al meccansimo delle domande concordate nella trasmissione di Canale 5 per poi aggiungere: "La D'Urso non mi ha messo in condizione di parlare. Lei aveva visto i miei messaggi. Ci ha fatto 10 puntate con il 22% di share. Le trasmissioni hanno fatto i soldi sulla mia pelle." Giletti ha attaccato la collega di Canale 5 che si vanta di essere sotto testata giornalistica senza fare un lavoro giornalistico:  "In quindici giorni, abbiamo trovato un documento di cui parleremo dopo. Se uno va a cercare la verità su un caso come questo... in quindici giorni avrebbe scoperto che le due soggette (Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, ndr) che hanno creato tutto questo sistema avevano dei precedenti di questo tipo. Invece di invitarle avrebbero dovuto dire, forse, qualcosa non torna. Perché se uno va sotto testata giornalistica e si vanta di essere testata giornalistica non fa il lavoro giornalistico ma sfrutta al massimo queste cose?! E' una domanda al quale, un giorno all'altro, dovrebbero rispondere. Ce l'ho chi non fa un lavoro non corretto. Non è stata solo lei." Poi sul finale il saluto: "Salutiamo anche noi Barbara D'Urso, ciao Barbara! La salutiamo a nome di tutti i fan", ricordando il cambio di programmazione di Non è la D'Urso alludendo ai bassi ascolti.

Daniela Secli per tv.fanpage.it il 22 ottobre 2019. Massimo Giletti ha ospitato nel programma "Non è l'arena", lo scontro tra Pamela Prati e Roberto D'Agostino. Nel corso della puntata è andato in onda un servizio che riguardava Eliana Michelazzo. L'ex agente di Pamela Prati è stata intercettata in treno da un inviato del programma di La7 che, munito di una telecamera nascosta, ne ha approfittato per attaccare bottone con lei e farsi dare la sua versione dei fatti sul caso Mark Caltagirone.

La furia di Eliana Michelazzo. Nel servizio andato in onda nel corso dello scontro tra Pamela Prati e Roberto D'Agostino, Eliana Michelazzo dà la colpa della fake news a Pamela Perricciolo. In un'intervista rilasciata a AdnKronos, la donna si è scagliata contro Massimo Giletti: "Trovo assurdo che Giletti, che si vanta sempre di essere in una testata giornalistica, mi abbia mandato un cronista con la telecamera nascosta facendomi seguire per tutto il viaggio da Bari a Roma, senza dirmi nulla. Io voglio sapere il nome e cognome di questa persona perché intendo adire a vie legali. Trovo assolutamente scorretto che un giornalista con la telecamera nascosta tenti di estorcermi informazioni seguendomi per quattro ore e fingendosi un mio fan. Tra l’altro a lui non ho raccontato niente di diverso da quello che ho sempre detto su Pamela Perricciolo".

Le conseguenze del Prati-gate e le ospitate. Eliana Michelazzo, quindi, si è sorpresa che le facciano la morale perché accetta di fare serate in giro per l'Italia sotto compenso. Dopo il Prati-Gate, i volti noti che si affidavano alla sua agenzia hanno preso le distanze e ora la Michelazzo deve trovare modi alternativi di guadagnare: "Io avevo una agenzia che guadagnava 300mila euro l’anno, sono andate via tutte le mie ragazze e ovviamente quando mi chiamano per lavorare io faccio le serate e le ospitate!".

Massimo Giletti non risponderebbe ai suoi messaggi. Infine, ha spiegato di aver cercato di contattare Massimo Giletti per chiedere la possibilità di replicare ma il conduttore non avrebbe mai risposto ai suoi messaggi: "Ho inviato un sms a Giletti chiedendogli di darmi la possibilità di replicare ma lui ha letto e neanche mi ha risposto". Infine, ha detto la sua su Pamela Prati. Avrebbe provato a mettersi in contatto anche con lei, trovando sempre un muro: "Sono andata sempre a parlare a nome di Pamela Prati che sapeva tutto, io l’ho sempre difesa per giustificare i suoi debiti, per parlare del suo matrimonio, per giustificare tutto quello che è successo e per difendere la sua buona fede e lei invece che fa? Va contro di me mettendomi sullo stesso piano della Perricciolo! […] Insieme avremmo potuto massacrare la Perricciolo ma lei ha scelto di proseguire con questa linea. Peggio per lei".

1999-2009-2019: OGNI DIECI ANNI LA PRATI ANNUNCIA UN MATRIMONIO. Giuseppe Candela e Alberto Dandolo per Dagospia il 16 aprile 2019. 1999-2009-2019: ogni dieci anni la Prati annuncia un matrimonio. Uno salta, uno finto, l'altro avvolto nel mistero. Il Segreto di Pamela, in attesa della resurrezione del meritato Telegatto, si arricchisce di nuovi dettagli. Come già accennato non si tratta della prima volta che la showgirl (per mancanza di show) annuncia le sue nozze. Lo aveva già fatto con un'intervista esclusiva nel 2009 al settimanale Diva e Donna, diretto ai tempi da Silvana Giacobini: "Mi sono sposata a Las Vegas, all'improvviso per tutti, forse anche per me. E' stato fantastico", aveva dichiarato. Il fortunato? L'argentino Daniel Sebastian (nome che ritorna) Jabir, imprenditore anche lui come Mark Caltagirone, che descriveva così: "Stiamo insieme da tempo ma a differenza di altri uomini lui non vuole apparire. E' un uomo molto schivo e mi piace anche per questo. Non è certo sensibile alle luci della ribalta: non gli appartengono e non vuole far parte del mondo dello spettacolo." Dunque Jabir, come il futuro marito Mark, non amava apparire, era un uomo schivo di cui non si trova traccia in rete, se non per le nozze finte con la primadonna del Bagaglino. Finte, dicevamo, per stessa ammissione della Prati a Candida Morvillo al Corriere della sera il 21 marzo scorso: "Quella era una fake news. Non mi sono mai sposata, mai, mai. Sono stata dall'avvocato per rimuovere questa cavolata da Internet. Ero stata consigliata male. A un certo punto, mi hanno detto: dì che ti sei sposata a Las Vegas. Sono stata ingenua, ma la prova che è falso è che per trent'anni non ho preso l'aereo: soffrivo di claustrofobia e di paura di volare, fobie peggiorate dopo la morte di mamma". In realtà non era una fake news circolata su internet ma una notizia comunicata proprio dalla Prati, con tanto di virgolettato, a un noto settimanale: "Lo ricordo chiaramente, io l'ho pubblicato e l'avrei ripubblicato nuovamente a una condizione: riportare con esattezza le parole dell'interessato/a. E' sempre stato un mio metodo, riportare una verità espressa da chi è interessato alla notizia in modo che se diceva la verità benissimo, se diceva una bugia si seppelliva da solo", dichiara Silvana Giacobini, ai tempi direttrice di Diva e Donna, a Dagospia. "Ed è avvenuto non raramente, io ho pubblicato affermazioni assolutamente aderenti al vero, espresse sul serio, che poi venivano smentite dai fatti e dal tempo. La brutta figura la fa chi lo dice non chi lo riporta. Se tutto fosse confermato si tratterebbe di un peccato reiterato", aggiunge la giornalista. Una smentita dieci anni dopo può provare qualche dispiacere: "A me dispiace per chi è costretto a inventare qualcosa per avere un riverbero mediatico. Si prende in giro prima se stessi e poi gli altri. Conosco Pamela come una donna bellissima e armonica, in tutti i sensi, e mi auguro per lei che questa non sia la fake news di cui si sta tanto parlando." Nel 2019 il mistero Mark Caltagirone, nel 2009 il finto matrimonio con Daniel Sebastian Jabir. Facciamo ancora un passo indietro per arrivare al 1999. La Prati elegantissima campeggia con Max Bertolani, lui sicuramente esistente, sulla copertina del settimanale Gente per annunciare le sue nozze: "Mi sposo". Copertina che risulta ancora disponibile su Ebay per un costo di 4,99 euro. Pochi mesi dopo sempre sullo stesso settimanale, diretto ai tempi da Sandro Mayer, avvertiva i lettori, questa volta in bikini: "Prima di sposarci dovremo fare la cresima". Insomma, l'impedimento come elemento fondante del racconto. Il matrimonio con Bertolani è stato celebrato? Neanche per sogno. Ricapitolando ogni dieci anni Pamela Prati, quando raggiunge cifra tonda, annuncia un matrimonio che poi non si realizza. "Mi viene in mente una battuta attribuita a Cicerone che stava a teatro e vedeva una bella donna di cui si diceva che avesse venticinque anni, lui disse: 'Deve essere vero, perché lo dice da dieci anni'", conclude la Giacobini. In attesa dell'arrivo all'altare di Mark Caltagirone, o di Pippo Franco travestito da Caltagirone, ci poniamo una domanda: quando Pamela compirà 70 anni chi sposerà nel 2029? Ah, saperlo…

Pamela Prati e le nozze del mistero: cosa è successo? Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Corriere.it. Il matrimonio da favola con un imprenditore (che avrebbe realizzato «oleodotti in Libia, ospedali e centri commerciali in Cina e Corsica» e sarebbe stato premiato in Albania come miglior imprenditore italiano), due bimbi in affido (Sebastian e Rebecca, «mi chiamano mamma e non c’è emozione più bella di sentire la pienezza di quella parola») e il futuro trasferimento all'estero, perché «la nostra televisione offre poco, non ci sono più i varietà. Gli applausi non mi mancheranno, ne ho avuti abbastanza. Io voglio fare solo la moglie e la mamma»: negli ultimi mesi Pamela Prati è tornata prepotentemente a far parlare di sé per l'annuncio delle sue nozze imminenti, di cui si sono occupati molti salotti televisivi - da «Domenica In» a «Vieni da me» fino a «Domenica Live» - e riviste come «Chi» e «Gente» (quest'ultima ha dedicato alla showgirl persino una copertina in abito da sposa).

Vieni da me, Pippo Franco e gli auguri tagliati a Pamela Prati: "L'ultima volta che l'ho vista...", scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "No, non sono stato invitato". Pippo Franco, storico attore e capocomico del Bagaglino, interviene sul giallo dell'anno, il matrimonio di Pamela Prati. E rivela qualche succoso dettaglio. "Con Pamela c'ho lavorato tanti anni - spiega l'attore a Fanpage.it -, è una persona alla quale sono storicamente legato affettivamente e professionalmente". Tuttavia "non la vedo da tempo". Qualche settimana fa, quando la Prati è stata ospite di Vieni da me su Raiuno, gli autori hanno pensato bene di fargli registrare un saluto anche se l'attrice non l'aveva invitato alle nozze con il misterioso Mark Caltagirone. "Io l'ultima volta l'ho vista all'intervista dalla Balivo, mi hanno fatto fare anche gli auguri registrati in cui mandavo un bacio appassionato a questo suo futuro marito". Auguri poi tagliati dalla produzione, peraltro. "Del resto non so nulla, se non fosse vero, francamente non saprei cosa dire. Sono contento se è vero, se non è vero è un problema che riguarda lei e solo lei".

Pamela Prati. Dagoreport il 4 aprile 2019. Dopo il nostro articolo di ieri, sul profilo Instagram di Pamela Prati è apparsa una story con la foto della partecipazione di nozze tra lei e il suo Marco Caltagirone detto Mark, che annunciano il matrimonio insieme a Sebastian e Rebecca, i due bimbi di 11 e 6 anni che – sempre a detta della soubrette – hanno in affido. L'immagine è corredata dalla scritta ''Ci siamo quasi… alla faccia delle malelingue!! Fatevene una ragione", con sotto i tag di Caltagirone, della wedding planner e delle due vivaci agenti della showgirl, Eliana Michelozzo e Pamela Perricciolo, che da qualche mese la seguono come ombre e la portano in giro per eventi e serate. Non c'è dubbio che siamo delle malelingue, ma i dubbi restano sull'idilliaco ménage di cui ha parlato la Prati davanti ai milioni di telespettatori di Domenica In, Domenica Live, Vieni da me, ecc. Essendo così social, questo trio di ragazze che si fotografa, si tagga e si commenta a più non posso, dovrebbe stare un po' più attento a cosa si legge su Facebook. Da stamattina è improvvisamente irraggiungibile la pagina della ''Mark Caltagirone Holding'', la società di questo signore omonimo dei costruttori romani che avrebbe eseguito lavori in tutto il mondo, dal Giappone alla Libia, ma di cui non esiste traccia fotografica (né di lui né dei progetti faraonici), se non il bozzetto della scala di un appartamento. Sulla pagina c'era poco di rilevante: l'annuncio che era gestita dal ''figlio'' Sebastian, e le foto del servizio di Pamela Prati in abito da sposa apparso su ''Gente''. Resta però online (ed è stato da noi debitamente screenshottato) il profilo privato di Marco Caltagirone. Ed è qui che le cose non tornano. Scorrendo la bacheca – e si tratta del Marco Caltagirone giusto, visto che Pamela Prati lo ha taggato più volte, e la sua agente Pamela commenta le sue foto da anni –, questo invisibile 50enne aveva una relazione molto seria con Wanda Ferro, nota deputata calabrese di Fratelli d'Italia. Un amore così importante da tatuarsi le iniziali l'uno dell'altra (la W è una M al contrario, come giustamente commenta tal Igor Lazio…). Sullo stato di famiglia le cose però non sono chiarissime. Marco il 23 aprile 2016 annuncia su Facebook di essersi sposato, e proprio con l'onorevole Wanda, che nei commenti non nega, anzi conferma: ''Mark è una persona speciale''. Lui suggella l'amore: ''Mia per sempre! Qualcuno te doveva incatenare Ferro! Fortunato io". Non mancano i commenti di Pamela. Le cose sembrerebbero fatte e finite, anche perché nei mesi successivi la galleria di foto si riempie di messaggi d'amore e foto personali della signora Ferro in Caltagirone e del cane di lei, Oscar (con croce celtica al collo…). Il marito innamoratissimo ri-posta sulla propria bacheca tutte le apparizioni dell'onorevole, su giornali e tv. A maggio 2017 la foto profilo diventa una mano femminile con la fede al dito. Tutto chiaro. Senonché il 24 settembre 2017 si legge un altro annuncio: "Mi sposo". Ma come? Non erano già sposati? Stavolta a commentare non c'è Wanda, ma solo Pamela, con faccette dubbiose e la frase ''Che Dio metta la mano''. Seguono altre foto della fede, con incisa la scritta ''Oltre'' (come una delle sue società), di nuovo al dito di una mano femminile, senza però che si veda mai il resto del corpo. Se ci sono le fedi, c'è anche la cerimonia, ma possibile che un personaggio pubblico come l'onorevole Ferro – che ha migliaia di scatti nei suoi profili ufficiale e privato – nasconda il volto proprio nella pagina del marito? Come se non bastasse, in una Intervista del 1 ottobre 2017 al giornale online ''Il Gallo'', oltre a magnificare le sue gesta internazionali e l'importanza delle donne in azienda, Marco Caltagirone annuncia che la sua futura moglie è proprio ''la famosa politica calabrese''. “Non avrei mai pensato che a 50 anni e con i ritmi frenetici che abbiamo entrambi, avrei preso la decisione di vivere la mia vita in due, ma con lei ho trovato il giusto equilibrio e prima dell’amore viene la mia stima e la mia grande fiducia incondizionata in lei. Siamo stati fortunati mai creduto si potesse dividere tutto con una persona e invece sì. Abbiamo deciso di prendere in affido un figlio che è diventato la nostra più bella sfida". Quindi l'11enne Sebastian Caltagirone che ''gestisce la sua pagina Facebook'' e di cui ha parlato più volte una commossa Pamela Prati sarebbe stato preso in affido dalla coppia Caltagirone-Ferro, che a dicembre 2017 si tatuava le iniziali? Parrebbe strano, perché il 1 aprile 2018 Pamela Prati pubblica sul suo profilo Instagram una foto abbracciata con un uomo misterioso, che il 13 aprile si scopre essere proprio Mark Caltagirone, grazie alla dedica amorosa affiancata all'immancabile tag. Insomma nell'arco di quattro mesi lo sposatissimo Mark, con figlio appena preso in affido, molla la deputata, si fidanza con Pamela Prati e nel frattempo – non si sa attraverso quale processo di controllo dei servizi sociali – prende in affido un'altra bambina, la seienne Rebecca, ''che vuole fare la ballerina come me'', come dice Pamela in lacrime dalla Venier? La tempistica ci pare alquanto strana, anche perché le romantiche foto di Wanda Ferro restano tuttora in bella vista sul profilo di Mark-Marco, e invece non c'è traccia della Prati (comparsa solo sulla pagina ''Mark Caltagirone Holding'', che nel frattempo è finita offline). Per concludere, qualche domandina: il misterioso Mark Caltagirone esiste davvero? È stato fidanzato e poi sposato con la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro? Ha avuto in affido un bambino di 11 anni (al quale ha pure dato il cognome, cosa bizzarra visto che dovrebbe avvenire solo con l'adozione) e, pochi mesi dopo e con una diversa compagna, una bimba di 6? Se lui e Pamela Prati – come ha annunciato la soubrette a Domenica In – sono già sposati civilmente e attendono solo il rito religioso, perché non pubblicano il certificato di matrimonio invece delle partecipazioni? PS: Le due agenti Pamela ed Eliana rappresentano anche Milena Miconi, una che annuncia le nozze con lo storico fidanzato un anno sì e l'altro pure, così da avere un motivo per apparire su riviste e in trasmissioni tv a raccontare i dettagli amorosi. Coincidenza? Chi vivrà, vedrà. Attendiamo la diretta delle nozze. La Prati ha annunciato di aver venduto l'esclusiva a Canale5. Auguri!

Gentile direttore, in relazione a quanto pubblicato da Dagospia rispetto alle notizie sul matrimonio di Pamela Prati, tengo a precisare che non sono mai stata sposata con alcuno, come si può facilmente verificare, e che non ho mai conosciuto personalmente Marco Caltagirone, al quale mi legano esclusivamente alcuni scambi di battute scherzose su Facebook risalenti ad alcuni anni fa. On. Wanda Ferro.

Dagoreport il 5 aprile 2019. Dopo il nostro articolo di ieri, sul profilo Instagram di Pamela Prati è apparsa una story con la foto della partecipazione di nozze tra lei e il suo Marco Caltagirone detto Mark, che annunciano il matrimonio insieme a Sebastian e Rebecca, i due bimbi di 11 e 6 anni che – sempre a detta della soubrette – hanno in affido. L'immagine è corredata dalla scritta ''Ci siamo quasi… alla faccia delle malelingue!! Fatevene una ragione", con sotto i tag di Caltagirone, della wedding planner e delle due vivaci agenti della showgirl, Eliana Michelozzo e Pamela Perricciolo, che da qualche mese la seguono come ombre e la portano in giro per eventi e serate. Non c'è dubbio che siamo delle malelingue, ma i dubbi restano sull'idilliaco ménage di cui ha parlato la Prati davanti ai milioni di telespettatori di Domenica In, Domenica Live, Vieni da me, ecc. Essendo così social, questo trio di ragazze che si fotografa, si tagga e si commenta a più non posso, dovrebbe stare un po' più attento a cosa si legge su Facebook. Da stamattina è improvvisamente irraggiungibile la pagina della ''Mark Caltagirone Holding'', la società di questo signore omonimo dei costruttori romani che avrebbe eseguito lavori in tutto il mondo, dal Giappone alla Libia, ma di cui non esiste traccia fotografica (né di lui né dei progetti faraonici), se non il bozzetto della scala di un appartamento. Sulla pagina c'era poco di rilevante: l'annuncio che era gestita dal ''figlio'' Sebastian, e le foto del servizio di Pamela Prati in abito da sposa apparso su ''Gente''. Resta però online (ed è stato da noi debitamente screenshottato) il profilo privato di Marco Caltagirone. Ed è qui che le cose non tornano. Scorrendo la bacheca – e si tratta del Marco Caltagirone giusto, visto che Pamela Prati lo ha taggato più volte, e la sua agente Pamela commenta le sue foto da anni –, questo invisibile 50enne aveva una relazione molto seria con Wanda Ferro, nota deputata calabrese di Fratelli d'Italia. Un amore così importante da tatuarsi le iniziali l'uno dell'altra (la W è una M al contrario, come giustamente commenta tal Igor Lazio…). Sullo stato di famiglia le cose però non sono chiarissime. Marco il 23 aprile 2016 annuncia su Facebook di essersi sposato, e proprio con l'onorevole Wanda, che nei commenti non nega, anzi conferma: ''Mark è una persona speciale''. Lui suggella l'amore: ''Mia per sempre! Qualcuno te doveva incatenare Ferro! Fortunato io". Non mancano i commenti di Pamela. Le cose sembrerebbero fatte e finite, anche perché nei mesi successivi la galleria di foto si riempie di messaggi d'amore e foto personali della signora Ferro in Caltagirone e del cane di lei, Oscar (con croce celtica al collo…). Il marito innamoratissimo ri-posta sulla propria bacheca tutte le apparizioni dell'onorevole, su giornali e tv. A maggio 2017 la foto profilo diventa una mano femminile con la fede al dito. Tutto chiaro. Senonché il 24 settembre 2017 si legge un altro annuncio: "Mi sposo". Ma come? Non erano già sposati? Stavolta a commentare non c'è Wanda, ma solo Pamela, con faccette dubbiose e la frase ''Che Dio metta la mano''. Seguono altre foto della fede, con incisa la scritta ''Oltre'' (come una delle sue società), di nuovo al dito di una mano femminile, senza però che si veda mai il resto del corpo. Se ci sono le fedi, c'è anche la cerimonia, ma possibile che un personaggio pubblico come l'onorevole Ferro – che ha migliaia di scatti nei suoi profili ufficiale e privato – nasconda il volto proprio nella pagina del marito? Come se non bastasse, in una Intervista del 1 ottobre 2017 al giornale online ''Il Gallo'', oltre a magnificare le sue gesta internazionali e l'importanza delle donne in azienda, Marco Caltagirone annuncia che la sua futura moglie è proprio ''la famosa politica calabrese''. “Non avrei mai pensato che a 50 anni e con i ritmi frenetici che abbiamo entrambi, avrei preso la decisione di vivere la mia vita in due, ma con lei ho trovato il giusto equilibrio e prima dell’amore viene la mia stima e la mia grande fiducia incondizionata in lei. Siamo stati fortunati mai creduto si potesse dividere tutto con una persona e invece sì. Abbiamo deciso di prendere in affido un figlio che è diventato la nostra più bella sfida". Quindi l'11enne Sebastian Caltagirone che ''gestisce la sua pagina Facebook'' e di cui ha parlato più volte una commossa Pamela Prati sarebbe stato preso in affido dalla coppia Caltagirone-Ferro, che a dicembre 2017 si tatuava le iniziali? Parrebbe strano, perché il 1 aprile 2018 Pamela Prati pubblica sul suo profilo Instagram una foto abbracciata con un uomo misterioso, che il 13 aprile si scopre essere proprio Mark Caltagirone, grazie alla dedica amorosa affiancata all'immancabile tag. Insomma nell'arco di quattro mesi lo sposatissimo Mark, con figlio appena preso in affido, molla la deputata, si fidanza con Pamela Prati e nel frattempo – non si sa attraverso quale processo di controllo dei servizi sociali – prende in affido un'altra bambina, la seienne Rebecca, ''che vuole fare la ballerina come me'', come dice Pamela in lacrime dalla Venier? La tempistica ci pare alquanto strana, anche perché le romantiche foto di Wanda Ferro restano tuttora in bella vista sul profilo di Mark-Marco, e invece non c'è traccia della Prati (comparsa solo sulla pagina ''Mark Caltagirone Holding'', che nel frattempo è finita offline). Per concludere, qualche domandina: il misterioso Mark Caltagirone esiste davvero? È stato fidanzato e poi sposato con la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro? Ha avuto in affido un bambino di 11 anni (al quale ha pure dato il cognome, cosa bizzarra visto che dovrebbe avvenire solo con l'adozione) e, pochi mesi dopo e con una diversa compagna, una bimba di 6? Se lui e Pamela Prati – come ha annunciato la soubrette a Domenica In – sono già sposati civilmente e attendono solo il rito religioso, perché non pubblicano il certificato di matrimonio invece delle partecipazioni?

PS: Le due agenti Pamela ed Eliana rappresentano anche Milena Miconi, una che annuncia le nozze con lo storico fidanzato un anno sì e l'altro pure, così da avere un motivo per apparire su riviste e in trasmissioni tv a raccontare i dettagli amorosi. Coincidenza? Chi vivrà, vedrà. Attendiamo la diretta delle nozze. La Prati ha annunciato di aver venduto l'esclusiva a Canale5. Auguri!

DAGONEWS il 6 aprile 2019. Dopo la prima e la seconda puntata della soap Prati-Caltagirone, ieri sera si è aggiunta la terza, ovvero il messaggio a Dagospia dell'onorevole Wanda Ferro che svela di non aver mai visto di persona questo misterioso costruttore (ma non parente!) Marco Caltagirone, col quale si sarebbe scambiata giusto qualche messaggio simpatico su Facebook. Sulla base di questi messaggi il nostro Marco detto Mark per quanto è internescional e imprenditore giramondo, ha tappezzato il suo profilo di foto e video della deputata di Fratelli d'Italia (in pole position per la presidenza della regione Calabria, scrive Klaus Davi, mica pizza e fichi), e di post in cui sostiene chiaramente di essersi fidanzato e poi sposato con lei. Lo ribadisce pure in un'intervista a un giornale online (ottobre 2017), in cui racconta della loro vita insieme, dell'amore per i cani e del figlio 11enne in affido, Sebastian, che sarebbe anche colui che cura la sua pagina ufficiale ''Mark Caltagirone Holding'' (ora sparita da Facebook). Quindi ci troviamo davanti a un fan sfegatato, a un mitomane, o a qualcuno che ha provato ad avvicinare una potente donna politica per qualche secondo fine? A quanto ci risulta, l'onorevole Ferro sarebbe pronta ad adire le vie legali. Ma oggi Dagospia è in grado di svelare un quarto tassello di questo puzzle sempre più ingarbugliato e preoccupante. Da una ricerca nei registri del Comune di Roma risulta infatti che Pamela Prati (tre anni fa ha cambiato il nome e da Paola Pireddu ha adottato il suo nome d'arte) è tuttora nubile. Eppure domenica scorsa aveva rivelato a una stupita Mara Venier, nel corso dell'intervista a Domenica In, di essere già sposata civilmente, ma di essere indaffarata a organizzare la festa per il rito religioso, a maggio in un casale in Umbria. Quando Mara le chiede ''ma mi inviti al tuo matrimonio?'', convinta come tutti che queste molto strombazzate nozze non fossero ancora state celebrate, la showgirl si sfila la fede, gliela mostra e dice: ''Ci siamo già sposati''. Pamela Prati: ''Io e Marco ci siamo già sposati, manca solo il matrimonio in chiesa''. Il 24 gennaio a Caterina Balivo – in un'intervista altrettanto commossa a Vieni da me – aveva detto che le nozze erano ancora da celebrare. Quindi il matrimonio civile sarebbe avvenuto nei due mesi che separano le due apparizioni. Forse il rito non si è svolto in Italia? Forse bisogna ancora trascrivere la lieta novella? La burocrazia è lenta, si sa, e potrebbe non essere colpa dell'innamoratissima Pamela se il Comune di Roma non tiene il passo dei suoi sentimenti e delle sue ospitate tv. O forse qualcuno, dopo che Pamela ha raccontato di essere ''mamma di due bambini in affido'' si è chiesto come abbia fatto questa giovane (nel senso di recente) coppia ad aver avuto una bimba di 6 anni dopo pochi mesi di fidanzamento e senza essere sposati? Le norme sull'affido sono più ''semplici'' di quelle per l'adozione, ma se Marco Caltagirone a dicembre 2017 pubblicava foto del tatuaggio dedicato a Wanda Ferro, i servizi sociali  –che indagano a fondo le situazioni sentimentali di chi si rivolge a loro – solo sei mesi dopo possono davvero avergli affidato una bimba di 6 anni ("Rebecca, che vuole fare la ballerina") con una diversa compagna, oltre al suddetto Sebastian che già viveva con lui? Nell'intervista di dicembre a Barbara D'Urso, Pamela aveva specificato che i bimbi ''sono con noi nel periodo delle vacanze''. Quindi forse si tratta di bambini in affidamento ai servizi sociali che poi vengono aiutati e sostenuti dalla coppia Caltagirone-Prati per brevi periodi? Queste fattispecie esistono, e siamo sicuri che Pamelona saprà spiegare come funziona questo ménage di cui parla urbi et orbi. Anche perché i piani della coppia sono di trasferirsi all'estero (''Tra Francia e Stati Uniti'', ha detto a Domenica In) subito dopo le nozze religiose di maggio. Ma se si hanno due bimbi in affido, e così piccoli, non si può mica portarli all'estero, non potendo esercitare una piena patria potestà. La faccenda è complicata. Intanto le sue due ''sorelle'', quelle che lei chiama i suoi angeli custodi e sono più prosaicamente le agenti che da un anno controllano la sua immagine pubblica, le intraprendenti Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, continuano a essere taggate nelle sue scarne stories, che si limitano al video di un buffet di catering, presumibilmente nuziale, seguito da un anonimo disegnino amoroso con l'immancabile tag di Mark Caltagirone (tagga tagga, ma il profilo resta privato).

DAGONEWS l'8 aprile 2019. Siamo arrivati alla quarta puntata della saga Prati-Caltagirone. E oggi a scrivere il nuovo capitolo ci dà una grande mano tal Eliana Michelazzo, ex corteggiatrice di Uomini e Donne e attuale agente di Pamela Prati insieme alla socia Pamela Perricciolo. La Michelazzo è intervenuta poche ore fa in collegamento telefonico a Storie Italiane, programma di Rai1 condotto da Eleonora Daniele, per spiegare il mistero delle nozze tra la soubrette e l'imprenditore di fama globale (dice lei) Marco Caltagirone detto Mark. Solo che la vispa Eliana non ha spiegato granché, anzi ha alimentato nuove domande. Ecco cos'ha detto quando la Daniele le ha chiesto lumi su questa relazione e sul perché Pamela abbia detto a Domenica In di essere già sposata mentre dai registri dello stato civile del Comune di Roma (Dagospia ha verificato anche oggi: NUBILE) ciò non risulti: ''Il signor Marco non vuole apparire, lo ha detto da subito…Voi non potete parlare di una persona che – prima di tutto – non può replicare. Seconda cosa, se vuole scrivere un nome falso, se vuole scrivere quello che vuole, è libero di scrivere il suo nome, cognome, ma di far vedere la sua faccia, o no? Mi sembrate veramente dell' EFFE BI AIV (sic), state facendo indagini senza fondamenta (sic). Se è stata cancellata una pagina dove veniva gestita da un bambino, che ovviamente non deve essere messo in mezzo perché è un minore e quindi dovete stare solamente in silenzio. Dovete solamente accettare il fatto che la signora Prati tra poco si sposa e vedrete la persona con cui si sposa…ma che una persona si sposa con un fantasma?'' "Non può replicare", e perché? Basterebbe uno scarno comunicato stampa. ''Se vuole scrivere un nome falso''. Alt! Un nome falso? Forse dietro Marco Caltagirone si cela qualcuno con un cognome meno altisonante? La Daniele risponde subito: ''Qui non siamo l'FBI, i giornalisti fanno il loro lavoro. Noi non mettiamo in discussione la felicità di Pamela Prati, ragazza straordinaria. Qui si mette in discussione il fatto che lui esista o meno…'' In studio Roberto Alessi chiede: ''Come mai se non vuole apparire ha dei social con foto nascoste? Perché Pamela Prati gira da sei mesi per i programmi a parlare del loro amore? Possibile che si siano sposati senza che questo rito (pubblico) sia stato visto da qualcuno?'' E sul matrimonio con la deputata di Fratelli d'Italia Wanda Ferro? Eliana: ''Ma quelli erano giochi, risalenti al 2016, la signora ha pure smentito e di lei non voglio parlare. Con Pamela non ci sono giochi e siamo pronti al matrimonio, stiamo… a breve vedrete uno speciale sul matrimonio. Al momento non vuole farsi vedere, ovviamente, e ha delegato anche me per parlarne''. Quindi il bel Marco ha giocato a fare lo sposo su Facebook? E perché non dovremmo pensare che anche con la povera Pamela non si tratti di un gioco? Il sospetto ci pare legittimo. Sui due bambini, Sebastian (11 anni) e Rebecca (6 anni), che la coppia avrebbe preso in affido (lo ha detto Pamela in diverse occasioni), la sua manager precisa: ''I bambini non sono in Italia. In Italia queste cose vengono alla lunga, all'estero sono veloci. Perché i due hanno deciso di sposarsi? Perché così almeno i bambini potranno vivere anche in Italia. Fino a quando non saranno marito e moglie, sarà tutto quanto fuori all'estero''. Sorvoliamo sui pasticci giuridici: come farebbe la Prati, cittadina italiana, a prendere in affido due bambini stranieri? Forse li ha solo lui? Se Pamela ha preso il primo aereo due settimane fa per andare a fare l'addio al nubilato a Marsa Alam, quando avrebbe visto questi bimbi? Vivono davvero a Bonifacio, e magari è andata a trovarli in nave? Ma sul profilo di Marco Caltagirone lui si tagga a Roma o al massimo in Calabria, mai all'estero…In ogni caso la Michelazzo conferma che i due non si sono affatto sposati, e dunque Pamela a Domenica In ha mentito in diretta. Eleonora Daniele le chiede della sua situazione economica – che dovrebbe conoscere bene visto che non solo è la sua agente, ma lei e la Perricciolo l'hanno nominata ''direttore'' della loro agenzia Aicos Management – eppure la Michelazzo continua a parlare dei figli e ed evita la questione, affrontata invece dall'avvocato di Pamela Prati: ''Abbiamo querelato Luigi Oliva che ha violato la privacy della signora Prati. Non entro nemmeno nel merito della realtà o meno [del problema]''. Anche noi in questa sede non parleremo di soldi, e dei documenti che abbiamo a sostegno di quello che abbiamo scritto sulla situazione debitoria di Pamela Prati e sull'anello di fidanzamento che Luigi Oliva ha riavuto indietro solo dopo l'intervento degli avvocati. Qui restiamo sul punto più interessante: chi è questo Marco Caltagirone e perché non vuole farsi vedere pur mantenendo aperti vari profili Facebook in cui scrive molte cose, molto private.

Aggiorniamo i nostri lettori: da oggi è offline anche il profilo Facebook "Marco Caltagirone" nel quale si dichiarava sposato con l'onorevole Wanda Ferro e pubblicava (fino a dicembre 2017) le foto del loro amore, le fedi nuziali e i primi piani della deputata e del suo cagnolino Oscar. Come ci ha segnalato un lettore attento, esiste un altro Marco Caltagirone su Facebook, con una stella marina come foto profilo. Indovinate un po'? Anche questo è un profilo ''vero'', o quantomeno che appartiene all'uomo di cui stiamo parlando, perché a commentare c'è la solita Pamela Perricciolo, e stavolta pure la stessa Pamela Prati. Che ha un profilo privato con solo 5 amici: Marco Caltagirone appunto, le due agenti Eliana e Pamela, e poi Seba e Rebecca Caltagirone. Sì, i due bimbi in affidamento che Pamela ''vuole tenere lontano dai social a tutti i costi'' (così aveva detto a Domenica In). La piccola Rebecca, sei anni, avrebbe aperto il profilo lo scorso febbraio, e come foto c'è una ballerina. Non abbiamo intenzione di mettere i mezzo due minori, sono menzionati solo perché compaiono a tutto spiano nel profilo (apertissimo) di Marco Caltagirone, che per essere uno attento alla privacy non sembra molto bravo a gestire quella del social network più diffuso. Sotto alle sue foto commentano sempre le solite persone, alcune delle quali in comune con il vecchio profilo. Sì, perché quando ''muore'' il Marco Caltagirone sposato con Wanda Ferro (22 dicembre 2017 ultimo post - ora la pagina è sparita) nasce il Marco Caltagirone-stella marina (primo post: 27 dicembre 2017), che il 14 gennaio 2018, pochi giorno dopo, scrive: "Buongiorno!!! Da chi è sposato ma non lo sa", seguito da faccine tristi. Cosa avrà voluto dire? Non è stato lui che per i tre anni precedenti ha flirtato via Facebook con la deputata, fino ad arrivare a un matrimonio fittizio e solo via social? Eppure le persone che bazzicano questo profilo, da Pamela Perricciolo a Ivan Lazio, sono le stesse che commentavano gli status ''matrimoniali'' del ''Calta'', e lui in un'intervista aveva detto che stava per sposarsi con ''una importante donna politica calabrese''…A proposito della Perricciolo, il 16 gennaio 2018, Marco Caltagirone pubblica una foto di lei in compagnia di Martina Kelly Cappelletti, una ragazza di Arezzo già passata per Uomini e Donne ai tempi di Andrea Damante e presumibilmente nella scuderia delle due agenti, che chiama Seba Caltagirone ''il mio cuginetto''. Ora vi lasceremo con qualche indovinello, che sarà risolto nel prossimo capitolo. Come mai c'è sempre lo stesso gruppetto a interagire con questo turbinio di profili, tutti con legami più o meno forti con la Calabria, e in particolare con la destra calabrese? Chi è Silvia Sbrigoli, molto amica di Marco Caltagirone tanto da paparazzarlo (sempre senza volto!!) e dedicargli canzoni cantate nel locale di Pamela ed Eliana, e perché scrive ''Come hai fatto ad amare una che gioca con tuo figlio ancora non lo capisco'' e invita a votare ''chiunque ma non la Meloni con la sua lista con finte mamme''? Non c'era proprio l'onorevole Wanda Ferro nelle liste della Meloni?

E poi, come mai la URL del profilo di Marco Caltagirone (stella marina) è (...) ? La url di una pagina è unica e non cambia anche quando si cambia nome. Marco Caltagirone ha 54 anni come dice Pamela Prati o è del '56 e dunque ha 63 anni? O invece è un caso se ha quel numero alla fine? A proposito, come mai il profilo di Seba Caltagirone esce alla pagina (...)? Cosa vuol dire ''Gio Inolem''? Basta leggere al contrario: Gio Meloni, ovvero Giorgia Meloni… Davvero un bimbo di 10 anni apre un profilo con il nome di Giorgia Meloni al contrario e poi lo rinomina con il proprio nome? E infine: qual è il ruolo di Antonella Grippo, giornalista e ufficio stampa che cura la comunicazione sia di Marco Caltagirone che di Pamela ed Eliana, tanto da aver dedicato degli articoli (mooolto amichevoli) sul suo blog su ''il Giornale''? Quello su di lui, dal titolo ''Marco Caltagirone Imprenditore e gentiluomo'' è sparito improvvisamente lo scorso 2 aprile, ma grazie a Web Archive lo abbiamo ripescato. Dopo di che, Marco, lei è, indubitabilmente, un uomo  di suadente fascino. Tradotto: uno strafigo. Immagino che nelle relazioni pubbliche, oltre che nella dimensione privata, questa sia un’arma che non dismette..R) Dice che sono figo? Intanto mi piace sedurre. La mia vita privata è particolarmente discussa. Pensi che mi si sono attribuite spesso relazioni inesistenti. Persino, un love story con una principessa siriana. Bella, certo, bellissima. La cosa, ad ogni modo, è del tutto infondata, non è scoppiata la scintilla, nonostante la reciproca simpatia. In realtà ,oggi, posso dirmi innamorato. Di chi? Non glielo dico. Le suggerisco qualche indizio. Posso essere innamorato solo di una donna in grado di condividere le mie ansie, i miei percorsi. Una donna che sappia vivermi totalmente . L’idea che qualcuna possa starti a fianco, avendo consapevolezza che il tuo lavoro ti costringe ad erranze continue lungo il mondo ed a ritmi incalzanti, è meravigliosa. La complicità ed il rispetto dei reciproci ambiti sono imprescindibili in una storia d’amore. Io, poi, credo nella famiglia, nella solidità degli affetti. Se amo, amo. Detesto le mezze misure. Mi piacciono le uscite in mare aperto. La temerarietà sublime dell’amore.…ci mancava la principessa siriana. Alla prossima puntata.

Dagospia il 9 aprile 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Direttore, smentisco categoricamente di aver mai svolto attività di portavoce per Marco Caltagirone holding o per le signore Perricciolo e Michelazzo. Sono solo stata contattata, tramite messaggeria Facebook, da tale Mark Caltagirone e, poi, rintracciata al telefono dal sedicente Caltagirone che mi offriva di svolgere per lui mansioni di ufficio stampa. Ho chiesto al medesimo di propormi, via mail, una bozza di contratto che non è mai arrivata. Dopo di che, lo stesso mi ha proposto, preliminarmente, di fargli un’intervista telefonica. Ho accettato e traendo spunto dal suo “profilo” Facebook, ho elaborato le domande e costruito il pezzo. Non ho mai incontrato questa persona, non ho mai sottoscritto alcun contratto. Anzi, dopo aver realizzato l’intervista, ho insistito per ottenere un incontro con il medesimo per capire se la proposta di lavoro fosse concreta. Ma non ho risolto alcunché. Nel dubbio che si trattasse di una cosa poco chiara e non sapendo con chi avessi realmente parlato al telefono per intervista, ho rimosso il pezzo in tempi non sospetti. Non esiste alcuna forma contrattuale da me sottoscritta e non sono mai intercorsi rapporti di lavoro con Caltagirone. Conosco Perricciolo e Michelazzo, ma non ho mai lavorato per loro. Antonella Grippo.

DAGONEWS il 10 aprile 2019. Oggi ci è arrivata una bomba direttamente dalla Calabria, terra natìa di Pamela Perricciolo (una delle due agenti di Pamela Prati, insieme a Eliana Michelazzo) e di Wanda Ferro, deputata di Fratelli d'Italia e papabile candidata per il centrodestra – e dunque al momento probabile vincitrice – alle prossime elezioni regionali. Come abbiamo scritto in passato, su uno dei profili Facebook di Marco Caltagirone si raccontava la storia d'amore tra lui e l'onorevole Ferro, culminata in un matrimonio social molto strombazzato ma senza prove tangibili, se non svariate foto di una mano femminile con la fede nuziale e i commenti di una compagnia di giro sempre uguale. Il profilo è stato aggiornato fino a dicembre 2017 (ora è stato rimosso), e l'onorevole Ferro ci ha scritto per smentire ogni contatto reale con il misterioso Caltagirone: ''Solo una chat scherzosa via Messenger, mai visto di persona''. Eppure lo stesso Caltagirone in un'intervista-soffietto aveva detto di essere in procinto di sposare un'importante politica calabrese, con cui aveva preso in affidamento un bambino. Ecco, il bambino. Fino a oggi non siamo mai andati davvero a fondo sul tema, perché probabilmente un minore di mezzo c'è davvero, ma si tratta di qualcuno che è stato spacciato per l'ormai famoso Sebastian Caltagirone, l'undicenne figlio di cotanto padre. Il profilo Facebook di Seba Caltagirone, infatti, era originariamente una pagina chiamata ''Gio Inolem'', ovvero Giorgia Meloni letto al contrario. Questo ''bimbo'' non solo commenta ampiamente su temi ''da grandi'' e legati al mondo della destra romana e calabrese, ma interagisce con una serie di personaggi che:

- o non l'hanno mai visto e pensano di avere a che fare con un bimbo sveglio seppur infelice e addirittura malato;

- o sono dei falsi profili manovrati sempre da uno stesso gruppetto di persone, creati unicamente per accreditare l'esistenza di questi personaggi da soap opera, mettere like alle pagine ''giuste'' e diffondere contenuti politici. Solo che questo trucchetto, guardando le URL (gli indirizzi che Facebook ti assegna la prima volta che ti iscrivi, e che non cambiano nel tempo), si scopre facilmente. Ivan Lazio, che recita da dipendente del ''presidente'' Caltagirone, originariamente si chiamava ''Resistenza Nera'', Stefano Codispoti, che commenta con Seba Caltagirone per incastrare Wanda Ferro, un tempo era ''Angel Davis''. E poi c'è ''Hellen Roma'', già ''Hellen Coppi''. Coppi??? Ci torneremo…

La tecnica, creare profili falsi per gonfiare le interazioni di politici e personaggi dello spettacolo, è diffusissima è certo questo lo scandalo. Il problema è nato quando questo baraccone ha iniziato a muoversi dietro all'amore mediatico tra Pamela Prati e Marco Caltagirone, spacciato a tv, giornali e agenzie per ottenere lauti cachet. I familiari di Pamela raccontano come nei primi mesi della relazione lei mostrasse a tutti il cellulare zeppo di messaggi vocali del tenebroso Mark, ma non si vedevano mai foto né si assisteva a telefonate in diretta. Ma quando tra gli amici storici si diffusero i primi sospetti, le sue agenti hanno troncato ogni contatto con la sua vita precedente: chi creava problemi è stato rimosso da Instagram, e su Facebook alla povera Pamela è stato concesso solo un profilo privato con 5 amici: Pamela Perricciolo, Eliana Michelazzo, e Marco, Sebastian e Rebecca Caltagirone, l'ultima arrivata, con una pagina creata a febbraio 2019. Ma come, la Prati a Domenica In ha detto ''Voglio assolutamente proteggere i miei figli, soprattutto dai social'', e a quella che avrebbe sei anni le apri un profilo Facebook? Potremmo perdere molto tempo a raccontarvi le interazioni social di ''Seba'' Caltagirone con il presunto padre e con Wanda Ferro, che viene chiamata ''signora'' e ''mamma'' nello stesso botta e risposta con il troll Stefano Codispoti. O analizzare il suo andare e venire tra Roma Nord e Bonifacio (Corsica-Francia), viaggi che smentiscono le dichiarazioni di Eliana Michelazzo a Storie Italiane (''i bambini sono all'estero e Pamela e Mark si sposano proprio per poterli far venire in Italia''). Non serve, perché oggi ci è arrivata questa testimonianza diretta, che conferma proprio questa intricatissima e geniale rete di falsi profili e manipolazioni via Facebook. Si tratta di qualcuno che è entrato in contatto diretto con i protagonisti della soap, che ha in mano delle chat che mettono i brividi e confermano quanto da noi scritto finora. Ecco l'email di Alessia Bausone, esponente del Pd calabrese: Gentilissima redazione, Seguendo la querelle mediatica sul caso del presunto matrimonio tra Pamela Prati e Mark Caltagirone da Voi sollevata, posso precisarvi quanto segue, in quanto di mia conoscenza diretta: Da giovane dirigente del Partito Democratico Della Calabria mi è capitato di confrontarmi più volte, nell'ambito della normale dialettica pubblica sui giornali locali, con l'onorevole Wanda Ferro, chiamata in causa in questa storia. Sono stata contattata su Messenger da un profilo dal nome "Marco Caltagirone" per due settimane a gennaio 2018 in maniera amichevole e cordiale, ma capii subito che l'unico fine fosse quello di screditare Wanda Ferro ai miei occhi, in quanto sua avversaria politica. Mi narrava della loro relazione, del figlio Sebastian Caltagirone preso in affido insieme e con un tumore alla laringe e del fatto che Wanda fosse una madre affidataria anaffettiva, affetta da dipendenze e che pensava solo alla carriera politica. Insomma, mi ha prospettato un quadro atto solo a sminuirla, presumo in vista delle imminenti elezioni politiche che l'avrebbero vista candidata. Successivamente, interagendo per il tramite di conoscenze comuni, ho scoperto la verità sull'inesistenza di Mark o Marco Caltagirone, personaggio creato a fini pubblicitari da Aicos Management e da Eliana Michelazzo, che a sua volta si inventò anni fa di essere la fidanzata di tale Simone Coppi, a suo dire parente del noto avvocato e professore Franco Coppi. Un meccanismo rodato quello di utilizzare cognomi noti per creare relazioni pubbliche sulle quali far marciare il gossip. C'è molto da dire in questa vicenda disdicevole, ma vorrei solidarizzare con l'on. Ferro di fronte a questi mezzucci di discredito politico vergognosi. Un cordiale saluto, Alessia Bausone

Ps: sulla questione Eliana Michelazzo/Simone Coppi (vi ricordate il profilo Hellen Coppi? Probabilmente creato all'epoca per accreditare l'esistenza del bel Simone, poi ri-nominato Hellen Roma per commentare sulla bacheca del fake Caltagirone), non serve neanche Dagospia. Bastano i molti fan di Uomini e Donne che non hanno mai creduto a quelle nozze lampo e a questo marito continuamente taggato su Instagram da Eliana (vi ricorda qualcosa questa tecnica?) con foto anonime, senza però apparire in nessuna immagine con lei. Eliana ad alcuni ha detto che è un magistrato sotto scorta, ad altri che fa un lavoro delicatissimo. Ma se fosse vero, Instagram manco lo aprirebbe, altro che profilo privato…Andate a leggere il commento su questo sito, risalente al 2010. Internet non dimentica. Siamo arrivati alla fine della soap opera? Il colpo di scena è sempre dietro l'angolo...

“Noi abbiamo preso in affidamento due bambini di 6 e 11 anni, che voglio tutelare dal gossip e dai social network” (Domenica Live, dicembre 2018) “Noi ci siamo già sposati” (Domenica In, Marzo 2019)

DAGONEWS l'11 aprile 2019. Ieri sera è andata in onda un’irresistibile pagina di televisione, e se ve la siete persa proviamo a raccontarvela qui. Mettetevi comodi. A Live! Non è la D’Urso erano ospiti le due agenti di Pamela Prati, Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, che invece di risolvere il mistero sulla vera identità del suo sposo Mark/Marco Caltagirone hanno buttato la palla in tribuna e rimandato di nuovo la questione, forse sperando di sopravvivere un giorno in più al castello che hanno costruito e che sta crollando sulle loro teste. “Mark Caltagirone apparirà. Ha un’esclusiva per un’intervista insieme a Pamela in un altro programma della rete”, che si scoprirà poi essere Verissimo, come Dago-rivelato ieri. [Avviso ai navigati: l’esclusiva è stata firmata giorni fa, prima che Dagospia facesse esplodere la soap opera, e riguarda solo il fantomatico matrimonio che si dovrebbe celebrare a maggio. La D’Urso ci tiene a specificarlo: “per rispetto e amicizia di Silvia Toffanin che ha un’esclusiva per il matrimonio, abbiamo deciso di non far venire qui Pamela, che apparirà solo in un’intervista registrata”. Eppure Gabriele Parpiglia, che è uno degli autori di punta di Verissimo, ha twittato ieri sera: “Quando una persona mi ha proposto la vicenda, ho fatto una domanda, poi ho detto testuali parole ‘È una sola’”. Quindi si smarca dal suo programma e dalla rete che ancora ieri sera difendeva la bontà di questa storia, visto che – a detta delle agenti – Canale5 ha impedito la partecipazione di Pamela in diretta per tutelare l'esclusiva?] Durante la trasmissione è successo di tutto, con Carmelita che ha apparecchiato un panel che si è rivelato un plotone di esecuzione per le due “sorelline” di Pamela: Mauro Coruzzi, Roberto Alessi, Veronica Maya, Giovanni Ciacci e soprattutto un Daniele Interrante che pareva Bob Woodward, ex tronista trasfigurato in cagnaccio del giornalismo che non ha mai mollato l’osso, non lasciando correre nessuna delle molte incongruenze snocciolate dalle agenti. “Farete vedere finalmente un documento che attesta l’esistenza di Mark Caltagirone?”, incalza Interrante, e la Petricciolo: “Io sono la manager della Prati, non di Caltagirone”. Poi si scoprirà che Pamela è stata nominata direttore della Aicos Management (ma Dagospia lo aveva già scritto in questo articolo) è che lei è “solo una povera dipendente”. Non ci metteremo a ripetere tutte le bufale dette finora, che trovate nelle varie puntate di questa meravigliosa soap opera degna di Teodosio Losito, pace all’anima sua. Ci basterà mettere in fila le nuove e strabilianti castronerie pronunciate dalle due, come quando Pamela Perricciolo esclama: “Non s’è mai vista una foto di questo signore, magari non esiste”. Con grande sprezzo del ridicolo, non stava parlando di Mark Caltagirone, bensì di Luigi Oliva, l’ex di Pamela Prati che ha contattato Dagospia e ci ha messo la pulce nell’orecchio sul nuovo amore della showgirl e su quanto questo sentimento travolgente sia legato alla sua (disastrosa) situazione debitoria. La foto di Luigi Oliva e Pamela Prati, scattata al compleanno di lui, l’abbiamo mostrata più volte, insieme a quella dell’anello di fidanzamento pubblicata dalla stessa Pamela con la didascalia “A volte i sogni si avverano”. Eccola. Volendo abbiamo anche i documenti firmati in cui lei è costretta a restituire l’anello dopo l’intervento degli avvocati (gesto poco signorile ma comprensibile, visto che si sono lasciati un mese dopo la consegna del gioiello, un monile di famiglia con valore affettivo oltre che economico), per non parlare dei documenti che attestano la situazione economica…Torniamo alla puntata. Nel programma si dimostra che, dalle visure camerali, la Mark Caltagirone Holding non esiste, ma Barbara D’Urso annuncia di aver ricevuto il video di un ragazzino che dice di essere Sebastian Caltagirone che le fa gli auguri per l’inizio del Grande Fratello, tenendo comunque a precisare: “Se fosse falso, sarebbe una cosa gravissima”. Sul perché i due figli in affido, Seba e Rebecca, hanno due profili Facebook, la Perricciolo prova a spiegare: “I minori non potrebbero stare su Facebook, anche i miei tre nipoti hanno dei social intestati a me per superare il requisito dei 18 anni imposto dal social network. Mi deve dire Dagospia come fa a dire che quel profilo è falso”. Ieri sera abbiamo dato molti elementi per dimostrare che quel profilo non appartiene a un minore, e che il ragazzino che appare nelle foto profilo non è affatto il famoso Seba Caltagirone. La Perricciolo ha di fatto ammesso che il profilo di Seba è intestato a qualcun altro, nella fattispecie qualcuno che gestiva dei profili attivi nel mondo della destra, visto che quella pagina un tempo si chiamava “Giorgia Meloni”. Mark Caltagirone nelle sue interviste-in-ginocchio si definisce “di educazione democristiana” e “lontanissimo dalle idee di Wanda Ferro” (di Fratelli d’Italia), dunque di sicuro non era sua la pagina dedicata alla Meloni…Alla durissima e precisa lettera della Bausone che accusa le due di aver creato il finto Mark Caltagirone a scopo di marketing e di pressione politica, la Perricciolo non riesce a rispondere, dicendo che non ne sa nulla perché “Lei è del Pd e io sono di destra da quando sono nata” (ecco, appunto), con la D’Urso che chiosa: “E chi se ne frega? Che c’entra?” Interviene Veronica Maya: “Perché non siete venute qui con l’estratto di matrimonio di Pamela Prati?”. “Non siamo obbligate a presentare documenti”. Roberto Alessi smaschera le bugie: “Cara Eliana Michelazzo, tu dici che i minori vanno tutelati? Barbara D’Urso ha ricevuto un video di questo Sebastian Caltagirone che parla in italiano, giusto? Ma tu mi hai detto (a Storie Italiane, ndDago) che questi bambini erano stati dati a una coppia non ancora sposata, che vive all’estero”. Pamela gesticola “no, no” mentre Alessi dice che non sono sposati, la Michelazzo non sa cosa dire. E Interrante implacabile: “Questo copione andava riletto, forse”. La Michelazzo è chiusa in un angolo, è arrivato il momento di giocarsi l’unico asso nella manica: “A breve ci sarà una esclusiva televisiva e vedrete il signor Marco”. Il pubblico esplode in un “Ooooh” liberatorio. Giovanni Ciacci, uomo di mondo e conoscitore di “Lucherinate”, non si lascia impressionare: “Sandra Milo nel 1990 mostrò un marito falso, non ci vuole niente a trovare un figurante. Noi siamo stati a un matrimonio, non diciamo il nome perché non è carino, dove il marito aveva affittato delle comparse a Cinecittà dicendo che erano i suoi figli, i suoi figli!” Le sorprese non sono finite: è il momento di Rosa Perrotta, cliente dell’agenzia Aicos e presente all’addio al nubilato della Prati in Egitto. Ovviamente tutti pensano sia lì a difendere Pamela e le sue socie, invece in un colpo di scena la soubrette prende le distanze da quella che chiama “la signora Prati”, una che non conosce bene, “con cui per caso sono andata in vacanza”. Lapidaria: “Neanche sapevo che era il suo addio al nubilato. Marco Caltagirone non so chi sia, sono stata invitata alle nozze ma non so perché”. Tiè. La Michelazzo prova a ricordarle la trama del fotoromanzo, ma la Perrotta che doveva ricoprire il ruolo di testimone compiacente si rivela una hostile witness, insistendo sul fatto che non sa nulla di questa storia. “Mi sono ritrovata una sera a fare un video per l’addio al nubilato di Pamela, ma io ero in vacanza con amiche, non è che mi aveva detto prima che quello era un addio al nubilato. Una signora di 60 anni ti dice che è innamorata, ti mostra foto di bambini, non è che ti metti là a dire ‘E’ tutto falso’”. Non risparmia un’altra bombetta a quelle che, da domani, difficilmente saranno ancora le sue agenti: “Se questa storia dovesse rivelarsi essere una farsa, credetemi, sono vittima come tutti gli altri”. Cioè, questa è partita con la Prati, è invitata al matrimonio, è amica e cliente delle due, e nonostante questo non ha alcuna idea di cosa stia succedendo e ci tiene a scaricarle dichiarandosi vittima prima ancora del verdetto finale? È tutto bellissimo. L’inviata del programma torna sulle nozze con Wanda Ferro, che ribadisce via sms: “Non ho mai conosciuto personalmente Marco Caltagirone”. La Perricciolo: “Si sono sposati per scherzo su Facebook, ma all’epoca lei non era deputata”. Embè? Che c’azzecca? Dai, preparatevi meglio la prossima volta. Sul fatto che la Prati abbia detto alla D’Urso e alla Venier “ci siamo già sposati, ecco la fede”, la Perricciolo si impappina: “Ha un carattere tutto suo, se dice che si sono scambiati le fedi, avranno fatto solo quello”, e Alessi giustamente le ricorda come la Prati abbia precisato – a domanda diretta della Venier – che si sono già sposati e l’unica cosa che manca è la cerimonia religiosa. Dunque il rito civile deve esserci stato. Cosa replica la Perricciolo? “Io ho sentito che ha detto “non ci siamo sposati”, mentendo spudoratamente (ecco il video, entrambe le agenti erano dietro le quinte durante l’intervista e sanno benissimo cos’ha detto): Pamela Prati: ''Io e Marco ci siamo già sposati, manca solo il matrimonio in chiesa''. La D’Urso a quel punto rivela: “Io da un anno sul mio telefono ricevo messaggi da un signore che si firma Marco Caltagirone, ma ora non specifico perché, magari ne parliamo in un’altra puntata. Ora vi farò vedere una lettera scritta da Marco Caltagirone al programma, non al mio cellulare”. Siamo all’apoteosi. Seguiteci perché arriva il bello. Questo Mark Caltagirone che non vuole farsi vedere (pur avendo tre profili Facebook), che scrive direttamente alla D’Urso sul cellulare e quindi potrebbe spiegarsi via sms, a un certo punto verga una email in cui dice che “La Prati” (ma si può chiamare così la donna della tua vita?) “non ha bisogno di questi mezzucci per tornare in televisione”, visto che “ha una carriera quarantennale”. (Sì, e debiti che ci vogliono due carriere per estinguerli, aggiungiamo noi. E per ripianarli non bastavano i ristopizza dove le due hanno trascinato la povera Pamela l'estate scorsa, facendole tenere in mano i menu come all'ultimo avanzo da reality, né IL CENTRO ESTETICO DI FORMELLO DOVE LE HANNO FATTO FESTEGGIARE IL COMPLEANNO. Ma non era una diva piena di offerte televisive?) Il tenebroso Mark da Catanzaro/Roma Nord si rivolge poi a Dagospia: “Non voglio apparire nei teatrini costruiti ad arte da qualche sito web per attaccare inutilmente le persone”. Giusto, lui vuole apparire solo nelle interviste farlocche ad Antonella Grippo, negli articoli-pompa in cui racconta i suoi invisibili oleodotti in Libia, nei servizi-fantasia in cui si strombazza che ha ricevuto il premio per il miglior imprenditore italiano in Albania…“Tutelerò sempre la mia privacy perché credo che apparire o meno sia una scelta personale”. Che bella frase, peccato che segua di pochi minuti l’annuncio che ha vendutoun’intervista esclusiva a Verissimo…Pronti per un’altra panzana? “Non sono i certificati a dire se un bambino può chiamarmi papà o meno”. Ma come! Certo che sì, se un bambino viene dato in affidamento sono solo i certificati a stabilire un rapporto affettivo…mica è il figlio di una compagna che ti chiama papà perché ti vuole bene. La Michelazzo questa parte di trama se l’è studiata male: a Storie Italiane aveva detto: “Pamela e Mark si sposano in Italia proprio per risolvere la questione dei minori e poterli portare nel nostro Paese”, contraddicendo questa pietosa letterina scritta last minute da uno degli sceneggiatori dell’avvincente feuilleton. “I figli sono di chi li ama e chi li cresce e i miei figli sono all’estero da sempre”. Aridanghete! Non le scrivete ‘ste cose se le avete già smentite. La trama vuole che nel 2017 Sebastian sia stato appena preso in affido da Wanda e Mark, mentre Rebecca appare per la prima volta nell’inverno 2018, con l’ingresso in scena di Pamela nel ruolo di “moglie e mamma”, come ripete lei tipo lavaggio del cervello. Quindi di sicuro non li ha cresciuti Mark, e “sono all’estero da sempre” non vuol dire niente, anche perché il finto profilo Facebook col nome di Seba Caltagirone non parla mai di sorelle, anzi si professa solo e abbandonato dalla mamma (attenti, quando la mamma era la Ferro e alle due faceva gioco attaccare la deputata che le aveva scaricate). Ragazze, la consistency è fondamentale in un buon plot! Sembrate quei figuranti nei film sul Medioevo con l’orologio digitale al polso. Il bel Mark chiude con una frase jolly per sgusciare dal cul de sac in cui si è infilata questa inarrestabile compagnia di giro: “Io e Pamela dopo questa volta non avremo più voglia di rispondere al nulla”. A parte l’esclusiva a Verissimo, ovviamente. Ma la frase serve per poter rilasciare, nei prossimi giorni, una dichiarazione che suoni più o meno così: “Stufi degli attacchi mediatici, abbiamo deciso di non parlare più e di rintanarci nella nostra casa di *******” (inserisci località esotica tra quelle tirate fuori finora tipo Bonifacio, Miami, New York), così da avere una ragione per tornare nelle nebbie del web in cui è stato concepito. Segue siparietto in cui alla Michelazzo si chiude la vena e inizia a dire “Stai zitta” a Veronica Maya, che con Interrante la liquida in due parole: “Non esiste qualcuno che va in tv da 40 anni e manda un agente a parlare al suo posto”. Beh, esiste se, in diretta, può dimenticarsi la sceneggiatura…Arriva il momento della fatidica intervista. La Prati conciata come Samara di “The Ring”, e con altrettanta carica inquietante, inizia a ripetere il copione dell’amore a prima vista, delle due metà che si incontrano, dell’unico respiro, già gustato in precedenti performance. Quando la cronista le chiede del matrimonio è costretta ad ammettere: “Non siamo sposati”. E allora? “Abbiamo fatto le promesse”. “No, guardi, neanche quelle risultano nei registri”. “Perché le abbiamo fatte all’estero”. Ah, l’estero, rifugio di tutte le bufale. Smontiamo pure questa. I due piccioncini hanno parlato di Francia e Stati Uniti come i due paesi in cui risiederanno dopo le sudate nozze, quindi ci limiteremo a questi. In effetti il povero Sebastian dice di vivere a Bonifacio (Corsica-Francia), parrebbe che stavolta le due abbiano fatto i compiti. Purtroppo basta conoscere qualche rudimento di diritto francese per sapere che il fidanzamento, le fiançailles, non hanno alcun valore legale in Francia, a differenza delle promesse che in Italia sono obbligatorie prima di un matrimonio. Oltralpe, come in America, le promesse non sono un passaggio formale di diritto civile. E soprattutto: anche se le avessero fatte in un paese che le contempla, a che servono delle promesse all’estero, se il matrimonio si celebrerà in Umbria? L’ennesima pezza che non copre manco un centimetro della voragine su cui ballano le tre grazie. “Marco non vuole apparire. Apparirà il giorno del matrimonio”. Vabbè. In lacrime: “Avere una famiglia è una cosa bellissima, se voi non ci credete è un vostro problema”. Dopo questo chiarimento che non chiarisce, si torna in studio. Roberto Alessi smonta un altro pezzo del personaggio Mark Caltagirone: “In un’intervista, quest’uomo privatissimo si vanta di essere stato premiato come miglior imprenditore italiano in Albania. Io conosco importanti costruttori e imprenditori albanesi, gli ho chiesto di Marco Caltagirone e non lo hanno mai sentito nominare, nessuno sa nulla”. Possibile che del prestigioso premio non ci sia una foto? Una traccia su un altro sito internet che non sia una delle interviste compiacenti rilasciate dallo stesso “Mark” al solo scopo di accreditare la propria esistenza? Quando Ciacci chiede “Ma il nome Mark Caltagirone è vero? Perché a me risulta sia un nome d’arte”. Pamela Perricciolo, che sostiene di conoscerlo da anni, che commenta i post di tutti i suoi numerosi profili almeno dal 2016, E CHE SI FA LE FOTO CON SEBA CALTAGIRONE (o forse un nipote che si spaccia per lui?), si stringe nelle spalle e si limita a rispondere: “Io so che si chiama Marco Caltagirone”. Ma come “io so che si chiama così”? Non esclude che sia un nome d’arte? E avrebbe dato il suo nome d’arte pure ai figli, che non sono neanche adottati ma in affidamento? Quei figli che non vogliono essere messi in mezzo ma che hanno profili apertissimi e leggibili da chiunque? Insomma, in attesa della fantomatica intervista doppia che Pamela e Mark (o chi per lui) rilasceranno a Verissimo, se mai avrà luogo, vi preannunciamo che la storia non si chiude qui. Dopo Wanda Ferro, Antonella Grippo e Alessia Bausone (e la stessa D’Urso!), ci sono altre persone che dicono di essere state contattate via Facebook da questo inafferrabile imprenditore giramondo, e ci hanno mandato le loro conversazioni. Ne vedrete delle belle…

Giuseppe Candela per Dagospia l'11 aprile 2019. Il Segreto di Pamela continua a regalare colpi di scena tra bufale, incongruenze e scivoloni. "A  breve ci sarà un'esclusiva televisiva e vedrete il signor Marco così vi mettete l'anima in pace", ha provato a rassicurare i presenti la manager Eliana Michelazzo a Live su Canale 5. "Esclusiva che noi rispettiamo, tanto è vero che questa sera Pamela non è in studio e ci ha fatto un'intervista registrata", ha spiegato Barbara D'Urso. E' l'altra manager Pamela Perricciolo a spingersi oltre: "E' la vostra rete, esclusiva firmata e controfirmata. Ci sarà? Certo, l'hanno firmata entrambi." Il programma in questione, come anticipato da Dagospia, è Verissimo, rotocalco condotto da Silvia Toffanin. Alt! La Perricciolo fa dunque sapere che non solo la Prati avrebbe firmato l'esclusiva ma che avrebbe fatto lo stesso anche Mark Caltagirone. Per dirla alla Lubrano la domanda sorge spontanea: la trasmissione e l'azienda di Cologno Monzese hanno dunque tra le mani i documenti reali del misterioso imprenditore futuro marito della Prati? Ci sono state delle firme da parte dei futuri sposi? La Perricciolo sostiene il vero? Domande che giriamo al gruppo di Verissimo in attesa di una risposta. Se quello che dice la Perricciolo fosse vero Canale 5 avrebbe potuto sgonfiare il caso mostrando già ieri sera i documenti del misterioso Mark e invece non lo ha fatto.  In ogni caso il momento della verità arriverà a breve: Caltagirone sarà costretto a firmare una liberatoria prima della messa in onda. "Pamela doveva essere qua, la rete ci ha detto che non poteva essere qua perché sia Pamela che il futuro marito hanno firmato un'esclusiva molto prima che la signora D'Urso ci chiamasse. E quindi la rete ha detto a Pamela tu puoi fare un registrato da fuori ma non puoi fare la presenza in studio", ha continuato la manager per ribadire il concetto.  Con la conduttrice che ha spiegato che l'esclusiva di Verissimo era legata al matrimonio (" Silvia Toffanin ha l'esclusiva per il matrimonio"), infatti stando alle nostre fonti non sarebbero previste ospitate della Prati e del misterioso Mark nei prossimi giorni ma bisognerà aspettare le nozze, vere o finte che siano. E' opportuno precisare che Verissimo avrebbe chiuso l'esclusiva legata alle nozze prima che Dagospia facesse esplodere la soap opera.  Il caso è comparso per la prima volta su questo sito il 3 aprile, tre giorni dopo l'intervista della Prati a Domenica In: "Mark lo vedrai al mio matrimonio", aveva detto Pamela. Se dunque Verissimo ha chiuso l'esclusiva prima che Dagospia arrivasse sul caso, vuol dire che l'accordo era precedente anche all'ospitata della showgirl a Domenica In. Perché la Prati non può presenziare in diretta nel talk show di Canale 5 se lo ha fatto undici giorni prima dalla Venier?

Dadospia il 12 aprile 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Sig.ROBERTO D'AGOSTINO, Dopo aver visto la puntata relativa del programma Storie Italiane, trasmessa in data 8 aprile u.s., e del programma di canale 5 ''Live non è la D'urso'' mi sento di doverLe scrivere poche righe in merito a quanto accaduto. Sono stato contattato dai media in merito alla mia ex-relazione sentimentale con la signora Paola Pireddu in arte Pamela Prati, e solo dopo essere venuto a conoscenza che lei ha rinnegato la nostra relazione e addirittura la mia persona, ho ritenuto giusto far sapere a tutti la veridicità della nostra relazione a dimostrazione di questo, posso dire di aver aiutato la signora Prati anche economicamente e di ciò ho le prove delle quali se ne stanno occupando i miei legali. A fine novembre 2017, in occasione del suo compleanno, le ho dato come pegno d'amore un anello di famiglia di grande valore affettivo ed economico, e alla fine della nostra relazione – dopo circa un mese e mezzo – gliene ho chiesto la restituzione. Lei si è rifiutata, e solo dopo un anno e mezzo e con l'intervento degli avvocati me l'ha restituito. Quali sono state le mie colpe in tutto ciò? Di aver amato, di essere sempre stato presente anche economicamente nella convinzione che anche lei fosse veramente innamorata di me? Purtroppo non era così e oggi si è dimostrata la persona che veramente è, cioè un'attrice che sa recitare meglio nella vita che sul palco del Bagaglino. Dico questo perché la signora Prati praticamente mi ha usato per shopping, ristoranti, hotel e regali vari. Mi ha illuso a tal punto che ha trascorso addirittura le vacanze di Natale con me e la mia famiglia (lei, parenti ed amici a casa mia), progettando il futuro insieme. Quando mi sono reso conto, a gennaio 2018, della persona che avevo al fianco, ho aperto gli occhi e l'ho allontanata anche perché delle persone a lei vicine in quel momento, mi hanno riferito che mentre stava con me mi criticava. Da gennaio 2018 a giugno mi ha cercato continuamente anche tramite amici in comune, fingendosi ancora innamorata e addolorata per la fine della nostra relazione. In sintesi una persona che rinnega totalmente un amore ma lo ha solamente usato, secondo me non può essere considerata tale. Volevo inoltre rappresentarLe che, tutto quello che ho sostenuto corrisponde a verità, e qualora dovessi essere querelato per diffamazione, i miei legali saranno pronti a produrre le prove a dimostrazione di quello che ho affermato, procedendo in tutte le sedi Giudiziarie più opportune. Nell'occasione, Le invio migliori saluti. Luigi Oliva

DAGONOTA il 17 aprile 2019. Le foto che vedete sono state inviate a Dagospia da Alessia Bausone la settimana scorsa, allegate all'email in cui denunciava che Mark Caltagirone non era mai esistito, ma era un personaggio creato a fini pubblicitari da Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, le due agenti di Pamela Prati. Ecco cosa ci scriveva l'esponente del Pd calabrese: Sono stata contattata su Messenger da un profilo dal nome "Marco Caltagirone" per due settimane a gennaio 2018 in maniera amichevole e cordiale, ma capii subito che l'unico fine fosse quello di screditare Wanda Ferro ai miei occhi, in quanto sua avversaria politica. Mi narrava della loro relazione, del figlio Sebastian Caltagirone preso in affido insieme e con un tumore alla laringe e del fatto che Wanda fosse una madre affidataria anaffettiva, affetta da dipendenze e che pensava solo alla carriera politica. Insomma, mi ha prospettato un quadro atto solo a sminuirla, presumo in vista delle imminenti elezioni politiche che l'avrebbero vista candidata. Successivamente, interagendo per il tramite di conoscenze comuni, ho scoperto la verità sull'inesistenza di Mark o Marco Caltagirone, personaggio creato a fini pubblicitari da Aicos Management e da Eliana Michelazzo, che a sua volta si inventò anni fa di essere la fidanzata di tale Simone Coppi, a suo dire parente del noto avvocato e professore Franco Coppi. Un meccanismo rodato quello di utilizzare cognomi noti per creare relazioni pubbliche sulle quali far marciare il gossip. Proprio alla luce del fatto che si trattava di un profilo falso, quelle foto non le abbiamo pubblicate, perché probabilmente appartenevano a qualcuno che con questa storia non c'entra nulla. Oggi però tornano di attualità, perché Roberto Alessi nell'editoriale pubblicato nel numero di ''Novella 2000'' appena uscito dice che Pamela Perricciolo gli ha mostrato le foto del presunto Mark Caltagirone, definito ''un bell'uomo, biondino''. Mentre ''Fanpage'' nel suo articolo in cui si concentra sulle parentele della Perricciolo, dice che La Prati avrebbe mostrato agli amici una sola foto del futuro sposo, che però sembrerebbe essere tratta da un servizio posato di un modello straniero… nel corso delle ricerche effettuate dalla polizia postale dopo una serie di denunce, sia emerso che le immagini presenti, e poi rimosse, sul profilo Facebook di Rebecca Caltagirone – l’unico a essere ancora attivo mentre scriviamo questo articolo – appartengano in realtà a una bambina di 6 anni, figlia di un avvocato di Cagliari Ora, a noi non sembra che il soggetto delle foto ricevute da Alessia Bausone sia ''biondino'', né tantomeno un modello straniero in posa. Sembrano foto prese da qualche profilo social di un quarantenne moro/sale e pepe che si è scordato la protezione solare. Queste foto tornano di attualità anche perché nel comunicato stampa di ''Live - Non è la D'Urso'' che annuncia la puntata di stasera si parla di misteriose foto di Mark Caltagirone. In onda andrà anche l'intervista a Roberto D'Agostino che parlerà del caso Prati...E nei corridoi Mediaset mormorano che il settimanale ''Pomeriggio5'' in edicola da domani avrebbe in prima pagina le immagini di Pamela e Mark…ma con la faccia di lui pixellata!!! Il mistero ormai non è più un mistero: Mark Caltagirone non esiste, i suoi figli in affidamento neppure, e la bufala del trio Pamela-Pamela-Eliana è ormai svelata. Il vero spettacolo che ci tiene incollati alla poltrona è capire come ne usciranno le tre, che si stanno incartando tra malori della soubrette, Mark che sta a Toronto, no a Dubai, anzi a Bonifacio, e la famigerata esclusiva a ''Verissimo'', pagata (in anticipo?) 30mila euro…

Dall'articolo di Roberto Alessi per Novella 2000 il 17 aprile 2019. Viene perfino il dubbio che un uomo che non ha mai lasciato traccia dietro di sé, possa usare un nome d’arte, ed è magari per questo che non esiste di lui una foto, un documento. «A me risulta che si chiami proprio così», dice la Perricciolo, «vuoi vedere una sua foto?». «Certo», rispondo. Così, lei inizia a far scorrere le immagini sul suo IPhone. Vedo i bambini che Pamela Prati e Mark avrebbero avuto in affido fin prima delle nozze, Sebastian, 11 anni, è splendido, Rebecca, 6, da mangiare di baci. C’è Pamela, fotografata sempre sola, e c’è lui. È un bell’uomo, biondino, capello corto, sorriso accattivante e bianco splendente. «Girami la foto», le chiedo. «Non posso: lui è troppo riservato».

Dall'articolo di Stefania Rocco per "Fanpage.it" il 17 aprile 2019. Altro fatto fondamentale, questa volta applicabile solo al caso di Pamela Prati: l’unica firma di Mark Caltagirone mai apposta, e verificabile, è quella che appare sulla promessa di matrimonio tra la showgirl e il sedicente imprenditore, promessa registrata a Toronto, città nella quale la Perricciolo avrebbe altri parenti. La Prati avrebbe mostrato agli amici una sola foto del futuro sposo, che però sembrerebbe essere tratta da un servizio posato di un modello straniero. Nemmeno le stories che posta sul suo profilo Instagram corrispondono al vero. Quando la Prati scrive di essere a cena con Caltagirone è, in realtà, al tavolo con alcune amiche di agenzia, Perricciolo e Michelazzo comprese. La stessa Eliana utilizza il medesimo espediente per fingere di essere fuori insieme al "marito" Simone Coppi, che non esiste. Il professor Franco Coppi non ha alcun figlio che si chiama Simone. Pare inoltre che, nel corso delle ricerche effettuate dalla polizia postale dopo una serie di denunce, sia emerso che le immagini presenti, e poi rimosse, sul profilo Facebook di Rebecca Caltagirone – l’unico a essere ancora attivo mentre scriviamo questo articolo – appartengano in realtà a una bambina di 6 anni, figlia di un avvocato di Cagliari. Tali foto sarebbero state rubate e poi utilizzate per accreditare l’esistenza della seconda figlia affidata al sedicente Mark.

Dadospia il 17 aprile 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Buongiorno, sono Daniele Cortis e sono il soggetto di cui avete pubblicato le fotografie quale papabile nuovo marito della sig.ra Pamela Prati. Ciò è assolutamente falso. Ho appreso tale assurdità per il tramite delle numerose telefonate che mi sono pervenute da parte di conoscenti che mi avvisavano e mi chiedevano lumi al riguardo. Io sono un avvocato cagliaritano che ha una propria famiglia e non ha mai conosciuto la sig.ra Pamela Prati. Trattandosi di un abuso, Vi invito a provvedere all'immediata rimozione delle mie fotografie dal Vostro sito e contestualmente scusarVi e spiegare che si è trattato di un errore o di uno scherzo di cattivo gusto. Del pari, Vi invito a formulare una proposta di risarcimento del danno per tutti i disagi che tale illegittima condotta mi sta creando. Sto comunque provvedendo a sporgere regolare denuncia presos la polizia postale e preannuncio che agirò in ogni sede per vedere tutelati i miei diritti ed i miei interessi davanti ad ogni competente sede.

PRATI-GATE! - NEL MATRIMONIO-BUFALA DELL'ANNO SALTA FUORI PURE LA 'NDRANGHETA! Stefania Rocco per "Fanpage.it" il 17 aprile 2019. L’indagine di Fanpage.it circa la figura di Mark Caltagirone, della sua holding e del matrimonio con Pamela Prati prosegue. Abbiamo appurato e verificato che il sedicente “avvocato Donato” che ci ha telefonato per discutere della querela mossa contro il signor Luigi Oliva e le testate che avevano riportato le sue dichiarazioni non esiste. C’è qualcuno, quindi, che ci contatta inventando di essere l’avvocato del signor Caltagirone spacciandosi una volta per l'avvocato Donato, un'altra volta per l'avvocato Della Rocca (vero avvocato di Pamela Prati) per spingerci a rimuovere un contenuto. Il numero dal quale parte la telefonata risulta nei database in uso a Pamela Perricciolo, agente di Pamela Prati e partner in affari di Eliana Michelazzo, titolare dell'agenzia d'eventi Aicos. La prima puntata della nostra inchiesta aveva portato alla luce questa menzogna crollata rapidamente in quanto lo stesso avvocato Della Rocca (quello vero) ha smentito di averci chiamato. Non solo, sovrapponendo le tracce audio tra la telefonata ricevuta e alcune ospitate televisive siamo riusciti a risalire alla voce che si cela dietro il sedicente avvocato… Ma andiamo con ordine. Da una fonte vicina all'agenzia apprendiamo che l’operazione “Mark Caltagirone”, e i profili social che intorno a esso gravitano, nasce già due anni fa. A farne le spese è una nota politica italiana, consigliere regionale laziale. Agganciata in un momento di vita particolarmente delicato, viene isolata e attorniata da quegli stessi personaggi che, tempo dopo, ritroveremo protagonisti di un’altra vicenda analoga, quella che vede nel ruolo di vittima Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia. La Ferro, in particolare, viene agganciata dal sedicente Mark Caltagirone dietro la promessa di un lavoro, per poi finire al centro di questa intricata vicenda, sempre nel ruolo di vittima. Perricciolo conosce la prima vittima nota di questa storia perché entrambe, fin da giovani, frequentano gli stessi ambienti politici. In particolare, la Aicos Management collabora alla realizzazione delle feste Atreju di Fratelli d'Italia, cui fa da intermediaria affinché vi partecipino personaggi noti nel mondo della televisione. Dietro i casi di Wanda Ferro, dell'altra nota esponente politica romana e di chissà quante altre donne c’è la stessa mano. Esistono una serie di profili fake che vengono utilizzati di volta in volta per avvalorare le identità dei soggetti in gioco, molti dei quali recuperabili tra le amicizie di un altro profilo, quello di Silvia Pasqual, anche questo falso, intorno al quale ruotano contatti. A questo gruppo di persone si aggiungerebbero, di volta in volta, uomini o donne ingaggiati nel ruolo di attori, al fine di rendere più credibile la narrazione. Questi ultimi agganciano le prede designate, facendosi scudo dietro cognomi altisonanti come quelli di Coppi e Caltagirone, dei quali si fingono parenti. Al centro delle vicende c’è la figura di un ragazzino, che esiste realmente e che racconta di essere malato, scatenando quel meccanismo di sudditanza psicologica che porta la vittima a elargire denaro. Non solo: come accade nel caso di Pamela Prati, il ragazzino in questione si rivolge alla vittima chiamandola “mamma”, raccontando la sua storia tragica (sostiene di essere orfano di madre) e dicendosi offeso qualora la vittima manifesti ritrosia di fronte a tali manifestazioni di affetto. È il modus operandi attraverso il quale la elargizione di denaro si articola. Pare inoltre che, nel corso delle ricerche effettuate dalla polizia postale dopo una serie di denunce, sia emerso che le immagini presenti, e poi rimosse, sul profilo Facebook di Rebecca Caltagirone – l’unico a essere ancora attivo mentre scriviamo questo articolo – appartengano in realtà a una bambina di 6 anni, figlia di un avvocato di Cagliari. Tali foto sarebbero state rubate e poi utilizzate per accreditare l’esistenza della seconda figlia affidata al sedicente Mark. Altro fatto fondamentale, questa volta applicabile solo al caso di Pamela Prati: l’unica firma di Mark Caltagirone mai apposta, e verificabile, è quella che appare sulla promessa di matrimonio tra la showgirl e il sedicente imprenditore, promessa registrata a Toronto, città nella quale la Perricciolo avrebbe altri parenti. La Prati avrebbe mostrato agli amici una sola foto del futuro sposo, che però sembrerebbe essere tratta da un servizio posato di un modello straniero. Nemmeno le stories che posta sul suo profilo Instagram corrispondono al vero. Quando la Prati scrive di essere a cena con Caltagirone è, in realtà, al tavolo con alcune amiche di agenzia, Perricciolo e Michelazzo comprese. La stessa Eliana utilizza il medesimo espediente per fingere di essere fuori insieme al "marito" Simone Coppi, che non esiste. Il professor Franco Coppi non ha alcun figlio che si chiama Simone. Indagando all’interno dei legami familiari di Pamela Perricciolo, scopriamo che è una zia affettuosa che si prende cura dei nipoti, affidatigli in considerazione dell’arresto del fratello e del padre, condannati nel gennaio 2018 per associazione a delinquere di stampo mafioso con la finalità di ricostruire la ‘ndrangheta nelle Marche. Proprio nelle Marche si recherebbe spesso la Prati per visitare la famiglia della Perricciolo. Il clan Perricciolo, alla cui testa c'è il fratello di Pamela, Salvatore, ha visto la condanna di Giuseppe Perricciolo (padre di Pamela) a 9 anni, sei mesi e quindici giorni di reclusione; pena più severa per il fratello dell'agente della Prati, Salvatore condannato a 15 anni di reclusione. Secondo il giudice il gruppo operava tra Ancona e Ascoli dedicandosi alle estorsioni ai locali, alle rapine, agli incendi, utilizzando armi ed esplosivi. Il processo è stato fondato sulle dichiarazioni del pentito Marco Schiavi, secondo il quale la banda avrebbe avuto nel suo raggio d’azione politici di primo piano e star dello spettacolo, che per altro hanno smentito le sue affermazioni. Salvatore Perricciolo è stato raggiunto, inoltre, da un'altra condanna a 4 anni per aver sparato e ferito due persone in un ristorante della zona. La stessa Pamela è a capo di una società che si chiama Dreaming srls, altra agenzia di intermediazione e spettacolo. Pamela Prati, pubblicamente definita “direttrice” dell’Aicos Management, non è legalmente coinvolta a nessun titolo nella gestione della società, né è una dipendente. Esiste esclusivamente una scrittura privata attraverso la quale viene nominata presidente dell'agenzia, ma che non risulta agli atti. Gli screen delle seguenti visure camerali dimostrano che Eliana Michelazzo è l'unica titolare della Aicos Management Group. Abbiamo appreso, inoltre, che le foto postate sul profilo Facebook della "Mark Caltagirone Holding" sono in realtà prese dalla vera Cementir Holding di Corso Francia a Roma, società realmente esistente e appartenente al gruppo Caltagirone. Anche qui si apre un'altra pagina ampia. Non esiste, diversamente da quanto lasciato intendere in precedenza, alcun legame tra Mark Caltagirone e la nota famiglia di costruttori, come suggerito sulla copertina del settimanale Gente che pubblica il servizio di Pamela Prati in abito da sposa e scrive: "Sposa Marco Caltagirone, della nota famiglia di costruttori romani". Altra figura inesistente è quella di Simone Coppi, presunto magistrato dell'antimafia marito di Eliana Michelazzo. L'ex corteggiatrice di Uomini e Donne, lo conferma il suo stato civile, è nubile e i Coppi non hanno nessun figlio che si chiama Simone. Resta da comprendere quale sia il ruolo di Pamela Prati all'interno di questa vicenda e chi si celi dietro gli attori che di volta in volta vengono ingaggiati per agganciare le vittime, generalmente donne. Fanpage.it ha sentito telefonicamente Pippo Franco, storico attore e capocomico del Bagaglino, che ha condiviso gioie e successi con Pamela Prati. Ai nostri microfoni, l'attore ha commentato i risvolti dell'indagine di Fanpage.it sul presunto matrimonio e sulla figura ambigua del presunto imprenditore Mark Caltagirone. “Non la vedo da tempo e non sono tra gli invitati al suo matrimonio. - spiega Pippo Franco - L’ultima volta l’ho vista all’intervista dalla Balivo, mi hanno fatto fare anche gli auguri registrati in cui mandavo un bacio appassionato a questo suo futuro marito. E del resto non so nulla, se non fosse vero, francamente non saprei cosa dire". 

Daniele Cortis su Facebook. Da Dagospia il 19 aprile 2019. Mai avrei pensato di dover scrivere sui social per smentire una notizia assurda e ridicola, in relazione ad una vicenda folle in cui mi sono trovato, mio malgrado ed a totale mia insaputa, coinvolto. Alle ore 19,45 di ieri sera ho ricevuto un messaggio da un amico collega che mi chiedeva se fossi al corrente che sul sito Dagospia fossero state pubblicate due mie fotografie (rubate da facebook), in quanto individuato come futuro marito di Pamela Prati. Immediatamente attivatomi, ho dovuto constatare che non si trattava di uno scherzo e che veramente le foto pubblicate dal sito fossero le mie e che dell’argomento si sarebbe parlato di lì a poco nel programma Live Non è la D’Urso di Canale 5. Non ho focalizzato neppure l’attenzione sui nomi dei protagonisti della vicenda, tanto la mia attenzione è stata rapita dalla presenza delle foto e dalla necessità urgente di smentire tutto e di evitare che questa assurda falsità divampasse più di quello che già era. Nel frattempo sono stato contattato da una infinità di amici e conoscenti che, girandomi gli screenshots delle videate del sito, mi chiedevano lumi sulla vicenda. Ho quindi in prima istanza inviato una mail alla redazione di Dagospia, smentendo qualsiasi collegamento tra me e quella vicenda, precisando che non ho mai conosciuto, né conosco la sig.ra Pamela Prati, nonché invitando alla rimozione immediata delle mie immagini dal sito e contestualmente avvertendo che avrei agito in ogni sede per la tutela dei miei diritti ed interessi. Ho chiuso la mail, dicendo che comunque restavo a disposizione anche al cellulare (di cui ovviamente inserivo il numero) per ogni chiarimento. La mia premura più grande era – in quel momento – bloccare l’emorragia e fare in modo che nel programma della sig.ra Barbara D’Urso non venissero mostrate le mie foto. Ho preso quindi contatto con il mio amico giornalista Pablo Trincia (tra le altre cose, una Iena … ), tramite il quale ho avuto la possibilità di sentire telefonicamente la giornalista Selvaggia Lucarelli, da subito dimostratasi gentilissima e disponibile a smascherare le folli bugie che stavano dietro alla vicenda. Selvaggia ha immediatamente pubblicato un post sui suoi canali social twitter e instagram, in cui avvisava tutti che le foto del sig. Caltagirone erano in realtà “foto rubate dell’avvocato cagliaritano Daniele Cortis”. Durante quei concitati momenti – si lo so, potrà far ridere, ma vi assicuro che ritrovarcisi in mezzo non è così semplice e piacevole - ho focalizzato l’attenzione sui nomi dei protagonisti della vicenda ed in particolare sul presunto (inesistente?) sig. Marco o Mark Caltagirone – futuro marito della sig.ra Prati – e sull’agente della predetta soubrette, tal sig.ra Pamela Perricciolo. Non erano nomi nuovi per me. Facendo mente locale, ho ricollegato e verificato sul mio cellulare che in data 6 giugno 2018 ho ricevuto un messaggio whatsapp da tale “Pamela della Dreaming srls, società di pubblicità”, la quale mi contattava nella mia qualità di Direttore Generale e legale rappresentante della Scuola Calcio Gigi Riva di Cagliari, cui un loro cliente – poi individuato nella persona di tale Marco Caltagirone, politico siciliano a capo di alcune associazioni - avrebbe voluto “dare la sua sponsorizzazione perché è una Holding che sta rientrando in Italia e vuole investire sui ragazzi”. Trattandosi di associazione sportiva non avvezza a ricevere contributi e sponsorizzazioni, mi sono reso disponibile al dialogo per capire cosa realmente proponessero. C’è stato quindi uno scambio di messaggi e telefonate, tutte vertenti sulla possibilità mia di andare a Roma da loro (da me negata) o viceversa la possibilità del sig. Caltagirone di venire a Cagliari a vedere il nostro centro sportivo e come lavoriamo con i ragazzi, per verificare con mano se fosse possibile darci una sponsorizzazione. Appuntamenti telefonici e non bruciati a più riprese, fino a quando al mio messaggio – era ottobre 2018 – che ormai credevo si trattasse di una burla, la sig.ra Pamela mi ha risposto che ero una persona insensibile perché il sig. Caltagirone era rimasto vittima di un brutto infarto e che quindi loro avessero altro a cui pensare. Auguri al sig. Caltagirone e rapporto, se così si può chiamare questo preliminare tentativo di truffa, chiuso così. Ecco, dalle verifiche fatte ieri, a parte sui nomi, è emerso che il numero da cui ho ricevuto messaggi e chiamate fa capo alla sig.ra Pernicciolo (con tanto di foto sul profilo whathapp che la ritrae, ora che ho collegato i visi) e che quindi l’aver pescato le mie foto non era poi così tanto casuale come pensavo all’inizio. Ma questo conta poco, o meglio conta di più il fatto che – nonostante Pablo Trincia e Selvaggia Lucarelli, che ringrazio pubblicamente, si siano prodigati per parlare con D’Agostino e, tramite lui, con la sig.ra D’Urso – quest’ultima abbia portato avanti due ore, diconsi due ore, di trasmissione sul nulla, con la didascalia sotto che avrebbero mostrato per la prima volta le foto mai viste del presunto Mark Caltagirone e poi comunque deciso di mostrarle agli ospiti ed al pubblico in studio, per poi mandare in onda a tutto schermo la mia fotografia seppur pixelata in volto. Nel frattempo Dagospia aveva pubblicato la smentita, con tanto di ulteriori mie foto e testo integrale della mia mail, compreso - follia assoluta – il mio numero di cellulare per intero, che da ieri sera continua a squillare ininterrottamente per via delle chiamate di tutte le testate giornalistiche televisive e non. A quanto ne so, stamattina anche Mattino 5 e Rai Uno hanno ripreso la notizia e hanno mostrato ancora, sempre pixelata, la mia fotografia. A parte le due ore della trasmissione della D’Urso di ieri sera e lo stupore nel pensare che tutti i giornali e le tv dedichino tempo, di questi tempi, alla vicenda della sig.ra Prati, il mio pensiero va a tutti coloro che, come me, incolpevoli ed inconsapevoli, vengono divorati dal tritacarne mediatico, senza – a volte – avere neppure il tempo, l’energia e le risorse per fronteggiare queste assurdità. Io, dal canto mio, farò tutto ciò che potrò per smascherare questa gente e tutelare la mia immagine … come diciamo noi avvocati … davanti ad ogni competente sede. Ritengo inutile specificare, qui, quali danni e disagi tutta questa vicenda stia comportando per il sottoscritto. Spero che queste mie righe siano sufficienti a chiarire una volta per tutte la questione, per lo meno per quel che mi riguarda. Pur ringraziando le testate giornalistiche e le trasmissioni televisive che mi hanno contattato per fornire la mia versione e smentire quindi l’assurda notizia, confermo che ho declinato e declinerò qualsiasi invito perché non intendo in alcun modo prendere parte a questo circo mediatico. Sono consapevole che questa querelle, per chi non la vive direttamente, potrebbe essere foriera di prese in giro e facili battute. Purtroppo però, fidatevi, è una cosa seria, tanto da costringermi ad invitare anche i miei amici più cari ad evitare di commentare alimentando il tutto invece che aiutarmi a spegnere “le luci”.

DAGONOTA - Ci scusiamo con l'avv. Cortis per aver lasciato il cellulare nel testo (solo per dieci minuti, poi ci siamo accorti dell'errore e l'abbiamo rimosso): per pubblicare il prima possibile la sua email, abbiamo copiato e incollato tutto il testo da un dispositivo mobile.

DAGONEWS il 19 aprile 2019. "Nel maggio 2018 un profilo Instagram che si chiama Caltagirone_Mark inizia a scrivermi dei messaggi, in un primo momento, carini. Mi ha iniziato a proporre delle cose lavorative abbastanza bizzarre a cifre improponibili: 'Ma con Nina allora ci stai ancora! Perché non organizzate una paparazzata al mare per esempio, ti faccio avere dei costumi così li mettete'", a parlare è Luigi Favoloso, ex compagno di Nina Moric, intervenuto nell'ultima puntata di Live-Non è la D'Urso. Il potente costruttore che riceve premi in Albania e costruisce oleodotti in Libia propone la sponsorizzazione di costumi da bagno? "Rispondo: 'Ciao caro, purtroppo non sono interessato, non abbiamo mai fatto questo genere di cose. Mi spiace.' Dopo il mio rifiuto per questa collaborazione mi scrive: 'Se vuoi sapere chi sono chiedi a Cosimo di Livello Alto. Lui mi conosce da anni, siamo amici, anche i nostri figli sono amici. Chiedi a lui'", aggiunge Favoloso che contatta tal Cosimo che spiega: "Non ci ho lavorato più però l'ho incontrato, sembrava un 55enne, un bell'uomo brizzolato (come l'avvocato cagliaritano che ha subito il furto delle sue foto social?), molto distinto un po' ambiguo, diceva delle cose poi cambiava versione. Il Caltagirone chattante racconta a Favoloso di essere amico di Eliana Michelazzo e di Angelo Sanzio, il Ken umano italiano però smentisce: "Non è un mio amico. Da lui ho soltanto ricevuto delle minacce molto velate via Whatsapp". L'ex della Moric chiede dunque un incontro ma qui i toni cambiano: "Mamma Luigi, quanto te la tiri! Io ti faccio il bonifico, che imprenditore sei? Sei un pezzo di merda", Favoloso si difende: "Se continui ti denuncio." Il profilo Caltagirone_Mark fornisce questa risposta che lascia pochi dubbi: "E chi denunci un profilo fake? Non sai nemmeno chi sono. Vai dalla polizia a denunciare Mark Caltagirone, è un nome di fantasia. Ti sto prendendo per il culo. Sveglia Luigi!". In studio la Michelazzo smentisce categoricamente che dietro l'account ci fosse la sua agenzia: "Angelo è andato via dall'agenzia e ora mi fa la guerra. Sono fintissime queste chat, stanno montando dei teatrini per uscire fuori. E' una grande falsità, stanno entrando tutti in questa storia. Si fanno pure gli alibi. Venisse qui, mi portasse i cellulari. Sono schifata, venga lui e l'altro amichetto suo, Sanzio. Che vergogna, stanno creando degli alibi. Stanno andando contro me e la mia socia. Stanno esagerando".

Giuseppe Candela per Dagospia il 19 aprile 2019. "Attenzione, c'è la data del matrimonio: l'8 maggio. Finalmente è uscita la data ufficiale quindi è tutto regolare Pamela Prati dice: 'Io mi  sposerò in questa data'", così Federica Panicucci ha aperto il talk dedicato al caso Prati-Caltagirone, in onda oggi a Mattino 5. La conduttrice comunica il giorno del nozze con tono sicuro e pronuncia le parole della showgirl come un virgolettato. "Data ufficiale", da chi sarebbe stata ufficializzata? Nel corso del dibattito l'8 maggio viene ripetuto più volte, e in effetti è stato accennato già il 17 aprile da Fanpage, ma non si forniscono precisazioni. A chi ha detto la Prati "Io mi sposerò in questa data"? Non a Verissimo, che domani, come Dago ha anticipato, ospiterà la primadonna del Bagaglino. Senza Mark Caltagirone, senza mostrare le sue foto, non aggiungendo dettagli sulle nozze e sul giorno in cui arriverà all'altare. Da segnalare che Mattino 5 e Verissimo sono due programmi sotto testata Videonews, perché uno comunica la data con certezza e l'altro, che detiene l'esclusiva, non ne fa cenno? Ah, saperlo…

Da Mediaset il 19 aprile 2019.  Le sue prossime nozze stanno occupando i maggiori talk show televisivi, giornali e siti web. A Verissimo, in esclusiva Pamela Prati parla per la prima volta di questo attesissimo matrimonio e dichiara: “Il matrimonio ci sarà a maggio. Sarà un matrimonio religioso, mi sposerò davanti a Dio perché sono molto cattolica. ”. Del suo misterioso futuro sposo, del quale non compaiono notizie o immagini, a Silvia Toffanin che le chiede perché non mostra nessuna foto di lui o di loro due insieme, che nulla avrebbero a che fare con l’esclusiva sulle nozze data al talk show dice: “Marco Caltagirone, non si chiama Mark, ha 54 anni, è riservatissimo e timido. Noi abbiamo scelto di mostrarci insieme solo a Verissimo, il giorno del matrimonio. Confermo che solo Verissimo entrerà al nostro matrimonio con le sue telecamere e lì finalmente conoscerete l’altra mia metà”. Sugli attacchi che sta subendo in queste settimane confida: “Perché avrei dovuto inventare una cosa del genere? Basta devono smetterla, davvero. Ci sono in Italia problemi molto più grandi e invece parlano di me. Dicono addirittura che sono stata stregata dalle mie due agenti, che l’ho fatto per soldi o per tornare in auge. Purtroppo – aggiunge – certe persone gioiscono più della tua infelicità che della tua gioia. Ci stanno rovinando questo bel momento”. Sulla sua sincerità dice: “Non c’è persona più vera di me. Le persone vere a volte non vengono capite. Mi hanno deluso questi finti amici che dicono nelle trasmissioni che mi vogliono bene e poi nessuno che mi ha mandato un messaggio chiedendomi come sto. Dopo tutto quello che è successo dovrò rivedere la lista degli invitati”. Per la situazione che è venuta a crearsi la show girl afferma di essersi rivolta ad un avvocato: “Io ho querelato tutti. Mi sono rivolta ad un avvocato notissimo perché sono situazioni in cui bisogna intervenire legalmente”. E a proposito di temi delicati dice: “Dei bambini non voglio parlare, perché ho paura che tutto ritorni contro di me”. Infine, su come viva tutta questa faccenda il futuro marito confida: “E’ provato come me, assolutamente“. E prosegue dicendo: “Dopo trent’anni di claustrofobia, senza prendere aerei e ascensori, grazie all’amore ora prendo l’aereo, il treno. Ecco l’amore che cosa fa. Dopo il matrimonio andremo a vivere all’estero ma non definitivamente, adesso che non ho più paura di volare vado e torno”.

PAMELA PRATI - IL GIALLO DELLE NOZZE. Dall'articolo di Roberto Alessi per ''Novella 2000'' in edicola oggi 17 aprile 2019. (…) Ora, però, tutto questo mistero su Caltagirone mi preoccupa. Sono preoccupato per Pamela. Sono preoccupato perché sono uscite molte notizie, pubblicate recentemente sul sito di Roberto D’Agostino, Dagospia, in cui si mette in dubbio l’esistenza stessa di Marco Caltagirone. Pamela dice di averlo già sposato in Comune (lo ha confermato in tv da Mara Venier, mostrando la vera). Lui è stato presentato come imprenditore, come uno che a 19 anni ha lasciato Roma, la sua città, alla volta degli Stati Uniti, per laurearsi (forse in Ingegneria) a New York. Nel frattempo ha costruito oleodotti in Africa, megacostruzioni in America, Canada e Albania, ha vinto perfino un premio come Miglior imprenditore dell’anno a Tirana. Possibile che un uomo di 54 anni, così di successo, un uomo pubblico, a capo della Mark Caltagirone Holding (di cui però non si trova nessuna visura camerale), che vince premi nel mondo, non appaia mai? Aveva un profilo Facebook, ma senza immagini sue. Ha un account Instagram dove si vede solo da dietro. Il mistero si ingrossa al punto che Roberto d’Agostino ha dedicato alla questione ben cinque articoli in una settimana. «Mark esiste, io lo amo, ho le sue foto, lui non vuole apparire, è riservato, e fino alle nozze siamo obbligati a non farci vedere insieme, abbiamo firmato un’esclusiva con Verissimo di Silvia Toffanin», mi dice Pamela Prati. Io credo a Pamela, non posso non crederle e non darle fiducia: siamo amici da quarant’anni. Quaranta! Me lo ribadisce anche Pierfrancesco Pingitore, il patron, regista, autore, creatore del Bagaglino, col quale Pamela ha costruito una carriera solida di showgirl («Mi ha invitato al matrimonio», mi dice lui). Dico a Pamela: «Mark deve uscire allo scoperto, basta una foto di voi due insieme, lo deve fare se ti ama, sei in una situazione troppo delicata, ti attaccano, chi se ne frega dell’esclusiva, non viene certo rovinata da un selfie, anzi, aumenta l’interesse». Ho perfino scritto un messaggio a Mark per convincerlo a uscire allo scoperto, lo pubblico in questo spazio, glielo farà avere Pamela (lei mi dice che a quest’ora dovrebbe averlo letto). Ma niente. Intanto, ho parlato prima da Eleonora Daniele a Storie Italiane con Eliana Michelazzo (ex corteggiatrice di Uomini e Donne), poi da Barbara d’Urso con Pamela Perricciolo. Chi sono? Le due agenti di Pamela, che lavorano per l’Agenzia Aicos che si occupa di personaggi come Rosa Perrotta e, pare, Milena Miconi. Non sono solo agenti, ma anche colleghe della Prati, visto che Pamela Perricciolo mi dice: «Io sono una dipendente, Eliana è la presidente mentre Pamela è il direttore della Aicos». Pamela Perricciolo aggiunge anche: «Prima di conoscere Pamela, l’Agenzia ha lavorato per un evento di Mark Caltagirone. Un uomo per bene, bello, brillante, che conosco bene». Pamela dice che lo conosce da almeno cinque anni e che lui a Reggio Calabria stava con una signora. Viene perfino il dubbio che un uomo che non ha mai lasciato traccia dietro di sé, possa usare un nome d’arte, ed è magari per questo che non esiste di lui una foto, un documento. «A me risulta che si chiami proprio così», dice la Perricciolo, «vuoi vedere una sua foto?». «Certo», rispondo. Così, lei inizia a far scorrere le immagini sul suo IPhone. Vedo i bambini che Pamela Prati e Mark avrebbero avuto in affido fin prima delle nozze, Sebastian, 11 anni, è splendido, Rebecca, 6, da mangiare di baci. C’è Pamela, fotografata sempre sola, e c’è lui. È un bell’uomo, biondino, capello corto, sorriso accattivante e bianco splendente. «Girami la foto», le chiedo. «Non posso: lui è troppo riservato». Nel frattempo (e il sito di Roberto d’Agostino lo riporta) due donne politiche, entrambe calabresi, si sono smarcate da questa faccenda: una è di Forza Italia, il suo nome in un primo tempo era stato accostato a quello di Caltagirone (si diceva che si fossero persino sposati e che avessero in affido il più grande dei due bambini, ma lei ha tenuto a sottolineare: «Mai visto e conosciuto», nonostante qualche battuta sui social). L’altra politica, questa volta del Pd, ha fatto capire che la Perricciolo, una delle due agenti, è solita organizzare “sole” di questo tipo. E Perricciolo, davanti alla d’Urso, in tv, la butta in politica: «Lei è di sinistra, io di destra da sempre». E che vuol dire? Che la sinistra attacca la destra a colpi di annunciati, presunti (qui è tutto presunto) o finti matrimoni? Intanto Pamela (Prati, questa volta) mi parla al telefono dei suoi figli, è tenerissima. Ma com’è possibile che abbia avuto un duplice affido da non sposata? O meglio è sposata: «In Comune», come ha detto da Mara Venier. Ma a Eliana, l’altra agente, scappa da dire che non è sposata. Perché? Essere sposati in Comune vuol dire essere sposati, lo ha confermato la stessa Prati, ripeto, a Domenica in. «No», mi dice Eliana, «sai com’è Pamela, l’ha detto, ma si trattava solo della promessa di nozze». Sarà. E Perricciolo mi fa vedere il documento, la cosiddetta promessa di nozze, su cui, su una scheda prestampata in italiano, appare scritto, a mano in una grafia perfetta e uguale, sia per Pamela sia per Caltagirone, nomi, cognomi, date. Così scopro che Caltagirone (che si firma Marco Caltagirone, che quindi dovrebbe essere il suo vero nome) dice di essere nato a Cattolica (allora non è di Roma?). Mi viene in mente che a giustificare il fatto che Dagospia abbia pubblicato lo stato civile di Pamela (nubile!), ci sia un matrimonio celebrato in un Comune all’estero. Un’ultima considerazione sui due bambini, Sebastian e Rebecca («Mi chiama mamma e vuole fare la ballerina», dice la Prati). Barbara d’Urso ha ricevuto un video in cui Sebastian, bellissimo, parla  in un italiano perfetto. Come può essere affidato a Mark che vive all’estero, tra la Francia e Miami? «In questo momento è a Toronto», mi dice la Perricciolo, «il bambino parla italiano perché ha sempre avuto una tata calabrese, ma i bimbi sono stranieri». Insomma a ogni notizia nasce un dubbio, a ogni dubbio le due agenti danno una spiegazione che si contraddice con una notizia precedente. Si aggiungono altri dubbi. Un casino. (…)

Da ''Oggi'' in edicola domani il 17 aprile 2019. L’annuncio delle nozze di Pamela Prati, a 60 anni, nelle ultime tre settimane è diventato un vero e proprio giallo che tiene banco in tv e sui giornali. E mentre da più parti si insinua che sia tutta una messa in scena e che Marco Caltagirone, il futuro sposo, non esista nemmeno, una delle agenti della Prati, Pamela Perricciolo, parla con OGGI e ingarbuglia ancora di più la situazione, lanciando strani messaggi: «La Prati non si alza dal letto da tre giorni e da una settimana non mangia. Sta male perché voleva la favola e le insinuazioni di Dagospia le hanno rovinato tutto. Se Pamela non la smette di fare così, mi stufo pure io». Ma non è tutto. Alle domande di OGGI corrispondono altrettante stranezze. La Prati ha più volte dichiarato che Caltagirone vivrebbe in America, la Perricciolo, invece, dice «che sta negli Emirati Arabi». E perché Mark non esce allo scoperto? «Se Marco non vuole apparire nessuno può obbligarlo, lo vedrete il giorno delle nozze». Perché la Prati non è tornata in studio da Barbara d’Urso, in diretta, a difendersi e ha preferito un’intervista registrata? «Perché è vincolata dall’esclusiva di Verissimo. E poi sai quanto hanno pagato quell’intervista? Dieci volte la quotazione che aveva la Prati prima di questo casino», rivela. E mentre Verissimo conferma l’esclusiva delle nozze, Oggi è in grado di svelare che la cifra concordata sarebbe di 30 mila euro. Il mistero continua, e paga (bene). 

La soap delle nozze tra Pamela Prati e il costruttore fantasma. L’annuncio in tv. La love story. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. Prima gli aggiornamenti, poi il riepilogo: ieri, Pamela Prati, scossa per le accuse sul «marito fantasma», ha avuto un malore. Niente di grave, ma dal suo management spiegano al Corriere che era distrutta, affranta, arrabbiata: non può credere che, dopo 40 anni di carriera, sia sospettata di essersi inventata un promesso sposo per farsi pubblicità. Sintesi delle puntate precedenti: a gennaio, Pamela, 60 anni, annuncia che sposerà tale Mark Caltagirone, 54, nato a Roma, non imparentato coi Caltagirone costruttori ed editori, ma costruttore anche lui, che vive a Miami e ha realizzato oleodotti in Libia e ospedali e centri commerciali in Cina e Corsica. Uomo riservatissimo, dice lei. Il punto è che, online, non c’è traccia ufficiale della sua Mark Caltagirone Holding, salvo un profilo Facebook assai scarno e ormai chiuso. Il profilo Instagram personale, invece, è stato aperto a marzo 2018, più o meno in concomitanza col colpo di fulmine, e nelle foto lui non si vede mai in viso. In tv e giornali, Pamela racconta di un amore travolgente, di due bambini già presi in affido temporaneo, di una villa che l’aspetta a Miami, ma si rifiuta di mostrare foto dell’amato. Al che, Dagospia inizia a parlare di «marito fantasma». Altri siti riprendono i sospetti. Mercoledì, Barbara D’Urso, nel suo Live su Canale 5, ci costruisce su la metà di una prima serata. Ci si chiede se Pamela non si sia inventata il fidanzato per recuperare visibilità sul viale del tramonto. E così questo diventa un giallo paradigmatico dell’era digitale. Forse una gigantesca fake news, forse la storia paradossale di un uomo che non vuole apparire e perciò è accusato di non esistere e di una donna che, invece, appare troppo e perciò è accusata d’inventarsi un uomo che non c’è, pur di non sparire. Manca il reato, ma il processo è ugualmente kafkiano. La prova regina, ovvero l’uomo in carne e ossa, si rifiuta di palesarsi. Pamela minaccia querele, fa sapere al Corriere che non ha intenzione di esibire documenti né prove, ma che la prova saranno le nozze previste entro un mese in Umbria e riprese da Verissimo. Dal programma Mediaset, confermano che l’esclusiva c’è, anche se ancora aspettano la data delle nozze. Intanto, in tv e sui giornali, si dibattono gli indizi. La holding di Caltagirone non ha un sito né indirizzi rintracciabili, nessun dipendente figura su Linkedin, nessun appalto o progetto è su Internet. Inoltre, a che titolo Pamela e Mark hanno in affido per le vacanze, a Miami, due bimbi, Sebastian e Rebecca, che però vivono in Francia? E perché Sebastian, a giudicare da Instagram, parla italiano e tifa Lazio? Perché era lui, un undicenne, l’amministratore del profilo Facebook della holding di «papà Mark»? Perché Mark, su Instagram, pur vivendo e lavorando all’estero, ha solo followers italiani e segue solo italiani? Nel giallo non poteva mancare la politica. Il 23 aprile 2016, Mark Caltagirone (che dunque già a quella data esisteva, in persona o in Avatar) scriveva su Facebook di essersi sposato. Sotto il post, compariva un commento con cuoricino dell’attuale deputata di Fratelli d’Italia Wanda Ferro. Lui le rispondeva: «Mia per sempre, qualcuno ti doveva incatenare». Come se la sposa fosse lei. Peccato che, dimentico di quel post, il 2 ottobre 2017, lo stesso Mark rilasciava un’intervista a Rtm web, annunciando investimenti in Puglia e a Tokyo e prossime nozze con «una nota politica calabrese». Lì, l’imprenditore che tanto tiene alla privacy si diceva sorpreso d’essersi innamorato a 50 anni, raccontava che con la fidanzata avevano un bimbo in affido e volevano costruire un canile. Riservatezza a parte, uno potrebbe pensare: ha rilasciato un’intervista, ergo esiste. Ma non era un’intervista. Patrizia Quaranta, che col papà gestisce Rtm, spiega: «Non l’abbiamo mai visto né sentito, abbiamo solo pubblicato il comunicato stampa». Che lei non ha più. Per la cronaca, Wanda Ferro ha scritto a Dagospia assicurando che non ha mai conosciuto Caltagirone e non è mai stata sposata. Ieri, sull’Instagram di Pamela è comparso il video in cui i titolari dell’Atelier Dei Sogni Signa spiegano che l’abito di nozze «sarà romantico». Non sarà una prova, ma almeno i preparativi procedono.

Francesco Canino per Panorama il 13 aprile 2019.  Un po' "scene da un matrimonio", un po' Catfish all'italiana. Le future nozze di Pamela Prati sono ormai a tutti gli effetti un feuilleton golosissimo che tiene banco da giorni sui social e nei programmi di intrattenimento, con la storica soubrette del Bagaglino impegnata ad annunciare a reti unificate il matrimonio con il misterioso imprenditore Marco Caltagirone. Del "marito fantasma", come lo ha ribattezzato Dagospia, non c'è traccia sul web (e non solo) anche se, piccolo colpo di scena, Panorama.it è in possesso delle foto dell'uomo. Ecco tutto quello che c'è da sapere sulla vicenda, dai figli in affido agli inattesi risvolti politici. "È il momento più felice della mia vita. Ci siamo conosciuti a una cena", ha raccontato Pamela Prati nella sua ultima apparizione televisiva, un'intervista registrata a Live-Non è la D'Urso, durante il quale sono scese in campo a difenderla le sue due agenti, Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo. Le quali, va detto, più che chiarire la situazione, l'hanno strategicamente complicata a colpi di "nel bene o nel male, purché se ne parli".  Perché passano le settimane ma del futuro marito, Marco Caltagirone, costruttore romano 54enne (per nulla imparentato con la potente famiglia Caltagirone, costruttori ed editori romani), non c'è traccia. Di lui si sa solo che vivrebbe tra l'Italia e Miami e che avrebbe realizzato oleodotti in Libia, ospedali e centri commerciali in Cina e in Corsica. "Se una persona non vuole comparire, perché deve farlo?", ha risposto seccata la Prati che poche settimane fa, a Domenica In, aveva annunciato di essersi già sposata, salvo poi ritrattare chez Barbara D'Urso: "La promessa è stata fatta all'estero e presto ci saranno le nozze". Il "Prati Gate" è un gioco di incongruenze e non detti che monta di giorno in giorno, con colpi di scena tendenza Il bello delle donne e cinquanta sfumature di "lucherinata" (le "bufale d’autore" inventate dal mitologico press agent Enrico Lucherini) sfuggita di mano. In attesa del lieto fine, con tanto di esclusiva venduta a Verissimo, a dominare per ora sono i dubbi e le versioni contrastanti, che neppure le due agenti della Prati, Eliana Michelazzo (ex estetista ed ex corteggiatrice di Uomini e Donne) e Pamela Perricciolo (ex titolare di un negozio di scarpe a Chiaravalle, in Calabria), hanno sciolto fino in fondo. A cominciare dallo strano caso dei profili social di Marco Caltagirone: la pagina Facebook Mark Caltagirone Holding è misteriosamente sparita, il profilo personale invece è attivo ma l'imprenditore è così riservato che del suo viso non c'è traccia. E proprio da questo profilo sono stati inviati su Messenger due scatti che Alessia Bausone, dirigente regionale del Pd, giurista e dottoranda di ricerca in Teoria del diritto e ordine giuridico ed economico europeo all'Università "Magna Grecia" di Catanzaro"), ha mostrato a Panorama e che, nel rispetto della legge sulla Privacy non pubblichiamo. Nelle foto si vede un affascinante 50enne, brizzolato e abbronzato, dentatura perfetta e occhiali a specchio che ne celano lo sguardo. Se questo signore sia effettivamente Caltagirone è difficile dirlo perché affidandosi ad una semplice ricerca d'immagini su Google, in stile Catfish-False idendità (il docu-reality americano, diventato un piccolo cult), non emerge nulla. "Sono stata contattata su Facebook da tale Marco Caltagirone a gennaio 2018", spiega la Bausone a Panorama. E qui la storia si complica, con tanto di intreccio politico locale perché, stando all'attivista politica, "l'obiettivo di Caltagirone era quello di screditare Wanda Ferro", oggi deputata di Fratelli d'Italia, all'epoca in procinto di essere candidata alla Elezioni Politiche. E sempre da questo profilo è emersa la relazione tra Caltagirone e la Ferro, con tanto di matrimonio datato 23 aprile 2016, poi prontamente smentito dalla stessa Ferro, via Dagospia: "Tengo a precisare che non sono mai stata sposata con alcuno, come si può facilmente verificare, e che non ho mai conosciuto personalmente Marco Caltagirone, al quale mi legano esclusivamente alcuni scambi di battute scherzose su Facebook risalenti ad alcuni anni fa". Ma il mistero s'infittisce.

La storia dei due figli in affido. La contorta vicenda - raccontata a capitoli a Domenica Live dalla D'Urso, poi da Caterina Balivo a Vieni da me e ancora dalla Venier a Domenica In e approfondita anche da Eleonora Daniele a Storie Italiane) - si ingarbuglia ancora di più dopo che la Prati ha rivelato di aver preso in affido temporaneo due bambini - Sebastian, 12 anni, e Rebecca, 6 - che però vivrebbero all'estero. "Non sono in Italia. In Italia queste cose vengono alla lunga, all’estero sono veloci", ha precisato la showgirl. E qui rientra in gioco la Bausone, che rivela: "Caltagirone mi parlò via Facebook del figlio Sebastian, che soffriva di una brutta malattia e per questo lo stava facendo curare a Miami. Ma poi, attraverso comuni amici, ho scoperto che questo Mark o Marco Caltagirone non è mai esistito e dunque anche le foto che mi sono state inviate sarebbero solo un clamoroso fake. La cosa che più m'indigna di tutta questa storia è l'uso strumentale che è stato fatto dei minori", attacca la politica, che rivela di essere a conoscenza di dettagli ancora più circostanziati sulla Perricciolo. Quali, non si sa. Di certo c'è che Caltagirone parla spesso di Sebastian nel suo profilo Facebook - ancora visibile - ma l'ennesima stranezza scatta facendo un'altra semplice ricerca, sempre via Google. Digitando l'indirizzo mail segnalato sulla pagina Instagram dell'imprenditore, si arriva prima alla Mark Caltagirone holding (non più disponibile), poi al profilo di un giornalista milanese che nulla a che vedere con il futuro marito della Prati. Perché?

Il malore della Prati e l'esclusiva delle nozze. Come se non bastasse, la trama s'infittisce per via dell'articolo "Marco Caltagirone-Imprenditore e galantuomo", un'intervista pubblicata sul un blog de Il giornale, a firma Antonella Grippo, che prima viene accreditata come ufficio stampa di Caltagirone poi specifica: "Non ho mai incontrato questa persona, non ho mai sottoscritto alcun contratto". L'intervista sparisce, lei prende le distanze dal duo Michelazzo-Perricciolo, ma sul web ne resta traccia e i dubbi aumentano. "Il matrimonio ci sarà, basta illazioni: vedrete presto Mark", sbottano le due agenti della Prati, che minacciano querele (anche all'ex fidanzato della Prati, Luigi Oliva) e rivelano che la showgirl ha accusato un malore causato dallo stress. "Ma quale malore, qualche sera fa stava benissimo e ha parlato al telefono con una mia amica", replica la Bausone. Di certo c'è che la Prati dopo quarant'anni di carriera gode di una ritrovata visibilità mediatica e ora tocca aspettare l'esclusiva delle nozze a Verissimo: "Le immagini del grande giorno saranno commentate in studio dalla protagonista nel corso di una lunga intervista", precisano da Mediaset. I preparativi procedono e mentre l'atelier conferma di avere già preparato l'abito per la sposa, sui social l'ironia si moltiplica con un prevedibile effetto valanga. "Voi lo sapete che non ci sarà nessun matrimonio?", azzardano in molti. Il lieto fine, insomma, è ancora tutto da scrivere. La verità sul caso Prati, pure.

Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 14 aprile 2019. "Esistono storie che non esistono", diceva Maccio Capatonda qualche anno fa nell' incipit di un suo famoso trailer. Sembrava una battuta, poi è arrivata la storia del matrimonio di Pamela Prati e abbiamo capito che Maccio aveva ragione. Premetto che per capire qualcosa della vicenda bisogna aver dormito almeno otto ore, non aver consumato alcol negli ultimi due anni e avere il QI di Carlo Rubbia. C'è gente che ha provato a trovare il capo e la coda della storia ma ha rinunciato chiedendo un cubo di Rubik per dedicarsi a imprese più facili. Io stessa, nel tentativo di comprendere questa vicenda, sono stata avvinta da una serie di dubbi indicibili, tra cui - alla fine - quello sull' esistenza della stessa Pamela Prati. Una donna identica dal 1987 e taglia 38 a 60 anni suonati non può esistere davvero, mi sono detta. Ho dovuto chiedere conferma della sua esistenza a Martufello. Che ha confermato. E nella vita si può dubitare di chiunque, ma di Martufello, Papa Francesco e Alberto Angela mai. Cercherò quindi di ricostruire la surreale vicenda perché in effetti è la prima gag dell' ex star del Bagaglino che fa davvero ridere. Dopo che avevamo perso le tracce di lei da un po', a febbraio Pamela Prati annuncia nel programma radio Un giorno da pecora che si sposerà. Ha da poco compiuto 60 anni e tu guarda, proprio a 60 anni, quando ormai aveva perso ogni speranza di incontrare l'uomo giusto, a una festa si è imbattuta in Mark Caltagirone. Che non è uno dei Sopranos né la nuova linea di abbigliamento di Fabrizio Corona, ma un 53enne milionario, laureato, che ha costruito oleodotti in Libia, nonché ospedali e centri commerciali in Corsica e Cina. Il grande business dei centri commerciali in Corsica che ha lo stesso numero di abitanti di Bari, certo. Ma non è finita qui. Nel suo personale 50 sfumature di grigio riscritto da Pingitore, Mr Grey non è solo milionario, bellissimo, generoso, pronto a sposarla e a portarla con lui nelle sue ville sparse per il mondo preferendo Pamelona a tutte le ventenni in circolazione già scartate da Briatore, ma ha anche prole. Quindi Pamela racconta che hanno due bambini in affido e che si chiamano Rebecca e Sebastian. Dice commossa: "Sebastian ha 11 anni. Ora, c' è anche Rebecca, di sei. Mangia che dio la benedica, è ballerina come me, mi somiglia, ha i miei stessi occhi, i miei stessi capelli. Lui è un principino biondo, con gli occhi azzurri, vuole fare l' astronauta. Mi chiamano mamma e non c' è emozione più bella di sentire la pienezza di quella parola". E certo. Vedi il caso. Una bambina in affido uguale a lei, con i suoi occhi e i suoi capelli, un eccezionale caso di "dna volatile", roba che se lo sanno i difensori di Bossetti fanno scrivere la richiesta di revisione del processo a Pamela Prati. Il bambino biondo con gli occhi azzurri che vuole fare l'astronauta poi è ancora più credibile. Capisco che Pamela è del '58 ma qualcuno le spieghi che oggi a 11 anni i bambini vogliono fare i calciatori o gli influencer e che più che andare sulla luna vogliono andare nelle tendenze di Youtube. Fatto sta che ci cascano in tanti. Quel Menealo in curriculum avrebbe dovuto suggerire almeno un po' di prudenza (una che canta "Menealo un movimento nuevo che todo al mondo io insegnerò" è capace di tutto) e invece niente, neppure mezzo dubbio. Pamela va a Domenica in, dalla D' Urso, si fa intervistare da Chi, dal Corriere, da Vanity Fair, vende l' esclusiva a Verissimo, prova l' abito da sposa e dice "Bacio la fede e piango", "Mi sono già sposata", "Voglio vivermi la famiglia che ho sempre desiderato", "Non ho guardato la ricchezza materiale, ma la sua anima", "Ci siamo amati in altre vite" e in effetti potrebbe anche essere perché chissà quante altre vite si potrebbe essere inventata, a 'sto punto. Poi però i dubbi arrivano. Dagospia inizia a insinuare che qualcosa non torni finché non pubblica un' email anonima che riassume incongruenze e stranezze. I profili social di Mark Caltagirone non contengono alcuna sua fotografia, ma solo immagini di luoghi da sogno. Il profilo sarebbe stato creato dall' agenzia Aicos Management che è di Pamela Prati e di altre due socie. Il profilo di Mr Grey Mark Caltagirone interagisce "con falsi profili manovrati sempre da uno stesso gruppetto di persone, creati unicamente per accreditare l' esistenza di questi personaggi da soap opera". Il suo ex fidanzato Luigi Oliva racconta che in realtà Pamela è piena di debiti e le stavano per pignorare casa, allora lei replica che lo querelerà per violazione della privacy, poi nega di essersi già sposata ma giura di aver fatto solo la promessa e a chi le chiede perché lui non si mostri mai e non esista una sola foto che lo ritragga mentre mangia una pizza o beve un mojito in spiaggia, lei risponde che lui è geloso della sua privacy, non ama mostrarsi. E certo, del resto uno schivo si sposa Pamela Prati, mica un' impiegata Decathlon. Insomma, il dubbio che gira è che i problemi con le banche, Pamela, li sistemi vendendo falsi scoop. E voglio dire, in fondo sarebbe pure più nobile vendere una finta vita privata che quella vera, a ben pensarci. Solo che qui sembra trattarsi più di una vita provata, molto provata, ma andiamo avanti. Al mistero si aggiunge un altro mistero. Dal profilo Facebook di Mark Caltagirone risulta che lo stesso, nel 2017, si sia sposato con la deputata di Fratelli d'Italia, Wanda Ferro. Lei, del resto, gli metteva cuoricini, commentava qua e là, i due parevano essersi tatuati l'uno l'iniziale dell' altra. Contattata per capirci qualcosa, la Ferro fa la vaga: "Mai conosciuto Caltagirone, ci scambiavamo qualche messaggio simpatico su Facebook". Torniamo così all'inizio: esistono storie che non esistono. Viviamo in un momento storico in cui dal nulla è possibile inventare qualunque cosa, ma quel qualunque cosa non può durare più di qualche giorno senza essere passato ai raggi X e smentito. Viene fuori che nel 2009 la Prati aveva già avuto un fake matrimonio con l' argentino Sebastian Jabir (Sebastian, lo stesso nome del suo bambino in affido, vedi il caso). Un matrimonio che Pamela ha spiegato così: "Non mi sono mai sposata. Ero stata consigliata male. A un certo punto, mi hanno detto: di' che ti sei sposata a Las Vegas". E lei ha obbedito, insomma. Fortuna che non le hanno ordinato "Di' che sei un membro di al Qaeda" altrimenti oggi dovremmo andare a riprendercela a Guantanamo. Insomma, alla fine della storia possiamo trarre tre conclusioni: a) esiste una foto del buco nero, non esiste una foto di Mark Caltagirone b) se i mariti te li inventi e non ci scazzi tutti i giorni per i figli e le bollette a 60 anni resti giovane come Pamela Prati c) ora è arrivato il momento di scoprire se le fidanzate di Gabriel Garko sono mai esistite.

IL CASTELLO DI BUGIE STA CROLLANDO. Valerio Palmieri per ''Chi'' 24 aprile 2019. Non c’è solo Pamela Prati e il mistero del suo matrimonio con Mark Caltagirone nell’elenco delle vittime illustri di amori virtuali, costruiti ad arte fra profili social fasulli, foto di modelli stranieri spacciati per manager innamorati, cognomi altisonanti, storie tristi di parenti malati e bambini senza famiglia. E, in mezzo, sempre pochi gradi di separazione da Pamela Perricciolo e Eliana Michelazzo, le manager della Prati, titolari dell’agenzia Aicos. Quella che vi raccontiamo è la storia di un noto volto televisivo che, quando sono emersi i primi dubbi sull’esistenza di Mark Caltagirone e si è fatto avanti il sospetto che il matrimonio della Prati fosse stato creato ad arte per ingannare giornali, tv e forse la stessa showgirl, è saltato sulla sedia. Perché ha ripensato a ciò che era accaduto nel 2010. La persona, di cui non sveliamo l’identità, ma è famosissima, era stata agganciata su Facebook da un giovane medico che si era presentato come Lorenzo Coppi, figlio dell’avvocato Coppi. Da notare che Eliana Michelazzo risultava sposata con Simone Coppi, figlio dell’avvocato Coppi, prima che si scoprisse che è nubile e che Coppi non ha un figlio di nome Simone. Ma torniamo all’altro Coppi, Lorenzo, che aggancia la vittima su Facebook presentandosi come un ragazzo sui 35-40 anni, biondo, fisicato e con un cuore enorme. Nonostante viva a Roma, in un bellissimo attico con un imponente acquario dietro il letto, vola ad Haiti in missione per aiutare i bambini colpiti dal terremoto. Per questo si fa vivo solo con foto e messaggi. Racconta la sua storia triste, dice di aver perso la mamma in un incidente e di essere rimasto solo al mondo (il padre è molto impegnato). Così, dopo lunghe chiacchierate diurne e notturne con la vittima, dichiara di essersi innamorato perdutamente di lei. Il volto televisivo è solitamente diffidente ma, di fronte a un mix irresistibile di bellezza e sensibilità, perde la testa. Vorrebbe partire e lasciare tutto per raggiungere Lorenzo ad Haiti, ma lui frena perché il luogo non è sicuro. È a quel punto che il nostro personaggio viene contattato da Pamela Perricciolo, che si presenta su Facebook come manager di alcuni personaggi televisivi e amica intima di Lorenzo Coppi. Dice che Lorenzo è timido, ma è molto innamorato. Il volto televisivo è sempre più colpito, vorrebbe vedere di persona il ragazzo e decide di spedirgli un regalo importante. Per consegnarlo si rivolge all’autista di una collega che vive a Roma, affinché si accerti che Coppi abiti veramente all’indirizzo che aveva svelato durante la chat. L’autista fa una piccola ricerca e scopre che nel palazzo non abita alcun Lorenzo Coppi. Il nostro personaggio non dà molto peso a questo mistero, ma insiste con Lorenzo per sentire almeno la sua voce. Lui, alla fine, cede, e fissa un appuntamento telefonico di lì a pochi giorni. La sera stabilita, dopo un’attesa interminabile, Coppi chiama da un numero anonimo. Si mostra subito molto intraprendente, entrando in intimità con la vittima. Che, a parte l’atteggiamento meno romantico di Lorenzo rispetto alle chat, viene insospettita da un dettaglio: ha una voce da donna. Così, in un lampo di lucidità, prova a fare una veloce verifica: digita, da un altro telefono, il numero di Pamela Perricciolo che, però, in quel momento, risulta occupato. Allora chiude la telefonata con Lorenzo e chiama di nuovo la Perricciolo . Il telefono è libero, Pamela risponde. E la sua voce è precisa identica a quella di Lorenzo. Dopo l’amara scoperta il nostro volto famoso sparisce dai radar e cerca di riprendersi dalla delusione. Ritroverà la Perricciolo solamente alcuni anni dopo, coinvolta in questa storia di bugie, tradimenti e inganni. E penserà: ''Anche io sono stata Pamela Prati''. Poteva capitare a tutti.

Valerio Palmieri per ''Chi'' 24 aprile 2019. Le nozze di Pamela Prati si celebreranno a breve anche se lo sposo, Mark Caltagirone, non esiste. Non esiste per come è stato rappresentato finora, ovvero il ricco e affascinante costruttore che fa affari in Libia e che avrebbe conosciuto Pamela a una cena un anno fa. A sollevare i primi dubbi sull’esistenza di Caltagirone (un cognome evocativo, ma che nulla ha a che fare con la famiglia di costruttori romani) e a evidenziare le contraddizioni di questa storia è stato il sito Dagospia dopo che la Prati, lo scorso 31 marzo, è andata come ospite a Domenica in da Mara Venier. L’epilogo, che vi sveliamo dopo aver parlato con persone molto vicine ai protagonisti della vicenda, è ancora più sorprendente. Perché, nell’ottica di onorare la ricca esclusiva strappata a Verissimo (30 mila euro), le persone che hanno mosso i fili di questa storia, nonostante sia chiaro a molti che si tratti di una possibile messinscena, hanno studiato un piano di salvataggio. Si tratta di portare all’altare un uomo che interpreti Mark Caltagirone per girare il video delle nozze, che si svolgeranno in una tenuta superblindata in Umbria, per poi mandare la Prati dalla Toffanin a commentarle. A meno che, altro colpo di scena, lo sposo non si presenti perché travolto dalla pressione mediatica o da qualche incidente dell’ultimo momento. Finora i tentativi di dare un volto al misterioso Caltagirone sono andati a vuoto: c’è chi dice sia un brizzolato cinquantenne, ma il titolare dell’immagine che stava per essere diffusa ha già fatto sapere di non essere lui; chi dice sia biondo, chi ancora un modello straniero. Fatto sta che Pamela Prati custodisce sul telefonino la foto di un ipotetico Mark Caltagirone che mostra ad amici e ai vari soggetti coinvolti nell’organizzazione delle nozze. La showgirl insiste nel dire che sia tutto vero, lo ha appena ribadito a Verissimo, che si sposerà, che Mark esiste e che chi lo mette in dubbio lo fa solo per cattiveria. Le cose sono due: o è complice di chi ha organizzato questo raggiro mediatico, o è vittima. La Prati, infatti, potrebbe aver creduto all’esistenza di Mark Caltagirone e dei due figli presi in affido, che comunicavano con lei attraverso messaggi, chat su Facebook, foto e disegni, creati ad arte. E, anche se di fatto non ha mai visto Mark, almeno il Mark che è stato raccontato, si è fatta prendere la mano e ha svelato, nella famosa intervista alla Venier, di essere andata in vacanza con Caltagirone e con i figli, di averlo già sposato in Comune, di essere pronta per una nuova vita. «Vedi l’amore che cosa fa fare? È successo il miracolo», ha detto Pamela a Mara, «mia madre mi ha mandato il mio amore, mi ha mandato mio marito. Mi ha dato quello che io volevo, la mia famiglia. Non mi è stato regalato niente, la vita ci ha messo tanto». Parole struggenti per chi conosce la storia della Prati, costretta a vivere in collegio per nove anni dopo la separazione dei genitori e per i problemi economici della madre, ed era bello pensare che la vita l’avesse ricompensata. «Abbiamo due bambini in affido, Rebecca e Sebastian. Mara, io sono mamma...ti rendi conto? È una cosa bellissima. Con l’amore dei miei figli, di mio marito e delle mie migliori amiche, sono riuscita a superare la paura dell’aereo». Tutto molto bello, se non fosse che sembra anche molto fantasioso. E la Venier, che è talmente abile nell’esplorare l’animo umano da farne emergere le contraddizioni, è sembrata perplessa. Dagospia, poco dopo, ha cominciato a indagare e a scoprire che non c’erano le pubblicazioni di matrimonio, che non c’era stato il matrimonio in Comune, che i profili di Caltagirone e dei figli erano falsi e che il finto Caltagirone in passato aveva agganciato con modalità analoghe una deputata di Fratelli d’Italia che, poi, ha ammesso di non averlo mai visto. Nel box che trovate sulle prossime pagine leggerete anche l’incredibile storia di un volto noto televisivo che ha già avuto a che fare in passato con la manager della Prati per una vicenda simile. La “favola” di Pamela Prati con Mark Caltagirone inizia alla fine del 2018 quando, in occasione dei suoi 60 anni, la showgirl annuncia proprio a “Chi” di essere innamorata e di aver preso in affido due figli con il suo compagno, Marco Caltagirone. È in questo periodo che entrano in scena le figure chiave dell’agenzia Aicos Management, Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, che si occupano fra gli altri di Pamela Prati. Le ragazze si stringono intorno alla showgirl e iniziano a gestire con lei il “pacchetto” delle nozze. Dopo una copertina in abito da sposa (ma senza lo sposo), Pamela viene invitata in diversi programmi televisivi fino a che non va dalla Venier e mostra involontariamente le prime crepe della storia. Dopo che Dagospia ha sollevato il velo, giornali e trasmissioni televisive fanno a gara per svelare il bluff. Pamela e le sue manager, intanto, continuano i preparativi. Dopo le prove per il vestito si rivolgono per il rinfresco a una rinomata chef, ma poi cambiano idea e regione perché, probabilmente, attratte da un’offerta migliore. La Prati si mostra indignata e ferita verso chi solleva sospetti sul suo matrimonio, mentre le sue manager vanno in tv a difenderla, anche se ogni loro affermazione accresce i dubbi. Come quella che Caltagirone si troverebbe in Libia, uno dei posti più pericolosi al mondo visto che è in atto una guerra civile. La Prati è stata avvisata da alcuni amici intimi dei rischi di questa vicenda e della possibilità che sia stata manipolata. Ma la showgirl si mostra sfuggente, e c’è chi dice che non possa liberarsi tanto facilmente da questo intreccio. Di certo l’intera vicenda, con i suoi contorni da spy story, ha attirato molte più attenzioni di quanto non avrebbe fatto se il matrimonio fosse vero. E anche su questo dovremmo porci qualche domanda.

Giuseppe Candela per Dagospia 24 aprile 2019. "Moglie e mamma", la soap dell'anno con Pamela Prati, continua a regalare colpi di scena. Una storia, ripetono molti, che nemmeno Losito e Tarallo avrebbero mai potuto inventare. Il tempo di finire la frase e chi spunta fuori? Proprio Manuelona Arcuri! L'attrice è la protagonista della nuova puntata con un ruolo da guest star. Il mistero delle nozze non chiama in causa solo la showgirl sarda ma anche la sua agente Eliana Michelazzo. Anche lei vanterebbe nel curriculum un matrimonio fantasma con tale Simone Coppi, cognome altisonante, che ritorna come per Caltagirone, ma nessuna parentela con il noto avvocato. Dopo la partecipazione a Uomini e Donne diversi siti annunciavano le nozze dell'ex corteggiatrice con tanto di data: il 20 dicembre 2009, con i fan del date show di Maria De Filippi che non credevano affatto alle nozze lampo. "Ciao a tutti da oggi è ufficiale sono sposata con Simone, abbiamo fatto la promessa, poi il 21 dicembre faremo la cerimonia in chiesa. Spero che siete felici per noi … baci", scriveva la Michelazzo su Facebook, come riporta il sito MondoReality. Nel suo forum venivano pubblicate anche le foto con l'abito da sposa. I due sono arrivati all'altare? Il "marito" viene spesso taggato con foto anonime e mai appaiono insieme. La promessa, le foto del vestito, chi vi ricorda? La domanda ritorna: cosa c'entra Manuelona Arcuri? Proprio in quegli anni il misterioso Simone Coppi veniva presentato da decine di siti come ex fidanzato dell'attrice (è sufficiente googlare per accorgersi dell'associazione). Chi aveva trasmesso questa informazione e serviva forse per accreditarne il nome e la reale esistenza? "Io non so chi sia questo signore, non l’ho mai visto", dichiara Manuela Arcuri a Dagospia smentendo qualsiasi tipo di relazione con Simone Coppi. L'attrice, ora impegnata come concorrente a Ballando con le stelle, aggiunge dettagli interessanti: "Anni fa Pamela (Perricciolo, ndr), la socia di Eliana, mi parlava di lui perché voleva presentarmelo. Non solo, mi fece parlare al telefono con una persona ma sinceramente credo sia un personaggio completamente inventato", conclude l'attrice. La Arcuri dunque non ha mai avuto una relazione con Simone Coppi, non lo ha mai conosciuto di persona ma, cosa ancora più strana, la Perricciolo ci teneva a presentarglielo. Senza riuscirci, pare. Ha rimediato subito facendo sposare Coppi con la sua amica Eliana. Meglio di Uomini e Donne. La soap continua...

Da Oggi 24 aprile 2019.  In un’intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani l’ex soubrette di «Buona Domenica» Sara Varone racconta un’esperienza surreale dai contorni simili a quella della star del Bagaglino Pamela Prati, il cui annunciato matrimonio si è tinto di giallo. A unire le vicende, anche le due manager della Prati, Pamela Perricciolo (di cui la Varone era diventata amica) ed Eliana Michelazzo. Racconta la Varone: «Per alcuni mesi ho avuto una relazione affettiva con una persona che non è mai esistita. Esisteva invece un suo profilo Facebook, ed esisteva l’immagine di un ragazzo bellissimo capace di scrivermi tante parole che riuscivano ad aver presa sul mio cuore». La Michelazzo le disse che lui era tale David Lorenzo Coppi, nipote del noto avvocato Franco Coppi. «Ogni volta però che tentavo di incontrarlo, Pamela ed Eliana mi dicevano che creavo grossi conflitti in famiglia. Che David e suo padre, un importante magistrato, litigavano perché lui era insofferente a tutte le norme cautelari che doveva osservare per la sua sicurezza». E contatti telefonici? «No, perché dicevano che poteva essere intercettato… Ma un certo punto mi sono ribellata, gli ho scritto che volevo incontrarlo a tutti costi, altrimenti sarebbe finito tutto. Ed è successo l’inferno». L’ex soubrette rivela a OGGI la sua fragilità di quei momenti: «Non riuscivo più a frequentare altri che loro, uscivo solo con loro e mi sono ritrovata dentro una cosa più grande di me senza nemmeno rendermene conto». Fino alle confidenze con un amico e alla scoperta dell’inesistenza del presunto David Lorenzo Coppi. «Diedi a Pamela una somma di denaro. Poi ho cambiato numero e non ho più voluto avere niente a che fare con loro», dice a OGGI Sara Varone.

Comunicato stampa del “Maurizio Costanzo show” il 30 aprile 2019. “L’aitante giovane che aveva conquistato il mio cuore si chiamava Lorenzo Coppi. Anche io sono stato “Pamela Prati”. Diceva di vivere e lavorare ad Haiti. Io mi sono lasciato andare. Ho abbandonato le mie difese. In un secondo momento, quando ero disposto a raggiungerlo, lo volevo vedere, sul mio Facebook arriva il messaggio di tale Donna Pamela….che oggi è la manager della Prati. Cerco Lorenzo e lei mi fa parlare con lui ma era una voce da donna. Ci sono cascato anche io. E lo dico a malincuore”. Alfonso Signorini

PRATI DI BUFALE. Giuseppe Candela per Dagospia il 3 maggio 2019. "Non l'avrei mai fatta così questa balla, a che serve a lei?", così Enrico Lucherini commenta il caso Prati-Caltagirone al Maurizio Costanzo Show mentre il padrone di casa sentenzia: "Ci sono i pettegolezzi, ci sono i gossip e poi ci sono pure le stronzate. E questa lo è". Alfonso Signorini, come anticipato nei giorni scorsi, rivela di essere stato vittima delle agenti della showgirl sarda: "Io vi devo dire una cosa, lo rivelo a te (Maurizio, ndr) per la prima volta. L'ho fatto su questo numero di Chi per interposta persona perché ti confesso un po' mi vergognavo. Pamela Prati sono stata anch'io", dichiara il giornalista. Il direttore di Chi entra nel racconto:  "E' il 2009 (nell'articolo del settimanale si parla del 2010,ndr) quando vengo contattato sul mio profilo Facebook da un tale che si chiamava Lorenzo Coppi. Bello come il sole, atletico, biondo, stupendo. Mi contatta dicendo di essere un mio fan e comincia a instaurarsi un rapporto via chat. Lui medico in servizio ad Haiti per una missione umanitaria, voleva assolutamente conoscermi meglio. Non mi reputo un cretino ma ho lasciato andare tutte le mie difese e ho instaurato con questa persona un rapporto più profondo. Gli ho detto 'vengo ad Haiti', ero pazzo e succube di questa persona. Mi diceva di non andare perché non era una zona sicura ma che mi avrebbe chiamato lui quando era a Roma per incontrarci." Qui entra in gioco Pamela Perricciolo: "Nel frattempo vengo contattato sempre su Facebook da quella che si presentava come la sua migliore amica, si chiamava Donna Pamela, l'attuale manager di Pamela Prati. E' una storia inquietante perché l'ho vissuta sulla mia pelle e non mi reputo un cretino ma hanno fregato pure me. L'altra agente Eliana Michelazzo si dice sposata con Simone Coppi quindi il nome Coppi ritorna. A questo punto comincio a prendere contatti con questa Donna Pamela che era il mio trait d'union con Lorenzo Coppi, questo signore che non è mai esistito, diceva essere il nipote del famoso avvocato. A un certo punto metto alle strette lei e il fantomatico Lorenzo Coppi dicendo 'Io ti voglio vedere', era arrivato in Italia ma mi diceva che non potevamo vederci per ragioni di sicurezza perché lo zio era sotto tutela con la scorta." Poi la scoperta: "A quel punto ho detto di sentirci almeno al telefono, mi chiama e ho capito benissimo che era la voce di una donna. Ho capito che era tutta una truffa e ho lasciato perdere. Per essere chiari e senza ombra di smentite ho ancora su Facebook tutte le chat sia con la signora Pamela sia con Lorenzo Coppi." Costanzo chiede: "Queste non le ha fermate nessuno?", Signorini replica: "Sono molto abili. Ho sentito Pamela Prati in questi giorni e l’ho anche messa in guardia. Non ho ancora capito se ci è o ci fa, se è vittima o carnefice. Non nego che l’8 maggio si sposerà. Un prestanome che si faccia chiamare Marco Caltagirone lo troverà facilmente, basta pagare. Controllate i documenti.”

Anticipazione stampa dell'articolo di Alberto Dandolo per OGGI il 30 aprile 2019. Angelo Sanzio, noto come “il Ken umano italiano”, ex concorrente del Grande Fratello, racconta a OGGI, in edicola da domani, i suoi difficili rapporti con Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, manager della showgirl sarda Pamela Prati, il cui annunciato matrimonio con il misterioso Mark Caltagirone è diventato un giallo. «Amici in comune mi avevano consigliato di affidarmi a loro durante il periodo del Grande Fratello ma soprattutto per la gestione di serate e ospitate dopo il reality… Sa qual è la cosa più assurda? Mi costringevano a pagare i loro biglietti del treno per Milano ogni volta che ero ospite nelle trasmissioni Mediaset». A un certo punto (Pamela Perricciolo, ndr) mi chiese se avevo la possibilità di procurarle una sim non tracciabile. Motivò questa richiesta dicendomi che le serviva per “colpire” una nota parlamentare che le aveva creato, a suo dire, problemi… Mi promise 100 mila euro, una cifra importante e inverosimile che rifiutai perché si trattava di qualcosa di poco trasparente», racconta. E sulla vicenda Prati-Caltagirone dice: «Eliana Michelazzo organizzava serate a Roma in un ristorante. In quelle occasioni ho spesso incontrato Pamela Prati. Lei mi raccontò di questa sua storia con Mark. La Perricciolo mi mostrò qualche sera dopo la foto di un diamante a forma di cuore che Caltagirone voleva regalare alla futura sposa. Mi chiesero di cercarlo dicendo che al momento del pagamento, circa 200 mila euro, se ne sarebbe occupato Mark. Poi non se ne fece più nulla… Io Mark non l’ho mai visto, mai, in un anno e mezzo non è mai capitato di incontrarlo o sentirlo… Solo dopo la mia decisione di lasciare l’agenzia Aicos, si è fatto vivo prima attraverso Instagram e con toni abbastanza accesi. Diceva di essere in Siria… e mi specificò che era pronto a pagare anche tre avvocati per tutelare Pamela e la società Aicos che la showgirl dice di dirigere». Ma si era mai parlato di nozze?

QUESTO MATRIMONIO S’HA DA POSTICIPARE. Fabiano Minacchi per Bitchyf l'1 maggio 2019.  A distanza di una settimana dalla data delle nozze (fissate per mercoledì 8 maggio), posso darvi in esclusiva la notizia che Pamela Prati ha deciso di posticipare l’evento, è ufficiale. Di quanto non mi è dato saperlo, ma la mia fonte ha parlato di circa una settimana. Il matrimonio dell’anno (macché dico dell’anno, del secolo) si sarebbe dovuto tenere a Villa Pazzi al Parugiano, una location esclusiva a Montemurlo, in provincia di Prato, ma qualcosa sembrerebbe essere andato storto dato lo slittamento di una settimana. Pamela Prati e la sua manager Pamela Perricciolo (senza Mark Caltagirone) sono arrivate in quel di Prato la scorsa settimana in piena notte per stipulare in gran segreto (e lontani da occhi indiscreti) gli ultimi accordi con le varie attività pratesi che avrebbero dovuto prender parte alla cerimonia come catering, decorazioni e sicurezza. Anche l’abito da sposa Pamela Prati se lo è fatto fare in Toscana, più precisamente a Signa, in provincia di Firenze, da un noto atelier che in passato ha già vestito alcuni personaggi famosi di Uomini e Donne nel giorno del loro matrimonio come Cristian Galella e Tara Gabrieletto ed Eugenio Colombo e Francesca Del Taglia. Sembrerebbe anche (il condizionale è d’obbligo) che questo atelier in passato abbia stipulato degli accordi commerciali con alcune spose per la promozione dei propri abiti, ma non so se effettivamente lo abbiano fatto anche con Pamela Prati. Questo matrimonio fra Pamela Prati e Mark Caltagirone a Prato, s’ha da fa?

QUANTI MARK CALTAGIRONE (NON) ESISTONO? Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano” l'1 maggio 2019. E fu così che anche Alfonso Signorini ammise "JesuisPamelaPrati". Anche lui, direttore di una testata di gossip, sgamato 55enne capace di fiutare inciuci e amorazzi altrui, è cascato nella trappola delle agenti di Pamela Prati, e ha ammesso di essersi innamorato di un uomo inesistente. Cosa che a quanto pare è accaduta anche a Manuela Arcuri, a Sara Varone e chissà a quanti altri. Ha confessato di essersi fatto fregare, insomma, da qualcuno che su Facebook si era costruito un' identità maschile fascinosa e inesistente. Ci sarebbe da riderci su, ma a questo punto, mettendo insieme i pezzi del puzzle, la vicenda comincia a sembrare un fenomeno 2.0 i cui contorni sarebbero quelli di una vera truffa sentimentale. Qualcosa che potremmo chiamare Ghost lover scam: la truffa del fidanzato fantasma. Perché sì, la storia del finto marito di Pamela Prati, inizialmente è sembrata solo un divertente teatrino messo in piedi per racimolare copertine e cachet, ma con il sopraggiungere di nuove testimonianze, ha preso un' altra direzione, una direzione in cui io stessa mi sono imbattuta circa un anno fa. Partiamo dall' inizio. A febbraio Pamela Prati annuncia che a 60 anni sposerà un uomo meraviglioso incontrato da poco, tale Mark Caltagirone. Poco dopo si scoprirà che tale Mark non esiste, se non su Facebook, e che dietro il suo profilo ci sarebbero le agenti della Prati Eliana Michelozzo e Pamela Perricciolo. Le due, legate da un rapporto molto stretto, negli anni avrebbero gestito anche altri falsi profili maschili quali "Simone Coppi" e "Lorenzo Coppi" con cui corteggiavano alcuni personaggi noti tra cui appunto Alfonso Signorini. I profili fantasma sono irresistibili: Lorenzo Coppi, come raccontato da Signorini, è un biondo filantropo che vive ad Haiti. Simone Coppi, come descritto da Sara Varone, è il figlio di un importante avvocato. Mark Caltagirone un ricco imprenditore. E così via. Tutti fascinosi, romantici, ma imprendibili. Capaci di mille attenzioni, di promesse d' amore eterno ma con una cartucciera carica di scuse ogni volta che gli si chiedeva un incontro dal vivo. Ma come si fa a cascarci? Va bene una settimana, ma poi si capisce che qualcosa non va, no? E invece, da quello che ho scoperto, il Ghost lover scam è un fenomeno in cui inciampano anche persone sveglie, sgamate e per un periodo di tempo che arriva anche ad anni di "relazione". E non solo. L' aspetto interessante è che i predatori, coloro che costruiscono questi profili maschili, sono quasi sempre donne, e nella quasi totalità dei casi lesbiche o bisessuali. Alcune conducono normali vite da donne sposate, e sul web vivono una realtà alternativa; altre giocano a sedurre ragazze che mai accetterebbero il loro corteggiamento. Non ci sono fini economici o tentativi di truffare l' altra persona (il Romance scam, fenomeno descritto anche dalla Bbc), anzi. E le prede descrivono questi rapporti col ghost lover come vere e proprie relazioni sentimentali, in cui l' aspetto romantico prevale su quello erotico. Mi sono imbattuta in diversi casi che si somigliano tutti. Il più clamoroso coinvolge almeno una decina di ragazze, tutte cadute nella rete di tale Jolen. Questo Jolen, dal 2015 in poi, contatta una serie di ragazze su Facebook. Si presenta con un profilo che ha già varie amicizie in comune con le sue "vittime": ragazze molto carine, over 30, e con vari problemi personali, chi con un fratellino o un papà morto da poco, chi con separazioni in corso. Jolen le corteggia, inizia delle relazioni, parla al telefono con tutte più volte al giorno e di notte, fa promesse, litiga e si riappacifica per gelosia, promette matrimonio e figli, manda regali anche costosi, parla con i parenti delle ragazze, compresi eventuali figli. Quando è il momento di incontrarle, però, inventa sempre una scusa: muore un parente, ha un problema lavorativo e così via. Con alcune la storia dura mesi, con altre anche due anni. Finché un giorno non fa un bonifico a una delle sue fidanzate, e quella va a vedere l' intestatario del conto. Scopre che si tratta di A., una donna, sposata, che vive in Basilicata. E anche il cellulare da cui la chiama è intestato a lei. Parlo a lungo al telefono con A., mi dirà che ha un rapporto irrisolto col sesso femminile, che riusciva a modificare la sua voce, poi che Jolen non era lei, copriva qualcun altro. I suoi amici più stretti confermano che Jolen sia lei. Da questa storia, le ragazze sono uscite traumatizzate e incredule. La storia di Chiara è simile. Sta attraversando un periodo difficile, la contatta su fb tale Lucio che si presenta come un ragazzo siciliano che lavora a Milano per Unicredit. Inizia una relazione sentimentale via chat e telefono che dura mesi, lui contatta anche le amiche di lei, le fa trovare delle sorprese con il loro aiuto (fiori, regali), ma quando è il momento di vedersi, gli muore sempre un parente. Alla fine Chiara scoprirà che il numero di telefono da cui Lucio la chiama è intestato a tale Francesca B., e che le foto di Lucio sono rubate dal profilo di un modello brasiliano. Donatella invece si imbatte su fb in "Alessandro" nel 2010. "Per me fu facile innamorarmi di lui. Era bellissimo, mi attraeva mentalmente, era colto, sensibile, sapeva cosa dire a una donna. Per 4 mesi abbiamo parlato al telefono giorno e notte, aveva una voce maschile. Poi per caso ho scoperto che si chiamava Carmen. Superato il trauma, le ho chiesto di incontrarci, avevo bisogno di sapere con certezza che 'lui' fosse una donna. Lei ha accettato: sapeva tutto quello che ci eravamo dette in mesi di intimità, Alessandro era lei. Era lesbica, ho scoperto che aveva fatto lo stesso con tante ragazze". In un altro caso, le ragazze coinvolte sono alcune decine e qui il protagonista è tale "Harry", fratello di tale Victoria che però in alcuni casi si chiamava Francesca o Shuela, a seconda della ragazza che abbordava via social. Le vittime non solo si innamoravano di Harry, ma stringevano una forte amicizia con sua sorella e varie amiche, peccato che dietro ogni profilo si nascondesse la stessa persona, nello specifico tale Francesca C. D., sposata, di mezza età. Ma c' è anche la storia (incredibile) di Serena che ha una relazione sentimentale di mesi con un ragazzo e poi scopre che a parlare con lei era sempre e solo la sorella di quel ragazzo. "Non so quanti alberghi, quanti voli prenotati, quanti regali, quanti bonifici ho fatto Tu dirai: ma entravi nella vita delle ragazze, spesso con dei problemi Mi sentivo importante, realizzavo i loro sogni", mi ha spiegato una di queste predatrici. Già. Fatto sta che il giochino del "Ghost lover scam" si lascia dietro parecchie vittime. E non tutte poi vendono l' esclusiva della fregatura a "Verissimo".

Niccolò Maggesi per Novella 2000 l'1 maggio 2019. Dopo le maldicenze che hanno provato a tingere di giallo la notizia delle sue nozze, Pamela Prati è ufficialmente passata al contrattacco. Mentre ancora fa le spese dei pettegolezzi sull’esistenza del futuro marito, l’imprenditore Marco Caltagirone, la showgirl ha infatti assunto Carlo Taormina per curare i suoi interessi. L’avvocato è uno dei professionisti più in vista del suo settore, noto specialmente per aver già difeso personaggi parecchio discussi della cronaca e della politica. Quando Novella 2000 lo ha raggiunto Taormina si trovava nel momento più delicato della sua preparazione, vale a dire l’esame delle carte. Ma cosa può dirci a proposito di quelle denunce alle quali Pamela Prati ha minacciato di fare ricorso per tutelare la propria immagine?

“Intravedo due filoni: uno penale e uno civilistico, più inerente alla mera tutela della privacy”.

Ma arriveranno davvero le querele, gli ha domandato Gisella Desiderato sul nuovo numero di Novella 2000 in uscita mercoledì 1 maggio 2019?

“In questi giorni partiranno azioni legali“.

È il commento secco di Taormina, che preferendo legittimamente non esporsi sulle scelte personali e sul matrimonio di Pamela Prati con il compagno Marco Caltagirone, non esclude esistano gli estremi per parlare di diffamazione contro la sua assistita.

“Ho individuato situazioni in cui si è andati oltre il segno della semplice violazione della privacy, altre in cui si rientra nella mera violazione della privacy, per cui ci possono essere azioni civili che puntano al risarcimento, azioni davanti al Garante della Privacy per chiedere l’interdizione di certi comportamenti. Possono essere fatte tante cose, vedremo…”.

Tra coloro che potrebbero essere colpiti dalle azioni legali di Pamela Prati c’è Fanpage. Il portale di informazione e gossip è fra coloro che più di tutti ha registrato presunte incongruenze sull’identità dell’imprenditore che sposerà la showgirl. In un caso del genere si può parlare di denuncia per diffamazione o di calunnia?

“(Fanpage.it) ha pubblicato delle cose, che sono sotto la mia particolare attenzione. Questo è un ragionamento che farò quando stenderò gli atti, non ora”.

Infine, Novella 2000 ha anche chiesto a Taormina se, lasciate per un attimo da parte le grane legali, non si sia mai imbattuto in Caltagirone. L’avvocato, come a proposito delle denunce di cui Pamela Prati aveva accennato in un’intervista a Verissimo, ha però proseguito sulla strada della reticenza…

“Conosco Pamela Prati da trent’anni perché ero un affezionato del Bagaglino e amico del regista Pier Francesco Pingitore. Certo che Pamela è rimasta bella, anzi forse è più bella di prima, nonostante l’età sia trascorsa per tutti. È una donna interessante…”

Fortunato Marco Caltagirone.

“Ehh…”

Pamela Prati news: data e location del matrimonio. Secondo le news che è in grado di anticiparvi Novella 2000, il matrimonio di Pamela Prati si celebrerà in data mercoledì 8 maggio e verrà immortalato dai soli obiettivi delle telecamere di Verissimo. Da tempo infatti è noto che la showgirl avrebbe preso accordi con la trasmissione di Canale 5 per un racconto esclusivo della cerimonia. Le immagini si potranno dunque vedere in TV soltanto il sabato successivo, vale a dire l’11 maggio 2019 dalle ore 15 circa. La data del matrimonio di Pamela Prati ha trovato conferma anche nelle parole di Cristiano Malgioglio, cui la lega un’amicizia di lungo corso. Il celebre paroliere, attualmente opinionista del Grande Fratello condotto da Barbara d’Urso, ha dichiarato di aver ricevuto l’invito alle nozze per telefono. Mistero invece sulla location, che qualcuno sostiene tuttavia potrebbe essere nella campagna umbra. Anche Malgioglio ha riferito di non aver ricevuto informazioni chiare sul luogo delle nozze, ma di sapere genericamente che queste si terranno “fuori”. Se poi dovrà preparare le valigie per una trasferta da Roma oppure all’estero, lo scopriremo solo nei prossimi giorni. Forse!

Pamela Prati, la telefonata del misterioso marito: «Ci sposiamo tra una settimana». Storia di un matrimonio surreale. Pubblicato giovedì, 02 maggio 2019 su Corriere.it. «Io sono molto stranito da tutta questa situazione»: non ha ancora mostrato il suo volto ma almeno ha fatto sentire per la prima volta, finalmente, la sua voce. Una persona, che si è annunciata come Marco Caltagirone, è intervenuta telefonicamente in diretta a «Live – Non è la D’Urso» (anche se, come ha precisato la conduttrice, non sono stati mostrati documenti a conferma dell’identità). «Dovremmo sposarci tra una settimana», ha annunciato lo sfuggente fidanzato di Pamela Prati, confermando quindi la data che finora era trapelata (8 maggio) e le nozze religiose. «Sono molto contrariato per quello che sta succedendo perché stiamo soffrendo tutti e soprattutto Pamela – ha aggiunto – non è bello tutto ciò. Non mi va di apparire e in questo momento non posso apparire perché ho un contratto di esclusiva». Di tutto il resto se ne parlerà in futuro, «in trasmissione da te, se per te va bene». Tra pochi giorni quindi, dopo insinuazioni e incertezze, ogni dubbio legato al matrimonio più atteso dell’anno sarà sciolto, e il tanto atteso sogno di felicità della showgirl dovrebbe diventare realtà. Ma come è cominciata l’avvincente soap che da mesi tiene banco sui giornali di gossip e nei salotti televisivi? Forse è meglio partire dall’inizio, ovvero il grande annuncio.

QUESTO MATRIMONIO NON S’HA DA FARE. Giuseppe Candela per Dagospia il 5 maggio 2019. Cresce l'attesa per la puntata finale di "Moglie e mamma", la soap dell'anno dedicata alle (finte) nozze di Pamela Prati e Mark Caltagirone previste il prossimo 8 maggio. Ci saranno e chi salirà sull'altare per pronunciare il fatidico sì con la showgirl sarda? Il sito BitchyF pochi minuti fa ha annunciato l'annullamento del matrimonio: "colpa" della pressione mediatica, da un mese dopo lo scoop di Dagospia siti e programmi tv si sono fiondati sull'affaire nozze. La manager Eliana Michelazzo a Non è la D'Urso aveva parlato dei problemi cardiaci dei futuri sposi, in precedenza il Corriere della sera aveva riportato di un malore della Pireddu (suo vero nome) e anche la Perricciolo a Oggi si era soffermata sulle condizioni di salute della primadonna del Bagaglino. Il capitolo finale prevede dunque l'addio all'altare per motivi di salute e per l'incapacità di gestire la pressione? “Curatevi la cattiveria. Trovo vergognoso che tutti vogliano essere protagonisti della mia storia parlando a vanvera e fingendosi amici”, ha scritto ieri la Prati su Instagram. Fonti beninformate da Mediaset fanno sapere a Dagospia di non ricevuto al momento comunicazioni ufficiali. Non hanno conferme per l'8 maggio ma nemmeno ufficialità su slittamenti della data o cancellazione definitiva del matrimonio. Verissimo, programma che detiene l'esclusiva delle nozze Prati-Caltagirone, avrebbe invitato la showgirl per sabato 11 maggio e sarebbe in attesa di una risposta. Invito, dunque, per fare chiarezza sul caso lasciando alla protagonista la comunicazione definitva. Mercoledì scorso Mark Caltagirone (o chi gli prestava la voce) ha telefonato in diretta a Live-Non è la D'Urso, abbiamo scoperto che aveva tentato già un intervento a Verissimo durante l'intervista alla futura moglie di qualche settimana fa. Il programma però aveva fermato tutto perché in assenza di documenti non poteva garantire sull'identità della persona dall'altra parte della cornetta. Le nozze, come immaginabile, non si celebreranno. Si studia una via d'uscita, la soap continua...

Fabiano Minacci per Bitchyf.it. Mancherebbero cinque giorni al matrimonio dell’anno fra Pamela Prati e Mark Caltagirone e nonostante vi abbia dato in esclusiva la notizia della posticipazione delle nozze (confermata nel backstage di Live Non è La d’Urso anche da Manuela Villa), il promesso sposo ha confermato la data in diretta da Barbara d’Urso. Data che si sta avvicinando e che vedrà finalmente Pamela Prati con l’abito bianco insieme al suo amato Mark Caltagirone ed i due figli in affido, Sebastian e Rebecca. Al momento però la showgirl avrebbe impostato la privacy sul suo profilo Instagram ed avrebbe sbottato sulle Stories contro i suoi “falsi amici”: “Curatevi la cattiveria. Trovo vergognoso che tutti vogliano essere protagonisti della mia storia parlando a vanvera e fingendosi amici”. E se ha usato parole forti contro i suoi falsi amici, è stata dolce con le sue due manager, Eliana e Pamela. “Eliana Michelazzo e donna Pamela due grandi donne. Vi voglio bene”.

Pamela Prati e Mark Caltagirone, matrimonio posticipato? Ecco cosa ha scritto FanPage: “Dietro le quinte ci sarebbero stati veri e propri attimi di panico subito dopo la fine del blocco dedicato a Pamela Prati. Tra le persone che erano presenti a difesa di Eliana Michelazzo, c’era molta inquietudine. Su tutti, Georgette Polizzi è apparsa tra le più tese. Proprio la stylist sarebbe disperata perché vorrebbe scappare a gambe levate dalla Aicos, che tuttora la rappresenta come agenzia. Anche Milena Miconi a fine trasmissione si è scagliata contro Eliana: “Non mi devi mettere più in mezzo a ste storie, per favore”, le avrebbe detto. Poi il colpo di scena: Manuela Villa, dietro le quinte, riceve una telefonata – non sappiamo da chi – e rivela: “Il matrimonio di Pamela Prati è spostato a data da destinarsi”.  Ancora un coup de théâtre prima che che a questa lunga e triste storia si metta la parola “fine”.”

Gabriella Sassone per Dagospia il 4 maggio 2019. Finora ad oggi gli amici veri (e forse unici) di Pamela Prati non hanno voluto parlare. Gli amici e colleghi che con lei hanno condiviso per anni le tavole del Bagaglino – Salone Margherita, dove è stata a lungo la primadonna. Nessuno ha voluto dire la sua sul giallo mediatico che sta infiammando siti, giornali e tv. Grazie allo scoop di Dagospia che ha smascherato per primo questa farsa (nella quale si intravedono anche diversi reati): il matrimonio stra annunciato della bella showgirl sarda sessantenne con un uomo che non esiste: “Fantomas” Mark Caltagirone. Come mai chi la conosce bene non ha mai detto niente? A partire dal regista del Bagaglino, grandissimo amico e pigmalione di Pamela, Pierfrancesco Pingitore, che mi ha personalmente risposto di “non sapere nulla di questa storia”.  E se poche ore fa il sito Bitchyf lancia lo scoop dell’annullamento delle nozze per “troppa pressione mediatica e perche Pamela ha dei problemi cardiaci”, cosa che la sottoscritta pensava dall’inizio di questo affaire, finalmente uno che la Prati la conosce bene entra a gamba tesa nella vicenda. Per difendere Pamelona. Si tratta di Mario Zamma, il bravissimo imitatore del Bagaglino. Ieri sera sul suo Facebook ha scritto un post durissimo e con vari errori grammaticali, causati forse dalla fretta. Mario pensa che Pamela stia male, molto male, pensa che sia stata ingannata e se la prende anche con i programmi tv che hanno continuato a inzuppare il biscottino su questa storia. Maurizio Costanzo compreso. Invece di oscurarla, come sarebbe stato più giusto fare. Anche perchè ogni gioco è bello quando dura poco. E questo è durato fin troppo. Sperando che non finisca in tragedia. Ecco quello che ha scritto Mario Zamma: (Dalla bacheca facebook di Mario Zamma) Per diverso tempo non ho detto nulla. Ora voglio dire la mia su questa vicenda di Pamela, premesso che non so realmente come stanno le cose e mi dispiace non saperlo visto che sono suo amico da più di trent'anni ho provato più volte a sentirla ma non mi risponde. Riproverò e andrò anche sotto casa se servirà. Però, come suo amico che le vuole bene, mi sono fatto una idea…Credo che Pamela stia male, tanto male, come tanti di noi. E anche se fosse, e anche se lei in qualche modo si sia fatta abbindolare da qualche truffatrice, persone malvagie può essere?, ha fatto una stronzata una grande stronzata e allora? La vogliamo distruggere per questo? È sempre una persona e un Essere Umano e un essere umano può sbagliare? o No!!! La verità è che viste come stanno le cose non possa più fare un passo indietro credo. Credo posso anche dire che è Indifendibile e Sti gran cazzi io la voglio Difendere. La Cosa più brutta e orrenda è che in questa vicenda nessuno o pochissimi che ho visto si stiano realmente preoccupando di come sta lei. La verità è che in questo il carosello mediatico voi media ci azzuppate solo il pane zozzoni e aizzate le platee con queste miserie umane. Fate Schifo...Mia Martini l"hanno fatta morire dicendo cose assurde su di lei. Ho visto ieri sera Il Costanzo Show nel parlare di lei tutti a deriderla una persona una vera signora del nostro mondo sicuramente molto meno colpevole di tante altre. Mi dovrei preoccupare del fatto che uno sta male e non della stronzata di cui stiamo parlando i(Noi del nostro Prezioso mondo intendo) Mi meraviglio di Lei Dottore Costanzo che qualche settimana fa a difeso pubblicamente a spadatratta Corona ..e mi ero meravigliato perché lei lo avesse difeso e perché mai poi ho pensato d'altronde una possibilità la si deve dare anzi la si dovrebbe dare. Perché lei non ha usato la stessa sensibilità, mi sono molto dispiaciuto. Bei tempi quando lei nella sua preziosa trasmissione ospitava gente del calibro di Falcone e Borsellino...Vedere quei servi giullari che ieri sera solo per farsi belli hanno dato i il peggio di loro ..Sicuro che nessuno di noi non abbia uno scheletro nell'"Armadio ...Diffidate dei moralisti.

PAMELA ED ELIANA MI HANNO ROVINATO. Gabriele Parpiglia per ''Chi'' il 7 maggio 2019. Ho collaborato con Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo per un anno intero. L’anno più brutto della mia vita». Emanuele Trimarchi ha conosciuto la popolarità in tv a “Uomini e donne”. Quando è uscito dal programma in coppia con l’ex miss Anna Munafò, i fan erano in delirio per i due: serate in discoteca, pubblicità, sponsor, eccetera. Piacevano. Poi la storia finisce, ma Emanuele era già lontano dall’amore e rinchiuso nel cerchio tra donna Pamela ed Eliana.

Domanda. Che cosa ha significato lavorare per le due agenti di Pamela Prati?

Risposta. «Perdere un anno di carriera, occasioni, vivere in una stanza senza porte e finestre perché loro prendono in mano la tua vita e la frantumano».

D. In che senso?

R. «Diventano “la tua famiglia”. Decidono chi devi frequentare, come ti devi vestire, ti rendono non rintracciabile, sei una marionetta. Io non potevo usare nemmeno il telefono. Ti fanno cambiare numero di continuo. Loro sono la paura».

D. Ripeto: in che senso?

R. «Io ero giovane, mi sono affidato a loro per inesperienza ed ero convinto che fosse giusto così. Non ragionavo più con il mio cervello. Loro ti “catturano”, ti manipolano psicologicamente. Prima prendono la tua fiducia. Io ero il loro “nipotino”. Ma allo stesso tempo la frase successiva era: “Devi fare come diciamo noi”».

D. Che cosa le hanno fatto fare contro il suo volere?

R. «Non volevano che uscissi di casa, che facessi foto con i fan, mi hanno imposto la giacca e il taglio di capelli, non volevano la storia con Anna e infatti alla fine ci hanno fatto lasciare. Lo sa come è andata?».

D. No, dica.

R. «Mi hanno fatto leggere alcune conversazioni, via Facebook, tra Anna e Danny Coppi, cugino di Simone Coppi, magistrato, nonché marito di Eliana. Ovviamente non esistevano né Danny, né Simone. Ma io quando ho letto le chat tra Anna e Danny ci sono cascato. Credevo anche a Simone Coppi: era un magistrato dell’antimafia che mi minacciava se non facevo quello che  dicevano Eliana e Pamela. Ho tutte le chat. Mi diceva che ero seguito e intercettato. In un anno ho perso 12 chili e ho anche pensato al suicidio. E intanto Eliana mi ripeteva: “Anna sente Danny, il cugino di mio marito”. Mi mostrava le conversazioni e rideva».

D. Perché non ha denunciato questo clima di oppressione? Perché non è fuggito?

R. «Perché avevo paura di Pamela e non mi faccia aggiungere altro».

D. Guadagnava soldi con loro?

R. «Mi davano 500 euro a serata. Io venivo dal cantiere, dove guadagnavo 40 euro al giorno spaccandomi la schiena. Per me era oro colato... quando me li davano. Poi ho scoperto che mi “vendevano” a 3.500 euro. Faccia i conti lei. Ma dei soldi poco mi importa. Oggi sono vivo e aspettavo questo momento da anni. Dicevo tra me e me: ma quando le “acchiappano”? Dimenticavo: per indossare un certo modello di braccialetti mi davano 100 euro al mese. Quando mi sono rifiutato, Eliana ha chiamato mia madre e le ha detto: “Quel bamboccio di tuo figlio…” (lacrime, ndr). Mi fermo qui».

D. Quando e come ne è uscito?

R. «Quando sono stato sputtanato pubblicamente. Io ho mandato un video dal mio cellulare a Pamela. Poco dopo quel video, in cui deridevo Anna e me ne pento, era sul web. Ho perso dignità, lavori, tutto, ho perso tutto. Quando ho chiesto spiegazioni, sono stato ancora volta preso in giro in malo modo. Peccato che il video fosse stato inviato ad Anna dalla stessa Pamela. Me lo ha detto Anna. Quel giorno, in cui volevo davvero morire, sono riuscito a bloccarle sul telefono, le ho bloccate sui social; mi sono rinchiuso in casa e ho iniziato a ricostruire il puzzle. Ho stampato tutto: messaggi, contratti, conversazioni fake e le ho consegnate al mio avvocato. Da quel momento non le ho più sentite. Potevo denunciarle alle forze dell’ordine, ho sbagliato».

D. Lei che ha conosciuto il “sistema”, che cosa ne pensa del “caso Pamela Prati”?

R. «Pamela è entrata nella “setta” come ho fatto io, lasciandosi andare in totale fiducia. Oggi è vittima di quel mondo “irreale” che ha massacrato anche me. Mi auguro che ne esca il prima possibile».

Gabriele Parpiglia per ''Chi'' il 7 maggio 2019. Questa è la cronaca del matrimonio più misterioso degli ultimi tempi, quello tra Pamela Prati e Mark Caltagirone. Talmente misterioso che lo stesso sposo sembra non esistere.  Ma lasciamo parlare i fatti. Pamela Prati, direttrice dell’agenzia Aicos Management, organizza la cerimonia nuziale (che, fin dall’inizio, mostra qualche crepa) con le sue due socie Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo,  La località prescelta è Villa Pazzi al Parugiano, nel comune di Montemurlo, provincia di Prato. La realizzazione dell’evento è affidata alla wedding planner Consuelo Di Figlia, l’allestimento floreale a Elena Mazzetti, l’abito viene commissionato allo stilista Andrea Guarnieri. In una recente intervista  Eliana  Michelazzo dichiara che i responsabili del luogo scelto per le nozze  avrebbero restituito al promesso sposo il suo assegno perché coinvolti in un battage pubblicitario totalmente negativo per la loro struttura. Affermazione smentita seccamente dai titolari, come leggerete qui di seguito. Intanto il matrimonio tra Pamela e Mark è saltato. A Mediaset (la trasmissione Verissimo avrebbe dovuto trasmettere le nozze in esclusiva) è arrivato un certificato medico. In attesa di altri e clamorosi sviluppi, “Chi” ha visitato la location del matrimonio e ha parlato con lo stilista di Pamela, la fiorista e la wedding planner. E, come leggerete, ne ha scoperte delle belle...

Marzia Rosati, proprietaria della location Villa Pazzi al Parugiano: «Ero con mio marito. Ricordo tutto con precisione. Quel weekend volevamo andare a Forte dei Marmi. Poi mia figlia Azzurra, che era in Cina, mi ha chiamato per dirmi che sarebbe arrivata un’ospite importante. L’ospite, insieme con la wedding planner Consuelo Di Figlia che ha fatto da ponte e la sua agente, si è presentata da noi intorno alle 20. Era Pamela Prati. Chi parlava, però, era sempre la sua agente, che poi ho riconosciuto guardando la tv: Eliana Michelazzo. È stata lei a chiedermi di recintare la struttura perché Pamela aveva fretta di sposarsi e ci sarebbero state le telecamere. Io invece rispondevo: ma quanti ospiti sarete? Quante stanze vi servono? Insomma, chiedevo banalmente che cosa servisse per il matrimonio. Le risposte erano vaghe. Eliana mi diceva che ci sarebbero state un centinaio di persone, Pamela invece 50. La storia non combaciava. E ancora: prenotano solo tre stanze. Una per Pamela da occupare la notte precedente alle nozze, una per lo sposo che non è mai stato citato, una per Eliana e suo marito. Stop. A loro non interessava nemmeno vedere il posto. Avevano solo fretta. La Prati? Mi è sembrata una bambina. Dal suo cellulare mi ha mostrato l’abito da sposa. Non saprei cosa dire. Di certo c’è che nessuno ci ha pagato. Col passare dei giorni abbiamo lavorato per rendere la struttura idonea alle nozze (come documentato dalle foto di “Chi”, ndr). Poi, guardando la tv e leggendo i giornali, abbiamo sentito puzza di bruciato. Pamela, con la sua squadra, l’ho vista solo quella sera. Chi ha intrattenuto i rapporti con noi è stata Consuelo, la wedding planner. Fino a quando a mia figlia è stato comunicato, sabato 4 maggio, che le nozze erano state rinviate. Noi oggi non vogliamo nessun soldo da questi signori. Un matrimonio così: mai visto in anni e anni di lavoro! Siamo brava gente e lavoratori onesti. Meglio rimanerne fuori a costo di rimetterci. E pensare che stavo facendo rientrare mia figlia dalla Cina per queste nozze. Abbiamo almeno risparmiato i soldi del biglietto. Che brutta storia...».

Elena Mazzetti, incaricata degli allestimenti floreali: «Io sono stata convocata per tutti gli allestimenti floreali. Purtroppo non c’è nessun contratto scritto con Pamela o Eliana. Il mio contatto è sempre stata la wedding planner Consuelo Di Figlia, una persona seria secondo me: lei ha coordinato tutto e mi ha commissionato tutto. So che in questo momento sta molto male per la situazione,  anche perché noi abbiamo lavorato. Ed è un lavoro saltato che definisco “grosso” (parliamo di una cifra che si aggira intorno ai 32 mila euro, ndr). Ho saputo che il matrimonio era stato annullato sabato 4 maggio nel primo pomeriggio. Adesso non so più che cosa dire. Preferisco prendere tempo. La situazione è assurda. Io ho visto Pamela ed Eliana una volta. Poi lo scambio di mail e messaggi l’ho avuto con la wedding planner. Davvero, è una storia che fa spavento. So che Consuelo Di Figlia in questo momento è nel panico. Non voglio difendere nessuno, ma è una brutta situazione. Bisogna uscirne fuori, perché noi siamo lavoratori seri e con questa storia così ingarbugliata non c’entriamo proprio niente».

Dialogo tra il giornalista di “Chi” e la wedding planner Consuelo Di Figlia: 2 maggio - ore 16.30

Domanda. Buonasera, è lei la wedding planner del matrimonio di Pamela Prati?

Risposta. «Assolutamente no!».

Telefono chiuso. Passano alcune ore e la richiamiamo.

D. Consuelo, mi scusi se insisto: sappiamo che lei sta organizzando il matrimonio della Prati. Può dire la verità? Ci sono persone che hanno lavorato per questa cerimonia.

R. «Le notizie su queste nozze le apprendo dalla tv. Io non sto organizzando nessun matrimonio. Ripeto: non lo sto organizzando. So che è a Prato, ma io non me ne sto occupando. Non avete un’altra wedding planner da chiamare? Io non sto organizzando nulla. Non sto seguendo il matrimonio della Prati. Io non ho nessun contatto. La villa la conosco, ma non ho altre indicazioni. Forse non è nemmeno quella la villa. Al momento non ho notizie».

D. Ce lo assicura?

R. «Sono stata contattata, ok. Mi hanno chiamato, anzi, mi ha chiamato un’agente di Pamela, Eliana Michelazzo. Ma non so niente. Non ho contratto. Poi ci sono altre persone a fare da tramite. Sono in stand by. Non so che dire».

4 maggio - ore 15.51: il matrimonio è appena saltato. Sul cellulare del giornalista di “Chi” arriva il seguente messaggio della wedding planner Consuelo Di Figlia: «Ci sentiamo appena puoi? (con emoticon che sorride, ndr). Fino ad adesso non potevo dire nulla,  ma naturalmente so tutti i dettagli che avevamo progettato. Mi stanno tartassando».

Le chiediamo le prove, dopo che lei al telefono ci conferma che Eliana Michelazzo le ha comunicato che il matrimonio è saltato, e Consuelo risponde così: «Ho messaggi, mail e parte della telefonata di lei (Eliana, ndr) di oggi. Poi tutta la chat con l’agente».

Poco dopo proviamo a chiamare Consuelo, ma prima manda una nota audio dicendo che sta guidando per andare a Bologna. Poi manda un altro sms per dire che sta guardando un’esibizione di  pattinaggio sul ghiaccio con alcune persone. A quel punto fa perdere definitivamente le sue tracce e non risponde più al telefono.

Andrea Guarnieri, lo stilista che ha disegnato l’abito da sposa di Pamela Prati: «Il lavoro da parte della signora Pamela Prati e della sua agente Eliana Michelazzo mi è stato commissionato a fine febbraio. Lei, Pamela, è stata sempre entusiasta. Chiariamo: ha fatto la copertina di un settimanale con un mio abito e non con quello ufficiale (avrà commissionato l’abito soltanto per realizzare  il servizio fotografico, ndr?). Mi ha chiesto anche delle modifiche da fare al vestito a suo piacimento. Il costo? Non lo dico, ma non è una prima linea, diciamo, non lo è assolutamente. A differenza degli altri, però, io i soldi li ho presi perché altrimenti non avrei mosso un dito e Pamela, ripeto, sembrava felice durante le due, tre prove che ha fatto. Oggi che è arrivata la disdetta delle nozze, l’abito è in magazzino. Me lo ha comunicato la stessa Pamela Prati al telefono. Mi ha detto: “Volevo dirtelo io perché mi sembrava giusto. Il matrimonio è rinviato”. Io le ho risposto che mi dispiaceva e che avevo bisogno di conoscere la nuova data perché, nel caso passasse troppo tempo, bisogna fare degli accorgimenti dal punto di vista sartoriale. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere. Vedremo. L’abito è qui, fermo. Io, comunque, i soldi li ho presi (e, prima di salutarci, si lascia scappare che il costo è superiore ai duemila euro, ndr)».

L’assurda vicenda delle nozze di Pamela Prati: ora il matrimonio è rinviato. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. Con la sua telefonata a «Live – Non è la D’Urso», che a molti ha fatto tornare in mente la celebre chiamata fantozziana con «l’accento svedese», Marco Caltagirone – promesso/presunto fidanzato di Pamela Prati – ha solo peggiorato le cose. Prima di tutto perché il giallo sulla sua identità non è stato affatto chiarito (nè in trasmissione nè nei giorni successivi sono stati mostrati documenti ufficiali e di fatto chiunque avrebbe potuto spacciarsi per lui). Secondo: al di là di questo fondamentale dettaglio – l’esistenza dello sposo – anche il matrimonio è rimasto avvolto nel mistero tra location fantasma e prenotazioni annullate all’ultimo momento per la troppa attenzione mediatica. Senza contare che curiosamente, in tutto questo tempo, non è mai comparso mezzo invitato a confermare pubblicamente la sua partecipazione alle nozze dell’anno. Per cui l’epilogo, annunciato dalla rivista Oggi (che sarà in edicola da giovedì 9 maggio), non deve aver sorpreso nessuno: «Il matrimonio è rinviato a data da destinarsi», ha confermato in un’intervista l’agente della showgirl Pamela Perricciolo, «si farà più in là, ma la data non è ancora stata fissata». Prati al momento starebbe molto male («ha perso non so quanti chili, ha bisogno di riposare») e Marco, che «si trovava all’estero», starebbe tornando in Italia «per starle accanto». Almeno per il momento insomma si può scrivere la parola fine sulla tormentata vicenda, e chi si fosse perso le ultime tappe può ancora rinfrescarsi la memoria partendo proprio dalla chiamata dell’imprenditore in diretta da Barbara D’Urso.

Da Donnaglamour.it il 7 maggio 2019. In queste ultime ore si stanno rincorrendo, sul web, diversi rumors secondo cui Luigi Oliva starebbe rivedendo Pamela Prati, sua ex compagna. Il noto imprenditore bresciano, d’origine napoletane, contattato dalla nostra redazione, ha deciso però di smentire le voci riguardo questo ritorno di fiamma. La storia d’amore tra Luigi e Pamela, conosciutisi per caso, poteva essere l’inizio di una favola, ma purtroppo il lieto fine non è mai giunto. Luigi Oliva e Pamela Prati non si stanno rivedendo. A dirlo, a gran voce, è stato proprio l’ex compagno della soubrette de Il Bagaglino, che dopo le diverse indiscrezioni uscite sui diversi siti, ha deciso di dire la sua. «La mia storia con Pamela Prati è finita più di un anno fa. Non ci siamo più visti, né sentiti precisamente da giugno 2018. Non capisco chi abbia messo in giro una notizia del genere. Io non ho più contatti con la Prati e non voglio essere buttato in mezzo proprio adesso. Sono uscito da questa situazione anni fa e va bene così. A lei auguro il meglio e nonostante tutto se mi cerca e ha bisogno io ci sarò sempre per lei». Lapidarie le parole di Luigi Oliva che oggi pensa solo a curare i suoi interessi professionali e si occupa della sua bambina, l’amore più grande della sua vita. Un uomo, Luigi, che crede fermamente nel sacro vincolo del matrimonio. Lui, altamente credente, come dimostrano anche alcune foto che pubblica su Instagram, nella Prati purtroppo non ha ritrovato quegli stessi valori con cui è cresciuto. La storia d’amore tra Luigi e Pamela Prati, è iniziata per caso. Nell’estate 2017 entrambi si trovavano a Capri per una vacanza. L’ex soubrette de Il Bagaglino ha notato subito l’imprenditore, più giovane di lei di diversi anni, rimanendone colpita e affascinata. Negli otto mesi di successiva relazione, inoltre, Luigi ha deciso di compiere un gesto importante regalando alla Prati un anello. «Non le ha mai chiesto di sposarla – ha proseguito Oliva – avevamo parlato solo di convivenza». L’anello è giunto il giorno del compleanno di Pamela, come gesto d’amore, quel cimelio di famiglia per lui aveva un valore inestimabile ed è anche per questo che ha chiesto che gli fosse restituito.

Pamela Prati e le nozze immaginarie: qualcuno però ci ha lavorato veramente (e non è stato pagato). Pubblicato giovedì, 09 maggio 2019 da Corriere.it. Il matrimonio saltato di Pamela Prati e Marco Caltagirone non è più un giallo, è diventato un vero e proprio reality surreale: rinviare le nozze «a data da destinarsi» infatti non è servito a spegnere i riflettori sui due promessi sposi e tutto il resto della brigata (le due agenti Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo). Anche perché, va detto, sono proprio i diretti interessati ad alimentare il chiacchiericcio: nel giorno in cui sarebbe dovuta diventare «mamma e moglie» la showgirl ha pubblicato un video su Instagram in cui si intravede un uomo (o meglio, le sue mani e il suo mento) alla guida. A «Live – Non è la D’Urso» invece è stato mostrato uno scatto rubato realizzato da un paparazzo sotto casa della showgirl, in cui si vede la futura signora Caltagirone insieme ad un uomo – non è chiaro se si tratti della stessa persona ripresa in auto – ovviamente immortalato di spalle e con un cappellino in testa. Ormai però, dopo aver collezionato non solo fidanzati di cui ancora non è stata provata l’esistenza ma anche persone, quelle sì concrete e reali, che hanno raccontato alla rivista Chi di aver lavorato al matrimonio e di non essere ancora state pagate, oltre a personaggi televisivi che hanno denunciato di essere stati raggirati in passato dalla coppia di agenti (Alfonso Signorini e Sara Varone), ci vorrà ben altro che una foto sfocata per dare ancora credito al sogno d’amore di Pamela. Che sabato, è stato annunciato, sarà di nuovo ospite a «Verissimo»: presumibilmente si parlerà delle nozze rimandate, ma non si potrà non ricordare come si è arrivati a questo punto.

Fabiano Minacci per bitchyf il 10 maggio 2019. Bomba dalla registrazione di Verissimo. Pamela Prati poco fa si è presentata alla corte di Silvia Toffanin per giustificare il matrimonio annullato (come vi avevo svelato in anteprima sabato scorso). La conduttrice non ha creduto alle parole di Pamelona, che ha abbandonato lo studio per chiamare Mark Caltagirone, ma non è più tornata. Riccardo Signoretti ha svelato quello che vedremo sabato pomeriggio. Con una scenata simile prevedo picchi di share oltre il 30%. Si sta registrando in questi minuti la puntata di Verissimo con ospite Pamela Prati insieme con la manager-agente Eliana Michelazzo. Andrà in onda sabato ma posso anticipare i contenuti dello scontro tra la Prati e la padrona di casa. La conduttrice Silvia Toffanin sbrocca: «Mi sento presa in giro. Io come Barbara d’Urso. Vorrei crederti con tutta me stessa ma è impossibile, non posso nemmeno credere all’esistenza di Mark Caltagirone».

– Mark Caltagirone, promesso sposo della Prati, ha rifiutato di partecipare a Verissimo perché non voleva firmare la liberatoria/contratto. Pare abbia detto che è talmente ricco da non volere compensi e pertanto non intende firmare alcun documento.

– La Toffanin chiede a Pamela Prati di farle vedere una foto di Caltagirone sul telefonino, ma l’attrice si rifiuta.

– Pamela Prati: «L’unico sbaglio che ho fatto è venire in Tv a parlarne. Se ne sta facendo un caso di Stato. Basta col dire che Marco non esiste! Esiste eccome. Ma non sono io che devo obbligarlo ad apparire in Tv».

– Toffanin: «Ci hanno proposto di avere Caltagirone di spalle. Oppure in videochiamata con Skype. Ma dove siamo? A Dallas? A Beautiful?»

– Toffanin: «Vorrei crederti ma è impossibile. Non posso credere all’esistenza di Marco. Abbiamo il numero di telefono? Chiamiamolo».

– Chiamato al telefono dalla redazione, Mark Caltagirone non risponde.

– Pamela Prati: «Gli telefono io». Esce dallo studio sostenendo di andare a chiamare Caltagirone.

– Eliana Michelazzo: «Giuro che Mark esiste. Io dello loro storia non voglio sape’ gnente».

Toffanin: «Pamela è andata via. Stiamo degenerando”.

Verissimo, Pamela Prati shock: "Mi hanno minacciata con l'acido". Scintille in studio durante l'intervista (in onda sabato 11 maggio) con Silvia Toffanin, che sbotta: "È tutto una barzelletta che non fa neanche più ridere". Francesco Canino il 10 maggio 2019 su Panorama. "È tutto una barzelletta che non fa neanche più ridere". Forse involontariamente ma Silvia Toffanin ha sintetizzato al meglio il finale triste della vicenda che da settimane invade senza sosta i talk televisivi e i social network, ovvero il matrimonio (poi saltato) tra Pamela Prati e l'imprenditore Marco Caltagirone (di cui non c'è traccia). L'ennesimo colpo di scena, forse il sipario definitivo su questa malinconica storia, andrà in onda sabato 11 maggio a Verissimo durante un faccia a faccia che si annuncia esplosivo.

Pamela Prati shock a Verissimo: "Mi hanno minacciata con l'acido". Partiamo dal fondo dell'intervista a Silvia Toffanin in cui Pamela Prati racconterà la (sua) verità sulle nozze dell'8 maggio saltate a causa della troppa pressione mediatica. Perché, dopo un'intervista serrata e a tratti molto difficile, la soubrette ha aggiunto un nuovo inquietante dettaglio rivelando di essere stata minacciata con l'acido. "Mi hanno fatto trovare l’acido fuori dalla porta di casa con un biglietto orrendo. Ma è tutto nelle mani di chi di dovere. Si sta esagerando", è sbottata la showgirl sarda. Ma chi e perché sarebbe dovuto arrivare a tanto? Stando alle anticipazioni ufficiali fornite da Mediaset, l’agente Eliana Michelazzo, presente tra il pubblico in studio, ha aggiunto in lacrime: “Abbiamo paura adesso. Siamo state aggredite, con l’acido, con un biglietto di minacce con scritto "Al matrimonio ci arrivate a metà"". Sarà dunque ora la magistratura a dover indagare. 

Silvia Toffanin attacca la Prati (che abbandona lo studio). Tra incongruenze e nuove versioni, l'intervista è stata un continuo botta e risposta con tanto di particolari inediti. La conduttrice del talk di Canale 5 ha infatti aggiunto un dettaglio emerso durante le trattative per portare il presunto futuro marito in trasmissione: dopo la richiesta, la risposta dell’entourage stata che Caltagirone, essendo molto ricco, non voleva firmare nessun documento e che "al massimo ci proponevano che poteva venire girato di spalle". La Prati ha però replicato: "Questa cosa non la so e non so chi l’abbia riferita sinceramente. A me non interessa, sono i media che stanno parlando e gettando fango su di me. Non ho guadagnato niente, sono stata strumentalizzata". Poi, convinta ad andare a prendere una foto e provare a chiamare al telefono Marco - già protagonista di una surreale chiamata a Live-Non è la D'Urso - e Pamela Prati se ne va dallo studio, scatenando la reazione di Silvia Toffanin che ha afferma: "È tutto una barzelletta che non fa neanche più ridere".

L'identità di Caltagirone e le nozze saltate. Dopo circa mezz’ora la showgirl è poi tornata sui suoi passi, rientrando in studio e decidendo di mostrare solo a Silvia Toffanin la foto di Marco Caltagirone: "È un uomo di 54 anni e l’unico motivo per cui non si mostra è per una questione di riservatezza. In questo momento non c’è un’atmosfera delle migliori tra di noi. Io non ce la faccio più, perché scrivono delle cose non belle, ma è la loro versione", aggiunge lasciando intende una possibile crisi. Quanto alle nozze previste per l'8 maggio, che Verissimo avrebbe dovuto seguire in esclusiva con le sue telecamere, la Toffanin rivela che la redazione non ha mai ricevuto conferma esatta da parte del gruppo di Pamela Prati di una data e una località precisa. "Avevamo cambiato location. Ci hanno detto di no all’ultimo per tutto quello che avevano sentito. Poi abbiamo trovato un’altra location in Toscana a Prato, e doveva essere l’8 maggio", ha precisato la Prati. Che ha poi smentito i problemi economici: "Non ho nessun problema economico. Dove sta il guadagno in questa storia? Adesso basta. Mi sposerò, ma lo farò in maniera privata, visto quello che è successo. E da oggi, quello che farò saranno solo fatti miei". Crederle però è sempre più difficile.

Silvia Toffanin a Pamela Prati: "Vorrei crederti ma non posso" e lei: "Mi hanno minacciato con l’acido". Redazione Tvzap 10 maggio 2019. Durante la registrazione dell’intervista per Verissimo la showgirl, chiamata a chiarire i dettagli sulle nozze rimandate, abbandona lo studio salvo tornare dopo 20 minuti. “Mi sento presa in giro. Vorrei crederti ma è impossibile, non posso credere all’esistenza di Mark Caltagirone”: così Silvia Toffanin avrebbe detto a Pamela Prati durante le registrazioni del programma Verissimo negli studi Mediaset, alterata dal fatto che la showgirl ex Bagaglino non volesse mostrarle alcuna foto del futuro marito. Proprio dopo un tentativo andato a vuoto di chiamare telefonicamente Mark Caltagirone, la Prati ha poi preso la drastica decisione di abbandonare lo studio lasciando la stessa Toffanin sconcertata: “Stiamo degenerando!” e ancora “È tutto una barzelletta che non fa neanche più ridere” ha detto la conduttrice. Ma dopo 20 minuti Pamela è tornata con le presunte foto dell’uomo e con dichiarazioni a dir poco choc.

Silvia Toffanin attacca Pamela Prati: “Mi sento presa in giro”. Lo ha anticipato Riccardo Signoretti, il direttore di Nuovo, attraverso la sua pagina ufficiale di Facebook. “Si sta registrando in questi minuti la puntata di Verissimo con ospite Pamela Prati insieme con la manager-agente Eliana Michelazzo. Andrà in onda sabato ma posso anticipare i contenuti dello scontro tra la Prati e la padrona di casa”, ha scritto il giornalista verso le 16.00 di giovedì 9 maggio. Stando a quanto scrive Signoretti, la conduttrice del rotocalco di Canale 5, Silvia Toffanin, si sarebbe sfogata con Pamela Prati con queste parole: “Mi sento presa in giro. Io come Barbara d’Urso. Vorrei crederti con tutta me stessa ma è impossibile, non posso nemmeno credere all’esistenza di Mark Caltagirone”.

Pamela Prati abbandona lo studio di Verissimo. Come ha ricostruito Signoretti in base alle informazioni in suo possesso: “Mark Caltagirone, promesso sposo della Prati, ha rifiutato di partecipare a Verissimo perché non voleva firmare la liberatoria/contratto. Pare abbia detto che è talmente ricco da non volere compensi e pertanto non intende firmare alcun documento. La Toffanin chiede a Pamela Prati di farle vedere una foto di Caltagirone sul telefonino, ma l’attrice si rifiuta. La Prati avrebbe detto: ‘L’unico sbaglio che ho fatto è venire in Tv a parlarne. Se ne sta facendo un caso di Stato. Basta col dire che Marco non esiste! Esiste eccome. Ma non sono io che devo obbligarlo ad apparire in Tv’. A quel punto la Toffanin avrebbe risposto: ‘Ci hanno proposto di avere Caltagirone di spalle. Oppure in videochiamata con Skype. Ma dove siamo? A Dallas? A Beautiful?’. Poi la conduttrice avrebbe detto alla Prati: ‘Vorrei crederti ma è impossibile. Non posso credere all’esistenza di Marco. Abbiamo il numero di telefono? Chiamiamolo’. Chiamato al telefono dalla redazione, Mark Caltagirone non risponde, quindi Pamela Prati si fa avanti: ‘Gli telefono io’. E poi esce dallo studio sostenendo di andare a chiamare Caltagirone. Quindi l’agente della Prati, Eliana Michelazzo, dice: ‘Giuro che Mark esiste. Io dello loro storia non voglio sape’ gnente’. Rimane in studio solo Silvia Toffanin che sbotta: ‘Pamela è andata via. Stiamo degenerando'”.

Pamela Prati torna in studia e rivela: “Mi hanno minacciata con l’acido”. Lasciato lo studio con la scusa di andare a cercare una foto del suo promesso sposo Mark Caltagirone sul telefonino, prosegue Signoretti in un nuovo post sui social, Pamela Prati torna in studio dopo 20 minuti mostrando alla Toffanin una foto della sua dolce metà, ma la conduttrice continua a essere scettica: “Io ti auguro con tutto il mio cuore che l’uomo nella foto sia Marco. Potrebbe anche essere il cugino di Eliana (Michelazzo, agente della Prati)”. Ma Pamela ribatte: “Ti potrebbero dire che sono falsi anche i documenti. Si sta facendo un caso incredibile. Ma non si può mettere alla gogna un personaggio”. La Prati conferma che il matrimonio, prima o poi, ci sarà: “Io però mi guarderò bene dal dirlo!” e parlando dell’abito da sposa si mette a piangere: “Sognavo questo giorno fin da piccola”. La Toffanin azzarda: “Perché ci siamo ridotti a…” e Pamela si inalbera: “Ridotti? Ma ridotti che cosa?? È tutta cattiveria. Gigi Sabani venne massacrato”. A versare lacrime è anche la sua agente Eliana Michelazzo, agente della Prati, si mette a piangere, e poi rivela: “Siamo state aggredite, ci hanno tirato l’acido sotto casa“. E parla di un biglietto di minacce con scritto: ‘Al matrimonio ci arrivate a metà’. La Prati: “Siamo addirittura alle aggressioni. Ho trovato fuori casa l’acido e un biglietto orrendo. Ma alla fine io che cosa ho fatto?”. Quindi Silvia Toffanin domanda: “Non è che all’inizio avete costruito tutto e poi la situazione vi è sfuggita di mano?”, ma la sua ospite si arrabbia: “Ma che cosa dici? Ti prego… Non è la gente che mi attacca, sono certi siti”. La Michelazzo dà la sua spiegazione: “Se tu, Pamy, non avessi avuto un’agenzia di management, non sarebbe successo tutto questo”.

Giuseppe Candela per Dagospia il 18 maggio 2019. "Dopo aver raccontato la verità sto meglio, per me è una grande rivincita. Spero che altri possano trovare il coraggio di fare lo stesso, molti continuano ad avere paura", a parlare è Emanuele Trimarchi che lo scorso 7 maggio al settimanale Chi aveva svelato di essere vittima del duo Perricciolo-Michelazzo. L'ex corteggiatore di Uomini e Donne aveva conosciuto la popolarità dopo l'uscita dal date show di Canale 5 e grazie alla relazione con la tronista Anna Munafò. "Raccontarlo è come riviverlo, per colpa loro sono caduto in depressione. Avevo solo ventidue anni, ero inesperto e mi sono fidato. Quando mi chiamavano tremavo come una foglia. Ti uccidono, ti levano l'anima", spiega Trimarchi che a Dagospia fornisce nuove rivelazioni. Le finte aggressioni come metodo: "Mandai un video a Pamela Perricciolo dove deridevo Anna Munafò, ero arrabbiato perché mi facevano leggere conversazioni di lei con Danny Coppi, cugino di Simone Coppi. Entrambi inesistenti ma servivano per farci lasciare. Pamela girò questo video ad Anna e dopo un paio di giorni uscì sul web, ero furioso e chiesi spiegazioni. Pamela mi disse che era stata aggredita di notte nel garage di casa sua e che le avevano rubato la chiavetta usb che conteneva questo filmato poi diffuso in rete. Questa finta aggressione l'ha anche denunciata, lei si rende conto?". In queste storie spesso ritornano anche i problemi di salute: "Dicevano che la Perricciolo aveva un tumore e andava a fare delle cure a Pavia. Era una strategia precisa per intenerire chi è dall'altra parte, un modo per tenerti sempre legato. Di questo tumore poi non ne hanno più parlato", aggiunge l'ex della Munafò. Il clima di terrore era perenne e lo ha accompagnato durante la loro collaborazione: "Dovevo fare quello che dicevano loro altrimenti mi avrebbero rovinato l'immagine e una futura carriera. Mi convocavano a casa a qualsiasi orario anche di notte per una semplice foto con una fan, si inventavano cose che non avevo fatto o mi dicevano che non dovevo andare in palestra perché non dovevo farmi vedere in giro. Vivevo con una tensione perenne, ero obbligato ad avere determinati atteggiamenti." Un metodo rafforzato, secondo Trimarchi, avvicinando i familiari: "Il magistrato Simone Coppi (il finto marito di Eliana Michelazzo, ndr) mi scriveva messaggi su Facebook per intimorirmi, scriveva anche al compagno di mia madre. Cercavano di coinvolgere tutta la famiglia per crearsi uno scudo e per farsi forza. E' un metodo che si ripete, sempre la stessa strategia." Dopo la sua intervista pubblicata dal settimanale Chi ha ricevuto una telefonata sospetta: "Era una voce romana e mi diceva: 'Chi è il karma? Ho una consegna per te, c'è una canna da pesca'. Il senso non l'ho capito ma dopo che era esploso tutto il caso avevo inviato un messaggio a Eliana in cui le dicevo il karma esiste."

Da Il Fatto Quotidiano il 18 maggio 2019. “Mark Caltagirone ha avuto un infarto”. È la rivelazione choc fatta in diretta a Storie Italiane da Federica Benincà, l’ex corteggiatrice di “Uomini e Donne” che ha raccontato nel corso dell’ultima puntata della trasmissione di Rai 1 la sua esperienza con l’Aicos Management, l’agenzia guidata dalle due manager di Pamela Prati, Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, che ora ha lasciato. La Benincà ha raccontato in particolare un episodio accaduto qualche mese fa, quando ancora non era scoppiato il caso del matrimonio poi annullato tra l’ex star del Bagaglino e l’ormai fantomatico fidanzato Mark Caltagirone. “Andiamo con ordine – ha raccontato l’ex corteggiatrice – . In primis io credevo che Mark esistesse. Poi durante la Fashion Week a Milano (che si è svolta dal 17 al 23 settembre 2018, ndr) Eliana ha avuto un attacco di panico, pianti, svenimento. Noi eravamo tutti preoccupati per lei. Le chiediamo che cosa fosse successo e ci dice che un caro amico di suo marito Simone Coppi (che, per inciso, non ho mai visto nonostante più volte le avessi chiesto della sua esistenza) aveva avuto un infarto. Questa persona era Mark Caltagirone, il compagno di Pamela Prati. E mi ha detto che la Prati doveva volare a Parigi per stargli accanto. Ci credevo, ci credevamo tutte. Continuamente ci mostravano video di Pamela che prendeva treni e aerei. La stessa Prati, una sera a cena, mi ha fatto vedere i braccialettini che i figli di Mark le avrebbero regalato, i loro disegni che le dedicavano. Scioccante. Era tutto un bluff“. “Quando sono cominciati i primi dubbi?”, le ha chiesto la conduttrice Eleonora Daniele. “Il primo campanello di allarme sono state le rivelazioni di Alfonso Signorini che ha detto di essere stato raggirato da una delle due agenti, che gli avevano fatto conoscere in chat un uomo che si è rivelato inesistente. Ecco – ha spiegato la Benincà -, dopo le parole di Signorini ho messo da parte il cuore e ho cominciato a cercare i riscontri oggettivi di questa storia. Ho chiesto ad Eliana spiegazioni sull’identità di Mark Caltagirone. ‘Ma esiste?’ Le chiedevo. E lei mi ha sempre assicurato che l’unica certezza era proprio l’esistenza di Mark. Anzi, Eliana mi disse: ‘Quando la verità verrà fuori mi dovranno delle scuse e brinderemo con lo champagne’. Ma poi su tanti aspetti le versioni cambiavano continuamente”, ha concluso l’ex corteggiatrice.

Pamela Prati e la moda di abbandonare gli studi durante la diretta. Ora tocca alla D’Urso. Tutte le tappe del matrimonio immaginario. Pubblicato giovedì, 16 maggio 2019 da Chiara Maffioletti su Corriere.it. «Sono venuta qui solo per salutare, per educazione perché tu hai insistito, ma non voglio rispondere a nessuna domanda». A «Live - Non è la D’Urso» è andato in scena l’atteso rendez-vous tra Pamela Prati e Barbara D’Urso. Dopo aver affrontato Silvia Toffanin la showgirl è scesa nell’arena per lei più difficile, visto che proprio a «Domenica Live» aveva annunciato per la prima volta le nozze (poi saltate) con Mark/Marco Caltagirone ed è facile immaginare quanto la padrona di casa abbia atteso questo confronto dopo che la situazione è precipitata - già la scorsa settimana ma soprattutto a «Verissimo» -. L’inizio non è stato dei più rassicuranti, visto che l’ex star del Bagaglino ha subito messo in atto la strategia di cui sta diventando campionessa olimpica: l’abbandono dello studio. Almeno Carmelita non ha dovuto attendere mezz’ora per il suo ritorno come la sua collega Silvia: l’intervistata infatti è tornata alla sua postazione dopo pochi minuti. «Mi stai facendo un processo», ha accusato lasciando trasparire una certa insofferenza, «se ci credete bene, se non ci credete è un problema vostro». I tentativi della conduttrice di riuscire ad ottenere risposte credibili ai tanti dubbi che ancora oggi affollano la vicenda – e che ogni giorno che passa sembrano aumentare sempre più – sono stati vani in quanto Pamela ha sviato ogni argomento (dall’esistenza del fidanzato al famigerato premio in Albania, di cui non ha mai chiesto conto perché «non sono cose mie»). Su un punto però sia la padrona di casa che l’ospite si sono trovate d’accordo: perché Mark/Marco Caltagirone non mostra una sua foto, perché «non difende la sua donna»? «Infatti lo dovrebbe fare» ha detto la showgirl quasi con amarezza prima di salutare il pubblico e andarsene nuovamente. Poche parole che lasciano intravedere una verità che Pamela ancora non vuole svelare, una realtà che potrebbe essere ben diversa da quella che sabato scorso a «Verissimo» difendeva a spada tratta.

Barbara Costa per Dagospia il 17 maggio 2019. Mollate un attimo la soap dell’anno, smettete di cercare Mark Caltagirone, e correte sui siti porno: trovate l’insuperabile Pamela Prati tutta nuda, avvinghiata a donne e a uomini, in sequenze erotiche memorabili. Ve lo dico subito, non sono video porno-porno, cioè qui non vi sollazzate con atti sessuali completi, non simulati, penetrazioni reali: qui siamo al margine, al confine dell’erotico spinto, perché il porno-salto Pamela Prati non l’ha mai fatto: da ragazza disse sì all’erotico e no al porno vero, anche quando il porno in Italia, negli anni '80, era una roba seria, deprecabile per i benpensanti, ma un’industria attiva, con fatturati a sei zeri. Pamela Prati, con quel corpo superbo e tutto naturale che Madre Natura le ha regalato, nei film erotici che ha girato, mostra ogni centimetro della sua pelle, esibisce il suo magnifico seno, natiche e pube non depilato (altri tempi!), e si sdraia e si gira languida tra calde lenzuola, bacia e tocca corpi femminili eccitanti come il suo, entusiasmando spettatori allupati al di là dello schermo. Sempre doppiata, e in un’occasione sotto pseudonimo di Pamela Fields (Prati in inglese, che inventiva!), la giovane Pamela Prati estasia non poco: nuda, davanti alle telecamere, risplende come poche. Pamela Prati non va celebrata per le sue caltagironate matrimoniali, ma per la sua quarantennale carriera televisiva e per il suo percorso cinematografico, fatto di pochi ma scottanti film, il cui primo è "La moglie in bianco…l’amante al pepe", con Lino Banfi, dove Pamela è una salace igienista dentale che deve accendere i sensi di un marito gay per farsi ingravidare e così ottenere la ricca eredità: Pamela qui in più scene si mostra nuda, e basta. Dopo aver eccitato Renato Pozzetto con uno spogliarello purtroppo non integrale in "È arrivato mio fratello", Pamela alza gli ormoni in "Riflessi di luce", film che narra la storia di uomini e donne ricchissimi che, chiusi in una villa, si danno al sesso sfrenato. Pamela è una di loro, e la vedi in scene lesbo-soft belle spinte con l’attrice Loredana Romito. Nel 1989 la Prati è la rossa protagonista di "Io, Gilda", omaggio poco riuscito al celebre film con Rita Hayworth: qui Pamela è la donna del boss finita nei guai per la sua esuberanza, e vi spoilero che alla fine viene salvata dalla di lui socia lesbica, interpretata dalla pornostar Valentine Demy, qui ancora col nome di Marisa Parra (è proprio la sua presenza a far circolare il porno-gossip che di questo film sia stata realizzata anche una versione "proibita", hardcore, ma in verità Parra/Demy entra nel porno cinque anni dopo). Diamo a Pamela quel che è di Pamela: in questi film è il suo corpo che "recita", la sua bellezza non è un fake, è davvero "Una donna da guardare" nel film omonimo, nella cui locandina è descritta come “la preferita dagli italiani, mai così bella, in una conturbante interpretazione” (elogi poi stampati su quasi ogni film erotico con Pamela Prati uscito in dvd). In "Una donna da guardare", il corpo della Prati è desiderio e ossessione d’un impotente. Pamela Prati è esaltata a sex-symbol in "Carmen Proibita", ma questa è la porno-soddisfazione postata in rete da utenti che ne hanno comprato una copia: “Da piangere, utile solo a mostrare le grazie della disinibita e prosperosa protagonista”; “terrificante, uno dei film erotici più brutti che mi sia capitato di vedere”; “qui Pamela di proibito ha poco e niente!”. Ha detto Pamela Prati a "Vero": “Il primo provino, quello per "Playboy", l’ho fatto per soldi e con le lacrime agli occhi”. Ma sono state proprio quelle foto (insieme al piccante servizio senza veli per "Penthouse" del 1983) a farla sbocciare, e a immortalarla accoccolata tra le gambe di Adriano Celentano sulla copertina del disco "Un po’ artista un po’ no": “Fu così che, senza aver fatto ancora niente di concreto”, ha rivelato Pamela, “di colpo diventai la donna che gli italiani sognavano. Quotidiani, settimanali: tutti a parlare di me!”. Non è che adesso ci diranno che dalla Libia Mark Caltagirone ha scoperto il passato "sexy" di Pamela e per questo non la sposa più?

AHO, MO' SE SVEJANO TUTTI.  Sara Sirtori per iodonna.it il 20 maggio 2019. Ora che questa soap opera farsa sembra essere giunta alla conclusione, abbiamo deciso di raccontare quello che è capitato a noi alcuni mesi fa. Stiamo parlando dell’affaire che coinvolge Pamela Prati e il suo presunto matrimonio con Marco Caltagirone. Attraverso un comunicato stampa, Mediaset ha fatto sapere che nella puntata di mercoledì prossimo di Live – Non è la D’Urso andrà in onda un’intervista a Eliana Michelazzo, una delle agenti della soubrette, dove l’ex corteggiatrice di Uomini e Donne confessa di aver mentito per tutto questo tempo sull’esistenza dell’imprenditore romano, scaricando tutta la responsabilità su Pamela Perricciolo, l’altra socia dell’agenzia Aicos, che gestisce (o gestiva) diversi personaggi del mondo dello spettacolo. Prima che Pamela Prati annunciasse attraverso un noto settimanale la sua storia d’amore che durava da 8 mesi con un uomo che corrispondeva al nome di Marco Caltagirone, noi di iODonna siamo inciampati in una storia che, allora, aveva dell’incredibile. Per i 60 anni dell’ex signora del Bagaglino, il 26 novembre 2018 abbiamo pensato di augurarle buon compleanno attraverso un articolo che ripercorreva la sua carriera, la sua (sfortunata per sua stessa ammissione) vita sentimentale e una gallery fotografica con immagini storiche e immagini più recenti che la ritraevano in diversi momenti della sua vita e rendevano omaggio alla sua carriera. Poche ore dopo la pubblicazione, una telefonata  della festeggiata contestava l’articolo e ne chiedeva immediata rettifica. Di cosa esattamente, non sappiamo ancora oggi: non c’erano scritte falsità, erano dati oggettivi o racconti fatti dalla stessa Prati su giornali e tv negli anni. Presi alla sprovvista dai contenuti della chiamata («credevo telefonasse per ringraziarci del pensiero», dice la nostra direttrice Danda Santini), abbiamo cercato di capire quale fosse il problema. Dopo aver fornito diverse versioni, che qui tralasciamo, la signora Prati ci dice che due giorni dopo sarebbe uscito un servizio in esclusiva su un settimanale dove presentava il nuovo fidanzato, tale Mark o Marco – sinceramente non ricordiamo – Caltagirone e che quindi non voleva si ricordassero le sue vicende sentimentali passate. Parso chiaro che i nostri auguri di buon compleanno non erano graditi, li abbiamo gentilmente ritirati. Incuriositi, però, da una spiegazione che non ci convinceva, abbiamo iniziato a fare qualche domanda, soprattutto alla luce del fatto che nel famoso servizio citato da Pamela Prati non comparivano foto, ma solo le sue parole che raccontavano anche dell’affido di due minori. Le risposte che abbiamo ottenuto erano surreali. «Marco Caltagirone non esiste, è tutta una copertura, qui a Roma lo sanno tutti», ci dice la nostra prima fonte, che, però, non vuole approfondire. Sempre più curiosi continuiamo a far domande. «Non esiste lui, non esistono i bambini. Nell’ambiente (dello spettacolo, ndr) lo sanno tutti, non è un segreto. Lei cerca di tornare in tv e di guadagnarci qualcosa», ci svela una seconda fonte in cambio dell’anonimato. La rivelazione, in realtà, prosegue, toccando anche argomenti che riguardano la sfera più privata della vita della Prati e delle sue due agenti, come la non esistenza di Simone Coppi, fidanzato – marito di Eliana Michelazzo (lo ammetterà lei stessa nell’intervista da Barbara D’Urso di mercoledì 22 maggio) o i legami con la ‘ndrangheta di Pamela Perricciolo (che sono stati svelati dal sito Fanpage.it il 16 aprile 2019).

Parla l’ex fidanzato (vero). Nel frattempo Pamela Prati aveva continuato a rilasciare interviste dove, addirittura, annunciava il matrimonio con Caltagirone e la volontà di andare a vivere all’estero. Ma come poteva, ci chiedevamo, con due bambini in affido? Nessuno, però, voleva fornirci delle prove concrete di queste affermazioni. Poco convinti di questa specie di romanzo d’appendice, pensavamo che alla base ci fosse un piccola bugia per permette a una gloria della televisione passata di tornare per un po’ in auge. Certo non immaginavamo il castello di menzogne scoperchiato quando l’ex fidanzato della Prati – vero, stavolta – ha fornito a Dagospia le prove necessarie per iniziare il racconto della soap opera che ha tenuto banco in alcune trasmissioni tv per gli ultimi due mesi. È il 3 aprile 2019, cioè 4 mesi dopo la telefonata alla nostra redazione, che il sito di Roberto D’Agostino riporta le parole di Luigi Oliva, compagno di Pamela Prati tra il 2017 e il 2018: «Mi ha usato come bancomat» per uscire dalle sue difficoltà economiche, spiega l’imprenditore, mostrando le carte che verificano la sua storia. Una volta rotto il muro di omertà, la diga si è spalancata. In effetti, il puzzle di affermazioni della soubrette non combacia mai perfettamente se si mettono insieme tutte le ospitate fatte sui media. Il matrimonio viene annunciato (sul settimanale Gente), anzi è già stato celebrato (Domenica In), invece no, sarà l’8 maggio (Verissimo). I bambini sono in affido, ma vivono all’estero, forse in Corsica, però li vogliono portare a vivere con loro a Miami. Li vogliono proteggere, ma il più grande (11 anni) chiacchiera su Facebook come fosse un adulto. Più si va avanti, più la trama sembra sfuggire dalle mani di chi la sta recitando. Dell’impresa di Mark o Marco Caltagirone non si trova traccia da nessuna parte, né in Italia né all’estero. In tutto ciò, poi, il promesso sposo non è mai mostrato. Dopo mesi di totale anonimato, la domanda sorge spontanea: se nessuno l’ha visto, siamo sicuri che esista? Il trio Prati-Michelazzo-Perricciolo inizia a far girare tra gli addetti ai lavori delle foto di diversi uomini spacciandoli per Caltagirone. Quelle che riesce a ottenere Dagospia, vengono pubblicate e, sorpresa, appartengono a un avvocato cagliaritano, totalmente estraneo alla faccenda e giustamente molto arrabbiato.

Non è solo una storia di matrimoni. Fino a questo momento ci si poteva fare una triste risata. Ma gli sviluppi del Prati-gate vanno oltre un matrimonio rinviato, un’esclusiva saltata o il tardivo tentativo di resuscitare una carriera. Si parla di truffe, furti d’identità e di persone che hanno lavorato e che non sono state pagate (come hanno svelato Oggi e Chi). Il sistema che emerge è quello di ricatti (lo ha raccontato Sara Varone a Oggi), imbrogli a vittime eccellenti (Alfonso Signorini, direttore di Chi, lo ha raccontato al Maurizio Costanzo Show, Sergio e Manuela Arcuri a Dagospia) e minacce (lo sostiene Emanuele Trimarchi sulle pagine di Chi e a Dagospia). E questo forse spiega perché se tutti sapevano nessuno ha mai detto niente prima. Ora, stando al comunicato stampa rilasciato domenica 19 maggio da Mediaset, Eliana Michelazzo è pronta ad ammettere le bugie e chiede di entrare nella Casa del Grande Fratello. Tralasciando di commentare l’ultima affermazione, sembra che l’affaire Prati sia giunto alla conclusione. Ma non tutte le domande hanno trovato risposta. Perché prima di concentrarsi esclusivamente sull’aspetto sentimentale-matrimoniale della vicenda, Dagospia aveva iniziato la sua indagine, proseguita anche da Fanpage, dall’aspetto politico. Che forse è il più interessante. Pare che la prima “vittima” del duo Michelazzo-Perricciolo (la Prati non era ancora nell’orbita Aicos), sia stata un’esponente calabra di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro. E che anche una politica laziale del Pd sia finita nella loro rete. Cosa questo significhi, però, non è chiaro: nessuno vuole parlare. E poi, le pagine Facebook a nome di uno dei presunti minori in affido a Caltagirone sono state create la prima volta usando il nome di Giorgia Meloni (sicuramente è estranea a tutta questa brutta faccenda) al contrario. Così come continuano a spuntare riferimenti e legami con la vita politica calabra. Tornando a iODonna, ci siamo chiesti il perché di quella telefonata di novembre, ma col senno di poi possiamo solo fare congetture. Forse il nostro pezzo, per quanto innocuo, sfuggiva al controllo di chi ha inventato questa storia, che, ricordiamolo, era alle primissime battute. Forse chi credeva di poter dirigere la soap opera voleva avere pieno controllo di quello che usciva sui media. O, forse, ricordare che già in passato Pamela Prati aveva confessato di aver millantato degli amori, avrebbe potuto rovinare l’inizio di una travolgente e altrettanto finta storia d’amore.

Eliana Michelazzo e Pamela Prati, hanno scoperto una cosa: "Dieci anni fa...", un altro terremoto. Libero Quotidiano il 21 Maggio 2019. Il matrimonio “pacco” di Pamele Prati lo aveva già portato in scena la sua manager Eliana Michelazzo ben 10 anni fa. A dimostrarlo è il giornalista Carlo Mondonico, conduttore di Spoiler su Radio Lattemiele, che - come si legge su Dagospia - ha scovato alcune interviste e un video. Il fattaccio era avvenuto nel 2009, esattamente dieci anni orsono. Eliana aveva annunciato di aver sposato l'inesistente fidanzato Simone Coppi. A provarlo alcune interviste scovate dal giornalista Carlo Mondonico, nelle quali la Michelazzo affermava: "Simone fa un lavoro di responsabilità a causa del quale preferisce non apparire sui giornali. Da settimane sono letteralmente presa di mira dai maligni per questa storia… Però se può zittire la gente, mi sono tatuata il suo nome sul braccio" (fonte Visto). Il giornalista ha scovato in rete anche un video nel quale Eliana Michelazzo cerca di mettere a tacere le voci di tutti quelli che non credono all'esistenza del suo fidanzato Simone Coppi e a riprova mostra anche un tatuaggio col suo nome. "Ciao ragazzi, vi devo dare una notizia", si sente in un video su Youtube, "oggi ho deciso di chiudere il forum (...) Quindi, visto che mi sono sposata e mi voglio creare una famiglia, non mi interessano più tutte le altre cose, ma solo vivere la mia vita. Ho anche visto che qualcuno ha anche dubitato della mia storia, del mio matrimonio, di tutte le cose che ho fatto e che ho detto fino a oggi. Invece questo video è per dirvi che è tutto vero. Sono sempre io che mi collego, non ci sono altre persone. Nessuno mi ha detto niente e faccio di testa mia, proprio perché per ogni tipo di programma e di ogni situazione, la gente crea troppe chiacchiere". Peccato che, pochi giorni fa, la donna abbia ammesso di essere stata "vittima" di un "fidanzato fantasma". Insomma, una storia che sembra non placarsi, più incredibile di ogni immaginazione più malata. 

Giuseppe Candela per Dagospia il 21 maggio 2019. Ma i parenti di Pamela Prati dove sono? Perché nessuno interviene e prova ad aiutarla? Sono queste le domande che in molti si pongono da quando Dagospia con la sua inchiesta ha svelato che Mark Caltagirone e i figli in affido Sebastian e Rebecca non esistono. Abbiamo contattato Maria Pireddu, sorella della showgirl sarda, per provare a riportare anche le parole di persone vicine alla primadonna del Bagaglino. "Non ho nulla da dire e non capisco come fa ad avere il mio telefono", il tono come immaginabile è di chiusura.

La situazione per sua sorella si complica, lei che idea si è fatta?

"Mia sorella si è presentata in televisione, a un certo punto non ha trovato nulla più da dire. Siete stati i primi a fare queste indagini ma annunciare un matrimonio non vuol dire seminare zizzanie un po' ovunque. Mia sorella non sta bene e l'avete tartassata paurosamente."

Abbiamo fatto solo il nostro lavoro. Un marito che non esiste, figli che non esistono. Oltre agli altri aspetti che sono venuti fuori in questa storia, non le sembra grave?

"Come fate voi a dire che non esiste?"

Lei ha visto Mark Caltagirone?

"Io cosa c'entro?"

Lei non è la sorella?

"Si, sono la sorella".

E non ha mai visto il futuro marito di sua sorella?

"Ci sono anche momenti in cui non vedo mia sorella se proprio la vogliamo dire tutta, non ho motivo di continuare a parlare con lei non avendo altro da dire."

Siete in buoni rapporti?

"Non ho altro da dire, la ringrazio. Io sono Maria, non sono Pamela."

Quindi lei non parla con sua sorella?

"Non ho altro da dire, la ringrazio."

Pamela Prati, il marito inesistente, l’agente che vuole rifugiarsi al GF: le farsa delle nozze immaginarie alle battute finali. Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Corriere.it. A volte, per la soluzione dei misteri più intricati, basta solo attendere: il clamoroso autogol di Eliana Michelazzo, che sabato 18 maggio ha pubblicato un suo selfie su Instagram utilizzando il falso profilo marckcaltagirone, e il successivo (e goffo) tentativo di insabbiamento – sul suo account è apparso uno screenshot corredato da «Schifo! Questa è la mia foto non ti permettere» -, è stato il soffio di vento (inatteso, ma mica poi tanto) che ha fatto crollare un castello di carte sempre più instabile. L’agente, messa alle strette in un’intervista registrata in esclusiva per «Live – Non è la D’Urso» (che sarà trasmessa nella puntata di mercoledì 22 maggio), ha confessato che, come molti già pensavano, l’imprenditore e fidanzato di Pamela Prati Mark/Marco Caltagirone non esiste: «In tv ho mentito, non ho mai incontrato Mark Caltagirone, l’ho visto solo in un video di pochi secondi in cui lui è in auto con la mia socia Pamela Perricciolo. La voce di quell’uomo è diversa da quella della telefonata avvenuta nel programma ‘Live’. A questo punto credo non esista». Eliana ha poi rivelato in lacrime: «Io sono stata la prima vittima di questo sistema. Da 10 anni ho un fidanzato fantasma, Simone Coppi, solo ora ho aperto gli occhi: mi mandava foto, messaggi, un anello, mi sono tatuata il suo nome. Adesso, ascoltando le storie delle altre vittime, ho capito la verità: non esiste. Preferirei non sapere chi si nasconde dietro quelle false identità». Al termine dello sfogo Michelazzo ha detto di aver paura e di non voler avere in questo momento contatti con nessuno: «Dovrei andare all’estero o in un posto isolato dal mondo come un convento o la casa del Grande Fratello». Ma la ventilata ipotesi GF è stata poi nettamente smentita da Mediaset, che con un messaggio lapidario ha dichiarato di non aver mai preso in considerazione il suo ingresso nella casa più spiata d’Italia. Eliana sarebbe dovuta andare ospite già durante la puntata di lunedì sera, per scoprire l’esito della sua richiesta, ma come ha spiegato Barbara in diretta l’agente dopo aver vuotato il sacco sarebbe molto provata (sottolineando poi che la casa del «Grande Fratello» non è un rifugio per chi scappa e che anche lei ha scoperto di avere un fidanzato fantasma, con lo stesso cognome del fantasma inseguito da Alfonso Signorini, Sara Varone e gli altri, ovvero Coppi). Intanto in ogni caso in queste ore dovrà prepararsi psicologicamente alla nuova ospitata in programma a «Live – Non è la D’Urso», e a cascata anche la sua socia Pamela Perricciolo e la sposa mancata Pamela Prati dovranno fare i conti con i giudici più temuti da chi fa parte del mondo dello spettacolo: il pubblico. Lo stesso pubblico che, da «Verissimo» a «Live – Non è la D’Urso» passando per «Domenica In», «Storie Italiane» e tutti gli altri programmi che hanno ospitato tutti i protagonisti di questa farsa fin dall’annuncio del matrimonio avvenuto ormai mesi fa, in questo momento si sentirà evidentemente preso in giro.

IL COMUNICATO DELL’AVVOCATO DI PAMELA PRATI (Dagospia il 22 maggio 2019). Con la presente nota si informa che, la scrivente Avv. Irene della Rocca, in qualità di legale di fiducia della Sig.ra Pamela Prati, ha provveduto a risolvere il contratto tra la stessa e l'agenzia Aicos Management Group di Michelazzo Eliana. Il rapporto si intende risolto anche in merito alla carica onorifica di direttrice della stessa Aicos Management assunto dalla Sig.ra Prati. Per quanto premesso, da oggi in avanti, la mia assistita non ha più nulla a che fare con la società Aicos Management Group di Michelazzo Eliana.

Valeria Morini per Fanpage il 22 maggio 2019.  Pamela Prati ha ufficialmente lasciato la Aicos Management Group, la società di Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo. I primi sentori del divorzio dalle sue agenti si erano avvertiti ieri, quanto il link alla pagina Instagram della Aicos era sparito dalla "bio" del suo profilo. Ora, l'ufficialità giunge attraverso un comunicato dell'avvocato Irene della Rocca, legale della showgirl. Si interrompono del tutto i rapporti con l'agenzia, anche in merito alla carica meramente onorifica della stessa Prati nella società. Il caso del presunto matrimonio con il misterioso Mark Caltagirone sembra dunque vicino alle battute finali. Con la presente nota si informa che, la scrivente Avv. Irene della Rocca, in qualità di legale di fiducia della Sig.ra Pamela Prati, ha provveduto a risolvere il contratto tra la stessa e l’agenzia Aicos Management Group di Michelazzo Eliana. Il rapporto si intende risolto anche in merito alla carica onorifica di direttrice della stessa Aicos Management assunto dalla Sig. ra Prati. Per quanto premesso, da oggi in avanti, la mia assistita non ha più nulla a che fare con la società Aicos Management Group di Michelazzo Eliana.

Roma 21 Maggio 2019 Avv. Irene Della Rocca. Arriva una nuova versione di Pamela Prati? L'incontro tra la Prati e il suo legale e la conseguente decisione di lasciare l'agenzia potrebbe avere come conseguenza una nuova presa di posizione da parte della showgirl sarda. Dato il clamore sollevato dal matrimonio mancato con lo sposo "fantasma" Mark Caltagirone e l'incoerenza delle versioni fornite finora, la Prati, smarcandosi definitivamente dalle due manager, potrebbe raccontare una nuova verità, facendo luce una volta per tutte su questa storia. E fornendo finalmente le prove dell'esistenza (o meno) del fantomatico Caltagirone.

La confessione di Eliana Michelazzo. Intanto, a fare marcia indietro su quanto detto finora ci ha già pensato Eliana Michelazzo, che ha ammesso di non aver mai incontrato il misterioso Mark: "A questo punto credo non esista". Non è tutto: Eliana si è detta lei stessa una vittima del "sistema", sostenendo di avere a sua volta un fidanzato fantasma da dieci anni, da lei mai incontrato (l'intervista andrà in onda domani a Live – Non è la D'Urso). Va precisato, tuttavia, che nel 2009 la stessa Michelazzo, ex di Uomini e Donne, giurava di aver sposato tal Simone Coppi, rispondendo a chi già allora insinuava dubbi su una possibile "macchinazione".

Valeria DI Corrado e Augusto Parboni per “il Tempo” il 22 maggio 2019. Finte nozze, minacce con l' acido e tanti veleni. Pamela Prati ieri è andata al commissariato di Ponte Milvio per denunciare il ritrovamento di una bottiglia di acido fuori dalla sua abitazione. Era stata la stessa soubrette a rivelarlo nella puntata di «Verissimo» andata in onda l'11 maggio su Canale 5: «Mi hanno fatto trovare l' acido fuori dalla porta di casa con un biglietto orrendo. Ma è tutto nelle mani di chi di dovere. Si sta esagerando». Una delle sue due agenti, Eliana Michelazzo, presente tra il pubblico in studio, ha aggiunto in lacrime: «Abbiamo paura adesso. Siamo state aggredite, con l' acido, con un biglietto di minacce con scritto "Al matrimonio ci arrivate a metà"». Ieri in commissariato andata anche l' altra agente della Prati, Pamela Perricciolo, per denunciare una presunta aggressione: sarebbe stata ferita con dell' acido a un avambraccio. Anche su questo gli investigatori dovranno fare le dovute verifiche, per capire se si tratti di minacce fondate o dell' ennesima puntata di quella che ormai è diventata una saga tragicomica. La vicenda, infatti, prende le mosse dalle presunte nozze tra la Prati e l' imprenditore Marco Caltagirone (di cui nessuno ha informazioni) che si sarebbero dovute celebrare l’8 maggio, ma che sarebbero saltate - secondo quanto sostenuto dalla showgirl sarda - per la forte pressione mediatica. Era infatti circolata la voce che si trattasse di un matrimonio finto. E l' agente Michelazzo lo ha confessato nella puntata «Live -Non è la d' Urso» che sarà trasmessa stasera: «In tv ho mentito, non ho mai incontrato Mark Caltagirone, l' ho visto solo in un video di pochi secondi in cui lui è in auto con la mia socia Pamela Perricciolo. La voce di quell' uomo è diversa da quella della telefonata avvenuta nel programma "Live". A questo punto credo non esista». Le presunte bugie cominciano quindi a venire a galla, tanto che ieri l' avvocato Irene della Rocca, legale della Prati, ha annunciato che la sua assistita «ha provveduto a risolvere il contra» con l' agenzia Aicos Manage mente Group di Eliana Michelazzo, di cui la stessa soubrette era direttrice.

Giuseppe Candela per Dagospia il 22 maggio 2019. Come Dagospia ha svelato da tempo Mark Caltagirone e i due figli in affido di Pamela Prati non esistono. Non è mai esistito nemmeno Simone Coppi, il marito fantasma di Eliana Michelazzo, come ha confessato lei stessa a Live-Non è la D'Urso. Più volte abbiamo parlato dei profili finti dei protagonisti di questa storia, aggiungendo anche figure secondarie come Silvia Sbrigoli, sulla cui pagina Facebook comparivano le foto dell'influencer Flora Pellino (a sua insaputa) e i video della showgirl Pamela Camassa. Un meccanismo rodato, studiato, curato nei minimi dettagli. Tasselli aggiunti quotidianamente per rendere credibile una famiglia immaginaria. Proviamo oggi a segnalare alcuni profili social finti della famiglia Coppi usati in questi anni, alcuni risultano ancora online ma svuotati, altri sono stati disattivati. "Simone Eliana" veniva usato dal marito fantasma della manager, descritto come un famoso magistrato. Come foto profilo un pesce e all'interno solo immagini della Michelazzo: "Non si comanda al cuore, il cuore batte talmente forte che mi dà gioia! Ti amo", scrive la "Signora Coppi S" con la foto profilo di Eliana. Il misterioso marito con l'account Simone Eliana risponde così: "Sai la cosa strana? E' che dopo quattro anni io con te ancora mi emoziono." La Signora Coppi S continua con le sue dichiarazioni d'amore allo sposo inesistente: "A me piace averti accanto e sapere che sei mio. Sorrido sola di gioia. Ti amo"  e poi ancora "Mio mio mio. Ti amo". Ricordiamo che Simone Coppi era stato "proposto" anche a Manuela Arcuri, Lorenzo David Coppi (non più disponibile sui social) chattava invece con Sara Varone e Alfonso Signorini. Continuando l'albero genealogico fake ci soffermiamo sulla figura di Danny Coppi, che si presentava come il cugino di Simone. Come ha svelato Emanuele Trimarchi, corteggiatore di Uomini e Donne, questa figura ha causato la sua rottura con la tronista Anna Munafò. Danny Coppi usava due profili "Diabolik Dan" e "Danny Da", tra le vittime c'è anche anche una giovane politica romana che milita in un partito di destra. Danny diceva di avere un bambino a cui era morta la mamma suicida, tra i suoi tanti lavori collaborava anche con una clinica in Svizzera dove certi vip – elencati con nomi e cognomi e dovizia di particolari e di operazioni chirurgiche – andavano a ritoccarsi. "Hellen Coppi" era invece la sorella di Simone, per un periodo si chiamava anche "Hellen Roma". Commentava il finto profilo di Mark Caltagirone e rilanciava le sue interviste bufala. "Igor Lazio" era invece il fratello del marito di Eliana, lavorava con il promesso sposo, anzi ''l'omesso sposo'' della Prati. Va con lui in Giappone, lo ringrazia per la collaborazione, la Michelazzo commenta e augura buon viaggio. Postava foto delle due manager al Casanova, invitava i suoi amici alle serate organizzate dalle due e scriveva post di questo tipo: "Sarò la tua ombra ti farò rimpiangere tante cose signora". Parole riferite a una certa politica, dello stesso partito di destra, che per un periodo era stata molto vicina alle due agenti. Il profilo di Igor a volte era online con il nome "Resistenza Nera", era molto tifoso della Lazio e cresceva un nipotino di nome Vincent dopo la morte di suo fratello. Concludiamo con "Silvia Pasqual", sostenevano fosse la moglie di un cugino di Simone Coppi. Eliana la spacciava come la sua cuginetta: "Buon compleanno cuginetta bella bella, ti voglio un mondo di bene", scriveva con il profilo Signora Coppi S. Nei diversi profili compaiono foto che non siamo in grado di identificare ma che quasi sicuramente appartengono a utenti che hanno subito un furto di immagini. L'avvocato Coppi, quello vero, denuncerà le due signore?

L'INDIFENDIBILE. Ungiornodapecora.it e Dagospia il 23 maggio 2019. Carlo Taormina, avvocato di Pamela Prati fino a ieri, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, oggi ha raccontato il suo punto di vista sulla delicata vicenda del matrimonio, vero o presunto, della showgirl con Mark Caltagirone. “Ho rinunciato al mio mandato perché vedo tanta confusione, tante chiacchiere e supposizioni, cose intricate e non sempre chiare”. Lei che idea si è fatto di questa vicenda? “All'inizio Pamela Perricciolo mi rappresentava le cose con una certa serietà”. Avrà chiesto alla Prati e alle sue manager se esistesse davvero Mark Caltagirone...”Più volte. E la risposta è sempre stata positiva. Ma io non ho mai visto nemmeno una foto, non l'ho mai visto e conosciuto, e l'evoluzione dei fatti ha dimostrato che questo signore probabilmente è una fantasia”. A suo avviso la Prati ha creduto, almeno per un periodo, che Mark Caltagirone esistesse?  “La prima volta che è stata da me – ha spiegato a Un Giorno da Pecora – era molto preoccupata, anche perché aveva un'esclusiva con 'Verissimo'. Io ho visto anche il contratto e posso dire che era tutta cosa vera. Poi però l'ho trovata progressivamente in difficoltà”. Secondo lei la Prati è più complice o più vittima? “Complice è una parola grossa e non lo posso dire. La ragione della mia rinunzia è che la cosa era diventata una tale gazzarra non adeguata alla presenza di un avvocato”. Perché tutto questo sarebbe stato organizzato? “So che periodicamente queste cose accadevano, anche negli anni passati e tanti personaggi importanti sono caduti nella stessa trappola”. E' una truffa, dunque, secondo lei? “Io ho rappresentato alla Prati di stare attenta, perché la truffa non c'è soltanto quando prendi i soldi ma anche quando hai quando una qualsiasi utilità. Ad esempio, ho fatto presente che il contratto in esclusiva con 'Verissimo' era un'utilità”. Ha visto l'intervista alla Michelazzo ieri da Barbara D'Urso? “A me è sembrata molto poco convincente, penso che una presa in giro non possa durare dieci anni”. Come sta emotivamente Pamela Prati? “Assolutamente serena e tranquilla, fino ad un certo punto. Poi credo che abbia avvertito qualcosa che non andava e si sia comportata di conseguenza”.

Pamela Prati ammette: «Mark Caltagirone non esiste». Pubblicato venerdì, 24 maggio 2019 da Renato Franco su Corriere.it. Alla fine Pamela Prati si è arresa. Mark Caltagirone viaggia sulle stesse renne di Babbo Natale: non esiste. La showgirl senza marito e pure senza show ha confessato quello che sembrava chiaro a tutti: il marito era una finzione, sceneggiatura da soap, extension di una vita affettiva creata a tavolino. Sabato a Verissimo Pamela Prati farà le sue prime ammissioni, già raccolte però da Dagospia: l’ex musa di Pippo Franco dice di essere stata plagiata dalle due agenti (Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo), ammette che Mark Caltagirone non esiste, che non l’ha mai visto e neanche mai sentito al telefono. Come pensava di sposarlo?, chiede Silvia Toffanin: «Lo avrei incontrato il giorno delle nozze». A una prima lettura una risposta che sembra uscita dal format di «Matrimonio a prima vista», pare assurdo che una persona possa davvero comportarsi così, credere a un castello tanto immaginario quanto fragile. Ma poi viene fuori un quadro di solitudine desolante, la vita in una torre d’avorio senza finestre. Pamela Prati chiarisce però di non avere debiti, dunque non l’ha fatto per soldi (anche se le ultime ospitate non le ha fatte sicuramente gratis). La confessione di Pamela Prati arriva dopo le prime ammissioni di Eliana Michelazzo, questa volta a Live - Non è la D’Urso: «Mark Caltagirone non esiste. Secondo me lei sa che non esiste, perché non ha foto insieme a lui, e si è fatta la foto paparazzata quella notte e c’era Pamela Perricciolo con lei. Perché mente? Non lo so».

Francesco Fredella per ''Nuovo'' il 23 maggio 2019. Soldi, auto di lusso, cene e regali. Emergono le verità nascoste di Pamela Prati. Dettagli che solo chi ha conosciuto bene l’ex primadonna del Bagaglino può rivelare. A parlare è il suo ex manager, Settimio Colangelo. «Per tre anni ho fatto da agente a Pamela. Sono stato l’unico di cui molte produzioni tv si fidavano quando la proponevo. Credevo che fosse un’amica, ma ha si è approfittata di me», dice a Nuovo. Intanto anche il giallo delle nozze col fantomatico Marco Caltagirone (che non ha mai voluto mostrare il proprio volto) è al capolinea: il presunto manager avrebbe comunicato la fine della storia con la Prati. Ma persino sulla veridicità di questo annuncio ci sono dubbi. Un vecchio amico di lei come Cristiano Malgioglio è stupito: «Pamela è buona. Perché non esce da questo incubo? Non capisco cosa sia accaduto». Colangelo rincara la dose. Settimio, che cosa pensi della storia del matrimonio di Pamela e Caltagirone?

«Se davvero fosse tutto falso, sarebbe un peccato. Lei ha giurato anche a Silvia Toffanin che è tutto vero!»

Dove l’hai conosciuta?

«A Monopoli per l’inaugurazione di una sala bingo. Ero con Maurizio Mattioli, un altro ospite di quella sera».

Bingo? Ti risulta che alla Prati piaccia giocare?

«Posso dirvi che di sera la lasciavo in una strada di Roma che mi indicava dicendo che lì vivevano le sorelle. Poi ho scoperto che lì c’era il bingo».

Quando sei diventato suo agente?

«Dopo poche settimane dal momento in cui l’ho conosciuta me l’ha chiesto lei».

Eravate amici?

«Sì. Lei ha trovato in me una persona che era anche un amico: passavamo il tempo insieme a Roma, nei migliori ristoranti. E con me una donna non ha mai pagato».

Stava già con Luigi Oliva?

«No. Aveva appena lasciato un altro ex e stava malissimo».

Non la senti da molto? Lei ha lasciato te?

«No. Sono stato io a interrompere il rapporto di lavoro».

In che senso Pamela si approfittava di te?

«Viaggiava solo in auto, niente treni o aerei: e io pagavo. Mi sono reso conto che faceva pagare a me anche i viaggi personali».

Quanto ti è costato?

«Ho speso migliaia di euro. A Natale 2017 le avevo mandato un’auto e lei disse: “O me la cambi o non vado all’evento a Bari».

Ti ha ringraziato?

«Mai. E io la credevo un’amica».

Da oggi.it il 23 maggio 2019. La (ex) agente della soubrette vuota tutto (ma proprio tutto) il sacco. In una lunga e dettagliata intervista al settimanale Oggi in edicola. Che mostra anche l’ultimo mistero: quella foto del promesso sposo sul telefonino…Eliana Michelazzo, una delle due agenti di Pamela Prati, vuota finalmente il sacco. In una lunga e dettagliatissima intervista al settimanale Oggi in edicola. Che, inoltre, pubblica anche (e finalmente!) la foto che la Prati aveva mostrato a Siulvia Toffanin durante Verissimo, dicendo che Mark Caltagirone era proprio quello. E invece…

“CALTAGIRONE NON ESISTE: HO MENTITO” – «Mark Caltagirone, Marck, Marco… Non esiste se non nella fantasia di qualcuno: io ho mentito quando ho detto di averlo incontrato. Quello che ho visto una sola volta di persona, e poi altre volte in video o in foto, non è l’uomo di cui si parla. Quello che la Prati avrebbe dovuto sposare. Lo confesso e chiedo di essere aiutata da un medico perché sono fuori di me e la mia vita è andata in pezzi. Ho realizzato di essere una vittima io per prima e sto vivendo un incubo. Capisco che a questo punto sia impossibile credermi, ma è tutto vero. Io sono stata raggirata. Anche e soprattutto dalla Prati». Sono parole di Eliana Michelazzo, l’ormai ex agente di Pamela Prati, confidate al settimanale Oggi in edicola.

“NEMMENO MIO MARITO ESISTE…” – Eliana Michelazzo vuota tutto il sacco con il settimanale Oggi: «Sono 10 anni che mi considero sposata con un uomo. Un uomo che ho amato follemente. La vede questa fede? Io mi considero la moglie di Simone Coppi. Ho fatto persino sesso con lui, via social. Ho capito ora che non esiste. Pamela Perricciolo mi ha presentato questo ragazzo bellissimo via Facebook, dicendomi che era un suo amico d’infanzia. Mi ha raccontato la sua storia, che negli anni si è via via strutturata, aggiungendo dettagli così verosimili e arricchendosi di componenti familiari con cui interagivo quotidianamente. Era tutto intenso, struggente e così reale che io sono entrata in quella realtà. Ciecamente, senza mai dubitare. Solo quello che ho sentito dire a Manuela Arcuri e Sara Varone mi ha aperto gli occhi, ma ora credo di aver bisogno di uno psichiatra per capire come sia stato possibile. Non posso aver davvero buttato dieci anni della mia vita dietro a un fantasma. Ho persino il suo nome tatuato sul braccio».

“LA (FINTA) AGGRESSIONE CON L’ACIDO” – Eliana Michelazzo parla anche della presunta aggressione con l’acido subita, a suo dire, da Pamela Perricciolo: «Si è inventata tutto, questo ora l’ho capito. Ha detto alla mia assistente che io l’avevo medicata e che le avevo fatto una fasciatura, quando io non ho mai fatto nulla del genere: il giorno dopo aveva una benda, mentre gli inquirenti hanno dimostrato che non era acido. Fra i suoi colleghi giornalisti c’è chi ha a sua volta un’agenzia. Con la scusa di aiutare le mie ex clienti, me le ha portate via, promettendo loro di farle lavorare in tv, perché fa l’autore, perché è ammanicato con i produttori. Un vero schifo. Poi quella che fa gli impicci sarei io. Qui il più pulito c’ha la rogna».

QUELLA FOTO MOSTRATA ALLA TOFFANIN – Non solo. Quando Pamela Prati, durante la puntata di Verissimo di sabato 11 maggio, ha mostrato a Silvia Toffanin, sul telefonino, la foto del presunto Mark Caltagirone, la conduttrice ha detto: «Per me questo potrebbe essere anche il cugino della tua agente». La verità è un’altra: è una persona che non c’entra assolutamente nulla, e che nulla sapeva fino a quando Oggi non ha recuperato quella foto (che è pubblicata sul numero in edicola) e l’ha contattato. Si chiama Marco Di Carlo e fa il manager nel mondo dello spettacolo.

Ecco cosa ci ha riferito: «Ho appreso da voi che la mia fotografia è stata carpita e utilizzata per accostarmi alla signora Pamela Prati in relazione alla vicenda del matrimonio con tale Mark Caltagirone. Atteso che questa immagine che mi raffigura anche insieme con una delle mie figlie è stata utilizzata senza la mia autorizzazione, non so neanche in che modo appresa dai soggetti che l’hanno usata, ho già dato mandato al mio legale, Avv. Roberto Pugnaghi di Milano, per le più opportune azioni legali a mia tutela. Autorizzo in tal senso a riportare le mie parole e la mia fotografia col mio reale nominativo».

Mattia Buonocore per Davide Maggio il 26 maggio 2019. “Solo in questi giorni ho capito che Mark non esiste”. Questa la confessione sconcertante (e curiosa) di Pamela Prati sull’identità del suo futuro sposo Mark Caltagirone. In una lunga intervista, in onda domani a Verissimo, Pamela chiude finalmente il cerchio della vicenda che ha tenuto banco negli ultimi mesi su giornali, web e tv e racconta: 

“L’ultima volta che sono venuta qui a Verissimo ero ancora convinta che esistesse, poi, solo negli ultimi giorni ho visto delle foto che mi hanno mandato, che non appartenevano a lui. In realtà erano di un’altra persona, un agente (dello spettacolo ndr). Ora ho paura, perché non so chi ci sia dietro a questa situazione. Sono spaventatissima”.

Molto affranta e visibilmente provata, Pamela racconta per la prima volta come tutta questa storia abbia avuto inizio: “A marzo del 2018, in un momento di grande fragilità, sono andata a Roma nel ristorante di Pamela ed Eliana che conoscevo di vista. Dopo un paio di serate in questo ristorante Pamela Perricciolo mi disse che sarei stata perfetta per questo Mark Caltagirone, un imprenditore che aveva appena lasciato la fidanzata. Mi fa vedere una foto di un bell’uomo. Poi -prosegue- il 21 marzo del 2018 Mark inizia a seguirmi su Instagram. Allora io gli mando un messaggio con scritto ‘Buona Primavera’, lui mi risponde e da lì inizia tutto”. Incalzata dalle domande di Silvia Toffanin, la showgirl sarda confida: “Dopo qualche mese abbiamo iniziato a scambiarci parole dolci d’amore, flirtavamo. Mi diceva che mi amava. Nessun video sexy, ci siamo scambiati qualche foto intima. Ma non ho mai sentito la sua voce perché diceva che in Siria non prendeva bene il telefono. Ogni volta che chiedevo di vederlo c’era sempre qualche problema di salute, o di lavoro, un dramma. Non per questo però pensavo non esistesse. Mi manca anche adesso, mi mancano i suoi messaggi”.

E prosegue così: “Se sono arrivata al punto di volerlo sposare pensa come mi sono innamorata di lui. Mi è stata servita su un piatto d’argento la favola che ho sempre voluto, in un momento in cui ero molto fragile. Avevo bisogno di questo amore per stare in vita. Lui diceva che ero la donna della sua vita e che l’avrei incontrato il giorno delle nozze”. A Silvia, che le chiede se si senta più truffata o finita in una sorta di setta, risponde: “Non so, sono dentro ad una situazione che non capisco. Mi hanno isolato dal mondo. Con la scusa che lui era gelosissimo mi hanno allontanata dalla mia famiglia, dai miei amici. Ho cambiato numero di telefono. Uscivo solo con Pamela e Eliana perché erano amiche di Mark e per il resto me ne stavo in casa. Mi controllavano anche il telefono. Come si fa a raggirare così una persona?“.

E alla domanda se è stata plagiata risponde: “I dubbi non ti vengono quando sei plagiata. Il fatto che i giornali dicessero che ero plagiata era la cosa che le irritava di più, tanto che Eliana mi ha chiesto di dire in un video che non lo ero.Una cosa bruttissima e mi vergogno di questa cosa”.

Su chi ci sia dietro i messaggi di Mark, Pamela dice: “Io credo che ci sia una cosa perversa. Nel mio caso penso ci siano Donna Pamela ed Eliana e che forse sono d’accordo anche in questa confessione di Eliana. È una mia supposizione, perché ho visto il bene che si vogliono”.

E proprio sull’intervista rilasciata a "Live – Non è la D’Urso" da Eliana Michelazzo, Pamela confida: “Non le credo. Come mai se hai vissuto tu per prima per 10 anni la stessa cosa e sei una vittima, non mi metti in guardia? Non mi dici di svegliarmi?”.

Quando è scoppiato tutto il clamore mediatico, Pamela afferma che le due ex agenti la rassicuravano: “Mi dicevano di andare avanti perché il mio amore era più forte di tutto e io credevo loro. La voce che ha chiamato Barbara D’Urso però non so di chi sia, considerato che la voce di Mark io non l’ho mai sentita”.

La cosa più umiliante sopportata in questi mesi? “Aver dovuto mentire alla mia famiglia e la paura di essere derisa”. E sul bambino, Sebastian, Pamela dichiara: “L’ho conosciuto in un bar. Lo aveva portato Donna Pamela, dicendo che era il figlio che avrei preso in affido. La bambina invece non l’ho mai vista”.

E proprio su Donna Pamela, la Prati racconta: “L’ho sentita quattro giorni fa e mi ha detto che mi vuole bene. Sul suo malore (appreso durante l’intervista dal sito Dagospia, ndr) penso che sia terribile. Umanamente mi spiace se una persona sta male, ma non so se andrò all’ospedale”. Pamela ribadisce di non avere problemi economici, di aver organizzato a tutti gli effetti il matrimonio, di non giocare d’azzardo, di non avere quindi debiti di gioco e della veridicità dell’attacco con l’acido: “Stavo dormendo, ho sentito dei rumori e ho aperto la porta. Fuori c’era una bottiglia con un biglietto pieno di minacce. Ho subito chiamato la polizia”.

La Prati chiede infine a Silvia Toffanin se ora le creda e la conduttrice di Verissimo risponde: “Pamela tu devi riprendere in mano la tua vita. Ti vorrei credere con tutto il cuore, ma mi hai raccontato così tante bugie, che ora devi lasciarmi il beneficio del dubbio”.

DAGONEWS il 27 maggio 2019. Dopo le confessioni, tra qualche ammissione e molte bugie, di Pamela Prati ed Eliana Michelazzo è il turno di Pamela Perricciolo. La manager vuota il sacco e per la prima volta si confessa in una lunghissima intervista realizzata da Selvaggia Lucarelli, in edicola domani su Il Fatto Quotidiano.  Dagospia anticipa alcuni stralci della conversazione che apre nuovi scenari sul caso dell'anno: “Tutte e tre abbiamo delle responsabilità in questa storia, la password dell’account di Mark Caltagirone la ha Pamela Prati, Simone Coppi è un fake inventato tanti anni fa, gestito anche dalla Michelazzo". La Perricciolo si spinge oltre rivelando alla Lucarelli l'esistenza di un accordo: "Noi tre avevamo firmato da un legale un accordo di riservatezza, quindi tutte abbiamo interesse a tacere, no?”. La manager fa anche riferimenti ai problemi economici della showgirl sarda: "E' stato un gioco, non ci sono colpe legali, io ho deciso di dire la verità ma le altre due non lo faranno mai. Eliana prende 7000 euro a puntata dalla D'Urso, io non voglio nè soldi nè la tv. Pamela ha dei debiti, il cachet di Domenica in le è stato pignorato".

Selvaggia Lucarelli per ''il Fatto Quotidiano'' il 28 maggio 2019. "Tutte e tre abbiamo delle responsabilità in questa storia, la password dell' account di Mark Caltagirone ce l' ha Pamela". Il cerchio magico s' è spezzato. Le ex amiche Pamela Prati, Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, sono ormai l'una contro l'altra. L'unica delle tre che, dopo una chiacchierata di quasi due ore, tra dichiarazioni surreali ed evidenti assurdità, ha deciso di ammettere che "nessuna è innocente" è proprio colei che è accusata più o meno velatamente di essere la mente del più kafkiano evento di costume dell' era 2.0: Pamela Perricciolo, agente della Prati, detta anche "Donna Pamela". Sarebbe lei, secondo la Michelazzo, ad averla plagiata e convinta di avere un marito inesistente da 10 anni (Simone Coppi). Ma davvero Donna Pamela è il carnefice e le altre due sono vittime? E perché è l' unica che non parla, mentre le altre sono ospiti di salotti tv, ben pagate? "Io, Pamela Prati ed Eliana Michelazzo il primo aprile abbiamo firmato un accordo che ci vincola a non divulgare nulla di quello che ciascuna di noi sa della vita privata delle altre, perché avremmo firmato se non avessimo avuto tutte interesse a farlo?", mi racconta Pamela Perricciolo al telefono. Le altre due però raccontano in tv di essere vittime di plagio. Eliana ti avrebbe denunciata. Eliana va dalla D'Urso per 7.000 euro a puntata. La società Aicos è intestata a Eliana, la Jaguar è intestata a Eliana, la casa in cui vivevamo insieme e la Mini pure. Che plagio è?

Parla di plagio psicologico. "Il documento di riservatezza tra noi tre l'ha proposto Eliana col suo studio legale", strano che sia una vittima ma chieda alle altre di tacere. Cosa dovevate nascondere con quell'accordo? Eliana ha debiti con tante persone, anche Pamela e non vuole si sappia. A Verissimo ha giurato di non averne. Il cachet per l'ospitata di Domenica in le è stato pignorato dal fisco. E quello di Verissimo? I produttori le hanno detto che con gli avvocati dovevano decidere se Mediaset fosse parte offesa per truffa. Le hanno congelato il cachet, 40.000 euro. Non so se ha risolto. Prende 1.200 euro al mese di pensione. Ma che storia è questa di Mark Caltagirone? Una storia mal gestita da tutte e tre. Poi Pamela ed Eliana in tv si sono volute accusare tra di loro. Ora abbiamo zero credibilità tutte e tre.

Perché tu non vai in tv a difenderti?

"Secondo me volevano farmi fuori perché Eliana se la rigirano come vogliono. Le avevano promesso 5 ospitate da Barbara D' Urso più l' ingresso al Grande Fratello, poi Pier Silvio Berlusconi per fortuna si è opposto e hanno chiamato Vladimir Luxuria al suo posto".

La telefonata di Mark Caltagirone dalla D' Urso?

"Quella telefonata di non so chi è stata fatta passare su un telefono che ha fatto da ponte a un altro telefono e poi in vivavoce su un altro telefono."

Perché?

"Per mantenere il mistero."

E quando Pamela Prati ha interrotto l' intervista dicendo di andare a chiamare Mark al telefono?

"È andata in bagno a chiamare me. Mi diceva: "Che devo fare? È una trappola, Eliana si è venduta"."

Tu e Eliana state insieme?

"Mio padre mi ha detto: se sei lesbica dillo, ne uscite meglio. Non è così, però."

Simone Coppi come nasce?

"Io e i miei amici abbiamo creato quei profili di Lorenzo e Simone Coppi ai tempi dell' università. Quando Eliana è uscita da Uomini e donne aveva problemi, le diedi il contatto di un amico che si chiamava Simone. Da lì ha iniziato a scriversi con un Simone reale. Poi è venuta a entrambe l' idea di dire ai giornali che sposava questo Simone Coppi, un personaggio inventato, perché non voleva diventare tronista. Ma quanti casini. Cinque anni fa un onorevole di Fratelli d' Italia, Chiara Colosimo, ha conosciuto tale Dany sulla mia bacheca Facebook, questo le ha sottratto 1.600 euro e lei ha fatto un esposto anche contro me e Eliana."

Ma sei tu Mark?

"No. C' è un Marco che veniva al mio ristorante, forse era lui."

E Pamela come entra in contatto con questo Marco?

"Tramite Facebook."

Pamela Prati ha detto di avere paura di te.

"Sono io che ho paura di lei, a Verissimo non l' ho riconosciuta."

Alfonso Signorini ha detto che è stato corteggiato via social da questo Simone Coppi.

"L' ho querelato. Ha detto che lo chiamavo con una voce camuffata, spero possa dimostrarlo."

Manuela Arcuri?

"Lei è stata coinvolta come testimone in un processo che riguarda mio fratello, roba di 'ndrangheta. Si è scambiata in tutto cinque messaggi con questo Simone Coppi da cui dice di essere stata illusa."

Come lo sai?

"Ho le chat."

Come fai ad averle?

"Sono entrata nel profilo di Simone Coppi, profilo in cui Eliana entra dalla mattina alla sera. La Arcuri, la Varone, Signorini: tutte cose del 2009. Non ci sono reati, ma sarebbero comunque prescritti."

Sai che tutto quello che mi dici non regge? Mark Caltagirone non esiste.

"Pamela Parti raccontava anche a me che Caltagirone esisteva: ho suoi messaggi in cui mi dice che è sul divano accanto a lei."

Chi aveva le password del profilo Mark Caltagirone?

"Pamela Prati."

Forse è il momento di dire la verità.

"Come ne devo uscire? Cosa dico? Che lo abbiamo inventato noi tre?"

Io penso che tu ed Eliana gestivate qualche profilo fake, vi divertivate a giocare con identità false. Poi quando avete incrociato Pamela Prati la cosa vi sia sfuggita di mano.

"Secondo te dovrei dire questo?"

Sì.

"Però pensa che figura di merda."

Con queste bugie fai una figura di merda doppia.

"Io per fortuna me ne sto andando a Zanzibar. Apro un resort."

Non volevate far male a nessuno, non avete chiesto soldi. Ditelo.

"Io non ho bisogno di soldi."

È andata come dico io?

"Sì, però un Marco al ristorante è venuto."

Hai creato il personaggio dell' anno.

"In effetti sì, c'è il gusto del gelato Caltagirone, le magliette, all' autogrill le signore mi offrono il caffè, mi chiedono se la Prati si sposa."

Pamela è una vittima?

"Non lo so con chi chattava, diceva bugie anche a me sul fatto che incontrava questo Mark. Poi io lo sapevo che Pamela era consapevole, il profilo di Mark lo gestiva lei, la password di Mark le ha Pamela. A un certo punto ha visto che poteva guadagnare e non si è più fermata."

Ammettete le vostre responsabilità e basta.

"Io ne parlo con gli avvocati e dirò la verità. Farò un comunicato a Dagospia, ai giornali, io dico che abbiamo cazzeggiato con le password, ma le altre non lo diranno mai."

È la verità?

"Più o meno. È stato tutto un gioco, tanto che abbiamo firmato quel documento per non confessarlo. Inutile ora andare in tv a fare le vittime."

Io l' ho detto a Eliana: ma tu pensi di ripulirti?

"Eliana però qualche disagio lo mostra."

Se qualcuno vuole il bene di Eliana, non la inviti più in tv.

"Io non ci vado. Ho chiesto tramite l' avvocato di non crearmi più stati d' ansia con puntate su di me, ho allegato il certificato medico."

Ti senti più libera dopo aver detto queste cose?

''HO PAURA CHE ESCANO I VIDEO DEL SESSO VIRTUALE CON SIMONE''. Valerio Palmieri per ''Chi'' il 29 maggio 2019. Nel film Rashomon di Akira Kurosawa quattro testimoni raccontano la propria versione dello stesso episodio, l’omicidio di un samurai, in maniera così convincente che non si comprende chi stia mentendo. Nel caso di Pamela Prati, invece, i testimoni sono talmente sospetti che non si capisce chi dica la verità e sembrano tutti colpevoli. Così, quando chiamiamo Eliana Michelazzo, una delle due ex manager della Prati, la prima domanda è: «Sei veramente Eliana Michelazzo?». Eliana, titolare dell’agenzia Aicos, per dieci anni ha creduto di essere sposata con un magistrato che non esiste, Simone Coppi, e ha organizzato il matrimonio fantasma fra Pamela Prati e l’altrettanto evanescente Mark Caltagirone. Dietro a questa finzione ci sarebbe, a suo dire, la sua socia, Pamela Perricciolo, che si è finta Coppi. E che, secondo Dagospia che ha sollevato il caso, sarebbe innamorata di Eliana.

Domanda. Che rapporto c’è stato fra lei e la Perricciolo?

Risposta. «Ci siamo conosciute nel 2009, dopo che ero uscita da Uomini e donne. All’inizio si occupava delle mie serate e mi faceva tenerezza perché era in sovrappeso e questa cosa la turbava, così sentivo di doverla proteggere. È lei che mi ha presentato mio marito, Simone Coppi. Lui era molto geloso e mi disse che dovevo stare sempre con Pamela, così è venuta a vivere a casa mia. Anch’io ero gelosa di lui perché mi aveva detto che era stato con Manuela Arcuri, e per questo litigavamo spesso, sempre via social network».

D. Ha mai pensato che Pamela si fosse innamorata di lei?

R. «Non si è mai dichiarata lesbica, mi disse che era stata fidanzata con Igor, il fratello di Simone Coppi e, quando le chiedevo perché non si fidanzasse, mi diceva: “Non ho più uomini né fantasia”. Con me è sempre stata affettuosa, mai morbosa. Avevamo ognuna la propria stanza».

D. Non ha mai sospettato che dietro a Simone Coppi ci fosse lei? Ha mai chattato con Simone mentre Pamela era presente?

R. «No, quando ci scrivevamo lei usciva dalla stanza perché diceva che il suo telefono serviva a creare il campo, Simone era in una località segreta non coperta».

D. E lei ci ha creduto?

R. «Per dieci anni ho creduto a tutto, poi ho avuto i dubbi».

D. Eravate socie alla Aicos.

R. «Pamela discuteva spesso con i nostri assistiti e io dovevo cercare di tamponare. Aveva modi bruschi e diceva frasi tipo “chiamo mio padre e ti faccio vedere io”, alludendo alle accuse di presunti legami con la criminalità organizzata del genitore. Le persone erano spaventate e io le difendevo, ma poi mi arrivava il messaggio di Simone, mio marito, che mi diceva: “Fai schifo, vergognati, non devi litigare con Pamela”. Ho vissuto con il senso di colpa».

D. Quando ha capito che Pamela era Simone Coppi?

R. «Ci ho messo un po’ ma poi tutto mi è stato chiaro. A volte i messaggi di Simone mi arrivavano dal numero di Pamela, sempre perché il suo telefono faceva da ponte. Era troppo anche per un’illusa come me».

D. Perché Pamela avrebbe agganciato persone più o meno famose con false identità?

R. «Penso ci fosse un discorso economico. Mi dicono che abbia chiesto soldi ad alcune persone e anche Sara Varone ha detto di aver pagato per uscire dopo essere stata agganciata da un altro Coppi. E poi sospetto che Pamela, facendo credere a tutti che fossi sposata con un potente magistrato, chiedesse continui favori».

D. Ha paura che esca qualche suo video sconveniente?

R. «Ho paura che escano video del sesso virtuale con Simone».

D. Perché a Live-Non è la D’Urso ha pianto quando qualcuno ha nominato Coppi?

R. «Pamela mi aveva detto che non si poteva parlare di Simone in trasmissione altrimenti la magistratura lo avrebbe punito, quindi avevo il terrore di rovinare tutto».

D. Arriviamo a Pamela Prati.

R. «La conoscevo di vista, poi io e la Perricciolo abbiamo aperto un ristorante e la Prati veniva a cena da noi, così si è stabilito un rapporto più intimo. Quando ho saputo che Pamela le ha presentato Mark Caltagirone mi sono arrabbiata: “Ma non stava con Wanda Ferro e dovevano prendere un bambino in affido?”».

D. Pamela Prati ha una situazione economica critica?

R. «Sì, sapevo della sua situazione economica anche se ho sempre dichiarato che non aveva problemi, l’ho difesa perché è una donna, ha 60 anni, ed è brutto parlare di debiti».

D. Credeva alla storia del matrimonio?

R. «La Prati mi disse che lei e Mark avevano deciso di sposarsi per dare una famiglia ai bambini che stavano per prendere in affido. E penso che anche lei ci credesse perché parlava con questi bambini, anche se poi ho scoperto che Rebecca non esisteva ed era la figlia di un agente dello spettacolo, Sebastian l’ho visto in un bar dove lo ha portato la Perricciolo».

D. Ha organizzato le nozze.

R. «Siamo andate insieme a vedere un ristorante a Caserta, ma alla Prati non piaceva e quindi lei e la Perricciolo sono andate in Umbria. La mia socia mi disse che aveva lasciato un acconto di 15 mila euro, 10 li aveva messi Caltagirone e 5 lei, così le ho fatto un bonifico. Ma, quando il proprietario della tenuta si è tirato indietro, ho scoperto che non era stato dato nessun assegno».

D. Ha detto di non stare bene, si farà seguire da qualcuno?

R. «Vado a farmi visitare dallo psichiatra Alessandro Meluzzi. Credo di avere uno sdoppiamento mentale perché la sera mi manca il messaggio di Simone Coppi, la sua buonanotte».

D. La Prati è stata sincera a Verissimo?

R. «No, non doveva mettermi sullo stesso piano della Perricciolo perché io l’ho sempre protetta, non lo ho mai impedito nulla, al massimo era l’altra Pamela che le impediva di fare delle cose e lei si lamentava. Ha detto che avrei dovuto metterla in guardia, ma io mi scrivevo con Caltagirone e lo avevo visto in un video, per me esisteva. Ma c’è una cosa che non mi torna».

D. Quale?

R. «L’ultima volta che siamo andate insieme a Verissimo e la Prati è uscita dallo studio ero convinta che stesse andando a prendere il telefono per mostrare alla Toffanin le foto che aveva scattato la sera prima con Caltagirone, quando furono “paparazzati” dalla Perricciolo. Invece mi dissero che si era chiusa in camerino e che era al telefono. Dopo venti minuti, Pamela è uscita dal camerino senza cellulare.

“Dov’è il telefono? Devi far vedere la foto di Mark alla Toffanin”. Quando è tornata in studio, però, ha mostrato una foto vecchia, che poi abbiamo scoperto appartenere a Marco Di Carlo, un manager dello spettacolo. “Ma perché non le hai fatto vedere le foto di ieri?”: “Non ci avevo pensato”».

D. Pensa che sia stata tutta una finzione?

R. «Quando Pamela doveva sposarsi e ha cominciato a tirarsi indietro l’ho implorata di fare il matrimonio perché questa cosa ci avrebbe salvato, mentre lei diceva: “Litigo tutti i giorni con Mark perché lui mi offende per il mio ex”. I bambini scrivevano a me, era una situazione assurda».

D. Quanto avete guadagnato con il finto matrimonio della Prati?

R. «Ho perso solo soldi, non ho guadagnato un euro. Ho stornato tutte le fatture di Mediaset relative al matrimonio perché ci ho messo la faccia, ho rinunciato sia ai soldi di Verissimo che di Live-Non è la d’Urso, ci ho rimesso le spese».

D. Avete persino denunciato un’aggressione con l’acido ai danni della Perricciolo.

R. «Una sera ero a casa a vedere la tv quando ho sentito suonare l’antifurto della mia macchina. Ho chiamato Pamela che stava tornando, per dirle che avevo paura, poi l’ho sentita urlare dalla strada: “Mi hanno buttato l’acido!”. Ho chiamato la polizia e sono scesa. Lei ha detto ai poliziotti che erano arrivati due ragazzi a lanciare questa sostanza, ma gli specialisti hanno escluso che fosse acido».

D. Quando ha denunciato la Perricciolo?

R. «Scoprii che aveva mostrato a una nostra collaboratrice una foto del suo polso fasciato dicendo che l’avevo medicata dopo l’aggressione con l’acido. Non era vero, non si era fatta niente, era l’ennesima bugia. Penso che sia stata un’attrice e che ci sia lei dietro a tutto».

D. Come ha reagito?

R. «Ha minacciato gesti estremi, ha detto che si voleva ammazzare e che aveva preso una boccetta di goccine, la sera che Fanpag escrisse dei problemi della sua famiglia è collassata e ha chiamato l’ambulanza».

D. È vero che controllavate tutti i movimenti della Prati?

R. «La Prati stava a casa sua e diceva che si sentiva con Mark, ero io quella controllata, ero io quella a casa con Donna Pamela».

D. Vive ancora con la Perricciolo?

R. «L’ho mandata via, ho dato le chiavi di casa ai suoi genitori per portare via le sue cose e ho fatto denuncia perché si sono presi anche cose mie come un orologio prezioso e i regali che avevo messo via per Simone Coppi».

D. Ha denunciato altri?

R. «Chi ha fatto gossip su di noi, chi ha scritto falsità per distruggermi. Io sono affondata, sono andati via tutti dalla mia agenzia, c’erano 20 persone e sono rimaste in due, ho chiuso la pagina Instagram dell’agenzia e gli sponsor si sono ritirati quando hanno sentito parlare di truffa. Ho perso 100 mila euro e c’è chi ancora mi vuole devastare».

D. Lo sa che quello che ha creduto essere Simone Coppi in realtà esiste, si chiama Stephan Weiler, ed era all’oscuro di tutto?

R. «Lo vorrei incontrare, sono stata innamorata per dieci anni della sua immagine, voglio conoscerlo giusto per capire come è fatto, perché mio marito è alto 1,95 ed è bellissimo, ha 43 anni».

D. Ancora dice “mio marito”?

R. «No, scusi, il mio ex marito virtuale».

Il "finto" figlio adottivo di Pamela Prati costretto a fingere un tumore alla gola. Una verità inquietante si cela dietro i "finti" bambini presi in affido da Pamela Prati. Secondo le rivelazioni della madre, suo figlio era convinto di fare un provino per una fiction. Roberta Damiata, Giovedì 30/05/2019, su Il Giornale. Rivelazione shock a “Live non è la D’Urso” dove si parla ancora del "Prati Gate". Questa sera ancora più sconcertanti, perché viene alla luce l’identità di Sebastian Caltagirone il finto figlio adottivo di Pamela Prati e dell’inesistente Mark Caltagirone. La vicenda ha quasi dell’incredibile, sia per la modalità con cui è stata creata, sia per le conseguenze che hanno lasciato il pubblico e gli opinionisti senza parole. Dopo la puntata di “Live non è la D’Urso” di qualche settimana fa in cui Barbara D’Urso dichiarava di aver ricevuto un videomessaggio sul suo telefonino di un certo Sebastian Caltagirone. Una mamma di cui non è stata resa nota l’identità scrive a Barbara. Dice di aver capito che suo figlio è Sebastian Caltagirone e di averlo scoperto proprio grazie alla trasmissione. Questa signora, che lavora in un negozio di parrucchiera, scrive che conosceva una persona che aveva un’agenzia di spettacolo, visto che era una cliente del negozio. Dopo qualche anno riceve un messaggio di questa persona che le chiede di far partecipare suo figlio ad un casting tramite video selfie per diventare il protagonista di una fiction. Dopo un po’ di insistenza alla fine la mamma accetta di far fare questi provini. Per quasi due anni questa persona chiede in continuo video selfie a suo figlio, fino a che un giorno sempre questa persona che si viene poi a scoprire essere Pamela Perricciolo dice alla mamma di portare il figlio alla prova costume ma in realtà lo porta da Pamela Prati che è in un bar con Eliana Michelazzo e Milena Miconi ed il marito spacciandolo per il figlio di Mark Caltagirone. Al bambino viene detto di non rivelare nulla ai genitori perché quella doveva essere una sorpresa fino a che la mamma guardando la trasmissione della D’Urso ricostruisce il puzzle e scopre che quel bambino di cui si parla è proprio suo figlio, che per tutto il tempo ha creduto di partecipare ad un provino. La cosa passa in mano all’avvocato della famiglia che contatta la trasmissione per chiarire ogni punto. Vengono fuori particolari assurdi come il fatto che il bambino registra un messaggio di “in bocca al lupo” a Barbara D’Urso, oppure messaggi in cui con la voce rotta dal pianto dice di avere un tumore alla gola. Quest’ultimo particolare lascia tutti interdetti e si profilano storie davvero inquietanti dietro tutta questa intricata e tristissima vicenda.

Pamela Prati a «Chi l’ha visto?» per parlare di truffe romantiche. E scoppia la polemica. Pubblicato martedì, 28 maggio 2019 da Corriere.it. Sarà ospite di «Chi l’ha visto?» per parlare di «truffe romantiche». Ed è subito polemica. Al centro ancora una volta Pamela Prati, ovvero la donna di cui tutti parlano nelle scorse settimane, del finto matrimonio con l’inesistente Mark Caltagirone. E la sua presenza in studio, alla vigilia della messa in onda della trasmissione, è già al centro del dibattito. La trasmissione di Rai3, su Twitter e poi sul sito, specifica che nella puntata di mercoledì si parlerà di «truffe romantiche», ovvero di donne che cadono nelle trappole intessute online attraverso falsi profili, uomini inesistenti, o ancora «identità rubate», con lo scopo di estorcere denaro alla vittime. Donne truffate e ingannate. «Per salvare queste donne e questi uomini di cui nessuno parla è importante non lasciarli soli» si legge sul sito della trasmissione. E ancora: «Con Federica Sciarelli sarà ospite in studio in diretta Pamela Prati (che naturalmente ha dato la sua disponibilità a titolo gratuito)». Non si chiarisce in che veste interverrà la Prati, ma appena la notizia aveva cominciato a circolare erano iniziate le polemiche. Tanto che il direttore di Rai3 Stefano Coletta aveva precisato che la partecipazione della showgirl sarebbe stata a titolo gratuito. Polemico anche l’intervento di Michele Anzaldi (Partito Democratico), segretario della commissione di Vigilanza Rai che scrive: «La Raitre di Angelo Guglielmi, la Raitre che ha inventato “Mi manda Lubrano”, non merita di finire coinvolta nella truffa del caso Pamela Prati. La scelta di invitarla a “Chi l’ha visto”, un marchio storico della terza Rete, lascia allibiti». E ancora: «Federica Sciarelli è una delle giornaliste migliori che ha la Rai, quindi mi appello alla sua professionalità e al buonsenso affinché la trasmissione e i telespettatori vengano tutelati. Questa scelta trash lascia tanti, troppi dubbi».

Giuseppe Candela per Il Fatto Quotidiano il 28 maggio 2019. Pamela Prati sarà ospite domani sera a “Chi l’ha visto?”, la notizia anticipata da Dagospia arriva come un fulmine a ciel sereno tra una marea di dubbi e interrogativi. La showgirl sarda non chiederà a Federica Sciarelli di aiutarla nella ricerca dell’inesistente Mark Caltagirone ma parteciperà a un blocco della trasmissione di Rai3 dedicata alle truffe online. In contemporanea su Canale 5 a Non è la D’Urso presenzierà, come accennato da Tvblog, la sua ex manager, ora accusatrice, Eliana Michelazzo. Una notizia, dicevamo, che ha suscitato molti dubbi perché, come è noto, la primadonna del Bagaglino ha ammesso di aver inventato un finto marito e due figli in affido, oltre ad altre bufale su cui ancora non è stata fatta chiarezza. Bugie che ha raccontato a Domenica In e Vieni da me, con la successiva interrogazione dell’esponente del Pd Michele Anzaldi per conoscere i compensi destinati alla signora Prati. Circa tremila euro per realizzare l’intervista con Mara Venier, cifra che secondo Pamela Perricciolo sarebbe già stata pignorata. Cosa c’entra Pamela Prati con la trasmissione simbolo del servizio pubblico? Stefano Coletta, direttore di Rai3, al FattoQuotidiano.it assicura che la showgirl non percepirà un cachet: “Pamela Prati non sarà pagata, a Chi l’ha visto? nessuno riceve compenso. Siamo una trasmissione di servizio pubblico e per etica scegliamo di non retribuire nessuno”. Il dirigente della terza rete spiega che la trasmissione condotta da Federica Sciarelli si occupa da tempo dell’argomento: “‘Chi l’ha visto?’ si è occupato delle truffe romantiche per primo, già due anni fa abbiamo raccontato di tantissime donne vittime di questo meccanismo. Il programma fa un lavoro di documentazione molto preciso, domani sera riproporrà una serie di donne ingannate che hanno pagato in alcuni casi con la vita, in altri con tanti soldi. Queste storie vengono fuori quando c’è un personaggio noto in qualche modo coinvolto, su queste storie si costruiscono soap ma in realtà ci sono vite distrutte.” L’invito assicura Coletta non sarebbe legato a logiche auditel: “Il calo di ascolto della scorsa settimana non è stato dovuto alla presenza della Prati a Non è la D’Urso, mercoledì Rai3 ha avuto le tribune elettorali in prima serata. Il programma non è dunque cominciato alla sua solita ora.”

Chi l'ha visto?, scoppia il caos per l'ospitata di Pamela Prati. La showgirl sarà in studio da Federica Sciarelli nella puntata del programma di Rai 3 in onda mercoledì 29 maggio. La Commissione di Vigilanza Rai pronta a intervenire. Francesco Canino su Panorama il 28 maggio 2019. Sembra una boutade ma non lo è: Pamela Prati sarà ospite a Chi l'ha visto?, il programma cult di Rai 3. Non per trovare il misterioso Mark Caltagirone - visto che ormai è acclarato che non è mai esistito, ammesso che qualcuno abbia mai creduto alla sua esistenza - ma per parlare con Federica Sciarelli di truffe romantiche. Una scelta che a molti è parsa surreale e che ha scatenato molte polemiche (anche politiche). 

Chi l'ha visto?, scoppia il caos per l'ospitata di Pamela Prati. Dunque per parlare di "truffe romantiche" anche l'ultra regimental Chi l'ha visto? si affida all'effetto Prati-gate, la storia del matrimonio con l'invisibile Mark Caltagirone. A forza di aspettare Godot, la soubrette alla fine ha ceduto rivelando a Verissimo che l'uomo non esiste e che lei è rimasta vittima di un raggiro social ad opera delle sue ex agenti, Eliana Michelazzo e Pamela Perriciolo. Le tre continuano a rimbalzarsi la palla avvelenata delle responsabilità, in tanti dubitano della versione (piena di incongruenze) fornita dalla Prati a Silvia Toffanin ma nonostante questo la Sciarelli l'ha arruolata nella puntata di mercoledì 29 maggio che di certo la aiuterà sul piano degli ascolti (il programma per altro se la cava bene comunque). "I criminali senza cuore che si nascondono dietro ai profili trappola continuano a mietere vittime, nonostante il programma abbia anche portato in televisione l'uomo, vittima anche lui, le cui immagini su internet sono tra le più usate dai truffatori per fare innamorare le loro prede. Per salvare queste donne e questi uomini di cui nessuno parla è importante non lasciarli soli. Con Federica Sciarelli sarà ospite in studio in diretta Pamela Prati (che naturalmente ha dato la sua disponibilità a titolo gratuito)", spiega la trasmissione attraverso il suo sito ufficiale.

Il cachet della Prati. Proprio attorno all'opportunità che la Rai paghi Pamela Prati per l'ospitata a Rai 3 è scoppiata la polemica più accesa, anche sui social, tanto che è intervenuto anche il direttore di rete, Stefano Coletta, precisando: "Non sarà pagata, a Chi l’ha visto? nessuno riceve compenso. Siamo una trasmissione di servizio pubblico e per etica scegliamo di non retribuire nessuno", ha detto a Il Fatto Quotidiano. "Non può essere pagata perché è pignorata dall'Agenzia delle entrate", ha rilanciato malizioso Dagospia, il sito che ha fatto scoppiare e ha alimentato settimana dopo settimana il Prati-gate. Sulla questione compensi è intervenuta anche Pamela Perricciolo che, intervistata da Selvaggia Lucarelli ha rivelato: "I produttori le hanno detto che con gli avvocati dovevano decidere se Mediaset fosse parte offesa per truffa. Le hanno congelato il cachet, 40.000 euro. Non so se ha risolto. Prende 1.200 euro al mese di pensione".

La Commissione di Vigilia Rai all'attacco. Tornando a Chi l'ha visto?, la puntata deve ancora andare in onda ma l'onorevole del Pd Michele Anzaldi è già pronto a presentare un'interrogazione parlamentare dopo quella dello scorso aprile, dalla quale è emerso che Pamela Prati ha ricevuto un compenso di 3 mila euro per l'ospitata a Domenica In, da Mara Venier. "Presenterò un’altra interrogazione: non capisco perché la Rai deve scadere nel trash e mi stupisco che Federica Sciarelli, una professionista assoluta, presti il fianco a questa vicenda squallida", spiega Anzaldi a Panorama.it. "Se si voleva una testimonianza viva e controversa sul tema delle truffe sentimentali, si poteva chiamare chiunque invece di scegliere la Prati solo per inseguire gli ascolti". "Se sarà il caso, in Vigilanza cercheremo di capire i dettagli di questa ospitata, ad esempio se verrà rilasciato un rimborso spese per la partecipazione, al netto del cachet gratuito precisato da Coletta", aggiunge a Panorama.it il segretario della Commissione di Vigilanza Rai, l'onorevole leghista Massimiliano Capitanio. Che spiega: "Se un programma come Chi l'ha visto? sceglie di analizzare questo caso, diventato un 'fenomeno' popolare, è indispensabile che lo faccia senza versare alcun cachet visto che sembra si tratti di una gigantesca trovata pubblicitaria sfuggita di mano".

SCIARELLI A BRANDELLI. Beatrice Dondi per L'Espresso il 31 maggio 2019. Come un Canale 5 qualunque, anche Rai Tre ha impugnato il cucchiaio di legno per raschiare il barile dell'inutile. Il caso Pamela Prati, quello che ha privato la televisione tutta del suo ultimo briciolo di senso è approdato in pompa magna nella trasmissione di Federica Sciarelli moltiplicando, se possibile, la sua assurdità. E no, non è stato un'operazione gradevole. Quando è stata annunciata l'ospitata della soubrettina del Bagaglino in una puntata dedicata alle truffe amorose il brusio di malcontento si è acceso in un attimo, al punto che il direttore di rete Stefano Coletta ha dovuto precisare che la signora Prati sarebbe intervenuta a titolo gratuito. Perché "Chi l'ha visto" è un programma storico che si è guadagnato la stima del pubblico nei decenni in senso letterale e si sa che il tradimento quando colpisce un legame consolidato fa molto più male. La triste vicenda del matrimonio di Pamela Prati ha occupato lo schermo per settimane. Giocando su un personaggio a cui non si è neanche chiesto il requisito minimo: quello di esistere. Così la Sciarelli ha messo le mani avanti nell'anteprima, chiedendo di non criticare prima di aver visto, prima di aver capito dove sarebbero andati a parare. Poi ha annunciato con voce determinata la presenza in studio di Pamela Prati ma per tutta la sera l'ha tenuta lì, impettita e silente, con l'occhio lucido, l'aria tirata, la faccia sofferta. Come una pura e dichiaratissima esca. In modo da tenere incollati al piccolo schermo tutti coloro che delle donne vittime delle truffe online non gliene importava rigorosamente nulla perché il momento circense più atteso era ingessato nel tailleur pantalone e nei capelli neri della signora del Bagaglino. Che non ha neppure aperto bocca. E per quasi tre lunghissime ore il programma è andato avanti per la sua strada accarezzando la Prati con inquadrature sfuggenti, facendo sì che mentre si raccontavano le storie terribili di Caterina che si è tolta la vita, di Sofia che è stata massacrata di botte e altri orrori senza fine il sentimento comunque fosse unicamente quello dell'impazienza. Impazienza per sapere cosa avesse da dire la sposa mancata dell'uomo inesistente. E impazienza per essere costretti, da buoni guardoni, a saltellare con il telecomando su Barbara D'Urso. Che in onda con il suo Live stava al contrario portando avanti una sorta di inchiesta alla Sciarelli, sturando il lavandino dell'innominabile con nuovi dettagli sull'affaire, sempre più disgustoso di Mark Caltagirone e compagnia fantasma. Alla fine in un'apoteosi di assenze, la serata con Federica Sciarelli ha deluso tre volte. Perché chi voleva la Prati si è sentito truffato in una puntata sulle tragiche illusioni. Perché ha messo nero su bianco che per parlare di donne devastate bisogna sventolare un interesse altro, come se gli spettatori fossero dei bambini che non vogliono mangiare le verdure e per fregarli le devi mascherare nelle polpette. E perché, ultimo ma non ultimo, da Rai Tre il camouflage per coprire l'acne è davvero difficile da mandare giù.

IL “FAKE WEDDING” DI PAMELA PRATI FA INCAZZARE ALDO GRASSO (MA IL ''CORRIERE'' E' STATO IL PRIMO A DARGLI CREDITO!! E SUL SITO C'E' UN ARTICOLO AL GIORNO): “PERCHÉ MEDIASET E RAI HANNO DATO TANTO SPAZIO A QUESTA OPERAZIONE DI CIARPAME, DI DILETTAZIONE PIETOSA? Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 21 maggio 2019. Il brodo di coltura è sempre quello: se non è Maria è Barbara, se non è Barbara è Maria. L'evento televisivo più chiacchierato è una bufala, una fake news, il trionfo del trash più squallido: le finte nozze tra Pamela Prati e l' inesistente Mark Caltagirone. Perché Mediaset e Rai (il cosiddetto servizio pubblico) hanno dato così tanto spazio a questa operazione di ciarpame, di dilettazione pietosa? Perché in nome dell'ascolto si commettono ancora così tanti delitti estetici? Perché i giornali hanno fatta da cassa di risonanza? Una certa Eliana Michelazzo, agente della soubrette sarda, ex corteggiatrice di «Uomini e donne», ha rilasciato un'intervista, già registrata, a «Live-Non è la d'Urso». Nell' intervista si dice quello che tutti già sapevano: non ha mai incontrato di persona Mark Caltagirone (perché non esiste). Quante ore di trasmissione sono state fatte su questa colossale panzana? Quanti personaggi sono intervenuti a strappare il loro quarto d'ora di visibilità? Una certa Federica Benincà è stata ospite di Eleonora Daniele nel programma mattutino di Rai1 «Storie Italiane». La ragazza ha rivelato che Mark Caltagirone non esiste. L'ex corteggiatrice di «Uomini e donne» ha detto che per ben due anni ha lavorato con Aicos Management (ovvero la spietata agenzia di Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo) e non ci sono mai stati problemi fino a quando non è scoppiato il caso Pamela Prati: «La stessa Prati, una sera a cena, mi ha fatto vedere i braccialettini che i figli di Mark le avrebbero regalato, i loro disegni che le dedicavano. Scioccante. Era tutto un bluff». Da tempo non si vedeva in tv un tale clima di resa morale all'universo sottoculturale, una specie di celebrazione della bufala come «liberazione della parola delle donne»: è il vuoto del cuore che si specchia nel vuoto della mente. Poi non lamentiamoci se veniamo governati dalle fake news, se un mondo di creduloni determina il nostro destino politico.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2019. Quando un tema funziona in tv, tutti cercano di accodarvisi nella quotidiana caccia agli ascolti: ma non sempre il gioco riesce bene. È quanto accaduto mercoledì sera, con Pamela Prati riprodotta e «parlata» contemporaneamente su Rai3 e Canale 5: da un lato Federica Sciarelli portava a Chi l' ha visto? una muta Pamela a fare da «testimonial» a un' inchiesta sulle truffe online ai danni delle donne, dall' altro lato c' era Barbara d' Urso con un' altra puntata di Pratiful attovagliata a Live. Non è la d' Urso. I dati del giorno dopo sulla «Prati bifronte» insegnano qualcosa dei meccanismi della tv. Chi l' ha visto? , che pure resta uno dei programmi più seguiti della rete, accetta di delegittimarsi un po' pensando di raccogliere parte dell' ascolto eroso negli ultimi anni. Ma il risultato (2.133.000 spettatori, 9,9% di share) è in linea, se non un po' più basso, rispetto alla media della trasmissione (10,1%). Insomma la Prati «da servizio pubblico» non porta ascolti alla Rete, e fa deviare parecchio dall' idea di fondo del programma (che risale alla mitica Rai3 di Angelo Guglielmi). Decisamente più riuscita l' operazione chiacchiericcio attorno a un caso ormai più che risolto e chiarito (il presunto Mark Caltagirone non esiste, e tutta la storia è una gigantesca bufala): non importa che la realtà sia svanita del tutto da questa vicenda, perché 3.184.000 persone seguono Live , il 19% della platea tv (ovvero qualche punto sopra la media di rete). In quest' affare di donne (anche l' ascolto di Live è al 70% femminile), il tentativo di contendersi il pubblico femminile va decisamente a vantaggio di Barbara più che di Federica: è lì che il miscuglio di chiacchiere improbabili su un caso vero solo perché è in tv incontra il suo pubblico di riferimento, è lì che «Pratiful» è fiorito rigogliosamente.

DAGO REPLICA AD ALDO GRASSO.

Liberoquotidiano.it il 2 giugno 2019.  - "Barbara D’Urso ha dedicato ore di trasmissione al degrado di questo racconto", "una conduttrice senza remore", "il punto più basso della televisione italiana. Aldo Grasso se la prende con Barbara d'Urso (solo lei, mah) per il caso di Pamela Prati e del finto marito Mark Caltagirone, personaggio inventato ma utile per fare parlare di sé. Il critico televisivo del Corriere della sera se la prende con la televisione brutta e cattiva che racconta questo giallo che ha ipnotizzato l'Italia. Per lui si tratta di apoteosi della trash tv.

Roberto D’Agostino per Vanity Fair il 2 giugno 2019. Fin da bambini giochiamo a essere invisibili, spesso abbiamo amici invisibili: sono passaggi fondamentali per lo sviluppo psichico. Poi da adulti il vero mistero del mondo diventa il visibile, non l’invisibile. Ma non per Pamela Prati, soubrette sessantenne in declino di popolarità, che ha saputo unire l’invisibile e l’inesistente e intascare qualche dovizioso compenso. E solo coloro che possono vedere l’invisibile, possono compiere l’impossibile, come annunciare in ogni media di sposarsi con una persona mai vista. La saga del suo “omesso sposo”, l’inesistente Mark Caltagirone, scoperchiata da Dagospia, tiene banco da un mese e mezzo, incendiando di chiacchiere e balle, le trasmissioni popolari e la stampa di ogni tipo. Ormai è una figura iconica che è entrata anche nella politica. “Che fine ha fatto Mark Caltagirone? Ha fatto la fine di Zingaretti, non esiste. E' come il Pd...". Così scherza Alessandro Di Battista. E il segretario del Pd risponde citandolo a ''Pomeriggio 5'' per attaccare i pentaleghisti: "Il governo è come Mark Caltagirone, in realtà non c'è perché non fa niente. non c'è nei problemi della vita della persone''. L’”omesso sposo” inventato da Pamela Prati, in combutta con le socie ed ex amiche Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo, appartiene ormai allo zeitgeist, allo spirito del tempo, come a suo tempo l’arboriano e inesistente “Cacao Meravigliao”. Fino al punto che una casa di produzioni di sex toys, Mysecretcase, nella sua pubblicità ha sbattuto uno svettante dildo color fucsia aggiungendo come headline: “Pamela, questo è reale. Basta mariti fantasma”. Il motore del “caso Caltagirone”, straricco di fake, dette dalle nostre parti fregnacce, è stata la Rete, tra un post su Whatsapp e un video su Facebook e una “storia” su Instagram. L’enorme successo di Internet in qualsiasi stato del mondo e classe sociale, dai poveri ai ricchi, ha origine dalla sua capacità di creare un mondo parallelo a quello reale. Questa copia digitale del mondo chiamata Web ci dà la possibilità di creare una vita parallela attraverso i social, ridefinendo concetti come quelli di realtà e verità (dalle fake news alla postverità), ma soprattutto ha aumentato lo spaesamento e l’impossibilità di distinguere la sfera reality e da quella reale. Esiste solo ciò che viene inventato e postato. Io sono la mia fiction. La differenza è che oggi non siamo protagonisti del ‘’Grande Fratello’’, come avremmo potuto immaginare leggendo ‘’1984’’ o ‘’La fattoria degli animali’’, ma ne siamo registi e autori. Già nel 1963 Andy Warhol affermava: “A chi interessa la verità? Ecco a cosa serve il mondo dello spettacolo. A dimostrare che non conta chi sei, ma chi il pubblico pensa che tu sia”. A dimostrazione della tesi, aggiungeva: “Non so dove l’artificio finisce e inizia la realtà”. Internet ha cancellato il mondo reale e ci ha lasciato il mondo reality, in cui nulla è serio, tutto è permesso? “Non c’è dubbio che ci sia un mondo invisibile’’, ironizzava Woody Allen. ‘’Il problema è, quanto dista dal centro storico e qual è l’orario di chiusura?’’

Dagonews il 30 maggio 2019. - Il bimbo di 10 anni usato per impersonare l'inesistente Sebastian Caltagirone, di cui ha parlato l'avvocato della famiglia ieri sera a Live - Non è la D'Urso, non è stato usato solo per mandare foto e video a Barbara D'Urso, Pamela Prati e Wanda Ferro (tra gli altri). Ora che ilfattoquotidiano.it ha pubblicato la foto con la Ferro, Dagospia ha potuto verificare che si tratta dello stesso bambino le cui foto apparivano sul profilo di "Seba Caltagirone". Noi le avevamo screenshottate quasi due mesi fa, quando il profilo di ''Seba'' era aperto e pieno di post e commenti. Ovviamente, visto che c'erano queste immagini, non abbiamo mai trattato la questione in maniera approfondita, temendo che dietro ci potesse essere davvero un bimbo plagiato e sfruttato dal trio criminale. Quando Milena Miconi ha detto in tv di aver visto Sebastian dal vivo, abbiamo chiesto alla showgirl se lo riconosceva nelle foto che avevamo salvato. Ci disse di sì, e quindi non siamo andati avanti, per non coinvolgere minori inconsapevoli né le loro famiglie. Oggi che sappiamo la verità e sappiamo che il bimbo e la famiglia si sono tutelati legalmente, crediamo che sia molto importante parlare del ''sistema Sebastian'', un ingranaggio chiave della soap opera costruita dalle due agenti (e in seguito pure dalla Prati). Sebastian sulla sua bacheca scambiava decine di messaggi con Donna Pamela Perricciolo, Pamela Prati (che lo chiamava ''figlio mio''), con l'inesistente Silvia Sbrigoli, e faceva capire ai suoi molti amici social di essere malato, di avere un padre miliardario, di vivere a Bonifacio (Corsica), anche se molto spesso si trovava a Roma e come massima aspirazione aveva quella di andare al ''Casanova'', il ristorante gestito dalle due agenti. Era un tifoso sfegatato della Lazio, tanto da farsi fare una video-dedica da Anna Falchi su commissione della ''zia'' Perricciolo. Era fondamentale per accreditare l'esistenza, il potere e la ricchezza del finto Mark. Sebastian parlava dei continui viaggi di lavoro del padre giramondo, di voli in elicottero, persino di udienze private da Papa Bergoglio (dopo il monsignore che doveva sposare Pamela e Mark, poteva mancare il Pontefice?). Ma, e qui si arriva all'abisso, il bimbo veniva trasformato in arma impropria quando occorreva colpire chi finiva sul lato oscuro del pianeta Perricciolo. Sul profilo, disattivato dopo i primi articoli di Dagospia, c'erano tre foto in cui si vedeva in volto: una con Donna Pamela, una da solo con la didascalia ''Forza Lazio'' e un'altra in cui parla di una donna che lo ha ferito. Col suo italiano artificialmente sgrammaticato nei commenti manda messaggi pesantissimi a Wanda Ferro, senza menzionarla, proprio mentre il rapporto tra la deputata di Fratelli d'Italia e le due agenti si era deteriorato, tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018.

Da quando abbiamo iniziato a parlare del caso, in molti si chiedono ''A che serviva tutto questo?''. La risposta non è semplice, ma si può riassumere così: ricatti, pressioni, raccolta di informazioni sensibili, truffe varie e pure estorsioni. Immaginate la scena: dopo due anni di amore social tra Mark Caltagirone e Wanda Ferro, suggellato con una dichiarazione di nozze su Facebook e tante immagini di fedi (sempre le fedi! Chissà se le avevano comprate all'ingrosso), di colpo i protagonisti della messinscena cambiano registro. Il piccolo e malato Sebastian, Hellen Roma (che si chiamava Hellen Coppi quando serviva ad accreditare l'esistenza del marito di Eliana), Igor Lazio (già Igor Coppi, cugino di Simone, ex fidanzato di Pamela Perricciolo e ora dipendente di Mark Caltagirone), Silvia Sbrigoli (avatar creato con le foto di Flora Pellino e i video di Pamela Camassa) e tanti altri personaggi veri e inventati, come un esercito di robot che ricevono un ordine dalla Nave Madre (Pamela Perricciolo), si rivoltano all'unisono contro la Ferro, rea di aver voltato le spalle al duo malefico. Mentre le loro bacheche si tappezzavano di messaggi indiretti alla ''madre traditrice'', alla ''politica infida'', Mark Caltagirone scriveva in privato ad Alessia Bausone, politica del Pd calabrese, vergando una charachter assassination contro la Ferro, candidata per le imminenti elezioni politiche di marzo 2018. In quei messaggi la Ferro veniva descritta come una madre degenere che abbandona il bambino in affido malato di tumore a un povero padre single, più un'altra serie di dettagli personali (inventati pure quelli) che qui non scriveremo, ma servivano a distruggerla sul piano umano e politico. Perché tutto ciò? Perché per rovinare qualcuno, la via più rapida è confidarsi con il suo miglior nemico. La Perricciolo, che manovrava il profilo di Mark (la Prati ancora non era entrata in gioco), sperava che fornendo alla Bausone informazioni compromettenti sulla rivale di Fratelli d'Italia, quelle chicche di fango sarebbero diventate saporito gossip nel mondo politico calabrese. In fondo, chiunque andava sul profilo di Mark poteva trovare tracce inequivocabili del suo amore, corrisposto, per la Ferro. Perché dubitare di un uomo sì ferito, ma tanto altruista e innamorato? Invece la Bausone ha annusato la fregatura, salvato quelle immagini e aspettato di vedere cosa sarebbe successo, per poi scrivere a Dagospia, e bisogna darle atto di essere stata la prima che ha messo la faccia e fatto nomi e cognomi per svelare il marcio che si nascondeva dietro questi falsi profili. Prima di Wanda Ferro, la stessa procedura era stata testata con Chiara Colosimo, anche lei di Fratelli d'Italia. Eliana e Pamela portavano i loro ''vip'' alle serate di Atreju, la festa che ogni anni il partito della Meloni organizza a Roma, non a caso Sebastian Caltagirone un tempo si chiamava Gio Inolem, ovvero Meloni al contrario, probabilmente quando ancora era un profilo ''dormiente'' che serviva a creare traffico sulle pagine dei politici. Le due conoscevano bene quel mondo e potevano individuare facilmente vittime da colpire. La Perricciolo ha raccontato alla Lucarelli sul ''Fatto'' che l'onorevole Colosimo ''ha conosciuto tale Dany sulla mia bacheca Facebook, questo le ha sottratto 1.600 euro e lei ha fatto un esposto anche contro me e Eliana.'' Chi si nasconde dietro Dany, a questo punto, lo sanno pure i sassi, è lo stesso meccanismo usato con Sara Varone, Emanuele Trimarchi, Manuela Arcuri, Alfonso Signorini, stavolta declinato sul piano politico. Avere in mano persone ricattabili, che magari hanno inviato frasi, video, o informazioni ''sensibili'', garantiva alle due agenti potere, favori e benefici economici. Figuriamoci poi se si aggiungono le minacce di mettere in mezzo la temibile famiglia Perricciolo, il marito magistrato di Eliana, e lo zio penalista di grido. Una ''combo'' imparabile a cui nessuno poteva rispondere. Per questo nessuno (fino a poco fa) ha sporto denuncia.

PS: Se la dolce Eliana – ormai in modalità Anna Magnani che si butta a terra e chiagne dopo aver fottuto (virtualmente, sia chiaro!) – ha scoperto solo in questi giorni che il suo Simone Coppi non esiste, non si è chiesta come mai i membri della sua famiglia adorata avessero di colpo cambiato nome a partire dal 2017? Eppure lei commentava i post di Igor Lazio, già Coppi, quando questi partiva per il Giappone agli ordini del prode Mark Caltagirone... Interagiva con Hellen anche quando – con scarsa fantasia – da Coppi si trasforma in Roma.

Giuseppe Candela perilfattoquotidiano.it il 30 maggio 2019. L’affaire Prati-Caltagirone, con la complicità del duo Perricciolo-Michelazzo, ha superato ormai da tempo i confini del gossip, coinvolgendo, seppur in modo diverso, direttori di giornali e politici. E’ il caso di Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia. Il 23 aprile 2016 Mark Caltagirone, sposo inesistente della primadonna del Bagaglino, sul suo profilo Facebook comunicava ai suoi amici di essersi sposato proprio con la parlamentare calabrese. Sui social erano apparse le immagini delle iniziali tatuate da entrambi, in altri scatti la parlamentare appariva con Pamela Perricciolo: “Tengo a precisare che non sono mai stata sposata con alcuno, come si può facilmente verificare, e che non ho mai conosciuto personalmente Marco Caltagirone, al quale mi legano esclusivamente alcuni scambi di battute scherzose su Facebook risalenti ad alcuni anni fa”, aveva scritto l’onorevole a Dagospia. L’esponente del partito di Giorgia Meloni in queste settimane ha scelto di non commentare nuovamente il caso, ieri durante Non è la D’Urso è stata tirata in ballo da Eliana Michelazzo, ex manager della showgirl sarda: “Wanda Ferro ha detto che non ha fatto nulla e lei ha la fotografia con il finto Sebastian, l’ho vista dal cellulare della Perricciolo. Tre anni fa questo bambino ha fatto la fotografia all’aeroporto o da qualche parte. Wanda Ferro invece di negare dovrebbe dire la verità, è un’altra che mente”, ha attaccato l’ex corteggiatrice di Uomini e Donne. Come rivelato da Dagospia i bambini in affido a Pamela Prati erano infatti inesistenti, un minore (vero) è però stato usato per due incontri pubblici, foto e note vocali. La vera mamma del finto Sebastian Caltagirone è intervenuta nel programma di Barbara D’Urso, scegliendo di non apparire per non rendere visibile suo figlio, ma annunciando: “Agiremo per vie legali, ora mi è crollato il mondo addosso“. Il minore pensava di recitare in una fiction, dove interpretava proprio il ruolo di Sebastian, italo-spagnolo, colpito da un tumore alla gola e affidato a un imprenditore. La foto di cui parla la Michelazzo esiste e IlFattoQuotidiano.it la mostra, non rendendo visibile ovviamente il minore. Si vede proprio la parlamentare Wanda Ferro in compagnia del finto Sebastian Caltagirone alla stazione Termini di Roma. L’avvocato della famiglia del bambino aveva spiegato in diretta: “La prima volta il bambino è stata accompagnato dal papà, seguiva con la sua macchina l’auto in cui suo figlio era con la Perricciolo.Sono andati alla stazione Termini, sono entrati a girare una scena ma al padre non l’hanno fatto entrare. Il bambino mi ha detto: ‘Io dovevo accompagnare mamma al vagone, le dovevo chiedere di prendere le valigie e lei mi doveva dire ‘No amore mio sono pesanti le porto io’, dovevo essere triste perché mamma partiva’. Lui non mi ha detto che fosse Pamela Prati, qui si tratta di una attrice (?) riccia che il papà non ha mai visto. Alla fine l’attrice voleva salutare il papà del bambino ma la Perricciolo non lo ha permesso.” Le parole del legale sembrano confermare la modalità e il luogo dell’incontro, oltre alla descrizione dell’onorevole di Fratelli d’Italia che ha appunto i capelli ricci. La Ferro sapeva che il bambino in questione non era Sebastian Caltagirone? E quando ha scoperto che un bambino è stato usato dalla Perricciolo? “Sono stata chiamata in causa in una storia che tutti hanno compreso essere un coacervo di falsità e menzogne”, spiega la parlamentare contattata dal FattoQuotidiano.it per poi aggiungere: “Ho sempre pensato che i magistrati avessero cose più serie e importanti di cui occuparsi, ma nel momento in cui sono emersi scenari gravi e inquietanti ho affidato la questione ai miei legali che hanno già da tempo presentato le denunce del caso. Essendo in corso indagini, anche su mia iniziativa, non ritengo opportuno rendere dichiarazioni pubbliche”.

Da “TeleLombardia” il 30 maggio 2019. Di seguito uno stralcio delle dichiarazioni dell’avvocato Carlo Taormina, ex legale di Pamela Prati sul caso Mark Caltagirone. La versione integrale sarà in onda questa sera nel corso della trasmissione “Iceberg Lombardia” in onda su Telelombardia a partire dalle 20.30. “Se mi sono sentito preso in giro? No, assolutamente. Chiunque viene in studio da me prima di essere creduto passa da determinati approfondimenti. Questa è un’industria quella della creazione di matrimoni finti, con vantaggio mediatico ed economico. Qui almeno la cosa è scoppiata e se c’è un esposto finalmente si potrà sventare una possibile truffa. Io non sono stato mai invitato al matrimonio della Prati. Avevo anche chiesto a Pamela Prati di farmi chiamare da Mark Caltagirone e a questa domanda non c'era stata risposta, nemmeno a mia precisa richiesta mi è stata mostrata alcuna fotografia. La Prati non poteva non essere a conoscenza che si trattava di una situazione uguale a tante altre, compresa la vicenda della Miconi. Loro volevano che io andassi da Barbara D'Urso a testimoniare che Mark Caltagirone esisteva. Fu Pamela Prati a chiedermi questa cosa. Io ho detto di no, non sono caduto nella loro trappola. Sarei risultato una pedina della truffa complessiva. E’ stata proprio Pamela Prati a chiedermi di andare ospite dalla D’Urso, avrebbe gradito che fossi andato con le due agenti, la Michelazzo e la Perricciolo. Ho tenuto il gioco fino a quando ho avuto la prova in mano che fosse una farsa. E cosi ho rimesso il mandato. Due tre mesi fa sono venute nel mio studio. La Prati capì subito che non si poteva scherzare. È arrivata con la sua agente. La Prati voleva dettare la linea difensiva. Intendeva dirmi come mi sarei dovuto comportare. A me è sembrata sempre molto lucida e determinata, impossibile prefigurare la circonvenzione di incapace. Pamela Prati ha sempre capito le cose come stavano, inizialmente era convinta di quello che stava facendo con le agenti, ma successivamente non lo so. Da una parte non mi convinceva più l’intesa tra le tre. Mi stavano prendendo in giro. Perché ho rimesso il mandato? Quello che mi veniva riferito lo avevo ritenuto veritiero, poi ho riflettuto e ho detto a Pamela Prati che dietro poteva esserci una strumentalizzazione, le due agenti erano molto legate. Ho messo in guardia Pamela e le ho detto che se avesse avuto l’utilità dell’esclusiva del suo matrimonio, senza che il matrimonio esistesse realmente, sarebbe stata una truffa consumata. Sono venute da me tutte e tre un mese prima del matrimonio, da una parte le stava stretta l’esclusiva con “Verissimo” dall’altra parte le dava fastidio che dalla D’Urso si portasse avanti la storia del matrimonio con le dichiarazioni dei suoi ex. Per quanto riguarda l’aggressione con l’acido, Pamela Perricciolo e Pamela Prati sono venute da me in studio, la Michelazzo non era voluta salire e quel giorno non l’ho vista. La Perricciolo mi si è presenta con un braccio fasciato, la Prati mi parlava di un candelotto davanti la porta di casa sua, sembrava spaventata e credere all’episodio successo alla Perricciolo. Ma io francamente tutto ho potuto pensare tranne che fosse stata aggredita con l’acido. La Perricciolo stava facendo un’azione non condivisibile. Pamela Prati mi ha pregato che non lasciassi il caso, che rimanessi, mi ha detto che la faccenda aveva bisogno di un professionista di spessore. Ma io ho lasciato il caso. Condizioni economiche Prati? Non ho parlato di soldi con la Prati, perché avevo capito che c’era un giro di denaro che non mi avrebbe fatto pentire”.

PRATI DISERBATI. Sebastiano Cascone per Gossipblog il 31 maggio 2019.  Marco Di Carlo, oggi, è intervenuto, a 'Storie Italiane', per raccontare gli ultimi risvolti (giudiziari) del Pratigate. Stamattina, il manager dello spettacolo ha deciso di denunciare la vicenda per tutelare se stesso e la propria figlioletta nelle sedi competenti: Di Carlo: "La denuncia nasce da dieci giorni di segnalazioni. Sono andato, oggi, in Procura a Roma. Ho esposto la denuncia. C'è un magistrato che la sta seguendo. Volevo tutelare la mia immagine e quella di mia figlia. Ho scoperto che, sabato scorso, è stato utilizzata, da una delle tre protagoniste, attraverso delle Stories su Instagram, come se fosse in una fantomatica chat di Mark Caltagirone. Ho dovuto velocizzare il procedimento". Marco Di Carlo, a Storie italiane, smentisce di essere Mark Caltagirone e promette una denuncia per l'uso improprio di una foto con la figlia. Di Carlo: "Ora sono arrabbiato perché dopo ormai essere palese il fatto che sia un fake, non capisco perché venga ancora utilizzata. C'è una diffida a non utilizzare più questa immagine e legarla a questa vicenda". Di Carlo: "Non riesco a capire il profitto nell'utilizzare questa foto con me e mia figlia. Lei è un'ottima ballerina". Di Carlo: "Non si inventano della storie per avere un ingaggio televisivo". La denuncia arriva dopo dieci giorni di segnalazioni e di problemi miei che sono nati attorno all'utilizzo delle immagine mie e della mia famiglia. Stamattina ho deciso di andare in Procura a Roma sapendo che c'era un procedimento aperto e quindi e quindi ho sporto denuncia. Non so in che termini posso parlarne perché c'è un magistrato che sta seguendo la vicenda. Ho dovuto fare questa denuncia per tutelare la mia immagine e quella di mia figlia ma anche perché, purtroppo, sabato scorso è stata ancora utilizzata la mia immagine sui social dalle protagoniste di questo caso. Ha continuato ad utilizzare, attraverso delle stories su Instagram, e ha ripubblicato l'immagine di mia figlia come se fosse all'interno di una chat con il fantomatico Mark Caltagirone: c'ero ancora io con mia figlia, quella foto di noi in macchina. Ho dovuto velocizzare tutto il procedimento e con il mio avvocato abbiamo deciso stamattina...Una persona della vostra redazione mi ha avvisato dicendomi che sulle stories di Eliana Michelazzo c'era ancora la mia immagine con mia figlia, tra l'altro neanche coperta, e poi mi sono arrivate una cinquantina di segnalazioni da persone che conosco e altre non conosco che mi informavano che ero sui social di questa persona.

Pamela Prati, la verità di Pamela Perricciolo: "Abbiamo fatto questa cavolata in tre usando profili falsi". Libero Quotidiano il 4 Giugno 2019. Il caso sul matrimonio di Pamela Prati potrebbe essere arrivato a una svolta. È l'agente Pamela Perricciolo - in un'intervista rilasciata a Fanpage.it - a rivelare dettagli clamorosi con tanto di chat allegate, in cui conversa con Eliana Michelazzo. "Avevo detto a Pamela Prati che c'era un uomo che ha frequentato il mio ristorante e che mi chiedeva spesso di lei. Mi diceva di chiamarsi Marco e di non vivere in Italia. Verso fine marzo, Pamela mi dice di avere cominciato a scambiarsi messaggi con questo uomo - rivela la Perricciolo -. A oggi nemmeno io posso dire se si chiamasse Caltagirone, ma proprio da quel momento Pamela ha cominciato a raccontare di avere conosciuto questo imprenditore che lavorava all'estero. Da qui la situazione ci è sfuggita di mano".  Ma Mark Caltagirone esiste o no? "Non esiste, questo è chiaro" puntualizza Donna Pamela, che però è parecchio confusa sull'identità dell'uomo. "Il matrimonio non c'è stato perché questo uomo non c’era […] Pamela Prati ha sempre saputo che non ci sarebbe stato questo matrimonio". E Simone Coppi? Nemmeno lui esisterebbe: "Eliana aveva iniziato a sentirsi con una persona. Lo incontrò a Fontana di Trevi. In quel periodo ebbe qualche problema, dire che fosse sposata serviva a far capire che non era da sola. All'inizio non era consapevole del fatto che Simone non esistesse ma dopo l'ha capito. È partito tutto per proteggerla e poi non siamo più tornate indietro, era una situazione di comodo". "Abbiamo fatto questa grandissima cavolata in tre. In agenzia disponiamo di tanti profili falsi, impossibile dire chi di noi li abbia utilizzati. Creai questi profili molti anni fa insieme ad alcuni amici. Ci sono serviti negli anni per avvicinare persone, crearci una rete intorno e anche per gioco". La Perricciolo poi chiarisce il furto d'identità del bambino fatto passare per Sebastian Caltagirone. "Questo ragazzino era un iscritto dell'agenzia Aicos. Abbiamo fatto la cosa tremenda di farlo passare come figlio di Mark Caltagirone. Pensavamo di uscirne e, invece, ci siamo sotterrate. C'è un contratto e i genitori sapevano che avrebbe dovuto interpretare un ruolo e chiamarsi in un certo modo. Come agenzia non sono tenuta a comunicare il film o il progetto. Al posto della madre, non avrei lasciato andare mio figlio con un'estranea". "Eliana e Pamela dicono che non conoscevano il bambino ma quando sono entrata nel bar dov'era organizzata la merenda, la Prati ha fatto finta di essere da sempre sua madre. Era la prima volta che lo vedeva ma non lo ha detto, ha finto che ci fossero stati altri incontri e chi era presente può testimoniarlo". La Perricciolo racconta che "la Michelazzo avrebbe voluto far cadere tutta la colpa alla Prati", ma lei ha rifiutato. "La sera in cui Eliana ha raccontato che era tutta colpa mia a Live- Non è la D'Urso ho scritto a un autore. Non sapevo cosa stava accadendo perché non riuscivo a mettermi in contatto con lei, non mi rispondeva al telefono. All'ennesima chiamata, al suo telefono risponde una donna e mi dice che una ragazza molto agitata aveva gettato il cellulare nel parcheggio". E la colpa di chi è? "La colpa è anche di chi in Mediaset o in Rai non aveva capito fin dall'inizio che il matrimonio non ci sarebbe stato". 

ELIANA MICHELAZZO, SFOGO NOTTURNO E DETTAGLI TORBIDI. Da Libero Quotidiano il 4 giugno 2019. Finisce a stracci in faccia l'amicizia tra Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo. Le due ex manager di Pamela Prati, coinvolte pesantemente nello scandalo Mark Caltagirone, si sfoga di notte su Instagram contro "l'altra" Pamela, da cui secondo Dagospia era unita da un rapporto sentimentale più profondo di un'amicizia, lavando i panni sporchi in pubblico: "Oltre che parli sei pure ladra e sai quanto ho pianto per Simone, i regali te li potevi risparmiare. Ho passato 10 Natali sola senza la mia famiglia vera. Ah sì, ora dici che i profili li hai aperti all'università! Vergogna, ti sei presa gioco di me! Per fortuna che la legge fa le sue indagini. Fatti un esame di coscienza, tutto risale a te". Il riferimento è all'altro "fidanzato fantasma" Simone Coppi, con cui la Michelazzo sarebbe stata virtualmente sposata per anni proprio come la Prati con Caltagirone. Dietro questo raggiro ci sarebbe, secondo Eliana, proprio la Perricciolo. Pamela si è difesa sul Fatto Quotidiano sostenendo che anche la Michelazzo conosceva la verità e che ha retto il gioco per questioni mediatiche. Sempre nella notte però la Michelazzo ha rincarato la dose contro l'ex amica, rivelando altri dettagli molto intimi: "Hai minacciato tante volte di morire con le gocce!". Mettendomi terrore... Dicendo che non uscivi più di casa... Pensi che ti avrei scritto muori? Non pensi che ti avrei aiutata messaggiando tranquilla? La scena del messaggio fa ridere... a breve lo pubblico".

Filippo Ceccarelli Doppio Zero il 4 giugno 2019. Si perdoni qui l'approccio smaccatamente autobiografico, tanto più deprecabile quanto più in voga e scontato al tempo dell'ego; ma debbo confessare che anche stavolta sono stato ispirato da questo frammento di Elemire Zolla: “Da un'epoca si travalica in un'altra quando le idee, i sentimenti, le immagini ossessive o consolatrici più diffuse incominciano ad appassire (...) Che cosa sta per sostituirsi, in tali momenti, agli antichi dei, alle vecchie costumanze? Per saperlo – così suona l'impegnativo incoraggiamento – bisognerà visitare i luoghi meno raccomandabili, gente che si sarebbe tentati di scartare come prossima alla follia”. Appunto. Sempre per non mettere le mani avanti, aggiungo un minimo sindacale d'imbarazzo nell'esordire su Doppiozero recando in dono la vicenda di Pamelona Prati, già starlette ultrasessantenne del Bagaglino televisivo, che esclusa dai circuiti del glamour, e aggravata da ulteriori tristi problematiche, come si dice a proposito di fragilità psicologiche e faccende economiche, per rientrare nel giro ha voluto e/o dovuto inventarsi un matrimonio fasullo con una persona, Mark Caltagirone, quello da cui qui si cercherebbe scampo, ma che non esiste proprio. Però in fondo sì. Tale scelta pseudo-nuziale le ha comportato in effetti una mole considerevole di articoli, copertine, esclusive, interviste e comparsate nelle reti televisive, specie Mediaset. Ma dopo che il giochetto è stato scoperto da Dagospia, anche dolori, malori, lacrime, confessioni e rotture, tutto vissuto adeguatamente coram populo, là dove la rete e i social network s'incrociano con la tv in un mefitico, enigmatico interscambio.

Oleodotti, figli e infarti: il mondo di Mark. L'idea di base, temeraria come un esperimento sociale, è che questo inedito interscambio abbia prodotto qualcosa, uno spazio grigiastro, una comunità mezza vera e mezza falsa, una dimensione che non esiste, ma ha effetti sulla realtà. Proprio ciò che vanno cercando i politici di questo tempo e in prospettiva il potere. Ciò che colpisce e atterrisce – ma per fortuna fa anche un po' ridere – è la meticolosa cura con cui, a partire dai cognomi, vedi la dinastia editorial-palazzinara dei Caltagirone, vengono costruiti i personaggi inesistenti destinati a interagire con quelli veri. Il mondo di Mark, ma anche il modo in cui la sua non-esistenza è venuta scandalosamente allo scoperto, consente in effetti di osservare il laboratorio nel quale prendono vita creature che sono e insieme appaiono un po' facsimili, un po' fantasmi, un po' prototipi, un po' ologrammi, comunque dotati di vita propria. Dai loro falsi profili social si dipartono per entrare a far parte della vita, alla conquista dei cervelli altrui, tra normalità ed emotività, tran tran e colpi di scena, secondo un modulo per cui ogni scambio che ottengono con la gente reale (foto, like, faccette, commenti, chat con terzi) diventa una prova della loro esistenza. Anche se non si vede, il Mark di Pamela è bello, vive fra l'Italia, la Costa Azzurra e l'America, possedendo una magnifica villa a Miami. Anche se non è parente dei veri Caltagirone, è nello stesso giro, costruisce centri commerciali in Cina e oleodotti in Libia. Ha ottenuto riconoscimenti in Albania. È ovviamente pieno di soldi, regala costosi braccialetti, in un empito racconta di aver baciato l'imminente anello nuziale, come Salvini il crocifisso del rosario, scrive altre romantiche e appassionate dichiarazioni. È un modello d'innamorato. Sempre sui social e sulle “indiscrezioni” fatte filtrare dopo i primi sospetti le finte nozze, ovviamente celebrate da un cardinale di Santa Romana Chiesa, vengono accreditate con finte partecipazioni, finte liste d'invitati, finti contratti con finti wedding planner, finti tulipani pervenuti dall'Olanda, finta cerimonia di addio al nubilato tenutasi in Egitto, ma forse era una Spa nei pressi di Formello. Con Pamelona, Mark aveva già – e qui la cosa presentava margini d'ambiguità – figli in affidamento: numero due orfanelli italo-spagnoli, ciascuno dotato di autonomo profilo Facebook con congrua dotazione di foto fasulle e veritieri interscambi. Uno dei bambini è Sebastian, ama il calcio, è laziale, “un principino biondo” secondo un'idealtipica descrizione di passaggio. Mentre la bambina si chiama Rebecca e vuole fare la ballerina; ripresa dall'alto in tutù, risulterà poi la figliola di un avvocato sardo, a tratti spacciato – come del resto un altro signore presente in ottenebrato video con un berrettino rosso – come il vero Mark Caltagirone. Che in altri profili, attenzione, nel frattempo si era sdoppiato in “Marc” e triplicato in “Marck” Caltagirone e appariva in foto, ora rubate, ora pixelate, ora pubblicate senza che si vedesse il volto, anche se poi si è scoperto che il torso, fasciato da un abito grigio, apparteneva a Gianni Sperti, che non c'entra nulla, pur risultando celebratissimo coprotagonista del programma “Uomini e donne” di Maria De Filippi. E insomma. A un dato momento, sulla spinta meritoria di Dagospia, si comincia dunque a rinfacciare a Pamela che il suo sposo non esiste. E infatti: perché non si fa vedere? Perché nel frattempo, risponde lei addolorata, ha avuto un infarto. E così anche la malattia, con il suo sinistro gravame, entra nella storia, dove tutto tocca il cuore e al tempo stesso ogni certezza si arrampica sui vetri, rinviando la verità a data da destinarsi con finta riprovazione e spontaneo, generale sollievo degli addetti ai lavori.

Da Pirandello a Lele Mora. Debbo ahimè proseguire con l'ego, per assumermi la responsabilità di un punto di partenza dal quale ora che sono in pensione, libero cioè dalle incombenze della cronaca militante, ha preso il via il mio smodato lavoro di voyeur pedinatore e osservatore ficcanaso. Anche in questo caso provo a tenerla alta e a riscattare l'imminente caduta chiedendo se queste folate d'irrealtà, questi prolungati cortocircuiti tra verosimile e bugiarderia non facciano squillare campanellini più propriamente artistici: a parte la figura di Elena Ferrante, che di recente ha anche firmato l'appello a favore dell'insegnamento della storia, mi è venuto in testa Pirandello e l'inconciliabilità dei punti di vista in “La signora Frola e il suo genero Ponza”; come pure qualche spunto di impostura borgesiana tipo l'inverosimile Tom Castro; per non dire i personaggi immaginari, ma fin troppo impressivi, di diversi film, dall'illusoria diva di “S1mOne” all'invisibile gangster Keyser Söze di “I soliti sospetti”. Per tenerla bassa, d'altra parte, portando in giro il mio “Invano: il potere in Italia da De Gasperi a questi qua” (Feltrinelli), mi capita di presentarmi come un giornalista politico la cui parabola professionale ha fatto in tempo a delinearsi “da Aldo Moro a Lele Mora”. Le implicazioni di quest'ultimo nella rotolata giù per la china della vita pubblica nazionale emersero nella torbida stagione del tardo-berlusconismo, per via del ruolo esercitato all'interno dei grandi scandali sessuali. Ma per chi avesse avuto la perversa passione di agganciare le vicende del potere con le delizie della cronaca rosa e giudiziaria, già nel 2007, dalle parti dell'affaire Vallettopoli, fu possibile seguire le res gestae di Lele Mora riscontrandovi quanto bastava a intuire, oltre a una certa puzza di bruciato foriera di prossimi e sicuri incendi, un indispensabile salto di fantasia nel suo ufficio di agente di spettacolo, mercante di umane ambizioni, demiurgico burattinaio, abilissimo a spedire chiunque in tv (e talune sciagurate, purtroppo per lui e per loro, nelle feste del bunga bunga). Tuttora il suo personaggio mostra una sua impudente grandezza, figlia del tempo e dei suoi tratti equamente distribuiti fra il gossip, il corporeo e il religioso, per cui durante la reclusione perse qualcosa come 40 chili, così come ebbe una potente e forse anche comprensibile crocca mistica. L'anno scorso, richiesto alla radio di esplicitare il proprio coinvolgimento nel rapporto con Fabrizio Corona, se l'è cavata dichiarandosi orgogliosamente cittadino di “Bombolandia”. Di recente è stato pizzicato in un campo rom che trafficava con una partita di champagne di sospetta derivazione. Ma prima che ci si perda definitivamente, l'impressione è che le avventure di Mark e Pamela nel cyber-spazio non sarebbero potute avvenire senza il magistero primigenio di Mora cui si può almeno in parte far risalire l'incrocio non solo fra gossip e potere, ma anche di quanto accade nei pressi del binomio, fra il cielo e la terra dei famosi, e quindi on line, dentro la rete, ma anche in prossimità del piccolo schermo.

Caccia, pesca e dopamina. Il punto è che il modello di Lele, quel suo costruire personaggi per darli in pasto alla tv secondo parti prestabilite, non solo ha fatto scuola, come scrivono i giornalisti, ma si è pure evoluto là dove nell'ultimo e acceleratissimo decennio la tecnologia della persuasione ha anch'essa fatto – per usare un'altra tipica espressione – passi da gigante. Con il che si è lieti di annunciare, con il consueto scrupolo degno di miglior causa, che l'idea delle finte nozze di Pamelona con l'inopinato Mark Caltagirone è il frutto di una nuova generazione di agenti di spettacolo che potrebbero idealmente definirsi le “nipotine” di Mora. Si tratta di due giovani donne, a nome Eliana Michelazzo e Pamela Pericciolo, già “corteggiatrici” di “Uomini e donne”, passate convenientemente dall'altra parte del broadcasting alla guida di un'agenzia battezzata “Aicos Management”. Con le adeguate credenziali e a un prezzo che (ancora) non è dato sapere la coppia Aicos, che sarebbe la marca delle evolute sigarette a freddo, si è messa a disposizione della Prati con la piena e sperimentata consapevolezza che la partita dell'oggi – e oggi è già domani – si gioca tutta sull'antico rapporto fra predatori e allocchi, come pure su quello che la natura stabilisce tra pescatori e pescato. Sono in effetti i social media campi venatori e di pesca per eccellenza, densi come appaiono a occhio nudo di solitudini e vanità da solleticare, e quindi di richiami, lusinghe, gabbie, trappole, esche e reti a strascico. Un giornalista esperto, fra i primi in Italia a indagare con brio e intelligenza sui meccanismi psicologici della Rete, Gianluca Nicoletti, ha spiegato bene che alcuni sentimenti comuni sono provocati dalla deprivazione sensoriale, uno stato indotto in chi condivide un ambiente artefatto e costruito dal pc. Chi passa ore e ore in quella realtà immersiva si procura, in altre parole, effetti simili a quelli che stimola la dopamina, fondamentale neurotrasmettitore dell'umore e dell'emotività. Ogni volta che si riceve un "Mi piace", o un retweet, o un complimento, un'attenzione, una foto dedicata, l'organismo rilascia una piccola scarica di dopamina, con il risultato che alla lunga si crea un fenomeno di dipendenza. “Così il nostro bisogno di social-gratificazione cresce nel tempo – conclude Nicoletti – esattamente come accade a un cocainomane, o come convenzionalmente accade in una fascinazione amorosa”. Che tanto più in pubblico vive di trasporti, rimbalzi, gelosie, amnesie, ambiguità e tradimenti.

La centralità di Barbara D'Urso. La Gazzetta Ufficiale dei dibattiti social è costituita da quei rotocalchi che in un tempo ormai abbastanza lontano si liquidavano “da parrucchieri”. Non saprei dire quando esattamente siano entrati nelle mazzette dei giornalisti politici (i più scrupolosi). Ma a occhio e croce direi che anche in questo caso è accaduto all'apice dell'età berlusconiana, a partire dalla sua seconda vittoria alle politiche del 2001, quando Sua Emittenza, il Signore di Arcore, una volta assurto a Palazzo Chigi ha sentito la necessità di imporre un modello estetico di comando regale, affidandolo a quel genere di dispositivi di consacrazione mediatica. Come avviene nelle dinastie titolate, i vari “Chi”, “Novella 2000”, “Eva 3000”, “Diva e donna” e “Dipiù” ci hanno dato dentro con i berlusconidi, arrivando spassosamente anche molto in là, tipo l'intervista al cugino prete del Cavaliere, parroco a Lomazzo, provincia di Como, pure raffigurato con oggetti sacri. Nel frattempo il gossip (vulgo: pettegolezzo) andava configurandosi come un indispensabile specchio entro cui prendeva luogo e corpo una specie di nuova, composita ma in fondo omogenea aristocrazia fatta di Vip dello spettacolo, dello sport e della politica e sorvegliata dai medesimi rotocalchi e dai primi siti gossipivori con modalità che – vedi l'indiscreto Dagospia con i suoi vistosi Cafonal – ricordavano un po' il sistema carcerario del Panopticon. Come succede non di rado ai giornalisti, temo di essere insieme pedante e impreciso. Per quanto possa fare schifo, questo vivere in pubblico e sotto il fuoco dei media offrendosi ai dardi della più varia malevolenza rispondeva comunque all'annullamento dei confini tra la sfera pubblica e quella privata. E se la “vetrinizzazione sociale”, come definita da valenti studiosi come Vanni Codeluppi, si affermava senza trovare ostacoli, e se il concetto di gossip diveniva oggetto di seri studi politologici, è pure vero che in molti ambiti, fra cui quello del potere, l'antico contegno e anzi direi la vergogna stessa andava a farsi benedire. Per cui si spiega come al giorno d'oggi Barbara D'Urso, che nella storia di Mark Caltagirone ha inzuppato il pane a più non posso, si è naturalmente sostituita a Bruno Vespa nel ruolo mediatico-cerimoniale del potere; e nelle interviste che vanno in onda a “Domenica live” ecco che i leader, i presidenti e i ministri dell'alleanza nazional-populista le danno del tu (“Senti, Barbara...”), benevolmente ricambiati, e dopo si fanno anche la foto abbracciati in vita, e al momento dello scatto, soffusa di lux perpetua, lei guarda in camera piegando le labbra in una specie di bacio di legittimazione. Amen. 

Fantasmi truffaldini. Ha proclamato Barbara D'Urso in una delle tante trasmissione dedicate alla saga: “Ci sono tante donne che sono fidanzate con persone che non esistono”. E ancora: “Ho tante amiche che sono convinte di avere un fidanzato solo perché ci parlano su Facebook”. E può anche darsi. Da anni la rete ha aggravato il peso dell'intimità e al tempo stesso dilatato a dismisura le possibilità di condivisione. In un'atmosfera euforica e sdolcinata, ma anche dolorosa e talvolta non priva di un retrogusto cospirativo  – ah, l'eredità del melodramma! – il regime del trash ha ben concimato il terreno per la fioritura di fake che sui social e sulle piattaforme di dating operano a mezza via tra la menzogna social e la vera truffa sentimentale; per cui in effetti molte poverette ammettono di aver avuto palpitazioni e intrattenuto relazioni – pure con scambio di porno domestico – con persone che nel migliore dei casi operano alla tastiera sotto mentite spoglie (richiestissimi gli uomini in uniforme militare). L'equivalente dei raggiri economici, tipo l'ex ministro del Tesoro dello stato africano che ha messo da parte un ricco tesoro, ma siccome non può attingervi, ha incaricato un intermediario, di norma un parente prossimo, di spillare qualche centinaio di euro a qualche gonzo per sbloccarlo – donde il bengodi, la cuccagna e l'eldorado. Da quel che è dato capire, il principale bacino d'utenza nell'ambito della manipolazione sentimentale, il nucleo incandescente di questa umanità di predoni e predati, sembra comunque composto da un certo numero di morti e morte “di fama”, come con sprezzante efficacia li ha designati Dagospia: aspiranti e reduci del Grande Fratello, naufraghi e renitenti alla leva delle isole dei famosi, corteggiatrici e tronisti dei programmi di Maria De Filippi, detta “la Sanguinaria”, e altri ambiziosi cercatori di fortuna provenienti dalle discoteche, scuole di ballo, palestre, centri estetici, di benessere e di ricostruzione delle unghie, compagnie di biker e – attenzione! – gruppi politici sparsi e lampeggianti per l'Italia profonda della periferia. Ognuno di essi con i suoi spregiudicati agenti 2.0 ai quali si affianca un milieu fatto di blogger raccattati, improbabili influencer, social media manager di serie C1, spin doctor pizza & fichi, ma che di sicuro sono in grado di inventarsi profili e sanno benissimo come nutrirli di balle per aumentarne l'attività e generare vere e proprie comitive che possono sempre servire, allargandosi e attivandosi per esempio in vista di momenti caldi ed elezioni. A riprova dell'accelerata contiguità o forse ormai dell'avvenuta osmosi tra vita vissuta, gossip, ricerca di popolarità, perdita di tempo e post-militanza politica all'ombra dei social. 

E Silvia Sbrigoli prometteva le “Zigulì”. Forse è perché alla fine uno si illude di aver capito e al tempo stesso brancola nel buio. Ma certo, pur con le peggiori intenzioni, sono rimasto sorpreso quando ho preso atto che una certa Silvia Sbrigoli prometteva le caramelle “Zigulì” a Sebastian Caltagirone. E che c'era un altro tipo, Ivan Lazio, che si dava da fare intorno al futuro e brizzolato meta-sposo di Pamelona; o quando mi sono reso conto che pronubo un tale Stefano Codispoti, la vicenda aveva preso una strana piega calabrese. S'era in effetti materializzata da quelle parti, luogo d'origine dell'agente Perricciolo, una deputata di Fratelli d'Italia che veniva indicata come la precedente fidanzata dell'inesistente Mark, con evidenze di sintomatica uniformità. Così come aveva preso a tambureggiare contro di lei una esponente del Pd, pure calabrese, non si capiva se in nome della trasparenza, della verità o di che altro. In ogni caso, per ovvie ragioni, la prudenza nel giudizio era sorella della diffidenza, per cui mi appariva tutto vero, nel senso che ogni post lasciava una reale traccia in rete, ma nel contempo anche tutto falso; o meglio, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Più esattamente: la sarabanda in espansione sembrava riassumere tenendoli insieme, come ha scritto Andrea Minuz sul Foglio del sabato, brandelli di palinsesto, oltre che idee e sotto-idee televisive: “Chi l'ha visto?” (che poi ha dedicato una puntata a Mark), “Mi manda Lubrano”, “C'è posta per te”. A tutte le ore, siti e televisioni presentavano impossibili trame, inutili colpi di scena, assurde peripezie e vacui inghippi annegandoli in un mare magnum di chiacchiere con la partecipazione di “analisti” per lo più sconosciuti, ma di bella presenza ed elementare linguaggio, Giovanni Ciacci, Georgette Polizzi...Con temerario rimando storico aggiungerei che la quantità e qualità di bizzarri testimoni ricordava un po' il circo che quasi settant'anni orsono si trascinò appresso, nei memoriali per la stampa e dentro le aule giudiziarie, il caso Montesi: l'ex soubrette Giobbengiò, la scrittrice Caramello, “Giovanna la Rossa”, una misteriosa signora soprannominata “la Dromedaria” e il preteso agente del Cominform Piero Pierotti. Ma a parziale compensazione comparivano nella saga caltagironesca anche due cani, a nome Oscar e Benito, entrambi tuttavia enigmaticamente recanti in foto una medaglietta con la croce celtica.

Epifania della famiglia Coppi e di Giò Inolem. Debbo ripetermi, lo so bene. I processi di reciproco accreditamento social si moltiplicavano con ritmi inusitati gonfiandosi e sollecitando reazioni in un gioco di scambi, specchi, rifrazioni e rimbalzelli sempre più arduo da seguire, anche perché a getto continuo confluivano novità hard: potenziali aggressioni con l'acido, per dire, e relative azioni legali (l'avvocato di Cagliari presentava denuncia perché fatto passare come Mark Caltagirone). A un dato momento, con lieto sgomento, ho realizzato che con sfacciata precisione e ribalda sicurezza le due agenti avevano da tempo dato vita e immesso in rete un intero nucleo parentale inesistente il cui cognome, Coppi, evocava un grande ciclista, ma soprattutto un celebre avvocato. Ben 10 (dieci) anni era durata la relazione che la Michelazzo sosteneva di aver avuto con tale Simone Coppi, incontrato, no, anzi visto in realtà una sola volta, a Fontana di Trevi, anche se la certificazione del legame era delegata alla foto di un tatuaggio, con tanto di date e svolazzi grafico-epidermici. Oltre a Simone, che esercitava la professione di magistrato e come tale aveva avuto a che ridire con un ex corteggiatore tradito dalla fidanzata, esisteva molto in teoria anche Davide Lorenzo Coppi, di cui si veniva a sapere che possedeva un imponente acquario di pesci tropicali a capo del letto e che era impegnato a sostenere come volontario i bambini di Haiti colpiti dal terremoto. Quindi c'era anche il cugino Danny Coppi, presumibilmente Daniele; e dulcis in fundo Hellen, pure Coppi e presumibilmente niente. In tale grazioso contesto apparve l'ennesimo fake, dal nome invero piuttosto sbrigativo di Giò Inolem. Non ci voleva molto a capire che se il nome poteva essere un'abbreviazione di Giorgia, il cognome era indubitabilmente Meloni alla rovescia. E qui, come si dice all'estenuato pubblico, mi avvierei alla conclusione.

Verso la minoranza assoluta. Posto che quasi certamente Giorgia Meloni nemmeno lo sa, debbo confessare di aver guardato ogni volta con sospetto al numero mostruoso e sempre crescente di follower che gli odierni politici vantano su Facebook, Twitter e Instagram. È uno scetticismo antico e ben radicato che di sicuro ha a che fare, oltre che con le debolezze umane, con l'anagrafe professionale: l'eccessiva proliferazione del tesseramento dei partiti nella Prima Repubblica e la smodata sopravvalutazione dei dati nei sondaggi preelettorali nella Seconda. Per cui mi pare di poter concludere che nella Terza, questa di oggi, è del tutto inverosimile che Salvini, Di Maio, Zingaretti, Meloni e compagnia cantante abbiano milioni e milioni e milioni e milioni di seguaci, moltissimi dei quali intervengono quasi sempre a loro sostegno. Neanche a farlo apposta, proprio nelle settimane dell'affare Caltagirone sono cominciate a venire fuori le prime spontanee e timide verifiche sulla reale entità della partecipazione alla vita di questi politici perennemente on line. Sono calcoli ancora imperfetti, a campione e artigianali, seppure di buon senso, ma tempo verrà per più puntuali e scientifiche rilevazioni. Da quel poco che si capisce, gli odierni campioni dei social hanno di gran lunga oltrepassato l'improntitudine dei signori delle tessere democristiani (che comunque se le pagavano) e la spudoratezza demoscopica di Berlusconi, che si gloriava di percentuali pazzesche, per cui era quasi inutile fare le elezioni e votare (d'altra parte il Cavaliere era anche il proprietario di agenzie di raccolta dati, quando non acquistava a caro prezzo quei cialtroneschi numeri a suo vantaggio). E insomma, per farla breve: il sospetto è che oltre il 65 per cento dei follower, comprendendo nella categoria le simpatiche figure dei troll e degli haters, sono fasulli – e tanto più fasulli in quanto non costano nulla. Si dice a Roma, a proposito di chi si fa bello: quattrini e santità, metà della metà. A occhio, la perfida rima trova conferma e sviluppo nella tecnologia della rete. Sempre in singolare coincidenza con le vicissitudini di Pamelona e le sue agenti (con cui ha litigato) si è potuto leggere che on line esistono e funzionano da tempo, attraverso calcoli neurali, dei veri e propri generatori di figure perfettamente realistiche, ma immaginarie. Cioè uno fa click e viene fuori un volto, ma perfetto – posso garantire che l'esperienza vale la pena. C'è anche da dire che a scanso di equivoci, chi ha inventato e messo a punto il modello ha avuto la simpatica idea di intitolare il sito: “This person does not exist”. Più facile, rapido e meno costoso della clonazione. Ho pensato dunque: con questo sistema, da Mark in poi, la conquista del 51, ma forse anche del 101 per cento è a portata di mano. Poi, con più calma, mi è venuto il dubbio che anche in quel caso ci si potrà consolare – guarda te! – con Machiavelli: “Perché si trova questo nell'ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro”.

LA VERITÀ DI TRE BUGIARDE. Da Il Fatto Quotidiano il 5 giugno 2019.  “Pamela Prati ha sempre saputo che non ci sarebbe stato questo matrimonio”. Parole di Pamela Perricciolo che si confessa nella lunga (e attesa) intervista rilasciata a Fanpage.it (per la quale, specifica la giornalista, non è stato ricevuto alcun compenso). Perricciolo racconta di come l’imprenditore Mark Caltagirone, padre di due presunti figli in affido, non sia mai esistito e svelando la sua verità a proposito del profilo di Simone Coppi e delle altre decine di profili fake utilizzati nel corso degli anni. Nell’intervista la Perricciolo fornisce le prove che dimostrano che la socia Eliana Michelazzo sapeva la verità circa queste identità fittizie e aggiunge che Pamela Prati era d’accordo con loro per spingere la finta esistenza di Caltagirone e il suo matrimonio. La Perricciolo sostiene che un “Marco” esistesse davvero all’inizio e afferma che fu lei stessa a parlare di quest’uomo a Pamela Prati: “Avevo detto a Pamela Prati che c’era un uomo che ha frequentato il mio ristorante e che mi chiedeva spesso di lei. Mi diceva di chiamarsi Marco e di non vivere in Italia. Verso fine marzo, Pamela mi dice di avere cominciato a scambiarsi messaggi con questo uomo. A oggi nemmeno io posso dire si chiamasse Caltagirone, ma proprio da quel momento Pamela ha cominciato a raccontare di avere conosciuto questo imprenditore che lavorava all’estero. Da qui la situazione ci è sfuggita di mano” per poi chiarire: “Il matrimonio non c’è stato perché questo uomo non c’era”. E i profili intestati ai familiari di Simone Coppi, fidanzato inesistente di Eliana Michelazzo? Falsi, secondo Perricciolo, nati anni fa e gestiti da lei stessa e da alcuni amici dei quali preferisce non fare il nome. Chiarisce che il “magistrato Simone” non esiste e che Eliana Michelazzo, dopo avere conosciuto un certo Simone nel 2009, abbia portato avanti con lei questa bugia per un fatto di comodo: “Eliana aveva iniziato a sentirsi con una persona. Lo incontrò a Fontana di Trevi. In quel periodo ebbe qualche problema, dire che fosse sposata serviva a far capire che non era da sola. All’inizio (delle chat social, ndr) non era consapevole del fatto che Simone non esistesse ma dopo l’ha capito. È partito tutto per proteggerla e poi non siamo più tornate indietro, era una situazione di comodo”. Perricciolo affronta anche la questione legata all’identità del bambino spacciato per Sebastian Caltagirone. “Questo ragazzino era un iscritto dell’agenzia Aicos. Abbiamo fatto la cosa tremenda di farlo passare come figlio di Mark Caltagirone. Pensavamo di uscirne e, invece, ci siamo sotterrate” . “La colpa è nostra al 50% – dichiara la Perricciolo – Il resto è di chi ci ha invitato in tv e fatto andare avanti in questa situazione. […] Se non fossimo servite a fare audience, ci avrebbero fermate e denunciate per truffa. Noi non ci abbiamo guadagnato, a parte Eliana Michelazzo ultimamente. Chi ci ha guadagnato davvero da questa storia sono i programmi. Nessuno sapeva con certezza che il matrimonio non ci sarebbe stato, ma se continui a invitarmi fai il mio gioco”.

Da bitchyf.it il 5 giugno 2019.  Dopo aver visto e sentito i suoi screen e l’audio che Pamella Perricciolo ha reso pubblici, ieri notte Eliana Michelazzo è sbottata. La proprietaria della Aicos Management ha pubblicato diverse storie su Instagram, nelle quali accusa la sua ex socia di moltissime cose, addirittura di un’aggressione ad una certa Pamela De Lapa. “Tu parli di Barbara d’Urso e delle persone che lavorano a Mediaset. Io mi sono sempre comportata bene, mentre tu mi dicevi ‘non andare perché ti mettono in mezzo’. A me sembra che abbiano tutelato la situazione, anzi, io avevo dei paletti che mi mettevate tu, Marco e Pamela. Io ho vocali di un uomo che mi dice ‘senza contratto non entri in puntata’. Ti ho denunciato e continuerò a denunciarti all’infinito. […] Io ho persone che hanno fotografie tue che vai nelle sale giochi. E sai quali soldi giocavi? I miei, di Eliana, che mi facevo un mazzo così. quelli che ti davo io. Devi curarti, perché la tua mente è diabolica. Ricordati queste parole. Ah e Pamela De Lapa? Non ce la ricordiamo? Le ho salvato la vita perché l’hai presa per il collo. Hai chiesto soldi a gente, hai fatto contratti falsi. Io spero che la magistratura dia subito un verso a tutto. Ricordati che io ho tante cose tue dove calunni la gente e mandi video on line e fai finta di essere stata aggredita. Quindi non scherziamo Pamela, perché se vuoi la guerra, la guerra ci sarà. Vuoi metterti contro tutte le persone che hai soggiogato? Non ti conviene. Ti conviene rimanere in quella casetta, quella casina in mezzo alle montagne che sai bene tu. Quella casa lontana ci dovresti stare tanto. Inutile che vai in giro con l’avvocato. Dopo tutti i reati che hai fatto. Sei una criminale, sei una criminale vergognati.” Tutto questo è meglio di una soap opera messicana. Quando pensi di aver visto il peggio del peggio, arriva l’ennesimo colpo di scena che ti spiazza.

Paolo Federici per Chi il 5 giugno 2019. I veri fan di Pamela Prati, quando scendono a Olbia, non girano a destra verso la scintillante Costa Smeralda e i suoi ombrelloni affittati al costo di un trilocale: vanno verso l’interno. Dopo chilometri di prati e montagne brulle e bellissime, in cui si incrociano tante greggi quante persone, arrivano nel centro più grande del Logudoro: Ozieri. La Sardegna più vera e antica, dove la gente passeggia nell’immancabile via Umberto, chiacchierando senza fretta tra case dell’800 restaurate senza sfarzo. La storia di Pamela Prati comincia qui, in questo paese di 10mila abitanti, dove nasce nel 1958. «Pamela? Ma che Pamela! Paola, Paola Pireddu», esclama il primo ozierese con cui parliamo, Luigi, più conosciuto come Gigi Polemica. «Paola aveva già una bellissima presenza anche da ragazza, ma noi, i suoi coetanei, la vedevamo come inarrivabile: sembrava già predestinata al successo», attacca. Dietro suo consiglio ci dirigiamo all’Antico Caffè Svizzero, dove Pamela/Paola andava con le sorelle a fare le pulizie per racimolare qualche soldo. Il pub è gestito da Salvatore Falchi e da suo fratello, che però scuote la testa: «Noi siamo più piccoli, non c’eravamo quando Pamela e le sue sorelle ogni tanto venivano a lavorare da mio padre Domenico». Al bar Italia di via Roma due avventori, che però ci tengono a restare anonimi, ricordano che «quando filava con Mirco, il suo ragazzo di allora, era molto riservata. Non è mai, ma proprio mai stata chiacchierata, qui a Ozieri. La loro era una famiglia umile, con tanti fratelli, ma molto dignitosa», racconta quello che dice di chiamarsi Vincenzo B. «Però...», e qui fa una pausa, guarda il suo compagno di tavolo ed esplode in una risata: «Però quando se n’era già andata e le sue foto sono uscite su Playboy, la madre e il padrino si sono precipitati a comprare tutte le riviste presenti nelle edicole del paese. Noi siamo dovuti andare fino a Chilivani per riuscire a trovarlo, perché a Ozieri non c’era più una copia che fosse una». Poi, all’improvviso: «Ah, eccolo, quello è Lorenzo, uno dei suoi fratelli. Ma ormai per tutti è Pamelo», dice indicando un passante che si affretta. Poco più in là, al bar Nazionale («Che nell’800 era quello frequentato dai proprietari terrieri: venivano qui con il loro vino, se lo facevano mettere in fresco e poi bevevano quello, così non dovevano pagare», ricorda l’attuale proprietario), scambiamo quattro chiacchiere con Antonio Farina, (ex) macellaio della futura attrice: «Da noi, dai “Fratelli Farina Carni Sarde di Qualità”, venivano tutti, e anche Pamela: era bellissima. Ed era tra le prime a usare le minigonne in pelle. Quando usciva mi si svuotava la macelleria!», ricorda. «Sì, e tu davi sempre ossa e polpa perché Pamela crescesse bene», aggiunge Giuseppe Mantia, per gli amici “Minosse”, forse con un pizzico di malizia. Pamela Prati, comunque, è rimasta nella memoria di tutti anche dopo che se n’è andata. Vittorio Zicchittu era il proiezionista del cinema discoteca De Candia: un piede nel mondo dello spettacolo ce l’aveva anche lui, insomma. «Quando uscì il suo primo film – forse era La moglie in bianco.... l’amante al pepe – qui c’era la fila in strada di gente che voleva vederla: l’avremo tenuto in cartellone per un mese, più della Febbre del sabato sera», rivanga nel passato.  «Ma Pamela veniva spesso anche prima, di persona, al De Candia. A Ozieri non c’era tantissimo da fare, il cinema era una delle poche attrazioni». «E poi si andava alla “valle del pomice”», aggiunge Luigi. «La chiamavano così sia per la pietra che la costituiva, sia perché ci andavano le coppiette. Ci andavamo tutti, erano cose innocenti: si usciva dalla discoteca e si andava lì, dopo avere ballato i lenti. E ci andavano anche Pamela e Mirco». «Comunque, Pamela era bella, anche se rispetto alle sue sorelle sembrava il brutto anatroccolo», si intromette Minosse. «Il padre, Paolo Cantara, quello che le ha lasciate, aveva tre “concubine”», spettegola. Paolo Cantara abbandonò la madre, vedova di guerra con già due figli, al suo destino senza nemmeno averla sposata. «In paese lo chiamavano Piscittu Murtu, “Pescetto morto”, per antifrasi (la figura retorica in cui si usa un termine per dire il contrario, ndr): era un po’ il Rocco Siffredi di Ozieri. E ha fatto solo figlie bellissime», aggiunge Vittorio Zicchittu. «Aveva dei geni eccezionali: d’altronde, arrivavano dalla nonna, Ginedda Bedda, Ginetta la Bella», precisa Farina. E Minosse calca la mano: «Cantara, il padre, era uno di quelli che “nella vigna dello zio, quando non c’è lui ci sono io”...Poi Pamela/Paola ha iniziato a raccontare in giro che suo papà era di origini spagnole, che era un ballerino di flamenco...». Antonio Farina lo conosceva abbastanza bene: «Un giorno eravamo andati insieme a caccia al cinghiale», ride, «e parlammo proprio di questo. Io avevo saputo questa cosa e gli dico “Ma dai, Piscittu, allora sei esperto di flamenco?” e la sua unica risposta fu “Ma che, manco conosco il tango...”». «Però era “esperto” di campagne...», non si trattiene Minosse, che ha già iniziato i brindisi con cui festeggerà, stasera, i 45 anni di matrimonio con “la Vincenza”. Il padre spagnolo e ballerino di flamenco: ma perché Pamela doveva inventarsi qualcosa di palesemente improbabile? «Perché suonava esotico, perché era una bella fantasia. Intanto, però, Piscittu Murtu era diventato Piscittu Muerto. “Muerto”, non “Murtu” alla sarda, in onore delle sue fantomatiche origini iberiche», sorride Gigi Polemica, mentre arranchiamo sudando in salita, verso la vecchia casa di Pamela. «Ecco», dice indicandoci una fonte, «questa è la fontana dove Pamela andava ad abbeverare la brocca». E poco più su, ci mostra un balcone: «E quella era casa sua», spiega. Scattiamo qualche foto sotto il sole che finalmente è diventato estivo, quando si affaccia l’attuale inquilina. «State fotografando casa mia? E perché?», ci chiede. Ma è quasi una domanda retorica. E quando le confermiamo che è per un pezzo su Pamela Prati, ci urla dall’alto: «Noi siamo ozieresi, e tifiamo tutti Pamela Prati». Ed è la verità: tra risate e qualche malizia, tutti quelli che abbiamo incontrato le vogliono e le hanno voluto bene. «Peccato, quando se ne è andata a Civitavecchia ha iniziato a cambiare», si lamenta qualcuno. «Una volta l’ho incrociata in aeroporto ma ha finto di non vedermi, non ha nemmeno alzato al testa. Peccato. Ma comunque è nata qui da noi, siamo di famiglia». E Vittorio Zicchittu aggiunge una nota d’attualità: «Anche il sindaco l’aveva detto: se venivano a Ozieri lei e coso... come si chiamava?... Caltagireddu, la sposavamo qui, nella nostra chiesa».

Giuseppe Candela per Dagospia il 6 giugno 2019. "Voglio dire che non ci sono vittime e carnefici. Uno può stare seduto qua, ammettere quello che ha fatto e non alzarsi e andare via perché è troppo facile. Io chiedo perdono e spero lo facciano anche le altre", si conclude così la lunga intervista di Pamela Perricciolo a Live-Non è la D'Urso. Mediaset non si fida dell'ex manager della Prati e punta sulla registrata considerando anche le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a Fanpage: "Chi di Mediaset e Rai non aveva capito che il matrimonio ci sarebbe stato? Verissimo ha bloccato subito i pagamenti alla Prati, non pensi che si sia voluto fare un po' troppa polvere e troppe puntate su questa storia? La colpa è al 50% nostra e al 50% di chi ci ha invitato e ci ha fatto andare avanti. Se io fossi stata un vertice e mi fossi sentito preso in giro, se non ti servivamo per fare audience io ti chiamavo e ti dicevo: 'Mi hai preso in giro, questa è una bella denuncia per truffa, arrivederci e grazie." Dichiarazioni non citate in puntata, assente anche una replica dall'azienda. La Perricciolo presenzia gratis nel contenitore di Barbara D'Urso e riesce nell'impresa di non dire praticamente niente di credibile, offrendo con una serie di bufale piene zeppe di contraddizioni. Le tre protagoniste della storia sembrano disposte a concedere il 10% di verità per poter far passare il 90% delle loro bugie. Tutto serve per incolpare le altre due e a rafforzare la propria posizione di vittima. È una gara a salvarsi il culo, inutilmente. "Peggio di un serial killer", commenta ironica la Perricciolo dopo aver visto un servizio che sintetizzava le accuse nei suoi confronti: "Sedermi qua e dire ‘Sono innocente' sarebbe una presa per il culo, come dire che la colpa è solo mia. Siamo state in tre, ci siamo sedute in tre, nessuno aveva una pistola puntata alla tempia. Quando la Prati si è seduta davanti a te (il 2 dicembre 2018, ndr) non c'eravamo noi a dire cosa dire e cosa non dire. Ho fatto le mie indagini e Mark Caltagirone non esiste. Come ho detto a Fanpage.it, ho conosciuto una persona nel mio ristorante che mi chiedeva sempre di Pamela Prati. L'avrò visto 4 volte, non chiedo il cognome alle persone'' Diceva di chiamarsi Marco, su Facebook era Marco Calta, ma non vado a chiedere i documenti. Piano piano, poi, su Facebook è diventato Marco Caltagirone". Tutto ciò ovviamente è falsissimo, visto che la Perricciolo almeno dal 2016 scriveva sui profili Facebook di Mark Caltagirone quando il finto imprenditore serviva ad abbindolare Wanda Ferro. Poi la conoscenza con Pamela Prati: "Pamela un giorno è venuta da noi e ha detto che lei aveva scritto a questa persona perché vedeva che ci commentava sui social. Dopo un paio di sere, ci ha detto che ci stava insieme. È nato così tutto quanto. Prima ha detto ‘Ci sto insieme' e poi ‘Mi sposo'. Quando ci ha firmato il mandato che si sposava, noi eravamo convinti che stesse con Mark Caltagirone. Pamela Prati vittima? Neanche l'esorcista riesce a plagiare Pamela Prati, non è plagiabile". Il numero dell'inesistente imprenditore risulta intestato a Pamela Perricciolo: "Il numero che ha telefonato in diretta era intestato alla Dreaming Management che è mia, il numero con cui si sentiva Pamela Prati, quello che Mark Caltagirone scriveva su whatsapp, non è intestato a me. Io ho avuto anche un pagamento in contanti da questa persona al mio ristorante. Gli ho dato io una scheda della Dreaming perché gli serviva un numero italiano. Io l'ho visto, com'è? Brizzolato. Io non posso dire ‘Ci siamo inventati tutto' perché l'inizio non ce lo siamo inventati. Noi siamo caduti in una situazione in cui non sapevamo uscirne quando Pamela Prati ci ha detto che questa persona non si presentava". L'ex manager replica alle accuse che le sono state rivolte da Manuela Arcuri, Sara Varone e Alfonso Signorini scaricando la responsabilità su altri (misteriosi e non identificati):  "Stimo il direttore Alfonso Signorini ma io all'epoca non mi chiamavo nemmeno Donna Pamela. Si sarà sentito con qualcuno ma quando io l'ho chiamato non l'ho fatto per avallare l'ipotesi di Lorenzo Coppi ma solo per fare un'ospitata con un personaggio e ci serviva il numero di telefono. Lui mi disse che si sentiva su Facebook con Lorenzo. Io non vedevo nulla, all'università avevamo aperto dieci profili''. Piccolo appunto: la Perricciolo ha 42 anni. Dieci anni fa, quando nacque Simone Coppi, ne aveva 32. Era ancora all'università? Immaginatevi la scena: questa ragazza 8 anni fuori corso che ridacchia sui banchi dell'ateneo (quale?) coi suoi amici senza volto, mentre creano falsi profili ''di cui ho tuttora la password''. Quindi mentre per 10 lunghi anni uno dei suoi fantomatici amici turlupinava la sua migliore amica nonché convivente, una ''sorella'' così amata da tatuarsi ''sisters'', invece di entrare in questi profili a vedere chi e come truffasse l'adorata Eliana, lei ha lasciato correre? Ci deludi Pamela, è troppo ridicola come spiegazione. La sua improbabile difesa prosegue: ''Sara Varone se n'è ricordata dopo nove anni di parlare? Io non ho querelato Sara ma il giornale che ha riportato cose pesanti, come dire che ho preso soldi. Loro non hanno le prove che fossi io, è venuto fuori tutto dopo il caso di Pamela Prati. Manuela Arcuri? Per cinque messaggi non può dire di essersi sentita con una persona. Erano usciti molti giornali in cui la definivano ex di Simone Coppi, poteva smentire dieci anni fa. Le password di quei profili creati all'università le avevamo in dieci. Non sono stata assolutamente io a scrivere a nessuno di loro". Dopo due mesi dall'esplosione di Pratiful Barbara D'Urso rivela, questa volta senza accenni en passant, i suoi contatti con Mark Caltagirone: "Stavo facendo il ‘Grande Fratello' e ricevo un messaggio da uno sconosciuto che come foto ha un cane uguale al tuo. Mi dice: “Salve signora D'Urso, verranno delle persone a parlare con lei perché sono Mark Caltagirone, vivo in Giappone e voglio investire molti soldi nei suoi programmi perché l'ammiro”. Non rispondo. Poi un giorno, una persona che lavora con me, mi dice che vede due persone sedute nei miei posti riservati al ‘Grande Fratello' ed eravate voi due che volevate conoscermi. Io non avevo tempo. Dopo un po' di tempo venite nel mio camerino e parlate di Mark Caltagirone. Mi dite che siete le agenti di Mark Caltagirone. Io vi invito a parlare con Publitalia. Voi mi dite che Mark è bello, single e mi mostrate una foto. Il giorno dopo mi informo con Publitalia per passargli la palla e loro mi dicono: "Mai sentito nominare Mark Caltagirone, né Eliana e Pamela". Io già non mi fidavo e ho lasciato perdere tutto. Da questo profilo, con il numero intestato a te, mi arrivavano messaggi: ‘Buon Natale', ‘Buon grande fratello' e io non ho mai risposto. Dopo l'intervista fatta a Pamela Prati, Caltagirone mi scrive: ‘Grazie per la delicatezza con cui ha parlato dei miei bambini, lei è spettacolare'. Ho risposto con un fiorellino. La domanda è: questo signore che non esiste e l'utenza è intestata a te, tu hai detto di avergli dato la scheda, chi è questo qui?". Sull'ex socia ha dichiarato: "Ho denunciato Eliana anche se la mia non è stata paparazzata come la sua. Lei sapeva che non esisteva Simone Coppi, cinque anni fa è stata denunciata per un fatto analogo a questo. La polizia ci ha sequestrato il cellulare e ci ha detto che avevamo fatto conoscere Danny Coppi a una donna. Lei lo sapeva che Simone Coppi non esisteva. Sentirla dire “Ho paura di Pamela Perricciolo” mi fa ridere. Abbiamo abitato insieme per anni, i miei nipoti la chiamano zia, mi sono tatuata “Sisters” perché per me era una sorella. Non c'è mai stata una relazione tra noi due. Mi ha fatto male che abbia detto di aver denunciato i miei genitori che non c'entravano niente in questa storia". La esclude però dalle responsabilità delle nozze e ammette di aver messo in scena la finta paparazzata di Pamela Prati con l'uomo dal cappellino rosso, consegnata a Sorge: "Io credevo che questo 8 maggio sarebbe arrivato, ho preso quasi una denuncia da un catering. Eliana non c'entra proprio niente in questo matrimonio. Noi pensavamo che questo matrimonio si dovesse celebrare davvero. Con tutte le pressioni dei giornalisti un giorno ho detto a Pamela Prati: ‘Cosa dobbiamo fare?'. Lei pensava che se fosse uscita qualche fotografia, avrebbero pensato ‘Sì esiste'. Io quello della foto non lo conosco, è un amico di Pamela Prati. Ci sono alcune cose che abbiamo fatto insieme tutte e tre. Io e Pamela avevamo capito che dovevamo darci un taglio con le ospitate televisive ma Eliana diceva che bisognava continuare perché 'non so come uscirne'''. La Perricciolo ha negato di aver "usato" il finto Sebastian Caltagirone senza informare la famiglia: "La mamma sapeva che il figlio avrebbe interpretato Sebastian Caltagirone, c'era un compenso elevato. Ha chiesto lei di iscrivere il bambino all'agenzia. Questa signora l'ho vista qualche volta, non eravamo affatto amiche. L'avvocato della famiglia del bambino, tra l'altro, è un mio compagno di scuola, andremo a vedere anche questa cosa. Io, Pamela ed Eliana eravamo a cena a casa mia e Pamela Prati ha detto che Sebastian aveva mandato a te un video tramite Mark. Non è vero, però, che il bambino ha fatto messaggi vocali fingendo di avere un tumore. Io mi sono prestata a questa cosa orrenda perché ci serviva un bambino per uscirne. Pamela Prati sapeva". A fine intervista Barbara D'Urso ha letto una mail contenente nuove accuse: "Circa otto anni fa abbiamo conosciuto la Perricciolo e la Michelazzo durante un torneo di burraco. Andando avanti con la frequentazione, arriviamo al 2013 anno in cui tu saresti stata fidanzata con un cugino di Eliana. Si spacciavano per tue agenti, quando passava un tram con impressa la tua foto, si inginocchiavano dicendo: ‘Ave, zia Barbara'. Così, chiesero alla mia compagna di investire 7500 euro, suddivise in tre tranche in un fondo gestito da te e con sede a Capo Verde. La Perricciolo si presenta pochi mesi dopo con 600 euro in contanti a titolo di interessi maturati. Dopo numerose e varie richieste nel 2015 ci hanno dato poco più di 3000 euro, poi il silenzio assoluto, fino a quando la mia compagna ha messo alle strette Pamela. Li aveva spesi lei, la Perricciolo ha ammesso che il fondo non è mai esistito. Come lei stessa ha ammesso, ci deve restituire ancora 3400 euro. Ci ha confidato anche che Simone Coppi non esisteva". La Perricciolo ammette i rapporti con queste persone e nega di aver messo in mezzo la D'Urso.

Michele Serra per “la Repubblica” il 7 giugno 2019. Se, come me, avete seguito poco o per nulla il caso di Pamela Prati e del suo sposo immaginario, Mark Caltagirone, fate un passo indietro. Recuperate indizi. Riascoltate le interviste. Analizzate le dichiarazioni. Tuffatevi in quell' entusiasmante gorgo di acque reflue che è la tivù pop, con il suo vasto indotto di blogger pop e giornalisti pop. Perché, di qui in poi, il caso Prati non è più una trascurabile farsa. È un grande giallo nazionale. E lo è ufficialmente. È sceso in campo, infatti, l'avvocato Taormina. Non si capisce bene in quale veste (legale della Prati? accusatore della Prati? vero marito della Prati? parte lesa? spalla di Barbara d'Urso, con la quale si danno del tu come gli alpini?), ma con il piglio grave e determinato che gli conosciamo da sempre. Da Tangentopoli a Cogne, non c'è mistero italiano del quale quest'uomo formidabile non possieda la chiave. Ha sempre saputo chi sono i veri colpevoli, e se ha mancato di dircelo è solo perché doveva trasferirsi urgentemente in un altro studio televisivo. Ora, grazie a Taormina, noi sappiamo che questa storia del marito immaginario di Pamela Prati non va presa sottogamba, come avevo fatto distrattamente io e sicuramente anche voi. Mentre la D'Urso, che è donna di mondo, impostava il suo bel volto nella modalità "clamorosa rivelazione", l'avvocato, preso il suo giusto tempo teatrale, ha denunciato l'esistenza di «una organizzazione che parte da lontano e coinvolge molta gente dello spettacolo. Chi governa questa situazione è chiaramente una mente criminale». Il pubblico è ammutolito. E noi, che credevamo fosse solo una scemenza, abbiamo sentito il classico brivido nella schiena.

Barbara Costa per Dagospia il 10 giugno 2019. Cosa hanno in comune Mark Caltagirone, Richard Gere, Kabir Bedi, Walter Chiari, e Franco Causio? Semplice, sono stati tutti innamorati di Pamela Prati! Oddio, innamorati, chi davvero chi per fake, perché quando la fonte della notizia è Pamela Prati, il distacco tra verità e panzana è labile. Allora, gli amori veri o presunti di Pamela Prati, andiamo con ordine: Pamela dà il primo bacio a 12 anni, al coetaneo Mario: “Mi sfiorò le labbra e io ero terrorizzata: avevo paura di essere rimasta incinta!” [sic], lo dice Pamela a "TV Sorrisi e Canzoni", dove racconta che Mario era un suo compagno di scuola, alle medie, mentre al liceo stava con Mirco, ma il liceo, Mirco, e un promettente futuro nella scherma (“mi avevano selezionato per le Olimpiadi”, addirittura!) vengono abbandonati per Roma e un impiego da commessa. 

È il 1980, e a Pamela succede di tutto: si compra un paio di scarpe e “le getto nel Tevere come rito porta fortuna”, e infatti un giorno Anita Ekberg entra nel negozio dove la Prati lavora, la nota e la segnala. Pamela diventa modella, quelli di "Playboy Italia" la nominano subito Playmate dell’anno e da cotanto status le fanno scegliere con chi posare tra gli artisti più famosi della penisola: Pamela sceglie Adriano Celentano, e quello con Celentano è un flirt che “né io né lui abbiamo mai smentito”, ma la storia non c’è, anche se lui durante il servizio fotografico “tentava di baciarmi”, e “mi ha dedicato "Manifesto", una canzone dell’album dove io sono con lui in copertina”. Niente flirt, Pamela al tempo è fidanzata con un certo Alessandro, che quando la vede in posa tra le gambe di Celentano, le mette le corna con la di lei migliore amica. Ma Pamela non ha tempo di affliggersi, c’è Kabir Bedi è pazzo di lei, le manda 500 rose rosse, e… basta. Pamela fa un provino a teatro e incontra Walter Chiari che ha 34 anni più di lei, e Pamela si innamora “della sua cultura, delle sue parole”, va in vacanza in Giamaica e Walter Chiari la raggiunge, “gli piacevo sicuramente”, ma niente, non copulano.

Arriva il 1982, Pamela dice di aver vinto il titolo di Miss Universo, peccato non abbia partecipato al concorso, e nemmeno a Miss Italia, ma tant’è, l’Italia del calcio è campione del mondo, e Pamela conosce “Franco Causio, appena passato dalla Juventus all’Inter” – ma Causio nel 1982 è un giocatore dell’Udinese, approda all’Inter nel 1984 – comunque vanno “a vivere insieme, in un residence”. Un idillio spezzato, secondo Pamela, da mister Ilario Castagner, che si mette in mezzo e impone a Causio di “scegliere tra me e il calcio: lui sceglie il calcio, e tempo dopo mi dice che ha sbagliato, che ero io la donna giusta per lui”.

Perché piangere per Causio quando c’è Sandy Marton, cantante che firma la hit dell’estate 1984, e che ovviamente si innamora di Pamela, poi l’anno dopo la Prati vive la favola di Pretty Woman prima che diventi un film e, guarda un po’, pure con lo stesso protagonista! Richard Gere è a Roma, e si imbatte in Pamela Prati: “Chiacchieriamo a lungo e dopo una settimana mi arriva un mazzo di fiori con questo biglietto: "Alla Venere italiana che vorrei invitare a cena". Ceniamo nel suo albergo, mangiamo spaghetti: per lui divento Miss Spaghetti! Ci baciamo e quella notte resto con lui, e anche il giorno, e la notte seguenti”. Stanno insieme a Roma 3 mesi, in giro con la 500 di lei – nota bene: Pamela Prati non ha mai preso la patente – poi lui deve tornare a Hollywood, le chiede di seguirlo, ma lei ha la fobia dell’aereo, e quindi si lasciano. Dopo Richard Gere, Pamela conosce Pier Francesco Pingitore, il suo pigmalione, e anche “il mio amore, ma platonico: la studentessa che si innamora del suo professore!”. Con Pingitore arriva il successo, col Bagaglino, e in tv. Arrivano altri amori, uno segreto durato 6 anni, con “un uomo di 15 anni più grande di me, potentissimo nel mondo dello spettacolo, il suo nome non lo farò mai”, che però le chiede di mollare la tv per fare la donna di casa. Pamela lo lascia, e dopo un flirt inesistente con Antonio Di Pietro (“mai conosciuto, l’ho visto solo una sera al Bagaglino”), c’è il giocatore di football Max Bertolani, e la Prati annuncia tutta contenta su "Gente" di volerlo sposare, ma prima “devo fare la cresima”. Non si sposano più, e Pamela vive un’altra storia d’amore con un uomo misterioso, uno per cui “sono diventata anoressica, non mangiavo, né dormivo: io volevo un figlio, lui no, e poi un figlio l’ha fatto con un’altra!”. Un delirio d’amore da cui la salva “Adam, un modello americano, il mio angelo”.

Con Adam non dura ma rimangono amici, e Pamela muore dalla voglia di essere moglie e mamma: dopo una corte estenuante, si fidanza con Ciro Quaranta, che sui giornali è un artista, poi un poliziotto, ma pure personal trainer. Con Ciro dura 5 anni, “lui ha rischiato la vita per me”, dichiara Pamela a "Chi", però poi Ciro “mi ha tradito psicologicamente”, lamenta la Prati, che sta sempre col medesimo rimpianto: non essere una moglie e una madre. Finalmente i paparazzi la beccano in moto con un uomo, che si scopre essere tale David (o Daniel) Sebastian Jabir, finto marito della Prati per 2 anni. Infatti lei prima dichiara a "Diva e Donna" che lo ha sposato a Las Vegas, poi in tv e al "Corriere della Sera" dice che non è vero, che è una fake news – nota bene: detta e inventata da lei – e va pure precisato che in rete non si trova traccia di questo Jabir, ma Pamela prima di smentire le nozze si è difesa così: “Jabir non vuole apparire, è una persona riservata, che vuole rimanere lontano dai riflettori”. Vi ricorda qualcosa?

Dopo Jabir, e dopo due storie serie, con Francesco Cordova, un ragazzo napoletano con cui Pamela dice di stare per ben 8 anni, e Luigi Oliva, che è ricorso agli avvocati per riavere indietro da Pamela quanto dovuto, ecco l’uomo giusto, l’amore "vero", si chiama Mark Caltagirone, e il resto lo sapete. Però forse non sapete che Pamela ha dichiarato su varie testate, tra cui "Repubblica", che lei ha rubato il posto a Pamela Anderson per un famoso spot pubblicitario, che lei era stata scelta come Bond Girl in uno 007 con Roger Moore, che lei ha amato un gay, che lei non ha mai avuto una storia lesbo, però “vedendo Madonna ci ho fatto in pensierino”, e soprattutto che lei non è “un personaggio che vuole apparire a tutti i costi”, macché, come ha detto a "DavideMaggio.it", lei è “come Robert De Niro: preferisco essere!”.

E a proposito di De Niro, pure lui si è invaghito della Prati, come no, l’ha rivelato Pamela a "Oggi": “De Niro mi ha fatto una corte serrata: è un gran signore. Si sa, le vere star si distinguono anche per i modi impeccabili”.

Giuseppe Candela per Dagospia l'11 giugno 2019. Allora è un vizio! Il duo Perricciolo-Michelazzo organizzava più matrimoni di Enzo Miccio! Andiamo con ordine. Il 23 aprile 2016 Mark Caltagirone, sposo inesistente di Pamela Prati, annunciava sul suo profilo Facebook di essersi sposato con Wanda Ferro, parlamentare di Fratelli d'Italia. Proprio sui social erano apparse le immagini dei tatuaggi con le iniziali di entrambi e altri scatti della politica calabrese in compagnia del duo terribile Pamela-Eliana. Il 5 aprile 2019 la deputata smentiva le avvenute nozze a Dagospia: "Tengo a precisare che non sono mai stata sposata con alcuno, come si può facilmente verificare, e che non ho mai conosciuto personalmente Marco Caltagirone, al quale mi legano esclusivamente alcuni scambi di battute scherzose su Facebook risalenti ad alcuni anni fa”. Il matrimonio, per omesso di sposo, non è stato ovviamente celebrato ma era previsto. Dagospia aggiunge infatti questo tassello che conferma, ancora una volta, il metodo usato dalle due manager. La Michelazzo in una diretta Instagram qualche giorno fa, rivolgendosi all'ex collega Perricciolo, aveva dichiarato: "Ora cerchi di difendere Wanda Ferro, pensi ti faccia lavorare? Eh no, perché Wanda Ferro è venuta a Roma, è stata con noi e ha parlato di Marco. Ha parlato davanti a uno stilista dell'abito del matrimonio, anche lei si doveva sposare. Anche lei ha visto il bambino, mi hai fatto vedere la fotografia insieme." Il matrimonio della Ferro con Caltagirone, anche in questo casa senza nessun incontro reale, era realmente previsto? "Dall'inizio ho difeso Wanda Ferro per lo shitstorming politico dei profili Fake della famiglia allargata Caltagirone-Coppi che voleva inficiarle la campagna elettorale e di conseguenza l'elezione al Parlamento nei primi mesi dello scorso anno. C'è da dire che nella vulgata della "Catanzaro bene" tutti o quasi sono a conoscenza del fatto che lei nel 2016 avrebbe dovuto sposarsi con Caltagirone", dichiara Alessia Bausone a Dagospia. L'esponente del Pd calabrese lo scorso 10 aprile si era esposta pubblicamente affermando l'inesistenza di Mark Caltagirone, inventato per fini di marketing e pressione politica. Questa volta aggiunge ulteriori dettagli: "Addirittura mi risulta che Wanda a Roma nel maggio del 2016 all'Hotel The Duke, scortata da Michelazzo e Perricciolo, si incontrò con un noto stilista per chiedergli di farle l'abito da sposa. Gli disse che si doveva sposare in Toscana e che non essendo più una ragazzina avrebbe preferito una cerimonia molto intima. Un canovaccio simile al matrimonio di Pamela Prati, in effetti, sul quale ci si aspetta più di una spiegazione, tenuto conto che è documentato che la Ferro passò con le due agenti Aicos l'estate del 2016". In effetti sui social delle protagoniste di questa storia compaiono diversi scatti insieme risalenti proprio al periodo in questione, il trio fa tappa anche nell'Argentario. L'abito da sposa, l'incontro con lo stilista, la cerimonia in Toscana: lo stesso meccanismo usato con Pamela Prati. L’esponente del partito di Giorgia Meloni era stata tirato in ballo dalla Michelazzo anche durante Live-Non è la D'Urso: “Wanda Ferro ha detto che non ha fatto nulla e lei ha la fotografia con il finto Sebastian, l’ho vista dal cellulare della Perricciolo. Tre anni fa questo bambino ha fatto la fotografia all’aeroporto o da qualche parte. Wanda Ferro invece di negare dovrebbe dire la verità, è un’altra che mente”, aveva detto l’ex corteggiatrice di Uomini e Donne. La foto della Ferro con il finto Sebastian Caltagirone alla stazione Termini di Roma era stata mostrata dal FattoQuotidiano.it: “Sono stata chiamata in causa in una storia che tutti hanno compreso essere un coacervo di falsità e menzogne. Ho sempre pensato che i magistrati avessero cose più serie e importanti di cui occuparsi, ma nel momento in cui sono emersi scenari gravi e inquietanti ho affidato la questione ai miei legali che hanno già da tempo presentato le denunce del caso. Essendo in corso indagini, anche su mia iniziativa, non ritengo opportuno rendere dichiarazioni pubbliche”, aveva dichiarato la parlamentare allo stesso sito.

Barbara D'Urso vuota il sacco: ecco cosa c'è dietro al forfait di Pamela Prati. Annunciata con un comunicato di Mediaset la presenza di Pamela Prati a "Live non è la D'Urso", la showgirl dà invece forfait a poche ore dalla messa in onda, ma Barbara D'Urso racconta una verità choc su questa sua decisione. Roberta Damiata, Giovedì 13/06/2019, su Il giornale. “Poiché ho un rapporto molto trasparente con chi mi segue ho deciso di raccontarvi tutto...veramente tutto” con queste parole seguite da un lungo discorso, Barbara D'Urso ha raccontato per filo e per segno, cosa c'è stato dietro al forfait di Pamela Prati che sarebbe dovuta essere ospite a ‘Live non è la D’Urso’, annunciata da un comunicato di Mediaset, per chiarire alcuni punti oscuri nell’ormai intricatissima vicenda di Mark Caltagirone. Invece a poche ore dalla messa in onda la showgirl ha deciso di non partecipare più. Barbara ha parlato a cuore aperto ai suoi telespettatori spiegando che un paio di giorni prima il produttore della trasmissione aveva ricevuto la richiesta degli avvocati di Pamela Prati, per poter replicare alle precedenti accuse mosse da Pamela Perricciolo sua ex agente, ospite di “Live non è la D’Urso” la scorsa settimana. L’apparizione doveva essere a titolo completamente gratuito, come messo ben in chiaro sia dal produttore che dalla D’Urso stessa, “Visto che - ha specificato -Pamela Prati ha sempre dichiarato di non voler lucrare su questa vicenda”. Unica richiesta da parte della Prati, quella di incontrare prima la conduttrice per parlare e raccontare delle cose. Così succede e martedì sera, Barbara D’Urso, la vede durante le prove. Una lunga chiacchierata e l’appuntamento per il giorno dopo. Si arriva quindi al giorno della messa in onda e gli avvocati della Prati cominciano a mandare delle richieste ben precise lontane dagli accordi presi il giorno prima. Pamela pretende con un documento scritto di conoscere tutte le domande che la D’Urso le farà e inoltre chiede che la conduttrice sia assolutamente dalla sua parte e che alla fine dell’intervista si alzi e la abbracci. “Nonostante questa cosa non mi sia piaciuta - continua la D’Urso - era comunque facilmente superabile, anche perché a me lei non doveva dare nessuna spiegazione e io in questa vicenda, nonostante le sue acclarate bugie che mi hanno fatto arrabbiare, sono voluta rimanere assolutamente neutra. Io volevo che lei spiegasse a voi cosa è successo veramente". Arriva poi la rivelazione shock. "Nel tardo pomeriggio arriva un messaggio al nostro produttore dall'avvocato di Pamela Prati - prosegue la D'Urso - che diceva che stava portando Pamela in aeroporto e che non sarebbe venuta in studio se non le avessimo garantito una cifra molto alta, decine di migliaia di euro. Non voglio parlare di ricatto perché è una brutta parola, ma dire 'se non ci date questa cifra lei non scende dalla macchina’. Abbiamo risposto: ‘ok che non scenda dalla macchina’. Non ho nulla contro Pamela Prati, ma ho un rapporto di fiducia con voi e vi dovevo delle spiegazioni. Io non intendo prendere in giro nessuno, è giusto che sappiate come sono andate avanti le cose". Una rivelazione, seguita da un lungo applauso, che ha fatto rimanere il pubblico a bocca aperta e che getta altra luce su questa vicenda che sembra non avere più fine.

FERMI TUTTI! DAGONOTA il 14 Giugno 2019. A quanto risulta a Dagospia, Pamela Prati questa mattina ha revocato il mandato all'avvocato Irene della Rocca, che l'aveva accompagnata a Milano e che ieri pomeriggio ha inviato al produttore di ''Live - Non è la D'Urso'' il famigerato messaggio con la richiesta di un cachet esorbitante, all'insaputa della showgirl e senza la sua autorizzazione. La Prati, con l'altro legale che la segue da qualche giorno, l'avvocato Lina Caputo, ha sempre chiarito che la sua eventuale partecipazione (e quella dell'avvocato Caputo) sarebbe stata a titolo gratuito, e che era interessata a mostrare privatamente alla D'Urso i messaggi, gli audio e i video che l'avevano convinta dell'esistenza di Mark Caltagirone ma che non intendeva sottoporsi di nuovo alla diretta tv, tanto da inviare un messaggio direttamente a Barbara D'Urso in cui precisava che la ragione era puramente personale, non economica.

Giuseppe Candela per Dagospia il 14 Giugno 2019. Come anticipato da Alberto Dandolo su Dagospia Pamela Prati, annunciata nel pomeriggio con un comunicato stampa, non ha partecipato alla serata di Live-Non è la D'Urso. Quanto accaduto viene raccontato al pubblico solo alle 23.44 quando la conduttrice lancia una clip, al rientro in studio sulle note di Menealo aspetta inutilmente il suo ingresso. Carmelita, come la chiamano i suoi fan, si siede sul divano e inizia un monologo: "Un paio di giorni fa gli avvocati di Pamela Prati ci hanno scritto, chiedendo giustamente la possibilità di replicare, per dire la sua verità. Io ero molto felice di questo, replicare è un sacrosanto diritto. Ero felice di dare spazio a Pamela per replicare a voi (i telespettatori, ndr). Perché c'erano dei dubbi ossia questi!". Parte così un filmato che ripropone le incongruenze, ormai note del caso Mark Caltagirone: "Voleva essere qui per spiegarvi, ha posto una condizione: incontrarmi e farmi vedere, prima, alcuni messaggi. Io ero d'accordo, ho sempre difeso Pamela. Ieri alle 21:30 è arrivata Pamela Prati, insieme ai suoi due avvocati. Con tranquillità, mi ha fatto vedere delle cose, fatto sentire dei messaggi, abbiamo chiacchierato per un'ora e mezza. Avevamo concordato tutto per l'intervista. Avrei messo Pamela Prati qui, su questo divano. Lei era stata chiara e anche io ero stata chiara. Era tutto a titolo gratuito anche se un artista ha tutto il diritto di chiedere un cachet. Pamela ha sempre detto di non voler lucrare: da stamattina, sono iniziate ad arrivare varie richieste come una dichiarazione scritta da parte mia riguardante le domande, il fatto che io avrei dovuto stare dalla sua parte e addirittura abbracciarla. A me non è piaciuto, per me era importante che si chiarisse con voi, non con me." Poi l'affondo della D'Urso sul finale: "Nel tardo pomeriggio arriva un messaggio, che io ho letto, al produttore di questo programma, dall'avvocato di Pamela Prati, che diceva che aveva prelevato Pamela Prati dall'albergo per portarla all'aeroporto invece di portarla qui e che non sarebbe scesa dalla macchina se non l'avessimo garantito una cifra. Una cifra molto molto alta: decine e decine di migliaia di euro. A quel punto, tutti abbiamo ritenuto che non fosse più il caso. Abbiamo detto ok, può non scendere dalla macchina." Prima di lanciare la pubblicità finge di intervistare Mark Caltagirone. Stando alle nostre informazioni queste condizioni non sarebbero state poste a Verissimo, sia su incontri preliminari e nemmeno su domande o abbracci imposti. La scorsa settimana Pamela Perricciolo aveva presenziato gratis, per quel riguarda Eliana Michelazzo non è stato mai precisato nulla. Fanpage aveva mostrato mail fornite dalla Perricciolo che parlavano di un compenso di 7 mila euro a puntata per l'ex corteggiatrice di Uomini e Donne. Nel corso della serata Non è la D'Urso trasmette per pochi minuti una docufiction ultratrash per fare il punto sull'intricatissimo caso: un prodotto recitato peggio delle fiction Ares che sembra diretto da Lory Del Santo durante una pausa da The Lady. Gli ospiti hanno potuto assistere al filmato da un comodissimo drive in creato per l'occasione. La Michelazzo ha intanto incontrato per la prima volta nell'ascensore Stephan Weiler, il modello svizzero a cui erano state rubate le foto, poi usate per il finto profilo di Simone Coppi, il marito inesistente dell'ex manager di Pamela Prati. "Scusa se ho messo le tue foto ma ho creduto realmente. Oddio, mi sento male. Mi era stato detto che eri in stato di protezione e che non potevi vedermi, ti ho amato follemente, mi scrivevi tante cose belle, ho fatto anche sesso virtuale con te, ci sono video e foto. Mi vergogno. E' difficile spiegarti tutto, ho creduto veramente che tu esistessi. Non so cosa pensi". Lui replica stupito: "Per me, è proprio una situazione spiacevole. Forse anche tu sei una vittima ma sono successe cose inaccettabili. Come è possibile che per dieci anni hai creduto in questa relazione?", la Michelazzo ripete il copione parlando di "malattia mentale" e aggiungendo "ho creduto realmente in questo amore fino in fondo. Ho anche un tatuaggio e un tatuaggio è per sempre." Finisce l'incontro e la ragazza in lacrime si apparta in un salottino non rientrando più in studio: "Mi vergogno, sto realizzando ogni giorno che non è normale. Per favore togliete le telecamere." Manuela Arcuri a Dagospia aveva rivelato di essere stata presa in giro da Pamela Perricciolo, racconto che aveva confermato anche a Storie Italiane e che ora ha rafforzato nel corso della sua ospitata a Non è la D'Urso: "Circa dieci anni fa avevo dei contatti di lavoro con Pamela Perricciolo, una volta mi portò anche in Calabria dove mi mostrò la villa di Simone Coppi. Pamela mi mostrò le foto di questo bellissimo ragazzo, mi propose di presentarmelo. Alla fine ci siamo scambiati i numeri con questo ragazzo fantasma. Abbiamo iniziato a parlare, volevo vederlo ma mi ha dato diverse buche e allora ho chiuso. Con questo Simone io ci ho anche parlato al telefono. Siamo stati presi tutti in giro. All'epoca ci rimasi male perché lei si era presa gioca di me. Mi ero entusiasmata per questo ragazzo,avevo preparato anche una torta per il nostro primo incontro, era Pamela che gestiva la situazione, mi diceva lei quando chiamarlo. Quando è uscito questo caso ho risposto a Dagospia proprio per smascherare tutto". Per interpretare il ruolo di Sebastian Caltagirone era stato usato un bambino, un minore a cui le due manager facevano fingere un tumore alla gola. La vera mamma del finto figlio in affido è intervenuta, senza rendersi visibile, in trasmissione: "Nel 2013, Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, mi chiesero di fare un book per mio figlio. Nel dicembre 2016, mi contattò Pamela Perricciolo e mi chiese un video-selfie di mio figlio forse per una fiction o un programma. Mio figlio seguiva un copione che Pamela mandava e mio figlio doveva riprodurre sottoforma di nota vocale o video. A volte doveva dire "Ciao mamma" o parlare con la voce rotta per un problema alla gola o con voce molto triste. Doveva tossire e dire che gli faceva male la gola. Conobbi Eliana nella stessa circostanza in cui conobbi la Perricciolo. Eliana vide mio figlio prima della famosa merenda con Pamela Prati. Non ho mai percepito soldi per questa cosa." Ricordiamo che il bambino fu portato in un bar per incontrare Pamela Prati e compare in una foto alla stazione Termini con la parlamentare Wanda Ferro. La mamma coinvolge anche la Michelazzo, che da giorni cerca di "ripulirsi" mediaticamente, lei in studio prova a difendersi: "Non lo riconobbi il bambino, lo vidi solo da piccolino." Suscitando la reazione piccata dell'avvocato Taormina presente in puntata: "Lei resta in molteplici ambiguità. Lei dovrebbe fare chiarezza su una cosa: quanto guadagnavate? Perché quest'ira di Dio di cose sono al limite dell'inenarrabilità. Queste cose si fanno solo per un tornaconto. Qual era? ".

DAGONEWS il 17 giugno 2019. ''La mia reputazione è rovinata, proprio mentre stavo faticosamente cercando di proteggerla''. Questo si legge nell'esposto che Pamela Prati ha depositato presso l'Ordine degli Avvocati di Catanzaro, contro la sua ex legale Irene Della Rocca. La showigirl racconta come l'avvocato avesse ''personali aspirazioni televisive ed economiche'' che l'hanno spinta a compiere l'ormai famigerata richiesta (60mila euro) alla produzione di Live-Non è la D'Urso per partecipare alla puntata dello scorso mercoledì, all'insaputa della Prati e con l'altro e attuale avvocato (Lina Caputo) che aveva già lasciato Milano. ''Le ripercussioni sulla mia immagine, dopo che Barbara D'Urso ha raccontato in diretta che i miei legali (in realtà solo la Della Rocca) avevano fatto questa richiesta economica, sono state pesantissime e gravissime. Quel gesto andava contro tutto quello che avevo sempre predicato e contro l'operato dell'avvocato Caputo, che aveva mandato una lettera di diffida da me firmata in cui si specificava che la mia eventuale partecipazione (all'ultima puntata, non a quella) sarebbe stata a titolo gratuito. Non biasimo la D'Urso, non biasimo il pubblico, ma sono rimasta colpita dalla totale assenza di decoro professionale dell'Avv. Della Rocca''. Secondo la Prati, la Della Rocca in questi mesi invece di difendere i suoi interessi è stata più interessata ad apparire in varie trasmissioni televisive, a comportarsi come un'agente e non come legale. E quando siti come Dagospia hanno raccontato la vera dinamica del ''fattaccio'' dello scorso mercoledì, si è premurata di mandare fantasiose precisazioni a Fanpage e a questo sito, in cui parlava di messaggi misteriosamente partiti dal suo cellulare, e altrettanto misteriosamente cancellati, e nelle stesse precisazioni ammetteva però che la richiesta di denaro l'aveva fatta, sebbene a titolo di ''risarcimento danni'' (ovviamente un'aberrazione giuridica: non si è mai visto un avvocato che chiede un risarcimento danni via sms a un produttore televisivo a poche ore dalla messa in onda di una trasmissione)

Dagospia il 14 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Irene della Rocca, già avvocato di Pamela Prati:

1. Non ho mai mandato richieste di alcun cachet per la signora orari alla trasmissione live non è la D'Urso, ma una richiesta di risarcimento danni, a causa delle varie diffide inviate alla trasmissione in passato;

2. Non è MAI stata prevista e/o concordata con me la presenza mia alla trasmissione, infatti la stessa produzione già dal giorno precedente sapeva che sarei partita alle 16 al massimo; non ho il dono dell'ubiquità quindi mai sarei stata presente alla trasmissione, di cui perlatro non condivido i toni tout court e nella quale ho specificato anche verbalmente al produttore Spazzini che non era mia intenzione essere presente in una trasmissione non particolarmente adatta ad un professionista, secondo me, ovviamente;

3. Io non ho MAI richiesto il diritto di replica, perché, conoscendo la fragilità emotiva della mia cliente sapevo che non avrebbe avuto facilità ad andare in video, e questo è confermato anche dalle molteplici mail scambiate ieri con la redazione e produzione del programma, ma chiaramente, essendo stata richiesta dalla signora Prati, tramite un altro legale, la partecipazione stessa non poteva che essere a titolo gratuito;

4. Nessuno ha portato via la signora Prati da Milano contro la sua volontà, anzi per la verità al momento in cui sono salita in macchina per andare in aeroporto, la signora è entrata anche lei a sorpresa, come ho spiegato in una mail alla redazione, alla produzione ed ai legali rti, mail che però è stata completamente omessa nella spiegazione degli autori, peraltro, per quanto a mia conoscenza, alla signora non è stato pagato neppure il biglietto di ritorno a Roma;

5. La signora Prati è stata seduta accanto a me tutto il giorno e mi sorprende che non sapesse della richiesta di risarcimento danni, ma forse davanti ad accuse infondate che la hanno vista di nuovo ingiustamente denigrata davanti al pubblico, non ha saputo avere la lucidità di cercare la verità, che d'altronde avrebbe dovuto ben conoscere, perché troppo spesso nel mondo di oggi quello che dice una persona dietro uno schermo diventa vero anche se non lo è. E solo in questi tempi di disgregazione della società si dà importanza sempre di più all'apparenza che alla sostanza, arrivando a far esistere quello che non c'è;

6. Solo per amore di completezza martedì sera avevo rinunciato al mandato per la vicenda live, proprio perché la linea di difesa deve essere unica, oppure condivisa quando si è in più difensori e ritenevo la mia linea completamente antitetica a quella della collega, ma, non volendo mettere in difficoltà la Cliente, avevo rinunciato io al mandato, con preghiera della signora di continuare ad assisterla perché conosco lo sviluppo dei fatti;

7. Ritengo di aver svolto il mio mandato con correttezza e professionalità, a prescindere dalle strumentalizzazioni fatte da live e da chi soffia nelle orecchie della signora Prati, alla quale auguro di poter dimostrare al più presto quale sia la verità, magari suggerendole di decidere da sola per il futuro, senza troppi suggeritori, e senza fuggire le responsabilità, se e quando ce ne siano. Avv. Irene della Rocca

Patrocinante in Cassazione.

Dagospia il 14 giugno 2019. Dall'intervista a Irene Della Rocca pubblicata da Fanpage.it (…) Abbiamo richiesto specificamente di vedere il messaggio che la D'Urso ha raccontato sia stato mandato dall'avvocato a uno dei produttori del programma ma l'avvocato Della Rocca, pur confermando di avere lei stessa visto quel messaggio mandato dal suo telefono, sostiene di non averlo mai inviato e di non riuscire a recuperarlo nel flusso della conversazione, come se fosse stato cancellato. Non sa spiegarsi da chi. Lo scambio si interrompe alle 16 circa, ribadendo l'eventuale disponibilità della Prati a prendere parte all'ultima puntata della stagione.

L'ex avvocato della Prati è stato tirato in ballo in alcune note vocali di Pamela Perricciolo ("Taormina ha parlato con Coppi, si sta smuovendo qualcosa per Simone"): "L'Italia ti dovrebbe essere grata per aver scoperto questo verminaio. Non voglio fare piaggerie ma ci vorrebbe una standing ovation per Barbara D'Urso. E' un verminaio. Due sono le cose: o siamo in presenza di persone da sottoporre a perizia psichiatrica oppure si tratta di un fatto gravissimo di criminalità sul quale io mi auguro intervenga l'autorità giudiziaria. Io conosco Alfonso Signorini, ha un'intelligenza raffinatissima. Com'è possibile che un personaggio della sua portata sia stato uno dei segmenti di questa vicenda che si porta avanti tanti cadaveri. Evidentemente, è un'organizzazione potente. I bambini? Non mi sono mai messo in collegamento con nessuno, mai fatto nessuna mossa. Siamo sull'esilarante. Anche con me, la Prati parlò del bambino. E' una cosa di una gravità incredibile. La Michelazzo ha avuto la consapevolezza di non salire da me a parlare di queste cose e la ringrazio per questo. Non è gossip, è criminalità." "Ha fatto estorsione, ha chiesto soldi a questa persona Chiara. Non posso dire il cognome mi ha diffidato, con Danny Coppi lei si è sentita un anno e mezzo", il il riferimento senza citazione è a Chiara Colosimo, consigliere regionale nel Lazio. La Perricciolo aveva svelato al Fatto che entrambe erano state denunciate, la conduttrice quindi ricorda alla Michelazzo che cinque anni fa aveva scoperto dai Carabinieri che Simone Coppi non esisteva. La risposta è nonsense: "E' stato chiamato con un altro nome, io ho creduto che c'erano dei soprannomi che mettevano loro." Manuela Villa colpisce duro: "Tu cinque anni fa hai scoperto l'estorsione e stavi a casa con una che fa estorsione?", a cui la manager risponde così "A me ha detto che li aveva ridati, quello che diceva per me era oro colato."

Martina Kelly Cappelletti, ex corteggiatrice di Uomini e Donne, ha raccontato la sua esperienza da finta nipote dell'omesso sposo: "Eliana e Pamela le ho conosciute nel 2015 perché avevo una amica che lavorava con loro e faceva parte dell'agenzia. Quando eravamo a Roma spesso ero invitata, a fine 2017 vengo ricontattata solo dalla Perricciolo che mi propone di partecipare a un reality che sarebbe andato in un onda su Sky. Era ancora in fase di definizione, mi era stato proposto a fine 2017 e doveva andare in onda a settembre 2018. In cosa consisteva?  Quattro famiglie avevano all'interno sia parenti veri e sia finti, in questo reality avrei dovuto fare la parente finta e avrei avuto otto mesi di tempo per conoscere Mark e Sebastian in modo da risultare una vera parente. Sono stata affascinata da questo bambino che era solo e malato, io lo sentivo tutte le settimane tramite Facebook mi scriveva dal profilo Sebastian Caltagirone, diceva che faceva la chemio". L'avvocato della famiglia del finto bambino la interrompe per chiederle se lo ha mai visto in qualche video o foto: "No, sono stata invitata a conoscerla soltanto negli ultimi due mesi, anche a fine maggio e mi sono rifiutata." In realtà come Dagospia ha dimostrato sul profilo di Sebastian Caltagirone comparivano tre foto con il bambino, se si scrivevano su Facebook la ragazza non poteva non aver visto le foto del minore. La D'Urso le chiede conferme anche sulla malattia inventata, smentita invece dalla Perricciolo: "Sì, aveva un tumore alla gola, era isolato in Corsica. A Marco era stato tolto questo bambino perché lui si era separato dalla mamma, una parlamentare francese."

Valerio Palmieri per ''Spy'' il 14 giugno 2019.  Il “metodo Caltagirone”, ovvero l’invenzione di un ricco spasimante da utilizzare per agganciare personaggi dello spettacolo e far credere loro di essere fidanzati o sposati, con l’aggiunta in alcuni casi di un bambino in affido o orfano, è una pratica che la società Aicos, fondata da Pamela Perricciolo, cui si è aggiunta Eliana Michelazzo, svolgeva da tempo, ben prima del caso di Pamela Prati. Per l’esattezza dal 2004, quando nasce la Aicos, in Calabria, dalla Perricciolo e da una donna (non è la Michelazzo) che risulta la prima intestataria della società. Già allora, pur non esistendo ancora in Italia Facebook, a questa donna viene presentato, telefonicamente e via mail, un prestante surfista di nome Andrea Ginevra. Il ragazzo parla con accento calabrese, anche se il volto, si scoprirà anni dopo, è quello di un modello svizzero, Stephan Weiler. Lo stesso, per intenderci, a cui è stata rubata l’immagine per costruire il profilo di Simone Coppi, il marito immaginario di Eliana Michelazzo. Un’altra curiosa coincidenza è che il cognome del finto surfista, Ginevra, sarebbe lo stesso delle zie della Perricciolo. La donna, vittima del raggiro, che ha scoperto l’inganno solo adesso, vanterebbe anche crediti importanti nei confronti di Donna Pamela (Perricciolo). La Michelazzo, dicevamo, entra in gioco più avanti. Siamo nel 2009 quando l’ex corteggiatrice di Uomini e donne annuncia il matrimonio con il magistrato Simone Coppi, che scoprirà, a suo dire solo dieci anni più tardi, non essere mai esistito. Eppure Eliana, questa è la seconda clamorosa rivelazione di “Spy”, sapeva già almeno dal 2015 che la famiglia Coppi era un’invenzione. Lo sapeva perché lei e la Perricciolo erano state indagate per truffa, insieme con un terzo soggetto (un modello svedese, ignaro di tutto, a cui era stata sottratta l’immagine), ai danni di una parlamentare calabrese (che non è Wanda Ferro, la deputata che ha “preceduto” Pamela Prati come “vittima” di Mark Caltagirone). Gli indagati avrebbero indotto la vittima, con l’inganno, a consegnare 4.500 euro. La Michelazzo e la Perricciolo, secondo la denuncia, avrebbero stretto amicizia con la vittima, che aveva affidato alla Aicos la realizzazione di eventi nell’ambito della sua attività politica, e le due socie avrebbero presentato alla donna il modello svedese attraverso Facebook sotto le false generalità di Denny Coppi, giovane e facoltoso imprenditore, nipote dell’avvocato Coppi. A seguito della denuncia, in cui viene chiarito che Denny Coppi non esiste, viene perquisita l’abitazione di Eliana e di Pamela e vengono sequestrati telefoni cellulari, schede telefoniche e un documento (falso) del matrimonio fra Simone Coppi e Eliana Michelazzo. In quell’occasione la Michelazzo apprende, quindi, che Denny Coppi non esiste e che il suo matrimonio si basa su documenti sospetti. La truffa, secondo la denuncia, segue un copione che oggi è noto: Denny Coppi fa credere alla vittima di essere vedovo e padre di un bambino di sette-otto anni, tale Riccardo Coppi, con il quale veniva messa in contatto sia telefonicamente sia di persona, grazie alla Perricciolo. La vittima, così recita la denuncia, sarebbe stata convinta ad avviare le procedure per l’affidamento del piccolo e a pagare 4.500 euro per la sua assicurazione scolastica. I soldi sarebbero stati consegnati nelle mani della Perricciolo a settembre del 2014. Confrontando le immagini del 2015 con quelle del 2019, che abbiamo visto, il piccolo Riccardo Coppi somiglia tantissimo al bambino che è stato spacciato nell’ultimo anno per Sebastian Caltagirone, figlio di Marco Caltagirone. E arriviamo al ragazzo cui è stata sottratta l’identità: si tratta di un modello svedese, sposato, bellissimo, con quattro fratelli, anche loro modelli, ignaro di tutto (nella denuncia ci sarebbe il suo nome, ma nessun recapito). Nella finzione si chiama Denny Coppi, è vedovo, ma poi si sarebbe sposato con la cognata, tale Ada Da Russell, che ha il volto di una modella romana che abita a 50 metri da casa di Eliana e Pamela (anche lei totalmente estranea ai fatti). Il volto del modello è stato utilizzato anche per creare l’identità di Lorenzo David Coppi, l’uomo che ha ingannato Sara Varone. Lo schema, a questo punto, è chiaro. Viene presa l’immagine di una persona reale, possibilmente straniera (nei casi appena citati uno svizzero e uno svedese), di bell’aspetto e con una famiglia numerosa dalla quale attingere altri profili da spacciare per parenti (ecco come è stato costruito il finto albero genealogico dei Coppi). A questo volto viene abbinato un profilo con un cognome importante che evochi ricchezza e benessere. Con questa nuova identità vengono contattati personaggi famosi, che sono, appunto, le vittime del raggiro. Per intenerire le vittime e aggiungere un elemento di realtà viene tirato in ballo un bambino, Riccardo Coppi o Sebastian Caltagirone. Il bambino diventa l’arma del ricatto: in un caso ha perso la mamma, nell’altro è malato. Un altro elemento di veridicità sono i documenti falsi, come quelli sequestrati nella perquisizione dell’abitazione di Eliana e Pamela. Alle vittime, infine, viene chiesto di tatuarsi l’iniziale del loro spasimante. Il segno indelebile di una crudele truffa. Ora, alla denuncia del 2015 contro Eliana e Pamela, se ne sono aggiunte altre recenti, prima fra tutte quella della mamma del bambino utilizzato a sua insaputa e a insaputa dei genitori per truffare le vittime dei raggiri. In questa storia, che dalla cronaca rosa sta passando a quella giudiziaria, è giunta l’ora di mettere i colpevoli di fronte alle proprie responsabilità.

Se il caso Mark Caltagirone è una macchina per fare ascolti. Pubblicato giovedì, 13 giugno 2019  da Aldo Grasso su Corriere.it. «Live - Non è la d’Urso» è una miniera d’oro per Publitalia che ne ha chiesto il prolungamento, questa la notizia. È lecito domandarsi, senza falsi moralismi, a che prezzo la d’Urso è diventata una miniera d’oro? La d’Urso (una per tutte e per tutti) è molto brava a fare ascolti. Li ha fatti con la storia incredibile di Pamela Prati, una storia di bugiardi, di personaggi inventati, dell’inesistente Mark Caltagirone smascherato subito da Roberto D’Agostino. Perché questa vicenda, pur sapendo che era tutta una montatura, è andata avanti per così tanto tempo e ancora continua? Perché fa ascolti e gli ascolti sono la sola ragione di vita di una tv commerciale. Ma una tv, per quanto commerciale (si tratta pur sempre di Canale 5, con un passato non indifferente), gioca sul simbolico e sull’immaginario: può rischiosamente alimentarsi solo di ciarpame (stiamo parlando anche di debiti di gioco, di coinvolgimento di minori, di una valanga di menzogne), di uno spericolato caso di catfishing, di mondi farlocchi che da internet si trasferiscono sulla tv generalista, di resa morale? In giro ci sono bravi presentatori, ma se di fronte all’obiettivo diottenerefacili ascolti agisci al di fuori di ogni etica, di ogni responsabilità, allora hai gioco facile e diventi una miniera d’oro (qualche analogia con «La Bestia» di Salvini?). Etica è parola troppo importante per questo caso? Forse sì, ma se osserviamo il contesto in cui questo caso è scoppiato allora ci accorgiamo dell’insorgere di una cultura utilitaristica che irride ogni ostacolo, ogni barriera valoriale, ogni decenza: per raggiungere uno scopo, la scappatoia diventa lecita e soprattutto si diffonde un senso di impunità grazie al quale la regola (anche solo di buon gusto) è un ostacolo da aggirare. E siamo invasi dal mondo dei social dove spesso la finzione è ben più credibile della realtà. Il sottobosco diventa bosco, il ritegno sfrontatezza. Ci aspetta un domani dursocentrico.

Da Libero Quotidiano il 3 giugno 2019.  L'avvocato Carlo Taormina chiarisce il suo ruolo nel cosiddetto "Prati-gate": "L'evento che mi fece dubitare fu la presunta aggressione con l'acido nei confronti di Pamela Perricciolo". Taormina, ingaggiato dalla showgirl Pamela Prati per "tutelare la sua immagine", parla a Mattino Cinque: "Mi sono reso conto che c'era qualcosa di losco, anche se un po' in ritardo. Dopo la "violenza" la Perricciolo [EDIT]si presentò con un braccio fasciato che mi insospettì, avendo anche esperienza in quel campo. Da lì me ne tirai fuori". Poi svela un retroscena: "Sarei dovuto andare a prendere le difese di Pamela Prati da Barbara d'Urso, ma accompagnato dalle sue agenti e non da lei in persona". L'avvocato si riferisce a Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, entrambe coinvolte nello scandalo.

Claudia Cabrini per Gossipblog il 3 giugno 2019. Arriva tramite Instagram la replica di Pamela Prati in riferimento al caso Taormina. Stiamo parlando delle dichiarazioni rilasciate dall'avvocato Carlo Taormina nel corso di una sua lunga intervista alla trasmissione in onda sul canale TeleLombardia Iceberg Lombardia. L'avvocato, infatti, già nelle scorse settimane aveva espresso la sua volontà di difendere la showgirl a proposito della truffa Mark Caltagirone, cambiando tuttavia repentinamente idea nel momento in cui, racconta, la Prati gli avrebbe avanzato una proposta particolare: quella di mentire a nome suo, testimoniando che Mark Caltagirone esistesse davvero: "Loro volevano che io andassi da Barbara D'Urso a testimoniare che Mark Caltagirone esisteva. Fu Pamela Prati a chiedermi questa cosa. Io ho detto di no, non sono caduto nella loro trappola. Sarei risultato una pedina della truffa complessiva. […] È stata proprio Pamela Prati a chiedermi di andare ospite dalla D’Urso, avrebbe gradito che fossi andato con le due agenti, la Michelazzo e la Perricciolo. Ho tenuto il gioco fino a quando ho avuto la prova in mano che fosse una farsa. E cosi ho rimesso il mandato". Nel pomeriggio, Pamela Prati ha risposto pubblicando una Instagram Story sul suo profilo ufficiale, specificando di non aver mai chiesto nulla di specifico all'avvocato Carlo Taormina, ma che al contrario sarà proprio contro di lui che ora dovrà prendere provvedimenti legali: "Riguardo alle dichiarazioni rilasciate dall'avvocato Taormina voglio specificare che io non gli ho mai chiesto di garantire per me l'esistenza di Marco Caltagirone. Gli avevo solo chiesto di accompagnarmi in trasmissione per tutelare la mia posizione da buon avvocato quale pensavo che fosse. Devo ricredermi. Anche la sua posizione verrà valutata nelle opportune sedi".

Pamela Prati, l'avvocato Taormina la denuncia: "Chi pensa di intimidire?". Dalla padella alla brace. Libero Quotidiano il 7 Giugno 2019. Le cose vanno di male in peggio per Pamela Prati. Nelle scorse settimane la showgirl aveva attaccato l'avvocato Carlo Taormina per non aver voluto presenziare in suo favore nelle trasmissioni di cui era ospite dichiarando: "Riguardo alle dichiarazioni rilasciate dall’avvocato Taormina voglio specificare che io non gli ho mai chiesto di garantire per me l’esistenza di Mark Caltagirone. Gli avevo solo chiesto di accompagnarmi in trasmissione per tutelare la mia posizione da buon avvocato quale pensavo che fosse. Devo ricredermi. Anche la sua posizione verrà valutata nelle opportune sedi". Ieri sera è arrivata la risposta da parte dell'avvocato che ospite del programma Iceberg di Marco Oliva ha affermato perentorio: "Ma lei pensa che io possa essere intimidito? Nel momento in cui Pamela Prati mi dice che valuta se prendere iniziative o altro nei miei confronti, ma che vuole? Mi vuole bloccare? Ha sbagliato strada". L'avvocato ha poi aggiunto: "Ho chiesto di accertare cosa c’è dietro questa vicenda, perché secondo me è un fatto di associazione criminale. Non so chi è il carnefice e chi è la vittima, questo non lo so. Sono portato a credere che qualcuno sia vittima e  altro sia carnefice. Mi sono rivolto all’autorità giudiziaria affinché provveda a capire che cosa c’è e soprattutto che tuteli la mia persona da queste che potrebbero essere delle vere e proprie intimidazioni. Ho presentato un esposto alla Procura di Roma". Fallimentare dunque l'idea della Prati di ricorrere a degli avvocati per difendere la sua posizione, qualora sia stata plagiata pare proprio sia arrivata l'ora di dimostrarlo prima di cacciarsi in ulteriori guai.

Giuseppe Candela per Dagospia il 6 settembre 2019. Il caso Prati-Caltagirone svelato da Dagospia lo scorso aprile si è rivelato un fenomeno senza precedenti, capace di catalizzare per oltre tre mesi l'interesse di tutto il sistema mediatico. I riflettori si sono spenti, non totalmente, con l'arrivo del caldo e la chiusura dei programmi televisivi. Pamela Prati ha rilasciato interviste in cui annunciava di ripartire da Paola Pireddu (suo vero nome), ha partecipato ad eventi, è stata immortalata in piscina, ha concesso parole al miele a Maurizio Costanzo. A settembre la tv si riaccende: l'ex trio Prati-Michelazzo-Perricciolo tornerà al centro della scena? Il sito Tvblog nei giorni scorsi ha fatto il nome di Pamela come opinionista della nuova edizione del Grande Fratello Vip aggiungendo poi che sarebbe già "stata in qualche modo 'catturata' da un'altra trasmissione di Mediaset." Al di là delle volontà di chi si occupa del reality, o della stessa showgirl, la sua presenza non è prevista al momento come concorrente (di nuovo) o opinionista. Sarebbe utile mediaticamente per trainare il programma condotto da Alfonso Signorini ma creerebbe nuove polemiche che si vogliono evitare. Nessuno in Mediaset immagina la morte artistica della Prati dopo lo scandalo ma non c'è la volontà di concedere occasioni che non siano strettamente giornalistiche dopo aver, in maniera più o meno consapevole, preso in giro telespettatori e conduttori (che pure hanno beneficiato di molti punti di share). Ricordando, inoltre, che le protagoniste di questo caso non sono mai state denunciate dall'azienda di Cologno Monzese. Era circolata nei mesi scorsi l'ipotesi Amici Vip (diventato intanto Amici Celebrities) ma stando alle nostre fonti così non sarà. Il riferimento al programma che ha "catturato" la Prati è Verissimo, dove la scorsa primavera la Pireddu ha partecipato per ben tre volte. I soliti beninformati raccontano che la primadonna del Bagaglino quest'estate, dopo la mancata ospitata a Live-Non è la D'Urso, aveva chiesto spazio per un diritto di replica finale. Disposta a partecipare anche gratis ma la trasmissione del sabato pomeriggio non poteva riaprire i battenti solo per lei. "Tutto rinviato a settembre", si erano detti. Settembre è arrivato e le trattative tra le parti sono riprese. Subito però si sarebbero arenate per un problema di cachet, si parla di una richiesta economica molto importante, la Toffanin avrebbe risposto "no grazie". La Prati vuole Verissimo, Verissimo vuole la Prati ma gratis o al massimo concedendo un rimborso spese. Per ora, dunque, la trattativa è in una fase di stallo. Aggiungiamo che al momento non sarebbero ipotizzabili ospitate di Pamela Prati nei programmi Rai, era stata fatta una eccezione per Chi l'ha visto? dove però non aveva aperto bocca e aveva partecipato senza percepire un compenso. L'ospitata a Domenica In (e Vieni da me) aveva portato il caso in Vigilanza Rai. Discorso diverso per Live-Non è la D'Urso che deve proprio al caso Prati-Caltagirone il successo della sua prima edizione. Andrà in onda nella più difficile collocazione domenicale dal 15 settembre e tornerà sull'argomento ma senza la Pireddu. Rivedremo sicuramente Eliana Michelazzo, rappresentata dalla Barnum di Massimiliano Caroletti che molti artisti propone nei salotti di Carmelita. L'ex corteggiatrice di Uomini e Donne quest'estate ha concesso interviste a destra e a manca, ha annunciato un libro e un film sulla storia che l'ha vista protagonista, ha sponsorizzato prodotti sui social e collezionato numerose serate in giro. Ha anche ufficializzato la relazione, vera o finta che sia, con l'esistente Daniele Bartolomeo che potrebbe presentare al pubblico di Canale 5 nelle prossime settimane. Inutile dire che la Michelazzo sogna una partecipazione nei reality, ci aveva già provato subito con il Grande Fratello ma fu bloccata dai vertici Mediaset. Il no per la Prati si estenderà, come immaginabile, a Eliana Michelazzo e se volesse anche a Pamela Perricciolo. Quest'ultima aveva svelato che la finta moglie del finto Simone Coppi percepiva 7 mila euro a puntata per presenziare a Live-Non è la D'Urso ma la stessa Michelazzo ha confessato di recente di avere grandi problemi economici, che le avevano bloccato i pagamenti delle fatture e che era partita per Ibiza ''con 200 euro''. Potrà dunque accettare di andare gratis in tv? Se l'azienda non è disposta a pagare la Prati a Verissimo come potrebbe concederle un cachet? E Pamela Perricciolo? Secondo il sito Fanpage è stata avvistata a Cologno Monzese lo scorso 4 settembre, potrebbe essere tra gli ospiti al debutto di Live-Non è la D'Urso e alla conduttrice avrebbe fornito prove che inguaierebbero la finta signora Coppi. Intanto Donna Pamela è tornata attiva sui social. Anche lei si è concessa qualche serata nelle discoteche nelle Marche, scattandosi foto con la sua sosia (non Fedez, anche se il taglio è lo stesso) che aveva interpretato il suo ruolo nella minifiction di Live-Non è la D'Urso. Tale Paola Vitucci è entrata a far parte della sua agenzia. Avete capito bene. Se l'Aicos è fuorigioco, la Perricciolo prova a rilanciarsi con la Dreaming Management: "Felice dei contratti che abbiamo chiuso in questo periodo. Avanti tutta", scrive sul suo profilo Instagram. Nel profilo dell'agenzia compaiono molti bambini, per la serie il lupo perde il pelo ma non il vizio. In arrivo un confronto con Eliana dalla D'Urso? Le denunce rendono l'incontro più complicato, discorso diverso per le singole ospitate. La telenovela continua....

Pamela Prati a Non è l’Arena: “Sono una vittima, ho mentito per amore”. Ospite di Giletti al talk di La7, la showgirl fornisce la sua versione dei fatti sul caso Mark Caltagirone: “Ho creduto ciecamente in questa favola e ho commesso degli errori – dice – ma sono innocente”. Alessandro Zoppo ,Lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. Pamela Prati è stata ospite di Massimo Giletti a Non è l’Arena nella prima puntata della nuova stagione del talk di La7, andata in onda domenica 22 settembre 2019. La showgirl, dopo la recente intervista a Oggi, è tornata a parlare del caso Mark Caltagirone e di quella che Giletti ha definito “la più grande fake news dell’anno”. “Ho creduto ciecamente in questa favola – esordisce la Prati – e sono innocente. Sono stata una vittima, e non sono l’unica”. La soubrette cita i casi di Alfonso Signorini e Manuela Arcuri, che hanno subito lo stesso trattamento ad opera delle stesse agenti. Giletti ripercorre tutta la vicenda, dal primo incontro di Pamela con Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo in un ristorante di Roma nel marzo del 2018 all’intervista a Chi del maggio 2019 in cui la Prati annuncia le nozze con l’imprenditore Mark Caltagirone. Dopo le rivelazioni di Dagospia e FanPage, emerge la verità: è tutto falso. La Prati è complice o vittima? “L’ho scoperto all’ultimo che lui non esisteva – dichiara la Prati – e ho difeso una famiglia che credevo di avere. Sono stata invitata a quel ristorante. Mi hanno parlato di Mark Caltagirone, mi hanno detto che si era appena separato e che aveva preso in affido un bambino, ed era bello e dolce. Che a lui io piacevo, era venuto tante volte a vedermi al Bagaglino. Ho pensato subito facesse parte di questa famosa famiglia. Gli ho mandato un messaggio io la prima volta, gli ho scritto: ‘Buona primavera’”. “Piano piano – racconta la showgirl – abbiamo iniziato a messaggiare e ci siamo piaciuti. Lui mi raccontava della delusione avuta dalla sua ex compagna: non credeva più nell’amore e scriversi con me lo stava rendendo felice”. I dubbi sono iniziati quando non riusciva a parlare con lui o riceveva soltanto messaggi vocali. Caltagirone diceva di essere sempre in posti come la Siria e la Libia, con continui problemi di linea o comunicazione: le foto che mandava alla Prati erano in realtà quelle di Marco Di Carlo, rubate sui suoi profili social. Giletti mostra persino la chat hot tra i due. “Ti sei toccata”, scriveva lui. “Sì, mi sono toccata. Perché tu mi fai impazzire”, rispondeva lei.

Pamela Prati: “Hanno colpito tutti i miei punti deboli”. “Io non ho costruito tutto questo, lo hanno costruito per me – ribadisce la Prati –. Hanno colpito tutti i miei punti deboli con crudeltà. E se pensiamo che sia stato fatto da delle donne, fa ancora più male. Ho fatto degli sbagli: ho mentito per amore”. “Mi arrivavano tantissimi suoi messaggi – rivela la showgirl – ma non so con chi stavo dall’altra parte del telefono. Adesso mi rendo conto di quello che mi stavano facendo. Oggi non mi riconosco”. La psicoterapeuta Stefania Andreoli definisce Caltagirone un caso di “catfish”, ovvero gli adescatori sentimentali di Internet con una falsa identità. “Uscivo da una grande storia d’amore – dice la Prati –, hanno toccato un mio punto debole. Ma io non ero complice di nessuno: sono stata incosciente, ingenua e stupida, ma sono stata raggirata”. Quando Giletti la incalza sulle copertine delle riviste e le apparizioni televisive, la Prati rimanda al mittente le critiche. “Hanno speculato loro su di me – dice la soubrette –, l’hanno fatto per apparire, per invidia e gelosia. Io non ci ho guadagnato e non mi importa che si parli di me in questo modo: ero molto famosa prima di questa vicenda”. “Se avessi architettato tutto questo – si rivolge poi a Nunzia De Girolamo, ospite del talk – come avrei potuto mandare dei video di me nuda a qualcuno che non conosco? Per due passaggi in televisione butto via la mia carriera? Si chiamano truffe d’amore”. Nella sua ricostruzione, Giletti sottolinea la presa in giro dei due bambini, “Sebastian” e “Rebecca”, messi in mezzo in questa storia come figli dati in affido della Prati per fare leva sul suo bisogno di maternità. Poi mostra le interviste a Wanda Ferro, la deputata di Fratelli d’Italia coinvolta nel sistema dei finti matrimoni, e all’uomo che ha accettato di essere Caltagirone per fare delle foto insieme a Pamela fingendo di essere lui. “Ho difeso un marito e dei figli ipotetici – ribadisce la showgirl –. Ho mentito per loro. Le foto non le volevo fare. Un giorno ho incontrato veramente Sebastian Caltagirone. Me lo sono trovato davanti. Non sapevo nulla, e ci ho creduto. Quello che mi è successo è una tragedia. È stato un ricatto psicologico. Sono stata fragile: mi hanno manipolato. Io stavo sempre e solo con loro. Sono stata una cretina a non rendermi conto di quello che mi stava succedendo, ma non permetto che si metta in dubbio la mia buona fede”.

Simona Ventura prende le difese di Pamela Prati. Nel corso della puntata, è apparsa anche Simona Ventura con un’intervista in cui si è pronunciata sulla vicenda che ha visto protagonista la sua amica Pamela. La conduttrice ne prende le difese. “C’è un sistema – dichiara la Ventura – per cui ci sono delle vere e proprie organizzazioni che sanno incunearsi quando tu sei più debole. Avevano contattato anche me perché volevano fare dei post su Instagram, però mi era sembrato strano perché proprio in quel periodo mi ero lasciata con il mio compagno. Sarà stato un caso? Non lo so”. “Alle amiche – aggiunge la presentatrice – bisogna dire la verità. Io penso che Pamela si debba circondare di donne che amano le donne perché ci sono anche tante donne che odiano le donne ed è veramente una disdetta incontrarle nel proprio cammino”.

·         Carlo Taormina: “Se sono un grande avvocato…lo devo a mia moglie!”. 

Carlo Taormina: “Se sono un grande avvocato…lo devo a mia moglie!”. Marco Lomonaco il 19/09/2018 su Il Giornale Off. Carlo Taormina, avvocato di Pamela Prati fino a poco fa, a “Un Giorno da Pecora”, su Rai Radio1, ha raccontato il suo punto di vista sulla delicata vicenda del matrimonio, vero o presunto, della showgirl con Mark Caltagirone (Pamela Prati a “Verissimo” ha ammesso che Mark Caltagirone non è mai esistito, aggiungendo di aver paura perché non sa chi ci sia dietro a quella che ormai sembra diventata una vera e propria soap opera all’italiana, fonte AdnKronos). “Ho rinunciato al mio mandato perché vedo tanta confusione, tante chiacchiere e supposizioni, cose intricate e non sempre chiare”. E se lo dice lui. Vi proponiamo la bella intervista che il grande avvocato concesse al nostro Marco Lomonaco il 19 settembre 2018, scoprendo quanto sia attualissima …(Redazione). Carlo Taormina, 77 anni, avvocato di fama nazionale, docente universitario, per anni facente parte della “tavola rotonda” del Cav».

Professore, se dovesse cercare tra gli innumerevoli casi che ha affrontato nella sua carriera, saprebbe indicarcene uno che l’ha particolarmente impegnata?

«Trovarne uno così su due piedi è complicato, avendo io affrontato nella mia carriera moltissimi casi, anche molto impegnativi. Dovendone però indicare uno in particolare, posso dire che la vicenda di Cogne è stata certamente importante non solo per la mia attività professionale, ma anche perché ha rappresentato nel nostro paese un’autentica svolta metodologica nell’affrontare casi di questo tipo. Come sa il contraddittorio si è svolto anche e soprattutto nell’arena televisiva, ed è stata per me e per tutti coloro che hanno seguito la vicenda una dura prova. Il contraddittorio mediatico e quello giudiziario si sono infatti incrociati, andando anche a influenzarsi a vicenda; il dispendio di energie da parte mia fu molto grande, ma mi permise di spingermi verso una sperimentazione di tecniche che altrimenti forse non avrei mai utilizzato. Il risultato finale del processo è stato, nei limiti del possibile, apprezzabile, dato che la mamma di Samuele non ha subito una pena così pesante come si poteva prefigurare inizialmente».

Lei continua a difendere Annamaria Franzoni?

«No, io non difendo lei. Difendo la sua innocenza. Ci sono state incongruenze nella costruzione dell’accusa e a mio avviso errori dal punto di vista della presentazione delle prove; è stata una débâcle giudiziaria in un certo senso. Come dicevo, un processo di innovazione metodologica che, mi perdoni l’arroganza, non molti forse sarebbero stati in grado di affrontare».

Come vede questa intesa Lega – 5 Stelle al governo del paese? [l’intervista è stata fatta il 19 settembre 2018, n.d.r.]

«Faccio una premessa. Mi piace molto Salvini e sono perfino pronto ad offrire lui il nome che coniai anni fa come sintesi delle destre italiane. Il nome di Lega Italia, qualora il segretario voglia cambiare nome al partito, potrebbe essere il nominativo che fa al caso suo. Per quanto riguarda il governo quindi, le posso dire che ne sono soddisfatto, essendo espressione di ciò che il popolo ha voluto e indicato per il paese alle urne. Penso inoltre che questa compagine di governo possa andare verso il completamento della legislatura, fermo restando ovviamente che Salvini non si lasci ingolosire dai sondaggi e non scelga di far cadere il tutto per puntare alla premiership».

Un suo commento su questa vicenda di Salvini indagato [l’intervista è stata fatta il 19 settembre 2018, n.d.r.].

«Il procuratore Patronaggio è stato già contestato dal Tribunale di Palermo, il quale ha messo in dubbio e fatto vacillare alcune imputazioni di reato nei confronti del Ministro dell’Interno. Inoltre tutta questa situazione è caratterizzata a mio giudizio da una volontà di mettersi in mostra assolutamente inadeguata da parte dello stesso procuratore di Agrigento. Ancora penso a quella sceneggiata sulla Diciotti dove è voluto salire a bordo per verificare le condizioni dei migranti, situazione che per altro era già sotto il pieno controllo del Viminale: non ho capito a cosa servisse quella visita se non a mettersi in luce ed esibirsi sulla scena nazionale. Credo quindi che abbia formulato imputazioni sbagliate, oltre ad aver agito in modo approssimativo e incoerente».

Spostiamoci a sinistra. Il consenso come lei ben sa va e viene: per Renzi c’è possibilità che ritorni?

«Non credo proprio! E’ un uomo arrogante e pieno di sé e il corso degli eventi ha voluto che cadesse dallo scranno più alto del governo. Francamente non credo che nel suo caso gli italiani acconsentiranno a fornirgli una seconda possibilità.

Lei che ha avuto una carriera brillante, che immagino costellata di episodi significativi, ci vuole raccontare un episodio OFF che le ha permesso di svoltare e in qualche modo le ha cambiato la vita. Qualcosa che non ha mai raccontato a nessuno. Il mio episodio OFF è stato l’incontro con mia moglie: nessuno come lei ha saputo aiutarmi a dare una priorità agli obiettivi della mia vita, ad identificarli e a perseguirli con successo. Mai avrei mai pensato di diventare un grande avvocato. Non ho mai raccontato quanto lei sia stata importante in questo senso».

E un altro incontro significativo della sua vita qual è stato?

«L’altro incontro che mi ha stravolto la vita, consentendomi di fare esperienze umane e professionali straordinarie, è stato quello con Silvio Berlusconi. Una persona del quale ho sempre apprezzato la moralità, la generosità, il coraggio e la capacità di migliorare le persone che ha accanto. Il Presidente, dal nostro incontro, mi è stato vicino per anni, accompagnandomi in tanti momenti importanti della mia vita. Ora posso dirle questo: nonostante io ne sia lontano ormai da anni, ancora continuo a riconoscerne il grande fascino e le grandi capacità».

·         Il matrimonio di Eva Grimaldi.

Roma, Eva Grimaldi e Imma Battaglia si sono sposate. Pubblicato lunedì, 20 maggio 2019 da Corriere.it. Imma Battaglia e Eva Grimaldi si sono sposate. Domenica 19 maggio hanno detto sì nel resort dello chef Antonello Colonna, a Labico, poco fuori Roma. Erano state loro stesse ad annunciare le nozze (ma non la data) e l’intenzione poi di adottare un bambino. Dopo sette anni di relazione, per il giorno più importante della loro vita, l’attrice e l’attivista Lgbt si sono affidate all’organizzazione di Enzo Miccio, il wedding planner dei vip. Testimoni delle spose l’attore Gabriel Garko, ex compagno della Grimaldi, e Vladimir Luxuria. Eva Grimaldi, poche ore prima del fatidico sì, ha dedicato un romantico post alla sua futura sposa: «Probabilmente a quest’ora il mondo dorme ancora, ed io vorrei fargli sentire ciò che ho nel cuore. Imma, ti amo! Sei la persona che ho scelto, quella che, tra poche ore, sarà mia “Moglie”. E non mi importa se sarà dura, difficile, se dovremo combattere contro ignoranza e odio. Non mi importa perché, in fondo, come mi hai insegnato tu, l’Amore vincerà sempre su tutto. A tra poco, amore mio. #LePromesseSpose». Tanti i commenti di auguri, anche da parte di personaggi del mondo dello spettacolo: tra loro la cantante Syria, Paola Perego e Rita Dalla Chiesa.

Eva Grimaldi: “Che imbarazzo davanti al maestro Fellini...” Gustavo Marco Cipolla il 31/08/2019 su Il Giornale Off. Ha ancora il calco di alginato sul viso Eva Grimaldi quando viene raggiunta per raccontarsi. L’attrice dal 13 settembre sarà tra i concorrenti della prossima edizione di “Tale e quale show”, il programma di Rai 1 sulle imitazioni canore condotto da Carlo Conti. E sogna già di interpretare le grandi dive della musica italiana. Ma tra prove, costumi e paillettes, Eva non dimentica  l’amore per l’attivista Lgbtqi Imma Battaglia, suggellato da un’unione civile lo scorso maggio. Tanti gli aneddoti della sua carriera, come quella volta in cui il maestro Federico Fellini, con il quale ha lavorato, le mise le mani nel reggiseno imbottito tirando fuori un calzino.

Ci si sente come una pioniera che ha scalato una vetta che nessuno aveva mai raggiunto.

«In fin dei conti, io e Imma Battaglia siamo le prime due donne “personaggi pubblici” ad essersi unite civilmente. Un’esperienza che ancora oggi resta un atto politico che aiuta chi ha difficoltà a comprendere il sentimento tra persone dello stesso sesso. Non c’è nulla di sbagliato nell’Amore».

Imma è stata attaccata sui social per il look “maschile” sfoggiato all’unione dell’anno. L’ha difesa?

«Imma si difende da sola, sempre. Il suo stesso nome è un biglietto da visita che la racconta in tutta la sua essenza. Imma Battaglia nomen omen, ed io la amo (e la stimo) anche per questo. Enzo Miccio ne ha preso le difese e ha fatto bene, il suo abito era magnifico e ogni tanto le chiedo di indossarlo per me, ma non lo fa mai! Speriamo lo indossi più spesso perché è di un’irresistibile eleganza».

Ricorda un episodio OFF, buffo e divertente, degli inizi della sua carriera da attrice?

«Ne ho moltissimi e sono legata ad ogni ricordo per un motivo diverso. Però, devo dire che sorrido sempre tanto ricordando quella volta in cui ho bluffato di fronte al maestro Federico Fellini, che mi aveva accolta per “Intervista”, uno dei suoi ultimi film. Mi sono presentata all’appuntamento con il reggiseno imbottito di qualsiasi cosa e, mentre parlavamo, lui mi ha guardato negli occhi e con un dito ha tirato fuori un calzino dal mio petto. Un momento che non dimenticherò mai e su cui continuo a ridere di gusto senza dimenticare la grande opportunità che ho avuto».

Nel film “Mutande pazze” di Roberto D’Agostino seduce nel retrobottega di un bar un giovane Raoul Bova. Solo “Tu, io e le rose” o un pensierino hot sull’ex nuotatore le è scappato?

«Come non può scapparti un pensierino su uno come Raoul Bova. Se lo ha fatto Madonna, posso averlo fatto anche io. (sorride, ndr.)

“L’Isola dei famosi”: può un reality cambiare un artista e il suo approccio alla vita? Nel suo caso sembra sia stato un percorso formativo…

«Per me c’è un “prima” e un “dopo” Isola. Più che un percorso formativo è stato un vero e proprio spartiacque per il mio percorso di vita. Non avevo programmato nulla, ma prima della partenza avevo preventivamente parlato con la mia famiglia, rivelando il mio rapporto con Imma che durava ormai da anni. Se un reality può cambiare la vita di qualcuno? Direi di sì. L’Isola mi ha insegnato a vivere nel pieno delle nostre forze, invece di sopravvivere come un naufrago in balia delle onde».

Da quando ha scelto di vivere l’Amore con Imma Battaglia è diventata attivista e combattente per i diritti Lgbtqi anche lei o lo è sempre stata? Oggi è proud?

«Devo dire la verità, sono sempre stata circondata da vere e proprie gay family che negli anni si sono moltiplicate. Quando ho conosciuto Imma, nove anni fa, ho da subito partecipato alla sua vita di piazza, scendendo in strada ad ogni occasione. Se sono proud? Sì! Sono proud fino all’osso, orgogliosa di noi, dei colori che rappresentiamo, della bellezza e della forza che si ritrovano nelle differenze.

Con Gabriel Garko, suo ex ma anche testimone di nozze, è in ottimi rapporti. È possibile rimanere amici dopo una lunga relazione?

«È possibile se si è intelligenti e si riconosce il bene per una persona, oltre i propri rancori. L’affetto che sentiamo deve superare l’amore che proviamo per il nostro partner. L’amicizia è un valore superiore e non va mai tradito».

Lei è una persona molto diretta. Una sua collega attrice che proprio non sopporta e una che, invece, è stata un modello per la sua professione?

«Si, sono molto diretta, è per questo che se ho qualcosa da dire la dico sempre vis à vis, ma mai tramite i media. Credo sia una questione di rispetto, da mantenere anche durante il più aspro dei confronti. Di modelli ne ho avuti tanti, ma tengo sempre come faro mamma Elvira, una donna che ha vissuto ogni momento da protagonista sul palcoscenico della vita».

Prossimamente la vedremo in tivù tra i concorrenti di “Tale e quale show” su Rai 1. C’è un personaggio che le piacerebbe interpretare-imitare e cosa dobbiamo aspettarci da Eva in questo nuovo progetto televisivo?

«Sinceramente non so ancora bene cosa aspettarmi. Sono consapevole che dovrò studiare e lavorare moltissimo, perché lo sto facendo già da tempo. Anche solo superare il provino è stata una vera e propria impresa! Mi piacerebbe interpretare grandi dive della musica italiana, sperando che i giudici siano clementi, vista la mia formazione d’attrice e non da cantante. Ma ce la metterò tutta e i miei bassi sono un biglietto da visita che non tutti possono presentare. Staremo a vedere!»

·         Ana Bettz, la cantante imprenditrice.

Ana Bettz, la cantante imprenditrice fermata su una Rolls Royce con 300 mila euro contanti. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Annalisa Grandi su Corriere.it. Il suo nome d’arte è Ana Bettz. All’anagrafe Anna Bettozzi, 59 anni, imprenditrice e cantante sarda, vedova del petroliere Sergio Di Cesare, nonché cantante, è stata fermata dagli agenti della Guardia di Finanza a Ventimiglia a bordo di una Rolls Royce. Aveva con sé 300 mila euro in contanti. Le Fiamme Gialle a quanto si è appreso avevano seguito l’auto sin dalla partenza: oltre ai 300 mila euro trovati a bordo, ne sarebbero stati trovati un altro milione e 700 mila in un luogo che non è stato svelato. La donna, imprenditrice e cantante, è ora indagata per riciclaggio dalla Procura di Imperia che vuole fare luce sulla provenienza di quel denaro. L’operazione è coperta dal massimo riserbo. Anna Bettozzi, nata a Porto Rotondo, come vicino di casa in Sardegna aveva Silvio Berlusconi, e per la prima parte della sua carriera si era dedicata al settore immobiliare: all’epoca, come racconta «Il Secolo XIX» aveva i capelli neri e pubblicizzava «Le case firmate». Poi, la svolta: Anna si dà al mondo della musica e dello spettacolo, nome d’arte Ana Bettz, capelli biondi e balli scatenati nei suoi video. Per citarne uno, «Ecstasy», primo singolo del 1997, realizzato dal produttore dei videoclip di Madonna e Michael Jackson. Nel 2011 è stata anche presenza fissa a «Quelli che il calcio». Un nome noto, insomma. Vedova del petroliere Sergio Di Cesare, nel 1999 insieme al marito era stata sequestrata per una notte nella villa in cui i due vivevano, al Quarto Miglio, a Roma. I rapinatori avevano portato via soldi e oggetti preziosi per un valore totale di circa 100 milioni delle vecchie lire.

Musica dance, balli scatenati  e i milioni nascosti nella Rolls: le tre vite di Anna Bettozzi. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. È stata fermata su una Rolls Royce con autista, a Ventimiglia, a un passo dalla frontiera con la Francia. Fra la luxury car e i lunghi capelli biondissimi era impossibile non notarla, ma è probabile che gli agenti della Guardia di finanza la stessero già seguendo. Sono andati come a colpo sicuro, le hanno praticamente smontato l’auto, finché non hanno trovato a bordo trecentomila euro in contanti, seguiti da un milione 700 mila euro — cash anche quelli — poi sequestrati in un’abitazione di cui non hanno reso noti i dettagli. Anna Bettozzi, 59 anni portati come fossero trenta, vedova del petroliere Sergio Di Cesare, è stata denunciata a piede libero dalla Procura d’Imperia con l’accusa di riciclaggio. Sarda di origine, per anni, ha animato feste in stile «Grande Bellezza» nella sua villa romana sull’Appio-Pignatelli e in quella di Porto Rotondo, dove poteva fare capolino Silvio Berlusconi, innamorato dei cedri del giardino e della musica della padrona di casa. Per uno sfolgorante decennio, infatti, Anna Bettozzi si era trasformata in Ana Bettz, interpretando brani dance con tanto di balli sensuali e scatenati, e coreografie firmate anche da Luca Tommassini, l’italiano che ha ballato con Madonna. Era a Madonna che Anna s’ispirava. Nei panni (pochi) di pop star, spopolava sulle terrazze romane, sui Cafonal di Dagospia, era acclamata al Gay Village, e la si può ancora ammirare anche su YouTube. Il primo brano, Ecstasy, è del 1997, poi sono arrivati Black and White, Femme, Move On. La dance era il passatempo di una donna molto ricca, molto bella e che non voleva annoiarsi. E l’aveva portata, nel 2011, in tv a Quelli che il calcio..., con Simona Ventura che la definiva «un cult». In una prima vita, era stata un’immobiliarista celebre a Roma per pubblicizzare l’attività esibendo la sua faccia su maxi manifesti con la scritta «Le case firmate». Aveva ancora i capelli neri, indossava severi tailleur. Aveva sposato in seconde nozze Di Cesare, umbro di Monteleone di Spoleto, fondatore nel 1968 della Europetroli, membro storico di Assopetroli, architetto, cavaliere di Malta, e più volte ricevuto da Papa Wojtyla. Il primo approdo della coppia nella cronaca di genere non mondano risale al 1999: erano stati rapinati nella loro villa romana, sei ore nelle mani dei banditi, che avevano poi portato via contanti e gioielli per 100 milioni di lire. Poi, nel 2015 lui era finito ai domiciliari in via preventiva per un’inchiesta su contrabbando di gasolio ed evasione fiscale. Di Cesare è mancato nell’agosto scorso. Del piccolo impero petrolifero resta la Max Petroli, poi diventata Made Petrol, amministrata dalla figlia 25enne Virginia. Società destinataria, nel 2017, stando al sito staffettaonline.com di una di quelle lettere di avvertimento che l’Agenzia delle Entrate invia a chi sembra in affari con presunti evasori. L’inchiesta sulla vedova è coperta dal massimo riserbo. Bisogna capire da dove arrivano i soldi. Gli avvocati di Bettozzi, Cesare Placanica e Ilario D’Apolito, hanno ribadito «quanto già dichiarato nell’immediatezza in ordine alla assoluta liceità della somma sequestrata proveniente da un lascito del defunto marito, che è stato uno dei più importanti imprenditori italiani nel petrolifero». Lunedì si presenteranno dai pm di Imperia per chiarire. Dovranno spiegare, a questo punto, dove, come, quando e perché il defunto avrebbe conservato cash due milioni di euro.

Gianni Barbacetto per ''il Fatto Quotidiano'' il 18 maggio 2019. Lele Mora è preoccupato: come agente di spettacolo e come petroliere. Sì, anche come petroliere. Il motivo della sua preoccupazione? Un' operazione della Guardia di finanza di Imperia, che ieri ha fermato alla frontiera di Ventimiglia una Rolls Royce e ha sequestrato 2 milioni di euro in contanti. Sull' auto viaggiava Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, bionda, cantante, ballerina, amica di Lele Mora che un tempo l' aveva nella sua scuderia di artisti. Oggi Ana Bettz è più che altro donna d' affari e di petrolio. Perché ha sposato il petroliere Sergio Di Cesare, di cui è diventata vedova, erede e continuatrice d' imprese commerciali e finanziarie. Le Fiamme gialle sono andate a colpo sicuro: seguivano la sua Rolls Royce e quando l' hanno bloccata al confine tra Italia e Francia hanno trovato nella vettura, senza troppo cercare, 300 mila euro in contanti. Contemporaneamente hanno sequestrato un altro milione e 700 mila euro in un luogo che i magistrati della Procura di Imperia, che indagano per riciclaggio, hanno mantenuto segreto. Ora l' inchiesta dovrà svelare da dove vengono quei soldi, quali erano i meccanismi del riciclaggio e chi ne era coinvolto. Nata a Porto Rotondo, in Sardegna, 59 anni fa, Anna Bettozzi aveva i capelli nerissimi quando faceva pubblicità per un' agenzia che vendeva "case firmate" in Sardegna. Poi diventa bionda, si trasforma in Ana Bettz e nel 1997 incide in California il suo primo singolo, Ecstasy, con un video realizzato dal produttore dei videoclip di Madonna e Michael Jackson. Nel 1999, Anna e Sergio subiscono nella loro villa di Roma, al Quarto Miglio, un sequestro-lampo che dura una notte e si conclude all' alba con i rapinatori che se ne vanno portando via soldi e oggetti preziosi per circa 100 milioni di lire. Nel 2011 è ospite a Quelli che il calcio, dove lancia il suo ultimo brano, Move On, e il suo ultimo album, The One. Una carriera musicale non indimenticabile. Ma negli affari va anche peggio. Nel 2015 suo marito viene arrestato per contrabbando di prodotti petroliferi ed evasione delle accise. Nell' agosto 2018, Di Cesare muore e Anna assume la guida di fatto delle sue società. Due mesi dopo, partecipa alla fiera "Oil&Nonoil", a Verona, con un grande stand dell' azienda Max Petroli Italia. Due le presenze nello stand che non passano inosservate: una Ferrari "edizione limitata" e un Lele Mora in versione petroliere. Sì, perché la Max Petroli è controllata dalla figlia di Di Cesare, Virginia, 25 anni, ma a "curarne l' immagine" è l' ex agente delle star, già condannato per bancarotta e per bunga-bunga. Intervistato in quell'occasione, Lele Mora spiega perché si trova in quello stand: "È un modo come un altro per stare vicino a un' amica, Ana Bettz. Del resto, io di petrolio so tutto: da parecchi anni faccio affari con tante società importanti con la Somo", la società petrolifera dello Stato iracheno. "Affari commerciali. Lavoro con il Kurdistan, col crude oil. Ed ero anche molto amico di Chavez: la Pdvsa venezuelana era una società magnifica. So che la Max Petroli è chiacchierata, ma adesso Sergio è mancato e ha lasciato tutto alla moglie che sta pagando tutti i debiti". Ecco dunque l' uomo che è stato condannato per aver portato ad Arcore le ragazze del bunga-bunga risorto nei panni del petroliere di successo. Anche in queste vesti, Lele Mora ora ha da preoccuparsi per il blitz della Rolls Royce.

·         Gabriel Garko.

La gaffe hot delle Mara Venier: il lato B in faccia a Gabriel Garko. Gabriel Garko diventa protagonista di un siparietto hot a Domenica In, nel corso dell'intervista concessa a Mara Venier. Serena Granato, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. Nella nuova puntata di Domenica In non sono mancati i momenti esilaranti, come quello avvenuto nel corso dell'intervista che ha visto protagonista Gabriel Garko. "Pensavo volessi venirmi in braccio", esordisce Garko visibilmente sorpreso dinanzi a Mara Venier, che intanto gli dà le spalle per mettere a posto la sua poltrona al centro dello studio, prima di procedere con l'intervista. La Venier sposta la sua poltrona bianca, ma sembra non accorgersi che sta dando il lato B in faccia all'attore di fiction Mediaset di successo. "Mara, Mara!" esclama Garko, che poi si rivolge al pubblico in studio alludendo maliziosamente alla conduttrice: "Ma lei non si è accorta di cosa ha fatto?!". "Che ho fatto? ...Ti ho messo il sedere in faccia?!" domanda quindi la padrona di casa al bel Gabriel, dopo essersi finalmente seduta. "...Ma non fa nulla", prova a ironizzare Garko, che poi esplode in una risata contagiosa. "L'ho fatto?" domanda ancora la Venier. E alla fine arriva il verdetto del pubblico, al grido di: "Sì!". Il siparietto hot tra la "zia d'Italia" e l'attore de Il peccato e la vergogna in questione si è registrato nella nuova puntata di Domenica In, andata in onda lo scorso 6 ottobre, su Rai 1. E in occasione del nuovo appuntamento tv del format domenicale, Garko ha voluto rispondere agli incessanti gossip che lo vedrebbero felicemente sposato e/o protagonista di una relazione omosessuale con l'ex gieffino Gabriele Rossi. Nell'intervista concessa a Mara Venier, Gabriel si è, infatti, detto innamortato e geloso in amore, senza però rivelare l'identità della sua dolce metà: "Io non faccio del male a nessuno, il non dire le cose private della mia vita non nuoce a nessuno. Amo essere criticato sull’aspetto professionale, ma non voglio essere giudicato, ma su una scelta all’interno delle mura di casa mia".

Gabriel Garko: "Basta chiedere con chi vado a letto". In attesa dell'uscita della sua biografia, Gabriel Garko mette un punto e lo fa rilasciando un'intervista al settimanale "Chi", dove chiede, anzi sogna, che la gente non le chieda più della sua sessualità. Roberta Damiata, Giovedì 21/11/2019, su Il Giornale. “Sarà un’utopia, ma sogno un mondo dove non ci sia bisogno di raccontare quello che succede nella camera da letto. Dobbiamo superare le barriere, le etichette, i cliché e tutte queste maledette definizioni, lasciando a tutti la libertà di esprimersi come e quando vorranno. Non riesco più a tollerare chi punta il dito, chi giudica, chi vuole dare un nome a tutto e a tutti. E non voglio più sentire parlare di normalità“. Con queste parole, Gabriel Garko, idolo di migliaia di donne, protagonista di film di piece teatrali, ha voluto mettere un punto su una cosa che per tutta la vita lo ha perseguitato, ed ora per lui è diventata un peso insopportabile da portare avanti. Tra poco darà alle stampe un libro: “Andata e Ritorno”, una autobiografia dove senza troppi ricami si racconta, racconta la sua vita, le sue esperienze e il grande peso, appunto, di dover per forza raccontare la sua sessualità. "Per molto tempo ho dipinto la mia vita con colori che non ho mai gradito. -racconta - E la violenza più grande è stata quella di averlo fatto consapevolmente. Il mio era diventato un vero e proprio lavoro. Oggi non lo voglio più fare”. ha raccontato ad Alessio Poeta il giornalista che ha raccolto le sue parole. Il suo libro è stata quasi per lui una lunga seduta psicologica, in cui lui ha messo un punto per ricominciare la sua vita in maniera diversa. “Vivere la propria identità di genere con naturalezza, senza sentire pressioni sociali rispetto a un’eventuale dichiarazione di orientamento sessuale, è una svolta rispetto al passato“ dice in proposito la psicologa Ilaria Squaiello, che analizzando le sue parole ne ha tratto il succo più profondo. Tra i tanti racconti, anche qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato, una quasi violenza quando aveva solo 17 anni da parte di un uomo sposato: "Un uomo normale, agli occhi della società. Eppure, come vede, anche nelle famiglie più canoniche può succedere di tutto. In passato non l’avrei mai dichiarato perché avrebbe significato voler far parlare a tutti i costi di me e io, mi creda, non ho mai cavalcato le notizie per farmi pubblicità” ha raccontato al giornalista. Una scelta quella di parlare non per raccontare, quanto per chiedere agli altri di stare zitti, in fondo la camera da letto è una zona intima e privata e tale deve rimanere, quello che importa sono le persone e Garko sta dimostrando di essere davvero una grande persona.

Gabriel Garko: "Avevo 17 anni quando un uomo sposato cercò di abusare di me". Gabriel Garko si racconta al settimanale Chi in una lunga intervista, nella quale rivela di quella volta che a 17 anni, un uomo sposato e con figli tentò di abusare di lui. Francesca Galici, Mercoledì 20/11/2019, su Il Giornale. Da qualche tempo, Gabriel Garko è tornato a imperversare in tv. Sono diverse le interviste che il bellissimo attore dagli occhi di ghiaccio sta rilasciando nei salotti più importanti della televisione italiana. Non mancano nemmeno le interviste ai principali rotocalchi di gossip, come quella rilasciata al settimanale Chi, dove racconta alcuni spaccati inimmaginabili della sua vita. È in uscita con il suo primo libro “Andata e ritorno”, un vero viaggio di scoperta nella sua vita, raccontata senza filtri. Durante la chiacchierata con il giornalista di Chi, l'attore spiega di aver sentito il bisogno di scrivere questo volume, che non è altro che un'autobiografia che spalanca le porte della sua vita, soprattutto negli aspetti più intimi e privati. È proprio tra le pagine di questo volume, che Garko svela un episodio oscuro della sua esistenza, accaduto quando non era che un adolescente. Nel libro racconta di quando un uomo sposato e con figli tentò di abusare di lui. Gabriel Garko aveva 17 anni e questa persona era molto più grande di lui. “Da quella sera iniziai a fumare. Provai schifo, ma non ne parlai con nessuno, tanto meno con i miei”, rivela adesso l'uomo, che ha inserito questo episodio nel suo libro in una sorta di flusso di coscienza involontario. Per tanti anni, infatti, Garko ha come rimosso quest'accaduto, che è tornato prepotentemente a galla mentre si apriva ad altri ricordi. “Marco era un uomo "normale" agli occhi della società. Eppure, come vede, anche nelle famiglie più canoniche può succedere di tutto”, dice Gabriel al giornalista. Non è l'unico episodio che l'attore racconta nel suo libro dove, tra le altre cose, trovano spazio anche la morte del suo cane Bacco e l'incidente che lo vide, suo malgrado protagonista a Sanremo. Era il 2016 e l'attore era co-conduttore con Carlo Conti e alloggiava in una villetta della città ligure, quando a causa di una fuga di gas ci fu un'esplosione. Gabriel Garko riportò solo alcune ferite, per fortuna non lievi, ma in quell'incendio morì la donna che occupava il piano inferiore. “Ci sono capitoli che, oggi, non riesco nemmeno a leggere”, dice l'attore riferendosi a quelli dedicati a questi due accadimenti che non è ancora riuscito a metabolizzare nonostante l'analisi. Gabriel Garko ha voluto scrivere questo libro per trasmettere il senso di senso di libertà che, con fatica, è riuscito a raggiungere: “Per molto tempo ho dipinto la mia vita con colori che non ho mai gradito – spiega Garko – La violenza più grande è stata quella di averlo fatto consapevolmente. Oggi non lo voglio più fare.”

Da gay.it  il 20 novembre 2019. A breve in libreria con la sua autobiografia, Andata e Ritorno, Gabriel Garko troneggia sulla copertina dell’ultimo numero di Chi. All’interno della rivista una ricca intervista firmata Alessio Poeta in cui il divo delle fiction torna a parlare della propria vita privata, lasciando intendere non poco. Tra le righe, infatti, è lampante il bisogno di Garko di scaricare un peso, evidentemente troppo a lungo sopportato. Per molto tempo ho dipinto la mia vita con colori che non ho mai gradito. E la violenza più grande è stata quella di averlo fatto consapevolmente. Il mio era diventato un vero e proprio lavoro. Oggo non lo voglio più fare. Parole forti, che proseguono nel corso dell’intervista. “Sarà un’utopia, ma sogno un mondo dove non ci sia bisogno di raccontare quello che succede nella camera da letto. Dobbiamo superare le barriere, le etichette, i cliché e tutte queste maledette definizioni, lasciando a tutti la libertà di esprimersi come e quando vorranno. Non riesco più a tollerare chi punta il dito, chi giudica, chi vuole dare un nome a tutto e a tutti. E non voglio più sentire parlare di normalità“. Se non è un coming out, poco ci manca, per un attore che nel 2001, come dimenticarlo, interpretò un omosessuale malato di AIDS ne Le Fate Ignoranti. Accettai, oltre che per il piacere di lavorare con Ferzan, anche per una forma di lotta contro i pregiudizi dettati dal bigottismo. Era il 2001 e a volte ho come l’impressione che non sia cambiato nulla. A sorpresa, poi, una rivelazione. A 17 anni Garko venne quasi abusato da un uomo sposato. Era un uomo normale, agli occhi della società. Eppure, come vede, anche nelle famiglie più canoniche può succedere di tutto. In passato non l’avrei mai dichiarato perché avrebbe significato voler far parlare a tutti i costi di me e io, mi creda, non ho mai cavalcato le notizie per farmi pubblicità. Tra le pagine del settimanale Chi anche due box. Uno della psicologa Ilaria Squaiella, che sottolinea come all’interno dell’autobiografia Garko si sia tolto ‘la maschera’ (“vivere la propria identità di genere con naturalezza, senza sentire pressioni sociali rispetto a un’eventuale dichiarazione di orientamento sessuale, è una svolta rispetto al passato“). Il secondo è firmato Alfonso Signorini, direttore della rivista, che applaudendo Gabriel e torna a demonizzare il coming out pubblico (“provincialismo che non ci fa onore“, lo definisce), con la solita insostenibile frase "avete mai visto un etero conquistare copertine o interviste perché ammette di essere etero?". Quel che è certo, è che a 47 anni Gabriel parrebbe aver trovato la tanto agognata ‘serenità’ privata e sentimentale.

Da spetteguless.it  il 20 novembre 2019. Nel difendere quanto detto da Gabriel Garko nel corso dell’ultima intervista sul settimanale Chi, da oggi in edicola (“Per molto tempo ho dipinto la mia vita con colori che non ho mai gradito. E la violenza più grande è stata quella di averlo fatto consapevolmente. Il mio era diventato un vero e proprio lavoro. Oggo non lo voglio più fare. Sarà un’utopia, ma sogno un mondo dove non ci sia bisogno di raccontare quello che succede nella camera da letto. Dobbiamo superare le barriere, le etichette, i cliché e tutte queste maledette definizioni, lasciando a tutti la libertà di esprimersi come e quando vorranno. Non riesco più a tollerare chi punta il dito, chi giudica, chi vuole dare un nome a tutto e a tutti. E non voglio più sentire parlare di normalità“), Alfonso Signorini è così tornato a sbandierare una di quelle frasi che al sottoscritto fanno venire i peli ritti. Perché nel 2020 dobbiamo ancora star qui a spiegare l’importanza di un coming out, pubblico o privato che sia, e soprattutto l’evidente  differenza con chi è etero, e in quanto tale ‘normale’ agli occhi di quella società fondata sul monolite dell’eterosessualità. E’ straordinario, poi, come uomini di spettacolo dalle età più differenti (Mengoni, Mahmood, ora Signorini) continuino a dipingere un’Italia più aperta, cambiata a tal punto da non dover rivendicare il proprio orientamento sessuale. Quella presunta, condivisa e tanto chiacchierata ‘fluidità’ che a conti fatti, visto il bollettino omofobo ormai quasi quotidiano a cui ci siamo tristemente abituati, parrebbe proprio non esistere. Tranne che agli occhi di costoro.

Gabriel Garko denuncia: "Si spacciano per me sui social chiedendo soldi". L’attore ha denunciato pubblicamente sui social alcuni profili falsi che, spacciandosi per lui, hanno cercato di truffare suoi fan con richieste di denaro. Novella Toloni, Giovedì 10/10/2019, su Il Giornale. "Qualcuno si spaccia per me sui social chiedendo soldi in prestito", è la denuncia fatta pubblicamente, sul suo profilo Instagram, dall'attore Gabriel Garko. L'attore ha ricevuto negli ultimi giorni una serie di segnalazioni da parte di utenti, che lo mettevano in guardia da alcuni profili fake che operavano a suo nome chiedendo addirittura denaro. A spiegarlo è stato lui stesso attraverso una nota ufficiale pubblicata nelle scorse ore sul suo account Instagram: "Buongiorno a tutti, sono stato informato da diverse persone che c'è qualcuno che si spaccia per me, addirittura chiedendo soldi in prestito. Vorrei informarvi che, oltre a questo profilo che gestisco personalmente, io non ne uso altri.... chiunque decidesse di rispondere ad altri profili con il mio nome, oltre che a questo, è libero di farlo sapendo che dietro non ci sono io. Uno di questi che farò bloccare è GabrielGarko_official.1, quel .1 è di troppo". L'attore, che recentemente ha smentito di essersi sposato in gran segreto, ha fatto appello all'intelligenza dei suoi follower, spiegando di essere passato alle vie di fatto. Gabriel Garko ha segnalato il profilo fake alle autorità competenti chiedendo il blocco dell'account falso. Attraverso questo profilo, ignoti avrebbero infatti chiesto soldi ai follower che,credendo di parlare con il vero Gabriel Garko, potrebbero essere caduti nella trappola dei truffatori. L'attore si è così pubblicamente dissociato da ogni altro profilo con il suo nome, sottolineando l'unicità del suo account che, ha ammesso, gestisce in prima persona. Gabriel Garko non il primo personaggio famoso il cui nome viene sfruttato per aprire account falsi. La pratica è comune ma anche illegale. Se il falso profilo viene creato allo scopo di appropriarsi dell’identità altrui e ingannare e truffare terzi si tratta infatti di reato e può comportare anche l'arresto e la detenzione.

Gabriel Garko: “Quella scena di nudo con Tinto Brass..” Tommaso Martinelli il 24/08/2019 su Il Giornale Off. Da anni è considerato uno dei sex-symbol più desiderati dello spettacolo italiano. Per Gabriel Garko, però, la bellezza è stata tutt’altro che un vantaggio per la sua carriera. Premiato alle Giornate del Cinema Lucano 2019, l’attore di origini torinesi si racconta a OFF.

Gabriel, quando hai capito di voler fare l’attore?

«Da sempre, sin da bambino, anche se, essendo molto timido, non riuscivo mai a trovare il coraggio per partecipare neanche alle recite scolastiche. Nonostante questo, però, sono sempre stato un appassionato di cinema, che per me rappresentava evasione allo stato puro. Seguivo gli attori sul grande schermo, sognando di poter entrare anche io, prima o poi, nel mondo della recitazione. Per questo, non appena mi si è presentata l’opportunità di diventare un attore, ho deciso di lavorare sodo su me stesso e di studiare il più possibile per poter migliorare e crescere».

Ultimamente ti si vede meno, sia sul piccolo che sul grande schermo...

«Ho voluto prendermi una pausa, perché sentivo l’esigenza di un cambiamento. In questo periodo sono in ballo per alcuni progetti, di cui è ancora prematuro parlare, ma spero possano mostrare al pubblico il frutto di questa mia evoluzione».

Da anni vieni considerato uno degli attori più belli. E’ stato un vantaggio per il tuo lavoro d’attore?

«Non sempre, anzi, visto che in talune occasioni ha rappresentato un vero e proprio limite. Certo, all’inizio mi ha aiutato molto. Ma oggi non posso non considerare anche tutte quelle volte che magari non ho ottenuto una parte perché considerato “troppo bello”. Oggi vivo la bellezza con naturalezza, normalità. Mi sento un uomo più maturo, sicuramente più attento al suo percorso interiore che a tutto il resto…»

T’imbruttiresti per esigenze di copione?

«Sì, senza ombra di dubbio. D’altra parte, in passato, mi è già capitato. Quando ho preso parte al film Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek, per poter interpretare un uomo malato in fin di vita, ho dovuto perdere 15 kg. E per farlo, in tempi brevi, non ho praticamente toccato cibo per tre settimane. E’ stata dura ma ne è valsa la pena, di conseguenza sarei pronto a ripetere tutto anche domani».

Tanti complimenti ma anche qualche critica, specialmente per alcune tue scelte professionali…

«Ho smesso di temere il giudizio degli altri, quando si tratta di critiche gratuite. In passato, infatti, mi è capitato di ricevere critiche per film o fiction che magari il giornalista di turno non aveva neanche visto».

Cosa pensi delle unioni civili?

«Sono a favore, assolutamente. Perché sono fermamente convinto che ognuno debba essere libero di amare chi gli pare».

Ci racconti un episodio OFF della tua carriera?

«E’ legata a “Senso 45”, un film diretto da Tinto Brass, in cui c’erano diverse scene di nudo integrale. In particolare, ne ricordo una in cui correvo a rallentatore dove le parti intime erano ben in vista. Eppure, provai più imbarazzo alla prima del film che sul set. Non a caso, subito dopo la prima proiezione, aspettai che tutti lasciassero la sala per alzarmi per ultimo e andarmene».

·         L’amore saffico delle Spice Girls.

Mel B: "Che imbarazzo spiegare il sesso a mia figlia". La Spice Girls, avvilita da come sia facile per i minori accedere a materiale pornografico facendosi un'idea irrealistica sul sesso, ha deciso di essere chiara sul tema parlando esplicitamente con la figlia maggiore. Sandra Rondini, Mercoledì 06/11/2019, su Il Giornale. “Non voglio che le mie figlie pensino di doversi comportare nella vita come se fossero sul set di un film porno dove tutto è finzione ed estremo. Voglio che siano felici nella loro intimità. Per questo ho deciso di essere esplicita con loro sull'argomento, ma in vita mia non ricordo momento più imbarazzante di quando ho dovuto affrontare il discorso ‘sesso’ con la mia figlia più grande, cercando le parole giuste per farle capire come stanno davvero le cose”. Parole di Melanie Brown, nota al mondo come Mel B, che in una intervista al Daily Mail ha ammesso di ricordare ancora con una certa ansia il momento in cui, due anni fa, prese da parte la figlia Phoenix, allora 16enne, per parlare con lei apertamente di sesso sicuro e contraccettivi. “Phoenix è rimasta spiazzata. Mi ha guardata ammutolita e la sua reazione mi ha paralizzata. Dopo l'esordio in quarta ho un po' frenato perchè mi sono resa conto che forse a nessuna delle sue amiche i genitori avevano mai fatto un discorso tanto esplicito quanto il mio. Però, anche se è stato imbarazzante, sono stata contenta di averlo fatto e lo consiglio a tutte le mamme". E ancora: "Personalmente sento di averle detto tutto quello che serviva per metterla in guardia dalle intenzioni e manipolazioni che i ragazzi della sua età talvolta mettono in atto pur di riuscire a strappare un ‘sì’ a una ragazza”, ha raccontato la cantante che si è detta molto “infastidita da come sia facile per i giovanissimi di oggi riuscire ad accedere a materiale pornografico che è ormai ovunque grazie al web e ai social" perchè "toglie tutta la magia della prima volta, creando aspettative altissime in ragazzini che credono di dover emulare le prestazioni di pornodivi, chiaramente finte" e si fanno "un’idea malsana e irreale sul sesso”. Per questo Mel B due anni fa ha deciso di essere molto chiara con la figlia: “Abbiamo parlato di tutto, dai metodi contraccettivi a come usare bene un preservativo per evitare gravidanze e malattie sessualmente trasmissibili. Diciamo che l’ho un po’ terrorizzata, ma quel tanto che è bastato, spero, per aprirle gli occhi sull'argomento”, ha ricordato la popstar che ha avuto Phoenix dal primo marito Jimmy Gulzar. Mel B ha altre due bambine, Angel, 12 anni, avuta dalla relazione con l’attore Eddie Murphy, e Madison, 8 anni, nata dal matrimonio con Stephen Belafonte da cui ha divorziato 2 anni fa.

GERI HALLIWELL E MEL B. Da Tgcom24 il 10 aprile 2019. A poche settimane dalla partenza del tour delle Spice Girls, Mel B è un fiume in piena. Dopo aver rivelato il flirt saffico con la compagna di band Geri (negato dalla diretta interessata), ora in un nuovo estratto della sua autobiografia (pubblicata nel 2002) racconta le notti folli passate insieme. "Guidavamo con le tette di fuori in autostrada, per ridere, nelle prime ore del mattino" rivela in "Catch A Fire: The Autobiography". Da quanto racconta Mel, lei e Geri si comportavano come una coppia a tutti gli effetti. "A volte io e Geri stavamo a letto il sabato pomeriggio, ci svegliavamo intorno alle due del mattino e passavamo la notte al Ministry Of Sound ( un nightclub di Londra). Di solito guidavamo in autostrada con le tette di fuori, per ridere. E' stato divertentissimo finché non abbiamo notato un tizio che si è affiancato a noi con un ghigno maniaco sulla faccia", scrive nell'autobiografia. L'episodio non pose però fine alle loro scorribande in topless: "Ci spaventammo molto, fu davvero inquietante. Per quanto ne sapevamo poteva essere un maniaco armato di ascia. Geri cambiò corsia e riuscimmo a seminarlo, ma non smettemmo comunque di guidare con le tette di fuori".

"Soffro di un deficit di attenzione". La rivelazione di Mel B che scuote le Spice Girls. Oltre ai problemi alla vista Mel B ammette di soffrire di un deficit di attenzione e di altri disturbi comportamentali, lo rivela a un podcast britannico. Carlo Lanna, Venerdì 26/07/2019 su Il Giornale. È un oceano di problemi la vita di Mel B, una delle componenti delle Spice Girls. L’artista oltre ad avere gravi danni alla vista, in una recente intervista ha affermato di soffrire anche di un deficit di attenzione e di iperattività. La rivelazione che scuote ancora una volta la vita della gilr band, arriva proprio da Mel B durante una recente intervista rilasciata a "Positivity Podcast" di Paul Meckenna, riportata poi da Foxlife. A 44 anni Mel B deve quindi fronteggiare altri problemi di salute, ma ammette che ha tutto sotto controllo. "Non solo ho un deficit di attenzione, combatto anche con la disprassia. L’esercizio fisico mi aiuta a meditare e liberare l’ansia – afferma la cantante -. Mi aiuta a stare concentrata e riesco a farlo per più di un’ora al giorno. Soffro di ansia ma cerco di stare tranquilla e di non lasciarmi prendere dal panico". La disprassia è un disturbo che riguarda il movimento e la coordinazione, che può avere ripercussioni anche le linguaggio. Nell’intervista Mel B afferma che la vita di campagna è stata un’ottima cura. "A volte mi siedo sul portico e guardo le pecore per sei ore. Mi nutro con il ritmo della natura – spiega -. So che a volte intimidisco le persone perché sono rumorosa e troppo sfacciata ma sono anche umile e grata per tutto quello che ho e che sono. Sto cercando di vivere nel migliore dei modi". Le recenti dichiarazioni vanno a confermare alcuni rumor che sono trapelati in rete in cui hanno visto Mel B comprare casa in Regno Unito dopo che per 15 anni è vissuta in America, a Los Angeles.

Geri tradisce ancora le Spice Girls? Fan furiosi contro di lei. Dopo le scuse di Wembley, nella serata finale del Reunion Tour, quando si era detta dispiaciuta per aver lasciato le Spice Girls ed essere stata la causa dello scioglimento del gruppo, secondo il "Sun" Geri avrebbe cambiato idea e starebbe per abbandonare ancora, e questa volta per sempre, la band. Sandra Rondini, Mercoledì 03/07/2019, su Il Giornale. Nessun nuovo tour per le Spice Girls e ancora una volta per colpa di Geri Halliwell che già nel 1998 lasciò la band, decretandone la fine. Il gruppo si sciolse e lei tentò la carriera da solista prima di ritirarsi dalle scene per sposarsi con il team manager di Formula 1 Christian Horner e trasformarsi da bomba sexy in sofisticata lady inglese. A Wembley, poche settimane fa, in occasione dell’ultimo concerto del “Reunion Tour” Geri si era scusata per avere lasciato la band. A testa china e con voce commossa aveva preso il microfono, a sorpresa, per togliersi dal cuore un grande peso. “Mi dispiace davvero tanto di essermene andata! Ero solo una ragazzina viziata. È bello essere di nuovo con le ragazze che amo!” aveva detto, facendo esplodere in un boato di gioia i migliaia di fan accorsi a rivedere sul palco le loro eroine. Geri era tornata e, nonostante l’assenza di Posh Spice, la leggenda poteva ricominciare. Mel B aveva così annunciato a “Good Morning Britain” un nuovo tour, questa volta in Australia, per il prossimo febbraio, precisando che molto probabilmente anche questa volta Victoria Beckham avrebbe dato forfait, senza prevedere però un’altra assenza eccellente, quella di Geri, che sembra essersi rimangiata le scuse di Wembley. Secondo il tabloid inglese “The Sun” Ginger Spice ancora una volta starebbe per far deragliare tutti i piani delle Spice Girls, in particolare quelli di un ipotetico e grandioso tour mondiale perché Geri Horner è pronta a lasciare di nuovo. Dopo la tournée di 13 date nel Regno Unito del mese scorso, la popstar 46enne sarebbe riluttante all’idea di andare in tour per il mondo. Una fonte vicina al gruppo ha dichiarato: "Tutte le altre ragazze vogliono portare il loro “Spice World Show” a livello internazionale. Si sono divertite moltissimo e sanno che c'è una grande richiesta da parte dei loro fan al di fuori del Regno Unito. Anche Geri ha adorato il tour, ma è stato molto difficile per lei, tanto che guarda alle tre serate finali sold out al Wembley Stadium di Londra come al finale perfetto della sua carriera. Il punto è che Geri non vuole stare lontana a lungo dai suoi figli, per lei non ne vale la pena, ha altre priorità”. E nemmeno la prospettiva di guadagni da capogiro sembra poterle far cambiare idea. Si ritiene, infatti, che Emma Bunton, 43, Mel C, 45, Mel B, 44 e Geri abbiano guadagnato 10 milioni di sterline ciascuna dalla loro reunion di sole 13 date nel Regno Unito. Se facessero più date e questa volta all’estero dove hanno milioni di fan, i loro guadagni potrebbero essere stratosferici. I rumor del “Sun” hanno già messo in subbuglio i social dei fan che nei loro post mescolano la rabbia contro Geri alla tristezza di veder nuovamente conclusa la parabola artistica delle Spice. Fino a ieri tutti sognavano un favoloso tour mondiale e un nuovo disco e adesso tutto sembra andare in frantumi.

Victoria Beckham risponde a Mel B: "Spice Girls? No grazie! Scelgo la famiglia e la moda". Tutto finito tra Victoria Beckham e le Spice Girls. La stilista intende dedicarsi solo alla sua famiglia e alla sua carriera nella moda. Sandra Rondini Sabato 06/07/2019 su Il Giornale. "Dire di no richiede coraggio e a me ne è servito molto per decidere di non andare in tour con le Spice Girls e passare per l’unica che diceva: 'Sapete, non mi va proprio di farlo perché le cose non sono più come un tempo' ”. Parola di Victoria Beckham che attraverso “Vogue Germany”, in cui posa nuda in copertina, strategicamente coperta da una giacca, ha voluto rispondere alle polemiche innescate da Mel B durante una puntata di “Good Morning Britain”. In quella occasione, intercettando il malumore dei fan che si aspettavano che Victoria facesse, come promesso, una apparizione almeno a Londra, con marito e figli, per seguire il concerto finale di Wembley, Mel B aveva detto di non conoscere i motivi per cui la Beckham sembrava quasi voler prendere le distanze dalla band di cui un tempo faceva parte. “Mi dispiace che non abbia mai trovato il tempo di fare un salto almeno per salutarci durante il tour. Sarebbe stato bello vederla almeno l’ultima sera a Londra, non dico sul palco, ma almeno tra il pubblico. Non so perché si comporti così, ma ormai siamo tutte adulte e non ci resta che rispettare la sua scelta", aveva dichiarato una Melanie Brown visibilmente costernata davanti alle telecamere del talk show inglese. A quasi un mese di distanza, Victoria Beckham ha deciso di affidare al più patinato dei magazine di moda, Vogue, la sua risposta a Mel B e lo ha fatto attraverso un’intervista esclusiva e uno shooting mozzafiato in cui posa in splendida forma, abbronzata e senza trucco, dall’alto dei suoi 45 anni, di cui 20 passati al fianco del marito David con cui ha appena festeggiato a Versailles l’anniversario di nozze. “Preferisco concentrarmi sulla mia famiglia e sulla mia azienda di moda”, ha spiegato l'ex popstar che dal 2005 è una delle stiliste di punta della fashion week newyorchese. Tutto finito quindi con le Spice Girls. Capitolo chiuso. Victoria non intende più proporsi nelle vesti di cantante e guarda al suo futuro esclusivamente come moglie, madre e imprenditrice. Adesso tocca ai fan della band del “girl power” farsene una ragione, anche se al momento hanno ben altro a cui pensare dopo l'annuncio shock di Geri Halliwell di voler abbandonare, di nuovo, la band, nemmeno un mese dopo essersi scusata in lacrime a Wembley per aver lasciato le Spice nel 1998, decretandone la fine artistica.

Victoria Beckham in tv: "Dopo 20 anni con David la nostra intesa sessuale non si è mai spenta". Intervistata in occasione dei 20 anni di matrimonio col marito David Beckham, la stilista si è detta fortunata ad aver incontrato la sua anima gemella che è anche un marito meraviglioso e il migliore dei padri e ha rivelato che sotto le lenzuola fanno ancora scintille. Sandra Rondini, Sabato 19/10/2019, su Il Giornale. Come riporta il Daily Mail, ospite dello show televisivo The View, Victoria Beckham ha detto di sentirsi molto fortunata ad aver trovato la sua anima gemella. Sposata con David Beckham da 20 anni, di lui ha detto che “ è un marito meraviglioso” e ha persino scherzato sulla loro vita sessuale. La conduttrice dello show, Joy Behar, dopo averle ricordato che David è stato più volte eletto come l'uomo più sexy del mondo, scherzando le ha chiesto: “Qual è la cosa che più ti attrae in lui?”. Victoria per nulla imbarazzata ha risposto: “Sai, è ovvio che David sia incredibilmente bello ma soprattutto è il più meraviglioso dei mariti e un padre fantastico. Una vera ispirazione per tutti noi, lavora sempre sodo, dà se stesso in tutto ciò che fa e io sono fortunata ad averlo come anima gemella”. Chiedendo poi a Victoria quali siano le basi su cui poggia una relazione solida come la loro, dato che, secondo lei “devi essere amico di qualcuno dopo molti anni insieme, perché il sesso, eh …", Victoria ha ribattuto: "Cara mia, di questo non ti devi proprio preoccupare!”, strappando l’applauso del pubblico. Non è la prima volta che Victoria si ritrova a parlare del suo matrimonio, accennando anche a questioni molto intime. Già nel 2010 confidò ad Hello! che “per mantenere viva la nostra relazione, con David ci diamo appuntamento come due neo innamorati ogni mercoledì sera e poi ci piace guardare insieme la televisione. Adoriamo “Keeping Up With The Kardashians”. Siamo anime gemelle”.

Victoria Beckham racconta: «A scuola ero vittima di bullismo». Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 su Corriere.it da Simona Marchetti. L’ex Spice Girls ha confessato le sue difficoltà in un’intervista e ha detto che insegna alla figlia Harper a essere gentile con le altre ragazze . A 45 anni Victoria Beckham ha finalmente acquisito quella sicurezza nel proprio corpo che le era invece mancata ai tempi della scuola elementare, quando veniva sistematicamente bullizzata, anche a causa del suo aspetto fisico. «A quei tempi ero una bambina di otto anni magra e con le trecce, la faccia giallastra e uno spazio fra i denti in cui ci passava un pisello - racconta l'ex Spice Girls, ora stilista, in un'intervista a Glamour UK sul numero-collezione Autunno/Inverno - . Era davvero orribile e non mi sono mai ambientata». Da quell’esperienza così negativa la Beckham ne è comunque uscita rafforzata («ora ho la pelle più spessa», ammette) e questo le ha permesso di condividere quanto vissuto con la figlia minore Harper, che guarda caso adesso ha proprio la stessa età che aveva lei allora. «A scuola sono stata vittima di bullismo sia mentale che fisico - continua la Posh - e posso quindi usare queste mie esperienze per parlarne con Harper e per spiegarle che le ragazze dovrebbero essere sempre gentili con le altre ragazze». In un'altra parte dell'intervista la Beckham ha poi affrontato la questione relativa alle sue abitudini alimentari, per le quali in passato è stata spesso criticata, vista la magrezza eccessiva. «Quando hai dei figli, devi mettere molte cose in prospettiva - spiega infatti la moglie dell'ex campione del Manchester United - perché ti rendi conto che loro notano tutto. Di conseguenza, non mi siederei mai a tavola con i miei figli senza mangiare o saltando il pasto, perché hanno bisogno di vedere che la loro mamma si alimenta in modo sano».

·         I Porconi del Gangnam.

I PORCONI DEL GANGNAM. Paolo Salom per il “Corriere della sera” il 26 giugno 2019. Oppa Gangnam style! Ricordate il tormentone ritmato dai curiosi saltelli di Psy, il più noto tra i divi del K-Pop, la musica che dalla Corea del Sud ha tracimato conquistando milioni di giovani nel mondo? Ora, Gangnam è il quartiere più elegante di Seul, dove vivono i belli, ricchi e famosi: un po' la Beverly Hills d' Asia, insomma. E la canzone di Psy (tre miliardi di visualizzazioni su YouTube) ha contribuito a farlo conoscere nel mondo come luogo trendy ed esclusivo, dove i giovani possono incontrare i loro divi preferiti nei locali e nei night club che non chiudono mai: luci, musica, grattacieli e soldi tanti soldi. Forse troppi: nelle ultime settimane la polizia, racconta la Bbc in un lungo servizio, ha portato alla luce una realtà che fa a pugni con l' immagine dorata dell' alcova dei Vip sudcoreani: stupri, droga, traffici di minorenni costrette a prostituirsi. Uno scandalo senza precedenti che ha fatto tremare la Seul che conta. A partire da Seungri, al secolo Lee Seung-hyun, componente della boy band Bigbang, tra i più celebri del K-Pop: accusato di aver fornito prostitute ai suoi contatti, ha deciso di lasciare il mondo dello spettacolo: «Sono innocente e voglio difendermi». Un altro a cadere è Yang Hyun-suk, il capo della produzione della major YG Entertainment, l' uomo dietro al successo di Gangnam Style. Accusato di traffico di droga, si è dimesso «per meglio contrastare queste falsità». Altro che Harvey Weinstein: gli investigatori hanno interrogato almeno 4 mila persone e l' inchiesta sembra, al momento, aver grattato soltanto la superficie di un malcostume con ramificazioni nella criminalità organizzata. Secondo l' inchiesta della Bbc , tutto è partito da un sentimento di impunità che permetteva a molte stelle del K-Pop di comportarsi senza freni inibitori, tanto da scambiarsi online i video delle loro (porno) bravate e vantarsi nelle chat di voler violentare questa o quella ragazza. Uno dopo l' altro si sono trovati a dover evitare i flash dei fotografi e le domande dei cronisti mentre venivano convocati dalla polizia per rispondere dei reati di cui erano via via imputati, dal consumo di droga allo stupro. Abituati ad attraversare folle di fan adoranti, molti di loro hanno mostrato imbarazzo al punto di riuscire soltanto a balbettare scuse ridicole. Ma l' operazione a Gangnam ha anche rivelato un mondo oscuro e pericoloso che si celava (e forse si cela ancora) dietro ai neon che rendono ogni notte simile al giorno. Uomini ricchi e potenti che non esitavano a «ordinare» ragazze (anche minorenni) per i loro miseri giochi erotici. Spesso con l' aiuto di droga e anestetici: c' era chi voleva al proprio tavolo una ragazza in stato di semi incoscienza, una «zombie», com' era definita in gergo, perché così funzionava il divertimento. A questo punto, il ritornello di Psy sembra davvero un' aberrazione.

·         Corinne Clery.

Corinne Clery: “Quel provino dentro lo sgabuzzino…”. Edoardo Sylos Labini il 19/07/2019 su Il Giornale Off. La stupenda Corinne Clery ospite da Pierluigi Diaco a “Io e te”, si sbottona e anche parecchio sulla sua vita privata. Tra gli aneddoti confessati al giornalista, quello riguardante la corte spietata di Warren Beaty: «Voleva uscire con me. Mi dava il tormento. Io ero in albergo a Los Angeles, lui viveva lì. Mi chiamava di notte in camera e io mi arrabbiavo – e ancora – Mi invitò a prendere un drink e ci andai. Finché si parla di lavoro accetto, ma io ero innamorata del mio secondo marito, non volevo storielle», poi però confessa, scherzosamente «gli dissi che amavo mio marito, ma ora non rifarei quell’errore, è un uomo incredibile. Sono anni che sono pentita». A proposito di aneddoti, Corinne Clery ne aveva raccontati parecchi anche a Edoardo Sylos Labini nella nostra intervista diventata CULT. Buona lettura!

Corinne ci racconti un episodio OFF dell’inizio della tua carriera, un aneddoto particolare degli anni della gavetta?

«Ho un aneddoto buffo e imbarazzante! Al mio primo provino per “Histoire d’O” andai a Parigi dopo due mesi di suppliche da parte della produzione, volevo comprare delle scarpe nuove, tanto mi pagavano tutto… Ho pensato vado, faccio dieci minuti di provino, mi compro le scarpe, sto un weekend a Parigi, è tutto meraviglioso… non avevo la minima intenzione al mondo di fare quel film! Invece quel provino è durato tutto il giorno, non mi facevano più andar via! Alle 7 di sera suonano alla porta dello studio, tutti hanno un lampo di genio, ricordano l’appuntamento e mi chiudono nello sgabuzzino, perché entrava il Signor Carlo Ponti con una signorina sconosciuta – Dalila Di Lazzaro – per farle firmare il contratto. E invece non l’hanno voluto firmare, io sono rimasta mezz’ora nello sgabuzzino a sentire tutto, anche molto imbarazzata perché non avevo intenzione di fare il film, ma non mi volevo far vedere. Quando sono uscita ho detto che mi dispiaceva molto ma non lo volevo fare, hanno passato il weekend a convincermi, poi l’ho fatto! Avevo 25 anni e un figlio di 6 anni e mezzo! Sono precoce in tutto, io!»

Un’altra grande esperienza è stata quattro anni dopo, nel 1979, con Roger Moore sul set di “007 Moonraker – Operazione spazio”…

«Anche quello non lo volevo fare! Mi chiamò addirittura il signor Albert Broccoli, che chiese il mio numero diretto alla mia agenzia, perché nessuno gli aveva mai detto di no, voleva convincermi. Gli dissi che non volevo essere un numero ‘x’ di James Bond Girl, lui rispose che la protagonista era Lois Chiles e che io sarei stata la seconda protagonista. Gli risposi che ero stanca perché avevo appena finito un film, lui insistette e alla fine gli dissi, per ridere, che se mi avesse invitata a pranzo a Parigi in un ristorante divino, il Premier, dove andavo sempre con mio papà, avrei accettato. Alla fine mi invitò e accettai di fare il film, lui rideva come un matto. Mi hanno talmente amata che poi ho fatto pubblicità per un anno in giro per il mondo con loro».

Com’era Roger Moore? Che rapporto avevi con lui?

«Fantastico, era un amore, un signore. Aveva una moglie italiana meravigliosa che si chiama Luisa, aveva un figlio di una decina d’anni, stavamo spesso insieme in giro per il mondo a New York, a Los Angeles, ho fatto tutte le prime del mondo, metà con lui e metà con Richard Kiel.

Corinne, dai un consiglio alle attrici: qual è il segreto per sedurre il pubblico maschile su un set?

«Ti giuro che non lo so, sono la persona meno adatta! Un giorno chiesi a mio padre di sedersi tranquillo e gli dissi che avrei fatto Histoire d’O, un film che forse non gli sarebbe piaciuto molto… lui mi disse: “Histoire d’O? E l’hanno chiesto a te? Ma tu non fai film sexy!”. Gli risposi che lo sapevo e che non capivo come mai [me l’avessero proposto], perché io non mi vedevo così, e nemmeno la mia famiglia…»

Quando hai fatto il film, tuo figlio come l’ha presa?

«Era piccolino, è venuto anche a trovarmi sul set se c’erano delle scene carine, c’era anche mia madre a Parigi. Il set era una grande famiglia molto carina, infatti Just Jaeckin, il regista, è ancora oggi un mio grande amico. Non c’era tutto il morboso che si vede nel film, tutti i primi piani e le scene si facevano in quattro, io, l’operatore, il regista e il cameraman. Nessuno sbirciava, il grosso era in primi piani, oppure in piani lunghi o in piani sequenza. Scene di sesso non ce ne sono, oppure sono quelle che si possono immaginare. Non era poi così difficile, in fondo ero sempre nuda da ragazza, da noi a Saint Tropez andavo in spiaggia nuda anche con mia mamma, perché in Francia c’è un’altra mentalità, non c’è la morbosità. Oggi mi copro – anche se potrei ancora permettermi di spogliarmi – però per dignità e per eleganza quando gli altri si spogliano io mi copro, già da tanti anni…»

In Italia quando un uomo ha una compagna di 20-30 anni più giovane di lui non fa scalpore, mentre se una donna ha un compagno di 20 o 30 anni fa scalpore. Siamo ancora un Paese maschilista?

«Non è maschilismo, non sono gli uomini che pensano così, sono piuttosto le donne borghesi, che hanno paura e che continuano a fare le mamme casalinghe – e non c’è niente di male, per carità – ma non hanno la mente aperta, non è colpa loro; in tutto il resto del mondo, anche in Spagna, che una volta era il Paese più cattolico del mondo, sono molto più avanti rispetto alle coppie omosessuali e alle coppie formate da persone con grande differenza d’età. In Italia c’è ancora una mentalità molto antica, sarebbe giusto cambiarla ma è difficile cambiare le radici. Vivo qui da 40 anni e non cambia nulla, la borghesia, il bigottismo, la Chiesa che dice che va tutto bene ma non è così, perché sono loro per primi a fare ‘le peggio cose’, come si dice a Roma…»

Che cosa deve fare una donna affascinante come te per mantenersi sempre appetibile per l’uomo? Qualche tempo fa, dopo tre anni di fidanzamento, hai lasciato Angelo Constabile, un ragazzo che aveva 28 anni meno di te…

«Io non mi sveglio la mattina per conquistare, non guardo mai un uomo, non mi filo mai nessuno, ho altre cose per la testa, sono loro che filano me! Sono sempre stata sposata o fidanzata, con storie lunghe, uscivo da un bruttissimo lutto e non ci pensavo per niente, ancora meno pensavo a uno così giovane, perché avevo chiuso con le tante storie che avevo avuto con persone giovani. Sono sempre loro che mi cercano e stanno ricominciando, sono disperata! Ora ho un corteggiatore giovane molto assiduo, gli ho detto che non è possibile, ma loro non capisce il perché… negli altri Paesi non è così! Intanto a 36-37 anni sei un uomo, non sei poi così giovane; se sei un uomo intelligente sei come tutti gli altri uomini, con il vantaggio che non hai tutte le turbe mentali e vivi la vita con entusiasmo, con voglia. Spesso questi ‘giovani uomini’ non si trovano bene con le ragazze più giovani che vogliono fare carriera e trascurano gli uomini, oppure non sono colte, o sono viziate… me ne raccontano di cotte e di crude, io sono allibita! Non sto mai con persone che fanno il mio stesso lavoro, quindi non c’è interesse, a parte il mio ultimo compagno, che forse avrebbe voluto farlo ma non l’ho aiutato perché non è il mio mestiere. Con donne più grandi come me gli uomini giovani stanno sereni, si divertono: io sono piena di vita, di interessi, sono buffa e divertente, cucino e faccio la spesa poi la sera metto i tacchi e il rossetto, sono quattro persone nella stessa giornata, non ti annoi, mi arrabbio e poi rido, ho tante cose da fare e giro il mondo, è divertente».

È sempre l’uomo che deve offrire alla donna, come dice la vecchia scuola italiana?

«Io al massimo gli pago un caffè, se uno non ha grandi mezzi si sta a casa e va benissimo. Oggi il mondo è cambiato, se si decide di fare una cosa insieme, come un viaggio, si divide a metà. C’è sempre modo di venirsi incontro… gli uomini con me si divertono sicuramente, non sono ancora proprio da scartare, ma io non li guardo! Vorrei avere un uomo più grande, ma non mi guardano, guardano le ragazze!»

Nel 1977 hai fatto “Kleinhoff Hotel”, un film con Lizzani, che purtroppo poi ci ha lasciati così… Che differenza vedi tra i maestri di ieri e quelli di oggi in Italia, se ne vedi qualcuno?

«Ci sono dei registi di commedie che mi piacciono molto, come Fausto Brizzi e Carlo Verdone, mi piaceva Dino Risi e mi piace suo figlio Marco. Sono tre o quattro, è finita l’epoca in cui ogni regista che usciva aveva una storia da raccontare, si inventava uno stile… oggi prendono dei canaloni, amore numero uno, due… Sono tutti uguali, non me li ricordo, non lasciano tracce, ma non è colpa loro, è colpa della nostra società che non dà e non suggerisce niente, non dà emozioni e quindi non vengono fuori emozioni. Se non conosci e non vivi emozioni come fai a inventartele? Mi auguro che questa mostruosa crisi che ci ha colpito, in cui tutti stanno soffrendo senza limiti, serva a qualcosa; si dice che dopo aver toccato il fondo esce il sole… Per esempio mi è dispiaciuto moltissimo non vedere l’ultimo film di Barbareschi, perché non c’era più… L’ho incontrato in RAI e mi ha detto che non c’è niente da fare, se tratti un argomento complicato e scomodo, come la denuncia che faceva nel suo film sulla mafia nel settore dell’alimentazione, la gente non vuole sentirne parlare perché deve pensare troppo, gliel’hanno smontato in due o tre minuti. Questa è la cultura che ormai ha la gioventù italiana, non gliene frega niente di andare a vedere Woody Allen, preferisce “Sole a catinelle”…»

·         Catherine Spaak. Quella sex symbol rivoluzionaria ed eterna.

Catherine Spaak. Quella sex symbol rivoluzionaria ed eterna, scrive Bruno Giurato il 02/04/2019 su Il Giornale. L’inizio vi potrà sembrare un po’ strano eppure io me la ricordo in quel film di Dario Argento del 1971, era il gatto a nove code e lei sembrava una bond girl mentre guidava la sua auto sportiva, una Porche 356. Era solo un ruolo “minore”, non era certo la protagonista in assoluto del giallo argentiano, eppure fin da quella giovane età “bucò lo schermo”. Naturalmente avrebbe legato il suo nome anche ad altre pellicole di registri celebri diventando una presenza ricorrente nella commedia all’italiana (L’armata Brancaleone, Adulterio all’italiana, La matriarca, Certo, certissimo, anzi… probabile) e da ultimo l’avviamo vista sbarcare all’Isola Dei Famosi nell’edizione del 2015. Oggi è il suo 74esimo compleanno e a noi piace festeggiarla con l’intervista che il nostro Bruno Giurato le fece qualche anno fa. (Emanuele Beluffi). Catherine Spaak, un’icona del cinema italiano e internazionale. L’attrice francese (italiana di adozione) nata il 3 aprile 1945, ha attraversato gli schermi, le copertine, l’immaginario, imponendo un nuovo modello di sex symbol “introversa” (non certo la pin up curvosa). Attrice, cantante, conduttrice televisiva, scrittrice. A suo agio nella commedia, come nelle parti più “serie”. Capace di far parlare di sé anche in assenza, vedi la sua partecipazione saltata all’Isola dei famosi, di esprimersi in modo “scomodo” e di rivendicare se stessa senza false timidezze, né birignao. Ecco l’intervista OFF alla Spaak, realizzata qualche mese fa.

Ci racconta un episodio OFF dell’inizio della sua carriera, un aneddoto particolare degli anni della gavetta?

«Ricordo il primo giorno della lavorazione de “L’uomo dei cinque palloni” di Marco Ferreri, all’ultimo piano di un grattacielo altissimo in centro a Milano: sono arrivata lì con il mio copione e il regista l’ha buttato fuori dalla finestra. Poi ha radunato tutta la troupe, con Marcello Mastroianni che mi faceva dei cenni per rassicurarmi, e abbiamo dovuto dire tutti in coro: “Angelo, bell’angelo, vieni qui da me”, e la risposta di Marco Ferreri è stata: “Non posso, perché il diavolo mi tenta”. Poi abbiamo cominciato a girare. È stato molto strano, soprattutto perché avevo diciassette anni e su un set con Ferreri e Mastroianni non sapevo come comportarsi».

Lei è diventata famosa anche grazie all’incontro con Sophia Loren. Com’è avvenuto?

«Mio padre aveva scritto una sceneggiatura per un film di Alberto Lattuada. Fu lui, dopo avermi vista la prima volta da bambina, a capire che sarei stata un’attrice: diceva sempre che avrebbe aspettato che crescessi. E una volta, per caso, all’uscita della scuola andai con mio padre sul set de “Il buco”, di Jacques Becker, e girai una scena per sostituire una ragazzina, in cui dovevo parlare con un detenuto in una prigione. Dopo di che mandarono una troupe televisiva a scuola per intervistarmi, la signora Loren mi vide e mi fece fare un provino con Lattuada, che cercava la protagonista femminile per “Dolci inganni”. Andai a Roma, feci il provino, e poi il film».

E poi ci furono altri film, come “Il sorpasso” e “Voglia matta”, e lei è diventata il simbolo di una nuova donna, emancipata e autonoma…

«Corrispondevo a una nuova tipologia femminile: non più la maggiorata, la donna abbondante, la mamma mediterranea, ma una donna più inquietante, con meno femminilità ma con una testa pensante, possibilmente colta e capace di prendere in mano la sua vita».

… Una figura senz’altro affascinante, ma anche spaesante per la platea maschile dell’epoca…

«Sicuramente anticipava l’emancipazione femminile, che era già avvenuta in Francia».

Com’era, invece, l’universo maschile italiano di quei tempi?

«Pensavo erroneamente che il mondo del cinema e dell’arte fosse al di fuori di pregiudizi e luoghi comuni, invece era ancora fortemente maschilista».

Per esempio, come fu il rapporto con Vittorio Gassman e Mario Monicelli durante la lavorazione de “L’armata Brancaleone”?

«Monicelli, come Gassman e altri componenti della troupe, era un grande misogino. Vittorio era molto aggressivo e cercava continuamente di mettermi in imbarazzo, il che era facilissimo, e faceva ridere tutti quanti. È stata un’esperienza tremenda».

Invece chi è il regista che ha apprezzato di più?

«Non saprei, ho girato più di centoventi film, tutti con registi importanti che mi hanno dato tantissimo, nonostante i loro caratteri magari discutibili. Mi ritengo molto fortunata ad aver fatto parte di un periodo storico tanto importante del cinema italiano».

Crede che la commedia all’italiana sia morta con quel periodo storico?

«Il film comico è basato sul costume, e il costume con il passare degli anni cambia. Quindi anche il cinema cambia, ed è difficile che qualcosa che faceva ridere negli anni ’60 faccia ancora ridere. Esistono i film cult, ovviamente, per esempio “Amici miei” e “Febbre da cavallo”: non posso prendere un taxi a Roma senza che il conducente sappia a memoria tutte le battute di quel film. Mentre giravamo, con Steno e Gigi Proietti, non potevamo immaginare che “Febbre da cavallo” sarebbe diventato quello che è diventato per il pubblico italiano».

Lei è una donna piuttosto riservata, secondo alcuni un po’ altera…

«Quello è il classico malinteso per cui se non si danno pacche sulle spalle e non cosi dicono parolacce si è alteri, freddi o snob…»

Ma come ci si sente a essere una delle donne più desiderate del cinema italiano?

«Mi fa sorridere, perché la vita è fatta di cose più concrete».

Ha sempre amato scrivere, come mai?

«Ho scritto per tredici anni sul Corriere della Sera e su praticamente tutte le riviste femminili. Come mai? A lei perché piace fare il giornalista? La trovo una cosa abbastanza normale, non siamo più nel seicento, quando le pittrici venivano considerate pazze e possibilmente rinchiuse».

La donna di oggi ha ancora bisogno di liberarsi dal punto di vista sociale e culturale?

«Ci sono ancora dei pregiudizi e dei tabù. Penso che siano gli uomini a dover lavorare su loro stessi».

Ha sempre tenuto molto alla crescita personale attraverso la meditazione. Com’è stato il suo percorso in questo senso?

«La mia è stata un’avventura spirituale soprattutto di consapevolezza, che ho cercato di raggiungere con ogni mezzo possibile: letture, concorsi, meditazione, introspezione…»

È stato un tipo di percorso religioso o laico?

«La meditazione è una pratica orientale, ma il mio è stato soprattutto un percorso laico.

Ha lavorato in televisione per anni e con un grandissimo successo, prima a Forum e poi ad Harem. Tornerebbe a lavorare in TV?

«Mi piacerebbe, vorrei riprendere Harem facendo dei cambiamenti adeguati alla situazione attuale. Ma non penso che i dirigenti RAI sarebbero interessati».

Si è sposata con un uomo più giovane. Gli uomini da sempre hanno compagne più giovani, quando la situazione è invertita invece si parla subito di toy boy… Come si giudica dal punto di vista sentimentale?

«Penso che ognuno dovrebbe essere se stesso senza dare troppo ascolto a ciò che dice la gente. Io l’ho fatto, e penso di aver fatto bene».

·         Il Personaggio Platinette.

Da dilei.it l'11 dicembre 2019.  Platinette, alias Mauro Coruzzi,  ha postato sul suo account Instagram una foto che documenta il suo incredibile dimagrimento, ottenuto in questi ultimi mesi grazie a un regime alimentare severo e a tantissima forza di volontà. E ha scritto un messaggio che potrebbe valere da incoraggiamento e sprono per tutti quelli che pensano di non avere la stessa forza e determinazione al cambiamento. Darsi per vinti significa restare sdraiati per tutta una vita: non c’è nulla di più noioso del non tentare nemmeno di rialzarsi. A settembre intervistato da Vanity Fair aveva detto: “Mi prendo una pausa dalla tv per guarire.  In questi anni ho avuto un rumore sordo dentro di me, un difficile male da combattere che è una patologia vera: il mangiare compulsivo. E adesso il male va estirpato“. “Devo iniziare a lavorare su di me e mettere pace tra me e il mondo. Ho iniziato a farlo con un regime alimentare molto severo e con una prova di forza per capire se sono in grado di rimpossessarmi della mia vita”. E a quanto pare, Mauro ce l’ha fatto. Si è rialzato, ha preso in mano la sua vita e si è rimesso in cammino. Più leggero, fisicamente ma soprattutto psicologicamente, di prima.

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 18 settembre 2019. Fonte di consolazione e anche di angoscia, per coloro che ne sono dipendenti il cibo smette di essere un piacere e diventa un subdolo strumento di autodistruzione. Lo sa bene Mauro Coruzzi, in arte Platinette, 64 anni, che da decenni combatte una insostenibile guerra contro carboidrati, zuccheri e lipidi, da cui esce quasi sempre sconfitto. «Sono l'equivalente di un tossico davanti alla dose», ha rivelato più volte la drag queen più famosa d' Italia, spiegando pure di soffrire di attacchi di fame nervosa soprattutto durante la notte, allorché le angosce che si covano dentro diventano mostri giganti a cui si dà in pasto qualsiasi cosa, pur di farli tacere e non esserne divorati. Quella che attanaglia Platinette è una voracità che sorge nella mente più che nello stomaco. Ingurgitare pietanze succulenti altro non è che un disperato quanto vano tentativo di riempire vertiginosi vuoti, che brontolano dai recessi dell'anima. È lì che abitano paure, sensi di colpa, rimpianti, insicurezze, laceranti dolori, sottaciute verità e malinconie. Allora si mangia, anzi si ingurgita di tutto, per un attimo di sollievo, che subito dopo lascia il posto ad una cupa disperazione. È in questo modo che si accumulano i chilogrammi di troppo e si diventa grassi, enormi, pesanti proprio come quelle emozioni che si cerca di ignorare. Ingombranti. Come Platinette, la quale ha annunciato il ritiro dalle scene, dai salotti televisivi, al fine di affrontare i suoi demoni. «Mangio compulsivamente, anche quando non ne ho realmente bisogno. Negli ultimi mesi è stato più difficile, sono arrivato a trascinare una gamba. Adesso il male che porto dentro di me deve essere estirpato. Dopo 45 anni di lavoro e di carriera, devo rimettere a posto le mie fondamenta, poi magari ci rivediamo», ha dichiarato durante la prima puntata del programma di Raiuno Italia Sì, diretto da Marco Liorni, format al quale Platinette ha preso parte la scorsa stagione. Si tratta dunque di un "arrivederci" e non di un "addio". Coruzzi riconosce che la priorità in questo momento è quella di lavorare su se stesso, pure perché queste problematiche alimentari hanno una peculiarità: se non le affronti a muso duro e le debelli, piano piano ti ammazzano. Platinette, dotata di un' intelligenza brillante, ha sempre scherzato riguardo la sua mole. Allorché le fu proposto di partecipare all' Isola dei Famosi affermò: «Se come gli altri concorrenti mi buttassi in acqua dall' elicottero per raggiungere l' isola a nuoto, scatenerei uno tsunami». L'ironia è un mezzo per vincere l'imbarazzo, mascherare la propria sensibilità, sdrammatizzare la propria condizione. Questo ora non basta più. Secondo Marco, è tempo di affrontare il disagio una volta per tutte, di darsi delle regole alimentari e di rispettarle, portando a galla quei motivi che lo inducono a rifugiarsi nel consumo di montagne di dolci e salati. Inizia la ricerca di un equilibrio perfetto, non quello dettato dall' ago della bilancia, bensì quello tra il dare ed il ricevere. Forse è quando questo meccanismo è inceppato o sballato che si precipita nella trappola mortale della bulimia. Platinette, che con la sua allegria ed i suoi colori vivaci ci mancherà non poco nel periodo della sua assenza dalla scena, dovrà compiere un avventuroso viaggio all' interno di se stessa, giungendo fino a quel sé bambino, che Marco ha voluto proteggere avvolgendolo in spessi strati di grasso affinché nessuno potesse fargli del male. Quel bimbo nato e cresciuto in un famiglia poverissima, il quale pativa la lontananza emotiva di un babbo che, avendo vissuto le atrocità del campo di concentramento durante il secondo conflitto mondiale, aveva difficoltà a relazionarsi con il figlio, a cui non insegnò mai a giocare a pallone né ad andare in bicicletta, lasciando i contatti tra i due congelati fin quasi alla morte. «Ci siamo abbracciati soltanto alla fine della sua vita«, raccontò Marco a proposito di suo padre. La madre, invece, lo amò persino troppo quel pargoletto. Ossia senza misura, senza limiti, senza controllo. In maniera smodata. Marco, non farci attendere troppo a lungo il tuo ritorno. A noi piaci così come sei, sia coperto da troppo trucco che senza maschere.

Giancarlo Dotto per “Diva & donna” il 4 ottobre 2019. “Pronto, eccomi, sono tutto tuo!”. Altro che grassone depresso che si guarda e si schifa allo specchio, Maurizio Coruzzi, Mauro per tutti noi, alias Platinette, è più che mai Platinette di questi tempi, nella sua versione più smaniosa, creativa, persino morigerata. Che canta e fa ginnastica, mezz’ora la mattina e mezz’ora la sera, schizzando affannata e allegra nel resto della giornata da una tastiera a una radio e uno studio televisivo. Più che mai beata del ritrovato feeling con Maria de Filippi, al fianco dell’amica Ornella Vanoni, una con cui ancora oggi andrebbe a spaccare le vetrine di Milano. La radiosa Platinette di queste ore, sì con qualche aiutino sparso, farmaci e carezze, ha preso a calci il potenziale suicida Mauro di ieri, lo stesso che annunciava allo sbigottito Marco Liorni: “Mi spiace tanto, ma quest’anno non potrò essere dei vostri, ho un brutto male, devo combatterlo”. Il “brutto male” è la bulimia, il programma disertato è “Italia sì” su Raiuno, seconda edizione. Sembrava una dichiarazione di resa, era in realtà un inizio. L’ennesimo nella vita spericolata e molto turbata di Maurizio Mauro in arte Platinette.

“Non ce la potevo fare. Otto mesi di quella spola tra Milano Roma, tutte le settimane. L’ho detto a Liorni: a 64 anni devo prima rimettere a posto le mie fondamenta, poi magari ci rivedremo”.

Ospite fissa invece da Maria de Filippi nel suo nuovo programma “Amici Celebrities”, dove sembri al top del tuo benessere psicofisico.

“Con Maria, come con Maurizio, vado a ruota libera. Loro due hanno una meravigliosa assenza di pregiudizi. Mi sento libero di non mentire, di essere me stesso fino in fondo. E poi, la musica per me è ossigeno puro”.

Tu e la Vanoni gomito a gomito, una coppia esilarante tra avanspettacolo e cabaret futurista.

“Siamo due vecchie rimbambite. In realtà, la Vanoni è stata una sorpresa. Una delle poche star con un pensiero. Chirurgica nei giudizi, con un’inaspettata severità. Stiamo parlando di una donna che ha fatto 85 anni in questi giorni”.

Anagramma combinato di Maurizio, tuo nome all’anagrafe, e Platinette: “Alimentate ozi turpi”.

“Magnifico! Premonitore. In effetti, di ozi turpi si tratta per quanto mi riguarda”.

Dimmi del “brutto male”.

“Si crede che i mangiatori compulsivi siano dei gaudenti. Falso. La bulimia, sottolineo, è una patologia. Non è gola. Parliamo di un male di natura irrisolvibile. La sai la storia di quella donna americana?”

Ricordamela.

“Quasi 300 chili. Non c’è stato verso nemmeno di operarla. Continuava a mangiare poco prima dell’intervento. Aiutata dal marito e dalle figlie. Sai cos’è? Questa si stava ammazzando”.

Il film di Marco Ferreri “La grande abbuffata” racconta bene questo darsi la morte mangiando fino a scoppiare.

“Lì c’è un aspetto ludico. Il cibo come espressione di una depravazione corale. Il bulimico è un ammalato solitario. Mangi tanto, in solitudine, nascondi le tracce del tuo vizio. Non puoi andare fuori e farti vedere”.

Mangi qualunque cosa famelicamente.

“La velocità del mangiatore compulsivo precede l’impulso del cervello. Il concetto è: prima magno, poi, forse, smetto, ma solo quando davvero non ci sta più niente in corpo”.

Ti metti mai le dita in gola per liberarti del troppo cibo?

“Neanche morta. Mi fa senso. Io mi riempio il più possibile per trovare quell’attimo di pace in cui non avere più l’ossessione del cibo. Il pensiero fisso. L’attimo che precede il pensiero di che cosa mangerai dopo”.

Ti fai aiutare da qualcuno?

“Un bravo psichiatra mi dà una mano con i farmaci. L’analisi alla mia età lascia il tempo che trova. L’ho fatta decine di volte. So bene cosa ha scatenato il mio problema. Voglio solo uscire chimicamente da questo stato di autopunizione”.

Conseguenze smodate di quel delirio chiamato amore?

“Conseguenze del rifiuto successivo al mio primo grande innamoramento.  Lui che mi butta fuori dal suo Maggiolino in corsa. Diciotto anni io e diciotto lui”.

Intendi dire che ti butta fuori dalla macchina in corsa alla lettera?

“Alla lettera. Eravamo al Lido di Classe, sopra Milano Marittima. Abbiamo una discussione. Questo apre la portiera e mi scaraventa in un fosso urlandomi: “Io non sarò mai come te!”. Voleva dire: non sarò mai un frocio come te”.

Una specie di nazista…

“Ma no, solo uno che aveva paura di sé e di quello che rappresentavo per lui. Un ragazzo fragile”.

L’hai più incontrato?

“Abita ancora oggi a cinquanta metri da me, ma non mi parla. Eravamo compagni di classe. Finita questa storia, secondo lui mai cominciata, quello stronzo mi umilia regalandomi un libro di Andrè Gide sull’omosessualità. Era il suo testamento regalo”. 

Mai desiderato di vendicarti?

“Era bello come il sole, intelligente, ambizioso  ma incattivito con la vita. Finì a fare il boscaiolo in Canada. Ingrassato come un otre, tornò ancora più incazzato. Oggi vive in solitudine a Parma nelle casette popolari di Mussolini”.

Parte tutto da qui, da quel corpo rifiutato e scaraventato dalla macchina in corsa.

“Parte da questa vacanza insieme in cui affrontiamo anche le prime esperienze di sesso. Fu la prima volta che ingrassai smodatamente. Quasi cinquanta chili ”.

Capita a tutti di sentirsi rifiutati, senza per questo avere una reazione abnorme.

“In realtà non è lui l’origine. Lui s’è trovato in mezzo a questo turbine della mia vita. Io e lui stavamo con due ragazze amiche che non sapevano della nostra storia e mai l’avrebbero immaginato”.

Eri un eterosessuale che stava scoprendo la sua omosessualità?

“Ho avuto in tutto un paio di fidanzatine scolastiche. L’ultima è un ex tecnico di radiologia da poco in pensione. Rimase incinta di me. Eravamo due ragazzini. Un dramma”.

Cosa vi siete inventati?

“Non c’era ancora la legge sull’aborto. Mi rivolsi alla radicale Adele Faccio, che ci salvò. Ci suggerì una clinica a Firenze. Era l’anno della maturità. A seguire, lei cominciò ad avanzare pretese di coppia”.

E tu?

“Io scopro l’altro mio mondo. Svelo le carte. Lei viene a vedermi una sera con le amiche in un locale dove debuttavo come Platinette, che allora si chiamava Oscar Selvaggia. Avevo il garofanino verde e  presentavo il mio spettacolino: “Olè olè, inizia il défilé”.

E lei, la tua ex?

“Rideva come una  bestia. Abbiamo continuato per un po’ a sentirci. Poi si sposa con un medico, hanno un figlio e un anno a Natale mi fa: “Perdonami, dobbiamo finirla qui, mio marito non apprezza che ci sentiamo”.

Dovevi essere cancellata dalla loro vita.

“Non voleva ombre. Proposi a Maria di combinare un incontro con la mia ex fidanzata per una puntata di “C’è Posta per te”. Maria era gasatissima. Ci abbiamo provato, ma non c’è stato verso di raggiungerla, né di parlarci”...

L’eventuale paternità sarebbe stata un argine alle tue pulsioni autodistruttive?

“Non credo. Ho sempre guardato con invidia e diffidenza le coppie con figli e cani. Sarei stato un bravo padre e anche un bravo soldato, ma avrei dovuto rinunciare a me stesso. Il peso della responsabilità mi avrebbe snaturato”.

Raccontami la scena. Torni a casa, reduce dal tuo circo, i tuoi stordimenti, le gratificazioni, entri in casa da solo e…?

“Scatta una forma di sopportazione. Il vuoto per me, piuttosto che il nulla, è una compagnia. È meglio avere un ossessione che non avere neanche quella. Che essere un lobotomizzato”.

In pratica?

“Mi cucino mezzo chilo di pasta con una tonnellata di salsa e mi faccio un litro di Coca-Cola”.

Una persona in casa con cui darsi reciproco sostegno?

“Non ho una storia da anni. Non amo la vita in comune. Le nozze dello stesso sesso mi fanno senso, mi sembrano una triste parodia delle coppie etero. Il mio vuoto è l’occasione per generare creatività. Creare oggi è la mia compagnia”.

Che esclude il resto?

“Certo non favorisce i rapporti, allontana gli intenzionati. Ma poi, dimmi, a chi cavolo posso piacere oggi? Solo a degli psicopatici”.

L’ultimo…

“Un chirurgo estetico di Parma. Un pezzo d’uomo di 2 metri. Aveva una doppia vita. La famiglia a casa e con me a Courmayeur in hotel lussuosi. Io, signora borghese anni ’70, con il set di perle. Gli piacevano i ciccioni. Sposò una nefrologa più grassa di me. È diventato lui stesso più grasso di me”.

Altre storie?

“Quella antecedente al chirurgo con un giornalista di Torino, un pezzo grosso della Stampa che firmava con tanto di foto. Ha sposato una mia amica, anche lei cicciona”.

E adesso?

“Con la mia rimessa in forma, la vita è tornata a piacermi. Mi basta la compagnia del creare, del fare e me ne sbatto un po’ del lavoro”.

Testimonianze di affetto?

“Tantissime. Quella di Patty Pravo la più apprezzata. Fu la mia prima intervista da praticante giornalista. Da allora si è creato questo legame. Affinità e problemi comuni. Mi ha consigliato come affrontare il mio male”.

Dillo anche a noi.

“Una specie di rituale magico. Un mantra che ti si pianta nella testa. Mauro mangia a causa del troppo amore. Nicoletta mi ha consigliato: scrivi una lettera a tua madre. “Sei stata troppo con me”. Vai fuori, all’aperto, all’aria, bruci quella lettera e finalmente farai pace con questo ricordo”.

L’hai fatto?

“Ancora no”.

Somigli sempre di più a Paolo Mieli.

“Dici? Penso di somigliare di più a Lindsay Kemp. La stessa testa pelata, lo stesso trucco”.

Platinette e la malattia del mangiare compulsivo: «Difficile da estirpare». Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 da Corriere.it. «In questi anni ho avuto dentro di me un rumore sordo, un male difficile da combattere che andava estirpato: il mangiare compulsivo senza averne bisogno». Mauro Coruzzi, in arte Platinette, ha raccontato al pubblico del programma ItaliaSì su Rai1 le sue condizioni di salute. «Dovevo lavorare su di me e mettere pace tra me e il mondo, sto seguendo un regime alimentare molto severo e cerco di reimpossessarmi della mia vita». Che cos’è il «mangiare compulsivo»? «Si tratta del Binge Eating Disorder (Bed), definito in passato come disturbo da alimentazione incontrollata o da alimentazione compulsiva - chiarisce Stefano Erzegovesi, nutrizionista e psichiatra, responsabile del Centro per i disturbi alimentari dell’Ospedale San Raffaele di Milano (e autore del forum sui disturbi alimentari di Corriere Salute) -. Chi ne soffre spesso sembra gioviale, allegro con quei chili in più che ci fanno pensare a persone amanti del buon cibo, più che sofferenti. In realtà il Bed è una malattia, riconosciuta dalla comunità scientifica solo da pochi anni (nel 2013 questo comportamento è stato ufficialmente classificato dall’Apa, l’Associazione psichiatrica americana, come un disturbo del comportamento alimentare)».

Platinette: «Basta cibo, questa è mancanza d’amore, devo curarmi». Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 su Corriere.it da Candida Morvillo. Mauro Coruzzi e la dieta dopo anni di abbuffate compulsive: «Evito il tempo libero per non dirmi che mi manca l’affetto». Mauro Coruzzi, in arte Platinette, ha annunciato da Marco Liorni, su Raiuno, che quest’anno non andrà a Italia sì! perché deve curarsi da «una patologia vera: il mangiare compulsivo».

Mauro, che succede?

«Che a 64 anni non posso più rimandare l’appuntamento con me stesso. Ormai, per scendere la scala di quello studio, mi poggiavo al corrimano, claudicante come se avessi sulle spalle un altro uomo di cento chili. Nell’ultima puntata, a giugno, ho colto l’apprensione nello sguardo di Rita dalla Chiesa, che era lì, e ho provato vergogna. Così, ho avviato un percorso e ho capito che per guarire non devo essere bulimico di lavoro».

Che c’entra la bulimia da lavoro?

«Ho un programma quotidiano su Rtl 102.5, due rubriche su Di Piùe Di Più Tv, e non posso fare Milano-Roma tutti i sabato, cenare male in treno, poi morire di domenica e resuscitare il lunedì, per 38 settimane di seguito. Parteciperò, invece, a un’altra trasmissione, molto più breve, di cui non posso ancora dire. La verità è che la fame di lavoro serve a nascondere a me stesso il fatto che a casa non c’è nessuno che mi aspetti. Evito il tempo libero per non dirmi che mi manca un affetto».

Da quando è così?

«Da quando il primo fidanzato, che come me aveva anche una ragazza, mi scaraventò dal Maggiolino urlando: io non sono come te. Era l’estate della maturità, misi 50 chili. Da lì, ragazzino, iniziai con la radio a Parma, ho fatto l’autore radio e tv, ho creato Platinette, sono arrivati il cinema da Francesco Nuti a Ozpetek, la musica e un Festival di Sanremo. Ieri ho ricevuto un messaggio da Patty Pravo, fu a lei che feci la prima intervista nel ‘75: 45 anni di amicizia, mi sono commosso».

Perché si è commosso?

«Ero giovane, ero suo fan e mi ritrovo a casa sua, emozionatissimo... E poi l’ho rivista tanto, siamo stati insieme in America... Nel messaggio mi fa: ho saputo del tuo problema, chiamami che vorrei darti dei consigli. Ho pianto come un cretino. Ho pianto perché ho l’orgoglio di aver frequentato i miti della mia gioventù, perché ho fatto uno spot con Mina e mi tremavano le gambe. Sono amico di sua figlia Benedetta e Mina che mi racconta come fa la torta fritta col salame è un ricordo di risate memorabili. Però, poi, vai a casa, senti di non valere niente, abbracci il cuscino, di notte ti fai mezzo chilo di pasta con mezzo chilo di salsa e un litro di cola. Il risultato è che sei sempre più grasso e che amore trovi così grasso?».

Lei che amori ha trovato?

«Da anni, non ho una storia. Ho la paranoia di non piacere, del “vengono con me perché sono famoso”. E ne ho altre. Il chirurgo, quattro anni insieme, amava i grassi e io: se dimagrisco, non mi vuoi più e il resto che sono non conta? In realtà, non potevo credere di stare con un bell’uomo. Dopo si è sposato con una donna. Grassa. Tutti quelli che vengono con me sono ufficialmente etero».

Lo amava?

«“Amore” non so che voglia dire. Amavo le sue sette telefonate affettuose al giorno, ma ero talmente impaurito che finisse che mi facevo la corazza e pensavo: gli piacciono ciccioni per rimarcare quanto è bello lui. Ci siamo lasciati male, ma, dopo, mi ha salvato la vita. A Modena, stavo per fare un bypass intestinale, un intervento ormai in disuso per via di complicazioni anche mortali. Mi ha detto: sei scemo. E io sono scappato di notte dall’ospedale».

Altri tentativi falliti?

«Nel 2015 misi il palloncino gastrico per preparare Ballando con le stelle. Poi ho ripreso il vizio come il tossico che ci ricasca. Un anno dopo ero i 175 chili di prima e ne ho messi altri, non so quanti. Ora dalla nutrizionista mi faccio dire solo se ho perso».

E quanto ha perso?

«Da fine luglio, 25 chili. E ho perso il gusto dell’abbuffata. Sono rimasto a Milano tutta l’estate, solo come una bestia, a fare i conti con me stesso, a dirmi che dovevo seguire regole precise, come la cena entro le 21: cose incompatibili col tanto lavoro. Ho iniziato con la dieta liquida, ora ne seguo una solida, personalizzata, e vedo una psichiatra».

E ha capito dove nasce la fame d’amore?

«Da una madre molto affettuosa, venuta dalla fame della guerra, che a me bimbo, magrino magrino, diceva: mangia, mangia. Il suo amore era talmente incondizionato che non mi ha chiesto mai se ero gay o cosa: trovava dei collant nascosti, li lavava e li metteva nel cassetto con i calzini senza dire né A né B. Con lei, non ho mai sentito il giudizio, però l’amore assoluto che ho sentito è diventato il killer di ogni altro amore. In cuor mio, ho sempre fatto confronti fra lei e i tre uomini importanti che ho avuto: il chirurgo, un giornalista, un cantante».

Adesso, come sta?

«Come in una guerra che non ho la sicurezza di vincere. E allora non guardo troppo lontano, ma solo a questa prima battaglia per garantirmi 5 o 6 anni di vita decente».

Addio di Platinette alla tv: "Devo combattere il male". Mauro Coruzzi rivela di avere da anni un disturbo dentro di sé: il mangiare compulsivo, che intende combattere. Per questo, almeno per il momento, si allontanerà dagli schermi. Francesca Bernasconi, Martedì 17/09/2019 su Il Giornale. "Mi chiamo Mauro Coruzzi e voglio spiegarvi cosa mi sta succedendo". Così, Platinette annuncia di voler rendere noti i motivi che l'hanno spinto a lasciare Italia Sì, il programma di Rai1, e il mondo della tv. Nella prima puntata di quest'anno, il conduttore rivela che in tutti questi anni (45 festeggiati quest'anno) di carriera radio-televisiva si era annidiato dentro di lui "un rumore sordo, un difficile male da combattere". Infatti, quella che ha colpito Platinette è una "patologia vera": si tratta del magiare compulsivo, un bisogno che emerge anche quando in realtà il corpo non ne ha bisogno. Poi rivela: "L'ultimo anno trascorso a Italia Sì è stato difficile. Le ultime puntate dell'anno scorso trascinavo una gamba e non volevo farmi vedere da nessuno". E per la discrezione e il rispetto che hanno dimostrato nei suoi confronti, Mauro Coruzzi ci tiene a ringraziare Elena Santarelli e Rita Dalla Chiesa, le sua "amiche che hanno compreso e rispettato la mia privacy". Il "male", come lo chiama lui, "andava estirpato" e, per questo, Mauro ha decisio, alla fine della scorsa stagione, di iniziare un percorso su di sé: "L'ho fatto con un regime alimentare molto severo, ma al tempo stesso una prova di forza perché dovevo capire se potevo impossessarmi della mia vita". Ma questo percorso, spiega commosso il conduttore radio-televisivo, non gli permetterà più di accettare lunghi incarichi di lavoro. Infine, l'addio alla tv, che in realtà assomiglia di più ad un arrivederci: "Prima mettiamo a posto le fondamenta, poi magari ci rivediamo".

IL PERSONAGGIO PLATINETTE. DA I LUNATICI RADIO2 del 3 aprile 2019. Maurizio Coruzzi, in arte Platinette, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Coruzzi ha parlato del suo rapporto con la notte: "Ho un rapporto problematico con la notte, è il momento della verifica di quanto riesco a resistere alla tentazione del frigorifero. Purtroppo la mia pratica, essendo masochista di sicura fama, è stata quella in questi giorni di avere una mappatura completa di chi può portarmi del cibo a casa fino alle cinque della mattina. Potrei scriverci una guida per i famelici e bulimici della notte. Fra un po' scoppierà l'ennesimo buco nella cintura, ma pazienza. Ho imparato questa pratica qualche anno fa negli Stati Uniti, dove è di rigore mangiare a qualsiasi ora del giorno e della notte. Lì mi sono accorto quanto è bello di notte poter perfezionare il proprio vizio andando al di là del possibile. Dal cinese al filippino, che ho scoperto di recente. Tra un po' mi verranno gli occhi a mandorla. Gli orientali sono più puntuali, uno dei problemi del bulimico di notte è che non può aspettare, altrimenti sclera. E' come un tossico. O hai la dose di calorie o sono guai seri. Magari non puntano molto sulla qualità, ma hanno capito che prima arrivano e più guadagnano". Platinette, poi, ha parlato ancora di cibo e di obesità: "E' giusto che tanti ci dicano di andarci cauti con l'esagerazione alimentare. E' troppo evidente, chiunque sia razionale capisce che si sta facendo del male. Penso a grandi amici obesi che ho incrociato nella vita. Penso a Maurizio Costanzo. Su tanti fronti è una persona con un grande imprinting, ma poi davanti a un bignè sembra veramente all'ultimo stadio dell'eroina di una volta. C'è un modo di osteggiare gli obesi perché rappresentano dal punto di vista della sanità un peso consistente, e in effetti sulla sanità pesiamo tantissimo. Ma l'approccio se fosse corretto dovrebbe essere più psicanalitico che da nutrizionista. Non riesco a pensar male di chi combatte l'obesità, è un male di questa società". Sulla nascita del personaggio Platinette: "E' nata quando sono andato a vedere un gruppo, a Parma. In un circolo di quelli un po' peccaminosi. Recitavano la difficoltà di essere omosessuali in Siberia. Morale della favola, la sera dopo sono tornato e già lavoravo con loro. Il primo nome d'arte è stato Oscar Selvaggia. Poi in fondo a una valigia trovammo una parrucca patinata sporca, che sembrava un topo morto. L'abbiamo messa in lavatrice e su consiglio di una nostra amica cantante molto famosa cambiammo nome d'arte e scegliemmo Platinette. In onore di una pornostar che negli anni 70 cambiava nome a seconda della parrucca che si metteva. Quando indossava la parrucca rossa era miss Pomodoro, quando metteva la parrucca bionda era Platinette". Sull'omofobia:  "Realtà o ipocrisia? Né l'una nè l'altra. Non è che qualcuno ogni notte punta ad ammazzare gay, lesbiche e omosessuali: C'è qualche cretino, quello sì. Ci sono sempre stati i cretini. Non vorrei che il paradosso fosse scambiato per verità, preferivo altri tempi, quando c'era quel tipo di borghesia che ammetteva tutto e non diceva niente. Mi sembrava che proprio in quel tipo di società borghese, dove chiunque faceva ciò che voleva, ma almeno la facciata era rispettata, in fondo ci fossero più libertà di quante ce ne sono oggi. Non vedo quale sia la necessità di anteporre alle altre qualifiche quella di omosessuale. Io prima di ogni altra cosa sono italiano, di sesso maschile".

GAY, IL NUOVO CONFORMISMO. Maurizio Caverzan per La Verità l'11 settembre 2019. Nella sede di Rtl 102.5 a Cologno monzese fervono i preparativi per il trasferimento a Villasimius in Sardegna da dove l’emittente trasmetterà fino a fine agosto. «Io invece, mi trasferisco a casa mia a Parma», confida ironico Mauro Coruzzi, in arte Platinette. «Devo rimettermi in sesto per poter dare una mano a una persona cara che ha bisogno di me». Il tempo a disposizione non è molto, alle 17 incombe Password, il programma che conduce con Nicoletta De Ponti. Pochi convenevoli e si parte.

Dalla mise, l’intervista è a Mauro Coruzzi.

«Se per lei ha importanza… è un conformismo anche questo».

Mauro sta chiedendo più spazio?

«No. Credo sia un work in progress, come direbbero quelli che parlano bene. Non amo seguire regole neanche nell’abbigliamento o altre che indicano qualche segretario di partito o a qualche televisivo. Neanche a scuola le seguivo».

Coruzzi frequenta la radio e Platinette, più telegenica, la tv?

«No. Platinette è un riciclaggio di me stesso e di modelli altrui, da Mae West a Mina, splendida ragazza madre nell’Italia dei Sessanta. Cerco il difforme, non il conforme. Platinette è una travestita, ma se la trova certe notti nella bassa padana non la riconosce. Mauro è un ragazzo obeso, con una testa che lavora più del corpo e tanta voglia di migliorare il suo aspetto».

Tra i due c’è intesa?

«Una felice collaborazione, come quella che ci fu tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini quando fecero la legge contro l’omofobia. La dobbiamo a loro, non agli illuminati di sinistra, tipo Franco Grillini dell’Arci o Vladimir Luxuria, che ha approfittato dell’anno in Parlamento per rifarsi le tette. Personalmente ho speso un patrimonio in questa battaglia, solo la tessera radicale costava 600 euro. Ma c’era Marco Pannella…».

Marco Pannella.

«Quando andò ad Arcore ebbi un orgasmo. Speravo nella fusione tra la sua creatività e lo spirito liberale di Berlusconi. Non trovo che il sistema delle cooperative abbia migliorato la convivenza civile. Purtroppo, l’avvicinamento tra i due non ha avuto seguito. E il mio spirito liberale e libertario è rimasto orfano pur avendo i genitori».

Ricominciamo da quelli veri.

«Contadini inurbati da Langhirano a Parma, sperando in un miglioramento. Mia madre era operaia in una fabbrica di conserve di pomodoro, mio padre muratore. Non conoscevano l’italiano, la sera guardavano Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi per imparare qualcosa».

Infanzia e adolescenza in povertà.

«Avevo intuito che la cosiddetta cultura, senza la k degli anni Settanta, poteva essere d’aiuto. Alle magistrali ero un inguaribile secchione che però partecipava alle occupazioni, al Movimento studentesco e tutto il resto. Studiavo perché mi piaceva, e mi piace tuttora».

Amici?

«Amori in classe, nella scuola, come tutti».

Non se omosessuali.

«Non solo omosessuali».

Figure importanti di quegli anni?

«Una professoressa d’italiano, tale Irma Traversa Coscia, donna fantastica, unghie curatissime e cervello fulminante. Le chiesi cosa potevo presentare di difforme alla maturità. Scegliemmo Alberto Moravia che avevo conosciuto attraverso Il conformista del parmense Bernardo Bertolucci. Non pago, aggiunsi L’uomo che si gioca il cielo a dadi, una canzone di Roberto Vecchioni».

Garzone di fruttivendolo, poi giornalista: cosa c’è in mezzo?

«Volevo dei soldi per i cavoli miei. Finii le medie facendo consegne della spesa per un verduraio, come i rider di oggi. Guadagnavo 500 lire ogni sabato che spendevo in cinema pizza e Coca cola. Come regalo per la terza media, anziché il Ciao chiesi a mia madre, complice con il figlio frocio come da copione, di andare al concerto di Mina a Parma. Fu un’apparizione, era il 1968».

La sua svolta?

«L’inizio di una devozione. Poi il destino generoso me la fece incontrare ancora. Nel 1981 eravamo nel suo ufficio per fondare il Mina fan club quando lei arrivò, pelliccia fino a terra e maglione nero: “Io prendo un cappuccino scuro, voi?”. Sparì, ma ci fece sapere che l’idea del fan club le piaceva. Noi ci esibivamo en travesti col nome di Le Pumitrozzole, crasi di puttane mignotte troie zoccole lesbiche. “Magari, d’ora in avanti quando mi chiamano mando voi”, buttò lì».

Invece?

«La ritrovai a fine anni Ottanta quando lavoravo per Rock Caffè di Rai2 e mi suggerirono di provinare Benedetta Mazzini, sua secondogenita. Arruolata, ma la madre sorvegliava, così ebbi l’occasione di frequentarla. Un’altra l’ho avuta per gli spot della Tim durante il Festival di Sanremo 2018».

Maurizio Costanzo dove l’ha scovata?

«Uscì un articoletto su Panorama sulla speaker di un piccolo network radiofonico di nome Platinette che faceva dell’esagerazione e dell’irriverenza la sua cifra. Mi fece chiamare per una serata del Costanzo show dedicata alle drag queen. Declinai. Ci riprovò per una puntata sulle patologie alimentari, argomento che conosco bene. Quando arrivò al Parioli e io ero seduto in platea prima del trucco chiese agli assistenti: “E quello chi è?”. Non poteva riconoscermi, ma da quella sera c’innamorammo».

Qualche giorno fa ha scatenato un putiferio dicendo che gli omosessuali hanno troppo spazio.

«Trovo che la lamentela continua delle associazioni Lgbt abbia poca ragione d’essere. Non si fa un film o un talent o un reality show senza una travestita o due omosex che litigano. Un’overdose. Un nuovo conformismo. Cristiano Malgioglio io so che è un grande autore, ma non sono sicuro che il pubblico colga. Nel pomeriggio di Rai1 Pierluigi Diaco conduce un programma sui buoni sentimenti, con la posta del cuore. Sembra di essere nel dopoguerra».

La sua è una critica di costume?

«Non solo. In Italia se non sei famiglia, compresa quella omosessuale, non sei niente. Non ce l’ho con chi si unisce civilmente, il rapporto codificato dalle leggi mi fa piacere. Ma così si uccide la singolarità, io sono famiglia di me stesso. Se esco con certi amici tradizionali o anche omosex mi annoio a morte. Parlano di figli, di carriere a Londra, portano una cena normale come prova di solidità del rapporto: “Era caldo, non sapevamo che fare, abbiamo tagliato un melone e cenato alle otto di sera”. Sì, e alle otto e dieci?».

Concorda con la sensazione che il Gay pride goda di stampa molto migliore di quella del Family day?

«Ammazza! Non c’è dubbio. Se dissenti sul Gay pride non hai cittadinanza. Eppure le conquiste sono state fatte, ci si può un po’ prendere in giro. Volevo affittare una decappottabile per sfilare come Lana Turner. Mi hanno detto di no perché l’auto inquina. Capisce? Ho ripiegato su un risciò, che è costato quasi più della decappottabile».

Si impegnerebbe senza se e senza ma sui matrimoni gay? Da uno a dieci...

«Quattro. Come i figli di Lorella Cuccarini…».

Sulla stepchild adoption.

«Zero, senza incertezze. Tiziano Ferro se ne faccia una ragione».

Sull’utero in affitto?

«Sottozero. È una forma orribile di sfruttamento delle donne. Ti presto il mio forno per cuocere le tigelle e poi le mangi tu. Dopo l’approvazione della legge Codice rosso per la violenza sulle donne voluta da Giulia Bongiorno non ho visto né sentito esultare le organizzazioni Lgbt: solo perché Bongiorno appartiene a uno schieramento diverso?».

Sul Me too?

«Uno. Guarda caso, si salvano tutti. Fausto Brizzi è tornato, persino Cristiano Ronaldo non sarà processato. Si vogliono moralizzare anche le donne che sono felici di concedersi per trarne un vantaggio. Perché le nostre attrici, bravissime per carità, erano tutte sposate a produttori cinematografici?».  

Sulla triptorelina, il farmaco che rallenta la pubertà per chi avverte disforia di genere.

«Zero anche qui. Ci fosse un ormone che ci permettesse di stare in bilico tutta la vita, quello servirebbe».

Nemmeno le unioni civili la convincono?

«Non mi convince il matrimonio come mutuo soccorso. L’assistenza, la successione, la reversibilità erano possibili anche prima, bastava andare dal notaio con 100 euro. Non m’interessano la metà del cielo e quelle cose lì. Anche Maria di Nazareth era sola… Nasciamo singolarmente, ma non si fa mai una legge per l’individuo».

Ha seguito la vicenda di Bibbiano?

«Poco. Non mi ha preso emotivamente, anche se mi rendo conto... Ciò che mi colpisce è che questi fatti avvengano a Reggio Emilia, città di partigiani e comunisti, governata a lungo da Graziano Delrio. Allora è vero che i comunisti mangiano i bambini».

Definisca Linus.

«C’è qualcosa da dire?».

Barbara D’Urso.

«L’unica che abbia sottomesso la volontà per ottenere dei risultati. Ho massima ammirazione, ma vorrei vederla applicata su altre tematiche, oltre alla difesa delle donne e dei gay».

Maria De Filippi.

«La donna che avrei voluto essere. Mai visto un copione, mai avuto tanta libertà come con lei. Una gratificazione riuscire a farla ridere fino a scapicollare».

Regista cinematografico preferito?

«George Cukor. Donne è un capolavoro assoluto: un film con tutte le star di Hollywood che parlano di uomini per tutto il tempo senza che se ne veda uno. Ex equo con Luchino Visconti ed Ernst Lubitsch».

E il cinema italiano? Ferzan Ozpetek, Luca Guadagnino, Gianni Amelio...

«Non lo seguo molto. Per carità, con Ozpetek e Amelio ho anche lavorato. Chiamami col tuo nome mi è parso retorico al confronto con Il giardino dei Finzi Contini o Rocco e i suoi fratelli».

Letture preferite?

«Le biografie. Non avendo una vita interessante, leggo quelle altrui. Aprirò una libreria di sole biografie».

Che cosa le manca di più oggi e in prospettiva futura?

«Un faro. Rifaccio il nome di Pannella per il tipo di visione costante rende la vita soddisfacente. Non ha mai nascosto il suo essere omosessuale, ma non ne ha mai fatto strumento di lotta se non al servizio del cittadino, come dimostrano le battaglie per l’aborto, il divorzio e l’eutanasia».

Alla fine si è avvicinato alla Chiesa.

«Sì, doveva fare i conti con qualcuno. Con la sua coscienza, credo; più che con il Dio dalla barba bianca».

UN'ESTATE AL MAURO. Stella Dibenedetto per il sussidiario il 19 giugno 2019. Mauro Coruzzi è l’ospite con cui Pierluigi Diaco chiude la settimana di Io e Te. Amici da anni, quella tra Mauro Coruzzi e il conduttore della trasmissione di Raiuno è una chiacchierata che parte dalla nuova fase della vita di Mauro. “Ho raggiunto la quota 100 e quindi sono in età pensionabile. Sto cominciando a capire cosa fare di questa fase della mia vita” – spiega Coruzzi. Il racconto della vita di Mauro parte da lontano, da quell’infanzia trascorsa dormendo in una stalla. “Eravamo in condizioni di povertà non dico assoluta, ma quasi”, spiega Mauro Coruzzi che, tornando al suo futuro, ammette di non voler lavorare per sempre – “non voglio fare la fine di quelli che lavorano fino all’ultimo giorno. Mi piacerebbe aprire una libreria a Parma con un amico in cui trovare solo le biografie dei grandi personaggi. Leggo la vita degli altri perchè la mia non è abbastanza interessante”. Quando si parla di Mauro Coruzzi non si può non pensare a Platinette, il personaggio con cui ha conquistato il successo e partecipato a tantissime trasmissioni televisive, ma perchè è nata Platinette? “La mia volontà, anche con il travestimento, è quella di contestare perchè la contestazione dovrebbe e potrebbe essere una materia da insegnare a scuola. Non si accetta il pensiero dominante solo perchè tale, ma perchè si è elaborato personalmente e personalmente può darsi che io abbia un’opinione su qualcosa, ad esempio le unioni civili che io non farei mai nella vita. Ma non perchè la reputi una sconvenienza, ma perchè non credo a questo tipo di necessità data dai documenti e da tutto il resto” – spiega Mauro Coruzzi che poi aggiunge – “non mi piace la lamentela del mondo omosessuale quando continua a dire che è vessato, emarginato… Non è più così: la visibilità degli omosessuali non è mai stata così alta come in questo momento e, a volte, se posso, fin troppo. Una persona non vale perchè ha una tendenza sessuale piuttosto che un’altra, ma perchè è una persona”. Mauro, poi, dichiara il suo amore per Mina e, infine, si commuove sulle note de “I migliori anni” di Renato Zero.

Roberta Gerboni per Velevetgossip.it il 19 giugno 2019. Per alcuni sono state troppo forti le dichiarazioni di Platinette nei conformi degli omosessuali e delle unioni civili. Ecco cosa ha detto. Platinette ospite a Io e Te, confessione sulla vita privata. Mauro Coruzzi in arte Platinette è stato ospite di Pierluigi Diaco nella trasmissione Io e Te. Un’intervista in cui il noto volto della televisione italiana si è lasciato andare a confessioni inedite sulla vita privata, a partire dall’infanzia difficile: Ho raggiunto la quota 100 e quindi sono in età pensionabile. Sto cominciando a capire cosa fare di questa fase della mia vita. Eravamo in condizioni di povertà non dico assoluta, ma quasi. Ma Platinette cerca di guardare anche al futuro e alla vecchiaia, su cui sta ancora facendo dei progetti: Non voglio fare la fine di quelli che lavorano fino all’ultimo giorno. Mi piacerebbe aprire una libreria a Parma con un amico in cui trovare solo le biografie dei grandi personaggi. Leggo la vita degli altri perché la mia non è abbastanza interessante.

Le dichiarazioni “critiche” sulle condizioni omosessuali. Platinette rappresenta il personaggio con cui Mauro Coruzzi ha conquistato il successo e con la partecipazione televisiva a molti programmi. Sul suo personaggio ha affermato: La mia volontà, anche con il travestimento, è quella di contestare perchè la contestazione dovrebbe e potrebbe essere una materia da insegnare a scuola. Non si accetta il pensiero dominante solo perchè tale, ma perchè si è elaborato personalmente e personalmente può darsi che io abbia un’opinione su qualcosa, ad esempio le unioni civili che io non farei mai nella vita. Ma non perchè la reputi una sconvenienza, ma perchè non credo a questo tipo di necessità data dai documenti e da tutto il resto. Sul mondo degli omosessuali Platinette ha continuato a dedicare parte del suo tempo con queste affermazioni che probabilmente molti non hanno preso bene: Non mi piace la lamentela del mondo omosessuale quando continua a dire che è vessato, emarginato. Non è più così. La visibilità degli omosessuali non è mai stata così alta come in questo momento e, a volte, se posso, fin troppo. Una persona non vale perchè ha una tendenza sessuale piuttosto che un’altra, ma perchè è una persona.

Maurizio Caverzan per ''la Verità'' il 29 luglio 2019. Nella sede di Rtl 102.5 a Cologno monzese fervono i preparativi per il trasferimento a Villasimius in Sardegna, da dove l' emittente trasmetterà fino a fine agosto. «Io invece, mi trasferisco a casa mia a Parma», confida ironico Mauro Coruzzi, in arte Platinette. «Devo rimettermi in sesto per poter dare una mano a una persona cara che ha bisogno di me». Il tempo a disposizione non è molto, alle 17 incombe Password, il programma che conduce con Nicoletta De Ponti.

Dalla mise, l' intervista è a Mauro Coruzzi.

«Se per lei ha importanza è un conformismo anche questo».

Mauro sta chiedendo più spazio?

«No. Credo sia un work in progress, come direbbero quelli che parlano bene. Non amo seguire regole neanche nell' abbigliamento o altre che indicano qualche segretario di partito o a qualche televisivo.

Neanche a scuola le seguivo».

Coruzzi frequenta la radio e Platinette, più telegenica, la tv?

«No. Platinette è un riciclaggio di me stesso e di modelli altrui, da Mae West a Mina, splendida ragazza madre nell' Italia dei Sessanta. Cerco il difforme, non il conforme. Platinette è una travestita, ma se la trova certe notti nella bassa padana non la riconosce. Mauro è un ragazzo obeso, con una testa che lavora più del corpo e tanta voglia di migliorare il suo aspetto».

Tra i due c' è intesa?

«Una felice collaborazione, come quella che ci fu tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini quando fecero la legge contro l' omofobia. La dobbiamo a loro, non agli illuminati di sinistra, tipo Franco Grillini dell' Arci o Vladimir Luxuria, che ha approfittato dell' anno in Parlamento per rifarsi le tette. Personalmente ho speso un patrimonio in questa battaglia, solo la tessera radicale costava 600 euro. Ma c' era Marco Pannella».

Marco Pannella.

«Quando andò ad Arcore ebbi un orgasmo. Speravo nella fusione tra la sua creatività e lo spirito liberale di Berlusconi. Non trovo che il sistema delle cooperative abbia migliorato la convivenza civile. Purtroppo, l'avvicinamento tra i due non ha avuto seguito. E il mio spirito liberale e libertario è rimasto orfano pur avendo i genitori».

Ricominciamo da quelli veri.

«Contadini inurbati da Langhirano a Parma, sperando in un miglioramento. Mia madre era operaia in una fabbrica di conserve di pomodoro, mio padre muratore. Non conoscevano l' italiano, la sera guardavano Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi per imparare qualcosa».

Infanzia e adolescenza in povertà.

«Avevo intuito che la cosiddetta cultura, senza la k degli anni Settanta, poteva essere d' aiuto. Alle magistrali ero un inguaribile secchione che però partecipava alle occupazioni, al Movimento studentesco e tutto il resto. Studiavo perché mi piaceva, e mi piace tuttora».

Amici?

«Amori in classe, nella scuola, come tutti».

Non se omosessuali.

«Non solo omosessuali».

Figure importanti di quegli anni?

«Una professoressa d'italiano, tale Irma Traversa Coscia, donna fantastica, unghie curatissime e cervello fulminante. Le chiesi cosa potevo presentare di difforme alla maturità. Scegliemmo Alberto Moravia che avevo conosciuto attraverso Il conformista del parmense Bernardo Bertolucci. Non pago, aggiunsi L' uomo che si gioca il cielo a dadi, una canzone di Roberto Vecchioni».

Garzone di fruttivendolo, poi giornalista: cosa c' è in mezzo?

«Volevo dei soldi per i cavoli miei. Finii le medie facendo consegne della spesa per un verduraio, come i rider di oggi.

Guadagnavo 500 lire ogni sabato che spendevo in cinema pizza e Coca cola. Come regalo per la terza media, anziché il Ciao chiesi a mia madre, complice con il figlio frocio come da copione, di andare al concerto di Mina a Parma. Fu un' apparizione, era il 1968».

La sua svolta?

«L' inizio di una devozione. Poi il destino generoso me la fece incontrare ancora. Nel 1981 eravamo nel suo ufficio per fondare il Mina fan club quando lei arrivò, pelliccia fino a terra e maglione nero: "Io prendo un cappuccino scuro, voi?". Sparì, ma ci fece sapere che l' idea del fan club le piaceva. Noi ci esibivamo en travesti col nome di Le Pumitrozzole, crasi di puttane mignotte troie zoccole lesbiche. "Magari, d' ora in avanti quando mi chiamano mando voi", buttò lì».

Invece?

«La ritrovai a fine anni Ottanta quando lavoravo per Rock Caffè di Rai2 e mi suggerirono di provinare Benedetta Mazzini, sua secondogenita.

Arruolata, ma la madre sorvegliava, così ebbi l' occasione di frequentarla. Un' altra l'ho avuta per gli spot della Tim durante il Festival di Sanremo 2018».

Maurizio Costanzo dove l' ha scovata?

«Uscì un articoletto su Panorama sulla speaker di un piccolo network radiofonico di nome Platinette che faceva dell' esagerazione e dell' irriverenza la sua cifra. Mi fece chiamare per una serata del Costanzo show dedicata alle drag queen. Declinai. Ci riprovò per una puntata sulle patologie alimentari, argomento che conosco bene. Quando arrivò al Parioli e io ero seduto in platea prima del trucco chiese agli assistenti: "E quello chi è?". Non poteva riconoscermi, ma da quella sera c' innamorammo».

Qualche giorno fa ha scatenato un putiferio dicendo che gli omosessuali hanno troppo spazio.

«Trovo che la lamentela continua delle associazioni Lgbt abbia poca ragione d' essere. Non si fa un film o un talent o un reality show senza una travestita o due omosex che litigano. Un' overdose. Un nuovo conformismo. Cristiano Malgioglio io so che è un grande autore, ma non sono sicuro che il pubblico colga. Nel pomeriggio di Rai 1 Pierluigi Diaco conduce un programma sui buoni sentimenti, con la posta del cuore. Sembra di essere nel dopoguerra».

La sua è una critica di costume?

«Non solo. In Italia se non sei famiglia, compresa quella omosessuale, non sei niente. Non ce l' ho con chi si unisce civilmente, il rapporto codificato dalle leggi mi fa piacere. Ma così si uccide la singolarità, io sono famiglia di me stesso. Se esco con certi amici tradizionali o anche omosex mi annoio a morte. Parlano di figli, di carriere a Londra, portano una cena normale come prova di solidità del rapporto: "Era caldo, non sapevamo che fare, abbiamo tagliato un melone e cenato alle 8 di sera". Sì, e alle 8 e 10?».

Concorda con la sensazione che il Gay pride goda di stampa molto migliore di quella del Family day?

«Ammazza! Non c'è dubbio. Se dissenti sul Gay pride non hai cittadinanza. Eppure le conquiste sono state fatte, ci si può un po' prendere in giro. Volevo affittare una decapottabile per sfilare come Lana Turner. Mi hanno detto di no perché l' auto inquina. Capisce? Ho ripiegato su un risciò, che è costato quasi più della decapottabile».

Si impegnerebbe senza se e senza ma sui matrimoni gay? Da uno a dieci...

«Quattro. Come i figli di Lorella Cuccarini».

Sulla stepchild adoption.

«Zero, senza incertezze. Tiziano Ferro se ne faccia una ragione».

Sull' utero in affitto?

«Sottozero. È una forma orribile di sfruttamento delle donne. Ti presto il mio forno per cuocere le tigelle e poi le mangi tu. Dopo l' approvazione della legge Codice rosso per la violenza sulle donne voluta da Giulia Bongiorno non ho visto né sentito esultare le organizzazioni Lgbt: solo perché Bongiorno appartiene a uno schieramento diverso?».

Sul Me too?

«Uno. Guarda caso, si salvano tutti. Fausto Brizzi è tornato, persino Cristiano Ronaldo non sarà processato. Si vogliono moralizzare anche le donne che sono felici di concedersi per trarne un vantaggio. Perché le nostre attrici, bravissime per carità, erano tutte sposate a produttori cinematografici?».

Sulla triptorelina, il farmaco che rallenta la pubertà per chi avverte disforia di genere.

«Zero anche qui. Ci fosse un ormone che ci permettesse di stare in bilico tutta la vita, quello servirebbe».

Nemmeno le unioni civili la convincono?

«Non mi convince il matrimonio come mutuo soccorso.

L' assistenza, la successione, la reversibilità erano possibili anche prima, bastava andare dal notaio con 100 euro. Non m' interessano la metà del cielo e quelle cose lì. Anche Maria di Nazareth era sola. Nasciamo singolarmente, ma non si fa mai una legge per l' individuo».

Ha seguito la vicenda di Bibbiano?

«Poco. Non mi ha preso emotivamente, anche se mi rendo conto... Ciò che mi colpisce è che questi fatti avvengano a Reggio Emilia, città di partigiani e comunisti, governata a lungo da Graziano Delrio. Allora è vero che i comunisti mangiano i bambini».

Definisca Linus.

«C' è qualcosa da dire?».

Barbara D' Urso.

«L' unica che abbia sottomesso la volontà per ottenere dei risultati. Ho massima ammirazione, ma vorrei vederla applicata su altre tematiche, oltre alla difesa delle donne e dei gay».

Maria De Filippi.

«La donna che avrei voluto essere. Mai visto un copione, mai avuto tanta libertà come con lei. Una gratificazione riuscire a farla ridere fino a scapicollare».

Regista cinematografico preferito?

«George Cukor. Donne è un capolavoro assoluto: un film con tutte le star di Hollywood che parlano di uomini per tutto il tempo senza che se ne veda uno. Ex aequo con Luchino Visconti ed Ernst Lubitsch».

E il cinema italiano? Ferzan Ozpetek, Luca Guadagnino, Gianni Amelio...

«Non lo seguo molto. Per carità, con Ozpetek e Amelio ho anche lavorato. Chiamami col tuo nome mi è parso retorico al confronto con Il giardino dei Finzi Contini o Rocco e i suoi fratelli».

Letture preferite?

«Le biografie. Non avendo una vita interessante, leggo quelle altrui. Aprirò una libreria di sole biografie».

Che cosa le manca di più oggi e in prospettiva futura?

«Un faro. Rifaccio il nome di Pannella per il tipo di visione costante rende la vita soddisfacente. Non ha mai nascosto il suo essere omosessuale, ma non ne ha mai fatto strumento di lotta se non al servizio del cittadino, come dimostrano le battaglie per l' aborto, il divorzio e l' eutanasia».

Alla fine si è avvicinato alla Chiesa.

«Sì, doveva fare i conti con qualcuno. Con la sua coscienza, credo; più che con il Dio dalla barba bianca».

·         Guillermo Mariotto: “una gran mignotta”.

GUILLERMO MARIOTTO: “SONO STATO UNA GRAN MIGNOTTA. Alessio Poeta per Gay.It il 4 maggio 2019. Faccia da bravo ragazzo, sorriso malizioso, look da santone, sangue metà venezuelano, metà veneziano e una passione sfrenata per la libertà. «A 53 anni ho finalmente raggiunto un equilibrio dei sensi» racconta a Gay.It, tra il serio e il faceto, Guillermo Mariotto, direttore creativo della maison Gattinoni e giurato del fortunato programma di Raiuno Ballando con le Stelle. «Oggi so perfettamente cosa voglio, ma anche cosa non mi fa stare bene, e questo mi rende sereno e felice con me stesso.»

Quindi non se ne sta solo soletto, perché in passato, per sua stessa ammissione, è stato un gran puttaniere?

«(ride, ndr) Oramai potrei vivere di ricordi. Scherzi a parte, da quando mi relaziono con lo Spirito Santo, non ho più bisogno di nulla. Sono il primo a rimanere sbigottito da questo mio periodo lontano da passioni conturbanti, ma sono seriamente appagato da altro. Alla mia tenera età ho capito che il sesso ruba tempo, spazio ed energie. Era diventato una vera e propria droga: finito l’effetto, dovevo procacciarmelo di nuovo».

Non le manca?

«No, perché l’evoluzione personale non può passare solo da una scopata fine a se stessa. Finito il momento di piacere cosa rimane? Nulla!»

Questa svolta spirituale quando è arrivata, Mariotto?

«C’è sempre stata, ma va e viene. Solo ora ho capito che attraverso il sacrificio raggiungo la serenità. Lo so, è un intreccio strano, ma bisogna saper leggere tra le righe per capirlo. Una volta credevo che il sacrificio fosse una grandissima rottura di palle, mentre oggi non potrei più farne a meno».

Mi dica cosa la rende felice.

«L’assistenza agli altri. Sono diventato un Camilliano Laico. Assisto i malati, non dal punto di vista pratico e medico, ma da quello spirituale. All’Ospedale Sant’Andrea di Roma ho incontrato Sofia:  una bambina speciale con diversi problemi alla schiena. Lei è una fan di Ballando con le Stelle e quando mi vede è così felice che piange. Chi altro potrà mai darmi gioia più grande?»

Nessuno.

«Appunto, nemmeno un uomo o una donna».

Lei, per amor di battuta, è più da bosco o da riviera?

«Mi disturbano tutte le etichette, ma sono gay. Non ho mai avuto segreti, né tantomeno tabù».

Che infanzia ha avuto?

«Un’infanzia strana. Un ricordo? La mia stanza da letto. Stanza dove mi rinchiudevo per paura di essere scoperto, visto che in Venezuela c’era una corrente a dir poco machista. Era una paura infondata la mia. Al contrario di molti, non ero femminile e non sono mai stato attratto da trucchi, tacchi a spillo e parrucche, e le dirò di più: mi sentivo piuttosto strano perché immaginavo che i gay fossero solo quello. Ad illuminarmi, involontariamente, fu mio padre quando portò a casa una rivista dove in copertina c’erano due uomini, molto maschili, che si baciavano. Li capii che non ero così strano».

L’adolescenza?

«A soli 16 anni andai via da Caracas per raggiungere San Francisco: capitale, allora, del divertimento e, soprattutto della libertà. Parliamo della fine degli anni ’70. Un periodo storico fatto di macho man e Village People. Pensi che ebbi anche una tresca con il cowboy del gruppo. Anni d’oro. Non c’era nemmeno l’AIDS».

L’ha conosciuto da vicino?

«Non personalmente, per fortuna, ma ho perso tantissimi amici. Sia lì, che in Italia».

La sua famiglia, allora?

«Non ha mai saputo nulla. Sono fuggito presto. Ero un bambino sveglio e precoce, tanto che a 16 anni avevo già fatto la maturità. Moltissimi anni dopo, mia madre, dal nulla, mi disse: “Hai fatto sempre le scelte giuste”. Una medaglia d’oro sul mio petto».

Il suo più grande amore qual è stato?

«Non faccio nomi e cognomi. Quando si tratta di me, sono un libro aperto, quando si tratta degli altri, ho rispetto.

E io che pensavo mi rispondesse: la moda.

«Ah, allora scriva pure lo Spirito Santo. Sarò stato pure una gran mignotta, bonariamente parlando, ma guai a toccarmi la fede».

Nella sua ultima collezione è pieno di serpenti. Un simbolo più profano, che sacro..

«Sbaglia! Il serpente è il simbolo dell’eternità. Dell’infinito. Banalmente viene visto come un animale cattivo, ma esotericamente è molto importante».

Come è arrivato in Italia?

«Studiavo disegno industriale e per fare un dispetto ad un fidanzato di allora, accettai uno stage a Roma. Più che un viaggio mi sembrò un salto nel tempo. In Italia sembrava di essere nel Medioevo, ma l’arte mi conquistò talmente tanto che, da allora, non me ne sono più andato».

A breve, in Italia, ripartirà l’Onda Pride. Scenderà in piazza per manifestare per i diritti lgbt?

«Non scenderò in piazza perché io manifesto tutti i giorni: sia in Tv, che in società. E sa come lo faccio? Apparendo per quello che sono. Dimostrando la mia professionalità e il mio cuore, e facendo capire ai più che non c’è nessuna differenza tra me e un eterosessuale. Tra poco riceverò la ‘Stella d’Italia’, un’onorificenza molto importante che confermerà il percorso della mia vita, e questa sarà una grande vittoria per me, ma anche per tutta la comunità lgbt».

Sì, ma non tergiversi. Il Gay Pride, come manifestazione, le piace?

«Non mi dispiace, ma ho un concetto di manifestazione tutto mio. Non giudico chi lo fa, chi ci va, chi ci crede e chi pensa che sia producente».

Cerchiobbottista.

«Nonostante il mio ruolo a Ballando con le Stelle, nella vita di tutti i giorni non giudico nessuno. I gay, se posso fare un appunto, come tanti altri gruppi, commettono un solo errore: la ghettizzazione. E la ghettizzazione genera distacco, separazione, e io, piuttosto che allontanare, preferisco unire».

L’idea di unirsi civilmente le è mai passata per la testa?

«Non sia mai! Ho a che fare tutti i giorni con le nevrosi delle spose e delle loro famiglie, che non mi sposerei per nulla al mondo. Lo farei solo in quanto ammortizzatore sociale, ma per il resto: no, grazie».

E quella di diventare padre?

«La verità? No! Ho già fatto da padre ai miei fratelli più piccoli e quell’esperienza mi è bastata. Vengo da una famiglia di donne diventate madri, tutte, molto giovani. Le dico solo che la mia bisnonna era già nonna a 29 anni, e rimasi traumatizzato dal vederla distrutta quando morì mia nonna. Tra una lacrima e l’altra, sulla bara, urlava: “la mia bambina”. Rientrato a casa da quel funerale promisi a me stesso che non avrei mai provato quel dolore».

Crede che due persone dello stesso sesso possano essere bravi genitori?

«Sì. All’estero ne ho visti tanti di bambini, felici e sereni, nati da coppie omosessuali. La sessualità dei genitori, con l’educazione e l’amore, c’entra ben poco».

Andiamo al sodo: lei, con il mondo gay, non è che vada proprio a braccetto. Lo scorso anno, a Ballando con le Stelle, con la coppia Ciacci-Todaro ci andò giù pesante.

«Cazzate. È televisione! Ivan Zazzaroni crollò, per i tanti attacchi esterni, e io fui costretto, per amor dello spettacolo, ad accendere gli animi. Niente di scritto, né tantomeno richiesto da qualcuno, ma non se ne poteva più. Canino si alzava in piedi, la Lucarelli saltava il turno perché icona gay e la Smith giudicava solo il ballo».

Lei è dal 2005 che fa il giurato nel programma di Milly Carlucci. Dica la verità: non si è stufato?

«No, assolutamente. Io lì mi diverto tantissimo e poi a Ballando ho la possibilità di esercitare la mia naturale propensione alla critica. Accettai di partecipare, ben 14 anni fa, perché dovevano essere quattro puntate e invece, come canta qualcuno: “Siamo ancora qua!”. Quando Milly Carlucci mi cercò per la primissima edizione non avevo capito niente, tanto che mi presentai al colloquio con le stampelle, perché mi sarebbe dispiaciuto dirle di no. Invece, lei, mi cercava per fare il giurato. Lanciai le stampelle e le dissi: “Sono pronto.”»

Chi vincerà questa edizione, Mariotto?

«Mi creda: non ne ho idea. Il pubblico, così come la giuria, è sempre imprevedibile».

Nel programma, lei, è notoriamente spietato, ma quando Milly la guarda, lei si placa.

«Trova? Tra noi c’è molta complicità. Il volume dei pensieri lo decidiamo con uno sguardo. È una professionista e conosce perfettamente l’animo del suo pubblico. Ad ogni modo, io non sono spietato, più semplicemente non sono buonista».

Ballando, quest’anno, sta andando benissimo. Merito di un cast interessante o di una concorrenza affannata?

«Mai come quest’anno c’è una spiritualità interessante nel nostro studio che, a quanto pare, arriva e funziona. I miei colleghi non credo se ne siano nemmeno accorti, ma il fatto che andiamo molto d’accordo la dice lunga».

Non andavate d’accordo?

«Poco e niente, quest’anno, invece, c’è una piacevole armonia. Oggi provo uno strano affetto per tutti loro».

Nessuna rivalità, quindi, con Fabio Canino?

«Scherza? Lui è un democristiano doc, io no!»

Gli altri?

«Quest’anno sono arrivato a supportare le idee della Smith, a condividere l’ironia da bar sport di Zazzaroni e ad apprezzare il coraggio di Selvaggia. Un coraggio a dir poco commovente.

Di tutti i giurati che ha avuto vicino, chi ricorda con minor piacere?

«Con minor piacere, nessuno. Ricordo con piacere Lamberto Sposini, lui il giorno, io la notte, e Amanda Lear. Fu proprio lei ad insegnarmi a stare in tv. Mi disse: “Per andare bene in tv bisogna guardare sempre dalla parte opposta.” E aveva ragione».

·         Malgioglio intervista Cristiano.

MALGIOGLIO INTERVISTA CRISTIANO. Da Il Fatto Quotidiano il 28 maggio 2019. Divertissement di primavera: Cristiano Malgioglio intervista se stesso perché, dice, “ho fatto centinaia di interviste in vita mia, quello che mi manca è averne una dove mi fanno domande che non mi hanno mai fatto”. Cristiano è appena arrivato, trafelato e felice come una cinciallegra, da Istanbul, con una borsa piena di libri che mi fa vedere. Di questi, due mi colpiscono molto: Donne che amano troppo e Incesto di Anaïs Nin. La sua casa è tutta bianca come il latte d’asina, con qualche coloratissimo quadro che Cristiano si fa dipingere da un pittore di Cuba, dove lui è di casa, e dove è considerato una vera e propria star esotica, come Carmen Miranda. Mi fa accomodare in cucina, non in salotto, “perché”, mi dice, “la signora non c’è e non voglio mettere tutto a soqquadro. Vieni che mi preparo qualcosa da mangiare”. Dal frigo escono due fette di fesa di tacchino. Lui le mette su un piatto, aggiunge olio e limone, origano e curcuma. Mi chiede se ne voglio un po’, e io: “No, grazie, sono allergico”. Mentre spilucca, mi parla di Istanbul che ama moltissimo. Non appena può raggiunge i tanti amici che ha là, per immergersi nell’esplosione di colori e nei profumi delle spezie, che stordiscono e fanno innamorare. Mi racconta che adora andare ai mercatini dove ci sono sempre tanti italiani che gli fanno le feste, e non solo loro. Poi mi guarda negli occhi e mi chiede: “Che cosa vuoi che ti racconti?”.

Malgioglio: Qual è la domanda che non ti hanno mai fatto?

Cristiano: Sei felice?

M:Sei felice?

C:Sono un uomo soddisfatto della vita. Mi amo molto, mi curo molto, mi piaccio molto, ma mi preferisco al mattino appena sveglio, quando mi guardo allo specchio. Mi vedo bello anche senza fondotinta, senza cipria e senza ombretto sugli occhi. Trovo che la mia pelle sia molto burrosa, come quella di Monica Bellucci o Sharon Stone.

M:In questo momento sta avendo grande successo la tua Dolceamaro, featuring Barbara d’Urso, ballatissima nelle discoteche, e tuo terzo successo discografico consecutivo dopo Mi sono innamorato di tuo marito e Danzando danzando. Che effetto ti fa essere sempre sulla cresta dell’onda?

C:Nella musica vincono sempre le idee; il mondo musicale non è fatto soltanto di rapper. Ci vogliono anche le canzoni spensierate, con i ritornelli facili facili. Non dobbiamo avere paura di sfigurare tra i giovani. Noi spesso abbiamo più forza, più carattere, più esperienza.

M:(Mentre stiamo parlando, squilla il telefono, Cristiano guarda il numero e butta giù). Come mai hai buttato giù?

C:Non ho voglia di parlarne. Degli amori deve rimanere il numero di telefono e basta; è inutile bloccare, perché chiunque può entrare nel tuo Instagram da un altro numero di telefono.

M:In questo periodo sei impegnato al Grande Fratello, e si fa un gran parlare dei tuoi abiti, sempre originali, eccentrici, unici. Chi è lo stilista?

C:Un giovane stilista giapponese mio grande ammiratore. Non ha mai fatto una sfilata, è alle prime armi, ma secondo me farà molta strada.

M:Il vestito più bello?

C:Sono tutti straordinari. Il più bello sarà quello dell’ultima puntata.

M:Tu che hai lavorato con tante persone, ci confidi com’è Barbara d’Urso dietro le quinte?

C:Con Barbara basta uno sguardo e ci capiamo al volo. È una grandissima professionista, ma è anche calda, coinvolgente, empatica. Trovo che sia una delle migliori in circolazione.

M:Ti piace questo Grande Fratello?

C:Ci sono tanti colpi di scena. Alcune persone non le avrei fatte entrare. Altre sono straordinarie.

M:Fai il tifo per qualcuno?

C:Per due concorrenti, ma non posso fare i nomi, però posso dire che sono i più educati: un ragazzo e una ragazza.

M:La tua litigata con Francesca De Andrè è diventata virale.

C:Non ho niente da aggiungere, è meglio chiudere qui il discorso.

M:Guardi tanta televisione?

C:Poca: Striscia la notizia, Le Iene, i programmi di Alberto Angela e quelli di Costanzo.

M:Fra le giovani chi ti piace?

C:Silvia Toffanin, perché è elegante, ti lascia parlare ed è molto generosa, e Francesca Fialdini, professionale e rilassata.

M:Quali sono i cantanti della tua vita?

C:Tony Bennett in assoluto, e poi Diana Ross. Fra le giovani, Lady Gaga e Beyoncé, anche se più di tutti amo Riccardo Cocciante, perché lo trovo molto intenso.

M:Perché ti piace Dusty Springfield?

C:Con la sua voce qualcuno è riuscito a farmi innamorare. Era un marinaio americano dell’Oklahoma con cui ho avuto una storia. Ci siamo conosciuti a Genova, dov’era arrivato con la sua nave. Era un grande ammiratore di Dusty Springfield e me l’ha fatta amare molto. Con lui ho imparato a baciare, perché prima baciavo con la bocca chiusa. Quando poi si è sposato, ha voluto chiamare suo figlio Cristiano junior.

M:Perché Boy George ti chiama “l’Anna Magnani della canzone”?

C:Lo dovresti chiedere a lui. Magari mi chiama così perché il mio cognome per lui forse è difficile da pronunciare.

M:Dato che sei sempre sintonizzato su Al Jazeera, hai imparato l’arabo?

C:So dire soltanto “Ti amo”, “Habibi”. Quando non capisco qualcosa, chiedo alla mia signora, che è egiziana, e lei mi spiega.

M:Hai un portafortuna?

C:Una scarpa rossa con tacco 16. Me la porto ovunque, e quando mi fermano alla dogana e mi aprono la valigia per i controlli mi guardano, si mettono a ridere e mi chiedono: “Dov’è l’altra?”. Una volta me l’hanno sequestrata. Per fortuna a casa ho sempre quella di ricambio.

M:Quali sono i tuoi progetti?

C:Nessuno, ho esaurito i miei sogni. Anzi, forse ne ho ancora qualcuno, ma non te lo dirò, come non ti dirò dove ho tatuato qualcosa di molto speciale sul mio corpo.

Valerio Palmieri per “Chi” il 29 ottobre 2019. Ho provato a fare la sua camminata sexy, quella che fa girare gli uomini, perché volevo sentirmi lei, volevo essere Monica Bellucci in Malena». Siamo sul set del nuovo video di Cristiano Malgioglio, in Sicilia, a Marina di Modica, nei luoghi dove Giuseppe Tornatore ha girato Malena. «Ho pregato un amico comune di chiedere a Monica (Bellucci, ndr) se poteva fare una piccola apparizione, ma lei ha risposto: “Come faccio a tornare indietro di 20 anni? Però Malgioglio è un genio se ha il coraggio di fare questa cosa”. E io certo che ce l’ho il coraggio, se Madonna si è vestita come Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde, allora anche Cristiano Malgioglio può vestirsi come Monica Bellucci». Cristiano Malgioglio è un personaggio più complesso di quanto non si pensi, uno che tiene lontana la malinconia con i suoi lampi creativi e che “addolcisce” i suoi racconti con un candore che esclude ogni forma di malizia. «Quello che dico è tutto vero, come fate a dubitare? Vivo nel mondo dello spettacolo da più di 40 anni, ho lavorato con i più grandi, e adoro viaggiare, e viaggiare è un modo per fare incontri interessanti».

Domanda. Non ci ha ancora detto come si intitola la canzone del video.

Risposta. «Sono indeciso fra Poquito poquito e Notte perfetta, lei cosa dice? Perché è un brano in italiano, spagnolo e inglese, è un brano che parte da Cuba, da questo autore famosissimo che ha scritto la musica perché è un mio grande fan e io ci ho messo le parole».

D. Come mai è tornato a cantare?

R. «È stato il mio grande tormento perché ascoltavo canzoni brutte e voci orrende che riuscivano a entrare nelle radio e uno come me, invece, veniva considerato vecchio dai discografici che preferivano sfruttare i ragazzi dei talent. Qualche anno fa sono andato da Lorenzo Suraci (patron di Rtl 102.5 e dell’etichetta discografica Baraonda, ndr) e gli ho fatto sentire Mi sono innamorato di tuo marito. Da lì è ricominciato tutto, per questo lo devo ringraziare».

D. In questo video vorrebbe essere Monica Bellucci, ma per quale donna, ipoteticamente, farebbe una follia?

R. «La follia la farei per Jennifer Lopez, ho anche tatuato il suo nome sulla gamba (ci mostra il tatuaggio con la firma di J.Lo, ndr). Ma trovo la Bellucci sensualissima, una vera diva. Una volta ho intervistato Jennifer Aniston e Toni Collette che, parlando di attrici italiane, mi hanno detto: “La Bellucci? Sì, è bella”. “Certo”, ho pensato, “rispetto a voi è una dea!”. E comunque ho sognato che vincerà un Oscar».

D. E fra gli uomini, per chi farebbe una follia?

R. «Per Channing Tatum, l’uomo più bello del mondo, per lui potrei essere la sua serva, la sua schiava, la sua badante, quando lo vedo mi fa ribollire il sangue, questo è l’uomo che avrei voluto un giorno trovare nella mia vita».

D. È vero che ha un amore in Turchia? Proprio in questo momento?

R. «Si prendono sbandate continue (ride, ndr), lo vedo quando vado a Istanbul, ma non è una storia da matrimonio. L’ho conosciuto in Germania, sa come è successo? Ero in un negozio di scarpe, ho notato un ragazzo che mi guardava e, allora, gli ho chiesto l’indicazione di una moschea. Mi ha voluto accompagnare personalmente».

D. Lei è come Raffaella Carrà, ha lanciato dei look, chi l’ha copiata?

R. «Fin da ragazzo sono sempre stato avanti di 20 anni, oggi mi dicono, perché non sono io a dirlo, che le mie vestaglie hanno ispirato Jovanotti e anche Ghali. Su Ghali posso dire che ha avuto una bella idea a copiare l’inizio di Mi sono innamorato di tuo marito in una sua canzone, mi fa piacere».

D. Una star che le ha fatto piacere conoscere?

R. «Cher, la conobbi grazie a un’amica comune, Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz. Una volta l’ho intervistata per Isoradio e, quando è venuta in Italia a Domenica in, davanti alla stampa di tutto il mondo, la prima cosa che Cher ha detto è stata: “Where is Cristiano?”».

D. Per due volte nella sua vita è stato sfiorato dalla depressione, come ha fatto a uscirne?

R. «Senza medicine, ma con la musica. Sono una persona allegra e spensierata, non potevo essere colpito dalla depressione. Se sono triste mi metto un paio di scarpe con il tacco, indosso una vestaglia, metto su una canzone di Celia Cruz e incomincio a ballare da solo».

D. Ha paura del tempo che passa?

R. «Non ho tempo di pensarci, più invecchio e più divento bello, quando sono in crisi prendo e vado all’estero. L’unica seccatura è quando compio gli anni e tutti mi fanno gli auguri perché io non ricordo mai le date degli altri, ma ringrazio sempre Dio per avermi dato un anno di più».

D. Il suo look è anche una maschera?

R. «No, è che io non sono come gli altri che devono fingere una normalità che non gli appartiene, io sono così sempre».

D. Iva Zanicchi, proprio su “Chi”, la accusa affettuosamente di ringraziare sempre Mina ma di non ringraziare mai lei, che ha cantato 100 brani suoi.

R. «Dica anche 150, ma la differenza è che per Mina ho scritto L’importante è finire e Mina l’ha cantata sempre, mentre per Iva ho scritto Ciao cara come stai? con cui ha vinto Sanremo, ma lei non l’ha mai cantata, forse perché le sembrava un titolo lesbo, invece in Sudamerica ha avuto un grandissimo successo».

D. Si sente ancora con Mina?

R. «L’ultimo brano che ho scritto per lei è di qualche anno fa, Carne viva, ma poi ha preferito rivolgersi ad altri autori. Ma poi scusi, devo stare qui a fare pubblicità a Mina?».

D. È vero che ha scritto un brano per Al Bano e Romina, per il loro ritorno a Sanremo?

R. «Ho scritto questa canzone, esiste, è vero, ed è per loro, pensi che bello se 30 anni dopo Felicità tornassero insieme a cantare una mia canzone, sarebbe straordinario».

D. I maligni dicono che la canzone inizialmente fosse per Mina.

R. «No, assolutamente, è una canzone a due voci. Però è vero che, quando presentavo una mia canzone alla Vanoni o alla Zanicchi, mi dicevano: “Cos’è, uno scarto di Mina?”. E alcune volte lo era veramente (ride, ndr)».

D. Gioco della torre: chi butterebbe giù fra Chiambretti e la D’Urso?

R. «Nessuno, Piero mi ha cambiato pelle e mi ha fatto fare cose che avevo sempre sognato di fare, ha costruito su di me performance che nessuno avrebbe fatto, per lui farei anche la ballerina di lap dance. Barbara è una donna straordinaria, che sa sempre ottenere il massimo dalle persone, ha grande istinto, e poi ama giocare ed essere autoironica: la nostra versione di Dolceamaro è stato il vero tormentone dell’estate».

D. Fra Mina e Iva Zanicchi?

R. «La Zanicchi perché, se sotto c’è il mare, lei sa nuotare».

D. Fra Mara Venier e Simona Ventura?

R. «Piuttosto mi butto io! Amo molto Mara e devo il mio rientro in tv a Simona Ventura, le terrei vicino a me a vedere l’orizzonte. E poi le dirò altre due donne che amo molto: Silvia Toffanin e Paola Perego, che hanno una grazia unica e ti fanno sentire il loro affetto anche nei pochi momenti di un’intervista. Così come mi piacerebbe lavorare un giorno con Maria De Filippi, è l’unica delle grandi con cui non ho mai lavorato».

D. Insomma, da questa torre non butta proprio nessuno.

R. «Butterei tutti i discografici che mi vedevano solo come autore e che mi hanno girato le spalle . Ma non sto male per quello, come vede il tempo cambia le cose: mi sento un personaggio all'avanguardia e, soprattutto, molti di quelli che prima non mi volevano adesso mi vogliono. E non sono cambiato io".

·         Comanda Vladimir Luxuria.

"IL BACIO CON ASIA ARGENTO? SUI SOCIAL SI E' SCATENATO L'INFERNO…” Da I Lunatici Radio2 il 12 giugno 2019. Vladimir Luxuria è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Luxuria ha parlato del pride che si è svolto a Roma sabato e delle differenze di clima e contenuti rispetto al primo che si svolse venticinque anni fa: "Rispetto al primo pride del 94 cosa è cambiato? Non c'erano i carri, non c'era la musica, non c'erano i testimonial, perché i personaggi famosi si facevano un sacco di paranoie a mischiare la propria immagine con le battaglie dei diritti civili per gli omosessuali. Nel 94 andai in un ristorante a prendere Ricky Tognazzi e Simona Izzo, stavano mangiando all'aperto, li vidi, mi avvicinai e gli chiesi, visto che ci mancava un personaggio famoso, se avessero voluto fare un discorso. Loro furono favolosi, si alzarono dal tavolo, ci raggiunsero sul palco e fecero un discorso bellissimo. Oggi è diverso, c'è l'onda pride, i pride si svolgono anche in provincia e coinvolgono centinaia di migliaia di persone. E' diminuito l'aspetto più provocatorio, legato all'esibizionismo corporeo o ai cartelli che attaccavano la Chiesa. Oggi partecipano famiglie, amici, colleghi, ci sono tanti bambini". Luxuria, poi, ha commentato le dichiarazioni di Imma Battaglia, che ha detto che al Governo ci sono diversi omosessuali ipocriti: "Questa è una questione vecchia, antica. Represso è il gay che non lo ammette a sé stesso, e quindi non fa neanche sesso. Queste sono persone che di giorno parlano della famiglia, in Parlamento gridano al padre e alla madre, poi di notte calano le braghe. Non soltanto metaforicamente. Ci sono eccome. Rivestono ruoli di potere, hanno fatto della propria ipocrisia un mezzo per incassare popolarità e potere". Sul bacio con Asia Argento: "Avevamo avuto un aspro contro sulla questione legata al #metoo. Sia per malintesi sia perché entrambe abbiamo un carattere molto forte. Io ho fatto un passo indietro, ho chiesto scusa, ci eravamo già incontrate, avevamo già fatto pace. Io ero su un carro del pride, avevo appena tenuto un discorso, raccontavamo la storia di due ragazze aggredite a Londra su un autobus. Ci siamo date questo bacio contro la violenza, per dimostrare che un bacio non deve far paura a nessuno, che bisogna scandalizzarsi per la violenza, non per un bacio. Un bacio non ha mai fatto male a nessuno. Si è scatenato un inferno sui social per questo bacio, ma sti cazzi! Un uomo non lo posso baciare perché sennò...una donna non la posso baciare perché sennò...ma veramente qui se uno deve stare a pensare alla reazione dei social non può più uscire di casa. Quel gesto aveva un valore simbolico e politico contro chi vede ancora in un bacio un atto di esibizionismo e trasgressione. E poi volevamo far vedere a tutti che io e Asia sul terreno della violenza di genere stiamo dalla stessa parte".

Azzura Della Penna per “Chi” il 25 luglio 2019. Vladimir Luxuria in bikini, qualcosa di nuovo sotto il sole. «Sì, è la prima volta. Un fotografo mi ha proposto di fare delle foto al mare e io mi sono guardata allo specchio e ho detto, “Oh, ho 54 anni e guarda qua!”. Credo di dover essere orgogliosa di quello che sono. E di quello che sono diventata».  

Domanda. Guardandosi indietro che cosa vede?

Risposta. «Vedo un lungo cammino: c’è stato un periodo nell’adolescenza in cui non mi riconoscevo, non mi sono mai riconosciuta nel mio corpo biologico, l’ora di educazione fisica era un tormento, quando mi facevo la doccia, cercavo di non guardarmi, quel che vedevo non ero io».

D. Più che sofferenza, quando si pensa a una persona che ha fatto la sua scelta, si pensa alla trasgressione.

R. «Ma transessuale non vuol dire macchina sessuale. È chiaro, poi, che vista dall’esterno la mia dimensione - almeno una volta - era, come dire, relegata al mondo della notte: non c’era una normalità affettiva o professionale. Io sono stata legata alla notte anche come direttrice di locali, ho bevuto la notte, dissetandomi di quella penombra che mi consentiva di essere un po’ più libera, la notte senti di meno quegli sguardi inquisitori, di chi si chiede: “Ma è maschio o è femmina?”».

D. Dal bikini al nudo: il primo amore?

R. «Ancora la cicatrice mi tira un po’, lui al chiuso mi faceva sentire una regina, ma guai a uscire dall’abitacolo di un’auto o dalla camera di un albergo, ma neanche così di lusso. E quando ha capito che cominciava a coinvolgersi, non solo ha troncato, ma mi ha detto che se l’avessi incontrato per strada avrei dovuto fare finta di non conoscerlo perché lui così avrebbe fatto».

D. Come si è sentita?

R. «Colpevole, criminale, sbagliata, non meritavo amore. E a quel punto le notti sono diventate turbinose, di grande stordimento. Pensavo: “Se voi volete da me la notte e la trasgressione e poi mi guardate con disprezzo, allora mi pagate”. Ho vissuto un periodo, per fortuna breve, in cui avevo un giro di persone che mi pagava. E c’era anche uno molto ricco, con cui ho avuto proprio una relazione, un industriale del Nord...».

D. Lei, però, non si è mai vista, comunque, sulle pagine dei giornali con qualcuno, un fidanzato...

R. «Sull’aspetto affettivo sono riservata. E onesta. Ma io avevo uno che chiamavo “il recitativo” - ha fatto anche carriera in tv, e mi fa piacere - ma lui mi voleva frequentare per questo motivo qui».

D. E lei?

R. «Gli ho detto: “Alla larga”».

D. Ma che borghese.

R. «Ma io sono molto tradizionalista. Una volta ho visto sul display del cellulare di uno che mi corteggiava la foto della fidanzata e mi è passata tutta la poesia».

D. Ma lei, scusi, non ha appena chiuso una storia con un bel tecnico di Mediaset?

R. «Ma no. Ogni tanto ci sono delle persone che io ringrazio perché si prendono a cuore la mia situazione, ma non c’è nessun tecnico, ma neanche della Rai e neanche di La7».

D. Vabbè, nell’attesa che arrivi l’amore...

R. «Che è la vera trasgressione e la vera rivoluzione».

D. Sì, ok, nell’attesa che si fa, lei che fa? Niente?

R. «Ma no, non c’è mica il fermo biologico, ho le mie esigenze di “cinquantinager”, io. Ho amici... Che poi io sono ancora dell’idea di fare l’amore così, senza troppi fronzoli, invece, incontro spesso persone che per questioni di fantasia alla fine devo allontanare».

D. Scusi, non è chiaro...

R. «Guardi, con il “recitativo” prima dovevo fare la maestrina e lui lo studente, poi l’infermiera e lui il paziente. E dovevo trovare vestiti e scenografie, mica una cosa semplice. Anche costosa. Poi ho avuto pure il sadomaso, e fin quando voleva fare lo schiavo e voleva lavarmi i panni e i piatti... Ma pure quello era impegnativo».

D. Ma se le sistemava pure casa!

R. «Sì, ma dovevo fare delle cene sontuose così lui arrivava il giorno dopo, si metteva tutto nudo, indossava solo il grembiule e puliva. Io poi dovevo rientrare, ispezionare tutto e, se trovavo un po’ di polvere, voleva che lo sculacciassi, sempre rimproverandolo. All’inizio mi divertivo, ma alla lunga era un’impresa ogni volta, e non di pulizie».

D. Ma lei lo sa che le cose hot le ammazza?

R. «È che più che hot, io sono scottata. Del resto siamo tutti un po’ scottati, lei non trova?». Torniamo al bikini e lasciamo stare i segni... Del costume.

Le Iene, Vladimir Luxuria sconvolge l'Italia: "Ecco le mie dimensioni". Sì, proprio quello, scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Appuntamento al buio per Vladimir Luxuria, ad organizzarlo Le Iene nella rubrica "Tinder Sopresa" di Mary Santanaro. Il programma di Italia 1 ha portato così Luxuria a parlare di sesso. E lei ha detto di tutto: "Sono andata con una donna. Ci siamo baciate con la lingua, le ho toccato il seno ma quando con la bocca è scesa lì sotto non si alzava niente”. Però abbiamo esplorato anche il lato sentimentale della vita di Luxuria, perché per una transgender è facile trovare sesso, "i curiosi sono tanti", ma è difficile trovare l’amore, "tra le lenzuola mi trattano come una principessa ma poi per strada si vergognano". E ancora, Vladimir ha rivelato anche le dimensioni del suo pene. "Io ce l'ho di 19 centimetri, tu?", la incalza la Santanaro. La risposta?

La confessione di Vladimir Luxuria: "Sono andata con una donna, ma...". Dopo essersi prestata come complice per uno scherzo organizzato da Le Iene, ai danni di alcuni utenti di Tinder, Vladimir Luxuria si è concessa ad una bollente intervista sul sesso, scrive Serena Granato, Giovedì 18/04/2019 su Il Giornale. In una nuova puntata de Le Iene, Vladimir Luxuria è diventata complice della produzione del programma, nell'organizzazione di uno scherzo ai danni di alcuni malcapitati e ignari utenti su Tinder. L'ennesimo momento pungolante registratosi su Italia 1, dopo gli scherzi che avevano viste protagoniste Taylor Mega e Valentina Nappi. Così, la nota opinionista televisiva si è lasciata abbandonare ad una lunga e bollente intervista, nel corso della quale non ha nascosto di avere avuto in passato una relazione saffica, finita male a livello sessuale. Vladimir Luxuria ha raccontato diversi aneddoti, concernenti dei momenti particolarmente intimi della sua vita privata. “Sono andata con una donna. Ci siamo baciate con la lingua, le ho toccato il seno e subito ho pensato: ‘Lo voglio pure io così’. Ma quando poi con la bocca è scesa lì sotto, non mi si alzava niente, sembrava che masticasse una cicca. Non mi eccitava”, ha così esordito l'ex-braccio destro di Alessia Marcuzzi, nell'intervista che l'ha vista aprirsi sulla sfera sessuale. “Perché non fare allora una cosa a tre?”, è stato il pronto quesito dell’intervistatore. “Una cosa a tre? Lo trovavo offensivo nei suoi confronti, come a dire ‘io riesco a penetrarti, solo se c’è un altro che mi penetra dietro'”, ha controbattuto Vladimir. Il noto volto transgender ha aggiunto di non essere stata molto fortunata nella vita, neanche con gli uomini. “A Praga c’era questo tassista che mi ha corteggiata, è salito in camera con me e ha iniziato a baciarmi con passione – ha raccontato-. Poi però, quando ha messo la mano giù e ha toccato ho visto proprio la sua espressione cambiare e lui che faceva il pugno. Sono riuscita a scansarmi e lui ha tirato un pugno al muro, che ha fatto una crepa che se io non mi fossi scansata mi avrebbe uccisa. Sono stanca di vivere la mia sessualità clandestina, vorrei un uomo che possa chiamarmi ‘amore’ anche a cena al ristorante senza vergognarsi”. La special guest star ha poi ammesso che per una transgender è facile trovare sesso, “i curiosi sono tanti”, ma diviene difficile trovare l’amore perché “tra le lenzuola mi trattano come una principessa, ma poi per strada si vergognano”. “Ti concedi facilmente?” è una delle domande irriverenti poste alla Luxuria. “Nella mia vita ho fatto opere di pene, volevo dire di bene”, ha confidato Vladimir a Le Iene.

Non è l'Arena, Daniela Santanché brutale con Vladimir Luxuria: "Se hai il pisello sei un uomo", scrive l'11 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Nella puntata di ieri 10 marzo di Non è l'Arena Daniela Santanché ha sferrato un duro attacco a Vladimir Luxuria e, in generale, alla cultura trans. In collegamento con lo studio di La7, la senatrice di Fratelli d'Italia ha contestato la scelta fatta in passato dal trasngrender Luxuria e ha voluto ribadire, a suo dire, l'esigenza di "ripristinare la verità" sull'esatto numero di generi da considerare, ovvero due, maschile e femminile. "Chi ha il pisello è un uomo e chi ha la vulva è una femmina. Se vuole essere donna si operi". Non si è fatta attendere la replica dell'ex parlamentare: "Peccato che non esiste anche l'invito a poter operare qualcuno di mentalità". Un parere, per altro, condiviso anche dalla giornalista Tiziana Ferrario che ha cercato di difendere le posizioni di Luxuria. Ma la Santanché non ha voluto sentire ragioni. "I generi sono due", ha aggiunto, "come nella lingua italiana che non ha nemmeno un neutro". Insomma, per l'onorevole la nuova cultura gender starebbe mistificando valori di per sè non negoziabili. Non basta indossare gonne, mettere rossetto in abbondanza e atteggiarsi da donna: "Se hai i genitali sei sempre un uomo".  

Da Libero Quotidiano dell'11 marzo 2019. "Il termine pervertito non lo avrei mai usato, non capisco dove sia le perversione, ciascuno è responsabile della propria vita lei fa quello che vuole e io la rispetto". Vittorio Feltri ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, su La7, interviene in difesa di Luxuria a commento delle parole del professore che le aveva dato del "pervertito" ma poi si apre una piccola polemica tra il direttore di Libero e la stessa Luxuria che vuole essere chiamata "signora" e non "signore" anche se a Feltri "non interessa, sono dettagli". Ma insiste: "Io la rispetto profondamente, il professore ha usato un termine inadeguato. A me non frega niente se uno da femmina diventa maschio o da maschio femmina".

In Rai Luxuria spiega ai bimbi come si diventa transessuali. L'ex parlamentare di Rifondazione a lezione di diritti omosessuali in una classe di under 13: «Si nasce gay», scrive Paolo Bracalini, Lunedì 21/01/2019, su "Il Giornale".  Bimbi a lezione di transgenderismo sulla tv pubblica. Docente: l'ex parlamentare di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria, all'anagrafe Wladimiro Guadagno, transessuale e attivista dei diritti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). La cattedra è quella del programma di RaiTre Alla Lavagna, in cui personaggi del mondo dello spettacolo, informazione e politica - il primo è stato il vicepremier Matteo Salvini - rispondono alle domande di una classe di bambini tra i 9 e i 12 anni. Nel caso di Luxuria, il tema da sviscerare con gli scolari era la scoperta di essere omosessuale. «Era un maschio ed è voluta diventare femmina» riassume una bambina interrogata dagli autori Rai. D'altronde i piccoli protagonisti del programma «sono tutt'altro che ingenui. Anzi. Sono particolarmente arguti e spigliati» recita la scheda del programma. Luxuria dopo aver spiegato ai bambini che si chiama così nel senso di «lussureggiante, una persona che ama la vita in tutti i sensi», risponde alla domanda («Lei una volta era un bambino, oggi è una donna, perché?») che motiva la sua presenza: «Io quando sono nato ero un maschietto ma non ero contento di essere maschietto, sentivo dentro di me di essere una bambina, mi piaceva giocare con le bambole, sentire i profumi femminili che usava mia mamma in bagno, e quindi tutte le volte che mi guardavo allo specchio avevo un'immagine dentro di me che era diversa da quello che ero. Per un periodo ho cercato di cambiare pensando che ero sbagliata io, ma stavo diventando un bambino molto triste e malinconico. Quindi ad un certo punto ho fatto una scelta. Questa bambina che stava dentro di me per me era come una principessa chiusa nel castello, io la dovevo liberare. Ma non veniva nessun principe a liberare questa principessa, la dovevo liberare io, così un giorno ho deciso di confessarmi a tutti, a miei compagni di classe e sono diventata quello che sono». Quando ha sentito la prima volta che il suo corpo non le piaceva?» chiede una bambina, mentre altri under 13 ascoltano con una certa perplessità. «Quando mi guardavo allo specchio e aspettavo che mi spuntassero i seni, e invece mi spuntavano i baffi. Una tragedia! Quella peluria non mi piaceva, me la toglievo con le pinzette. Ho capito che non si diventa così, si nasce così» chiarisce ai bimbi Luxuria, prima di passare al racconto del bullismo e delle discriminazioni subite a scuola dopo aver rivelato «che mi piacevano i maschi». La lezione di diritti omosessuali è andata in onda alle 22.20, ma doveva essere in prima serata. L'ex onorevole si è lamentata dello spostamento considerandolo una sorta di censura da parte della tv di Stato. «Ho appena saputo - denunciò a dicembre su Twitter - che per la seconda volta il programma in cui parlo di #bullismo e #omofobia in una classe con i bambini è stato spostato, non so quando e se andrà in onda: forse in questo periodo certi temi sono troppo scomodi persino per Rai3?». Anche il sito gay.tv protesta perché la puntata di Luxuria è stata «incredibilmente spostata in seconda serata, anche se indirizzata ad un pubblico di giovanissimi». Sui social invece qualcuno ha il dubbio opposto: «Luxuria su Rai3 spiega a una classe di bambini la sua scelta di cambiare sesso. Sarebbe questa l'importanza di una tv di stato?»

·         Asia Comanda, Morgan subisce.

Da liberoquotidiano.it il 10 dicembre 2019. Siamo davvero alla crisi di nervi. Si parla di Asia Argento, che era ospite di Barbara D'Urso a Live-Non è la D'Urso, e che ha completamente sbroccato dopo un violento scontro in studio con Giuseppe Cruciani. Su Canale 5 si è tornati a parlare di Harvey Weinstein e del suo caso, che la Argento contribuì a far scoppiare con una denuncia arrivata circa un ventennio dopo e che polarizzò l'opinione pubblica italiana. Tra chi ha sempre stigmatizzato la scelta di denunciare con un ritardo così clamoroso, proprio Cruciani, conduttore de La Zanzara.  E la Argento sbrocca: "Se potessi tornare indietro non so se lo rifarei (far scoppiare il caso Weinstein, ndr), per gente come voi che mi sputate contro la mia verità". E ancora: "Tu stai dicendo che io non sono credibile nella violenza che ho subito?". E Cruciani risponde secco: "C'è gente più credibile". E a quel punto, come già più volte nel recente passato, la Argento ha iniziato la sua sceneggiata: si alza in piedi, urla, piange. "Posso dire di no a uno che mi apre le gambe? Come faccio? Dimmelo! Come fa una donna di 50 chili con un uomo che le apre le gambe? Come fa? Dimmelo", sbraitava. Cala il sipario. Dagonota perché sennò davvero qua ci accusano di ''victim shaming'': In seguito a quell'episodio di sesso orale, Asia Argento è stata ''fidanzata'' on/off con Weinstein per circa 5 anni, tra viaggi in jet privati e visite a casa della madre del produttore per conoscerla, film finanziati e progetti in comune, come ha dovuto raccontare la Argento a Ronan Farrow nel primo e famigerato articolo sul New Yorker che fece esplodere il #metoo. Lei solo anni dopo capì che quell'incontro iniziale costituiva una violenza, e ha riscritto nella sua mente quegli anni di relazione come un continuo abuso. Niente in contrario, ma sicuramente una storia dove il confine tra sudditanza psicologica e violenza vera e propria è molto labile. Essendo poi lei un'attrice già molto affermata, figlia di un famoso regista e (come ha detto lei a Farrow) che a 21 anni aveva già vinto due degli ''equivalenti italiani degli Oscar'' (vabbè), non si può certo dire che senza Weinstein non avrebbe più lavorato. La verità è che forse, senza quella relazione, non avrebbe fatto la regista a livello internazionale (e te credo, visti i risultati), ma quello si chiama mercato, non sopruso.

Ora Asia Argento molla il MeToo. In occasione della presentazione del documentario “Frida - Viva la vida”, l’attrice confessa: “Mi chiedo a cosa sia servito tutto quello che è successo”. Alessandro Zoppo, Lunedì 25/11/2019 su Il Giornale. Asia Argento è stata tra le prime attrici a denunciare le molestie del produttore statunitense Harvey Weinstein. Finito al centro di un enorme scandalo sessuale, quello che è stato definito “l’orco di Hollywood” è stato accusato da star famose come Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Rosanna Arquette, Ashley Judd, Kate Beckinsale, Salma Hayek. Ora la figlia di Dario - dopo il clamore suscitato - affida ai microfoni dell’AdnKronos un’amara riflessione di ciò che ha conquistato il movimento MeToo, che ha scaricato l’attrice e regista romana dopo le accuse lanciate dal New York Times per le presunte violenze da parte di Asia sul giovane attore Jimmy Bennett. In occasione del lancio del documentario Frida - Viva la vida di cui è voce narrante, presentato in anteprima al Torino Film Festival ed evento speciale nelle sale italiane il 25, 26 e 27 novembre, la Argento si rifiuta di paragonare la rivoluzione dell’iconica pittrice messicana Frida Kahlo, pioniera del femminismo contemporaneo, a fenomeni come MeToo e Time’s Up. “Non possiamo comparare il tempo in cui è vissuta Frida a quello che succede oggi – spiega l’attrice –. Io ho provato a fare una rivoluzione e ad un certo punto mi sembrava di aver creato uno tsunami abbastanza forte. Però poi ci sono delle forze oscure così grandi oggi. Un tempo si sapeva chi era il nemico, oggi i nemici si nascondono molto bene”. Il movimento ormai è nato da più di un anno per schierarsi apertamente contro gli abusi sistematici subiti sul posto di lavoro. Continua a denunciare ciò che accade, ma senza troppe conseguenze secondo l’attrice. “Quando io ho fatto una rivoluzione che ha acceso gli animi, soprattutto delle donne, perché era una rivoluzione femminile – dichiara la Argento –, alla fine ho visto che la storia non è una linea retta, è una spirale. È come un valzer: si fanno due passi avanti e uno indietro”. Il tema delle molestie sul lavoro, non soltanto nel mondo dello spettacolo, riguarda personalmente l’attrice, che da anni lotta in prima persona per cambiare la mentalità patriarcale radicata nella cultura occidentale. “Le donne – conclude Asia – si sono ribellate al sopruso degli uomini sul lavoro, all’abuso di potere e ora negli Stati Uniti, da dove tutto è partito, stanno togliendo l’aborto in tanti stati. Mi chiedo a cosa sia servito tutto quello che è successo, di cui ho pagato le conseguenze più grandi... Più degli uomini”.

Da ilfattoquotidiano.it. Asia Argento è tornata ospite di “Live Non è la D’Urso” e con Alba Parietti si è sottoposta all'”uno contro tutti e ha dovuto affrontare gli attacchi degli “sferati”, in particolare di Karina Cacella, con cui ha avuto un acceso confronto. L’argomento su cui si dibatteva era Morgan e lo sfratto che lui ha avuto a sua detta per colpa di Asia che lo avrebbe denunciato per non aver pagato gli alimenti a sua figlia. “Quest’uomo con cui ho avuto una figlia di 18 anni. Guadagnava centinaia di migliaia di euro quando lavorava ad X Factor. Io mantengo due figli da sola – ha incalzato subito Asia Argento respingendo ogni addebito -. E’ una cosa di cui vado fiera. E’ anche un fardello. Quest’uomo, siccome vedono che sono una donna forte e so lavorare, non mantengono. I soldi di questa casa pignorata sono andati 5000 euro agli avvocati. A mia figlia non è arrivato nemmeno un centesimo. Questa è la cosa più meschina di questa storia. A Morgan piace commiserarsi. Io faccio molta fatica a mantenere i miei figli. Ma è il mio onore e gloria a fare questo. Bisogna pagarle le tasse. Se fai i debiti con le banche, ti pignorano la casa”. Karina Cascella ha iniziato allora ad interromperla e attaccarla, al che l’attrice ha replicato: “Ma tu chi sei? Che posto hai nel mondo?”. E la Cascella si infuria: “Io sono una che non ha avuto un padre che si chiama Dario Argento. Sei maleducata”. “A Sorè, ma che te sei presa stasera?” risponde in spiccato accento romano Asia. Ma Karina non ci sta e alla fine la accusa di essere stata spinta dal padre Dario per la carriera e di essere tornata a far parlare di sé solo per un motivo: la relazione con Fabrizio Corona: “La tua rinascita è stata Fabrizio Corona”. A questo punto l’attrice ha replicato divertita: “Ma chi te sei presa, stai calma! Questa è proprio inferocita. Ma quale relazione che ci siamo visti due volte, e io sono una che fa film da quando avevo 18 anni – ha proseguito l’Argento -. Mio padre non mi ha mai dato una lira. Io veramente non so chi sei e che posto hai nel mondo”. Ma prima che la Cascella potesse parlare interviene Caterina Collovati, che ringraziando Asia per aver avuto il coraggio di denunciare le molestie e lanciare il #MeToo cambia così argomento e poi le chiede per perché si è poi presentata su un palco di un famoso rapper con una valigetta di soldi dicendo se per quella cifra lui glielo “dava”. “Sai perché l’ho fatto? – ha risposto Asia – Perché sono una donna libera, e se questa cosa la fanno gli uomini non gli viene detto nulla mentre ad una donna viene attaccata e considerata una poco di buono”. In studio è calato il gelo ma nessuno ha avuto nulla da ribattere per cui è toccato alla padrona di casa Barbara D’Urso stemperare la tensione e passare ad un altro argomento.

Asia Argento fa infuriare Karina Cascella: "Ma tu chi sei? Che posto hai nel mondo?" Duro attacco della Cascella contro Asia Argento, ma l'attrice sa ben difendersi anche da chi la accusava di essere tornata alla ribalta grazie a Fabrizio Corona. Roberta Damiata, Lunedì 14/10/2019, su Il Giornale. A “Live non è la d’Urso” torna Asia Argento, ma questa volta insieme ad Alba Parietti, a rispondere agli attacchi di cinque cattivissimi “sferati”. Per Asia l’argomento è quello di Morgan e dello sfratto che lui ha avuto a sua detta per colpa di Asia che lo avrebbe denunciato per non aver pagato gli alimenti a sua figlia. Ma prima di cominciare Asia ha qualcosa da dire: "Quest'uomo con cui ho avuto una figlia di 18 anni. Guadagnava centinaia di migliaia di euro quando lavorava ad X Factor. Io mantengo due figli da sola. E' una cosa di cui vado fiera. E' anche un fardello. Quest'uomo, siccome vedono che sono una donna forte e so lavorare, non mantengono. I soldi di questa casa pignorata sono andati 5000 euro agli avvocati. A mia figlia non è arrivato nemmeno un centesimo. Questa è la cosa più meschina di questa storia. A Morgan piace commiserarsi. Io faccio molta fatica a mantenere i miei figli. Ma è il mio onore e gloria a fare questo. Bisogna pagarle le tasse. Se fai i debiti con le banche, ti pignorano la casa". Parla contro Asia Karina Cascella, ma la Argento la interrompe dicendole: “Ma tu chi sei?”. Lei si inalbera, “Io sono una che non ha avuto un padre che si chiama Dario Argento. Sei maleducata”. “A Sorè, ma che te sei presa stasera?” risponde in spiccato accento romano Asia. Ma Karina non ci sta e alla fine la accusa di essere stata spinta dal padre Dario per la carriera e di essere tornata a far parlare di sé solo per un motivo: la relazione con Fabrizio Corona. Asia ride divertita: “Ma quale relazione che ci siamo visti due volte, e io sono una che fa film da quando avevo 18 anni. Mio padre non mi ha mai dato una lira. Io veramente non so chi sei e che posto hai nel mondo”. Ma prima che la Cascella potesse parlare interviene la Collovati, che ringraziando la Asia per aver avuto il coraggio di denunciare le chiede per perché si è poi presentata su un palco di un famoso rapper con una valigetta di soldi dicendo se per quella cifra lui glielo “dava”. “Sai perché l’ho fatto? -gli risponde Asia - Perchè sono una donna libera, e se questa cosa la fanno gli uomini non gli viene detto nulla mentre ad una donna viene attaccata e considerata una poco di buono”.Gelo in studio, ma nessuno ha da eccepire qualcosa sulla sua risposta, e Barbara passa ad un altro argomento.

ASIA ARGENTO - L'ultima in ordine di tempo ad aver puntato il dito contro l'influente produttore americano è Asia Argento. L'attrice e regista italiana ha raccontato alla rivista 'New Yorker' di essere stata costretta ad avere un rapporto orale con Weinsten quando aveva 21 anni. I fatti risalgono alla fine degli anni '90, nel periodo in cui Argento stava interpretando un ruolo nel film 'B. Monkey - Una donna da salvare'. L'attrice aveva ricevuto un invito a un party della Miramax, che distribuiva la pellicola, all'hotel di Cap-Eden-Roc, in Costa Azzurra, ma una volta arrivata sul posto aveva scoperto che non c'era nessuna festa. Si era ritrovata così da sola in una stanza d'albergo con Weinstein. Il produttore, dopo essersi complimentato con lei per la sua interpretazione, era uscito dalla stanza. Al ritorno si era presentato in accappatoio, con una lozione in mano, e aveva chiesto all'attrice di fargli un massaggio. Lei aveva accettato suo malgrado ma a quel punto lui l'aveva aggredita costringendola a un rapporto orale. "Ero terrorizzata... è stato un incubo", ha raccontato l'attrice descrivendo l'accaduto come "un trauma orribile".

Asia Argento e il dito medio contro gli hater. Asia Argento è tornata a parlare della vicenda, pubblicando su Instagram una foto che la ritrae con il dito medio alzato. "Questo dito medio è per quegli italiani - ripeto: italiani - scrive l'attrice - che accusano di essermi cercata la violenza subita da ragazza perché non sono scappata e perché non ho denunciato prima. È colpa di persone come voi se le donne hanno paura di raccontare la verità. Dal resto del mondo ricevo solo parole di solidarietà e conforto, nel mio paese vengo chiamata troia. Vergognatevi, tutti. Siete dei mostri". Dopo aver confessato lo stupro, l'attrice è stata criticata, soprattutto sui social, per avere atteso 20 anni prima di parlare.

Il diario segreto di Asia Argento: "Weinstein mostro, mi violenta". Il fax dell'attrice mandato nel '97 alla cronista del Giornale. "Stasera a Roma c'è la festa della Miramax, lui è il mio boss", scrive Daniela Fedi, Venerdì 13/10/2017 su "Il Giornale". Da giorni leggo le miserabili cronache di quel che ha fatto Harvey Weinstein a decine di giovani donne e provo un misto di rabbia e di orgoglio. La rabbia è il minimo sindacale per una cosa del genere. A me l'ha raccontato 20 anni fa, quando siamo diventate amiche dopo una lunga e bellissima intervista che le ho fatto per un mensile femminile oggi chiuso. Ho perfino un fax che mi ha scritto poco prima che andasse a Cannes dove è avvenuta la violenza e mi sento ancora in colpa per non aver capito subito cosa stava rischiando. In fondo lei era una ragazzina e io una donna fatta. Avevo una specie di transfer materno nei suoi confronti, fin dal primo momento ho sentito il bisogno di proteggerla. Durante l'intervista mi aveva raccontato una storia che le avrebbe procurato un sacco di grane anche se si trattava di una ragazzata. Le promisi di non scriverla e lei da quel momento decise di fidarsi di me. Abbiamo avuto per parecchio tempo un fitto scambio di corrispondenza via fax perché all'epoca non esisteva la posta elettronica. Ho tenuto via tutti quei fax perché Asia scrive benissimo e io ho un debole per le frasi belle, divertenti, sorprendenti. In uno dei primi per consolarmi di un fidanzato fedifrago ha scritto: «Quasi tutti gli uomini sono dei fagioli in umido: con una cucchiaiata si può fare una strage». Mi aveva fatta ridere fino alle lacrime anche se poche righe prima aveva scritto: «Stasera c'era un festone per il capo della Miramax, mr Weinstein, che è a Roma, ma io non ci sono andata. Certo, è il mio boss, e allora? È un cicciabomba butterato. Ha una lingua lunga tre metri e me la vuole sempre infilare al caldo». Seguiva una frase irripetibile su dove mr Weinstein doveva sbattere quella sua schifosa linguaccia e di lui per un po' di tempo non ho più sentito parlare. Poi Asia era andata a Cannes e io in giro per il mondo per le sfilate: parlavamo un po' al telefono, ci mandavamo un sacco di sms, ma per un paio di mesi non ci eravamo più scritte dei fax così folli e personali. Asia era depressa, di questo sono strasicura, ricordo di essermi preoccupata parecchio per lei perché non era più la simpatica guascona che mi sarebbe piaciuto avere come figlia pur sapendo benissimo che mi avrebbe dato un sacco di gatte da pelare. In settembre aveva compiuto 22 anni e poco dopo mi aveva mandato un fax con un'enorme margherita stilizzata: «Daniela, solo due parole di felicità. Mi ha appena chiamato a casa Abel Ferrara, vuole che domani stesso vado a NY per incontrare lui Willem Dafoe e Christopher Walker. Sono così felice che non credo che riuscirò a dormire... il mio regista preferito. Volevo solo dividere con te questo momento!». Ero felice anch'io per lei e avevo continuato a esserlo finché una notte mi aveva telefonato in lacrime raccontandomi per filo e per segno quel che le aveva fatto a Cannes mr Weinstein. Ero annichilita dall'orrore. Non ebbi neanche bisogno di chiederle perché non avesse denunciato subito lo stupro: me lo disse lei. Ricordo le sue parole esatte: «Quel ciccione schifoso è così potente che la passerebbe liscia. A Monica Levinsky credono solo perché ha tenuto via il vestito. Perderei la stima di Abel. Non ci posso nemmeno pensare». Tentai di consolarla e alla fine le detti ragione: cerca di dimenticare, sei giovane, hai una vita davanti a te. Quando incontrai mr Weinstein a una sfilata della sua ex moglie Giorgina Chapman, stilista (D'Agostino direbbe «per mancanza di prove») del brand Marchesa, mi rifiutai di stringergli la mano. Lui non se ne accorse nemmeno, perché gli americani lo fanno spesso. Hanno paura dei microbi, loro.

Caso Weinstein, Asia Argento nuove accuse: «A 16 anni un regista e attore italiano mi molestò». Nuove rivelazioni dell’attrice: «Altri due uomini hanno abusato di me». E su La Stampa: «Non ho denunciato Weinstein perché tenevo alla mia carriera». Il produttore era «un predatore seriale dalle mille personalità», scrive il 15 ottobre 2017 “Il Corriere della Sera”. Nuove accuse e rivelazioni da parte di Asia Argento. L’attrice, twittando sull’hasthag #quellavoltache (che sta raccogliendo migliaia di denunce da parte delle donne italiane), ha raccontato altri due casi di abusi subiti durante il suo lavoro. Il più grave quando era ancora una ragazzina: «#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del “personaggio”», scrive Argento. E poi ancora l’attrice denuncia che quando aveva 26 anni «un grosso regista statunitense (con il complesso di Napoleone) mi dette la droga dello stupro e mi violentò mentre ero incosciente». L’attrice è anche tornata a parlare di Weinsten in un’intervista pubblicata dal quotidiano La Stampa. Racconta del perché non denunciò subito gli abusi di Weinstein, delle sue tattiche con le sue vittime, del suo dolore per la reazione delle “donne italiane”. «Io mi sono opposta dieci, cento, mille volte a Harvey Weinstein. Mi ha mangiata. Un orco in mezzo alle gambe è un trauma. Io ero una ragazzina. Questa è una cosa che ricordo ancora oggi. Una visione che mi perseguita. Non c’ è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza». «La cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze», spiega l’attrice nell’intervista: «Non ho ricevuto nessuna critica per il mio comportamento in nessun altro Paese». «Guardi invece che cosa stanno facendo in Italia contro noi vittime». «Oggi sono in grado di sopportarlo. Se avessi detto vent’anni fa quello che ho detto oggi, probabilmente non mi sarei più ripresa. Sarei caduta in depressione. E sarebbe stato addirittura peggio di quello che poi mi è successo». Poi il passaggio sui motivi della denuncia a distanza di tanti anni: «Non sono l’unica che ha deciso di parlare adesso. Hanno parlato tutte ora. “Perché non avete parlato prima?”, ci chiedono. Perché Harvey Weinstein era il terzo uomo più potente di Hollywood. Ora è diventato il duecentesimo e il suo potere e la sua influenza si sono sensibilmente ridotti», dice Asia Argento. E ancora: «La violenza che io ho subito risale al 1997. In Italia, solo un anno prima lo stupro era diventato crimine contro la persona e non solo contro la morale. Pensi se avessi parlato allora. Come avrei potuto? E poi sì, era per la mia carriera! Un tempo io ci tenevo tantissimo alla mia carriera». Asia Argento racconta che incontrò ancora Weinstein a Roma, in un albergo, dopo l’insistenza del produttore che le scriveva continuamente. Dopo un primo momento in cui era presente una sua assistente, Weinstein era di nuovo addosso a lei. E si è sentita ancora in colpa, per essersi fidata «una volta di troppo». D’altronde Weinstein era «un predatore seriale», lo definisce così Asia Argento, un predatore che «cambiava costantemente tono: passava dall’essere un bambino frignone a imporre con violenza quello che voleva. Aveva mille personalità. Mille. E cercava quella che funzionava di più con te». Infine una speranza che l’attrice racconta nell’intervista: «L’ unica cosa in cui ora spero, anche dopo aver rivissuto questa terribile esperienza ed essere stata insultata nel mio Paese - e solo nel mio Paese! - è che ci sia un risveglio tra quelle di noi che hanno subito. Che sempre più donne dicano basta. Ora questi uomini, questi mostri, dovranno avere paura così come noi, ogni volta che li abbiamo incontrati, che siamo rimaste da sole con loro, ne abbiamo avuta».

Asia Argento, prima di Weinstein un italiano: "Quella volta che mi molestò nella roulotte", scrive il 15 ottobre 2017 "La Repubblica". L'attrice partecipa alla campagna social #quellavoltache con la rivelazione di un'altra molestia subìta a soli sedici anni. E di una terza, quando ne aveva 26. La vicenda che vede al centro Harvey Weinstein non accenna a placarsi ma Asia Argento, fra le prime a confermare le accuse rivolte al produttore americano, ora parla anche di un episodio analogo accaduto quando aveva sedici anni, protagonista un regista e attore italiano. L'attrice partecipa alla campagna #quellavoltachelanciata su Twitter dalla scrittrice e blogger Giulia Blasi e scrive "#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del "personaggio"'. Non fa nomi, anche se in un altro post spiega che "questo è il momento di parlare, non di minimizzare". E - sempre su Twitter - racconta anche un altro caso di violenza del quale è stata vittima quando aveva 26 anni, quando cioè "un grosso regista statunitense (con il complesso di Napoleone) mi dette la droga dello stupro e mi violentò mentre ero incosciente". Le nuove rilevazioni si aggiungono a quelle contenute nell'intervista pubblicata oggi dal quotidiano La Stampa in cui l'attrice ha ricordato il trauma della violenza subìta da Weinstein affermando anche che "la cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze". Oggi il presidente francese Emmanuel Macron ha ordinato che al produttore venga ritirata la Legion d'onore, la più prestigiosa onorificenza di Francia. Mentre Mia Farrow (tutto è iniziato da un'inchiesta giornalistica pubblicata dal New Yorker e realizzata dal figlio, Ronan Farrow) ha commentato dicendo che "è la fine di un'era terribile, Harvey è fuori. Ora ce ne sono altri". E sempre di oggi è un post pubblicato su Facebook da Bjork, nel quale l'artista ha raccontato di quando, su un set, fu molestata da un regista danese.

Asia Argento rivela altre due violenze: “A 16 anni vittima di un regista e attore italiano”. L’attrice su Twitter: «Tirò fuori il suo pene nella sue roulotte mentre parlavamo del personaggio», scrive il 15/10/2017 Elena Masuelli su "La Stampa". Asia Argento non ha finito di raccontare. Dopo la denuncia delle molestie subite dal produttore Weinstein, su Twitter risponde alla catena di solidarietà #quellavoltache, l’hastag nato per invitare le donne vittime di violenze a non nascondersi, e rivela che altri due uomini hanno abusato di lei. Il primo quando era solo un’adolescente: «#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del «personaggio» scrive. Ma l’attrice confessa anche che un altro regista, questa volta americano e «con il complesso di Napoleone», le diede la «droga dello stupro» e la violentò mentre era incosciente. Ripete che «questo è il momento di parlare, non di minimizzare». Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New Yorker in cui ha rivelato di essere stata costretta a subire la violenza di Harvey Weinstein, uno dei più potenti produttori di Hollywood, ha raccontato tutta la storia in una intervista esclusiva a La Stampa. «Cercare di ricostruire quello che è successo vent’anni fa è stato difficilissimo, credetemi. Mi sono messa in gioco in prima persona e ho fatto in modo che anche altre donne potessero parlare».  

Dopo un precoce esordio a 9 anni, nel film per la televisione Il ritorno di Guerriero, Asia Argento lavora con il padre in due film horror, da lui scritti e prodotti: Dèmoni 2... L’incubo ritorna (regia di Lamberto Bava, 1986) e La chiesa (Michele Soavi, 1989). Nel 1988, a 13 anni, ha un ruolo da protagonista nel film Zoo(1988) diretto da Cristina Comencini, mentre l’anno seguente Nanni Moretti la sceglie per la parte della figlia del suo alter ego Michele Apicella in Palombella rossa (1989). Dopo altri film scritti e anche diretti dal padre, fra cui Trauma (1993), La sindrome di Stendhal (1996), Il fantasma dell’Opera (1998), è la cupa e sensibile Simona succube di un padre incestuoso in Le amiche del cuore (1992) di Michele Placido. In Perdiamoci di vista (1994) di Carlo Verdone è Arianna, la ragazza paraplegica dotata di prorompente vitalità che smaschera le mire di un conduttore televisivo alla ricerca di casi umani per fare audience. Sempre nel 1994 è una dei tre interpreti italiani principali (assieme a Virna Lisi e Claudio Amendola) del kolossal francese La Regina Margot di Patrice Chéreau, ispirato al romanzo omonimo di Alexandre Dumas padre. Due anni dopo, nel 1996, ottiene un secondo David di Donatello sempre come migliore attrice protagonista nel film Compagna di viaggio di Peter Del Monte. Appare poi nel ruolo brillante di una rapinatrice in Viola bacia tutti (1997) di Giovanni Veronesi, e incomincia una carriera internazionale nel film New Rose Hotel (1998) del regista statunitense Abel Ferrara, nel ruolo di una prostituta doppiogiochista. Dello stesso anno è l’ormai chiacchieratissimo B. Monkey. Da qui in poi lavora soprattutto all’estero, dapprima in Francia con un’ennesima edizione de I miserabili diretta da Josée Dayan, e quindi negli Stati Uniti, dove appare nel film d’azione di Rob Cohen xXx, nell’horror di Gorge A. Romero La terra dei morti viventi e in Marie Antoinette di Sophia Coppola. Intanto passa dietro la macchina da presa per dirigere due lungometraggi. Il primo, Scarlet diva (2000) in cui racconta le vicende di Anna, un’attrice di grande successo che vive tuttavia una disperata solitudine. Quattro anni dopo dirige e interpreta Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, tratto dai racconti autobiografici dello scrittore J.T. Leroy.

Weinstein dopo essere stato licenziato in tronco, ripudiato dalla moglie e dal fratello, è stato cacciato dal club degli Oscar, e ora anche Emmanuel Macron ha ordinato di ritirargli la Legion d’Onore, la più prestigiosa decorazione di Francia. Intanto si allunga di ora in ora la lista delle donne che lo accusano di molestie o violenze sessuali e lo scandalo si allarga oltre i confini americani. Quattro i presunti episodi di abusi che gli vengono contestati nel Regno Unito, con Scotland Yard che sta indagando su altri tre episodi. E in queste ore si allunga anche la lista di chi lo attacca: «È la fine di un’era terribile, ha commentato Mia Farrow, che si è detta orgogliosa della decisione dell’Academy di sospendere a vita Weinstein: «Harvey è fuori. Ora ce ne sono altri». Parole che confermano come a Hollywood ormai si respiri un’aria da caccia alle streghe, per scovare veri o presunti molestatori, chi tra manager e star sapeva ed ha coperto o solamente taciuto. Più sfumate le parole dell’ex compagno della Farrow, Woody Allen, che si è detto «rattristato» per Weinstein, lui che in passato ha dovuto difendersi da accuse pesantissime di molestie verso la figlia minorenne adottiva. Allen spiega di non aver mai saputo nulla delle vicende emerse negli ultimi giorni: «Ho sentito in passato alcune voci sui comportamenti di Weinstein, ma non queste storie orribili che stanno venendo fuori adesso». 

Asia Argento: “È un orco, mi ha mangiata. La cosa più sconvolgente? I tanti attacchi dalle donne”. L’attrice replica alle accuse e rivela: gli stupri di Weinstein furono due. “Perché non ho denunciato prima? Tenevo troppo alla mia carriera”, scrive il 15/10/2017 Gianmaria Tammaro su "La Stampa". «La cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze». La voce è rotta dall’emozione ma ferma, sicura. Sceglie le parole con cura, una per una. Ogni tanto trema per la rabbia e la frustrazione. Asia Argento è appena tornata in Italia. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New Yorker in cui ha denunciato di essere stata violentata da Harvey Weinstein, uno dei più potenti produttori di Hollywood, aveva deciso di rimanere in silenzio. Ma le polemiche che l’hanno travolta, mettendo in dubbio la veridicità della sua testimonianza e la sincerità dei suoi sentimenti, l’hanno convinta a tornare a parlare. Per questo motivo ora racconta e si racconta, non risparmiandosi sui dettagli di uno degli scandali sessuali più gravi che hanno mai colpito il mondo dello spettacolo. «Cercare di ricostruire quello che è successo vent’anni fa è stato difficilissimo, credetemi. Mi sono messa in gioco in prima persona e ho fatto in modo che anche altre donne potessero parlare». 

Perché ha deciso di rivelare questa storia a distanza di tanti anni?  

«Non sono l’unica che ha deciso di parlare adesso. Hanno parlato tutte ora. “Perché non avete parlato prima?”, ci chiedono. Perché Harvey Weinstein era il terzo uomo più potente di Hollywood. Ora è diventato il duecentesimo e il suo potere e la sua influenza si sono sensibilmente ridotti». 

Non pensa che parlare prima avrebbe evitato che altre donne subissero come lei?  

«Prima non c’erano stati scandali sessuali come quello di Bill Cosby. E se avessimo parlato allora, noi donne non saremmo state credute. Saremmo state trattate come delle prostitute. Come, tra l’altro, sta succedendo qui in Italia: una cosa di cui mi dispiace tremendamente». 

Che cosa l’ha ferita maggiormente?  

«Non ho ricevuto nessuna critica per il mio comportamento in nessun altro Paese. Ci sono amici che mi mandano articoli usciti in tutto il mondo, in cui nessuno si permette di fare “victim blaming”, di colpevolizzare le vittime. Nessuno all’estero. Guardi invece che cosa stanno facendo in Italia contro noi vittime». 

E lei come reagisce?  

«Oggi sono in grado di sopportarlo. Se avessi detto vent’anni fa quello che ho detto oggi, probabilmente non mi sarei più ripresa. Sarei caduta in depressione. E sarebbe stato addirittura peggio di quello che poi mi è successo. Mi creda: dopo quel giorno, non sono più stata la stessa persona». 

Come ha vissuto questi anni di silenzio?  

«Avevo ventuno anni quando è successo. Sa quanto tempo mi ci è voluto prima di capire? Anche se ne parlavo con amici e con amiche, con i fidanzati, questa è una cosa che tenevo seppellita. Una vergogna incredibile, mi creda. Mi ci sono voluti anni per capire che ero una vittima. E per tutto il tempo mi sono sentita colpevole di non essere scappata via, di non aver avuto la forza di dire no». 

Si sente ancora in colpa per questo?  

«Io mi sono opposta dieci, cento, mille volte a Harvey Weinstein. Mi ha mangiata. Un orco in mezzo alle gambe è un trauma. Io ero una ragazzina. Questa è una cosa che ricordo ancora oggi. Una visione che mi perseguita. Non c’è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza». 

Che cosa temeva che le potesse accadere, in caso di denuncia all’epoca dei fatti?  

«La violenza che io ho subito risale al 1997. In Italia, solo un anno prima lo stupro era diventato crimine contro la persona e non solo contro la morale. Pensi se avessi parlato allora. Come avrei potuto? E poi sì, era per la mia carriera! Un tempo io ci tenevo tantissimo alla mia carriera. Ero giovane e anche io avevo i miei sogni. Non volevo niente da Weinstein, ma non volevo nemmeno che mi distruggesse». 

Fabrizio Lombardo, ex capo di Miramax Italia, nega di averla portata da Harvey Weinstein, come lei invece sostiene.  

«Lombardo è un bugiardo. Ci sono tantissime prove e tantissimi testimoni che ribadiscono che quello che ho detto io è vero. La sua è una bugia: chi gli crede? Ho i suoi messaggi ed erano intimidatori: come può sostenere che me li ha mandati per sbaglio? Voleva dirmi che sono una pazza e una prostituta. Con quei messaggi voleva mettermi paura e farmi credere che nessuno mi avrebbe presa sul serio». 

Dopo il primo incontro in un hotel in Costa Azzurra, lei iniziò una relazione con Weinstein?  

«Questa è un’assurda falsità. Una bugia orrenda. Io non ci sono stata insieme cinque anni dopo quella violenza, come insinua qualcuno». 

Weinstein cercò di contattarla ancora?  

«Alcuni mesi dopo quella violenza, quando ancora doveva uscire B. Monkey, Weinstein continuava a contattarmi, sì. Continuava a scrivermi e a cercarmi. Mi offriva pellicce e appartamenti. Ricordo che venne a Roma e mi propose di incontrarci per discutere delle strategie per pubblicizzare il film». 

Lei accettò?  

«Lo incontrai nella camera di un albergo, nel salottino. Con lui c’era una sua assistente. Ricordo che vedendola mi sentii sollevata. Dopo un po’, però, l’assistente se ne andò e successe di nuovo la stessa cosa. Weinstein mi fu di nuovo addosso. Allora mi sentii doppiamente in colpa. Perché mi ero fidata una volta di troppo. Io non volevo. Non mi piaceva. Quando lui iniziò a toccarmi, era come se potessi vedere dall’esterno quello che succedeva. Come se quella ragazza non fossi io». 

Qual era l’atteggiamento di Weinstein nei suoi confronti?  

«Se sente la registrazione pubblicata dal New Yorker, il modo in cui parlava alle donne, scoprirà che cambiava costantemente tono: passava dall’essere un bambino frignone a imporre con violenza quello che voleva. Aveva mille personalità. Mille. E cercava quella che funzionava di più con te. Weinstein era un predatore seriale. L’ha fatto con centinaia di donne. Se lo scandalo non è uscito prima, è perché lui insabbiava tutto. Ha pagato non solo donne, ma anche giornali e giornalisti». 

Come cambiò il suo comportamento, nei confronti di Weinstein?  

«L’unico mio potere, dopo quella violenza, era non accettare nessun regalo. Era non andare a nessun provino che mi veniva offerto. Io sognavo di diventare la più grande attrice e di vincere il premio Oscar. Erano i sogni di una ragazzina, l’ho detto. “Che bello – pensavo dopo aver girato il film B. Monkey – adesso potrò lavorare all’estero”. Allora amavo il mio lavoro e ci tenevo. E prima di avere figli era tutto quello in cui credevo. Dopo Weinstein non ho più creduto in niente che riguardasse il mio lavoro». 

Quindi vi incontraste altre volte?  

«Prima di risponderle, mi permetta di ribadirlo ancora una volta: la nostra non era una relazione. Non scherziamo. Non pensiamola nemmeno per un istante questa cosa. Tantissime volte sono riuscita a scappare e a evitarlo. Ero con amiche e lui riusciva a entrare negli alberghi e a trovarmi. Una notte, ricordo, venne a bussare alla porta della mia stanza e io ebbi paura. Al Festival di Toronto volle vedermi a tutti i costi; io lo incontrai insieme a una mia amica e lui si mise a piangere. Come un bambino». 

In una scena del suo primo film da regista, “Scarlet Diva”, il personaggio che lei interpreta subisce delle avances. Le viene chiesto di fare un massaggio. Era un modo per raccontare la sua storia?  

«Quando nel 2002 uscì negli Stati Uniti “Scarlet Diva”, Weinstein lo vide e mi contattò. Prima mi fece i complimenti e si comportò come un amico, poi mi disse: “Ho visto il tuo film! Che ridere!”. Aveva paura che dicessi pubblicamente che in quella scena, quella in cui mi viene chiesto un massaggio, era a lui che mi riferivo. Ma non l’avrei detto». 

Perché?  

«In quel momento, era impensabile fare un film del genere in cui denunciavo non solo quello ma anche altri abusi che avevo subito. Avevo solo 23 anni. Parlarne apertamente mi faceva paura: non volevo sentirmi dire che ero stata debole, che ero stata incapace di difendermi. Io volevo credere in ogni modo di essere una persona diversa». 

Nessuno le chiese mai se quella scena si riferisse a una sua vera esperienza di vita?  

«Mi è successo varie volte. E io ogni volta rispondevo di sì. Ma nessuno poi l’ha riportato. L’ho raccontato ad amici attori, produttori, giornalisti; l’ho detto anche ad amici che non lavoravano in questo ambiente. Ma nessuno ha fatto niente. Per me, certo, ma anche per tutte le altre donne». 

Poi però ha deciso di farsi avanti in prima persona: come mai?  

«Quando mi ha chiamato Ronan Farrow del New Yorker, ho iniziato a raccontargli la mia storia ma solo in via confidenziale e anonima. Sono stata la prima a farlo. Non ce la facevo più. Mi sono consultata con il mio fidanzato e con altre persone a me vicine. Tutti mi hanno incoraggiato. Dopo aver raccontato la mia storia, ho detto a Ronan di dirlo anche alle altre attrici e modelle, e di specificare che avevo deciso di acconsentire alla pubblicazione del mio nome». 

Che cosa è successo a quel punto?  

«Il giorno dopo Farrow mi ha richiamato dicendomi che anche altre donne, spinte dal mio racconto, avevano deciso di farsi avanti. E questo mi sembra importante. Prima non ci era stata data nessuna possibilità. C’era un’omertà assoluta su quest’uomo. Appena ho potuto, appena ci è stata data l’opportunità, tutte noi abbiamo denunciato». 

In Italia non tutti la pensano così. Non tutti le credono. Non tutti stanno dalla sua parte.  

«La cosa più sconvolgente è che ci sono anche donne tra queste persone. Donne che stanno scrivendo contro di me. Donne che mi stanno denigrando. E questo è grave. Perché sono sicura che anche tante tra queste donne hanno vissuto o anche solo visto cose del genere. E ora fanno finta di niente. Mi accusano di esserci stata».

La accusano anche di aver firmato la petizione a favore di Roman Polanski, indagato per pedofilia.  

«Roman Polanski fu arrestato in Svizzera. Io non conoscevo la faccenda fino in fondo. Ammetto la mia ignoranza. Fui contattata dal Festival di Cannes. Mi dissero che c’era una petizione e che tutti stavano firmando perché quello che aveva fatto questo giudice a Polanski era contro i diritti di ogni individuo. Io firmai e solo dopo mi sono informata. Ammetto la mia colpa». 

Si è pentita?  

«Mi ero fidata e mi sono sbagliata. C’erano tantissimi colleghi coinvolti e che avevano firmato. Io non avevo letto bene il caso. E poi Polanski era uno dei miei registi preferiti. Lo ripeto: mi fidai, sbagliando. E di questo mi sono profondamente vergognata. E ora mi vergogno ancora di più. Nessuno mi costrinse, voglio precisarlo. Ma mi fidai. E oggi dico pubblicamente che vorrei non averlo mai fatto». 

Dopo essersi fatta avanti insieme alle altre donne e aver raccontato quello che le è successo, cosa spera che accada?  

«L’unica cosa in cui ora spero, anche dopo aver rivissuto questa terribile esperienza ed essere stata insultata nel mio Paese - e solo nel mio Paese! - è che ci sia un risveglio tra quelle di noi che hanno subito. Che sempre più donne dicano basta. Ora questi uomini, questi mostri, dovranno avere paura così come noi, ogni volta che li abbiamo incontrati, che siamo rimaste da sole con loro, ne abbiamo avuta». 

Tutte contro Asia per non aver parlato prima. Ma basta per far passare in secondo piano il reato? Scrive il 15/10/2017 Nicola Pinna su "La Stampa". Se questa fosse la giuria popolare di un tribunale, a beccarsi la condanna, la più pesante, sarebbe la vittima. I giudizi più duri, quasi sempre spietati, arrivano dalla bocca – anzi, dalla tastiera – delle donne, da quelle che verso il tema della violenza dovrebbero avere la sensibilità maggiore. Il caso che ha sconvolto Hollywood, in Italia si sta trasformando in una specie di attacco contro un’attrice che da sempre ha diviso la critica. Ma questa volta non c’è di mezzo il giudizio sulla sua recitazione: la vicenda è quella drammatica degli stupri che Asia Argento avrebbe subito dal potentissimo produttore Harvey Weinstein. Lei lo aveva già percepito che l’unico sostegno sul quale non avrebbe potuto contare è proprio quello delle donne. E oggi, nell’intervista concessa a La Stampa, lo ha detto e ripetuto più volte: «La cosa più sconvolgente sono i tanti attacchi da parte delle donne. Solo in Italia si colpevolizzano le vittime. Tutto questo perché? Perché ho denunciato dopo vent’anni. Ma allora Winstein era l’uomo più potente di Hollywood e io tenevo troppo alla mia carriera».  Il racconto di tutto ciò che è successo dietro le quinte del circo di Hollywood sembra passare subito in secondo piano. La pressione psicologia, la vita che cambia, il dramma di una ragazzina che cresce con questo segreto e le paure di una donna che è diventava grande portandosi dentro questo peso non colpiscono quasi nessuno. Tutti pronti a puntare il dito contro Asia Argento: perché? Basta semplicemente ribadire che i social network sono una grande fabbrica dell’odio? Forse no. Leggere le centinaia di commenti all’intervista concessa da Asia Argento a Gianmaria Tammaro è come fare uno zigzag tra insulti, offese e cattiverie inspiegabili. «Mi spiace Asia ma non sono solidale con te – scrive Alessandra Bartoli - Qui la violenza non c’entra. Nella vita si può scegliere: se farsi “mangiare dall’ orco” per convenienza o decidere di fare carriera percorrendo altre strade, magari più lunghe ma più dignitose». «Sinché le ragazze pur di far carriera, acconsentono il malvezzo non smetterà – rincara Bruna Bonino - A lamentarsi dovrebbe essere la maggioranza delle donne oneste che si vedono scavalcate da quelle disponibili a tutto». Per accusare la vittima c’è anche chi, come Anna Ferretti, sfrutta uno strano paragone: «È forse una vittima l’imprenditore che ha pagato la mazzetta per avere l’appalto? O sono vittime coloro che, magari con più meriti, hanno scelto di non pagare e non hanno lavorato? La legge punisce il concusso e il concussore».  Insomma, la vittima degli stupri ha una colpa imperdonabile: non aver parlato prima. Ma è sufficiente per far passare in secondo piano il reato vero? «Tenere troppo alla propria carriera non è una scusa accettabile – risponde Patrizia Maffe – Anzi, è un’offesa verso tutte quelle donne che hanno saputo dire di no». «È un’ipocrisia denunciare tutto dopo vent’anni quando sei già nella privilegiata condizione di potere vivere di rendita per le prossime tre reincarnazioni – rincara Sandro Vergato – Questa per Asia Argento è una ghiotta occasione per tornare a fare parlare di lei, ecco che prende al volo l’occasione e confessa “l’inconfessabile”». «La carriera vale più della dignità? – dice provocatoriamente Anna Rita Cesamento – Allora non lamentarti dopo 20 anni senza contare che per 5 anni hai continuato a frequentare il cosiddetto orco non sei credibile».  Sembrano voci isolate, ma nel tribunale improvvisato, e talvolta delirante, dei social network c’è anche qualcuno che ha trovato il coraggio di andare controcorrente: difendere Asia Argento. «Trovo ingiusto attaccare chi si è trovato in una situazione confusa e raccapricciante come questa – dice Sara De Sanctis - Asia Argento quindi sarebbe da attaccare solo perché quando era una ragazzina di 21 anni (e negli anni successivi) non ha saputo ribellarsi alle avance di un mega colosso mondiale che l’avrebbe schiacciata moralmente e lavorativamente, per di più in un momento storico in cui lo stupro non era neanche riconosciuto legalmente». «La violenza psicologica è molto più grave di quella fisica – ragiona Patrizia Gallo - Riflettiamo prima di giudicare. Il produttore non le ha costrette con la forza ma le ha intimorite con il suo potere, facendo credere loro che si sarebbe trasformato in ritorsione. Avrebbero chiuso una carriera appena iniziata. Ancora Eva contro Eva? Direi anche basta». 

Lettera femminista ad Asia Argento. La lettera apparsa sul blog Manginobrioches gestito dalla giornalista Anna Mallamo il 15 ottobre 2017. Cara Asia Argento, comincio col dirti che tu non mi eri mai stata particolarmente simpatica. Mi eri sempre sembrata poco più di una starlette, aiutata da un cognome famoso, e disinibita ma soprattutto a favore di telecamera. Sai, la mia generazione – che pure è quella che più ha lottato contro moralismi e inibizioni e divieti – ha sviluppato tutto un suo moralismo e inibizione verso quelle più giovani e disinibite, ma con un sospetto di tornaconto e/o narcisismo che a noi, madri fondatrici della disinibizione, suona inaccettabile. Ti chiedo scusa di questo, ma te lo dico perché forse può aiutare un poco a comprendere questa vicenda, che nasce orribile in America tanti anni fa, ma assume qui, oggi, in Italia, tutta una sua sfumatura marroncina a cui concorrono firme famose, amazzoni del web e testate giornalistiche (sia pure di quelle avvezze alle patate bollenti, più che altro: i loro titoli di prima pagina sono ormai un sottogenere del trash). Ti chiedo scusa anche a nome loro. Purtroppo, sei caduta anche tu nella famosa trappola che ogni giorno inghiotte tante di noi: il rovesciamento delle responsabilità. La colpa della violenza, della molestia, dell’abuso sono tuoi. E il linciaggio nei tuoi confronti è persino superiore, e di tanto, alla riprovazione nei confronti dell’autore di violenze, molestie, abusi. Peraltro c’avete proprio il fisico: tu bella, sensuale, trasgressiva; lui sfatto, butterato, con la silhouette da cinghiale strizzato negli smoking. Ecco imbastito il romanzaccio che colpisce la fantasia. E anche la trama perfetta perché ciascuna di noi possa impersonale il ruolo migliore: quella-che-non-l-avrebbe-mai-tollerato. Quella che di fronte al maiale che chiede “un massaggio” (talmente vigliacco da non chiamare nemmeno le cose col loro nome, e sminuirle lì stesso, davanti alla vittima, mentre si apre l’accappatoio, suggerendo l’eufemismo come riparo per entrambi, come paravento) avrebbe messo il mondo al suo posto e fatto giustizia per tutte. Io di me devo pensare che avrei detto di no, perché ne va della mia definizione di me. Devo pensare che avrei rifiutato il cinghiale e tutto il suo sistema (il solito, antico e consolidato: proprio quello in cui prosperano tanti che oggi ti stanno biasimando, proprio quello in cui tutto l’ipocrita star-system, che oggi è tutto un “ma io non sapevo, io non credevo, io non so perché ho taciuto”, è immerso fino al collo). Ma non ne sono mica sicura. A 21 anni ero inimmaginabilmente cretina e fragile, e tante fragilità nel tempo si sono solo fatte più furbe. Guardo indietro, a quella me, con indulgenza e un certa tenerezza, e vorrei guardare te così, oggi. Quella di 21 anni che non sa fronteggiare il cinghiale e ci si sottomette, quella di 22 che continua a dargli sesso non desiderato – come fanno milioni di donne che non riescono a dire un “no” che fermi i cinghiali, e poi lo trasformano in tanti altri “sì” senza che questo renda la violenza meno violenta e disgustosa. Vorrei abbracciare quella ragazza lontana, e tutte le altre: anche, oggi, quelle che – come me per cinque minuti – hanno pensato “ma io avrei detto no, lei perché non lo ha fatto, anzi poi ha continuato?”. Per milioni di motivi (e se entrate per un solo pomeriggio in un centro antiviolenza – di quelli che esistono ancora – potreste conoscerne un certo numero). Per la definizione di sé, perpetrando quell’inganno di linguaggio che il cinghiale ha messo in scena con quella sua richiesta di “massaggio”, mica di sesso estorto. Per la fragilità di chi si sente comunque solo, debole e perdente di fronte a un gigantesco sistema (che sì, ha le fattezze di un cinghiale in accappatoio, grande quanto Godzilla) che non gli consentirà di sopravvivere, dopo. Per la paura di avere paura, di mostrarla, di doverla sostenere, poi, davanti all’istruttoria ininterrotta di media, pubblico, familiari, amici, coscienza. Per non dover rispondere alle domande irrispettose, oscene, violente quanto la stessa violenza (vi ricordate la sentenza sui jeans? Vi ricordare Jodie Foster in “Sotto accusa”, violentata su un flipper da cinghiali che si erano sentiti provocati dal fatto che lei fosse provocante?). Per non sentirsi dire “figliuola, ma tu volevi fare l’attrice: se avessi voluto fare la lavapiatti non ti sarebbe successo”. Dimenticando che invece succede anche a tante lavapiatti, che nemmeno vent’anni dopo lo potranno raccontare. Per non ammettere che si sta aderendo a un sistema disgustoso, ma non si ha la forza di combatterlo e cercarne un altro (per inciso: sono molti anni che lo cerchiamo tutte, con risultati non incoraggianti, ma indispensabili. Ci auguriamo che anche la tua storia serva a questo) (per altro inciso: se anche esistono donne che credono nel sistema maschilista o lo usano per vantaggi personali, questo non assolve il maschilismo o condanna le donne, nemmeno quelle che lo sostengono. Sia ben chiaro). Sei bella, sei famosa, fai una vita interessante, ma non baratterei nessuna delle tue fortune con una sola ora nel letto del cinghiale, cara Asia. Quindi, se c’è qualcuno ansioso di “farti espiare”, sappia che lo hai già fatto. Tutta la mia solidarietà, dunque, cara Asia, di sorella maggiore che vorrebbe abbracciare non solo le vittime degli altri, ma anche le vittime di se stesse: a cominciare da quelle che si dicono “io avrei detto no” per rassicurarsi, e attaccano te per tranquillizzarsi, col solo effetto di sminuire le colpe dei cinghiali. Sorelle, non è necessario. Facciamo un gesto di forza vera: riconosciamo le nostre debolezze e abbracciamole. E fanculo ai cinghiali.

“Prima la danno via e poi frignano”: Asia Argento e il “femminismo meritocratico” italiano, scrive "Roba da donne". Tutte le donne che denunciano uno stupro o molestie meritano la nostra solidarietà? Cosa ci ha insegnato la vicenda di Asia Argento di questi giorni. La vicenda di Harvey Weinstein, il grande produttore americano accusato di violenza sessuale da un numero crescente di star, sta facendo tremare Hollywood, ma anche l’Italia che si è svegliata nuda, senza il velo dell’apparenza a salvare la nostra cultura dove giusto il femminismo, a quanto pare, è meritocratico, e vale “solo se” una donna ne viene reputata “degna”. Ma è riduttivo derubricare a una lotta tra maschilismo e perbenismo la spaccatura che si è venuta a creare, anche tra persone tutt’altro che bigotte o culturalmente arretrate, sullo stupro denunciato 20 anni dopo da Asia Argento.  Di sicuro, c’entra in questa storia un problema portante di questi tempi così politically “incorrect” nei fatti, ma dominati dalla gogna del politically correct in apparenza che impedisce, a volte, di chiamare semplicemente le cose come stanno, dove innocui aggettivi sono stati demonizzati e sostituiti da perifrasi puritane e dove qualsiasi convinzione diventa una crociata alla convinzione contraria. In che senso? A sollevare la rivolta non è tanto la denuncia di Asia Argento, quanto il fatto che lei dopo abbia avuto una relazione pluriennale e conseguenti rapporti consenzienti, per sua stessa ammissione, con il suo carnefice, si sia fatta fotografare con lui sorridente sui red carpet, abbia accettato regali costosi, abbia affidato a lui la produzione di quello che oggi definisce il suo video denuncia, abbia firmato la petizione, sempre insieme a Weinstein, a favore di Roman Polanski e altre cose illustrate, tra gli altri, da Selvaggia Lucarelli: "Questa faccenda di Weinstein, produttore potente e bavoso di Hollywood, che molesta le attrici presenta numerosi punti oscuri e francamente non tutti esattamente edificanti pure per le donne. Lui: un maiale. Sessuomane. Molestatore. Di quelli in cui si può inciampare, purtroppo. E succede pure in Italia. Ce ne sono di noti. Sono certa che parecchie ragazze famose e non che li hanno conosciuti sanno esattamente di chi sto parlando. Qualcuna avrà scelto di assecondarli e di lavorare in virtù di quel sì, qualcuna se ne sarà andata con un no, però standosene zitta e sperando di non avere ritorsioni sulla carriera. Di uno di questi avevo a lungo sentito parlare, l'ho conosciuto anni fa e sì, fu molesto e fuori posto. Gli dissi "Sei più intelligente di quello che stai facendo", si ricompose, si scusò e tanti saluti. E' stato mortificante, ma non mi sono sentita obbligata né manipolata psicologicamente come può accadere a una ragazzina di 13 anni. Mi sono sentita in imbarazzo. Umiliata. Siamo adulte, le molestie sono orrende ma non sono violenze sessuali. Possiamo dire no. Detto ciò, mai lavorato con lui. (e con altri) Mai vissuta con grande frustrazione. Di gente perbene ce n'è, basta scegliere. E non mi sento neppure un'eroina né voglio medaglie o pubblicità, altrimenti racconterei dettagli e molto altro. Non ho neppure un particolare astio nei confronti di quelle che invece ci vanno e ci stanno. Ognuna si dà il valore che desidera. Se per te un ruolo vale una scopata, tanti auguri. Non sei il mio modello di riferimento, ma francamente mi piace ancor meno un'altra categoria di donne. Quella di coloro che fanno lo stesso ma non riuscendo ad assolversi, cercano di vendersi come delle virtuose costrette dalle circostanze. Leggo dal sito dell'Ansa: "Nel '97, Asia Argento racconta di aver ricevuto un invito per un party della casa produttrice: quando arrivò però non c'era alcuna festa, ma fu portata nella suite di Weinstein. Lì, nonostante lei abbia ripetutamente tentato di sottrarsi, è stata costretta a subire del sesso orale, dopo che Weinstein le sollevò la gonna. "Mi terrorizzava, era un uomo troppo grosso per me. E' stato un incubo", ricorda l'attrice, che alla fine di quel rapporto disse: "Non sono una prostituta". E Weinstein - racconta - cominciò a ridere. "Non ho detto nulla finora perchè avevo paura che potesse distruggermi come ha fatto con molte altre persone. Che potesse rovinare la mia carriera".  Argento ricorda quindi di aver poi frequentato per anni il produttore, avendo con lui anche rapporti consensuali: "Sembrava ossessionato da me, mi faceva molti regali costosi". Ma quell'episodio iniziale ha comunque segnato la sua vita per anni: "Mi sono sentita responsabile. Se fossi stata una donna forte gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata. Ma non l'ho fatto. E' stato un trauma orribile". Ora. Francamente. Vai a letto con un bavoso potente per anni e non dici di no per paura che possa rovinare la tua carriera. Legittimo. Frigni 20 anni dopo su un giornale americano raccontando di tuoi rapporti da donna consenziente tra l'altro avvenuti in età più che adulta, dovendo attraversare oceani, con viaggi e spostamenti da organizzare, dipingendoli come "abusi". Meno legittimo. Ad occhio, sono abusi un po' troppo prolungati e pianificati per potersi chiamare tali. E se tu sei la prima a dire che lo facevi perché la tua carriera non venisse danneggiata, stai ammettendo di esserci andata per ragioni di opportunità. Nessuno ti giudica, Asia Argento. Però ti prego. Paladina delle vittime di molestie, abusi e stupri, anche no. Facciamo che sei finita in un gorgo putrido di squallidi do ut des e te ne sei pentita. Con 20 anni di ritardo però. Roman Polanski stupró una ragazzina di 13 anni. O meglio. Il giudice stabilì che si approfittò di questa ragazzina. Del suo potere su di lei. Andò in galera e poi una lunga storia processuale.  Nel 2009 Asia Argento firmò la petizione pro-Polanski (stupratore di 13enni) assieme a #weinstein e altri.  Noi che abbiamo delle perplessità sul suo racconto (relative alla sua relazione consensuale lunga 5 anni) facciamo apologia dello stupro. Però, sia chiaro, le petizioni a favore di uno stupratore non le firmiamo."

Ingiustificabile il fatto che lo sdegno si sia scagliato sulle donne e non su Harvey Weinstein che, sebbene abbia ammesso la fondatezza di tutte le accuse, si è giusto meritato una nota a margine nei commenti indignati di chi “sì, ok, lui è un porco ma…”. Ingiustificabili i toni di testate giornalistiche e personaggi televisivi, contro cui andrebbero presi provvedimenti che nulla hanno a che vedere con la censura, né ledono la libertà di parola, dal momento che gli stessi ledono semmai la dignità delle persone. Ma esistono alcune cose che chiunque di noi, donne e uomini, ha probabilmente pensato e non dirselo significa autocensurare un pensiero che sappiamo essere controverso e non politically correct in questi tempi di nuove (ed effettivamente mai sufficienti) lotte femministe.  Ed è quello espresso – male, a mio avviso e con mio grande stupore visti gli autori – dalla Lucarelli e da Luxuria. Non è difficile per nessuno comprendere come una violenza si consumi senza che la vittima, stordita, spaventata, riesca a opporre una reale resistenza. O almeno spero, ma temo a questo proposito il riscontro con la realtà. La stessa Asia non ha cercato alibi nel dire: Mi sono sentita responsabile. Se fossi stata una donna forte gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata. Ma non l’ho fatto. E’ stato un trauma orribile. Ma a chi di noi è successo deve avere l’onestà intellettuale e morale di dire che quello che Selvaggia Lucarelli e Vladimir Luxuria hanno avuto, a modo loro, il “coraggio” – mi si passi il termine – di esternare, è passato anche nella nostra testa e, in parte, non riesce ad andarsene e possiamo semmai limitarci a tenerlo a bada. Perché? Un po’ perché ha ragione Michela Murgia quando ha detto "Viviamo in un Paese in cui non servono nemmeno i maschi per essere maschilisti" e anche i più illuminati di noi, probabilmente, questa cultura patriarcale ce l’hanno nel sangue, annidata come un virus che ci è stato iniettato da piccoli. L’abbiamo saputo sconfiggere con la consapevolezza, la cultura, l’empatia, ma resta è lì, latente e ostinato, in attesa di aggredirci alla prima distrazione. Ammetterlo è motivo, per la sottoscritta, di vergogna, perché va a minare qualsiasi possibile e appagante “posa” da femminista senza se e senza ma. Non farlo, sarebbe codardia e perbenismo camuffato da impegno sociale e lotta femminista. Roba da bigotte “alternative”. Ho pensato anch’io che fosse “comodo”, di più, che fosse “sbagliato” accettare i compromessi più schifosi non per una questione di vita o di morte, ma per un prestigio o un lusso, come quello del successo o una carriera nel cinema, e poi gridare allo scandalo a “risultato ottenuto”.  Ho pensato anche io alle donne che probabilmente non sono un nome e un cognome da noi idolatrato e ricoperto d’oro solo perché quando si sono trovate davanti all’obolo di darla a quello giusto hanno detto vaffanculo e quel calcio nelle palle lo hanno dato. Ci siamo passate un po’ tutte, o in molte, al bivio dell’accettare o non accettare il favore di qualcuno che, guarda caso, se sei donna e vagamente piacente, passa sempre per un letto e chi di noi ha detto no sa bene dov’è arrivata chi non lo ha detto, perché magari era quel posto che, per merito, avrebbe dovuto essere nostro. Si paga con la rabbia, la frustrazione e tanto altro quel senso di impotenza e allora è facile prendersela con Asia Argento, con Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie o le altre, le “complici”, che hanno pagato il loro silenzio o il loro dramma personale con il successo e i soldi. La stessa rabbia non l’avremmo riservata alla donna delle pulizie o l’operaia che si piega al volere del capo pervertito per paura di perdere un posto di lavoro.  Lei ha chinato il capo per la sopravvivenza, le altre per il superfluo. Greta Priviteri di Vanity Fair ha chiesto a Michela Murgia "E chi accusa queste attrici di aver goduto dei benefici di certe scelte? La risposta, confesso, mi ha aiutata molto per capire i sentimenti controversi che questa vicenda ha suscitato nella sottoscritta: Parte da un punto sbagliato. Infatti, viene spesso messo l’accento su quello che si ottiene accettando il ricatto sessuale. Poi, se raggiungi qualcosa, secondo questa stupida teoria, non puoi più dirti ricattata. Ma si dovrebbe partire da un altro presupposto: queste donne potevano discutere le condizioni del ricatto? Se desideravano con tutte loro stesse di fare le attrici, la colpa è di quel qualcuno che le ha in qualche modo costrette a saltare nel suo letto o è loro che avevano un sogno? Dobbiamo discutere la condizione a livello iniziale. Chiediamoci: poteva ottenerlo diversamente? Poi c’è chi è forte e riesce a dire di no, dipende da quanti anni hai, che esperienze hai, in che condizione psicologica sei.

Perché non riuscivo a dire con lo stesso sdegno di sempre “Asia è una vittima”, con lo sdegno che diventa nausea per quelli che “sì ma lei un po’ se l’è cercata” o “se non si è ribellata è perché le piaceva”? Ho capito che la compassione e il disprezzo, spesso, dipendono da cosa “hai ottenuto”. Se la donna delle pulizie o l’operaia col tempo diventa la responsabile di un reparto con un ruolo sicuro e uno stipendio più che dignitoso ecco che la nostra compassione finisce e diventa una “puttana”. L’empatia va meritata. E se hai ottenuto qualcosa, la molestia diventa il “valore” che hai dato al tuo obiettivo, il “pagamento” per quanto hai ricevuto in cambio e, quindi, non meriti compassione. È la versione, se possibile ancora più subdola, del se ti stuprano e hai la minigonna o un atteggiamento provocante, allora sei una “troia che se l’è andata a cercare”, mentre se sei vestita come l’omino Michelin e magari pure un po’ sfigata allora sei la vittima. Asia, Gwynet e le altre ora denunciano e “piagnucolano ingrate”, secondo alcuni, dopo aver fatto incetta dei favori ottenuti in cambio di quello che hanno subito in silenzio. Questo è quello che ci dice il “femminismo meritocratico”. È vittima la ragazza che resta inerme a subire la violenza, perché troppo spaventata e incapace di reagire, ma da questa non ottiene nulla. È vittima la donna che è soggiogata a un uomo senza trarne alcun giovamento personale. Ma non esiste più possibilità di denunciare e di sentirsi vittime se la sudditanza fisica e psicologica a un uomo ti ha portato ad appartenere a un elite cui tanti aspirano. In che condizioni psicologiche era l’Asia che ebbe la relazione con Harvey Weinstein? Quanto ha pesato il fatto di non aver saputo sottrarsi la prima volta, nel sentirsi colpevole e in condizione di non poter più denunciare se non lo hai fatto subito? Non abbiamo consultato psicologi o persone titolate a farlo, prima di emettere la nostra sentenza.  Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che la violenza ha varie forme. Sì, ma le donne che hanno detto no e non hanno avuto successo? Sì, ma le vittime di stupri “veri”, quelli per strada, quelli dove tu ti ribelli ma subisci uguale e rischi pure di essere ammazzata? Così si manca loro di rispetto, così si mettono sullo stesso piano, così è ingiusto, loro meritano di… queste altre non sono certo delle sante. Obiettano i più. Eccolo il femminismo “meritocratico”, che vuole la graduatoria delle vittime per decidere chi ammettere nella rosa della nostra compassione. Non mi risulta che né Asia, né nessun’altra star stiano sostenendo di essere più vittime o vittime tanto quando le altre di cui sopra. Asia Argento non è una santa, non lo è nessuna delle vip hollywoodiane coinvolte in questa brutta storia, non lo è nessuna di noi che, almeno in un momento della sua vita, secondo la “meritocrazia”, sarebbe stata esclusa dalla lista delle vittime riconosciute per un ammiccamento, un abito o per la concessione a un capo bavoso di dirci quella parola di troppo, nonostante lo schifo che ci faceva. La verità è che abbiamo perso l’occasione per parlare di un altro volto della violenza: quello che passa per l’abuso di potere e non ha a che fare necessariamente con un uomo che ti mette in un angolo, all’improvviso, e ti assale. È una violenza subdola, di cui ti senti colpevole perché allunga la mano dopo che tu non sei stata in grado di mettere al suo posto l’uomo che lo fa quando le sue molestie erano ancora solo parole, atteggiamenti, allusioni ogni giorno più insistenti e che nulla hanno a che fare con uno che “ci prova” o ti sta corteggiando. La maggior parte di noi quando è arrivata quella mano probabilmente ha finalmente trovato la forza di andarsene e respingere, insieme a quelle dita sudicie, anche il sogno che per meritocrazia ci spettava di diritto e non è mai diventato realtà perché non abbiamo pagato quel “prezzo” finale. Siamo state migliori? Vorrebbe dire stilare un’altra graduatoria. Forse sì, forse abbiamo avuto solo la fortuna di essere più “carrozzate” e preparate emotivamente e psicologicamente, forse avevamo accanto qualcuno che ci ha dato la forza. La verità è che abbiamo perso l’occasione di dire alla ragazza che entra nel mondo del lavoro, che può denunciare e gridare tutto il suo schifo anche se non ha dato uno schiaffo la prima volta al superiore che ha finto di sfiorarla casualmente in ascensore e che ogni giorno diventa più insistente e poi ancora di più. Abbiamo perso l’occasione di dirle che può fermarlo alla seconda, quinta, decima o ventesima volta anche se non è riuscita a farlo prima. Del resto non avremmo potuto dirle nulla di questo, perché la verità è che se lo facesse sarebbe per ancora tante, troppe persone, una puttana, cui è piaciuto e ora si è stancata.

Abusi sessuali, il sondaggio che "depone a sfavore" di Asia Argento: cosa pensano gli italiani, scrive il 15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Il caso di Harvey Weinstein, il porco molestatore di Hollywood, ha acceso in Italia un aspro dibattito sui ricatti che le donne spesso subiscono per entrare nel mercato del lavoro, nel mondo dello spettacolo in particolare. Ad accendere la discussione, anche e soprattutto il fatto che Asia Argento abbia puntato il dito contro il produttore, ma soltanto 20 anni dopo. In molti hanno preso posizione contro l'attrice, accusata di aver taciuto per convenienza. Accuse che lei rigetta. Ma a "deporre a sfavore" di Asia, ora, fa capolino un sondaggio Ipr Marketing pubblicato su Il Giorno. Al netto del fatto che il 65% degli intervistati ritiene che questo tipo di problemi riguardi non soltanto i vip, un 44% sostiene che chi è stata vittima di abusi non avrebbe dovuto accettare di far parte del cast del film dopo aver subito la violenza. C'è poi un 38% che giustifica l'atteggiamento di compromesso con il fatto che, spiega Antonio Noto, "nel cinema è una prassi consolidata". Dunque un ultima domanda: "Per entrare nel mondo dello spettacolo le donne utilizzano il loro corpo?". Il 42% risponde di sì, il 36% no mentre il 22% afferma di non sapere.

Cunnilingus, la verità di Feltri: Asia Argento e quella "leccatina". Il direttore senza freni, scrive il 13 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano”. "Asia Argento? A me sembra strano che ci siano degli stupri consensuali. Non mi pare che questa ragazza si sia opposta. Fa ancora più ridere il fatto che prima la danno via, poi piagnucolano un po', e dopo 20 anni si pentono accusando il presunto stupratore. Mi sembra addirittura paradossale". Vittorio Feltri, ospite a La Zanzara su Radio 24, attacca duramente l'attrice che ha denunciato per molestie il produttore cinematografico Harvey Weinstein. "Dico presunto perché se l'hai data via consensualmente e sei maggiorenne, alla fine sei tu che gliela hai data. E non dovevi, perché non tutte la davano a questo signore. Alcune si sono rifiutate. Invece di fare la parte di un filmino, andavano a fare le commesse o le cassiere in un supermercato. Nessuno ti obbliga a diventare una grande attrice. Se tu la dai via per ottenere un vantaggio, è una forma di prostituzione". Insomma, conclude il direttore di Libero:" Alla fine si è trattato, sembra, di uncunnilingus. Cioè una leccatina. Era un cunnilingus, dunque doveva dare lei qualcosa al produttore. E poi, una leccatina fa sempre piacere". E a 21 anni non si è in una condizione di sudditanza: "A 21 anni io avevo già due figli e lavoravo. E' uno schifo anche darla, non solo chiederla. E poi entriamo nello specifico". "E' stata forse costretta a farsela leccare? L'ha legata? Allora che stupro è? Gliel'ha data per ottenere la parte, sperava di ottenere qualcosa. Poi è successo altre volte. E poi questa (Asia Argento, ndr) di fronte a una lingua si intimidisce, ma non diciamo stupidaggini. Io non ho mai visto di fare violenza con la lingua. Perché denunciare dopo 21 anni? Ha avuto una riflessione piuttosto lunga. Le è piaciuto evidentemente, sennò avrebbe smesso di frequentarlo".

Asia Argento denuncia Libero. Poteva aspettare 20 anni, scrive il 13 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano”. Asia Argento non perde tempo. Querela Libero per il pezzo di Renato Farina sulle donne che assecondano i desideri del boss per la carriera, in particolare il recente caso clamoroso di Harvey Weinstein. Visto che ci ha messo 20 anni a denunciare le malefatte di Weinstein, Asia ci poteva mettere gli stessi 20 anni per denunciare Libero, invece è stata più rapida. "Rendo noto di aver querelato @Libero_official per aver offeso la mia dignità di donna e leso la mia reputazione con il loro pessimo articolo", ha scritto l'attrice, che 20 anni fa fu molestata dal produttore porcello, ex capo della casa di produzione Miramax. Anche il fidanzato, lo chef Anthony Bourdain, attacca il quotidiano (e tutta la stampa) definendoci "cani e porci". E invita Farina a leggergli di persona l'articolo. 

Simona Ventura, la bomba: "Una cosina che so su Asia Argento, Harvey Weinstein e sua moglie", scrive il 13 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Adesso che è il caso del momento, è diventata una moda dire di conoscere Harvey Weinstein o le sue malefatte sessuali a Hollywood. Chi più e chi meno, si scopre che tutti sapevano. Ma parlano solo adesso. Per esempio Simona Ventura, che per la verità non è mai stata un'attrice a Los Angeles. Scrive la conduttrice sui social: "Quello che sta succedendo ad Asia Argento mi ha fatto pensare.  Conosco Harvey Weinstein da molto... A metà anni 2000 lo incontravo spesso nel mio girovagare a livello internazionale. Erano gli anni delle INARRIVABILI feste di Dolce e Gabbana a Cannes e Venezia... dei 45 anni di carriera dell’imperatore Valentino (e Roma che così bella non ho mai più visto) della Formula 1 di Flavio Briatore (che scherzosamente chiamavano "il meccanico"), degli Halloween parties di NYC, delle feste e il karaoke nel privée Cipriani (pieno di gente di tutto il mondo)".  La Ventura dopo la premessa va al nocciolo della questione: "E quello che faceva Weinstein era risaputo da tutti". Il metodo Weinstein: "Se accettavi i suoi 'corteggiamenti lavoravi in grandi film hollywoodiani, Oscar e grandi cachet, sennò no. Era duro e rischioso, lo sapevano tutti ma capire qual è il confine tra volontà e costrizione è molto difficile". Ma adesso lui non conta più nulla. "Ora che il vento è cambiato, tutte (chi in ritardo chi no) si scatenano contro di lui. Meglio tardi che mai!". E poi un velenoso aneddoto sulla moglie: "La moglie Georgina ora divorzia, ma per molti anni le più grandi attrici indossavano i suoi abiti per fare i film con lui. E lei zitta. Faceva comodo passare dove l’acqua è più bassa". La Ventura poi si rivolge ad Asia Argento: "Asia per me non sei colpevole, meglio tardi che mai, hai fatto bene a denunciare. Non puoi però pretendere che molte di noi provino compassione. Oggi c’è più maschilismo nelle donne che negli uomini stessi. E fa male".

"Morgan mi confessò: Asia era lusingata dalla corte di Weinstein". L'ex marito dell'attrice: "Lui per lei prendeva l'aereo privato fino a Roma e le portava i fiori", scrive Paolo Giordano, Sabato 14/10/2017, su "Il Giornale". «Morgan mi ha detto che Asia Argento ha avuto a lungo rapporti con Weinstein e non gli sembra si sia mai lamentata. Anzi, oggi lui fatica a credere che Asia l'abbia denunciato ora. E che non l'abbia fatto a suo tempo». Vittorio Sgarbi ha chiacchierato a lungo con l'artista che è stato per molto tempo compagno di Asia Argento e con la quale ha avuto la figlia Anna Lou (ora ha 15 anni). Nei giorni scorsi l'attrice ha rivelato di aver subito rapporti molto ravvicinati con Harvey Weinstein, che avrebbe «fatto» con lui sesso orale quando aveva 21 anni. Ieri il Giornale ha riportato le confidenze che la figlia di Dario Argento ha fatto via fax alla nostra cronista Daniela Fedi proprio in merito alla frequentazione con il più potente produttore di Hollywood. Ora, mentre l'attrice si lamenta di essere stata maltrattata dopo le sue rivelazioni, il suo ex compagno Morgan, parlando con l'amico Vittorio Sgarbi, ricorda come lei «fosse contentissima quando Weinstein prendeva l'aereo privato e arrivava a Roma per incontrarla. Dopo l'atterraggio, prendeva un elicottero e la raggiungeva. Spesso portava anche dei fiori, come un vero innamorato in pieno corteggiamento. E talvolta lei non si faceva trovare, mortificandone le dimostrazioni amorose». Vittorio Sgarbi ha incontrato Harvey Weinstein alcune volte specialmente alla Mostra del Cinema di Venezia, nelle vesti sia di sottosegretario ai Beni culturali sia di Soprintendente alle Belle Arti, «e ci ho anche litigato perché mi sono trovato di fronte una persona molto arrogante che non ho nessuna voglia di difendere. Mi è sempre sembrato un maiale», ricorda. Ma, mentre riporta le parole di Morgan, Sgarbi sembra convinto della realtà delle accuse. E si spinge a ricordare il caso di Artemisia Gentileschi che accusò (e fece processare) per stupro il pittore Agostino Tassi «non per la violenza in sé, ma perché lui dopo un mese non l'aveva ancora sposata». In ogni caso, per tornare ai nostri tempi, si tratta di una questione delicatissima e, ovviamente, sottoposta a tutti i condizionali del caso. Di certo, il rapporto lavorativo di Asia Argento non si è interrotto dopo la presunta violenza, ma è proseguito per anni senza alcuna apparente variazione. «Morgan mi ha ricordato che Asia gli ha sempre riferito cose positive sia per la personalità sia per le qualità professionali di Weinstein sia per le sue manifestazioni amorose, che lei mostrava di apprezzare e di aver ricevuto molto di più di quanto avesse chiesto, lavorando con piena soddisfazione e gratitudine per lui. Non avendo mai pensato che lei avesse intenzione di denunciare Morgan si chiede perché lo abbia fatto oggi, forse non avendo più avuto quello che prima le era stato utile. E che quindi anche in questo caso abbia fatto quello che le era più conveniente, essendo così abile da far tornare a suo favore quello che al tempo non la preoccupava minimamente, di cui non mi ero affatto accorto e non si era mai lamentata con me». A questo punto, se le parole di Morgan riportate da Vittorio Sgarbi saranno confermate, lo scenario cambia completamente e le iniziali dichiarazioni di Asia Argento riceverebbero un riflesso diverso e inedito anche all'interno di questa delicatissima questione ormai allargatasi da Hollywood al resto del mondo. Anzi, secondo quanto riporta Morgan attraverso Sgarbi, «Asia Argento qualche volta addirittura si rifiutava di incontrarlo e lo mandava via come un cane bastonato». In sostanza, le solite schermaglie tra due persone che flirtano. Schermaglie che, se confermate, si inserirebbero con un'altra luce in una questione della quale tutto il mondo, con paura o curiosità, sta parlando da giorni.

Vittorio Feltri risponde ad Asia Argento: "Fa il dito a noi ma disse sì al vecchio porco di Hollywood", scrive il 14 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Libero è stato attaccato da varie parti per aver commentato la vicenda di Asia Argento, la quale ha dichiarato di essere stata violentata dal produttore cinematografico americano Weinstein. Il nostro valente Renato Farina, in sintesi, ha scritto che cedere alle avances del boss per fare carriera è prostituzione e non stupro. Difficile sul piano tecnico e giuridico dargli torto. All’epoca dei fatti la figlia di Dario aveva 21 anni, età in cui poteva votare essendo maggiorenne. Il che significa che era responsabile delle sue azioni. Al cento per cento. Se Asia ha accettato le profferte del signore in questione, si vede che aveva la sua bella convenienza. Quale? Recitare in un film o in vari film. Altrimenti lo avrebbe mandato, probabilmente, al diavolo. Non è una bella cosa farsela dare da una ragazza promettendole mari e monti, ma non è una bella cosa neppure donarsi per ottenere un vantaggio. Pertanto siamo di fronte a due persone con una moralità poco solida. Madame Argento, forse per pudore, non ha mai rivelato la sua triste esperienza. Ha aspettato un ventennio a raccontarla urbi e orbi, quando il potente produttore si è trovato al centro di uno scandalo. Un pentimento tardivo e quindi non genuino. Trattasi di vendetta? Questo sarà difficile accertarlo. Ma prima di condannare Weinstein, è meglio aspettare venga processato e siano chiarite le sue eventuali colpe. La presunzione di innocenza vale per chiunque. Comunque l’attrice ha reagito alle nostre osservazioni logiche e a quelle di altri postando una propria fotografia sui social in cui ella è ritratta col dito medio irrigidito e rivolto verso l’alto, il cui senso è il medesimo di un sonoro vaffanculo. Una volgarità degna di una che la dà via per strappare un favore. Sarebbe stato più opportuno che Asia, per giustificarsi, avesse detto: «Cari amici, ho acconsentito a giacere con l’orco per motivi alimentari e allo scopo di soddisfare le mie ambizioni, e ciò mi ha devastata psicologicamente. Voi evitate di cedere a certi ricatti più o meno celati che segnano per la vita». La sincerità paga sempre. Lei avrebbe lanciato un messaggio utile, invece ha puntato il dito accusatorio venti anni dopo aver subìto il presunto torto. Il che è stato ed è diseducativo e offende quelle donne a cui non è data alcuna facoltà di scelta e sono abusate, prese con la forza, poi gettate in strada quali stracci. In effetti la signora Argento non si è ribellata, ha deciso di sottostare alle pretese del produttore perché redditizio. Ha agito bene o male? Nessuno la giudica. Ma ci risparmi il fervorino della vittima, della pecorella smarrita, di Cappuccetto rosso minacciata dal lupo cattivo. Fa ridere che una giovanotta di 21 anni non sia stata in grado di respingere le bramosie di un vecchio porco. Pensiamo piuttosto alle povere donne brutalizzate da energumeni con la bava alla bocca e totalmente disarmate dinanzi ai muscoli e alla prepotenza di veri delinquenti. Quel dito medio sessista (lo segnaliamo alla presidente Boldrini), cara Argento, se lo tenga per lei, le può servire per schivare altri incidenti. Vittorio Feltri

Renato Farina ad Asia Argento: "Ti spiego la differenza tra stupratore e sporcaccione", scrive il 15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Ci tocca dire una cosa antipatica. Un conto è la morale, un’altra il codice penale. Senza questa distinzione essenziale vivremmo nella tirannide dei presunti puri, in realtà dei Robespierre sanguinari, in balia di plotoni di esecuzione al servizio della morale corrente, assai volubile e manipolabile. Detto nel contesto di Harvey Weinstein Asia Argento e dintorni. Esiste il reato di stupro. Quello di maialaggine non c’è. Peraltro, non esiste neppure il reato di odio. Non c’è neanche quello di essere uomini o donne di merda, sarebbe una forma di razzismo scatologico. Per rimanere al caso nostro. So che togliere il marchio di criminalità alla smodata lussuria, propria di omoni ricchi e gaudenti, mi farà passare per un complice che banalizza la schifezza, o come minimo per un lassista, un epiteto che evocando il lassativo non appare un complimento. Alle proposte indecenti c’è lo spazio della libertà: del sì e del no. Talvolta questo esercizio di coraggio è difficile per anime cresciute nella bambagia, ma non ci posso fare niente. Per queste mie tesi, Asia Argento annuncia querela, ritenendo la mia opinione un crimine. Perfetto. Ma io insisto lo stesso. La maialaggine non è reato. È odiosa e merita riprovazione. Non è un crimine però. Quando il porco morde e divora la vittima, è un’altra storia: è stupro, molestia sessuale, sequestro di persona. È abominevole delitto. Per provarlo cerco soccorso e rifugio in Mozart-Da Ponte, e nella loro opera lirica più famosa, il «Don Giovanni». Consiglio a tutti i progressisti, che si specchiano in quelle vicende teatrali perché si sentono belli e seduttivi come l’eroe delle braghette, di smetterla con la doppiezza. Ormai infatti gli intellettuali, donne comprese, hanno sdoganato le prodezze di Rocco Siffredi e la filosofia del «culo alto ci fo un salto» che da «Amici miei» in poi è rivendicata come morale nazionale, però poi non inorridiscono per Weinstein, e non colgono che l’esasperazione del concetto tracima spesso nell’umiliazione violenta dell’altro/a. Come in Don Giovanni. Per il fuoriclasse di Siviglia, campione dei libertini d’ogni età ed epoca, la seduzione insaziabile è lo scopo della vita, e dunque supremamente morale, distrae dalla noia, attinge bellezza e piacere. È un crimine? No. Finché applica il suo motto «purché porti la gonnella voi sapete quel che fa» e usa il suo potere per portare Zerlina nel «casinetto» promettendole di sottrarla al suo destino di sposa contadina, insiste, e lei dice sì, non è un reato. Anche se la inganna, non commette reati. Scema lei che ci è cascata. Don Giovanni un minuto dopo offre «cioccolato, caffè, vini e prosciutti» per adescarne altre, trionfa. Dissipa la sua vita e sciupa quella delle molte donne che ha posseduto. Certo esse hanno ceduto all’autorità del cappello piumato, ma a Mozart è più simpatico lui. Alla fine però trova Donna Anna. Lei gli resiste. Come possibile? Allora cerca di violentarla, e ammazza il padre accorso per difenderla. Crimini spaventosi, questi sì. Non si pente e sprofonda all’inferno. In quel momento. E solo allora, anche il servo Leporello, che avrebbe voluto essere come lui e ha coperto i suoi delitti, lo scarica, e va all’osteria a cercare un padron migliore. Forse non c’è bisogno, ma ritraduco: Weinstein è un porco. Un Don Giovanni senza Mozart, dunque un suino dall’anima setolosa. È ufficiale. Questo nessuno lo può negare, lo confessa anche lui che si è rifugiato in una clinica per de-maializzarsi. (Mi domando quale sia il trattamento: pozioni di bromuro? Oppure, come insegnavano ai chierichetti e praticavano in proprio certi vecchi preti, lunghe corse in bicicletta?). È un delinquente? Aspettiamo il tribunale che verifichi o meno le violenze, anche se dopo tanti anni è difficile arrivare a un giudizio. Di certo è opportuno chiarirci le idee. Nella nostra società occidentale si tutelano, anzi si dovrebbero tutelare insieme la libertà individuale e “la buona vita” del popolo, esiste, deve esistere, questa distinzione tra morale e leggi. Ovvio, le leggi hanno anch’esso un contenuto etico e pedagogico, lo sosteneva già Aristotele. La legge non stabilisce ciò che è buono e giusto. Vieta l’uso della violenza in tutte le sue forme e sfumature. Il resto appartiene alla sfera individuale o a quella delle relazioni interpersonali che attengono al gioco della libertà. In questo campo esistono sanzioni che non tocca sentenziare ai tribunali ma coincidono con la stima disistima del proprio ambiente sociale e dell’opinione pubblica. E possono decretare la morte sociale, che è persino peggio di un po’ di galera. Molto spesso questo tipi di gogna è basato sul pregiudizio. Un esempio? Il regista Roman Polanski passa per un fenomeno del cinema. Ha violentato una ragazzina in America? Licenza poetica. Tutto il mondo del cinema e dell’intellettualità ha impedito la sua estradizione dalla Svizzera. E questo non è un porco, ma uno stupratore di minorenni. In questi giorni è venuto fuori che Luchino Visconti promuoveva o bocciava attori sulla base fossero di suo gusto, nel senso che state pensando. Prostituzione lampante! Ma transeat. Sarà stato un porco, ma è una gloria italica. Al contrario, Dario Argento, il padre di Asia, sostiene che lui non ha mai accettato lo scambio, ma ci sono attrici che gli si sono offerte in cambio di una parte. Mi domando: perché non le ha denunciate? Ovvio: non hanno usato violenza. Erano delle maiale, o - secondo un sinonimo applicato sovente in modo esagerato – erano troie. E non è un reato. Né la maialaggine né la troiaggine lo sono. Renato Farina

#90secondi, Pietro Senaldi: "La verità su Asia Argento è che la conosciamo perché limonava con un cane...", scrive il 15 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". La verità è che Asia Argento la conosciamo "perché è stata la moglie di Morgan, perché "figlia di un grande regista italiano", per l'immagine in cui "limonava con un cane" e ora per il fatto di "essersi venduta a un produttore". Il direttore Pietro Senaldi, a #90secondi, chiede: "Qualcuno ha in mente un film di Asia Argento? Una sua performance artistica? Nessuno". 

La prima molestia nel 1984: chi sono le 30 donne che accusano Harvey Weinstein. Asia Argento: "Costretta a subire sesso orale". Ci sono anche Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Cara Delevigne, scrive il 13/10/2017 "L'Huffingtonpost.it". Accuse infinite per Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood che avrebbe molestato e abusato sessualmente decine di donne del mondo dello spettacolo per oltre 30 anni. La prima vittima, in ordine cronologico, sarebbe Tomi-Ann Roberts, ora insegnante di psicologia. Nel 1984 aveva 20 anni e sognava di fare l'attrice: Weinstein rimase solo con lei nonostante le avesse detto che ci sarebbero state altre tre ragazze. Tra i nomi più grossi che hanno accusato il produttore ci sono quelli di Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie e Cara Delevigne. HuffPost Us ha raccolto in un video tutte le presunte molestie, anno dopo anno. Il numero delle donne ha già superato quota 30. Tra decine di denunce di molestie, ci sono anche almeno tre accuse di stupro. Una è arrivata dall'attrice italiana Asia Argento, che al New Yorker ha raccontato di aver subito sesso orale da Weinstein nel 1997 durante una festa in Francia. Argento ha aggiunto che, dopo quel fatto, ha avuto rapporti consenzienti (ma sempre "onanistici") con il produttore per i 5 anni successivi. "Non ho parlato prima perché avevo paura e temevo che mi rovinasse la carriera", ha spiegato. A tutti quelli che sui social network ora la stanno accusando per questa frase, l'attrice ha risposto con un dito medio "agli italiani" su Instagram.

Weinstein, Asia Argento e Laura Boldrini: appello fuori luogo. E se invece…, scrive Silvia Cirocchi il 20 ottobre 2017 su "Blitz quotidiano". Leggo e rileggo le dichiarazioni di Asia Argento e l’unica parte delle sue affermazioni che mi salta all’occhio, quella che mi è rimasta più impressa è quella in cui dice che non è riuscita a rifiutare le violenze di Hervey Weinstein (come se qualcuno l’avesse segregata in casa e buttato la chiave) perché temeva che la sua carriera potesse essere rovinata. Di cosa stiamo parlando? Di chi per un momento di maggiore consenso e popolarità è disposta a cavalcare l’onda del femminismo? E questo ovviamente non vale solo per Asia Argento, ma anche per tutte le attrici di Hollywood che osannavano Weinstein fino al giorno prima e si ritrovano improvvisamente puritane, tutte sante. Come se il segreto di Pulcinella dovesse rimanere nascosto. Insomma tutti ad attaccare il drago, peccato io non veda le vergini. Ed ovviamente, poteva mancare in un questo perfetto quadretto femminista-buonista l’intervento del Presidente della Camera Laura Boldrini? Eh no! Scherziamo? Asia Argento ci comunica che in Italia le donne non sanno lottare (e qua mia madre potrebbe raccontarle cosa vuol dire fare gavetta e sacrifici per la propria famiglia, a differenza di chi non ha avuto bisogno di lottare mai nella vita come lei) e che quindi lei se va. Immaginatevi questa scena strappalacrime scritta sui giornali in cui la terza carica dello stato dice all’attrice (?) di non andarsene perché tutte le donne in Italia sono con lei. Ma tutte chi? Perché non cerchiamo invece di risolvere due problemi in una volta sola e chiediamo alla Boldrini di raggiungere Asia Argento all’estero? E’ davvero incredibile la capacità del Presidente della Camera di accaparrarsi le cause perse. L’inadeguatezza della sua persona rispetto al ruolo che ricopre è ancora confermata. In questi giorni si sono spesi fiumi di parole sulla questione violenze. Molti hanno parlato a sproposito, altri sicuramente senza averne alcun titolo. Ma credo che tra la moltitudine di dichiarazioni ce ne sia una in particolare che spicca su tutte. E mi pare strano, ma è così, che Marina Ripa di Meana abbia detto la cosa più vera: “In realtà eravamo quasi tutte pronte a darla anche al gatto, come si dice a Roma, pur di raggiungere lo scopo. E senza fare confusioni tra lupi e agnelli, tra vittime e carnefici, trovo tuttavia ipocrita questa slavina di perbenismo che l’America puritana sta riversando addosso a Weinstein”. Per una volta, proviamo a mettere da parte l’ipocrisia. Le vere donne questo fanno.

Tutte le volte che Asia Argento ha insultato e disprezzato le donne, scrive il 19 ottobre 2017 "Diretta news". Il caso Weinstein ha monopolizzato l’attenzione per più di una settimana, assumendo in Italia una connotazione particolare per via delle polemiche che la denuncia di Asia Argento ha suscitato nell’opinione pubblica. Sono stati, infatti, parecchi quelli che si sono schierati contro l’attrice italiana, sostenendo che quello subito da lei non era certo uno stupro, bensì una molestia e accusandola di averlo accettato per fini utilitaristici. Agli attacchi Asia ha reagito in diverso modo: si è detta delusa dalle parole di Vladimir Luxuria, ha contrattaccato a quelle di Selvaggia Lucarelli ed infine ha denunciato Libero per diffamazione. Ieri, infine, la Argento ha dichiarato di voler lasciare l’Italia perché si sente abbandonata dalle donne, coloro che, secondo lei, avrebbero dovuto difenderla a spada tratta poiché rappresentanti del suo genere. Anche in questo caso l’attrice ha ricevuto parole di sostegno, Emma Bonino e la Boldrini le hanno chiesto di ripensarci e di rimanere nel nostro Paese, ma soprattutto le critiche di chi la ritiene opportunista anche nel cercare l’appoggio delle donne. A ben vedere, infatti, Asia è un tipo eccentrico, non convenzionale, che in più di un’occasione si è espressa in maniera sessista e dispregiativa nei confronti di altre donne, basterebbe rammentare la volta in cui ha fotografato di nascosto Giorgia Meloni in un ristorante per poi postare la foto sui social con commenti sprezzanti sulla sua forma fisica: “La schiena lardosa di una fascista”, a cui ha aggiunto: “Il culo grasso di una ricca senza vergogna”. Insomma non proprio parole di una donna che difende il genere in quanto tale. C’è stata quella volta poi, in cui ha iniziato una battaglia social contro Selvaggia Lucarelli per una bocciatura a Ballando sotto le stelle: in quella occasione Asia ha dato il peggio di sé dicendo alla Lucarelli che sembrava vestita come una nonna, aggiungendo che: “Chi fa parlare di sé solo perché copula o fa arrabbiare personaggi famosi non è altro che un parassita della notorietà altrui” e concludendo con una frase che farebbe inorridire qualsiasi donna: “Guarda nella tua anima puttana”. Che dire? Non proprio affermazioni da femminista o da donna che rispetta le altre. Ma la mancanza di rispetto peggiore nei confronti di una donna di cui si è macchiata Asia Argento è senza dubbio la difesa di Roman Polanski: il regista polacco si è macchiato di un crimine aberrante, ha stuprato una tredicenne, ma lei, senza battere ciglio, si è espressa in suo favore.

La doppia morale di Asia Argento. Delusa per le critiche subite, oggi, la Argento si appella alla solidarietà femminile dimenticandosi delle brutte parole rivolte pochi mesi fa alla neo-mamma Giorgia Meloni, scrive Elena Barlozzari, Mercoledì 18/10/2017, su "Il Giornale".  Asia Argento ha deciso di abbandonare l’Italia. Sull’onda dello sdegno per la mancata solidarietà di chi non è dalla sua parte. Dopo la rivelazione “intempestiva” con cui ha dato il via ad una ridda di denunce nei confronti del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein, in molti l’hanno accusata di esser una “carrierista” e non una “vittima”. Anche quelle donne che, lei, vorrebbe rappresentare. Al timone delle polemiche c’è la nota blogger Selvaggia Lucarelli che, sul suo profilo Facebook, ha pubblicato un lungo commento alla notizia. “Questa faccenda di Weinstein, produttore potente e bavoso di Hollywood, che molesta le attrici presenta numerosi punti oscuri”. Ripercorrendo il “caso Weinstein” e la frequentazione tra il patron della Miramax e la Argento, la Lucarelli ha commentato: “Ora. Francamente. Vai a letto con un bavoso potente per anni e non dici di no per paura che possa rovinare la tua carriera. Sei la prima a dire che lo facevi perché la tua carriera non venisse danneggiata, stai ammettendo di esserci andata per ragioni di opportunità. Nessuno ti giudica, Asia Argento. Però ti prego. Paladina delle vittime di molestie, abusi e stupri, anche no. Facciamo che sei finita in un gorgo putrido di squallidi do ut des e te ne sei pentita. Con 20 anni di ritardo però”. E allora, la Argento, si è sfogata. Ieri sera, da Berlino, in un’intervista esclusiva concessa a Carta Bianca ha annunciato: “Tornerò in Italia in vacanza. Non vado via subito, ci vorrà un po’ di tempo per organizzarmi, ma non vedo cosa ci sto a fare in Italia adesso, tornerò quando le cose miglioreranno per combattere le battaglie con tutte le altre donne”. Un appello alla solidarietà femminile, a quel fronte comune che, in questi giorni, si è spaccato in due. Peccato che, qualche mese fa, la figlia del maestro dell’horror sia stata la prima a non aver dato il buon esempio. Nella didascalia di una foto “rubata” e diffusa su Instagram, l’attrice si era scagliata contro l’allora neo-mamma Giorgia Meloni. Le due, a febbraio scorso, si erano incrociate in un ristorante romano. In quell’occasione, dopo averla fotografata di nascosto, la Argento aveva pubblicato lo scatto accompagnandolo con una didascalia choc, nella quale definiva la leader di Fratelli d’Italia “lardosa”, “ricca”, “senza vergogna”, “fascista beccata a mangiucchiare”. La Meloni aveva quindi rilanciato dal suo profilo Facebook le offese “per dire a tutte le donne che hanno partorito da pochi mesi e che per dimagrire non usano la cocaina di non prendersela se qualche poveretta fa dell’ironia sulla loro forma fisica. Valeva la pena mille volte di prendere qualche chilo”. Chi la fa l’aspetti.

Asia Argento e le accuse a Weinstein: ecco cosa ha detto al New Yorker, scrive Blitz Quotidiano" il 21 ottobre 2017.  Asia Argento e Harvey Weinstein, ecco tutto quello che l’attrice italiana ha detto al New Yorker. L’intervista di Asia Argento al New Yorker, sull’onda dello scandalo che ha travolto il produttore americano Harvey Weinstein, ha fatto il giro del mondo e provocato polemiche il Italia. Ma cosa ha detto Asia Argento al New Yorker? Ecco la parte dell’articolo di che riguarda la diva italiana. Regista ed attrice italiana, la Argento ha spiegato di non aver parlato prima di Weinstein, che l’avrebbe presumibilmente costretta a subire un rapporto orale, poiché temeva che il produttore la “facesse fuori” dal mondo del cinema. “Ecco perché questa storia, che risale a vent’anni fa, non è venuta fuori prima d’ora, così come tante altre ancora più datate” ha detto l’Argento. L’attrice, nata a Roma, ha interpretato il ruolo di una ladra nel film “B. Monkey”, uscito in America nel 1990 e prodotto da Miramax. In una serie di lunghe e toccanti interviste, Argento ha spiegato che Weinstein l’ha aggredita mentre lavoravano insieme. Al tempo l’attrice aveva 21 anni ed era vincitrice dell’equivalente italiano dell’Oscar; nel 1997, uno dei produttori di Weinstein la invitò in quella che la Argento pensò fosse una festa della Miramax: la ragazza, quindi, si sentì in dovere di partecipare all’evento tenuto all’Hotel Cap-Eden-Roc, sulla riviera francese. Dopo una rampa di scale, l’Argento ha spiegato che iniziò ad avere i primi dubbi. “Mi fecero salire e vidi che non c’era nessuno. Chiesi dove fosse la festa e risposero che eravamo in anticipo”. Il produttore italiano, quindi, lasciò la ragazza sola con Weinstein, che cominciò a elogiare il suo lavoro; poco dopo, uscì e rientrò nella stanza con una bottiglia di olio per massaggi e un accappatoio. “Weinstein mi chiese se volevo fargli un massaggio. Gli risposi che non ero pazza. Ma, a guardare indietro, forse un po’ pazza lo sono”. Dopo aver accettato, con riluttanza, di fare il massaggio, l’Argento racconta che Weinstein le ha aperto le gambe con forza e praticato un rapporto orale. “Ho pensato che l’unico modo per far finire quell’incubo fosse fingere che mi stavo divertendo. In realtà avevo addosso un uomo grasso e enorme”, spiega. “Il punto è che mi sento responsabile. se fossi stata una donna forte, lo avrei colpito nelle palle e me ne sarei andata”. L’attrice descrive l’episodio come un “orribile trauma”, sottolineando di non riuscire più, da allora, a praticare sesso orale. “Gli dissi che non ero una prostituta. Lui si mise a ridere”. Per alcuni mesi, Weinstein continuò a inviare costosi regali alla ragazza. Ciò che complica la storia, aggiunge l’Argento, è il fatto che lei stessa si era ormai “abituata” alle avances; un giorno il regista la presentò anche alla madre. “Mi fece sentire come se fossimo grandi amici, che davvero mi apprezzasse”. L’attrice ha spiegato che nel corso di cinque anni, ha avuto con Weinstein altri rapporti consenzienti.

All’uscita del film B.Monkey, il produttore tornò alla carica e “non volevo farlo arrabbiare, ho pensato che mi avrebbe rovinato la carriera”. Anni dopo, quando la Argento diventò mamma e si trovò a dover far fronte alle spese che comporta allevare un figlio, Weinstein si offrì di pagare una tata. Anche stavolta, l’attrice si sentì “obbligata” a cedere alle sue avances sessuali. Il produttore ha avuto il potere di farla sentire completamente sottomessa, anche a distanza di anni: “La sola presenza, il suo corpo, il suo volto, mi fanno tornare indietro, a quando avevo solo 21 anni. Quando lo vedo, mi sento piccola, stupida e debole. Dopo avermi violentata, ha vinto lui” ha concluso.

Giovanni Veronesi: "Sapevo di Asia Argento, dovevo denunciare". Il regista italiano fa "mea culpa": "Asia Argento me lo disse vent'anni fa ma era piccola e aveva paura. Avrei dovuto denunciare", scrive Chiara Sarra, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Come Quentin Tarantino ammette solo oggi di non aver denunciato le molestie commesse da Harvey Weinstein nei confronti dell'ex fidanzata Mira Sorvino, anche Giovanni Veronesiora fa "mea culpa". "C'è' ancora in giro chi dubita, chi dice che l'ha fatto per la carriera", dice oggi su Twitter il regista italiano parlando di Asia Argento, che diresse in "Viola bacia tutti", "A me lo disse vent'anni fa ma era piccola e aveva paura". Poi un secondo tweet: "E io non sapevo che fare", spiega, "Mi sembrava una cosa troppo lontana da me. Ma avrei dovuto denunciare io". E ancora: "Che cazzo di ragionamenti fate? Non c'è nemmeno da discutere. @AsiaArgento va difesa e basta. Non c'è nessun dibattito. Nessun dubbio".

Asia Argento: "Abusi, il linciaggio contro di me colpa di Silvio Berlusconi. E Vittorio Feltri è disgustoso", scrive il 18 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". L'ultimo capolavoro di Asia Argento? Andare in televisione, parlare del caso Harvey Weinstein e della bufera scatenata dalla denuncia a scoppio ritardato degli abusi e dare tutta la colpa a...Silvio Berlusconi. Certo, testuale. Un parere consegnato a CartaBianca di Bianca Berlinguer. Secondo Asia, le polemiche che la stanno lambendo, sono dovute all'"umiliazione e alla visione della donna nell'Italia berlusconiana". Ritornello patetico, trito e ritrito, ormai quasi dimenticato, ma non da lei. Insomma, se la guardano con sospetto per aver rivelato soltanto dopo 20 anni di aver subito abusi da Weinstein la colpa è di Berlusconi. Anche se lei stessa ha detto: "Ai tempi mi interessava la mia carriera". Roba da ridere, se non ci fosse da piangere e da indignarsi. Se ne deduce, dunque, che anche le molte donne che hanno eccepito sull'atteggiamento dell'Argento abbiano aderito con entusiasmo a questa "umiliazione" e a questa "visione della donna nell'Italia berlusconiana". Ma non è tutto. Ovviamente nel mirino ci finiscono anche Libero e il direttore, Vittorio Feltri. La nostra colpa? Altrettanto aver eccepito, in primis con un articolo di Renato Farina, e aver risposto alla "signora" che ci aveva dedicato un simpaticissimo dito medio, promettendo inoltre querela (qui la risposta di Vittorio Feltri). Ma quello di Asia a CartaBianca è stato uno show a tutto tondo, tanto che si è spinta ad affermare di voler lasciare l'Italia: "Non vedo cosa ci sto a fare, tornerò quando le cose miglioreranno per combattere le battaglie con tutte le altre donne". Lo dice da Berlino, da dove era collegata e da dove si trovava "perché avevo bisogno di andarmene un po'". Sempre sul caso Weinsten, la Argento spiega: "Ci ho messo tantissimo tempo anche a dirlo a mia madre. Mentre a mio padre e a mia figlia l'ho detto solo ora". Dunque la replica ai molti che la hanno accusata di carrierismo: "Non ho avuto nessun favore. Non mi fa piacere stare qua a parlare di queste cose, il mio unico potere è stato dire di no alle proposte di regali e di film che arrivavano da Weinstein, non ho più fatto provini o letto un copione per loro".

Caso Weinstein, Asia Argento querela, scrive "L'Adn Kronos" il 21/10/2017. "Informo di aver querelato alcuni ospiti della trasmissione 'Porta a Porta' del 17/10/17". E' quanto scrive Asia Argento su Twitter, pubblicando anche due filmati - ripresi con il cellulare - che mostrano alcuni momenti della trasmissione di Rai 1.

In un altro tweet, l'attice e regista - che assieme a molte dive di Hollywood ha denunciato di aver subito violenze sessuali dal produttore Harvey Weinstein - ha poi scritto: "Le dichiarazioni di Vittorio Sgarbi a Dagospia sono vagliate dal mio legale. Non si tratta di me ma della dignità di tutte le donne". Inoltre, postando un ulteriore filmato della trasmissione registrato con lo smartphone, Asia Argento ha ringraziato Catherine Spaak "per il sostegno durante l'ignobile gogna da me subita senza possibilità di replica" a Porta a Porta.

"Non sapevo che mia figlia...". Parla il padre di Asia, Dario Argento: la sua verità sulla violenza sessuale, scrive il 14 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". "Per me è molto doloroso parlare di questa storia che coinvolge Asia. Lei non me ne ha mai fatto accenno, l'ho saputa in questi giorni". Il regista Dario Argento, padre di Asia, ha parlato così al Tg Zero di Radio Capital della vicenda Weinstein, il magnate di Hollywood accusato di violenza sessuale da da sua figlia: "Il comportamento di Weinstein è sicuramente uno scandalo ma il mondo del cinema non è tutto così - prosegue il regista - Chi si è comportato bene non si sente molto imbarazzato. È lui, Weinstein, che si deve sentire imbarazzato. Del resto è stato abbandonato da tutti. Si tratta di una vicenda molto triste. Non è affatto vero che così fan tutti; così fanno solo gli sporcaccioni". In America, aggiunge Argento, "c'è questo gusto del sesso sul divano. Purtroppo l’uomo potente ha un ascendente molto forte, ha armi di ricatto. L'attrice Mira Sorvino, per esempio, siccome non ha voluto cedere agli abusi di Weinstein, è sparita dalle scene. È successo anche a me che attrici mi si siano offerte per fare un film. Ovviamente ho sempre detto no", dice ancora Argento che quanto agli attacchi sui social a sua figlia per aver denunciato la violenza solo dopo anni afferma: "Di questo preferisco non parlare. È una situazione veramente pesante. Ringrazio comunque chi esprime solidarietà e simpatia a mia figlia".

Fermi tutti: Asia Argento non si chiama davvero Asia. Il vero nome dell’attrice è un altro: all’anagrafe è registrata come "Aria" Argento, è non si tratta di un refuso dell’impiegato ma degli effetti di una vecchia legge, scrive il 19 Ottobre 2017 "L’Inkiesta". Allo scoppio del “caso Weinstein” i media e i social italiani hanno cominciato a dibattere sulle dichiarazioni di Asia Argento, attrice e figlia del noto regista Dario Argento, che ha raccontato di essere stata, tra le altre, anche lei vittima delle molestie del produttore americano. Ha fatto bene a dirlo? Ha fatto male? Poteva/doveva dirlo prima? Vent’anni di silenzio sono tanti/troppi/ininfluenti? Ha avuto coraggio? Ne ha approfittato? A LinkPop interessa un altro aspetto della questione: il nome. Come forse non tutti sanno, Asia Argento non si chiama davvero Asia Argento. Il suo vero nome, almeno per come è registrata all’anagrafe, è Aria (Maria Vittoria Rossa) Argento. Proprio così: con la “r”, non la “s”. Colpa di un errore di un addetto distratto? No. Colpa, sembra, di un Regio Decreto del 1939. All’epoca della nascita di Asia/Aria, cioè il 1975, era quella la legge che regolava i nomi all’anagrafe. Al comma 72 era presente il divieto, scritto in modo molto chiaro, di assegnare ai figli nomi geografici – oltre al nome del padre, della madre, del fratello e della sorella: in Italia il concetto di “junior”, molto noto in Usa, non esiste. I genitori furono perciò costretti a ripiegare su un nome simile, ma non geografico: Aria. Tutti però continuarono a chiamarla Asia, a segno che una cosa è l’uso e un’altra le scartoffie, anche se era noto che il suo vero nome era diverso. (Non è per caso, si deduce, che Morgan, all’epoca, intitolò una canzone Aria. Cantando, per la precisione, “Voglio Aria, niente come lei; ho un desiderio per aria, voglio aria). Tutto risolto? Non proprio. Come si spiega qui, lo stesso episodio si ripeterà nel 1997 a Oliena, provincia di Nuoro: anche in quel caso i genitori volevano chiamare la figlia “Asia”, ma il rigoroso impiegato dell’anagrafe, regolamento alla mano, si oppose. Ne nacque un piccolo caso che finì perfino sui giornali nazionali. E a un’analisi più attenta, si scoprì che la questione si rivelò più complicata. Non solo, dicevano, si era sempre dimostrata una certa tolleranza, negli ultimi sessant’anni, per nomi come Europa e America. Ma perfino Asia, si fece notare, non era soltanto il nome di un continente. Anche una ninfa della mitologia greca, figlia di Oceano e Teti e madre di Prometeo, si chiama Asia. In questo caso, si deduceva, si sarebbe potuto aggirare il divieto sui nomi geografici: Asia è anzi un richiamo storico, colto e classicheggiante. E insomma, con un po’ di mestiere, anche quell’impiegato dell’anagrafe di Roma che registrò la nascita di Asia Argento avrebbe potuto rivelarsi più flessibile. E invece no: non fece sconti alla piccola Asia. Cosa che, del resto, anche adesso fanno in pochi.

Caso Weinstein, Eleonora Giorgi contro Asia Argento: Vuole farsi pubblicità. L’attrice e regista attacca la figlia di Dario Argento, colpevole di aver frequentato Weinstein per cinque anni, anche dopo le violenze subite e denunciate a inizio ottobre 2017: Cosa vuole Asia Argento? – si chiede Eleonora Giorgi in una lunga invettiva su Facebook – forse semplicemente che si parli di lei, scrive Fulvia Leopardi il 20 Ottobre 2017 su "Nano Press". Eleonora Giorgi attacca Asia Argento in merito alle violenze e molestie subite da Harvey Weinstein (e non solo) e denunciate dalla figlia del regista di Profondo Rosso. Perché definisce stupro una sua libera scelta, protratta per altro per cinque lunghi anni?, si chiede la Giorgi, citando l’intervista della Argento a un giornale americano in cui l’attrice e regista spiegava come, dopo le molestie subite dal producer americano oggi accusato da decine di donne, fosse diventata quasi amica di Weinstein. Cosa vuole dunque Asia Argento? (…) Forse semplicemente che si parli di lei. Parola di Eleonora Giorgi, che in un post su Facebook (visibile solo agli amici ma screenshottato da qualcuno) parte da una considerazione di carattere generale per poi colpire la Argento. Per Eleonora Giorgi, alcuni uomini hanno una vera ossessione nei confronti del sesso, in alcuni casi arrivando a molestare anche delle bimbe. In alcuni casi, però, ci sono donne che accondiscendono, un comportamento assimilabile al meretricio. Perché quindi stupirsi di Weinstein, che ha sempre ripagato in maniera sonante l’oggetto delle sue, talvolta violente e sempre disgustose, attenzioni: ragazze desiderose – per la Giorgi – di ottenere un ruolo importante nel mondo dello spettacolo?. Segue la domanda diretta ad Asia Argento, che per la Giorgi è solo in cerca di pubblicità. In Italia, dove il cinema è finanziato con denaro pubblico, e anche se non si esclude che ci siano produttori molesti, per l’attrice molte carriere sono cominciate (e magari continuano tuttora) con prestazioni a politici e loro incaricati. La Giorgi racconta di come anche lei sia stata molestata, non tanto con prestazioni private, ma con una ‘prestazione’ che era compresa nei suoi personaggi, ninfette e lolite che si spogliavano con facilità. La rampogna della Giorgi si chiude con un appello alle colleghe ad avere un minimo di dignità, e ad indignarsi per altri tipi di ricatti e molestie, come capi del personale nei posti di lavoro, primari e professori nel mondo della sanità e nel mondo degli avvocati. Ah – conclude la Giorgi – che afflizione il desiderio sessuale in alcuni uomini. Ah, che deprecabili donne quelle che ne approfittano.

Flavia Vento sul caso Weinstein: “Anche io l’ho conosciuto ma…”, scrive "Blitz Quotidiano" il 20 ottobre 2017.  Flavia Vento ha deciso, via Twitter, di dire la sua sullo scandalo-Weinstein. La soubrette ha confessato di aver anche lei incontrato produttore: “Ho conosciuto Harvey Westein (sbagliando il cognome) a New York nel ’99 con me non ci ha mai provato. Siamo andati anche al cinema a vedere stars wars! (sbagliando, anche qui, questa volta il nome del film)”. Il tweet ha però scatenato l’ilarità dei fan che hanno iniziato a prendere in giro la Vento a causa dei refusi. Qualcuno scrive: “Ce credo Flavié, se chiama Weinstein, hai sbagliato persona!”.

Antonella Clerici, il tweet su Harvey Weinstein scatena la bufera. La presentatrice de "La prova del cuoco" nell'occhio del ciclone per una frase che ha scritto sui social: "I maiali ci sono sempre stati", scrive "Di Lei" il 19 Ottobre 2017. Antonella Clerici è finita nell’occhio del ciclone per un tweet in cui, senza citarlo, esprime la sua opinione sul caso Harvey Weinstein, il potentissimo produttore hollywoodiano travolto dal più grande scandalo sessuale della storia del cinema. La presentatrice cinguetta così: Si può sempre dire No. Anche questa è una scelta, scorciatoie e maiali ci sono sempre stati. La frase, che per altro ha ricevuto migliaia di “like”, ha suscitato l’indignazione di molti follower che l’hanno interpretata come una giustificazione degli abusi e delle violenze perpetrate dal produttore. I commenti sono molto duri: “Si può sempre dire No. SEMPRE? Imbarazzante che una donna faccia un’affermazione così generica e superficiale”. E ancora: “E i maiali non ci devono essere per forza. Proposte del genere non devono essere proprio.” È evidente che la Clerici non ha alcuna intenzione di difendere o accettare i ricatti sessuali, ma è ferma nel difendere la sua posizione per cui le donne non devono sottostare a bieche proposte e imparare a dire di no, anche se questo può essere controproducente per la carriera: Si cambia strada, si manda affanculo, si denuncia subito, si rinuncia a fare un film, parliamo di un ambiente di privilegi. Nonostante i tentativi di chiarimento, la bufera in Rete non accenna a diminuire e la presentatrice, sconfortata, decide che sui social è meglio “parlare di tortellini”. È indubbio che lo scandalo Weinstein ha svelato il lato oscuro del dorato mondo dello spettacolo. Meglio tardi che mai. Diversi vip italiani sono tornati sulla vicenda Weinstein, da Elisabetta Gregoraci a Fabio Testi e Asia Argento. Solo per citarne alcuni.

Rossella Brescia, la frase da applausi che asfalta Asia Argento: "O sono cessa io oppure...", scrive il 20 Ottobre 2017 Brunella Bolloli su “Libero Quotidiano”. Asia Argento forse, non è ancora sicuro, lascerà l'Italia crudele che non l'ha difesa abbastanza sul caso Weinstein. Nel frattempo blocca il profilo social di chi sulla vicenda osa pensare in modo diverso da lei. Come Rossella Brescia. La ballerina e attuale conduttrice radiofonica di Rds ha usato l'hashtag (#quellavoltache), ora tanto di moda tra le ragazze che vogliono denunciare violenze sessuali o molestie, e il suo post in mezza giornata è diventato virale. «Allora, vediamo: #quellavoltache mi hanno dato appuntamento in ufficio dopo le 20... col cacchio che mi sono presentata». E #quellavoltache un regista che non conoscevo mi voleva incontrare al ristorante, ma solo noi due di sera per parlare di lavoro. Sì, come no che ci vengo...». Magari la Brescia si è un po' lasciata prendere la mano all' inizio del messaggio, criticatissimo su Twitter («...comunque le cose sono due: o sono cessa io, oppure c' è qualcosa che non mi torna...»). Infatti lei stessa, sentita da Libero, giura che mai avrebbe voluto andare contro le donne, o scrivere qualcosa che potesse offenderne qualcuna. «Asia, poi, non l'ho neppure nominata, e invece lei mi ha bloccata». In fin dei conti, l'ex prima ballerina di Amici, con un corpo mozzafiato e uno stacco di coscia da urlo, cessa non è di sicuro: difficile credere che nessuno ci abbia provato con lei, soprattutto agli inizi della carriera in tv, quando ti offrono la luna se sei disposta a vedere la collezione di farfalle. «Ma sì, è successo di aver ricevuto delle proposte, ma ho fiutato cosa c'era dietro e non le ho accettate», spiega. «Per il resto mi dispiace molto, io volevo solo fare una battuta», si è scusata, e invece le si sono scatenati contro gli "odiatori" del web, tutti fan della Argento. «Ci sono rimasta male», ammette Rossella. «Non sono contro le donne, ho fatto spettacoli a teatro in sostegno del genere femminile, lavoro con "Save the Children donne" e con l'associazione "We World" che aiuta milioni di donne vittime di violenza in Italia. Le mie parole sono state strumentalizzate». Il corteggiamento spinto che sfocia nella molestia non distingue tra bellezze da copertina o bruttine (cesse). Per Rossella Brescia è una questione di intuito. Bisogna «fiutare il marcio» per non rischiare di incapparci, perché di Harvey Weinstein, cioè di laidi e sporcaccioni, è piena anche l'Italia, non solo Hollywood. «Come mai io non mi sono mai trovata nella stessa situazione» di Asia e delle altre che ora gridano indignate e riempiono Twitter di particolari agghiaccianti che riemergono da un passato lontanissimo? Eppure faccio questo mestiere da anni, insiste, ma quando mi succede di captare qualcosa di negativo, sfodero il mio sorriso migliore e volto le spalle. Dico sempre a me stessa: siamo talmente tanti nel mondo, non c' è mica solo Weistein». La risposta della Argento è stata lapidaria: «Brava, sei meglio tu». E con la figlia del re dell'horror scende in campo la politica: dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, al capogruppo di Mpd, Roberto Speranza: «Le istituzioni non fanno ancora abbastanza», bacchetta. Weinstein, intanto, è stato espulso anche dal British Film Institute, del quale era membro. E a "Un giorno da pecora" Pupi Avati racconta di quella volta che, a un provino, una mamma aveva lasciato intendere che la figlia minorenne era disponibile pur di avere la parte... Brunella Bolloli

Asia Argento e Weinstein, la verità di Rocco Siffredi: "Vi dico perché parla solo ora, dopo 20 anni. Forse...", scrive il 21 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". "Perché Asia Argento ha parlato delle molestie sessuali subite da Weinstein solo ora, dopo 20 anni? Ho un sospetto...". Intervistato dalla Zanzara su Radio24, Rocco Siffredi si è schierato con Libero smitizzando la figura dell'attrice e figlia d'arte come "vittima" del produttore più potente di Hollywood, travolto dallo scandalo di abusi che hanno coinvolto una cinquantina di attrici di ogni nazionalità. "Funziona da mille anni che chi fa il cinema tradizionale è abituato a fare questo. Vi potrei fare mille altri nomi di persone che hanno fatto casting hard per fare una parte in cui devono recitare, parlare. Mi fa schifo voler fare vittimismo dopo vent'anni - è la replica del più famoso pornodivo del mondo -. Perché parlare le violenze sulle donne che non c'entra un cazzo, è una strumentalizzazione. Sei tu che hai deciso di farlo per ottenere una parte. Ma di che parliamo…". "Basta con le stronzate di una ragazza maggiorenne con un'esperienza di vita, la madre attrice, il papà regista famoso, conosce il set, che ha avuto paura e si è messa paura di fronte al produttore di Hollywood - conclude il ragionamento Siffredi -. E non una sola volta, ma più volte. È recidiva la signorina. Forse c'è un processo penale, e forse c'è l’idea di farsi pagare, incassare dei soldi. Sei stata tu a decidere di farlo per essere sicura di avere una parte". "Non puoi decidere di scopare con un maiale e poi farla pesare agli italiani, che giustamente dicono: Ti è piaciuto fare l'attrice in quel film, allora va bene così". 

Siffredi: "Le molestie? Purtroppo se vuoi lavorare la devi dare". E attacca la Argento. Rocco Siffredi non le manda a dire: "Le molestie? Tutti hanno sempre saputo, ma così si offende chi è stata stuprata davvero". E sulla Argento: "Ha fatto quello che ha fatto per perversione personale", scrive Chiara Sarra, Martedì 14/11/2017, su "Il Giornale". "Tutti sanno, tutti hanno sempre saputo: oggi, purtroppo, se vuoi lavorare nel mondo dello spettacolo a qualcuno la devi dare, prima, dopo o durante". Parola di Rocco Siffredi che commenta così, in un'intervista a Libero, lo scandalo molestie scoppiato nelle scorse settimane sul mondo del cinema mondiale e italiano. "Tutti ci provano. A un regista tante la sbattono in faccia", spiega il pornodivo, raccontando il caso di un'amica pugliese "Mi ha detto: per fare questo libro ho fatto un pompino all'editore. E' un editore importante, ne avevo bisogno. Purtroppo è così. Le violenze sono un'altra storia. Qui parliamo di una normale compravendita. Ogni donna, anche mia moglie, potenzialmente è una prostituta. La prostituzione non è solo quella legata ai soldi e al sesso. C' è anche una prostituzione morale: fare cose controvoglia per ottenere vantaggi. Lo fanno tutti, molti ci stanno male". Secondo Siffredi, infatti, prima o poi tutte quelle che hanno a che fare col mondo dello spettacolo si sono trovate di fronte a una situazione simile a quella descritta dalle dieci attrici che accusano Fausto Brizzi - anche se, precisa, "certe sono furbe e fanno finta di dartela" -. Che non difende: "Si è preso le sue responsabilità", spiega. Ma aggiunge: "Il mondo è pieno di Brizzi. Tutti ci provano e molte ci stanno ma ci piace vivere nell'idea che non sia così. Colpiscono Brizzi per non colpire i più potenti. Mi dà fastidio che questa onda debba arrivare dall' America di cui adesso stiamo assorbendo la mentalità bigotta". E su Tornatore: "Magari ci avrà pure provato, ma lo sputtani perché ti ha toccato un seno?". Se la prende invece con Asia Argento: "Fa la paladina di sto cazzo quando per la carriera ha fatto quello che ha fatto per perversione personale", dice, "Con Weinstein ha girato quattro film ma non è riuscita a sfondare. Tante l'hanno data e non hanno ricevuto nulla quindi adesso parlano. Le uniche donne per cui penso poveracce sono quelle che per fare mangiare i figli fanno le web cam porno di nascosto. Ne conosco molte. Le campagne contro la violenza sulle donne sono fondamentali. È una mancanza di sensibilità per chi è stata veramente stuprata parlare di violenza in alcuni casi". Del resto anche lui è stato accusato di molestie dalla giornalista francese, Cécile de Ménibus. "Eravano in tv", racconta Siffredi, "Il suo mentore, il Chiambretti di Francia, dice: Rocco, facci vedere le posizioni. Io le ho mimate, lei rideva. Poteva pure dire Non ti permettere. Dopo 15 anni lei scrive un articolo in cui accusa tutti di molestie. C'ero pure io. Meno male che ha scritto che tutto era avvenuto durante il programma: i video dimostrano il contrario. Pensi se avesse detto che era avvenuto in camerino. Ora qualcuno penserebbe che io sia un molestatore".

Morgan nuove bordate contro Asia Argento: “Ha parlato tardi, non è un buon modello di madre”. La replica… è al veleno, scrive il 14 novembre 2017 "Oggi". Botta e risposta tra gli ex sul caso Weinstein. Il cantante si chiede perché tutte le denunce siano arrivate quasi ora e attacca l’ex moglie, che replica su Twitter. Morgan torna a sparare ad alzo zero contro la sua ex Asia Argento. Complice il caso Harvey Weinstein e le molestie sessuali denunciate dalla stessa Argento da parte del produttore Usa. E la risposta della figlia di Dario non si fa attendere.

IL CASO - Asia Argento è stata tra le prime a denunciare, a mezzo stampa, le molestie del produttore americano, che sarebbero avvenute diversi anni fa. Successivamente Weinstein è stato travolto dalle accuse di numerose altre attrici, accuse quasi sempre portate su episodi datati di anni.

L’INTERVISTA - Sulla vicenda interviene ora Morgan che, intervistato da Il Mattino, dice: “Ma perché Asia e altre persone hanno denunciato le molestie solo adesso? Perché non l’hanno fatto prima, quando Harvey Weinstein era uno degli uomini più potenti del mondo? Improvvisamente ha passato dei guai e ora tutti gli si sono piombati addosso come avvoltoi. Adesso mi viene quasi da provare pietà per lui”.

LO SAPEVO, MA… – Morgan dice che all’epoca Asia le aveva parlato di quanto avvenuto col produttore “anche se trovo esagerato parlare di violenza”. E aggiunge: “Non lo so, ma le persone che subiscono violenze non ottengono guadagni da questo, come un posto di lavoro, hanno solo da perdere. Non ho il livello per parlarne, ma le bimbe violentate perdono la loro essenza di vita. Quella invece è una scelta, non bisogna confondere con la violenza che è abominevole ed è uno degli atti peggiori che un essere umano possa commettere. In questo caso non mi sembra di doverla mettere in questi termini”.

NON UN BUON MODELLO- Ma il cantante non si ferma qui. E attacca l’ex in maniera molto dura: “Vorrei mantenere una certa eleganza, ma dico che non la denuncerò al tribunale dei minori dicendo che le porterò via la figlia perché una madre del genere non è tanto un buon modello”.

LA REPLICA DI ASIA- La replica dell’attrice non si fa però attendere. È breve, ma molto tagliente. E arriva su Twitter, in cui chiama l’ex col nome di battesimo: “Marco Castoldi, padre di mia figlia, non paga il suo mantenimento dal 2010. Gli pignoreranno la casa. Non mi sembra una fonte attendibile”. Edoardo Montolli frontedelblog.it

Asia Argento, anche la moglie di Rocco Siffredi la demolisce: "Weinstein? Pene in bocca e poi...", scrive il 20 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". Non è solo Rocco Siffredi a criticare Asia Argento sullo scandalo Weinstein e le molestie sessuali subite dall'attrice italiana da parte del mega-produttore di Hollywood. Intervistato da La Zanzara su Radio24, il pornostar, oltre a difendere Libero, ha spiegato perché Asia è vittima ma solo in parte. "Di Weinstein è pieno il mondo del cinema e non solo. E ora arrivano queste poverine che dicono di aver sofferto… Poverine cosa? Poverine ‘sto cazzo. Quando decidi di non andarci, di mollare e andare via, il potere finisce. È solo un interscambio, punto. Mica ha deciso di trattenere a forza le persone, bloccarle in una camera. Sei in un grande hotel a cinque stelle, trattata come una super star e non hai il coraggio di dire: Brutto stronzo il tuo film te lo metti nel culo e non lo faccio!!". E qui a supporto della tesi di Rocco arriva lo sfogo di Rosza Caracciolo Tassi, la moglie di Siffredi. "Mia moglie mi ha detto – rivela Rocco - che al posto di Asia a Weinstein avrebbe staccato l'uccello a morsi con la bocca e glielo avrebbe sputato in faccia. Ma basta con le stronzate di una ragazza maggiorenne con un'esperienza di vita, la madre attrice, il papà regista famosa, conosce il set, che ha avuto paura e si è messa paura di fronte al produttore di Hollywood. E non una sola volta, ma più volte. È recidiva la signorina. Forse c'è un processo penale, e forse c'è l’idea di farsi pagare, incassare dei soldi. Sei stata tu a decidere di farlo per essere sicura di avere una parte". 

Naike Rivelli porno-sculacciata ad Asia Argento: la umilia con una clip a luci rosse, scrive il 18 Ottobre 2017 "Libero Quotidiano". "Quando sei figlia di una donna che è una attrice vera, che ha avuto l'integrità e l'autostima di starne fuori e allontanarsi dal mondo della Calippocrazia...". Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, con un video pubblicato sul suo profilo Instagram, attacca Asia Argento e tutte quelle attrici che hanno ceduto alle avances di registi e produttori per fare carriera: "Grazie mamma Ornella per averci insegnato a tenere la testa alta e la bocca chiusa! La schiena dritta e le gambe incrociate. Grazie di averci insegnato a dire No piuttosto che...".

Asia Argento: "Ho paura del Mossad". Nathania Zevi: "Esci di casa, non aver paura", scrive il 12 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Qualcuno aiuti Asia Argento. Dopo aver denunciato a scoppio ritardatissimo Harvey Weinstein, ora l'attrice ha affermato di non voler uscire di casa poiché teme il Mossad, ovvero i servizi segreti israeliani. Perché mai dovrebbe temerli? Semplice, perché pare che Weinstein, per nascondere le sue malefatte, si sarebbe servito proprio del Mossad. Lo stesso Mossad che, secondo Asia, ora vorrebbe ucciderla. Un delirio duro e puro. Un delirio al quale, tra gli altri, ha risposto Nathania Zevi, ebrea, moglie di David Parenzo. Lo ha fatto su Twitter, con questo indiscutibile cinguettio: Nathania Zevi @Natizevi Molto probabilmente e senza voler togliere importanza all’accaduto #spada avrebbe potuto essere fermato per tanti altri motivi, volendo. 23:18 - 9 nov 2017 · Pescara, Abruzzo

Asia Argento: "Le molestie sessuali sono tutta colpa di Berlusconi", scrive il 20 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". E ti pareva che anche il caso delle molestie sessuali (da Hollywood a Cinecittà) non fossero colpa di Silvio Berlusconi. Il nome del Cavaliere l'ha tirato fuori Asia Argento, che in una intervista al The Guardian ha parlato degli abusi subìti dal produttore cinematografico Harvey Weinstein e della polemica che si è scatenata in Italia dopo la sua quantomeno tardiva denuncia. La Argento se l'è quindi presa con la cultura "machista" italiana alimentata "da anni di berlusconismo": "Siamo stati così lobotomizzati dall'oggettivazione delle donne che noi, come donne, non sappiamo nemmeno che siamo state molestate e trattate nel modo sbagliato". In Francia, rincara l'attrice che conferma di voler lasciare l'Italia la prossima estate, "la gente mi ha fermato per la strada per ringraziarmi, in Italia mi guardavano male, nessuno a dirmi brava. La mia non è paranoia: non so se dover camminare a testa alta o nascondere la testa in un foulard". Ma adesso "le coscienze si stanno svegliando. Ogni volta che uno di questi maiali cade, è una medaglia d'onore. Altri porci verranno fuori". Quello che vede ora l'attrice "ricorda una frana dove basta una prima pietra perché si crei uno smottamento. E così si crea un altro ambiente, uno in cui le donne possono lavorare e vivere senza avere paura degli uomini. Ora, sono sicura, sono gli uomini ad avere molta paura di noi, e prima di fare qualcosa ci penseranno dieci volte".

Asia Argento contro #DissensoComune: "Troppo poco, troppo tardi", scrive il 02 febbraio 2018 “La Repubblica”. L'attrice intervistata da Hollywood Reporter si scaglia contro il manifesto delle donne del cinema italiano: "Mi sembra che stiano solo lavando le loro coscienze per questi quattro mesi di silenzio assordante sul movimento #MeToo". "Finalmente è arrivata la letterina di Babbo Natale delle 'donne del cinema italiano' contro le molestie. Contestano l'intero sistema ma si guardano bene dal fare nomi". Così Asia Argento reagisce a caldo a #DissensoComune, la lettera firmata da 124 donne che, partendo dal caso Weinstein, si schiera contro "il sistema delle molestie sessuali" unendo le forze per "smascherarlo e ribaltarlo". Un manifesto condiviso da tante donne che lavorano nel mondo dello spettacolo, senza però l'adesione dell'attrice che per prima si è esposta nell'inchiesta di Ronan Farrow pubblicata sul New Yorker ricevendo in cambio insulti e reazioni polemiche. Un'assenza clamorosa quella di Asia Argento, che spiega la sua posizione in un'intervista a Hollywood Reporter: "Innanzitutto mi sarebbe piaciuto essere stata coinvolta dall'inizio in questo dibattito" dichiara l'attrice, spiegando poi i motivi per cui non condivide il manifesto: "Certamente non rappresenta nulla di tangibile per cambiare il sistema su cui puntano il dito. Non denunciando i colpevoli, non avendo un piano d'azione concreto, non aderendo alla marcia delle donne, mi sembra che stiano solo lavando le loro coscienze per questi quattro mesi di silenzio assordante sul movimento #MeToo". Asia partecipa attivamente al dibattito sui social: retwitta le parole di Miriana Trevisan ("Sarebbe più onesto dire: 'siamo costrette a non esporci perché il sistema è così radicato che perderemmo il lavoro'. Quindi non puntando il dito credete che il sistema venga smascherato? Negli Usa non mi pare che sia andata così") e attacca una delle firmatarie: "Cristiana Capotondi che aveva difeso il predatore Fausto Brizzi. Quanta coerenza". Poi, sempre su Twitter, Asia si rivolgendo direttamente alle firmatarie del documento #DissensoComune: "Aspetto dei gesti concreti, quelli che abbiamo fatto noi per prime: denunciando, aiutandoci a vicenda, condividendo i traumi, scendendo in piazza, gridando il vero dissenso contro il patriarcato. Allora sì potremo finalmente unirci e combattere veramente insieme". C'è chi la sostiene, come Francesca D'Aloja che ritira la firma dal manifesto: "Vorrei dichiarare pubblicamente il mio dissenso per non aver esplicitamente fatto il nome di @AsiaArgento nel doc #DissensoComune - scrive su Twitter. - Ho firmato perché le parole espresse sono sacrosante, tuttavia ho più volte sottolineato l'imperdonabile assenza di Asia, mi auguravo un ripensamento". 

Molestie sessuali, Asia Argento alle attrici italiane: "Fate i nomi", scrive Affari Italiani il 2 febbraio 2018.  Asia Argento alle attrici italiane scese in campo contro le molestie sessuali: "Fate i nomi". Molestie sessuali, appello attrici italiane, Asia Argento: "Facciano i nomi". Le attrici e registe italiane scendono in campo contro le molestie. Ma non c'è Asia Argento, la 'pasionaria' anti-molestie dalle cui dichiarazioni ha preso il via il caso Weinstein. Lo fanno con una lettera firmata da 124 donne, da Giovanna Mezzogiorno a Paola Cortellesi, da Alba e Alice Rohrwacher a Jasmine Trinca, da Valeria Golino a Cristiana Capotondi, da Roberta Torre a Laura Bispuri. Si chiama Dissenso comune ed è una lettera manifesto: "Dalle donne dello spettacolo a tutte le donne. Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una società che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini", scrivono nell'incipit della lettrera che nelle loro intenzioni vuole essere il primo passo verso una serie di iniziative per cambiare il sistema, non solo nel mondo dello spettacolo: "Unite per una riscrittura degli spazi di lavoro e per una societa' che rifletta un nuovo equilibrio tra donne e uomini", scrivono. "La molestia sessuale è fenomeno trasversale. E' sistema appunto - si legge bel manifesto -. La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poichè sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all'operaia, all'immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica. Succede a tutte. Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura. Noi non siamo le vittime di questo sistema concludono le 124 firmatarie - ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo. Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo "molestatore". Noi contestiamo l'intero sistema. Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura". Un manifesto, dunque, che non reca in calce la firma di Asia Argento. L'attrice e regista romana su Twitter a tarda sera parla di 'Lettera a Babbo Natale' delle colleghe e poi, in un'intervista sul Fatto quotidiano, rende esplicito il suo pensiero (anche se il tweet di ieri sera contro una collega non lascia troppo alla fantasia: "Cristiana Capotondi che aveva difeso il predatore Fausto Brizzi. Quanta coerenza! #Dissensocomune"). "E' solo un modo per pulirsi la coscienza da questo silenzio assordante - dichiara Asia a Silvia D'Onghia -. Non vedo un programma tantomeno 'politico'. E' tutto annacquato, non si capisce neanche cosa vogliono dire". Le 124 l'hanno contattata, racconta. "Anzi, le dico di piu'. Sono stata messa in una chat del gruppo e ho chiesto che venisse inserita anche Miriana (Trevisan, ndr). Non l'hanno contattata fino a un paio di giorni fa. Forse non la reputavano alla loro altezza. Io e Miriana abbiamo aperto questa porta e ci siamo beccate le bastonate. Però hanno fatto firmare anche Cristiana Capotondi che ha difeso Brizzi", aggiunge. Asia Argento ha chiesto alle colleghe di fare i nomi: "Non si può dire anche noi abbiamo vissuto e poi non dire di chi si sta parlando. L'attrice poi accusa le firmatarie di averla lasciata sola. "Non ho mai ricevuto un sms di sostegno delle attrici - racconta - e alcune di loro, quando le ho incontrate, si sono girate dall'altra parte. Capisco che magari si vergognavano di parlare con i giornali e le televisioni, ma almeno privatamente avrebbero potuto dimostrare solidarietà - conclude - Invece è stato il silenzio assoluto. Un silenzio assordante".

Cara Asia, questa volta sbagli…scrive Angela Azzaro il 3 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’attrice, protagonista del #metoo italiano attacca le colleghe che hanno scritto la lettera “Dissenso comune” in quanto «tardiva» e perché non cita i nomi dei molestatori. Ma la libertà delle donne passa davvero per la gogna e i processi sommari? Dopo il manifesto delle attrici e delle registe italiane a sostegno del metoo, è intervenuta duramente Asia Argento. Secondo la protagonista italiana delle denunce a Weinstein, sarebbe «troppo tardivo» e «troppo poco» perché non fa i nomi dei molestatori. Ma questa volta sbaglia lei. Cara Asia Argento, giusto denunciare ma sul manifesto delle registe sbagli «Finalmente è arrivata la letterina di Babbo Natale delle donne del cinema italiano. Contestano l’intero sistema ma si guardano dal fare nomi». E’ questo il tweet con cui Asia Argento ha accolto polemicamente il manifesto di registe e attrici intervenute sul me- too. La presa di parola del gruppo di 120 sarebbe arrivato «troppo tardi» e direbbe «troppo poco». La «rabbia» di Asia Argento è dettata dalla necessità del manifesto “Dissenso comune” (così si chiama) di prendere le distanze dalla gogna, di non fare il nome di un singolo, ma di denunciare l’intero sistema di potere. Ma questo per l’attrice, che in Italia ha denunciato Weinstein, non basta, non serve, è un modo per sottovalutare il problema. Ma è davvero così? Serve fare nomi e cognomi in un manifesto per dare valore alla lotta contro le molestie? Sono convinta di no. Il rischio, del resto sottolineato dalle stesse donne dello spettacolo, è che archiviato il singolo caso, messo alla gogna quel regista o quel produttore, tutto torni come prima. E’ la logica del capro espiatorio che non ha mai risolto i problemi alla radice, ma ha messo in scena una punizione che lasciasse tutto intatto. Il problema, presente fin dall’inizio nella campagna del me-too, è quello di usare strumenti sbagliati per combattere una giusta battaglia. La battaglia è quella contro le molestie soprattutto in ambito lavorativo; gli strumenti sono quelli del giustizialismo, del processo mediatico, del voyeurismo. Margater Atwood, una delle più importanti autrici contemporanee, ha scritto un articolo molto duro contro questo meccanismo. «Il movimento me- too – si legge – è il sintomo di un sistema legale che sta andando a pezzi. Troppo spesso, le donne e altri denuncianti di abusi sessuali non potevano ottenere un’udienza imparziale attraverso le istituzioni – comprese le strutture aziendali – così hanno usato un nuovo strumento: internet. E le stelle sono cadute dal cielo. Ma se il sistema giudiziario viene aggirato cosa prenderà il suo posto? Chi saranno i nuovi mediatori del potere? Di sicuro non le cattive femministe come me». Atwood, prima di questo articolo, era stata fortemente criticata per aver difeso un professore dell’Università della Columbia Britannica accusato di stupro e poi assolto. Secondo l’autrice del romanzo distopico Il racconto dell’ancella, senza il sistema di regole si rischia di dare vita alla caccia alle streghe, ai roghi, al far west. E’ una degenerazione che in Italia vediamo in molti settori, dalla cronaca nera alla politica: ora tocca anche una questione così importante come la violenza sulle donne. Può un’istanza più che giusta usare metodi sbagliati? E può una giusta istanza, che usa metodi sbagliati, costruire le basi per aumentare il male che vuole sconfiggere? Sono domande che non possiamo non porci anche a costo, come dice Atwood, di apparire traditori o traditrici. Da Processo per stupro (il documentario del 1979) dove la vittima di violenza sessuale diventa l’accusata, si sono costruiti molti cambiamenti, dentro e fuori le aule di giustizia. Tanto resta ancora da fare, per trasformare la società e far sì che i rapporti uomo-donna non siano fondati sul potere e sull’abuso. Ma questa battaglia non può sacrificare lo Stato di diritto. E non tanto e solo per una questione di principio, ma perché come si chiede Atwood, «se il sistema giudiziario viene aggirato cosa prenderà il suo posto?».

Il manifesto delle registe va in questa direzione. Pone in maniera radicale la critica al sistema e chiede una trasformazione dei rapporti nel mondo del lavoro, ma non cade nel tranello dei processi sommari. «La molestia sessuale – scrivono – è fenomeno trasversale. È sistema appunto. È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi».

Per Asia Argento senza nomi questa analisi è acqua fresca. Ma questa volta, forse, sbaglia lei.

Femminismo fa rima con terrorismo, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Dopo aver stabilito un conflitto tra maschi predatori e donne vittime, fino a trascinare sulle soglie del carcere il produttore Weinstein, dove è finita Asia Argento? Si affaccia oggi sulla scena del crimine Alessandra Cantini, con una serie di considerazioni che rovesciano il punto di vista, in favore di una dignità della donna che supera la condizione di vittima. Gli argomenti sono interessanti e non vogliamo condividerli, ma semplicemente proporli. Intervistata da Giuseppe Cruciani a La Zanzara, Alessandra dichiara: «Non sono mai stata molestata. Se lo avessero fatto mi sarei data la colpa. Ogni donna è capace di andarsene da una situazione molesta». Incalzata sul caso Weinstein prosegue: «Asia Argento? Prima accetta i favori di un uomo e poi lo denuncia e lo rovina mandandolo dagli psichiatri e in bancarotta. Lo ha rovinato per ottenere altri privilegi. Tra Asia Argento e Weinstein preferisco Weinstein. È un uomo di potere e spesso il potere va di pari passo con la sessualità». Quanto ai movimenti #metoo e #timesup risponde: «Le femministe di oggi si prostituiscono due volte, vanno con gli uomini e poi vogliono distruggerli. Questo nuovo femminismo sta portando gli uomini a vivere nel terrore. Le donne hanno sempre usato l'arma del sesso per ottenere influenza e potenza, da millenni». A suo parere, infatti «se una donna vuole utilizzare il proprio corpo per avere successo può farlo, ma non bisogna essere ipocriti: la donna sa esattamente dove è, altrimenti va via. La donna non è abusata, dirlo è offendere le donne. Asia Argento ha goduto di ciò che ha ottenuto». Una posizione insolita. Quanto vera e quanto provocatoria?

Raggi, lardo e patate nel menu del trash, scrive Francesco Merlo l'11 febbraio 2017 su "La Repubblica". Lardo e patate è il menu guasto di giornata, la porcheria di parola che sta lordando non l’italiano, ma il dibattito pubblico e giornalistico. “La patata bollente” è la metafora sessuale di delegittimazione della sindaca Virginia Raggi usata ieri, come titolone di prima pagina, dal quotidiano Libero. Lardosa (“spalle lardose”) è invece l’insulto che Asia Argento ha rivolto a Giorgia Meloni. Lardo e patate dunque, come il piatto triestino di cucina povera, “patate in tecia”: sapori forti e sostanza debole, surrogati di gastronomia, la sapida miseria servita in tavola. E va detto subito che non sono cibi linguisticamente scandalosi perché la volgarità non scandalizza ma annoia, e proprio mentre conforta con ammiccanti risatine la stupidità e la pigrizia mentale, l’ottusità aggressiva che si spaccia per furbizia. Niente indignazione superciliosa, per carità. Di sicuro, però, i seicento professori universitari che, come l’indimenticabile Aristogitone di Arbore, qualche giorno fa se la sono presa con gli studenti — ovvio muro basso della cultura e dell’alfabetizzazione — hanno ora una ricca occasione per studiare lo stile, il modello e il paradigma del polemos italiano che una volta era un gioco di intelligenze e qui è diventato sguaiataggine e basta. Ho il sospetto che ci sia più di un nesso tra lardo e patate e gli studenti che, secondo i professori che li formano, non sanno usare l’italiano. Di sicuro la realtà sembra rispondere proprio a quei professori con una lezione di linguistica complessa, perché qui non ci sono gli insulti a Meloni e poi a Raggi, ma ci sono anche le solidarietà degli avversari politici della sindaca e soprattutto c’è l’uso che Grillo, Di Maio e la Rete grillina stanno facendo della metafora patata. Attenzione: l’imputato non è la lingua, che è sempre ricca e dunque impura, ma è il collasso dei valori che nella lingua si trasmette e che spinge un’attrice fragile e radicale come Asia Argento a oltraggiare un’altra donna, Giorgia Meloni, a freddo, fotografandola di nascosto mentre mangia, e definendo “lardosa” la sua schiena, che è una volgarità infantile, tanto gratuita quanto disarmante. L’offesa di Argento, scritta in inglese su Twitter, non riesce ad essere nobilitata né dal richiamo sprezzante a Trump, che è il nuovo automatismo, il nuovo tic linguistico della pigrizia di sinistra, l’ultima scorciatoia del pensiero, né dalla parola “fascista”, dal rimando cioè a una stagione della storia che in genere in Italia mette le ali anche all’insulto più pedestre, meno fantasioso e più sciocco. Ecco il testo completo che accompagna la foto di Meloni che sta mangiando seduta a un tavolo di ristorante, di tre quarti e di spalle: «Back fat of the rich and shameless. Make Italy great again. # fascist spotted grazing (La schiena lardosa della ricca e svergognata. Facciamo l’Italia grande di nuovo. #fascista colta a brucare al pascolo»). Qui ci sono due aggravanti evidenti e due nascoste. Quelle evidenti sono la politica e l’inglese. È ovviamente legittimo non apprezzare la politica di Meloni, il suo populismo, la sua simpatia per Trump, la rabbia che semina nelle periferie e tra i coatti romani e gli emarginati. Ma che c’entrano con la politica le spalle lardose che sono robaccia da sfogatoio triste e da pattumiera del risentimento? Forse qualcuno dei 600 professori troverebbe molte somiglianze, magari per contagio, tra questo linguaggio povero ma risentito e quello dei picciotti dell’odio, comici del vaffa, ammaestrati pavlovianamente in Rete. Anche l’inglese qui è un’aggravante perché mostra una scienza di lingua per surrogare la povertà della lingua. È come ostentare un Rolex d’oro o l’unghia lunga del mignolo mentre bevi il caffè. Le aggravanti nascoste sono la recente maternità di Meloni e il lavoro di Asia Argento che in televisione conduce un programma che ogni settimana scova, denunzia, spiega e condanna episodi di violenza proprio contro le donne. Non è ovviamente secondario che Asia Argento abbia chiesto scusa. Ma chi chiederà scusa a Virginia Raggi, svillaneggiata con il doppio senso triviale, con la malizia sporcacciona? Perfido e dunque ben più pesante è infatti il titolo di Libero con la metafora sui bollenti spiriti e le passioni che berlusconizzerebbero la sindaca Raggi, la quale, ha spiegato Vittorio Feltri nel suo editoriale — come sempre chiarissimo ed esplicito — trafficherebbe in prestazioni e incarichi politici, tra Cupido ed Eros e Priapo, direbbe Gadda. È probabile che più che attaccare Raggi, Feltri abbia voluto ribadire la normalità di Berlusconi, la vecchia idea che lì ci fu solo privata esuberanza sessuale, un po’ di quel fuoco che ogni tanto brucia tutti, dal gatto in amore alla sindaca di Roma. In realtà non c’è nessuna evidenza che assimili Raggi a Berlusconi. C’è solo la casuale di una polizza — “relazione sentimentale” — e poi ci sono i soliti mille gossip che le attribuiscono mille amori. Accade sempre a tutte le belle donne di potere, è il riflesso condizionato, la vecchia maldicenza che diventa silloge di luoghi comuni, tra sorrisetti salaci e volgari storture per un chiacchiericcio pruriginoso che è alimentato dai grillini stessi, spurga dallo stesso Campidoglio. Davvero nulla a che fare con l’oscenità dei pezzi di Stato con cui l’allora presidente del Consiglio pagava prima i suoi piaceri sessuali a una turba di Olgettine e poi le spese degli imbrogli che da quei piaceri derivavano. E però, a guardare le reazioni, le solidarietà obbligate e spesso pelose dei nemici e la furbizia degli amici di Raggi, sembra quasi che il titolista di Libero sia il compare di Grillo e Di Maio, che voglia toglierli di impaccio permettendo loro di assimilare i tuberi ai fatti, di attaccare tutto il giornalismo italiano mescolando la patata con la cronaca, le offese sessuali alla Raggi con la fredda precisione del taccuino e del registratore del collega della Stampa Federico Capurso, la volgarità con le critiche argomentate e ragionate che sono il sale e non la feccia della democrazia, sono gli ingredienti della libertà di stampa e non del trash, non del lardo e patate che è un piatto alla Grillo, quello che svillaneggiava Boldrini, è un piatto alla Salvini … Ecco, la lingua che dovrebbero spiegarci i professori alla Aristogitone, che era quello che si presentava così: “quarant’anni di insegnamento, quarant’anni di disillusioni, quarant’anni di illusioni in mezzo a queste quattro mura scolastiche”.

Nyt: Asia Argento versa 380mila dollari al giovane attore che l'accusa di violenza sessuale. La rivelazione del New York Times sull'accordo con Jimmy Bennett, che interpretò suo figlio in un film. L'aggressione sessuale sarebbe avvenuta in un hotel in California 5 anni fa, quando il ragazzo aveva 17 anni, scrive il 20 agosto 2018 "La Repubblica". Da grande accusatrice ad accusata. L'attrice e regista italiana Asia Argento, tra le prime donne nel mondo del cinema a denunciare la violenza sessuale subita dal produttore Harvey Weinstein, diventata paladina del movimento #MeToo, nei mesi che seguirono le sue denunce dello scorso ottobre, si accordò per risarcire con 380mila dollari Jimmy Bennett, un giovane attore e musicista rock che disse di essere stato aggredito sessualmente dall'attrice in una camera d'albergo in California anni prima, quando aveva appena compiuto 17 anni. Asia Argento allora aveva 37 anni (oggi ne ha 42). Una vicenda che lo ha segnato profondamente e che ha influito negativamente sulla sua carriera. Lo rivela il New York Times che cita i documenti degli avvocati di Asia Argento e di Bennet, oggi 22enne, che ha recitato la parte di suo figlio in un film del 2004, "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa". Tra le carte ci sarebbe anche un selfie datato 9 maggio 2013 che ritrae i due a letto, oltre ai dettagli sui tempi dei pagamenti: 380mila dollari in un anno e mezzo, a partire da un versamento di 200mila dollari fatto ad aprile. Nell'articolo si legge anche che non è stato possibile avere un commento da Asia Argento sulla questione nonostante i giornalisti del Times l'abbiano ripetutamente cercata. Anche Bennett non ha voluto rilasciare interviste, e il suo legale si è limitato a dire che "Jimmy continuerà a fare ciò che ha fatto negli ultimi mesi e anni, concentrandosi sulla sua musica".

"La Argento accusata di violenza sessuale su minore. E lo risarcì con 380mila euro". L'accusatrice di Weinstein nella bufera per la rivelazione del New York Times. L'aggressione sarebbe avvenuta 5 anni fa: lui aveva 17 anni, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 20/08/2018, su "Il Giornale". "Me too" nel senso di "anche io". È questo il nome del movimento femminista sorto in seguito alla bufera che ha investito il produttore Harvey Weinstein e aperto una voragine nel mondo dello spettacolo Usa e non solo. Tra loro Asia Argento può forse essere annoverata come la paladina, uno dei simboli del #MeToo. Secondo quanto rivela il New York Times, Asia Argento avrebbe accettato di risarcire con 380mila dollari Jimmy Bennett. Questo giovane attore e musicista rock, infatti, l'avrebbe accusata di aggressione sessuale. Il tutto si sarebbe svolto in una camera di albergo in California, quando lui aveva appena superato la soglia dei 17 anni. Dunque era ancora minorenne e, a detta dei suoi legali, questo lo avrebbe traumatizzato. Il risarcimento richiesto nella denuncia sarebbe stato di 3,5 milioni di dollari per "aver intenzionalmente inflitto sofferenza emotiva e perdita di stipendio a seguito di un'aggressione sessuale". L'attrice e regista italiana, quando si sarebbero svolti i fatti, aveva 37 anni (dunque si tratta di cinque anni fa, visto che la Argento ora ha 42 anni). La Argento fu una delle prime a accusare Weinstein e dopo le sue denunce a ottobre, però, si sarebbe accordata per risarcire il giovane attore che la accusa. I due hanno condiviso alcuni mesi lavorativi nel 2004, quando lui recitò come suo figlio in "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa". Il New York Times porta a sostegno della sua tesi i documenti degli avvocati di Bennet e della Argento. La regista avrebbe versato i 380mila euro in un anno e mezzo e il primo versamento sarebbe stato fatto lo scorso aprile. Lei, per ora, non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti del Times che le chiedevano un commento. E lo stesso ha deciso di fare Bennet: "Jimmy continuerà a fare quello che ha fatto negli ultimi mesi e anni - ha detto il suo avvocato - concentrandosi sulla sua musica". Nelle carte ci sarebbe anche un selfie, datato 9 maggio 2013, in cui si vedrebbero la Argento e il ragazzo a letto.

Asia Argento accusata di molestie, lo shock del padre Dario: «Che cosa brutta», scrive Gloria Satta Martedì 21 Agosto 2018 su "Il Messaggero". La voce al telefono è decisamente affranta. «Che cosa brutta», esclama Dario Argento, il padre di Asia, investito dalla nuova bufera che vede protagonista la primogenita, molto amata e attrice in numerosi suoi film da La Sindrome di Stendhal a La terza madre e Dracula 3D. Il grande regista, 78 anni, ha finora appoggiato senza riserve le battaglie anti-violenza di Asia, apprezzandone pubblicamente il coraggio. «Ha paura perfino per la sua vita, nel caso Weinstein sono in gioco servizi segreti e potrebbero spararle», aveva detto in tv, ospite di Domenica In, «ma mia figlia va avanti per la sua strada, è sempre più convinta. È una donna pura accerchiata dai maiali... Povera Asia, quante ne ha passate». E oggi, mentre su media e social del mondo intero rimbalzano le nuove, clamorose notizie su Asia nell’inedito ruolo di «molestatrice», Dario non se la sente di sbilanciarsi: «Sono appena tornato a Roma», dice, «e non ho ancora sentito mia figlia. Non mi va di parlare di questo fatto finché non mi sono fatto un’idea precisa».

Asia Argento, parlano gli avvocati di Harvey Weinstein: "Incredibile ipocrisia", scrive il 21 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Non aspettavano altro gli avvocati del produttore cinematografico Harvey Weinstein. La rivelazione del New York Times secondo la quale Asia Argentoavrebbe pagato 380 mila dollari per risarcire l'attore Jimmy Bennett, all'epoca 17enne, dopo aver subito molestie sessuali, è stata solo la conferma dell'"alto livello di ipocrisia di Asia Argento", come ha detto uno dei legali di Weinsterin, Benjamin Brafman. "Quel che è ancora più stupefacente - ha aggiunto l'avvocato - è che mentre la signora Argento stava lavorando segretament per accordarsi in un caso di abusi su un minore, in pubblico faceva di se stessa una delle voci più violente dell'accusa contro Weinsterin, nonostante il fatto che la loro fosse una relazione tra due adulti consenzienti durata quattro anni". A questo punto il pool di avvocati non resta con le mani in mani e rilancia con il contrattacco, dopo mesi di fango: "La cristallina doppiezza della sua condotta è davvero straordinaria e dovrebbe almeno servire a dimostrare a tutto con quanta superficialità le accuse contro il signor Weinstein siano state verificate e di conseguenza lasciare spazio a un giusto ed equo processo e non a una condanna preventiva fondata sulla disonestà".

Matteo Salvini brutale su Asia Argento: "Mi dava della merdaa ogni giorno", scrive il 20 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". "Questa è la 'signora' che mi insultava ogni due minuti, e mi ha dato del razzista e della m...a??? Mamma mia che tristezza...". Lo scrive su twitter il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, in merito alle ultime vicende che vedono protagonista l'attrice Asia Argento, accusata di molestie sessuali da un collega 17enne.

CHI DI COSCIA FERISCE, DI COSCIA PERISCE, scrive Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” 21 agosto 2018. Questa è grossa, mi viene da ridere a raccontarla. I lettori ricorderanno il pandemonio suscitato da Asia Argento mesi orsono, allorché denunciò un grande produttore cinematografico americano, Harvey Weinstein, accusandolo di averla molestata negli anni Novanta. Il fatto fu riassunto così: il cineasta la invitò in una camera di albergo dove lei si recò giuliva. Sennonché egli volle praticare il cosiddetto sesso orale. Asia, per timore di perdere lavoro o per riverenza, acconsentì e si fece baciare la passera. Venti anni più tardi si arrabbiò e mise pubblicamente alla berlina il leccator cortese. Scoppiò uno scandalo tardivo e un po' ridicolo. Polemiche, dibattiti televisivi, un putiferio giornalistico. Madame Argento si propose quale vittima di molestie e molte le credettero, specialmente le femministe d' accatto. Nulla di strano. Le porcellate divennero un argomento di moda. Varie donne si accodarono all' attricetta e a loro volta si dichiararono prede di uomini vogliosi. Vabbè, il costume si forma spesso in base a stupidaggini ingigantite dai media. Ma questo è niente. Ora si scopre che la figlia del regista noir, sempre negli Usa, si è fatta un ragazzotto diciassettenne. Il quale, applicando la legge del contrappasso, per tacere dell'amplesso, le ha chiesto ottendendolo un risarcimento di 380 mila dollari (pari a 330 mila euro). Pagare per le proprie colpe significa ammettere di averle. Per la fanciulla dedita al piagnisteo trattasi di sputtanamento cosmico. Una che frigna urbi et orbi per uno slinguazzamento subito, o accolto (saperlo), e poi risulta essere andata a letto illegalmente con un minore, dimostra di essere una squilibrata, in senso buono naturalmente. D' altronde, chi di coscia ferisce di coscia perisce. Noi non auguriamo ad Asia di perire bensì di rinsavire e magari di sparire dalla tivù, andando a riflettere in casa propria. Tra l'altro desideriamo difenderla. Il giovane con cui si è dilettata e che poi ha preteso di essere remunerato è uno sciocco. Spaventarti a causa di una passera che hai gradito e considerarla motivo di turbative psicologhe meritevoli di 330 mila euro, è da idioti o da furfanti. Argento non doveva dargli un centesimo. Fare l'amore non è una pena ma un piacere. Per lui e per lei. Ipocriti.

Massimo Gramellini per “il Corriere della Sera” il 21 agosto 2018. Che la paladina delle vittime di abusi sessuali, Asia #metoo Argento, abbia versato 380 mila dollari a un attore di vent' anni più giovane per lenirgli il trauma di averlo sbattuto su un materasso a molle californiano quando era ancora minorenne è una di quelle notizie fatte apposta per scatenare reazioni di pancia. La prima rivolta a lei: ma guarda da che pulpito veniva la predica. La seconda a me: se a 17 anni, in piena tempesta ormonale, un'attrice fosse scesa dal poster della mia camera per possedermi, ne sarei rimasto «traumatizzato» come il toy-boy di Asia o galvanizzato come un mio compagno di scuola dopo il flirt con la supplente di disegno? Di quell' attore in erba Asia Argento era la mentore riconosciuta, tanto che lui la chiamava «mamma». Tra loro si era instaurato, a sessi rovesciati, lo stesso rapporto di subordinazione che il produttore hollywoodiano Weinstein intratteneva con le sue prede. Come nel Signore degli Anelli, il Potere altera le relazioni umane, facendo impazzire chi lo detiene, ma anche chi è disposto a tutto per ottenerne i favori. Solo un illuso può credere che nelle mani delle donne cambi natura: la Storia è piena di regine ninfomani e sanguinarie. Maschio Weinstein o femmina Argento che sia, chiunque eserciti un potere senza controllo finisce sempre per abusarne.

ARGENTO COME WEINSTEIN È LA VERA PARITÀ TRA I SESSI, scrive Vittorio Sgarbi per “il Giornale” il 21 agosto 2018. Io sto con Asia. L'incredibile vicenda, che rende la realtà più sorprendente di qualunque fantasia, deve farci riflettere sul Weinstein che è in noi. Uomini e donne. È vero che, dallo stalking, alle molestie la definizione dei reati sembra punire la prepotenza maschile legata alla forza fisica e alla natura stessa del sesso; ma è altrettanto vero è che in molti casi si manifesta una violenza psicologica che conta sulla remissività, la paura o la fragilità della vittima. E che, da questo punto di vista, le conquiste della donna l'abbiano resa, spesso, psicologicamente più forte del maschio. La consuetudine e il costume sono abbastanza eloquenti nel definire le parti in commedia. Io sono, da anni, che ormai fanno decenni, vittima di stalkeraggio, telefonico ed epistolare senza essermene mai lamentato, ed avendo risposto con un sorriso o con un atteggiamento di sufficienza. Ma chi guarda il mio telefonino troverà centinaia di messaggi da almeno una decina di donne, che non mollano l'osso, e insistono a proporsi con lunghi e sconvenienti ragionamenti. Sarebbe materia sufficiente per numerose denunce. Io respingo e non rispondo. D'altra parte, se io fossi palpeggiato su un tram da una donna, sorriderei, come per uno scherzo; ben diversa sarebbe la reazione della donna dalla provocazione di un maschio. Fino a ieri, salvo che per rarissimi casi di ragazzi minorenni con le loro insegnanti maggiorenni, sarebbe stato impensabile il caso Weinstein a rovescio, ovvero, il produttore infastidito, molestato, e perfino violentato, da un'attrice; e non perché non ce ne fossero ragioni psicologiche ma per difficoltà fisiologiche e anatomiche. Ma la parità conquistata con l'uomo glielo consente almeno sul piano psicologico. Dobbiamo ringraziare Asia Argento. Non potevamo sperare che fosse lei a vendicarci facendo due parti in commedia: la vittima e il carnefice. Dunque Harvey Weinstein ha una allieva, come un vampiro: Asia Argento. Ciò che abbiamo letto oggi è un capolavoro: la stessa persona che dopo vent'anni ha denunciato per violenza sessuale Weinstein, si era comportata esattamente come lui, in una situazione che mostra diversi lati di comicità, e che deve essere stata presa sul serio dal fragile giovinetto che, cinque anni fa, a diciassette anni, se l'è vista addosso forzandolo a un rapporto sessuale non desiderato. Difficile da praticare, in assenza di eccitazione. Il giovane fragile, tale Jimmy Bennett, attore e musicista rock, lamentò di essere stato violentato, ovvero forzato a un rapporto sessuale, a diciassette anni, nel 2013, quando Asia Argento ne aveva trentasette, e che la violenza lo segnò profondamente e influì negativamente sulla sua carriera. Non si può dire lo stesso per Asia Argento che deve successo e denaro all' amicizia con Weinstein. Bennett sembra non aver avuto alcun vantaggio da Asia Argento, ma solo conseguenze negative. Non si può escludere neanche che una violenza così forte abbia un provocato in lui una trasformazione sessuale, femminilizzandolo. Asia si è comportata con lui come un maschio con una femmina. Oggi esce questa incredibile storia. Il risarcimento negoziato con la vittima è piuttosto alto, quasi 400mila dollari, e il contrappasso è così straordinario e paradossale da far pensare che la rivelazione provenga dallo stesso Weinstein, quand'anche non sia proprio lui ad aver prestato ad Asia i soldi per pagare Jimmy. È meraviglioso che in Asia Argento ci sia contemporaneamente la vittima è il carnefice, ed è anche, non solo una vendetta per i maschi, ma la testimonianza di una vera raggiunta parità dei sessi. Quello che non funziona è la morale: così come io ho tentato di comprendere le ragioni di Weinstein, e l'ho difeso, allo stesso modo capisco le ragioni di Asia, e mi sembra ridicolo è penoso l'atteggiamento di Jimmy Bennett. In entrambi i casi vale la natura stessa della sessualità che presuppone la liberazione di istinti, oltre la ragione. Nel maschio è addirittura una questione antropologica: la seduzione presuppone avances, che spettano di norma al maschio, che nella schermaglia avanza mentre la donna resiste fino al punto di cedimento, legato alla formazione dei due sessi, alla mentalità prevalente, che ha sempre visto la donna indifesa. Quand'essa attacca, con il temperamento maschile che Asia ha sempre mostrato, l'effetto è imprevedibile e il risultato inatteso e liberatorio. Si stabilisca dunque un patto tra maschi e femmine, che garantisca ciò che oggi sembra definitivamente inibito: la libertà dell'istinto, che conduce ad atti spesso innominabili, ma inconsciamente desiderati. E siano rese grazie ad Asia Argento per il suo sacrificio.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2018. E ora, X Factor? La risposta sul destino televisivo di Asia Argento è arrivata sul finire di una giornata decisamente non facile per Sky. «Vogliamo essere molto chiari: se quanto scrive il New York Times fosse confermato, questa vicenda sarebbe del tutto incompatibile con i principi etici e i valori di Sky e dunque - in pieno accordo con FremantleMedia - non potremmo che prenderne atto e interrompere la collaborazione con Asia Argento». È stata questa la reazione, inevitabile, della pay tv alla notizia dello scandalo che nessuno si aspettava. Asia Argento, nuovo giudice del talent, fino a ieri rappresentava la vera novità di questa edizione del programma di Sky Uno. Ora, il suo volto potrebbe non andare mai in onda. «Sky Italia e FremantleMedia - si legge nella nota ufficiale - non hanno scelto Argento come giudice di X Factor Italia per il suo impegno nella campagna #Metoo né per le sue posizioni personali, bensì - come è sempre avvenuto per i giudici di X Factor Italia - per le sue competenze musicali e le sue capacità di gestire un ruolo televisivo in un programma di questo tipo. Competenze e capacità ampiamente confermate durante le puntate di audizioni, registrate nelle scorse settimane, come possono confermare le migliaia di persone che vi hanno assistito tra il pubblico». Come a ribadire che, sul campo, la decisione di affiancare l'attrice a Fedez, Manuel Agnelli e Mara Maionchi era stata vincente. Ma dopo ieri, tutto potrebbe essere ridiscusso. Un allontanamento con riserva, dovuto allo stupore della notizia dell'accordo economico tra Argento e Bennett, di cui la pay tv non era a conoscenza al momento della firma del contratto. Ora il debutto del programma è vicinissimo - il prossimo sei settembre - e le selezioni registrate nelle scorse settimane sono già quasi pronte per la messa in onda. Ma ogni cosa adesso potrebbe cambiare. In molti, anzi, se lo augurano, stando almeno alle chiacchiere da web. Da ieri contro l'attrice si abbattono critiche feroci, ma anche riflessioni sull' opportunità di un suo coinvolgimento nel talent. Si parla di vera parità tra i sessi, si invoca coerenza, si domanda come Asia Argento possa confrontarsi ora con dei concorrenti minorenni e si chiede dunque che venga trattata alla pari di altri nomi illustri (e maschili) a cui sono state rivolte più o meno le stesse accuse, da Kevin Spacey (una volta coinvolto nello scandalo, Ridley Scott ha cancellato le scene del suo ultimo film in cui compariva e le ha fatte ri-girare a Christopher Plummer) fino a Brizzi. Un frastuono mondiale impossibile da ignorare e che complica una faccenda già molto delicata. Quello di X Factor, in fondo, rischia di non essere il verdetto più pesante.

Asia Argento e le molestie al minorenne: 5 cose da sapere. Secondo il NY Times, l'attrice avrebbe risarcito Jimmy Bennett per averlo aggredito sessualmente. Ecco la replica di lei e le parole dell'accusatore, scrive il 23 agosto 2018 Panorama. Da capofila delle donne in rivolta molestate da Harvey Weinstein a presunta molestatrice. Asia Argento avrebbe aggredito sessualmente un minorenne suo protetto, secondo le rivelazioni del New York Times. Lei nega. Ma Jimmy Bennett, l'accusatore, rompe il silenzio. Ancor prima di cominciare, è quindi a rischio la partecipazione dell'attrice come giurata a X Factor 12. Ecco cos'è successo.

1) Le rivelazioni del NY Times su Asia Argento. Poche certezze e tante incognite. Stando a un articolo del New York Times del 19 agosto, Jimmy Bennett, oggi 22enne, avrebbe accusato Asia Argento di averlo aggredito sessualmente in una camera dell'albergo Ritz Carlton di Marina del Rey in California, nel maggio 2013, quando aveva appena compiuto 17 anni (mentre lei ne aveva 37). Il quotidiano statunitense cita documenti legali ricevuti da una terza parte non identificata. L'attrice avrebbe risarcito con 380 mila dollari il giovane attore per fermare l'azione legale da 3,5 milioni, per danni emotivi e finanziari. A differenza di quasi tutti gli altri stati americani, in California l'età del consenso è di 18 anni. Non è stata presentata alcuna denuncia per l'episodio e ancora non esiste un'indagine aperta, ma le autorità hanno detto che indagheranno e che Bennett sarà contattato.

2) La replica scioccata di Asia Argento. Asia Argento però non ci sta e dice che è tutto falso: "Nego e respingo il contenuto dell'articolo pubblicato dal New York Times che sta circolando nei media internazionali. Sono profondamente scioccata e colpita leggendo notizie che sono assolutamente false. Non ho mai avuto alcuna relazione sessuale con Bennett". Così l'attrice in una nota del 21 agosto nella quale parla esplicitamente di "una persecuzione". "Non ho altra scelta che oppormi a tutte le falsità e proteggermi in ogni modo". L'attrice però confermerebbe che Bennett fu pagato. Fu lo star-chef Anthony Bourdain, compagno di Asia fino al suicidio in Francia lo scorso giugno, a spingere per compensare il giovane perché smettesse di infastidirla. Con 380 mila dollari, appunto. "Non è l'ammissione di niente, nessun tentativo di comprare il silenzio, semplicemente un'offerta per aiutare un'anima torturata che cerca disperatamente di spillarti denaro", avrebbe scritto Bourdain a Asia in un sms ottenuto dal sito di gossip TMZ. Lei avrebbe resistito: "Non comprerò il suo silenzio per qualcosa che non è vero anche perché sono in bolletta". Ma poi, sempre secondo TMZ, in un altro sms avrebbe scritto: "Ero gelata, lui era sopra di me. Poi mi ha detto che sono stata la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni". Così continua la versione di Asia, che in molti punti coincide con quella del NY Times che aveva dettagliato le cattive acque economiche di Bennet: "Quello che mi ha legata a Bennett per alcuni anni è stato un sentimento di amicizia, terminata quando, dopo la mia esposizione nella nota vicenda Weinstein, lui (che versava in gravi difficoltà economiche e che aveva assunto iniziative giudiziarie anche nei confronti dei genitori con richieste milionarie), mi rivolse a sorpresa una esorbitante richiesta. Sapeva che il mio compagno, Anthony Bourdain, era percepito come uomo ricco e che aveva la reputazione da proteggere in quanto amato dal pubblico". Bourdain aiutò Asia, impegnata nella "battaglia" #MeToo, a gestire la vicenda, aveva scritto il Times. Nella nota diffusa da Asia Argento si legge: "Anthony insistette che la questione venisse gestita in privato e ciò corrispondeva anche al desiderio di Bennett. Anthony temeva la possibile pubblicità negativa che tale persona, che considerava pericolosa, potesse portarci. Decidemmo di venirgli incontro. Anthony si impegnò personalmente ad aiutare Bennett a condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita". Presunti sms scambiati da Asia con un amico, diffusi da TMZ, rivelano che l'attrice pensava che Bennett fosse infatuato di lei: "Ero la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni". E poi avrebbe definito Jimmy "un ragazzo arrapato che le è saltato addosso". Alla richiesta se fosse stato stupro, Argento avrebbe risposto: "Ho fatto sesso con lui ed era strano. Ma non sapevo che fosse minorenne fino alla lettera del ricatto". Quando l'interlocutore degli sms chiede ad Asia perché non avesse denunciato l'episodio, lei risponderebbe che ha sempre avuto pena di "questo povero ex attore bambino fallito, una vittima della macchina di Hollywood e dei genitori". 

3) Chi è Jimmy Bennett e cosa dice. Attore e cantante classe 1996, Jimmy Bennet ha un discreto curriculum alle spalle. Ancora bimbetto ha partecipato a numerosi spot pubblicitari. A 8 anni ha lavorato accanto ad Asia Argento, attrice e regista di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (2004). Asia interpretava sua madre, una mamma inaffidabile e violenta, prostituta che costringe il figlio a vestirsi da bambina per adescare clienti.  Ha quindi partecipato a Hostage (2005) con Bruce Willis, a Firewall - Accesso negato (2006) con Harrison Ford, è stato il piccolo James T. Kirk in Star Trek (2009) di J.J. Abrams. In tv è stato tra i protagonisti della serie No Ordinary Family. A spingere Bennett a minacciare causa contro Asia Argento, passati anni dall'incontro del 2013, sarebbero state le accuse di molestie e stupri rivolte in ottobre da Asia e da altre donne al boss di Miramax Harvey Weinstein. "Vederla presentarsi come vittima è stato troppo. Ha fatto tornare a galla memorie ed emozioni dell'aggressione subita", aveva scritto l'avvocato del giovane, Gordon Sattro, nei documenti esaminati dal Times. "Grazie all'esperienza sul set era nato un rapporto materno", si legge nei documenti degli avvocati. I contatti erano stati senza storia fino al maggio 2013: una volta in hotel Asia avrebbe fatto bere il ragazzo, l'avrebbe spogliato, avrebbe fatto sesso orale su di lui e quindi un rapporto sessuale completo. Avrebbe poi chiesto a Jimmy di fare una serie di foto, alcune delle quali sono incluse nella minaccia di causa. Solo tornando a casa il ragazzo si sarebbe sentito "confuso, mortificato e disgustato". Dopo la replica di Asia, finalmente anche Bennett parla. E il 22 agosto rompe il silenzio: "Ero minore al tempo degli eventi", ha detto al New York Times, spiegando che "un pregiudizio nella società" contro un uomo che si fosse trovato nella sua situazione lo ha indotto a tacere: "Non ero pronto ad affrontare le conseguenze se la mia storia fosse diventata pubblica". Confermando che il suo trauma "è tornato in superficie nel momento in cui lei è diventata una vittima" raccontando lo stupro subito da Harvey Weinstein, Jimmy ha reso omaggio ai "molti uomini e donne di coraggio che hanno raccontato le loro esperienze". Aggiungendo: "Inizialmente non ho parlato della mia storia preferendo gestirla in privato con la persona che mi aveva fatto un torto".

4) Le parole dell'avvocato di Weinstein. Da paladina del #MeToo e accusatrice numero uno di Harvey Weinstein, ora Asia Argento finisce dall'altra parte della barricata. Da vittima a carnefice. Tant'è che il 21 agosto arriva pronto il commento del legale di Weinstein, Ben Brafman: "Questo sviluppo rivela un incredibile livello di ipocrisia da parte di Asia Argento. Ciò che forse è più eclatante è il tempismo, che suggerisce come nello stesso momento in cui l'attrice stava patteggiando per abusi sessuali su un minore, si stava anche mettendo in prima linea fra chi condannava il signor Weinstein, nonostante la loro fosse una relazione sessuale fra due adulti consenzienti".

5) X Factor 12 a rischio. La partecipazione di Asia Argento a X Factor 12 in qualità di giudice rischia così di chiudersi ancor prima di cominciare. Le accuse piombate su di lei hanno avuto un impatto mediatico fortissimo e Sky è dovuta intervenire mettendo in discussione il suo ruolo a X Factor 12, al via il 6 settembre prossimo. Sui social si chiede a gran voce l'estromissione dal talent, di cui sono già state registrate le Audizioni. Ecco la nota dei produttori del programma: "Sky Italia e FremantleMedia Italia hanno letto oggi con attenzione e stupore quanto pubblicato dal New York Times su Asia Argento. Va ribadito che Sky Italia e FremantleMedia non hanno scelto Asia Argento come giudice di X Factor Italia per il suo impegno nella campagna #Metoo né per le sue posizioni personali, bensì – come è sempre avvenuto per i giudici di X Factor Italia – per le sue competenze musicali e le sue capacità di gestire un ruolo televisivo in un programma di questo tipo. Competenze e capacità ampiamente confermate durante le puntate di audizioni, registrate nelle scorse settimane, come possono confermare le migliaia di persone che vi hanno assistito tra il pubblico". Le prime puntate sono già state registrate ed è da escludere che Sky cestini tutto; il rischio più grosso è per i Live, previsti per metà ottobre.  Sky non ha dubbi: "Vogliamo essere molto chiari: se quanto scrive oggi il New York Times fosse confermato, questa vicenda sarebbe del tutto incompatibile con i principi etici e i valori di Sky e dunque – in pieno accordo con FremantleMedia - non potremmo che prenderne atto e interrompere la collaborazione con Asia Argento". Se Asia sarà allonanata da X Factor, chi la sostituirà in corsa? È presto per dirlo, ma già circola il nome di Malika Ayane e si ipotizza il ritorno di Arisa. 

Asia Argento, parla Jimmy Bennett: "Finora ho taciuto per vergogna". L'attore affida una dichiarazione al New York Times e per la prima volta dice la sua sulla vicenda. "Volevo risolverla in modo privato ma il trauma è riesploso quando lei si è dichiarata vittima", scrive il 22 agosto 2018 Repubblica. "Nei giorni scorsi non ho fatto dichiarazioni perché ero addolorato e mi vergognavo che tutto questo fosse reso pubblico. All'epoca dei fatti ero minorenne e ho cercato giustizia nel modo che a me sembrava più appropriato perché non mi sentivo pronto ad affrontare le conseguenze che questa vicenda, se resa pubblica, avrebbe potuto comportare". Jimmy Bennett parla per la prima volta, affida una nota al New York Times per dire la sua sulla vicenda che da giorni lo vede protagonista dopo la denuncia contro Asia Argento che, secondo quanto raccontato dall'attore, lo avrebbe molestato sessualmente quando aveva diciassette anni, nel 2013. La dichiarazione, rilasciata allo stesso quotidiano che aveva rivelato le accuse di Bennett e il versamento di 380 mila dollari al giovane, arriva nel giorno in cui il sito Tmz pubblica lo scambio di sms tra Asia Argento e il compagno Anthony Bourdain, messaggi in cui si parlerebbe dei rapporti sessuali che l'attrice avrebbe avuto con il giovane, oltre a una foto in cui i due sono ritratti al letto insieme. Negli sms l'attrice ammetterebbe dunque di aver avuto rapporti sessuali con Bennett, cosa che fin dal primo momento aveva negato. Grazie al movimento #metoo, scrive Bennett, "molte donne e uomini coraggiosi hanno parlato delle loro esperienze e ho provato stima per il coraggio che hanno avuto nel rivelare cose di quel tipo. All'inizio non avevo mai rivelato la mia storia perché avevo deciso di gestirla in modo privato con la persona che mi aveva ferito. Il trauma - scrive ancora Bennett - si è risvegliato in me quando quella persona si è dichiarata essa stessa vittima (delle violenze di Weinstein, ndr)". All'epoca dei fatti, continua la nota, "temevo che in quanto maschio le mie parole sarebbero state stigmatizzate. Non pensavo che qualcuno avrebbe compreso che cosa significa vivere quel tipo di esperienza da teenager. Ho affrontato molte difficoltà nella mia vita - conclude - e affronterò anche questa. Vorrei superare questa vicenda, e ho deciso di andare avanti. Ma senza rimanere più a lungo in silenzio".

Chi è Jimmy Bennett, l'attore pagato da Asia Argento, scrive il 22 agosto 2018 Repubblica tv. Jimmy Bennet, il giovane attore californiano di 22 anni che ha accusato Asia Argento di molestie, inizia a recitare quando è ancora bambino. All'età di sette anni è sul set del film di Asia Argento "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa" in cui i due intepretano un complesso rapporto madre-figlio. La videoscheda racconta la carriera di Jimmy dopo l'incontro con l'attrice di Scarlet Diva, dagli esordi in "Star Trek", nel ruolo del piccolo James T. Kirk, fino alla parte da protagonista nella serie "No Ordinary Family". Nel 2012 arriva il debutto come musicista nel videoclip del suo singolo "Everything About You", seguito da "Over Again". Negli ultimi anni, però, la sua carriera di attore subisce un tracollo e partecipa solo a serie tv e film minori.

FOTO E SMS, ASIA RIVELA: CI FU SESSO E BENNETT: HO TACIUTO PER VERGOGNA. Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2018. In un caso che si sta rivelando ogni giorno più contorto e imprevedibile, ecco che arriva la smentita della smentita. Jimmy Bennett, per la prima volta, esce allo scoperto con un messaggio consegnato al New York Times. «Sono stato in silenzio finora - dice l'attore - perché provavo vergogna e comunque avevo deciso di risolvere la questione in privato con la persona che mi aveva danneggiato». Ma, spiega ancora, «ero minorenne all' epoca e avevo paura. Il mio trauma è stato riportato alla luce quando lei si è atteggiata a vittima: ora ho deciso di andare avanti. Ma non più in silenzio». Il suo legale aggiunge: la versione di Asia Argento non corrisponde a verità. La nebbia su quanto successo nel 2013 - quando Bennett, all'epoca 17enne, sostiene ci sia stato un rapporto fisico tra i due, vissuto poi come un’aggressione, al punto che per questo avrebbe chiesto una cifra di risarcimento importante, scesa a 380 mila dollari nell'accordo firmato tra i due -, allontana l'arrivo a una versione ufficiale e condivisa su quello che è diventato, in poche ore, uno scandalo di portata mondiale. Una nebbia resa ancora più fitta dagli sms (tra cui uno in cui dice: «Ho fatto sesso con lui, è stato strano». E ancora: «Quel ragazzino arrapato mi è saltato addosso») e dai selfie pubblicati ieri dal sito americano Tmz. In quello che è stato raccontato come lo scambio di messaggi tra lei e un amico, l'attrice sembra confermare ciò che pubblicamente ha negato. Ma mentre si è ancora nel mezzo dei tornanti della vicenda, sono iniziate le prime fermate obbligatorie. Conseguenze, concrete, di quanto sta succedendo in questi giorni. La prima è che Asia Argento ha deciso di abbandonare uno dei suoi prossimi impegni artistici: quello di madrina e curatrice di un festival musicale olandese, il Le Guess Who? «A causa della natura imprevedibile delle accuse che la riguardano, la signora Argento - si legge in una nota degli organizzatori - ha scelto di ritirarsi dal suo impegno nell'edizione di quest' anno». Sul fronte X Factor, invece, tutto resta fermo. Il talent show di Sky Uno aveva fatto sapere di attendere chiarimenti prima di prendere una decisione ufficiale, anticipando però che se la versione del New York Times risultasse essere vera, diventerebbe inevitabile allontanare Argento dalla giuria dello show, il cui debutto è vicinissimo (il prossimo sei settembre) e di cui sono state già girate le prime selezioni, con lei presente. Nel frattempo, in molti hanno analizzato l'impatto di questo scandalo sul movimento #MeToo, di cui l'attrice era tra gli esponenti che per primi si sono esposti. E proprio il New York Times ha scritto di come l'attrice sia stata «messa alla gogna» dai media italiani, che l'avrebbero trasformata dall'essere «l'imperfetta portavoce di un movimento che in Italia già faceva fatica a prendere piede a una donna che potrebbe aver danneggiato la causa irreparabilmente, almeno nel suo paese». È forse anche per questo che Mira Sorvino - altra colonna del #MeToo - si è esposta nelle scorse ore. Oltre ad aver detto di sperare che le accuse contro Argento non siano vere, ha aggiunto su Twitter: «Il tempo chiarirà, forse sarà scagionata, ma se sono vere non ci sono lenti che le faranno sembrare migliori». E ancora: «L'aggressione sessuale di minori è un crimine vergognoso ed è contro tutto quello che il movimento #MeToo difende».

“HO AVUTO PENA DI QUELL’ATTORE BIMBO FALLITO”. Marilisa Palumbo per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2018. Ottanta pagine di ricerche compilate da un investigatore privato assoldato da Anthony Bourdain. Prima di pagare il suo accusatore Jimmy Bennett, Asia Argento e il suo fidanzato, il cuoco star suicidatosi a giugno, avevano collezionato una gran mole di informazioni su di lui. È una delle tante novità che si ricavano dalla lettura dei messaggi scambiati tra l'attrice italiana e un amico che forse tanto amico non è, visto che li ha passati al sito scandalistico Tmz. È anche così che si giocano i processi pubblici nel 2018, con gli screenshot rubati, e forse Argento avrebbe dovuto saperlo. Soprattutto perché da quei messaggi emerge la conferma, il giorno dopo del «non ho mai avuto una relazione sessuale con lui» di clintoniana memoria, che l'attrice e Bennett hanno invece avuto un rapporto. Lunedì il New York Times pubblica lo scoop: Argento ha pagato 380 mila dollari per fermare la denuncia dell'attore e cantante Bennett, il quale sostiene di aver subito violenza in una stanza di albergo di Marina del Rey cinque anni fa, quando lui aveva 17 anni (quindi sotto l'età del consenso in California) e l'attrice 37. La richiesta di Bennett era arrivata un mese dopo la denuncia di Argento a Ronan Farrow del New Yorker su Harvey Weinstein, che aveva fatto di lei un volto chiave del movimento #metoo. Asia smentisce con forza: «Sono profondamente scioccata e addolorata dal dovere leggere notizie assolutamente false. Non ho mai avuto alcun rapporto sessuale con Bennett». Ma le rivelazioni di Tmz mettono tutto in discussione. Prima, martedì, i messaggi scambiati dall' attrice con Bourdain, che qualcuno evidentemente vicino al cuoco ha mostrato al sito. Uno di questi sembra alludere a un rapporto: «Non è stato stupro ma ero gelata. Lui era sopra di me dopo avermi detto che sono stata la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni». Poi, ieri, dalla pubblicazione degli sms scambiati con l'amico, una ammissione ancora più diretta: «Il ragazzino arrapato mi è saltato addosso». È stato stupro, o un approccio sessuale?, le chiede l'interlocutore. «Ho fatto sesso con lui, è stato strano. Non sapevo che fosse un minore», risponde l'attrice, che dice di non essere stata consapevole, all'epoca, dell'età del consenso per la legge californiana (18). Nell'articolo di Tmz c'è anche la foto dei due distesi a letto, abbracciati, la testa sul cuscino. Una foto che secondo l'accordo era stata restituita da Bennett ad Argento. «Non ho detto niente prima perché mi sono sempre sentita male per questo attore-bambino fallito, una vittima dell'apparato, dei suoi genitori», si difende Argento parlando con l'amico (l'accusa dell' avvocato di Bennett è che sia stato invece il trauma della violenza a rovinarne la carriera facendone precipitare i guadagni): «Su di lui ho 80 pagine raccolte da un investigatore privato assunto da Anthony». Di una causa con i genitori aveva parlato il New York Times, che raccontava come Bennett avesse citato in giudizio sua madre e il suo patrigno accusandoli di avergli sottratto negli anni 1,5 milioni di dollari. Anche Bourdain, nei messaggi in cui invita la fidanzata a pagare, fa riferimento a una presunta instabilità mentale dell'accusatore: «Non stai pagando il suo silenzio. Solo la libertà da una seccatura. E per aiutare un povero stupido tormentato a rimettere la propria vita assieme». Bourdain, che frequentava Argento da un anno e mezzo, le è sempre stato accanto nella vicenda #metoo. L'ha difesa dalle accuse di ipocrisia per aver continuato a frequentare Weinstein dopo lo stupro, e ha tentato di proteggerla da Bennett, descritto come un povero diavolo «che vuole solo spillarti soldi». All'amico l'attrice scrive: «Tutte quelle mail di Anthony che mi spingeva ad accettare di pagare. Le mie mail con Carrie (il suo avvocato, Goldberg, ndr) in cui eravamo in disaccordo sull'idea...Carrie non ha mai voluto farlo, voleva andare subito alla stampa e mostrare il tentativo di estorsione nei miei confronti». Ma lei alla fine aveva scelto di seguire i consigli di Bourdain, che poi le avrebbe dato anche i soldi per pagare. Ora l'amico le dice di dimostrare che il denaro non veniva da lei, e se ha prove di avance precedenti. Ma lei no, non ne ha, a parte le foto nude non richieste che Bennett le avrebbe inviato negli anni «fino a due settimane prima della lettera dell’avvocato». Dagli scambi con l'amico Argento sembra incredula e spaventata: «Se perdo il lavoro andrò in Africa o nella foresta amazzonica. Voglio essere tra il 90 per cento del mondo che se ne frega di questa m..., non il connivente, malato 10% dei viziati occidentali».

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 23 agosto 2018. La presunta violenza sull' attore Jimmy Bennett rischia di avere conseguenze legali anche in Italia a carico di Asia Argento. Secondo quanto risulta alla Verità, infatti, l'attrice scomparsa dai social network ormai da un mese starebbe cercando un avvocato che possa difenderla da nuove accuse. Per di più non è ancora stata chiarita la sua posizione come futuro giudice di X Factor su Sky, altra vicenda che potrebbe scatenare nuove bagarre o dispute legali. Ma al momento di specialisti disposti a assisterla non ce ne sarebbero, soprattutto tra le esperte di diritto di famiglia più importanti, da Giulia Buongiorno fino ad Annamaria Bernardini de Pace. La situazione è delicata per la leader del movimento Me too, principale accusatrice dell'ex numero uno della Miramax Harvey Weinstein. Non ci sono solo le cause di risarcimento da svariati milioni di dollari che potrebbero cascarle sulla testa. Non a caso in queste ore di polemica, su Facebook e Twitter c' è persino chi arriva a tirare in ballo il tribunale dei minori sulla tutela dei figli dell'attrice italiana. La maternità della Argento, madre di due bambini (Anna Lou avuta da Marco Castoldi, in arte Morgan, e Nicola Giovanni dal regista Michele Civetta), è spesso stata oggetto di polemiche che lei stessa ha sollevato in interviste o dichiarazioni pubbliche. Come quando a Vanity Fair dichiarò di essere «una madre sola, con i padri che non aiutano: non parlo di soldi ma di presenza. Ho trovato due uomini su due che non si prendono le loro responsabilità: meglio sola con due bimbi meravigliosi che con un uomo fra le scatole». Poi ci fu anche una causa contro l'ex compagno Morgan, con tanto di polemica perché fu pignorata la casa all' ex leader dei Bluvertigo per i mancati alimenti. Il cantante rispose con una lettera, dicendo; «appena ho sgarrato mezza volta e non per mia volontà, allora ecco che subito arriva la notifica, il pignoramento, la chiamata a rispondere della condotta deplorevole, e per non parlare delle diffamazioni, le sputtanate a mezzo stampa. Ma sì, distruggiamolo quello stronzo, togliamogli tutto, figli, casa, dignità civile, che ci frega, anzi mi diverto. Dai massacriamolo, senza pietà, senza un minimo di rispetto! E non parlo del ricordarsi di aver detto "ti amo", ma del minimo rispetto di un essere umano». Ora la situazione potrebbe ribaltarsi. Molto dipenderà dall' indagine sulle presunte molestie a Bennett che il sito di gossip americano Tmz ha approfondito negli ultimi due giorni, tirando fuori fotografie e messaggi che proverebbero il rapporto sessuale tra i due. Per un adulto è un crimine in California fare sesso con una persona sotto i 18 anni. Il comunicato uscito ieri contro l'articolo del New York Times in cui si dava conto del risarcimento di 380.000 dollari a Bennett è stato diramato dall' avvocato Leonardo Proni. Lo stesso avvocato che molti giornali e quotidiani di tutto il mondo stanno cercando in questi giorni, ma senza ricevere risposte. Del resto la Argento è scomparsa. Nei messaggi pubblicati da Tmz ce n' è uno in cui scrive che se perderà il suo lavoro se ne andrà in Africa o in Amazzonia. Ma il problema di una tutela legale resta. Come raccontato ieri dalla Verità, Weinstein starebbe pensando a una causa milionaria contro la Argento. In Italia, però, la figlia del celebre regista horror ha fatto terra bruciata. A partire dall' attuale ministro per la Pubblica amministrazione Bongiorno, che finì sotto accusa proprio della Argento sia per il suo impegno in politica sia per la sua carriera professionale. A quanto pare l'attrice di Perdiamoci di vista, ex del cantante dei Bluvertigo Morgan, aveva confidato già lo scorso anno nell' aiuto della Bongiorno e di Michelle Hunziker, titolari dell'associazione Doppia difesa a sostegno delle donne che subiscono abusi, violenze e discriminazioni. Ma non ci sarebbe stato nulla da fare. A gennaio di quest' anno esplose la polemica. La Argento sui social la attaccò senza pensarci due volte: «L'avvocato Bongiorno aveva difeso il mafioso Giulio Andreotti («Assolto! Assolto! Assolto!») ma si è rifiutata di tutelare alcune vittime di violenza sessuale nell' industria cinematografica... #Doppiadifesa? Dissociazione totale». Poi scoppiò pure una polemica sull' associazione dopo un'inchiesta della giornalista del Fatto Quotidiano Selvaggia Lucarelli. Tra gli avvocati più noti in Italia che potrebbero difendere la Argento c' è poi Annamaria Bernardini de Pace, che alla Verità ricorda di «averla difesa tanti anni fa per recuperare la sua bambina rapita dal padre. Al buon esito non mi ha mai pagata...». E adesso? «Comunque non la difenderei neppure se ritornasse. Io difendo le vere vittime. Posso e voglio scegliere». A quanto pare anche altre esperte di diritto di famiglia avrebbero già sbattuto la porta in faccia all' attrice, tra queste Pompilia Rossi, esperta di diritto di famiglia e minori.

Argento vivo, scrive il 23 agosto 2018 Alessandro Bertirotti su "Il Giornale". Tutta questione di… scheletri nell’armadio. La notizia ha fatto il giro del mondo. Sono molti i media che ne parlano. D’altra parte, in Toscana esiste un detto: “il più pulito c’ha la rogna”. Direi che è perfettamente in sintonia con l’attivismo erogeno-oro-sessuale della nostra para-attrice. Nello stesso tempo, devo ammettere che, molto probabilmente, il personaggio non avrebbe avuto altra scelta che procedere così, come ha fatto, e non mi riferisco ai soldi elargiti affinché tutto venisse messo a tacere, ma all’azione in sé. Io ho una concezione della bellezza vetusta. Sono abituato al Rinascimento italiano e alla successiva elaborazione realistica del grande Caravaggio. Ecco perché, dal mio punto di vista, l’Argento vivo addosso non poteva procedere che violentemente, visto che da anni molte di loro (femmine umane mediatiche…) si trovano a concorrere con le drag queen. Ora tutti la criticano e l’abbandonano, ma certamente lei continuerà a dire la sua. A giusta ragione. Per altro, il fatto che lei sia accusata di violenza sessuale non cancella la violenza da lei subita, ammesso, a questo punto, che l’abbia davvero subita. In effetti, la notizia quanto meno offusca la sua credibilità. Il dubbio che possa essere stata sincera (nonostante le sue ultime dichiarazioni), anche se a distanza di anni, si fa ora sempre più strada nelle menti di quella popolazione mondiale ancora rimasta sana. E poi, parliamo di un minore, con il quale aveva stabilito un perverso rapporto madre-mantide-figlio. Insomma, la nostra presunta stupratrice sembra rispettare le polimorfe fantasie rappresentate nei suoi film, che evidentemente sembrano più documentari che performance. Infatti, non dobbiamo dimenticare il suo amore per il satanico, il peggio del peggio dell’umanità. Tutte cose che caratterizzano l’attiva-attivista signora. Però, tutto questo clamore è anche pubblicità e lei continuerà sicuramente a lavorare, e qualcuno ancora seguirà le sue performance. E questo è forse l’aspetto più grave della situazione. D’altra parte, il livello alfabetico-culturale della massa mondiale di individui è sempre più basso. E questo è utile, perché così la politica e i media possono proporci impunemente le loro nefandezze. Per concludere, direi però che Asia Argento è stata coraggiosa: non si sente molto frequentemente parlare di violenza sessuale femminile a danno del maschio. Proprio una virago, con qualche tendenza freudianamente interessante e da approfondire. Invece di metterla in giuria ad X Factor, proporrei alla produzione Sky di consegnare in mano alla “me too yeah” la conduzione di un programma di educazione alla pratica sessuale per giovani adolescenti. Un certo tipo di adolescenti, quelli figli dei bacchettoni sessantottini, tanto liberi allora quanto retrivi oggi. Chissà quanti argomenti di discussione serale!

Asia Argento, fino a che punto si abbassa Marco Travaglio per difenderla: "Ha molti nemici e...", scrive il 23 Agosto 2018 Libero Quotidiano. In soccorso di Asia Argento arriva in soccorso Marco Travaglio, il più grande manettaro d'Italia. Un paradosso, ma fino a un certo punto perché gli permette così di attaccare chi critica l'attrice italiana. Secondo il direttore del Fatto quotidiano il paragone tra la Argento, accusata di aver molestato un collega 17enne, e Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood di cui Asia, tra le prime, ha denunciato gli abusi sessuali, non è proponibile: uno potentissimo, l'altra regista di piccoli film. E quella di Jimmy Bennett, l'attore molestato dalla Argento, è una "accusa tardiva (giunta a 5 anni di distanza) e privata, con allegata una richiesta di soldi per non divulgare il fatto. Il caso vuole che Jimmy si sia svegliato proprio mentre Asia era impegnata nella battaglia contro Weinstein ed era fidanzata con un ricco e famoso chef francese, Anthony Bourdain". "Di solito - nota Travaglio - pagare il silenzio di un accusatore significa ammettere il torto. Ma non necessariamente in questo caso". Il perché è semplice: nell'America del dopo #metoo, "chi volesse ricattare un divo del cinema, o una testimone anti-Weinstein con false accuse troverebbe terreno fertilissimo". I casi sono tre, spiega Travaglio: "Asia ha fatto sesso con Bennett consenziente", e qualora partisse una querela rischierebbe grosso. "Moralmente, nulla di male, a parte la bugia raccontata l'altroieri", è il commento che lascia sbigottiti, perché per 10 anni Travaglio ha linciato Silvio Berlusconi per i presunti rapporti tra Silvio Berlusconi e la minorenne Ruby Rubacuori. Se invece Bennett non era consenziente, "resterebbe da spiegare come faccia una donna con quel fisico da colibrì a violentare un giovanotto di 17 anni e passa", senza però tenere conto delle conseguenze psicologiche devastanti di cui parla l'avvocato del ragazzo. Oppure, è la conclusione, la Argento "è rimasta vittima di un'estorsione fondata su una calunnia e ha pagato Jimmy per evitare lo sputtanamento di un'accusa falsa". Il guaio, conclude Travaglio, è che "Asia ha il brutto vizio di dire ciò che pensa e s'è fatta molti nemici, nella stampa e nella politica". Talmente tanti nemici che #metoo ha stravolto le regole di Hollywood e chi ha iniziato a sollevare la questione della "caccia alle streghe" è stato fatto passare per bieco maschilista. Ma Travaglio pensa all'Italia: vuoi vedere che la cospirazione è partita dalla redazione di Libero?

Asia Argento, la lezione di Barbara Palombelli: "Qualcosa di terribile". La "femminista" e i soldi, sputtanata, scrive il 24 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Lo scandalo di Asia Argento non è questione di "scelte private e libere trasgressioni". Il caso delle molestie sull'allora 17enne Jimmy Bennett, spiega Barbara Palombelli su Facebook, racconta "qualcosa di più terribile". "Davanti a un problema lei si è fatta aiutare dal suo fidanzato (lo chef Anthony Bourdain, che avrebbe pagato per lei i 380mila dollari chiesti da Bennett, ndr). Ecco: noi donne di una volta avremmo regolato la cosa senza chiedere soldi o aiuti a nessuno - scrive la conduttrice di Forum -. Mai preso soldi da uomini (dopo i 15 nemmeno dal mio amatissimo padre, rinunciando a tante cose e scegliendo di iniziare a lavorare molto giovane). Il femminismo si può anche schifare - e ora va di moda farlo - ma molte di noi lo hanno, lo abbiamo, vissuto (e pagato)".

Asia Argento, affondo di Mentana: "Improponibile portabandiera delle donne". Il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, pubblica su Facebook la sua opinione su Asia Argento e la bufera che ha colpito l'attrice, scrive Rachele Nenzi, Giovedì 23/08/2018, su "Il Giornale". Sulla bufera che ha investito Asia Argento si è detto e scritto di tutto: le accuse del New York Times, l'attrice che nega, il sito Tmz che pubblica sms tra Bourdain e la figlia del regista Dario e quelli tra la 42enne e l'accusatore Bennet. C'è anche chi ha taciuto come Laura Boldrini. E chi ha fatto sentire la sua voce e la sua opinione. È il caso di Enrico Mentana che dal suo profilo Facebook spiega con molta chiarezza e senza timore la sua opionione sullo scandalo. "Secondo quel che rivela - digita il direttore del Tg La7 - con tanto di carte citate, il New York Times, Asia Argento era ben conscia di avere pendente un'azione legale per molestie sessuali da lei compiute nei confronti di un giovane attore quando l'anno scorso lanciò le accuse a Weinstein per averla sottoposta allo stesso tipo di abuso". Mentana riferendosi ancora all'attrice prosegue nel suo pensiero: "Avrebbe dovuto ammetterlo nel momento stesso in cui puntava il dito contro il produttore, e non l'ha fatto". Ovviamente il giornalista non scagiona Weinstein, che definisce "un protervo senza scrupoli che ha imposto la sua legge del letto alle attrici che faceva lavorare, e per questo pagherà di fronte alla giustizia americana", né tantomeno priva dei meriti il movimento Metoo che "ha dato una sacrosanta spallata a pratiche che insultano la dignità delle donne". Più che altro punta il dito contro Asia: "Con la sua memoria selettiva riguardo alle colpe e alle denunce ne esce davvero male, e diventa improponibile come portabandiera di ogni diritto delle donne".

Laura Boldrini, la vergogna dopo lo scandalo su Asia Argento: la chiama il New York Times, imbarazzante, scrive il 23 Agosto 2018 Libero Quotidiano”. Alla fine anche la redazione del New York Times ha scoperto di che pasta è fatta l'ex presidenta della Camera, Laura Boldrini. Il quotidiano americano, dopo aver svelato il caso di violenza sessuale di Asia Argento ai danni del 17enne Jimmy Bennett, ha cercato di sentire le persone che sono state più vicine all'attrice durante le sue battaglie di denuncia delle molestie sessuali nel mondo dello spettacolo. Come dimenticare i cortei e i convegni paludati con la Argento e la Boldrini, chi meglio della ex presidenta quindi per avere un'opinione sull'amica e compagna di tante lotte. E invece niente da fare. Finché si tratta di attaccare il governo sull'immigrazione o indignarsi come un riflesso condizionato per l'ultimo caso di blocco dei porti, la Boldrini è fin troppo ciarliera. Sull'imbarazzante caso dell'amica Asia invece non apre bocca, neanche con il New York Times che ha dovuto incassare un "cortese rifiuto". Lo stesso quotidiano americano riconosce quanto poco popolare fosse la Argento in Italia, figuriamoci la Boldrini, e le sue battaglie: "La signora Argento non ha mai scaldato i cuori degli italiani - scrive il NYT - in parte riflettendo la persistente resistenza al progresso che il movimento #MeeToo ha aperto per le donne in alcuni paesi". Un bel danno per le femministe insomma era solo averla con loro. In più gli amici cominciano a sparire: "Persino alcuni di quelli che un tempo avevano difeso a gran voce la Argento hanno poco da dire". Come l'amicona Boldrini.

La vicenda di Asia Argento… Povero giornalismo! Asia Argento ha diffuso una nota, nella quale respinge tutte le accuse, accusa a sua volta il NYT di falso, e presenta la sua versione dei fatti, scrive Piero Sansonetti il 22 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Una quindicina d’anni fa al New York Times fu proposto uno scoop. Carte e fotografie nelle quali si sosteneva che nella prigione irachena di Abu Ghraib l’esercito americano avesse praticato sui detenuti un numero incredibile di torture e sopraffazioni, violando ogni legge nazionale e internazionale. Il NYT verificò, non trovò riscontri, respinse. Poi lo scoop lo fecero la Cbs e il New Yorker, e fu raccolto da tutti i giornali del mondo, sollevando un’ondata di indignazione contro la ferocia dei soldati occupanti. Ci vollero diversi anni per scrollarsi di dosso quella roba. La popolarità di George W. Bush non si riprese mai più. Il New York Times nei giorni scorsi è stato meno rigoroso sullo scoop- Argento. Non ha trovato riscontri ma neppure smentite e ha pubblicato: Asia Argento nel 2013 ha fatto sesso con un ragazzo di diciassette anni e mezzo (cioè con un minorenne) e poi, per mettere a tacere lo scandalo, ha comprato il silenzio del malcapitato con 380 mila dollari. Asia Argento ieri è stata sommersa di fango dalla maggior parte dei giornali italiani, felici di cavalcare lo scandalo che viene da oltreoceano. Soprattutto perché è stata proprio lei, Asia, qui in Italia, a guidare la protesta me-too, quella delle donne contro i maschi potenti e ricattatori sessuali, a partire dal produttore Winstein. Titoli a tutta prima pagina. Di questo tenore: «Asia Argento grottesca, la molestata molesta un minore”. Tutti i commenti, naturalmente, mettono in parallelo questo scandalo scoperto dal NYT con lo scandalo che ha messo in difficoltà il produttore Winstein, accusato da molte donne – in primo luogo da lei, Asia – di aver chiesto sesso in cambio di carriera. Sempre ieri, in serata, Asia Argento ha diffuso una nota per la stampa, nella quale respinge tutte le accuse, accusa a sua volta il NYT di falso, e presenta la sua versione dei fatti. Dice di non aver mai fatto sesso con il giovane ex attore (Jimmy Bennett), mai, e di avergli dato dei soldi (parecchi) su pressioni del suo compagno (il celebre chef Anthony Bourdain, morto suicida qualche mese fa) per aiutarlo, viste le sue difficili condizioni economiche. Non si capisce bene, dalla nota di Asia Argento, se il finanziamento sia stato, per così dire, spontaneo e filantropico (Bourdain era molto, molto ricco) o se invece ci sia stato qualche ricatto: a quanto sembra, comunque, se c’è stato un ricatto non era dovuto alla relazione sessuale tra Asia e il giovane Jimmy. Probabilmente non sapremo mai la verità. Sappiamo però che questo scoop ha azzerato in poche ore tutti gli effetti di mee-too. Che erano stati larghissimi: sull’opinione pubblica, sugli intellettuali, sull’establishment. E poi siamo sicuri di altre due cose. La prima è questa: sapere se Asia ha fatto o no l’amore col giovane Jimmy è fatto di interesse pari a zero, più o meno. Jimmy non era un bambino, era un giovane attore di diciassette anni e mezzo, era consenziente, non era ricattato, non era costretto. E’ molto probabile che sia vero quello che dice Asia Argento, e cioè che il rapporto sessuale non c’è mai stato. Anche se ci fosse stato non sarebbe una cosa clamorosa né un delitto atroce. E’ illegale? Vedrà eventualmente il tribunale della California. Al quale, però, non risulta nulla. La seconda cosa che sappiamo – e che già sapevamo – è che la campagna di me-too assunse, da un certo momento in poi, un tono di caccia alle streghe un po’ preoccupante. Una cosa è denunciare il modo nel quale una parte dell’umanità maschile usa il suo potere e opprime le donne, e le ricatta sessualmente, e le molesta e le violenta. E questa è una azione sacrosanta e necessaria, perché l’oppressione maschile, in tutti gli strati della società, è ancora molto forte e molto infame. Un’altra cosa è immaginare che un buon fine giustifichi qualunque mezzo. Perché allora una lotta si trasforma in una campagna giustiziera, e se c’è un sospetto piccolo così è bene bruciare le case, le suppellettili e tutte le persone che ci sono dentro. Questo non va bene, non è mai andato bene. Di solito sono le donne che ci vanno di mezzo nella caccia alle streghe, stavolta invece sono stati gli uomini. Fino a un certo punto. Poi, zac, e l’arma di rovescia e punta contro chi l’impugna. E la donna torna vittima. Anche ad Asia è successo così. Su questo il movimento me- too forse, dovrebbe un po’ riflettere. I modi e le passioni del giustiziere non portano mai giustizia: portano sempre nuova oppressione e fanno strame della libertà. Dopodiché torniamo al New York Times. E’ il più importante è il più serio giornale del mondo. Eppure ormai anche al New York Times si fa giornalismo in questo modo. Spiando la vita personale della gente e gettandola in pasto al pubblico, così, per qualche spicciolo, qualche copia, un pochino di rumore. Il gossip elevato ad arte dell’informazione. Il gossip come apice della cultura. Senza neanche preoccuparsi tanto di verificare, di controllare, di essere sicuri. Oggi, a quel che sappiamo, è molto improbabile che Asia Argento abbia fatto sesso con Jimmy Bennett, come ha scritto il NYT. E’ o non è un incidente clamoroso se le cose stanno così? No, non lo è. Lo sarebbe stato 15 anni fa, oggi l’opinione pubblica perdona, perché non è affamata di verità, di certezze (di informazione) ma vuole scandali che travolgano, e puniscano, i potenti e i ricchi o anche semplicemente i famosi. Magari è anche normale che sia così. E’ inquietante che persino i colossi dell’informazione, come il NYT, si pieghino, accettino questo gioco. Dimostrando quanto è vero quello che recentemente ha detto Mattarella, citando Alessandro Manzoni: «Erano tempi nei quali il buon senso si nascondeva, perchè aveva paura del senso comune». Quali tempi? Beh, questi.

Rose McGowan ad Asia Argento: «Sii la persona che avresti voluto fosse Weinstein», scrive il 28 agosto 2018 Stefania Saltalamacchia su Vanity fair. L'amica, e paladina del #MeToo, in un lungo comunicato fa sapere come è venuta a conoscenza dello «scandalo Jimmy Bennett» e si rivolge all'attrice e regista italiana: «Sii onesta, sii giusta. Lascia che la giustizia segua il suo corso». Rose McGowan prende ancora le distanze da Asia Argento. L’attrice americana, tra le prime accusatrici di Harvey Weinstein (insieme alla collega italiana) e paladina del #MeToo, ha scritto una lunga nota in cui racconta come ha saputo che Asia Argento avrebbe pagato 380 mila dollari a Jimmy Bennett, il giovane attore che l’accusa di violenza. A dirle che l’attrice e regista italiana ha ammesso di aver fatto sesso con l’oggi 22enne (e all’epoca dei fatti 17 anni) è stata la sua compagna, la modella Rain Dove, colei che ha appena dichiarato di essere stata lei «la talpa» che ha reso pubblici i messaggi-confessione di Argento (poi pubblicati dal sito di gossipTmz). Asia avrebbe anche detto a Dove di aver ricevuto foto di Bennett nudo fin da quando lui aveva 12 anni, ma di non aver mai preso alcun provvedimento a riguardo. McGowan fa sapere ora di non essere mai stata «collegata a questa vicenda, né complice». E ancora: «Asia [ai tempi della denuncia contro Weinstein] aveva accennato al fatto che venisse ricattata ogni mese da qualcuno che possedeva foto compromettenti e che chiedeva una considerevole somma di denaro, ma nessuno ha mai saputo chi fosse l’estortore. Adesso sappiamo che si stava riferendo a questo caso». L’ex attrice di Streghe ha poi aggiunto che la sua amicizia con Asia non le impedirà di difendere vittime come Bennett: «È triste perdere un legame di amicizia, ma cosa ancora più triste è quello che è successo a Jimmy Bennet», ha continuato nel comunicato, «Se la vicenda dell’estorsione è vera, non è giusta. È il tipo di cosa contro cui combatto da tanti. Ma non ci dovrebbe assolutamente essere alcuna tolleranza nei confronti di un’aggressione sessuale». La dichiarazione dell’attrice termina con una supplica ad Asia, l’amica le chiede di diventare la persona che avrebbe voluto fosse Harvey Weinstein: «Asia, eri mia amica. Ti ho amata. Hai rischiato molto per sostenere il movimento#MeToo. Spero davvero che tu possa trovare la via, in questa vicenda, per migliorare e per riabilitarti. Chiunque può essere migliore, spero possa esserlo anche tu. Fai la cosa giusta. Sii onesta, sii giusta. Lascia che la giustizia segua il suo corso. Sii la persona che avresti voluto fosse Harvey Weinstein». Asia Argento finora non ha aggiunto altri commenti, dopo la nota in cui negava di aver mai fatto sesso con Bennett (dichiarazioni di fatto poi smentite dagli sms tra lei e Dove). Tutto è iniziato, ricordiamo, una settimana fa quando il New York Times ha scritto che l’attrice avrebbe promesso 380 mila dollari all’ex-attore Jimmy Bennett, in cambio del suo silenzio su un rapporto sessuale avuto nel 2013, quando lui era ancora minorenne (pratica illegale in California). La notizia ha subito fatto il giro del mondo, mettendo in discussione anche il ruolo di giudice di Argento nel talent italiano X-Factor.

Rain Dove, la compagna di McGowan ha tradito Argento: è lei ad aver diffuso gli sms, scrive il 27 agosto 2018 "la Repubblica". A pochi giorni dalla seconda accusa di molestie nei confronti di Asia Argento, da parte del comico britannico Jeff Leach, la compagna di Rose McGowan, la modella Rain Dove, afferma in uno scambio di tweet con svariati utenti di essere la responsabile della divulgazione del contenuto degli sms di Argento in cui l'attrice ammetteva di aver fatto sesso con Jimmy Bennett. "Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei", ha scritto la 27enne impegnata da tempo con McGowan, tra le prime ad aver accusato Harvey Weinstein di molestie. I messaggi confidenziali sono stati mandati a Rain Dove dalla stessa Argento, probabilmente per cercare conforto e consigli sul da farsi. Racconta la modella su Twitter: "Per prima cosa non volevo che Asia mi inviasse i messaggi. Quando mi hanno detto che c’era un reato, ho diffuso alcuni sms per supportare le mie azioni. Divulgare i testi che ricevo è un mio diritto avallato dalla legge". "Confesso a questo forum di essere stata io, perché al mio posto Rose veniva ingiustamente accusata", ha continuato Rain Dove in un altro messaggio. In un passaggio dello scambio tra Argento e Rain Dove la modella tenta di rassicurarla scrivendole "respira. Ci sarà giustizia per coloro che sono onesti", mentre l'attrice italiana replica "il mondo non funziona in questo modo". Ma lei insiste: "Io credo che in questo funzionerà". Questa sarà l'ultima battuta di Rain Dove prima di un ulteriore sms di Argento che le scrive: "Sei un mostro!". Il messaggio arriva a oltre due ore di distanza di tempo dal precedente ed è in quel lasso di tempo che, presumibilmente, la compagna di McGowan si è recata alla polizia. Sul social network Rain Dove racconta di aver inizialmente raccolto le confessioni di Asia Argento, aggiungendo però che "è stata lei a iniziare la conversazione, mi ha chiesto aiuto perché diceva di essere innocente", sottintendendo che quei messaggi non erano esattamente attesi né, forse, graditi. La modella, attivista e attrice Rain Dove Dubilewski, questo il suo nome integrale, ha negato di aver consegnato personalmente la conversazione a Tmz, che ha poi pubblicato il contenuto facendo esplodere il caso. Più precisamente, spiega di non averlo fatto in modo diretto ma che potrebbe essere stato qualche amico o suo collaboratore, cui aveva fatto leggere i testi, per capire come comportarsi. Si saprà solo più tardi, con la presa di posizione della sua fidanzata, che Rain Dove ha portato gli sms alla polizia. Sempre secondo Rain Dove anche l'ex di Argento, il cuoco, gastronomo e scrittore statunitense Anthony Bourdain, morto suicida lo scorso 8 giugno, era a conoscenza del fatto che la sua compagna avesse avuto un rapporto sessuale con Bennett. Intanto, dopo il lunghissimo thread di tweet che Rain Dove ha portato avanti per tutta la sera, rispondendo agli utenti del social network e aggiungendo nuovi tasselli al complesso puzzle di recriminazioni reciproche, si fa sentire anche Rose McGowan. L'artista, meglio conosciuta per il ruolo di Paige Matthews nella serie televisiva Streghe, prende ulteriormente le distanze da Asia Argento e le manda a dire di "diventare la persona che avrebbe voluto fosse Harvey Weinstein". "Fai la cosa giusta, sii onesta", afferma al termine di una dichiarazione l'attrice americana, ma nata a Firenze, che precisa anche di "non essere affiliata o complice" nell'"incidente" in cui Asia è stata accusata di aver fatto sesso con Jimmy Bennett. McGowan ha poi confermato che la sua partner, Rain Dove, ha sottolineato come Asia si sia confessata con lei svelandole di essere andata a letto con Jimmy, oltre però ad aver ricevuto foto nude del ragazzo "non richieste" da parte dello stesso e fin da quando lui aveva 12 anni. Argento, a quanto sembra, non avrebbe preso nessuna contromisura per fermare il giovane: "Non è andata alla polizia e non gli ha neanche detto di smetterla", scrive Rose". Poi, McGowan racconta nel dettaglio come il contenuto della conversazione privata tra la sua compagna e Argento sia divenuta pubblica: è stata proprio Dove, che inizialmente aveva negato il fatto, ad aver passato alla polizia gli sms di Asia, questo dopo che la modella ha pubblicato su Twitter lo screenshot con l'ultimo sms della Argento che l'accusa di essere "un mostro". "48 ore dopo gli sms erano sui giornali", ha detto Rose a proposito dei messaggi pubblicati da Tmz. McGowan ha scritto anche di aver fatto conoscere Asia a Rain tre giorni dopo il suicidio di Bourdain. In quella occasione Asia si aprì con lei e con Rain: "Raccontò che era stata vittima di una estorsione di una vasta somma di denaro ogni mese da qualcuno che la ricattava con una immagine provocante". Rose ha anche condiviso un suo messaggio a Asia: "Eri mia amica, ti volevo bene. Hai passato molto e rischiato molto per stare con il movimento #MeToo. Tutti possono essere meglio, spero che lo sarai anche tu". 

Asia Argento, “la talpa" è Rain Dove. Rose McGowan: "Sii la persona che avresti voluto fosse Harvey Weinstein". Rain Dove ha confessato: “Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei”. Rose McGowan interviene in difesa della compagna e si rivolge all'ex amica, scrive il 28 agosto 2018 Stella Dibenedetto su "Il Sussidiario". Dopo che Rain Dove ha confermato di essere stata la "talpa" che ha diffuso i messaggi di Asia Argento, anche Rose McGowan ha deciso di intervenire sulla questione, rivolgendosi direttamente all'ex amica e paladina insieme a lei del movimento #MeToo: "Asia, eri mia amica, ti volevo bene. Hai fatto di tutto per difendere il movimento #MeToo. Ora hai l'opportunità per essere migliore di quello che è successo. Fai la cosa giusta, sii la persona che avresti voluto fosse Harvey Weinstein". Nel frattempo, continuano a rimbalzare le voci riguardanti il futuro dell'attrice X Factor 2018, dopo l'accusa di molestie sessuali nei confronti dell'attore Jimmy Bennett, all'epoca dei fatti minorenne. Dopo le varie dichiarazioni di siti e giornali italiani, al momento non confermate dalla produzione di Sky e FreMantle Media Italia, giungono nuove indiscrezioni da parte della rivista americana Variety. Secondo quanto riporta il tabloid, la Argento sarebbe stata definitivamente esclusa dal talent show che esordirà su Sky Uno il prossimo 6 settembre. Citando fonti non ben precisate, Varity segnala che la Argento sarà protagonista delle audizioni registrate nei mesi scorsi, ma sarà sostituita da una collega durante la fase dei live. [Agg. di Dorigo Annalisa]

IL SILENZIO SOCIAL. Continua a riempire le pagine dei giornali il nome di Asia Argento e quanto accaduto con Jimmy Bennett. L'attrice e figlia del maestro dell'horror Dario Argento ha deciso però di chiudersi in un silenzio sui social network dove di solito è molto attiva ma dove nell'ultimo periodo ha deciso di fermarsi. L'ultimo post su Instagram è datato 23 luglio, più di un mese fa. Considerando la cadenza quasi giornaliera su Instagram della nota attrice è un particolare alquanto significativo in un momento molto delicato per lei, nel quale alcune parole hanno messo in dubbio tutto il suo lavoro fatto per l'associazione #MeToo. Asia Argento però non è una donna che si sottrae alle polemiche e alle critiche, rispondendo sempre in prima persona e anche con una decisa personalità. Cosa farà stavolta? Di certo ci si aspetta da lei qualche gesto per chiudere una polemica che sta diventando anche un po' troppo ridondante. (agg. di Matteo Fantozzi)

RAIN DOVE HA CONFESSATO. Rain Dove ha confessato: “Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei”. Colei che – in questi casi – viene comunemente chiamata “la talpa” è una modella 28enne americana. Ma non è solo questo. Ed infatti si tratta anche della compagna di Rose McGowan, grande paladina del #MeToo e molto affezionata alla Argento. Dopo averne parlato con i follower su Twitter, pare che sia stata proprio lei a girare alla polizia gli SMS dove la figlia di Dario Argento, ammetteva di avere fatto del sesso con Jimmy Bennett. Questo scambio scottante di messaggi poi, è stato successivamente pubblicato sul sito di gossip Tmz. Per quale motivo avrebbe fatto una cosa simile? A quanto pare non riusciva più a reggere tutte le accuse nei confronti della compagna McGowan: “Non ne potevo più di vedere la mia compagna accusata di aver tradito la fiducia di Asia. Sono stata io”, ha affermato. Dopo le imputazioni del New York Times, proprio la Argento avrebbe scambiato dei messaggi con Rain Dove. “Ha iniziato lei la conversazione, chiedendo il mio aiuto e dichiarandosi innocente”, racconta su Twitter. “Io ho iniziato a chiederle tutte le prove che aveva a disposizione per difendersi”.

ASIA ARGENTO RISPONDE A RAIN DOVE: “SEI UN MOSTRO!”. Rain Dove successivamente afferma di aver capito che le prove non esistevano. Ed infatti durante lo scambio, proprio Asia ammette di aver fatto sesso con Jimmy Bennett: “Asia, per la legge della California, aveva commesso uno stupro. Aveva violato le leggi sulla pornografia minorile, ricevendo immagini di nudo da Bennett senza mai bloccarlo o denunciarlo. E continuava a dire che era il New York Times a mentire. È stato ripugnante vedere qualcuno che confessa molteplici crimini e poi negarli pubblicamente”. Rain è andata dalla polizia per consegnare lo scambio di messaggi, dichiarandosi pentita solo a livello umano: “Mi sento un po’ in colpa. Ma la giustizia vale di più. Se qualcuno mi confessa un reato, io informo gli investigatori. Non capisco perché sia così difficile da capire”. La modella però nega di averli girati a Tmz e per lei, sarebbe opera di qualche “amico avido”. Sullo scatto al letto con Jimmy invece, non ha dubbi: “è stato lo stesso Bennett a inviarla, per 28 mila dollari”. Dopo avere letto l’articolo, Asia ha scritto un nuovo sms a Rain: “Sei un mostro!”. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

LO SPINOSO CASO. Lo spinoso caso di Asia Argento potrebbe costare all'attrice e produttrice la faccia e anche il suo posto nella giuria di X Factor 2018. Al momento non ci sono notizie a riguardo e mentre gli inquirenti americani sembrano lontani da un'accusa formale all'attrice, il mondo dello showbiz continua a dividersi. Questa volta a difesa della Argento si è schierata Lysette Anthony che al Sudany Times si è detta quasi offesa per il trattamento riservato alla più grande accusatrice di Henry Weinstein e ad uno dei volti del movimento MeToo: "Sarò scorticata viva per aver parlato, ma non posso stare zitta mentre Asia Argento viene scaraventata sotto un autobus. È stata straordinariamente coraggiosa contro Weinstein e ora viene punita. Lei è stata denigrata e maltrattata". Non è l'unica attrice a pensare questo e proprio nei giorni scorsi l'amica Rose McGowan che ha scritto: "Ho il cuore spezzato". Non si capisce bene se questo sia un punto a favore della Argento o meno, ma sembra che la questione sia destinata a far discutere ancora nei prossimi giorni. (Hedda Hopper)

UN NUOVO SMS PER BENNETT? Il caso Asia Argento continua a far discutere. Dopo aver accusato di molestie il produttore cinematografico Harvey Weinstein, Asia Argento è diventa a sua volta una presunta carnefice. L’attore Jimmy Bennett ha accusato la Argento di molestie sessuali dopo aver avuto una frequentazione con lei. La pubblicazione di tutti i messaggi che l’attrice avrebbe inviato a Bennett all’epoca dei fatti ha suscitato clamore in tutto il mondo. Nei messaggi, Asia Argento si mostrerebbe particolarmente interessata al ragazzo al punto da volerlo come protagonista di tutti i suoi film. Nelle ultime ore, però, è spuntato un ulteriore messaggio che sta facendo molto discutere. La Argento, infatti, in uno dei tanti twett inviati al giovane attore, gli avrebbe confessato la cotta della figlia Anna Lou (nata dal suo rapporto con Morgan ndr) per lui. “Jimmy, Anna ha 11 anni ora e per un lungo periodo se le persone le chiedevano “di chi sei innamorata?” lei diceva Jimmy! Lei ha avuto per te una cotta da quando aveva 2 anni”, sarebbe il testo del nuovo messaggio incriminato come rivela Bitchyf (cliccate qui per vedere il messaggio).

LE ACCUSE DELL’EX FIDANZATA A JIMMY BENNETT. Asia Argento, dopo essere scesa in campo accusando Harvey Weinstein e aderendo al movimento #MeToo in difesa delle donne, starebbe rischiando tantissimo per le accuse di Jimmy Bennett che, a sua volta, sarebbe stato denunciato dall'ex fidanzata- Come riporta Fanpage.it, Rachel Fox avrebbe presentato una denuncia contro Jimmy Bennett alla Corte Suprema della California – Contea di Los Angeles sostenendo di essere terrorizzata dall'attore. Rachel Fox e Bennett hanno avuto una storia quando lei aveva 17 anni e lui 18. Rachel, a sua volta attrice, è diventata famosa interpretando il personaggio di Kayla in "Desperate Housewives". "Da quando avevo 15 anni Jimmy non ha mai smesso di provare a chiamarmi, messaggiarmi o restare in contatto con me, in qualsiasi modo. Mia madre aveva provato ad avvertirmi che potesse essere un violento. Ha avuto problemi con la droga e abbiamo rotto quando io avevo 17 anni e lui 18, ma lui non ha mai smesso di importunarmi attraverso telefonate o altre forme di contatto”, spiega la ragazza che poi definisce Bennett come “un bugiardo, un manipolatore e un ladro, ruba perché la sua famiglia è in pessime condizioni economiche, avendo attraversato di recente pignoramenti e bancarotte”. I due non stanno più insieme da tempo e l’ultima volta che si sarebbero visti, Bennett le avrebbe mentito e fatto del male: “mi ha mentito, dicendo che i suoi avevano abusato di lui, chiedendomi di stare con lui. Dopo mi ha colpito più volte, successivamente non ha mai smesso di chiamarmi, messaggiarmi e contattarmi”. 

"Asia mi inviò un suo video in topless": ora spunta anche un altro "molestato". Jeff Leach, comico inglese di 34 anni, ha raccontato l'episodio lo scorso giugno e il Daily Mail lo ha ripescato. Ma l'attrice non rischia di finire in tribunale: ecco perché. Dopo Jimmy Bennett, che accusa Asia Argento di "aggressione sessuale" quando aveva 17 anni, spunta un altro uomo che racconta di quando Asia gli inviò un suo video in topless mettendolo in imbarazzo. Si tratta del comico inglese Jeff Leach, scrive Cinzia Marongiu su Tiscali il 27 agosto 2018. Niente di nuovo sotto il sole. Ma anzi la conferma che quando cadi in disgrazia in tanti si affrettano a prendere le distanze, a setacciare il tuo passato e a scovare qualsiasi cosa possa essere utilizzata contro di te. Così ora contro Asia Argento viene opportunamente ripescata dal Daily Mail un’altra testimonianza di un molestato. Stavolta ad aver subìto l’intraprendenza e l’esuberanza dell’attrice e regista italiana sarebbe l’amico Jeff Leach, comico inglese di 34 anni. È lui ad aver raccontato che Asia gli inviò sul cellulare un suo video in topless. Il racconto risale allo scorso giugno durante una discussione sul podcast “Legion of Skanks”. Ora quelle dichiarazioni sono state ripubblicate e la storia, che risale ad alcuni anni fa, è finita sul sito del Daily Mail e da lì rimbalzata in ogni dove. Così, dopo le accuse del giovane attore americano Jimmy Bennett, un'altra testimonianza arriva a sporcare Asia in quanto icona del Metoo, il movimento di denuncia delle molestie alle donne da parte di uomini di potere, dopo la sua denuncia al produttore americano Harvey Winstein per averla stuprata vent'anni fa.

Il racconto dello scorso giugno. Leach aveva detto di essere rimasto un po' interdetto quando aveva ricevuto il video da Asia Argento, anche perché in quel momento era con la sua ragazza e perciò si era arrabbiato e aveva scritto all'attrice che non poteva mandargli filmati hot. Lei gli aveva risposto, arrabbiandosi a sua volta, e dicendo che le capitava di mandare foto e video di lei nuda ai suoi amici, senza malizia o interesse. Al Daily Mail l'attore ha aggiunto che la Argento sapeva che lui fosse fidanzato allora, e che lei si era da poco divorziata dal regista Michele Civetta (il divorzio è del 2013, ndr). "Ora non dico che non è vero che è stata violentata o molestata”, aveva commentato il comico inglese, riferendosi alla denuncia contro Weinstein, “ma forse, in questo modo, non è tra le migliori portavoce di quel movimento". All'epoca, ricorda ancora il quotidiano britannico, Leach stava cominciando un percorso per riprendersi da una dipendenza sessuale che aveva raccontato alla Bbc e che lo aveva portato ad andare a letto con più di 300 donne quando aveva 27 anni.

Ecco perché Asia non rischia il processo. Comunque per quanto lo sceriffo di Los Angeles abbia aperto un’inchiesta per i fatti che coinvolgono Jimmy Bennett, Asia non rischia di finire in tribunale per aver violato la legge della California che fissa in 18 anni l'età legale per il consenso in un rapporto sessuale. Jimmy aveva 17 anni compiuti da due mesi all'epoca in cui sarebbe successo il fatto, il 9 maggio 2003 in una camera del Ritz Carlton di Marina del Rey. Nessuna denuncia formale è stata sporta allora nei confronti di Asia, e secondo l'avvocato di Los Angeles Alaleh Kamran, non coinvolto nella vicenda, sarebbe troppo tardi per aprire un caso: "In California il sesso con un minore può essere processato come crimine oppure misfatto e i termini di legge vanno solitamente da uno a tre anni". Inoltre, secondo un altro avvocato, J. Tooson, il selfie che ritrarrebbe Asia e Jimmy assieme a letto "indurrebbe a pensare che non c'è stata forza o intimidazione" perché i due sono ritratti teneramente abbracciati e sorridono.

Vittorio Feltri il 26 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano" su Asia Argento: "Si è costruita la trappola da sola". Caro Cicchitto, hai molte ragioni. Però la legge, anche se sbagliata, occorre rispettarla. Non si può scopare con un (o una) minore. Chi lo fa va (magari ingiustamente) punito. E la signora Asia Argento, dato che si è fatta un diciassettenne, deve essere perseguita. Berlusconi per lo stesso reato è stato linciato in Italia da tutti i media, processato e perfino condannato. Non vedo per quale motivo l'attrice meriterebbe l'assoluzione. Aboliamo la norma che vieta l'amore con un fanciullo benché consenziente. Sono d' accordo. Ma se è in vigore serve osservarla. Nel caso di specie, trovo ridicolo che un giovanotto debba ricevere un risarcimento perché è stato a letto con una donna: solo un cretino si spaventa davanti alla passera. Anche io in età minorile (ai miei tempi si era maggiorenni a 21 anni) ebbi un rapporto con una signora di 29 anni. L' indomani, dato che mi ero trovato bene, non mi recai in questura per accusarla, bensì mi precipitai dal fiorista onde inviarle un mazzo di rose. La mia impressione è che l'amante precario di Asia abbia copiato il comportamento stravagante di Asia stessa, la quale a distanza di decenni denunciò per molestie il noto produttore cinematografico, imputandolo di leccata illecita, quando chiunque sa che per leccare è necessario il consenso della leccata, altrimenti non ce la si fa per difficoltà tecniche. In pratica il ragazzino ha imitato la Argento, l'ha sputtanata con le stesse argomentazioni sceme usate da lei per sputtanare il cineasta. Egli è ricorso alle sue medesime armi improprie, cosicché siamo di fronte a situazioni fotocopia. Ovvio che la figlia del regista noir abbia rimediato una figura di palta tale da suscitare scandalo o almeno risate. Rimane il fatto che lui è un fesso, prima si trastulla e poi dice che ciò lo ha traumatizzato. Nossignori, era stordito anche prima di fare l'amore, suppongo con sommo piacere altrimenti non lo avrebbe fatto.

La circostanza che poi Sky intenda licenziare madame per tale incidente induce a pensare che i dirigenti della emittente abbiano perso la trebisonda come talebani qualsiasi. Non credo che l'abilità professionale e la morale risiedano esclusivamente nelle mutande. E quanto succede in quelle di Asia non mi importa nulla, così come spero nessuno si occupi di quanto accade nelle mie. Che però sono pulite. Vittorio Feltri

Asia ha cambiato avvocato. Riecco Heller, specializzazione: salvare le star. A Mark Jay Heller il mastino da tribunale che salva le celebrità, Asia ha affidato il compito di cambiare la sua, di narrazione, scrive Giulia Merlo il 6 Settembre 2018 su "Il Dubbio". “Capovolgere la narrazione” significa prendere una storia che danneggia la propria immagine e attraverso i media modificarne la lettura in modo da tramutarla in qualche cosa di positivo, o quantomeno instillare il dubbio nell’opinione pubblica che le cose non siano andate come è stato raccontato. Parola d’ordine in politica, in America è sempre di più un’arma anche sul fronte giudiziario. Nel caso di Asia Argento la prima versione della storia, pubblicata dal New York Times e condita di dettagli dai tabloid, racconta di una paladina del movimento # me-Too che passa da vittima a carnefice: da ventunenne abusata dal produttore Harvey Weinstein ad abusatrice di un ragazzino di 17 anni. Un ragazzino di cui, poi, Asia compra il silenzio con la promessa di 350 mila dollari (le cui rate vengono pagate dal suo compagno, lo chef Antony Bourdain, morto suicida qualche mese fa). Risultato: la storia azzera la credibilità di Argento, la quale viene, nell’ordine, messa alla porta dal movimento # meToo, cacciata da X Factor con un comunicato stampa che parla di codici etici, data in pasto ai giornali di mezzo mondo come adescatrice di minorenni. All’inizio lei sceglie il silenzio stampa, poi dichiara di non aver avuto rapporti sessuali con Jimmy Bennet ma viene sbugiardata da una serie di sms resi pubblici da una modella (Rain Dove, la compagna di un’altra animatrice del movimento # meToo, Rose Mcgowan), poi ancora diventa il bersaglio preferito del bombardamento social. Fino a quando in scena non arriva Mark Jay Heller. Heller è un avvocato del foro di New York e il suo viso squadrato col naso prominente, ma soprattutto il suo ruggito ai microfoni sono notissimi al grande pubblico, che lo conosce come opinionista televisivo ma soprattutto al fianco dei casi disperati nel pantheon di stelle cadute di Hollywood. Sul suo sito personale scrive di avere «più citazioni sui media di qualsiasi altro avvocato d’America» e l’elenco dei suoi clienti si divide in due categorie: personaggi famosi e assassini. Sul fronte della cronaca nera, sul suo sito spiccano i nomi del serial killer David Berkowitz; Colin Ferugson “l’omicida della ferrovia di Long Island” e Noella Allick, alias “la tata mostrusa”. Su quello del gossip, sono elencati Jessica White, la supermodella di Sports Illustrated (arrestata per lesioni personali contro una donna); l’ex moglie di Rod Stewart, Rachel Hunter (il cui divorzio è stato tra i più pagati della storia recente), ma soprattutto la cattiva ragazza di Hollywood per antonomasia: Lindsay Lohan, finita sotto processo per abuso di alcool e in riabilitazione almeno un paio di volte. A lui, il mastino da tribunale che salva le celebrità, Asia ha affidato il compito di cambiare la sua, di narrazione. E Heller è già partito all’attacco, con un comunicato stampa rimbalzato su tutti i quotidiani il cui titolo è già uno slogan: «Asia Argento lancia la “fase due” del movimento # me-Too». Il primo passo per il cambio di narrazione: trasformare Asia da traditrice del movimento ad attivista della sua fase due. «Questa è la seconda fase del movimento # me-Too. Una vittima che ha alle spalle una storia negativa deve avere il coraggio di uscire allo scoperto e dire “anche io sono stata vittima di violenza sessuale” e qualsiasi evento del mio passato non nega la verità di ciò che mi è successo». In altre parole, nessuno si dimentichi che prima di tutto Asia è una vittima. Il secondo passo, invece, è quello di intervenire direttamente sulla storia raccontata dai media. Ed ecco la nuova narrazione – quella “accurata” ma che i media hanno mal raccontato – offerta dall’avvocato: Asia non ha mai iniziato un rapporto sessuale con Bennet, come ha detto lei stessa al Nyt dichiarando di non aver mai fatto sesso con lui; è stato Bennet ad assalirla, come spiega la stessa Asia nei messaggi trapelati sui tabloid in cui si legge che «il ragazzino arrapato mi è saltato addosso e io sono rimasta gelata»; Asia ha deciso di non denunciare Bennet per violenza sessuale. Insomma, Bennet e non Asia dovrebbe difendersi dalle accuse. Quanto al pagamento, il denaro è estorto da Bennet a Bourdain: «Bennet sapeva che Bourdain era ricco e con una reputazione da proteggere, quindi gli ha chiesto dei soldi per non mettere in imbarazzo Asia e quindi indirettamente lo stesso Bourdain. Bourdain ha deciso di proteggere la reputazione sua e di Asia pagando Bennet, ma Asia era contraria a questa decisione, perchè sapeva di non aver fatto nulla di male visto che l’incidente è stato iniziato e portato avanti da Bennet contro di lei e non il contrario». Il terzo passo punta a mettere in dubbio la credibilità dell’accusatore di Asia. Heller ha scavato nella storia di Jimmy Bennet e ha trovato ciò che cercava: «È ironico scoprire che Bennet è stato accusato nel 2014 dalla Polizia di Los Angeles di “sesso illegale con minore”, “stalking” e “pornografia minorile” e la vittima ha sostenuto che Bennet la aveva manipolata, facendosi inviare alcune foto di nudo». Il quarto passo è ricostruire l’immagine positiva dell’accusata, e Heller lo fa rimettendola in sella al movimento che l’ha lanciata e che l’ha anche sbrigativamente ripudiata: «Asia crede che nella fase due del movimento # meToo tutti dovrebbero potersi fare avanti e raccontare la loro storia a prescindere dal loro passato. Un passato che, nel caso di Asia, riguarda un’interazione mal compresa dai media tra lei e Bennet e che è stata iniziata da Bennet. La società deve capire che nessuno è perfetto, ma che tutti hanno il diritto di essere ascoltati e la giustizia deve prevalere, temperata da compassione, pietà, perdono e comprensione». Una volta cambiata la narrativa, poi si passa al contrattacco. Heller ha dichiarato che «Asia non permetterà che nessun’altra rata del pagamento di 380 mila dollari concordato sia pagata a Bennett che ha già ricevuto 250 mila dollari» ma non intende citare Bennet in giudizio, «perchè è a conoscenza del suo sfortunato passato, della sua carriera d’attore bloccata e della sua causa contro i genitori per ragioni di soldi». Lei, dal canto suo «tornerà alla sua carriera internazionale, fatta di premi vinti e di acclamate performance come attrice, musicista e regista», non solo «continuerà a lavorare per le vittime sotto silenzio e promuoverà sia la fase uno che la fase due del movimento # meToo». Agli appassionati della vicenda, la sentenza sull’efficacia del “cambio di narrazione”. A noi nativi nei paesi di civil law sfugge come un avvocato possa scegliere il tribunale dei media per ingaggiare una battaglia legale, ma il caso Argento è la perfetta dimostrazione di come si operi un diverso paradigma giuridico, fondato proprio sull’obiettivo di non andare in tribunale. L’obiettivo di Heller è quello di spaccare l’opinione pubblica e di consumare a colpi di comunicato stampa la vicenda giudiziaria, dimostrando come gli stessi fatti possano essere letti sotto un diverso punto di vista, che tramuta la carnefice in vittima. E lui, come certificano la lista dei suoi clienti e il suo “screen time” nelle tv americane, a fare questo è il migliore.

Stai con Asia o con Mammona? Io sto con Musil…Parlo di Weinstein e penso a Moosbrugger, l’eroe nero de “L’uomo senza qualità”, scrive Gilda Policastro l'1 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Quest’estate abbiamo scoperto che gli scrittori under 40 non hanno letto Musil, figurarsi se l’hanno letto i commentatori compulsivi, che, essendo sempre su Facebook, non leggono mai. Ecco, L’uomo senza qualità è un libro in cui, tra una trattazione storico- filosofica e l’altra, si racconta la vicenda di Moosbrugger, assassino seriale su cui il narratore e la giustizia del tempo non finiscono di arrovellarsi: è o meno capace d’intendere e di volere un uomo che quando vede le donne, certe donne, non riesce a trattenere l’impulso di ucciderle? Moosbrugger diventa così l’eroe nero di alcuni personaggi femminili del romanzo, come ad esempio Clarisse, che ne sogna la libertà e la redenzione se non altro per compiacere Ulrich, il protagonista così appassionato al caso. Ci ho pensato in questi giorni di feroci polemiche sui social in cui non mi sentivo di sostenere incondizionatamente ed empaticamente il ruolo, in quanto donna, di “vittima” e mi veniva piuttosto da pensare al (presunto) carnefice, che qui d’ora in avanti chiameremo W. E non per costruirgli una leggenda romantica attorno, tanto più che non è nemmeno lontanamente paragonabile all’assassino musiliano, non solo per l’entità del capo d’imputazione, ma anche perché non mi pare sia reo confesso né che la giustizia lo abbia già condannato. Lo chiameremo W. solo per restituirgli, con l’indeterminatezza del nome, anzi cognome, puntato, la dignità giuridica di persona meritevole del beneficio del dubbio, come tutti gli imputati (o accusati) a tutte le latitudini o quasi, fino a prova contraria. La mia posizione è scomoda tanto quanto quella di chi giudica Moosbrugger in Musil. Ci si trova di fronte un uomo, un uomo come tanti, con le sue deviazioni alternate a lucidità e comportamenti comuni: com’è possibile che sia stato crudele al punto da assassinare delle povere donne? Queste donne, si dice a un certo punto, lo irritavano. Giravano di notte, lo stuzzicavano. Lui non voleva saperne, e loro insistevano. A quel punto, lui uccideva. Questo a Musil serve a suggerire al lettore che l’irritazione provocatagli da quelle donne valesse come attenuante? Nessuno lo pensa, mentre legge il romanzo. La letteratura, si sa, è il campo in cui si osa, a partire dalle origini classiche. Nella tragedia greca si va a letto con le madri, si ammazzano i padri e i figli. E siamo tutti a commuoverci, in teatro, dopo duemila anni e passa, mentre si autodenunciano, gli eroi pentiti o disperati, Medea accecata dalla gelosia, Oreste che non trova pace per essersi macchiato, del sangue materno, queste mani, le mie. E non vale solo per la letteratura antica: pure quella moderna è piena di personaggi immorali. Peggio ancora quando arriva l’autofiction, per cui il protagonista si chiama con lo stesso nome scritto in copertina e non sappiamo più quanto l’autore ne stia prendendo le distanze (succede al Mozzi de Il male naturale come al Siti di Troppi paradisi o dell’ultimo romanzo). Anche Carrère, ne L’avversario, si è posto il problema: lo scrittore non giudica, come la massa che legge la cronaca nera e ne parla con un misto di raccapriccio e di sollievo. Il mostro è isolabile, riconoscibile, infine punito, in ogni caso lontano, diverso da noi, altro. Entriamo, sembra dire invece Carrère, nelle ragioni perfettamente umane di un’azione riprovevole come quella di uccidere figli e moglie. La vita vera non è letteratura, si obietterà, dunque non c’è confronto tra le pagine di un romanzo e quello che sta capitando oggi a W. Cosa gli sta capitando? In sintesi: una serie di attrici, vent’anni dopo i fatti, denuncia, anzi, no, racconta ai giornali di aver subito abusi da lui, nel frattempo passato, come dice una delle principali accusatrici, «da produttore numero 3 a numero 200 del mondo». Noi non eravamo in quelle stanze d’albergo, in quegli ascensori, a quei festival, non l’abbiamo visto in accappatoio, non siamo stati molestati o ricattati da lui (né da tutti gli uomini di cui tutte le donne, sui social, si confessano a posteriori assediate o infastidite). Quindi rimaniamo a quello che ne scrivono i giornali. Che, com’è noto, non testimoniano e basta, ma ricostruiscono, interpretano, così come la letteratura finge, immagina, estremizza, spostando di volta in volta il limite del possibile e potendo arrivare a difendere un assassino seriale. Non sono un giudice, non sono nemmeno Musil, ma scrivo romanzi. Uno dei miei romanzi s’intitola Sotto e parla dei rapporti di potere e delle dinamiche di relazione uomo- donna all’interno di un sistema gerarchico come l’università. La mia non era una denuncia di comportamenti precisi e non aveva personaggi à clef: non desta clamore la riflessione senza scandalo, senza nomi, senza facce. Gli uomini calati nei ruoli specifici condannano o, se del caso, riabilitano; gli scrittori hanno come specifico di calarsi nell’umano in tutti i suoi aspetti, anche i meno presentabili e difendibili. All’attenuarsi del clamore, dell’odor di scandalo, del “dagli all’untore”, qualcuno, forse, darà voce a W., che da un giorno all’altro viene additato come “mostro”: d’improvviso tutto cambia, per lui, i ringraziamenti di rito per gli Oscar diventano accuse di molestie o peggio (perché nella confusione livellante dei media il capo d’imputazione si confonde con la violenza sessuale, lo stupro). Dopo decenni di vita fortunata e successo planetario, il suo volto e il suo nome si fanno sinonimi di oltraggio alle donne, contro di lui si combatte una battaglia antica e velleitaria: il sogno di trasformare tutti gli esseri umani in persone perbene, che non danno mai noia ai propri simili e vivono nell’armonia universale, senza accappatoi sbottonati e sguardi predatori. E siccome il W. letterario sarà idealista ( o moralista a sua volta) si chiederà, a un certo momento della storia: perché non è un magistrato a giudicarmi, ma la pubblica opinione, fatta di persone che nelle loro vite sono violente, sgarbate, evadono le tasse, si approfittano dei sottoposti, li fanno lavorare senza paga. Il mondo è pieno di aberrazioni e di soprusi ma a loro interesso io, i miei comportamenti deviati, la mia sessualità compulsiva. Chi mi condanna è più ossessionato di me, a partire da quelle donne, entrate sulle loro gambe nelle mie camere d’albergo, con lo sporco segreto custodito per anni. Intanto, mentre W. conciona e qualcuno, forse, si prepara a scriverne la storia, chi nei social non difende e non giudica ma semplicemente dubita, fino a prova contraria, si taccia di misoginia, fallocentrismo, istigazione al femminicidio. Perché il processo in rete prevede solo aut aut: con Asia o con Mammona. Ma ci sarebbe anche Musil, ad averlo letto.

Asia Argento ha fatto causa a Rose McGowan. Una volta scaduto l'ultimatum di 24 ore le minacce sono diventate realtà. Anche Rain Dove è coinvolta, scrive il 18.09.2018 tio.ch. Asia Argento ha fatto causa a Rose McGowan. Lo ha annunciato pubblicamente l'attrice e regista italiana con un messaggio su Twitter. «Il termine di 24 ore per ritirare le tue recenti false affermazioni su di me è scaduto. Devo informare te e Rain Dove (la compagna di McGowan, ndr) che ho dato istruzioni a Mishcon de Reya di farvi causa per inganno, frode, coercizione e diffamazione». «Si metteranno in contatto con voi a breve» conclude Argento. Mishcon de Reya è un noto studio legale con sedi a Londra e New York.

C'eravamo tanto amate. Asia e Rose dal MeToo agli avvocati. Argento sceglie le vie legali contro McGowan l'amica con la quale, fino a pochi mesi fa, condivideva la “battaglia anti-porco”, scrive Simonetta Sciandivasci il 19 Settembre 2018 su Il Foglio. Signori, a voler sceneggiare le ultime da Asia Argento e Rose McGowan, le due amiche geniali del #MeToo, verrebbe fuori uno strepitoso Carnage, ambientato non in un salotto altoborghese ma nella stanza del preside di un liceo (classico, naturalmente, chè mica teneva ragione Michele Serra). Ma accontentiamoci della realtà. Lunedì scorso, Argento ha ripreso Twitter (nelle ultime settimane aveva dato un taglio, a parte qualche retweet di X Factor) e ha inviato un primo ammonimento a Rose McGowan: “Cara Rose, è con sincero rammarico che ti concedo 24 ore per ritrattare e scusarti per le orrende bugie che hai scritto su di me il 27 agosto”. Altrimenti mi arrabbio? No, signori. Altrimenti “prenderò provvedimenti legali”. Un mondo di adolescenti over quaranta e giudici di pace, un pianeta Italia. McGowan se n'è rimasta zitta, così trascorse le 24 ore, Argento ha annunciato di aver affidato la faccenda a un avvocato, già a caccia di estremi per portare lei e la sua fidanzata in tribunale con l'accusa di frode, coercizione, inganno e diffamazione. Nessuna replica, almeno per ora. Ricorderete che, a fine agosto, è venuto fuori che, nel 2013, Asia Argento, allora trentasettenne, era finita a letto con uno stronzetto allora diciassettenne, tale Jimmy Bennett, uno di quelli a cui negli anni Novanta non avremmo dato una chance neppure a Meteore, al fianco del quale aveva recitato in Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa (2004). Essendo la liaison pornographique avvenuta in California, dove il sesso tra maggiorenni e minorenni è reato, lo stronzetto aveva di recente preso a ricattarla, annusando l'affare, e Argento aveva finito con il corrispondergli 380 mila dollari pur di farlo tacere. Argento ha negato tutto, poi ha negato solo che ci sia stato del sesso, ma poi ha ammesso i pagamenti (su consiglio del fidanzato Bourdain, che la esortava a liberarsi di quel ricattatore per ritrovare un po' di serenità). Effetti: molto sostegno dai giornali italiani (vede, Asia, a cosa porta la giustizia dei cancelletti?); quasi nessuno da quelli statunitensi (Argento non è il #MeToo! Si vada avanti senza di lei); X Factor la elimina dal programma; McGowan si dice, su Twitter, assai dispiaciuta e quella che, fino a poco prima, aveva chiamato sorella, diventa un elefante in salotto di cui liberarsi il prima possibile, una con cui “ho solo condiviso il dolore per aver subito molestie da Weinstein”. Secondo tempo. Diventano pubblici dei messaggi che Argento scrive a Rain Dove, fidanzata di Rose McGowan: è la stessa Asia, in quelle conversazioni, a dire di aver fatto sesso con Bennett. Poco dopo, si scopre che quei messaggi sono arrivati alla polizia grazie a Rain Dove. Il 27 agosto, McGowan usa Twitter per dire al mondo che Asia Argento è una minaccia per il movimento #MeToo e le consiglia di diventare migliore, di essere la persona che lei avrebbe voluto fosse Weinstein. Asia Argento si rivolge allo studio legale londinese che difese Lady Diana nel divorzio dal principe Carlo. Il 4 settembre, uno dei suoi nuovi avvocati fa sapere che presto verrà dimostrato che fu Bennet a violentare Asia. Vi siete persi? E cosa l'avete guardato a fare Beautiful se siete così poco allenati ai corsi e ricorsi della vendetta personale? Asia Argento ha scoperto troppo tardi e a sue spese che la giustizia si fa in tribunale. E qualsiasi sentenza in suo favore non le darà vittoria, né pace: non solo perché contro di lei ci sono due abili fabbricatrici di mostri più un movimento che chiama contraddizioni e/o reati le complicazioni della realtà, ma pure perché non c'è modo, ormai, di opporsi alla giustizia privata degli hashtag pubblici con quella civile. Senza rendersene conto, Asia Argento sta tentando di portare a processo, anche se ancora con i toni del Far West (ti concedo 24 minuti per rimediare) e della querelle televisiva (sennò ti querelo!), tutto quello che ha contribuito a creare. Il suo più grande mostro. E perderà, anche e soprattutto se dovesse vincerlo, quel processo (ammesso che riesca a farne istruire uno).  Bennett, il ragazzetto dello scandalo, sarà ospite di Massimo Giletti, il prossimo 23 settembre, all'Arena. La rivincita di quelli che neanche a Meteore: ma questo è un altro capitolo, lo scriveremo domani. 

Asia Argento, Rose McGowan si scusa: "Ho frainteso i suoi messaggi con Bennett". Lʼattrice e regista replica però su Twitter: "Adesso però smetti di ferire altre persone Rose...", scrive il 28 settembre 2018 Tgcom 24. "Ho frainteso i messaggi scambiati da Asia con la mia compagna Rain Dove che riguardavano le immagini spedite da Jimmy...". Con un twitter Rose McGowan, paladina del movimento #MeToo, fa dietrofront e chiede pubblicamente scusa all'ex amica Asia Argento: "Pensavo che Bennett avesse 12 anni all'epoca e non 17...". Asia accetta le scuse ma risponde secca: ""Adesso vai avanti, vivi la tua vita e smetti di ferire altre persone, vuoi Rose? Auguri". Dopo la minaccia di un'azione legale, che Asia Argento ha rivolto, pochi giorni fa, alla McGowan, nel caso lei non ritirasse le sue accuse a proposito della presunta relazione sessuale con Jimmy Bennett, ecco che, prontamente sono arrivate le scuse: "Cara Rose, è con sincero rammarico che ti do 24 ore per ritrattare e scusarti delle orrende bugie che hai detto il 27 agosto nei miei confronti", ha scritto la Argento. E, sebbene non proprio in 24 ore, ma il dietrofront da parte di Rose McGowan c'è stato. Un lungo post che formalizza le scuse ed è un ammissione di errore, in cui la donna spiega: "Il 27 agosto ho rilasciato una dichiarazione su Asia Argento, che ora realizzo conteneva una serie di fatti non corretti. Il più importante è aver detto che le immagini di nudi che Asia ha ricevuto da Jimmy Bennett, risalivano a quando Jimmy aveva 12 anni. Avevo frainteso gli sms scambiati con la mia compagna Rain Dove, che invece dicevano che Jimmy li aveva inviati solo dopo che si erano rincontrati, e cioè a 17 anni (ancora legalmente minorenne in California, ma cosa notevolmente diversa da un bambino di 12 anni...". La McGowan si dice quindi "profondamente pentita di non aver corretto l'errore a suo tempo" e chieda scusa a Asia. Azione legale scampata? Forse sì, ma, sempre su Twitter, Asia non scende a compromessi, accetta le scuse, ringrazia ma replica duramente: "Poteva pensarci prima che io perdessi il mio posto di lavoro a "X Factor" e venissi additata come pedofila". E poi aggiunge: "Adesso vai avanti, vivi la tua vita e smetti di ferire altre persone, vuoi Rose? Auguri". I confini tra vero e falso, finzione e realtà si fanno sempre più sottili, e tra accuse e dietrofront non si capisce più davvero dove si nasconda la verità.

Asia Argento, Jimmy Bennett in tv: “Mi ha violentato. Ha usato lo schema Weinstein. Sul set la chiamavo mamma”. L’attore e cantante rock californiano ha risposto così a Massimo Giletti che gli ha chiesto quale fosse il suo rapporto con l'attrice e regista, nell’intervista in onda in prima serata su La7, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 24 settembre 2018. “Asia? La chiamavo mamma”. L’attore e cantante rock californiano Jimmy Bennett ha risposto così a Massimo Giletti che gli ha chiesto quale fosse il suo rapporto con Asia Argento, nell’intervista a Non è L’arena su La7. Il ragazzo ha raccontato di essere stato molestato dall’attrice e regista che però nega tutto. “Mi ha violentato – ha aggiunto – Ha applicato con me lo schema Weinstein. Anche Asia ha abusato del proprio potere. Mi ha incontrato in un hotel, il Ritz Carlton di Marina Bay, California: io avevo 17 anni e non mi sarei mai aspettato una cosa del genere”. Bennett ha anche detto di essere stato “minacciato da Asia un paio di giorni fa”, ma di avere la necessità di “fare chiarezza” sull’intera vicenda. “Ero con un accompagnatore che è salito fino alla stanza dell’albergo – ha proseguito Bennett, ripercorrendo quel giorno – Asia era entusiasta e mi guardava dritta negli occhi, poi ha dato uno sguardo al mio accompagnatore e gli ha chiesto: “Ma tu chi sei?”. Lo ha fatto sempre sentire un intruso durante l’incontro e quindi il mio accompagnatore ci ha lasciato soli. Tutto poi accade molto rapidamente. Asia mi ha offerto dello champagne e ha iniziato a fumare una sigaretta mentre mi raccontava del film che intendeva girare con me”. Poi le avances si sono fatte più dirette, secondo il racconto del giovane attore. “Mi ha preso il viso e mi ha guardato e mi ha detto: ‘Mi sei mancato tantissimo’ e ha iniziato a baciarmi – ha raccontato, scendendo nei particolari – La mia interpretazione era che mi stesse mostrando il suo affetto. Il bacio si è prolungato e ho avuto l’impressione che non fosse un bacio amichevole ma che stesse cercando di esplorare la situazione. Dopo Asia ha appoggiato le mani sul mio corpo in modalità diverse e poi mi ha spinto sul letto e mi ha slacciato la cintura e i pantaloni”. E a quel punto Asia Argento avrebbe abusato di lui. I due, come raccontato in precedenza, si erano conosciuti anni prima e il loro rapporto era simile a quello di una madre e di un figlio: “Sul set di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (film del 2004 diretto da Asia Argento, ndr) – racconta tra l’altro l’attore e musicista californiano – Asia era come una seconda mamma, questo è il sentimento che ci ha legato dal primo giorno. Il nostro rapporto è sempre stato molto ravvicinato. Il legame tra me e lei era speciale. Asia era molto concentrata sul film e voleva incarnare il rapporto madre e figlio in modo che fosse più realistico possibile, ma sembrava andasse oltre l’aspetto professionale”. “Dopo il film del 2004 – spiega ancora Bennett – il nostro rapporto è continuato via sms, via mail, ma non l’ho più vista. Non c’è mai stato un altro incontro faccia a faccia per dieci anni. L’ho tenuta aggiornata sulla mia attività e lei si sentiva anche con mia mamma”. Successivamente “è stata Asia, nel 2013, a propormi l’incontro via Twitter e poi con mail private abbiamo stabilito di incontrarci. Non ero sorpreso, sapevo che prima o poi ci saremmo incontrati ed ero contento di vederla. Mi parlava di un film italiano al quale lei volesse che partecipassi. Ricordo però che mi sentivo un po’ strano. Asia continuava a inviarmi delle foto e dei bigliettini che scriveva nella sua stanza di hotel. Per me c’è sempre stata una barriera culturale, non sapevo se il suo atteggiamento fosse una maniera di mostrare affetto e quindi non sapevo cosa aspettarmi. Per me – dice ancora Bennett – era come incontrare una amica”. L’attrice e regista, che ha accusato di stupro il produttore Harvey Weinstein, ha più volte dichiarato di non aver avuto mai una relazione sessuale con il giovane. Dopo le accuse alla Argento – diventata anche protagonista del movimento mondiale #MeToo, anche Bennet è stato a sua volta travolto da uno scandalo: in un report lo si accusa di uso di sostanze stupefacenti e anche di molestie. 

Jimmy Bennett si sente ridicolo dopo la sua denuncia per molestie nei confronti di Asia Argento. "Scusa, ma non sembri sconvolto o traumatizzato in questa immagine", dice il presentatore che ha fatto la prima intervista con l'attore da quando la sua accusa è stata resa pubblica, scrive il 25 settembre 2018 "El Pais". Jimmy Bennett sembra pronto a raccontare i dettagli del suo stupro, ma questo non significa che tutti sono disposti a credergli. Nella sua prima intervista dopo la sua denuncia contro l'attrice Asia Argento è diventato pubblico nel mese di agosto, il 22 - anno - old ha riferito alcuni dettagli che erano nascoste in passato e ha fatto sì che tutta questa situazione è stata molto difficile per lui. "E 'il difficile per me a parlare di questo in davanti a sconosciuti e persone che non conosco, ma voglio darmi il beneficio del dubbio e dire la verità, " ha detto Domenica nel programma della televisione italiana non e l'Arena. In un'intervista di quasi un'ora, l'ex attore ha affermato che Argento lo ha incitato a consumare bevande alcoliche e sessualmente aggredito in una stanza d'albergo nel 2013, quando aveva 17 anni. L'attrice, che è un esplicito sostenitore del movimento #MeToo e una delle prime donne ad accusare lo stupro di Harvey Weinstein, ha negato tutte le accuse contro di lei. Arrivò persino a dire che fu Bennett a saltarle addosso e che era "congelata".  Bennett aveva interpretato il figlio di Argento in un film del 2004 quando aveva 7 anni e disse che i due avevano avuto solo contatti sporadici fino a quel momento. Il giovane dice che è andato al Ritz-Carlton Hotel (California) quel giorno perché l'attrice italiana gli ha raccontato di un film che voleva fare con lui. "Mi sono fidato enormemente in Asia", ha detto l'attore ventiduenne, ma "ha abusato del suo potere". Secondo la testimonianza di Bennett, non appena ha visto l'attrice, gli ha dato dello champagne e ha iniziato a baciarlo. "Per prima cosa ho pensato che fosse qualcosa di amichevole, una dimostrazione del suo affetto, ma poi i suoi baci si sono allungati e ho capito che stava cercando qualcos'altro", ha spiegato il cantante rock. "Più tardi è stato quando mi ha spinto verso il letto, mi ha slacciato la cintura e mi ha tolto i pantaloni", ha assicurato. Quando è stato chiesto il motivo del suo silenzio dopo la presunta aggressione, Bennett ha detto che ha attraversato un periodo di grande confusione e temevo che nessuno avrebbe creduto sua versione dei fatti. Paradossalmente, è stato il movimento #MeToo a darle il coraggio di denunciarla. Ma l'ospite del programma, il giornalista Massimo Giletti, era scettico nei confronti della dichiarazione del giovane. "È difficile credere che una donna possa stuprare un uomo, un atto sessuale che è completato non può essere uno stupro", ha detto l'autista. Giletti arrivò addirittura a dire che era difficile credere che un "bambino sano di 17 anni" non avrebbe acconsentito all'incontro. L'età del consenso in Italia è di 14 anni e 18 in California. Nonostante l'ovvio disagio dell'ospite, l'ospite ha mostrato all'attore la fotografia in cui è visto accanto a Argento in un letto, presumibilmente dopo l'atto sessuale. "Mi ha chiesto di fare una foto", ha sottolineato. "Sì, era sul mio telefono, sì, è stato dopo aver fatto sesso."  "Mi dispiace, ma non sembri turbato, non sembri essere traumatizzato in questa immagine", replicò l'ospite. "Qui non sembri qualcuno che ha paura", ha esclamato l'autista, e subito dopo il pubblico è scoppiato in un applauso. Bennett fu chiaramente influenzato dal trattamento durante l'intervista e disse che era il motivo per cui non aveva parlato fino ad ora. "Avevo paura di stare di fronte ad un pubblico ed essere accusato di mentire sulla violenza che ho vissuto", ha detto il giovane. "Dopo questo [intervista], mi rendo conto che aveva ragione", ha condannato. Da parte sua, il suo avvocato Gordon Sattro, che è rimasto al suo fianco per tutto il programma, ha messo in dubbio se l'accordo fosse stato diverso nel caso in cui il suo cliente fosse una donna. "Come puoi interpretare ciò che stava accadendo nella tua mente o cosa provava il tuo cuore, solo per il tuo genere?", Disse l'avvocato. Secondo la versione dell'attrice, 42 anni, Bennett l'ha contattata alcuni mesi fa per chiedere un risarcimento economico in cambio del suo silenzio, qualcosa a cui lei ha acconsentito. Insieme al suo socio, Anthony Bourdain, hanno raggiunto un accordo per pagare al giovane oltre 310.000 euro per non continuare con la sua denuncia, ma secondo Argento, non l'avrebbero fatto come un segno di colpevolezza, ma per "aiutare" Bennett economicamente. 

"Jimmy Bennett pagato da Weinstein". E in un tweet Asia sembra annunciare il ritorno da giudice a «X Factor», scrive Jacopo Granzotto, Martedì 25/09/2018, su "Il Giornale". Sarà stato il look o lo sguardo poco convinto. Sarà stato lo scetticismo del conduttore. Sta di fatto che l'intervista da Massimo Giletti non sembra aver giocato a favore del 22enne Jimmi Bennet. La conferma in tv della sua versione, lo stupro all'età di 17 anni, sta scatenando un generale dibattito. Che vede Asia recuperare punti sul presunto molestatore. Sui social le reazioni sotto l'hashtag #jimmybennett sono per lo più a sostegno di Asia. L'ex musicista viene accusato di essere un «losco figuro» venuto in Italia ospite a La7 per cercare di recuperare qualche euro dopo il mancato accordo con Anthony Bourdain, il compagno della Argento morto suicida a giugno. Che è poi quello che pensano i genitori di Asia, i quali non vogliono neanche sentir parlare di stupro. La mamma Daria Nicolodi, che prima dell'intervista a Giletti aveva sempre evitato di commentare la questione, annota amareggiata su Twitter: «Quanti soldi ha beccato l'americano? A questo punto spero che lo stato italiano trattenga almeno un quarto del compenso di questo signorino e lo devolva ai bambini in carcere». Il padre Dario Argento, intervenuto su Radio1 a Un giorno da Pecora, vede un complotto. «Weinstein - sostiene il regista - ha pagato profumatamente Bennett per raccontare quella storia in modo da vendicarsi del polverone del movimento #MeToo, che ha visto mia figlia Asia in prima linea proprio contro Weinstein e, in generale, i molestatori nel mondo dello spettacolo». Non ha visto l'intervista a Non è l'Arena: «L'ho fatto per scelta - confessa Argento -. Ma me l'hanno raccontata gli amici. E ci sono una marea di menzogne, di volgarità, di sciocchezze. Per prima cosa non ho mai saputo di una ragazza che abbia violentato un ragazzo, è una cosa che non sta in piedi, c'è anche questo da dire». Dopo qualche ora, però, ritratta: «Non lo penso realmente, non ho alcuna informazione in merito al fatto che Weinstein abbia realmente pagato Bennett - fa dietrofront -. Non avevo alcuna intenzione di lanciare accuse contro di lui, ho risposto con leggerezza». Intanto cresce la petizione su Change.org per chiedere a Sky di reintegrare Asia Argento come giudice di X-Factor. La trasmissione sta andando in onda con le puntate registrate quest'estate prima dell'esplosione del caso. Sky e Freemantle preferiscono temporeggiare per annunciare il nome del nuovo giudice, dato in arrivo già la settimana scorsa. Ma a ridare speranza ai fan di Asia è un tweet misterioso della Argento. In risposta a un utente che dice di aver sognato la dark Asia ancora dietro il bancone, risponde: «Che strano, ho fatto anche io lo stesso sogno. I sogni son desideri». Sul fronte dei media britannici invece le critiche vanno alla trasmissione di Giletti: sia il Daily Mail che il Daily Beast titolano sul fatto che un impresentabile Bennett sia stato «ridicolizzato» per aver detto di essere stato violentato da Asia Argento.

Dario Argento: “Weinstein ha pagato Bennett, è vendetta contro Asia”. Poi ritratta. Lei parla a DailyMailTV: «Dopo il suicidio di Bourdain un vuoto incolmabile», scrive il 24/09/2018 "La Stampa". «Io non ho mai saputo di una ragazza che abbia violentato un ragazzo. Penso che Weinstein si sta vendicando e quindi scatena tutte le sue possibilità che aveva questa notizia di questo ragazzo e, pagandolo, l’ha lanciato contro Asia». Dario Argento parla a Un giorno da pecora su Rai Radio1 dell’intervista a Jimmy Bennett, l’attore che ha accusato sua figlia di averlo molestato quando era minorenne, da Giletti. «Non l’ho vista per scelta - aggiunge - ma ne ho letto sui giornali e me l’hanno raccontata gli amici e penso che ci sia una marea di menzogne e anche di volgarità, di sciocchezze». Alla domanda se, a suo avviso, Weinstein avesse ha pagato Bennett per raccontare quella storia la risposta di Dario Argento è perentoria: «Sì». Dopo le dichiarazion il regista di Suspiria e Profondo Rosso ritratta con una dichiarazione all’ANSA: «Sono state frasi rese al telefono in diretta nel corso della trasmissione umoristica. Rispondendo a una domanda, è stata la prima cosa che mi è venuta in mente», dice, rinunciando a parlare di una «vendetta» dell’ex boss di Miramax contro la figlia Asia. Intanto oggi DailyMailTV ha diffuso la prima parte dell’intervista ad Asia che ha rotto il silenzio sul suicidio del compagno Anthony Bourdain. Parlando della morte del super-chef e conduttore del programma della Cnn «Parts Unknown», ha detto che la scomparsa dell’uomo con cui ha diviso gli ultimi due anni di vita le ha lasciato dentro «un vuoto che nulla può riuscire a colmare». Asia Argento ha 43 anni, Bourdain ne aveva 62 al momento del suicidio lo scorso giugno in un hotel francese. L’attrice ha detto che la sua prima reazione alla morte del compagno è stata di «rabbia». Ora invece «la rabbia mi tiene viva perché altrimenti questa disperazione non ha fine», ha aggiunto. La Argento ha spiegato che la rabbia nasceva dal fatto che Anthony, togliendosi la vita, «aveva abbandonato me, i miei bambini». È la prima volta che Asia rivela quanto lo chef fosse stato vicino ai ragazzi. Bourdain per Asia aveva lasciato la figlia Ariane, 13 anni, avuta con la seconda moglie Ottavia Busia. «Così ero arrabbiata, si, perché ha abbandonato me, i miei figli, ma adesso questa rabbia è stata sostituita dalla perdita, da questo vuoto incolmabile», ha detto l’attrice. L’intervista è la prima di Asia non solo dopo la morte di Bourdain, ma anche dopo le accuse che l’ex attore bambino Jimmy Bennett le ha rivolto di aver fatto sesso con lui quando era minorenne. Le accuse hanno messo in crisi il peso della Argento nel movimento #MeToo di cui lei era stata leader dopo essere uscita allo scoperto accusando l’ex boss di Miramax Harvey Weinstein di stupro. DailyMailTv ha annunciato che l’attrice affronterà il caso Bennett e la sua relazione con l’altra testimonial del #MeToo, Rose McGowan, nella seconda parte dell’intervista in onda domani.

Asia Argento in tv: "La morte di Bourdain mi ha lasciato un vuoto incolmabile". L'attrice si confessa a Daily Mail tv e per la prima volta parla del suicidio del compagno. Nella parte che sarà trasmessa martedì si aprirà il capitolo sulle presunte molestie, scrive Silvia Fumarola il 24 settembre 2018 su "La Repubblica". Asia Argento ha rotto il silenzio sul suicidio del suo compagno, lo chef Anthony Bourdain, che si è tolto la vita a giugno in Francia. In un'intervista con DailyMailTV di cui è stata diffusa la prima parte - la seconda si vedrà martedì 25 settembre - Argento spiega che la morte del partner le ha lasciato "un vuoto che non può essere riempito da niente". Bourdain ha condotto una delle trasmissioni di viaggi e cucina più seguite, Parts Unknown, a cui aveva partecipato anche l'attrice: Cnn ha cancellato dagli archivi le puntate in cui appariva. Argento e Bourdain sono stati insieme per due anni, e Asia confessa: "La prima reazione alla notizia che si era tolto la vita, è stata rabbia. Ora la rabbia mi ha tenuto viva perché la disperazione non ha fine". Rivela di essersi sentita piena di rabbia per il senso di abbandono, perché Bourdain "aveva abbandonato me e i miei bambini". Per la prima volta l'attrice, madre di due figli, racconta quanto Bourdain fosse vicino ai suoi ragazzi (un maschio e una femmina). Bourdain ha una figlia di tredici anni Ariane, avuta dalla seconda moglie Ottavia Busia. Da mesi Asia Argento, paladina del #Metoo, è sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo dopo la denuncia di avere subito violenza da Harvey Weinstein. Poi il colpo di scena: il giovane attore Jimmy Bennett l'ha a sua volta denunciata di violenza sessuale, episodio che risalirebbe a cinque anni fa quando lui era minorenne. Domenica sera Bennett è stato ospite a Non è l'Arena su La7 dove è stato ridicolizzato per le sue accuse all'attrice, secondo i media stranieri. All'epoca dei fatti l'attrice aveva 37 anni, lui 17. Martedì sempre su Daily Mail Tv, Asia Argento darà la sua versione dei fatti. Intanto La7, che l'ha invitata, aspetta di sapere se vorrà essere ospite a Non è l'Arena. La parola fine deve ancora essere scritta.

Asia Argento parla per la prima volta di Anthony Bourdain: "Mi ha anche ingannato". L'attrice sostiene che molte persone l'hanno accusata di aver causato il suicidio dello chef americano a causa delle sue infedeltà, scrive il 25 settembre 2018 El Pais. L'attrice Asia Argento attraversa un complicato momento personale. È diventato uno dei leader del movimento METOO e dopo svelare se stessa come una vittima di Harvey Weinstein, ora la cifra è sul precipizio essendo stato accusato di abusi sessuali da Jimmy Bennett, un ex co-star in questi giorni ha fatto sì in un'intervista che "fidati completamente dell'Asia" in un caso che l'attrice cerca di confutare senza molto successo. A questo si unisce la morte dello scorso giugno dello chef Anthony Bourdain, che era stato suo partner negli ultimi due anni. Finora, Argento aveva appena parlato del suo rapporto con il cuoco; Aveva mandato solo una lettera da Rose McGowan, il suo (fino a quando ha saltato il caso di Jimmy Bennett ) caro amico, parlando delle devastazioni della depressione, la malattia che ha ucciso Bourdain. Ma ora Argento ha rilasciato un'intervista al quotidiano britannico The Daily Mail in cui si parla di suicidio cuoco, sull'abbandono si sentiva dopo il suo suicidio e infedeltà reciproci di entrambe. "La gente dice che ho ucciso Bourdain. Questo l'ho ucciso," dice con le lacrime agli occhi. "Capisco che il mondo ha bisogno di trovare una ragione. Anch'io vorrei trovare una ragione. Non. Si possono trovare un po 'di sollievo pensando che qualcosa è accaduto." Quelle parole vengono dopo le accuse che Argento ingannato il cuoco; pochi giorni prima della sua morte poteva vedere la mano attrice camminare di un amico. Tuttavia, lei dice che continuava a "una relazione adulta", e che sì, lei lo tradiva, ma era una cosa reciproca e intrinseca del loro rapporto: "Mi ha anche ingannato per noi non era un problema". Così, l'interprete afferma di capire che la gente la accusa di causare dolore a Bourdain: "Venne nel cuore di molte persone, venne nella loro vita, quindi capisco che vogliono vedermi come una persona negativa, come quella che li ha distrutti. ". Tuttavia, per lei queste accuse non sono altro che una confusione, un modo sbagliato di comprendere la loro relazione: "Anthony era un uomo molto intelligente, una delle persone più intelligenti che abbia mai incontrato." Saggia, profonda, ucciso da qualcosa del genere? Mi ha anche imbrogliato, non è stato un problema ", dice Argento. "Era un uomo che viaggiava 265 giorni all'anno, e quando ci vedevamo eravamo enormemente felici in compagnia l'uno dell'altro, ma non eravamo bambini, eravamo adulti, Anthony aveva 62 anni [sarebbe stato un paio di settimane dopo la sua morte] e I 42 Abbiamo avuto vite, eravamo sposati, avevamo figli. Non immagino Anthony come qualcuno che farebbe un gesto di tale portata per una cosa del genere." Asia Argento racconta anche nell'intervista sul suo partner che il giorno dopo la morte di Bourdain ha preso una decisione: "O vai al lavoro o non rialzarti mai più". Così, ha ripreso i suoi doveri di giuria dell'edizione italiana del telefilm Factor X."Durante le ore in cui ero sul palco ho ascoltato solo musica, per quegli artisti che stavano mettendo i loro sogni sulla scena, e io ero concentrato su quello, non nel mio cuore spezzato, ha funzionato, mi ha letteralmente salvato la vita e sarò sempre grato ". L'attrice, che nell'intervista è dispiaciuta e si rompe per piangere, dice che l'unica cosa che soffre per non aver visto "tutto il dolore" che Bourdain ha portato, e perché non l'ha condiviso. "Non l'ho visto, e mi sentirò in colpa per tutto il resto della mia vita."

Querelle Bennett- Argento e il furto del #MeToo. Molestie. Le polemiche dopo la partecipazione dell'attore allo show di Giletti. Il paragone della presunta violenza con Weinstein è un'operazione iperstrabica, scrive Mariangela Mianiti il 25.09.2018 su "Il Manifesto. Il punto non è se sia stata lei a slacciargli i pantaloni o lui a cominciare, il punto non è nemmeno se il rapporto ci sia stato. Il nocciolo dell’affaire Jimmy Bennett/Asia Argento che salta agli occhi dall’intervista che lui, affiancato dal suo avvocato Gordon Stratto, ha rilasciato domenica scorsa a Non è L’Arena, su La7, è il furto delle motivazioni che stanno alla base del movimento #MeToo. Bennet ha paragonato la Argento a Weinstein perché come lui avrebbe abusato di una posizione di potere. Anche se con quegli occhioni sgranati e l’aria sperduta sembra un pulcino bagnato, è difficile non pensare che dietro le sue accuse non ci sia un retroscena interessato. Le molestie e le violenze sessuali come ricatto sul lavoro sono state alla base della protesta femminile e globale scoppiata un anno fa. Le donne, e non solo le star, hanno preso parola per denunciare e dire basta a un comportamento maschile ricattatorio che usava, e in gran parte usa ancora, la propria posizione dominante per prendersi libertà e ottenere favori sessuali. Come ha scritto Lia Cigarini nell’ultimo numero di Sottosopra (disponibile presso la Libreria delle donne di Milano) Il valore simbolico e politico del #MeToo è rivoluzionario perché è una presa di coscienza collettiva che segna una nuova fase del femminismo, un punto da cui non si torna indietro. L’operaia, la commessa, l’impiegata, l’attrice, la giornalista, la ricercatrice che si vedranno fare delle avances pesanti da un capo ora sanno che possono parlare perché attorno c’è chi crede loro e le sostiene. Quando Bennett paragona la presunta violenza di Asia Argento agli atteggiamenti predatori e reiterati di Harvey Weinstein fa un’operazione iper strabica. Da una parte mette sullo stesso piano due eventi e comportamenti di peso ben diverso, dall’altra sminuisce la forza simbolica di un intero movimento. Non sono i maschi le vittime di questo andazzo, ma le donne. Dire «Anch’io sono vittima del potere come loro» equivale a infilarsi in qualcosa che non gli appartiene. Certo, il fatto di essere un ex bambino di successo che ha vissuto più tempo sui set che a casa può avergli creato insicurezze, il non lavorare né guadagnare più come un tempo può averlo segnato, ma tutto ciò non ha nulla a che fare con il #Metoo. Casomai ha più attinenze con l’impietoso mondo di Hollywood e le regole del successo ed è con quelle che Bennett dovrebbe prendersela. L’altro aspetto che suscita molti dubbi è il denaro. Bennett dice di essersi reso conto che il rapporto con Asia Argento lo ha traumatizzato quando lei ha smascherato Weinstein. Invece di denunciarla, come hanno fatto le donne del #MeToo con i maschi, ha pensato di far scrivere al suo avvocato una lettera agli avvocati del compagno di lei, il celebre chef Anthony Bourdain, per chiedere un risarcimento di tre milioni e mezzo di dollari. Vuol dire che tutti quei soldi avrebbero placato il suo disagio? E che ferita è se accetta di stare zitta in cambio di un pagamento? Il #MeToo non ha mai chiesto una compensazione in denaro, ma un cambio di mentalità e atteggiamenti. Difficile, quindi, non dubitare che Bennett, o chi per lui, abbia voluto monetizzare su un incontro intimo. E veniamo al rapporto. Bennett scattò con il proprio cellulare alcune foto che, secondo quanto dice, lo ritraggono con la Argento subito dopo la presunta violenza. Si abbracciano con tenerezza e lui sorride con un’aria sognante. Ora, senza voler sfrucugliare, come ha fatto Giletti, sui dettagli del rapporto, se completo, o se è tecnicamente possibile che una donna costringa un uomo a fare l’amore con lei, a guardare quelle foto si fa molta fatica a pensare che lei sia una mantide e lui una vittima. Un mio amico con lunghe esperienze amorose, guardandole, ha detto: «E questo sarebbe il violentato? Tutt’al più lei lo ha aiutato a diventare grande». Se questa storia finirà in un’aula di tribunale, non è lì che si troveranno risposte svelanti. L’avvocato di Bennett insiste sul fatto che per la California, dove tutto è avvenuto, lui all’epoca era minorenne (17 anni e qualche mese). Se fosse successo a New York, dove la maggiore età è a 16 anni, l’argomento sarebbe già chiuso. Il #MeToo, quello vero, invece va avanti.

Bennet fa il suo show ma Asia ha già vinto…L’avvocato Gordon Stratto ha distrutto ogni credibilità del ragazzo, almeno per il pubblico italiano, con la frase: «L’importante è che si trovi un accordo e che Argento paghi il mio cliente», scrive Giulia Merlo il 25 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Fare processi sui media è un’arma a doppio taglio e Jimmy Bennett ho ha scoperto nel modo peggiore. Riassunto: Jimmy Bennett è un ex attore bambino di 22 anni e, lo scorso agosto, ha accusato la paladina del # metoo e sua ex mentore cinematografica Asia Argento di averlo violentato in una stanza d’albergo a Los Angeles, quando lui era minorenne. La storia, resa pubblica dallo stesso New York Times che aveva dato voce alle prime donne abusate dal produttore Harvey Weistiein, ha fatto cadere Argento dal suo piedistallo di accusatrice, trasformandola in accusata. Successivamente, è stato reso pubblico che il compagno di Asia, lo chef Anthony Burdain (morto suicida in giugno) stava pagando il silenzio di Bennett. All’inizio la posizione dell’attrice italiana è stata confusa (anche in seguito alla pubblicazione di sms compromettenti che sembravano avvalorare la tesi di Bennett), ora invece – complice il fatto che il suo nuovo legale, Mark Heller Argento smentisce categoricamente la ricostruzione di Bennett, ha sospeso ogni pagamento e reso pubblico il fatto che il ragazzo sia sul lastrico e abbia fatto causa ai genitori che hanno sperperato i suoi soldi. Domenica sera, in diretta sulla tv italiana e in esclusiva mondiale, Bennett ha deciso di raccontare «la sua verità», come ha spiegato Massimo Giletti, che lo ha intervistato per il suo programma Non è l’arena, su La7. Peccato che ad andare in scena sia stata una catastrofe comunicativa. E a distruggere la credibilità del racconto di Bennett è stato il suo avvocato, presente in studio e seduto accanto a lui, quando ha detto che «l’importante è che si trovi un accordo e che Asia paghi al mio cliente 3 milioni e 200 mila euro». In sintesi, l’intervista è stata la dimostrazione di cosa non fare in un caso che ha già raggiunto le proporzioni mediatiche di uno scandalo di media grandezza su scala globale. Jimmy Bennett si è presentato a raccontare la sua storia in una trasmissione di cui non parla la lingua: il risultato è stato una traduzione simultanea smangiucchiata, poco chiara e per nulla empatica. L’avvocato seduto a suo fianco, al quale Jimmy guardava spaesato ogni volta che non capiva le domande allusive di Giletti, ha fatto il resto. La diretta, poi, ha dato il colpo di grazia: ogni esitazione, ogni incomprensione sulla domanda posta, ogni grattata di capelli bianco- rosati, è stata inclementemente data in pasto agli spettatori. La frase dell’avvocato sul risarcimento, poi, ha chiuso almeno per il pubblico italiano (che su Twitter ha commentato passo per passo l’intervista) – ogni ragionevole dubbio sull’attendibilità del racconto. Se l’avvocato Gordon Sattro avesse detto la stessa fase in una televisione americana, infatti, l’effetto sarebbe stato opposto. In America, il principio del risarcimento del danno attraverso un accordo economico tra le parti, anche in caso di alcuni tipi di reati, è parte integrante del sistema giuridico. Ristorare la vittima è, per il sistema di common law, una sorta di ammissione di colpa che soddisfa chi il torto l’ha subito e fa salvo dal processo chi l’ha commesso. Per questo, la frase di Sattro serviva a spiegare che Bennett, in caso di risarcimento, si sarebbe dichiarato soddisfatto davanti agli inquirenti che attualmente indagano sul caso. In Italia, invece, la stessa frase – per di più pronunciata da un avvocato e dopo il resoconto a dir poco farraginoso (più per colpa della traduzione simultanea che di Bennett) – è suonata come una sorta di minaccia d’estorsione ai danni di Argento. Non a caso, al termine dell’intervista, lo stesso Giletti si è lasciato sfuggire il commento su come «voler dire la propria verità è un conto, ma poi chiedere tre milioni di euro…». La vera domanda, l’unica che andava fatta a Bennett, è per quale ragione abbia scelto il suicidio mediatico in una televisione per lui straniera, di cui nè lui nè il suo avvocato hanno dimostrato di conoscere lingua, linguaggio e regole. Alla fine, anche il ragazzo si è reso conto dell’errore e si è lamentato ormai tardivamente del tono dell’intervista, del fatto che lo studio fosse tappezzato di gigantografie sorridenti di Asia Argento e del fatto che «io pensavo di venire qui a raccontare la mia storia, non voglio accusare nessuno. Invece sta succedendo altro». Quell’altro, sono state le domande incalzanti di Giletti che gli ha chiesto «tecnicamente» come è possibile che un uomo venga violentato da una donna, inarcando le sopracciglia quando Bennett ha spiegato che si sentiva in sudditanza psicologica nei confronti di Argento perchè, poco prima di fargli le avances, aveva vagheggiato della possibilità di scritturarlo per un film in Italia. Anche in questo caso, purtroppo, Bennett ha scelto il paese sbagliato dove sostenere che un uomo possa essere violentato: ieri, la stampa americana si è molto indignata dell’applauso fragoroso del pubblico alla chiosa di Giletti, che ha spiegato come personalmente ritenga molto improbabile che sia possibile per un uomo avere un rapporto sessuale completo non consenziente. La frittata mediatica, però, era già stata servita. Risultato: il ragazzo, almeno per il pubblico italiano, è passato da vittima a millantatore di rapporti sessuali, pronto a estorcere ad Argento più di tre milioni di dollari, calcolati sulla base del suo reddito non realizzato in seguito al trauma causato dalla violenza (il solito avvocato Sattro ha spiegato limpidamente che la richiesta di risarcimento era stata calcolata sui guadagni di Bennett prima dell’incontro intimo con Argento, che poi si sono interrotti). Purtroppo, poi, gli scivoloni mediatici non passano mai impuniti. Argento, consigliata da un vecchio volpone dei media come l’avvocato delle star, Mark Heller, racconta «la sua verità» – per dirla con Giletti – alla televisione web americana DailyMail in una doppia puntata in onda ieri e oggi. Una doppia puntata registrata (dunque depurata di pause e sporcature), senza avvocati presenti, resa in inglese a una emittente americana cui Asia concede anche la prima esclusiva sul suo rapporto con il defunto Burdain, che in America era un volto notissimo. E la sua linea è chiara: confermare che non c’è stato alcun rapporto sessuale con Bennett (che le ha fatto già il favore non richiesto di questo autosabotaggio) e generare empatia con il pubblico, perchè la fase 2 del # metoo prevede di spiegare come «anche chi ha degli scheletri nell’armadio rimane una vittima» (come ha scritto Heller nel primo comunicato ufficiale sulla vicenda). A prescindere da qualsiasi verità processuale, che stabilirà un giudice in California se mai la vicenda arriverà davanti a una corte. La verità mediatica invece è stata scritta, e non in favore di Bennett.

Asia Argento, Travaglio: “Bennett? Non c’è denuncia né indagine. E non c’è una questione morale”, scrive Gisella Ruccia il 24 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Caso Asia Argento–Jimmy Bennett? Non ci sono questioni penali, non c’è una indagine, perché è necessaria la denuncia di Bennett e questa non è mai stata fatta, non c’è un processo, non c’è tantomeno una condanna. Ma non c’è nemmeno una questione morale”. Così il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, intervistato da Danilo Lupoper Non è l’arena (La7), si pronuncia sulle accuse dell’attore americano Jimmy Bannett nei confronti di Asia Argento. E spiega: “Fare sesso con una persona di 17 anni e mezzo, cioè di poco minorenne, può essere illegale in alcuni Paesi, ma non è immorale. Salvo che naturalmente ci sia stata la violenza, ma non basta la parola di qualcuno per asseverarla. Ci vogliono delle prove che vanno poi accertate e verificate solo in un processo. E questo processo non c’è”. Travaglio elenca le tre eventualità ipotetiche si sarebbero verificate: “La prima ipotesi è che Asia ha fatto sesso con Bennett, che era consenziente. Penalmente sarebbe illecito, perché in California l’età del consenso è 18 anni e all’epoca Bennett ne aveva 17 e mezzo. Dal punto di vista morale, non c’è assolutamente niente di male nel fatto che una persona maggiorenne faccia sesso con una persona di 17 anni e mezzo. Seconda evenienza: Asia ha fatto sesso con Bennett, che non era consenziente. Ora” – continua – “a parte la difficoltà anche fisica della violenza sessuale da parte di una donna rispetto a un uomo, è molto difficile che una ragazza col fisico da colibrì come Asia, che pesa pochi chili, riesca a inchiodare e a costringere a un rapporto sessuale un ragazzo di 17 anni, che con due ceffoni o un cartone la può spiaccicare al muro e allontanarla da sé, evitando il contatto che così “orrendamente” voleva scongiurare”. E aggiunge: “Tuttavia, è sempre possibile che dica la verità Bennett e che quindi Asia abbia abusato di lui contro la sua volontà, nel qual caso sarebbe un atto non solo illegale, ma anche immorale. Terza evenienza: Asia è rimasta vittima di una estorsione fondata su una calunnia, cioè non ha fatto sesso con Bennett e per evitare lo sputtanamento ha accettato di pagare, perché non venisse proprio fuori un’accusa che lei respingeva ma che non era in grado di documentare come falsa”.

Asia Argento, lacrime in tv: "Mi hanno detto pedofila, uno stigma. Voglio tornare a X Factor, accuse false". L'attrice ospite a "Non è l'Arena" su La7. L'autodifesa contro Jimmy Bennett: "Mi è saltato addosso, sembrava impazzito, io ero congelata", scrive Carlo Moretti il 30 settembre 2018 su "La Repubblica". "Vorrei tornare a X Factor, riappropriarmi della mia vita, perché i miei figli sono fieri di me, perché l'Italia mi vuole e perché non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata". Finisce così, con Asia Argento in lacrime e Massimo Giletti che per consolarla si accuccia accanto a lei, la puntata di Non è l'Arena a una settimana dalla trasmissione in cui la regista e attrice è stata accusata da Jimmy Bennett. Giletti, che pure di fronte all'autodifesa di Asia durante la trasmissione aveva anche detto "rimango stranito, ma tutto è possibile", ha chiesto la sua riammissione come giurata: "Sono convinto che sia un errore assoluto togliere Asia da X Factor" ha detto mentre lei continuava a piangere, "chi deve decidere che ci pensi bene" ha detto facendo poi il nome dell'amministratore delegato, Andrea Zappia. Asia ha condotto la sua difesa a tutto campo, ha ribattuto a tutto confessando che l'accusa che l'ha più colpita è "il fatto di essere stata chiamata pedofila, uno stigma, non so nemmeno come riesco a stare in piedi, dovrei stare bocconi. I miei figli hanno sofferto tantissimo, per evitare il bullismo ho mandato mio figlio a vivere negli Stati Uniti con il padre". Vestito nero accollato, scarpe con il tacco, Asia siede di fronte a Giletti, in piedi di fronte a lei. "Per lei non è stato un anno semplice, ma dopo che abbiamo ascoltato quella di Jimmy Bennett è giusto che sentiamo anche la sua verità". E Asia: "Ascoltare Bennett mi ha fatto arrabbiare un po' ma soprattutto mi ha fatto pena vedere i suoi occhi vitrei, non c'era espressione sul suo volto, mi ha ricordato il bambino che ho conosciuto e non ha proseguito carriera... un'anima persa insomma". Prima però la sua verità su Weinstein: "Farrow sul NYT ha scritto falsità, non vivevo con Weinstein, non sono mai andata a cena né ho mai dormito o vissuto con lui come Farrow ha scritto in un capitolo, ecco come il giornalismo può rovinarti. E non ho mai lavorato più con lui dopo lo stupro. Mi è saltato addosso, non è nemmeno un adone, come si vede da questa foto. Ho sentito che mi ha rubato la mia innocenza, di ragazza, in quel senso lui ha vinto". E sulle foto sorridente con lui: "Ad ogni prima dei miei film, a Toronto a Cannes a Venezia, si presentava con il suo fotografo, lui sapeva a chi aveva fatto violenza, era scaltro, e chiamava il suo paparazzo per immortalare una foto sorridente con la vittima. Era una specie di stalker che si presentava di notte alla porta: un orco, io avevo anche paura. Mi ha offerto gioielli, una pelliccia, un appartamento, ho sempre detto di no". Poi la denuncia per #MeToo: "Lo sapevo che avrei fatto la kamikaze ma era necessario perché quello che facevano le colleghe non era la ribellione politica di cui c'era bisogno. Ho pensato che non avrei più lavorato, ma avevo sentito tante donne da ottobre a maggio che mi raccontavano abusi sessuali, ero sconvolta. In privato un'attrice mi ha chiamata, ma non dico il suo nome, volevano che firmassi una lettera ma era una lettera di babbo natale, non si cambia il sistema senza fare i nomi". Quindi la difesa su Bennett, che la denuncia dopo la morte di Anthony Bourdain. "Per me era come un figlio perduto, verrò a Los Angeles mi disse, mi chiese di studiare un copione come ai vecchi tempi ma lui arriva e non l'aveva neanche portata. Non sapevo che fosse minorenne, pensavo fosse diciottenne perché me lo aveva anche detto. Non è vero ci fosse un accompagnatore, è salito da solo e aveva anche sbagliato ascensore, lo vedo ed è entrato un uomo, ecco perché gli ho preso il viso sì quello è vero, perché aveva la barba, non lo riconoscevo. Aveva sguardo vitreo, come tanti ragazzi che dopo i 13 anni non lavorano più, problemi con i genitori, li ha anche denunciati, mi ha messo tristezza. Gli ho proposto un piccolo ruolo per fare un ruolo in un film indipendente è lì che si illuminò e ci abbracciammo: lui, con ormoni da ragazzo, è impazzito" (e qui Asia ride più volte, ndr), "è difficile raccontare, rido ma è anche una cosa traumatica. Questo mi ha congelata mi è saltato addosso mi ha messo di traverso sul letto, ha fatto quello che doveva fare senza preservativo, sarà durata due minuti... come un coniglio... io gli ho detto come ti è venuta questa cosa, eri il mio sogno, e si è fatto questo selfie... io non ho reagito perché era impensabile, tutto pensavo tranne che questa cosa". Tutto finisce e Asia non riesce a capire come sia potuto accadere, lo invita a pranzo, Giletti incalza: "Ma anche andarci a mangiare, come ha fatto?", le chiede; "lo invitai a pranzo per normalizzare la situazione, cercando di normalizzare questo momento abnormale in cui ero stata assaltata. La foto? Sono più traumatizzata io... mi sono sentita usata, farà vedere che è andato con la milf di turno". "E la foto al ristorante abbracciati? - chiede Giletti - anche tu mi sembri serena": "Era tornato il bambino a cui volevo bene...".

Ora la Argento piange in tv "Io ferma, lui mi ha violentato". L'attrice da Giletti per respingere le accuse di Bennett: "Fece tutto lui". Poi scoppia in lacrime: "Fatemi fare X Factor", scrive Chiara Sarra, Lunedì 01/10/2018, su "Il Giornale". "Non sono pedofila, fatemi fare X Factor". Asia Argento ora piange in tv e rigetta le accuse di Jimmy Bennett che ha denunciato di essere stato violentato da lei quando era minorenne e poi pagato dal chef Anthony Bourdain perché stesse zitto. Ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, la Argento scoppia in lacrime. "Non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata", dice mentre il conduttore cerca di consolarla, "Il fatto di essere stata chiamata pedofila, uno stigma, non so nemmeno come riesco a stare in piedi, dovrei stare bocconi. I miei figli hanno sofferto tantissimo, per evitare il bullismo ho mandato mio figlio a vivere negli Stati Uniti con il padre". Esattamente una settimana fa, nello stesso studio c'era proprio Bennet: "Io la chiamavo mamma...", ha raccontato il giovane a Giletti. "Per lei non è stato un anno semplice, ma dopo che abbiamo ascoltato quella di Jimmy Bennett è giusto che sentiamo anche la sua verità", ha detto il giornalista presentando la sua ospite. Vestito nero e scarpe col tacco, la Argento ha raccontato la sua versione: "Per me era come un figlio perduto", racconta, "Verrò a Los Angeles mi disse, mi chiese di studiare un copione come ai vecchi tempi... Ma lui arriva e non l’aveva neanche portato. Non sapevo che fosse minorenne, pensavo fosse diciottenne perché me lo aveva anche detto". Poi ha assicurato che il giovane si è presentato da lei da solo: "Lo vedo... L'ultima volta era così ed è entrato un uomo, ecco perché gli ho preso il viso, perché aveva la barba, non lo riconoscevo", dice, "Aveva sguardo vitreo, come tanti ragazzi che dopo i 13 anni non lavorano più, problemi con i genitori, li ha anche denunciati, mi ha messo tristezza. Gli ho proposto un piccolo ruolo per fare un ruolo in un film indipendente è lì che si illuminò e ci abbracciammo: lui, con ormoni da ragazzo, è impazzito. È difficile raccontare, rido ma è anche una cosa traumatica". Quindi il presunto stupro. Che nelle parole di Asia è praticamente ribaltato: "Questo mi ha congelata", dice, "Mi è saltato addosso mi ha messo di traverso sul letto, ha fatto quello che doveva fare senza preservativo. Io ero ferma e immobile, lui mi è saltato letteralmente addosso. Sarà durata due minuti al massimo... come un coniglio. Io gli ho detto: Come ti è venuta questa cosa. E lui: Eri il mio desiderio sessuale da quando avevo 12 anni". Il giovane si è poi scattato un selfie: "Quel selfie mi ha riportato alla realtà. Mi sono sentita usata, farà vedere che è andato con la milf di turno. Io non ho reagito perché era impensabile, tutto pensavo tranne che questa cosa". Poi l'invito a pranzo "per normalizzare la situazione, cercando di normalizzare questo momento abnormale in cui ero stata assaltata. Sono più traumatizzata io...". E la foto che li ritrae al ristorante abbracciati? "Era tornato il bambino a cui volevo bene...", replica lei. "Rimango stranito, ma tutto è possibile", sottolinea Giletti. Quindi le lacrime: "Vorrei tornare a X Factor, riappropriarmi della mia vita, perché i miei figli sono fieri di me, perché l’Italia mi vuole e perché non ho fatto nulla di ciò di cui vengo accusata", dice. Così anche Giletti ha lanciato il suo appello a "chi deve decidere" perché "ci pensi bene": "Sono convinto che sia un errore assoluto togliere Asia da X Factor", ha sottolineato il conduttore. Nell'intervista non è mancato un riferimento alle accuse che la stessa Argento ha lanciato a Harvey Weinstein: "Farrow sul New York Times ha scritto falsità", ha detto, "Non vivevo con Weinstein, non sono mai andata a cena né ho mai dormito o vissuto con lui come Farrow ha scritto in un capitolo, ecco come il giornalismo può rovinarti. E non ho mai lavorato più con lui dopo lo stupro. Mi è saltato addosso, non è nemmeno un adone, come si vede da questa foto. Ho sentito che mi ha rubato la mia innocenza, di ragazza, in quel senso lui ha vinto. Ad ogni prima dei miei film, a Toronto a Cannes a Venezia, si presentava con il suo fotografo, lui sapeva a chi aveva fatto violenza, era scaltro, e chiamava il suo paparazzo per immortalare una foto sorridente con la vittima. Era una specie di stalker che si presentava di notte alla porta: un orco, io avevo anche paura. Mi ha offerto gioielli, una pelliccia, un appartamento, ho sempre detto di no".

Marco Travaglio, Asia Argento e il sesso con Jimmy Bennett: "Aveva quasi 18 anni, non...". Si fa ridere dietro, scrive il 25 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Il doppiopesismo di Marco Travaglio raggiunge livelli comici, probabilmente insuperabili. Il direttore del Fatto quotidiano è stato intervistato da Non è l'Arena per fornire a Massimo Giletti un punto di vista alternativo sul caso Asia Argento-Jimmy Bennett. Si parla di molestie sessuali su un 17enne ad opera di una donna di 37, in posizione emotiva, economica e professionale decisamente "dominante". A parti invertite, ricorda da vicino il Silvio Berlusconi, Ruby Rubacuori e il Bunga bunga, con una "sottile" differenza: in quel caso, la vittima era tale solo per la magistratura, visto che mai si è sognata di denunciare o accusare l'allora premier di alcun reato. Eppure..."Non ci sono questioni penali, non c'è una indagine, perché è necessaria la denuncia di Bennett e questa non è mai stata fatta, non c'è un processo, non c'è tanto meno una condanna. Ma non c'è nemmeno una questione morale". "Fare sesso con una persona di 17 anni e mezzo, cioè di poco minorenne, può essere illegale in alcuni Paesi, ma non è immorale - sottolinea a sorpresa al microfono di Danilo Lupoper -, salvo che naturalmente ci sia stata la violenza, ma non basta la parola di qualcuno per asseverarla. Ci vogliono delle prove che vanno poi accertate e verificate solo in un processo. E questo processo non c'è". E quando non c'era, nell'attesa, ci pensava il Fatto a condannare Berlusconi. Salvo poi scoprire che il tribunale vero lo avrebbe poi assolto, a sputtanamento ormai completato.

Asia Argento contro Salvo Sottile: "È meglio che tu stia zitto, cog...", scrive Federico Ursitti C. lunedì 1 ottobre 2018 su Blogo. Lo scontro su Twitter tra Asia Argento e Salvo Sottile si sposta tra i messaggi privati. Il conduttore però pubblica tutto: "Stai zitto, cog...". Lo scontro a distanza tra Asia Argento e Jimmy Bennett, combattuto sul terreno di gioco di Non È L'Arena, monopolizza il dibattito delle ultime settimane. E come ogni dibattito scatena opinioni, commenti e parteggiamenti per una o per l'altra parte. A prendere posizione, spesso, sono anche vip del piccolo schermo, come ha fatto ieri sera il conduttore di Rai 3 Salvo Sottile. Durante la puntata di ieri sera del talk show di La 7 il conduttore di Mi Manda Raitre ha affidato a Twitter alcuni suoi pensieri sparsi sul caso Argento-Bennett, approfittando dell'intervista dell'attrice da Massimo Giletti. Ecco le due esternazioni: Ma possibile che tutti ti saltano addosso e tu resti immobile? E poi dopo il sesso con uno ci torni a prendere il caffè (weinstein) e con l’altro, ragazzino infoiato, dopo che si è rivestito dici: dai prendi il copione...Semplice no?

E ancora: Logica vuole che se uno abusa di me contro la mia volontà dopo il sesso ‘forzato’ non ci faccio un selfie insieme con gli occhi languidi ne ci vado dopo a mangiare. Gli do semmai due calci nel sedere. I due interventi hanno attirato in pari misuri risposte di apprezzamento e risposte contrarie, a conferma del fatto che il tema è molto divisivo e molto commentato sui social. Il primo tweet inoltre ha avuto anche la risposta proprio di Asia Argento, che ha affidato ad un laconico "Pacchiu di tu soru" (un commento poco lusinghiero sulla sorella, mettiamola così!) la sua opinione in merito. I due tweet però non devono essere davvero andati giù alla giudice/ex-giudice di X Factor, che ha contattato privatamente su Whatsapp il conduttore facendogli presente di non aver apprezzato le esternazioni: "È meglio che ti stai zitto" - tradotto dal dialetto siciliano - più un'altra parola poco carina che non riportiamo che ma che potete leggere da voi. Salvo Sottile infatti ha pubblicato il messaggio ricevuto dalla Argento, approfittando per chiarire ulteriormente la sua posizione: Il conduttore ha quindi ribadito la propria libertà di espressione e rispedito al mittente le intimidazioni dell'attrice, giocando a carte scoperte. Inoltre - nonostante la distanza di pensiero riguardo al caso molestie - ha auspicato per l'attrice un ritorno dietro al tavolo dei giudici nel talent show di Sky Uno. La Argento risponderà ancora alla provocazione?

Argento minaccia Salvo Sottile: "E' meglio che stai muto". Lui pubblica i suoi messaggi, scrive l'1 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Salvo Sottile si permette di criticarla sul caso Jimmy Bennet e Asia Argento passa subito agli insulti e alle minacce. "Mi sono svegliata solo per dirti questo prima di bloccarti anche sul cellulare: E' megghiu ca ti stai mutu, cugghiuni", gli scrive in tono mafioso nel messaggio che il giornalista Mediaset mostra sul suo profilo Twitter. Ma Sottile la mette subito a posto: "Cara Asia Argento non ho accusato né insultato nessuno, ho sentito la tua intervista e ho scritto un mio pensiero che era a difesa delle donne molestate. Non mi spaventano le tue minacce, né quelle pubbliche né quelle private. Per il resto ti auguro di tornare a X Factor".

Così il #metoo riscrive il diario di Bridget Jones. Helen Fielding rivisita parti del celebre diario: "Oggi Mr Fissatette sarebbe licenziato", scrive Gaia Cesare, Lunedì 01/10/2018, su "Il Giornale". «Mi piace molto essere molestata sessualmente da Daniel Cleaver», confessava dalle pagine del suo diario parlando del capo, al cinema il bello e spietato Hugh Grant. Che nel frattempo, in ufficio, commentava via chat la gonna troppo corta di lei e ci provava con successo, a differenza dell'altro capo, il signor Fitzherbert, un imbranato di mezza età, da lei soprannominato «Signor Fissatette». Oggi? «Niente del genere sarebbe possibile». Nemmeno il ruolo di Richard Finch, il boss che la assume in tv e non perde occasione di farla riprendere dalle telecamere scomposta, seno e didietro in vista, per farla apparire bella e senza cervello. «Oggi entrambi perderebbero il lavoro, senza dubbio», dice la nuova Bridget. Sì, perché 23 anni dopo la sua creazione e 22 dopo la pubblicazione, la ex single più nota e sfigata del mondo, protagonista della rubrica settimanale di Helen Fielding sull'Independent, poi divenuta un best seller editoriale e un successo cinematografico in cui si sono identificate milioni di giovani donne sole, a caccia di marito, in lotta contro peso/sigarette/ birra, insomma l'indimenticabile Bridget Jones torna a scrivere sul suo Diario. Da ex single a mamma, da giovane a caccia dell'amore eterno nell'era post-femminista di metà anni Novanta a donna reduce dal grande sconvolgimento del #metoo, Bridget prova adesso a spiegare al figlio maschio come liberarsi dal sessismo e creare relazioni efficaci con le donne dopo il terremoto Weinstein. Lo fa per mano della sua creatrice, Helen Fielding, che ha regalato nuove parti del Diario di Bridget Jones a Feminists Don't Wear Pink (and Other Lies), raccolta di 52 contributi femminili (ed. Paperback) in uscita nel Regno Unito e con cui Scarlett Curtis, la curatrice, prova a capire cosa è successo al femminismo dopo il #metoo. Inutile dire - ma la Curtis lo fa eccome - che i passaggi più spassosi e rappresentativi (alcuni stralci riportati dal Sunday Times) sono proprio quelli che raccolgono le nuove parti del diario di Brigdet, ormai icona della donna-media. Imperdibile, per esempio, il passaggio in cui la bionda ricorda la frase preferita di Shazzer, l'amica capace di chiamare le cose con il proprio nome: «Chiunque sia veramente capace di andare a letto con Harvey Weinstein merita un Oscar». Cosa è cambiato per Bridget? «Riguardando i vecchi diari del 1996 - scrive sulle nuove pagine - credevo che femminista fosse un'altra cosa intimidatoria che dovevi diventare per forza, insieme con l'essere magra, fidanzata, madre e imprenditrice di te stessa mentre scivolavi agevolmente da una persona all'altra alle feste come Tina Brown». Ora invece - ammette Bridget - il femminismo «è un'altra cosa. Non è più appannaggio di intellettuali solenni e che si sentono superiori. Adesso è di ogni donna». Ecco il Bridget-pensiero rivoluzionario. È la consapevolezza che non sarebbe più possibile, come fece Bridget, «accettare la parte e il pacco di avere un lavoro in cui il capo fissa liberamente i tuoi seni, non conosce il tuo nome e ti chiede di mettere un vestito attillato per fare un discorso idiota». Ora Bridget lo sa. Come farà a insegnarlo al figlio? Intanto gli propone di vedere Thelma e Louise, il film «per imparare come trattare le donne e cosa succede se non lo fai alla pari». «Stai parlando di sessismo e parità di genere?» gli chiede Billy. «Sì - spiega mamma Bridget - è davvero la piaga del futuro e...». Lui la interrompe: «È cosa vecchi. Se hai la nostra età, mamma, il sessismo semplicemente non è una questione». Ed è la prova che i tempi sono cambiati. Parola, o speranza, di Bridget Jones.

Asia Argento news. Tutto quello che c’è da sapere sul caso Asia Argento-Jimmy Bennett. L'attrice italiana è stata coinvolta in uno scandalo sulle molestie sessuali dopo un articolo del New York Times. Ecco tutto quello che c'è da sapere sul caso, scrive il 19 Settembre 2018 TPI. Asia Argento è stata coinvolta in uno scandalo sulle molestie sessuali dopo la pubblicazione di un’inchiesta del New York Times, secondo la quale avrebbe versato dei soldi a Jimmy Bennett, il giovane attore che l’aveva accusata di violenza sessuale. L’attrice, paladina del movimento Me Too contro la violenza sulle donne, ha negato di aver mai avuto rapporti sessuali con Bennett, che l’ha accusata di violenze sessuali risalenti al 2013, quando lui aveva 17 anni. Secondo quanto rivelato dal New York Times, Asia Argento avrebbe concordato di risarcire con 380mila dollari l’attore e musicista. Il giovane, oggi 22enne, sostiene di aver avuto dopo quella presunta violenza un crollo emotivo talmente forte da aver condizionato la sua carriera. Asia Argento è stata tra le prime donne nel mondo del cinema a denunciare le molestie subite dal produttore Harvey Weinstein. Per questo, lo scandalo svelato dal New York Times che ha travolto l’attrice italiana ha suscitato molte critiche e reazioni inaspettate anche da donne come Rose McGowan, che in passato l’hanno affiancata nelle sue denunce.

Chi è Asia Argento e quanti anni ha. Figlia del maestro di film horror Dario Argento e dell’attrice Daria Nicolodi, Asia Argento è nata a Roma il 20 settembre 1975 e ha 42 anni. Sin da giovane decide di seguire le orme dei genitori. Inizia la sua carriera nella recitazione ma successivamente lavora anche come regista. Ha esordito nel 1984 in Sogni e bisogni di Sergio Citti, poi è stata scelta da Moretti per Palombella rossa. Tra i film più importanti in cui ha recitato ci sono Le amiche del cuore (Michele Placido, 1992), Perdiamoci di vista (Carlo Verdone, 1994), Compagna di viaggio (Peter Del Monte, 1996, David di Donatello per Cora, la ragazza che pedina Michel Piccoli), Viola bacia tutti (Giovanni Veronesi, 1997), New Rose Hotel (Abel Ferrara, 1998), cui seguono molti film americani e francesi. Dal 2001 al 2007 è stata sentimentalmente legata al cantante dei Blu Vertigo, Morgan, da cui ha avuto una figlia, Anna Lou, che recentemente è stata denunciata per aver imbrattato un autobus dell’Atac. “Mi ero illuso che potessimo creare una famiglia, un qualcosa di edificante. Per questo io ero infelice”, ha dichiarato in un’intervista a Rai 3 l’ex cantante dei Bluvertigo. “Per l’esasperazione sono arrivato a pesare 45 chili. Non mangiavo più, mi buttavo a terra e stavo tre giorni sul pavimento. Per cosa?”, conclude Morgan, ricordando la storia d’amore tormentata. Nel 2008 ha sposato Michele Civetta, regista di videoclip italo-americano, da cui ha avuto un altro figlio. I due hanno divorziato alcuni anni fa. Asia Argento è stata legata sentimentalmente allo chef Anthony Bourdin, fino alla sua morte per suicidio a giugno 2018.

Le accuse. Il primo versamento è avvenuto secondo il New York Times ad aprile 2018, dopo che Asia Argento si era esposta denunciando le molestie di Harvey Weinstein.

La violenza sessuale ai danni di Jimmy Bennett sarebbe avvenuta in una camera d’albergo in California, cinque anni fa, quando l’attrice italiana aveva 37 anni e il giovane ne aveva appena compiuti 17. Il quotidiano statunitense cita i documenti degli avvocati dell’attrice e del ragazzo, che in un film del 2004 intitolato “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” vestì i panni del figlio di Asia Argento. Tra le carte della documentazione ci sarebbe anche un selfie del 9 maggio 2013, in cui l’attrice e Jimmy Bennett vengono ritratti a letto. Ma non solo: come si legge sul New York Times, ci sarebbero anche i dettagli sui tempi del risarcimento. Asia Argento avrebbe pattuito di versare 380mila dollari in un anno e mezzo, a partire da un versamento di 200mila dollari fatto ad aprile. Intanto, una portavoce del dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles fa sapere che sul caso non sarà aperta nessuna indagine ma “verranno fatti degli approfondimenti”. Le intenzioni dei detective sarebbero di parlare con Bennett che però non risulta essere stato ancora sentito dalla polizia.

La versione di Asia Argento. Asia Argento nega il contenuto dell’articolo pubblicato dal New York Times, definendo le notizie “assolutamente false” (qui le sue dichiarazioni). In particolare, non nega di aver corrisposto dei soldi a Bennett. La parte della notizia contestata da Argento è quella sui presunti rapporti sessuali con il giovane attore americano.

Ma come mai allora Asia Argento ha pagato Bennett? Ecco la sua versione: “Quello che mi ha legata e Bennett per alcuni anni è stato solo un sentimento di amicizia terminata quando, dopo la mia esposizione nella nota vicenda Winstein, Bennett (che versava in gravi difficoltà economiche e che aveva precedentemente assunto iniziative giudiziarie anche nei confronti dei suoi stessi genitori rivolgendo loro richieste milionarie) inopinatamente mi rivolse una esorbitante richiesta economica”, prosegue la nota. “Bennett sapeva che il mio compagno, Anthony Bourdain, era percepito quale uomo di grande ricchezza e che aveva la propria reputazione da proteggere in quanto personaggio molto amato dal pubblico”. “Anthony insistette che la questione venisse gestita privatamente e ciò corrispondeva anche la desiderio di Bennett. Anthony temeva la possibile pubblicità negativa che tale persona, che considerava pericolosa, potesse portarci. Decidemmo di gestire la richiesta di aiuto di Bennett in maniera compassionevole e venirgli incontro. Anthony – prosegue l’attrice – si impegnò personalmente ad aiutare Bennett economicamente. A condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita”. Asia Argento conclude la nota con queste parole: “Dunque, questo è l’ennesimo sviluppo di una vicenda per me triste che mi perseguita da tempo e che a questo punto non posso che contrastare assumendo nel prossimo futuro tutte le iniziative a mia tutela elle sedi competenti”.

Le dichiarazioni di Jimmy Bennett al Nyt. La sera di giovedì 23 agosto Jimmy Bennett ha rotto il silenzio sul caso, inviando una nota al New York Times. “Nei giorni scorsi non ho fatto dichiarazioni perché ero addolorato e mi vergognavo che tutto questo fosse reso pubblico”, ha affermato l’attore e musicista. “All’epoca dei fatti ero minorenne – spiega ancora Bennett – e ho cercato giustizia nel modo che a me sembrava più appropriato perché non mi sentivo pronto ad affrontare le conseguenze che questa vicenda, se resa pubblica, avrebbe potuto comportare”. “Molte donne e uomini coraggiosi hanno parlato delle loro esperienze e ho provato stima per il coraggio che hanno avuto nel rivelare cose di quel tipo”, continua l’attore, riferendosi al movimento Me Too. “All’inizio non avevo mai rivelato la mia storia perché avevo deciso di gestirla in modo privato con la persona che mi aveva ferito”, si legge ancora nella nota. “Il trauma – scrive ancora Bennett – si è risvegliato in me quando quella persona si è dichiarata essa stessa vittima”, scrive riferendosi alle accuse delle violenze mosse da Asia Argento al produttore Weinstein. “Temevo che in quanto maschio le mie parole sarebbero state stigmatizzate. Non pensavo che qualcuno avrebbe compreso che cosa significa vivere quel tipo di esperienza da teenager”, continua l’attore e musicista. “Ho affrontato molte difficoltà nella mia vita e affronterò anche questa. Vorrei superare questa vicenda, e ho deciso di andare avanti. Ma senza rimanere più a lungo in silenzio”.

Jimmy Bennett a sua volta accusato di molestie dall’ex fidanzata. Jimmy Bennett era stato a sua volta accusato di molestie dalla sua ex fidanzata nel 2015. A riportare la notizia è il sito Daily Beast, entrato in possesso degli atti legali in cui si spiega che la ragazza era stata pedinata e minacciata dall’ex fidanzato. La donna aveva denunciato la sua situazione di pericolo alle autorità californiane. “Alle spalle ha alcune storie di droga, potenzialmente poteva essere un violento: per questo io e mia mamma non ci sentivamo al sicuro”, si legge nella denuncia presentata dalla giovane. Nello stesso documento si legge che Bennett era stato accusato di “stalking” e “pornografia minorile”. Il ragazzo inoltre è stato accusato di aver fatto sesso con la ragazza quando lei era ancora minorenne: “Avevo 17 anni e non lo avevo mai fatto, lui mi ha convinta. Si è fatto strada nella mia vita, mi ha manipolata fino a farsi mandare delle mie foto nuda: questo mi ha creato danni emotivi”. Il 17 luglio del 2015 i giudici della Corte Suprema di Santa Monica avevano emesso una misura restrittiva temporanea nei confronti di Bennett.

Gli sms tra Asia Argento e Anthony Bourdain su Jimmy Bennett. Il sito web di gossip Tmz ha pubblicato le conversazioni intercorse via sms tra Asia Argento e il compagno recentemente scomparso Anthony Bourdain sul caso di Jimmy Bennett. Sarebbe stato proprio Bourdain ad insistere per pagare Bennet, con soldi che avrebbe sborsato di tasca sua. “Ero gelata. Lui era sopra di me. Poi mi ha detto che ero stata la sua fantasia sessuale da quando aveva 12 anni”, avrebbe scritto l’attrice al compagno riportato in esclusiva dal sito online americano. Negli sms Bourdain e Argento parlano di Bennett come di un “asino” e Anthony scrive che il pagamento “non è l’ammissione di niente, nessun tentativo di comprare il silenzio, semplicemente un’offerta per aiutare un’anima torturata che cerca disperatamente di spillarti denaro”.  I 380mila dollari — che Bourdain avrebbe pagato di tasca sua — per chiudere la vicenda non sono, avrebbe scritto lo chef, “un’ammissione, un modo per comprare una copertura, solo un’offerta per aiutare un’anima tormentata che cerca di spillarti soldi”. Oppure, conclude, puoi “mandarlo a farsi f… In ogni caso, sono con te”. “Non comprerò il suo silenzio per qualcosa che non è vero, anche perché sono al verde”, avrebbe scritto l’attrice al compagno (qui l’articolo completo).

Il selfie di Asia Argento a letto con Jimmy Bennett. Il sito web di gossip Tmz ha pubblicato in esclusiva la foto di Asia Argento a letto con Jimmy Bennett (qui la foto). Il selfie è tra i documenti ricevuti dal New York Times tramite un’email criptata, che è la fonte dell’inchiesta sullo scandalo. Nell’inchiesta del quotidiano infatti si legge: “I documenti, che sono stati inviati al New York Times tramite e-mail criptata da una fonte non identificata, includono un selfie datato 9 maggio 2013, dei due a letto.Come parte dell’accordo, il Sig. Bennett, che ora ha 22 anni, ha dato la fotografia e il copyright a Ms. Argento, ora 42. Tre persone che hanno familiarità con il caso hanno detto che i documenti erano autentici”.

Gli sms di Asia Argento a Rain Dove. Dopo aver pubblicato un selfie di Asia Argento a letto con Jimmy Bennett, il sito di gossip statunitense Tmz ha diffuso anche alcuni sms in cui l’attrice ammetterebbe di aver fatto sesso con il giovane collega, all’epoca 17enne. Inizialmente non si era a conoscenza del nome dell’interlocutore a cui Asia Argento aveva inviato gli sms, ma il 27 agosto Rain Dove, la compagna di Rose McGowan, ha confessato di essere la protagonista dello scambio di sms. “Sono stata io a diffondere gli sms di Asia Argento. E lo rifarei”, ha detto Dove, che sostiene di aver parlato degli sms alla polizia ma di non averli dati alla stampa. Nei messaggi Asia Argento scrive: “Ho fatto sesso con lui, mi sono sentita strana. Non sapevo fosse minorenne”. “Non è stato uno stupro, ma io ero gelata. Lui era sopra di me e mi ha detto che ero la sua fantasia da quando aveva 12 anni”, scrive Argento. L’attrice italiana ha inviato poi al suo contatto la foto di un bigliettino che Bennett le avrebbe lasciato dopo il rapporto sessuale, sui cui c’è scritto: “Ti amo con tutto il mio cuore”. Rain Dove ha 27 anni, è statunitense e fa la modella. È conosciuta soprattutto per essere la compagna di Rose McGowan, altra grande protagonista del movimento #MeToo, oltre che grande amica di Asia Argento. Dopo la rivelazione, l’attrice statunitense Rose McGowan ha rivolto un appello all’amica Asia Argento: “Fai la cosa giusta, sii onesta”. Qui il testo completo della lettera.

La denuncia per stalking della ex di Bennett. Rachel Fox, ex fidanzata dell’attore che accusa di molestie Asia Argento, avrebbe presentato una richiesta di ordine restrittivo scritta proprio nei confronti di Jimmy Bennett, che definisce “bugiardo, manipolatore e ladro”. Gli atti – pubblicati da Fanpage.it – risalgono a quando lei aveva 17 anni e lui 18. Rachel Fox ha presentato la richiesta alla Corte Suprema della California – Contea di Los Angeles. La ragazza, anche lei attrice, nel documento si dice “terrorizzata dal fatto che Jimmy Bennett o il suo patrigno Frank Pestorino possano farle del male”.

I commenti alla vicenda. Molte personalità pubbliche si sono espresse sul caso, eccone alcune:

Rose McGowan. L’attrice statunitense Rose McGowan ha scritto un tweet in cui dice di avere “il cuore spezzato” per lo scandalo che ha coinvolto l’attrice italiana Asia Argento, con la quale ha condiviso le denunce di molestie nei confronti del produttore americano Harvey Weinstein, contribuendo alla crescita del movimento #MeToo. Asia Argento e Rose McGowan erano scese insieme in piazza a Roma, al corteo contro le violenze dell’8 marzo scorso. Dopo la morte dello chef Anthony Bourdain, compagno di Asia Argento, McGowan aveva preso le difese della collega dalle accuse sul web. “Ho conosciuto Asia dieci mesi fa. A unirci è stato condividere la sofferenza di essere state aggredite da Weinstein”, ha scritto McGowan su Twitter. “Il mio cuore è a pezzi. Continuerò il mio lavoro accanto alle vittime”. L’attrice, nota per aver interpretato – tra gli altri – il ruolo di Paige Matthews nella serie televisiva Streghe – sembra quindi prendere le distanze dalla compagna di lotte del movimento contro le violenze. Anche se poi sottolinea in un altro tweet: “Nessuno sa la verità, sono sicura che ancora molte cose verranno fuori. Siate gentili”.

Dario Argento. In difesa di Asia Argento è intervenuto il padre, il noto regista Dario Argento. “Io credo si siano inventati tutto. Potrebbe essere un complotto”, dice Dario Argento, che ritiene sia “poco plausibile” la versione pubblicata dal New York Times. “Mia figlia avrà sempre il mio appoggio, comunque vadano le cose e qualunque sia la realtà. Sono convinto che sia tutta una montatura, tutto un imbroglio”, dice Dario Argento.

Ma perché qualcuno avrebbe dovuto complottare alle spalle di Asia? Secondo Dario Argento, la figlia “nel suo esporsi ha dato fastidio a molte persone, anche diversi politici importanti, e ora immagino un gruppo di loro che si è inventato tutto questo contro di lei”.

Sky Italia. Sky Italia ha preso posizione in merito alla vicenda sugli abusi sessuali in cui è stata coinvolta Asia Argento. “Se quanto scrive oggi il New York Times fosse confermato, questa vicenda sarebbe del tutto incompatibile con i principi etici e i valori di Sky e dunque – in pieno accordo con FremantleMedia – non potremmo che prenderne atto e interrompere la collaborazione con Asia Argento”, ha fatto sapere l’azienda. Asia Argento è una dei quattro giudici della nuova stagione X Factor, che partirà il prossimo 6 settembre su Sky Uno. Molte delle puntate, quelle delle audizioni e dei BootCamp, sono già state registrate quindi non è chiara la soluzione che si troverà per far fronte al problema. Tra i nomi dei possibili sostituti di Asia Argento tra i giudici di X Factor, c’è quello di Simona Ventura ma non solo: in lizza anche Nina Zilli, Baby K e Malika Ayane.

Matteo Salvini. Il vicepremier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è intervenuto su Twitter sullo scandalo. “Questa è la ‘signora’ che mi insultava ogni due minuti, e mi ha dato del razzista e della m…a? Mamma mia che tristezza…”, ha scritto Salvini sul suo profilo ufficiale, accompagnando il tweet con un articolo nel quale si racconta la vicenda in cui è coinvolta Argento. Qualche settimana fa il ministro e l’attrice erano stati protagonisti di un polemico botta e risposta sui social. Argento era intervenuta contro Salvini nella polemica tra il leader della Lega e lo scrittore Roberto Saviano, a sua volta difeso dalla deputata Laura Boldrini. Dopo che Boldrini aveva espresso solidarietà a Saviano, Salvini aveva scritto su Twitter “Che coppia”, e Argento aveva commentato con l’hashtag “Salvinimerda”. “Dai Asia, secondo me non sei così cattiva, se ti va ti offro un caffè (meglio una camomilla), mi racconti i problemi che hai e vedo se posso aiutarti”, le aveva risposto il ministro. Poco dopo, era arrivata la controreplica dell’attrice: “Il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’interno del Governo si diletta a sbeffeggiarsi di me. Ha così tanto tempo da perdere? Non ha niente di più imperativo da fare, da sistemare, da risolvere, meeting da attendere? Che piacere prova a trollare le donne?”.

Harvey Weinstein. Tra chi si è espresso per criticare l’attrice c’è anche Benjamin Brafman, l’avvocato di Harvey Weinstein. In una dichiarazione a Fox News, l’ha accusato Asia Argento di “un incredibile livello di ipocrisia” e ha aggiunto che il caso “dovrebbe dimostrare a tutti quanto malamente le accuse contro Weinstein siano state effettivamente controllate”. Il produttore statunitense si è dichiarato non colpevole di stupro e molestie.

Movimento Me Too. Secondo Tarana Burke, una delle fondatrici di Me Too, solo attraverso il tipo di conversazioni difficili che suggerite da storie come quella di Asia Argento che il movimento può effettivamente avere successo. “Un cambiamento può avvenire”, ha scritto Burke su Twitter. “Questo movimento sta creando dello spazio affinché ciò avvenga. Questo potrà succedere solo se apriremo il vaso di Pandora e ci abitueremo alla scomoda realtà che non esiste un solo modo di perpetrare e non c’è una vittima modello”. “Siamo tutti esseri umani imperfetti e dobbiamo rendere conto per il nostro comportamento individuale”, aggiunge Burke. “Le persone useranno queste recenti notizie per cercare di screditare il movimento – non lasciamo che ciò accada. Questo è ciò di cui parla il Movimento”. “Persone ciniche useranno singoli esempi di cattivo comportamento delle donne per sostenere che le molestie sessuali e l’aggressione non fanno parte della misoginia strutturale, anche se tali abusi non hanno alcun genere”, ha twittato la scrittrice femminista Moira Donegan in risposta alle notizie su Asia Argento. “Ignorate queste persone; hanno scarso interesse per la giustizia”.

Mira Sorvino. Mira Sorvino, attrice statunitense che ha vinto un Oscar per il film di Woody Allen La dea dell’amore e, più di recente, ha recitato nella serie televisiva Falling Skies, è tra le dive che hanno denunciato le molestie subite dal produttore Harvey Weinstein. Ed è diventata una paladina del movimento Me Too. “Sono stata davvero male per le accuse contro Asia Argento”, ha scritto Mira Sorvino su Twitter. “Il tempo chiarirà le cose e forse lei verrà scagionata, ma se è vero, non c’è punto di vista che lo renda migliore. L’abuso sessuale sui minori è un crimine odioso ed è contro tutto ciò che io e il movimento MeToo rappresentiamo”, aggiunge. “Continuerò a combattere per tutte le vittime e cambiare la cultura che incoraggia l’abuso di potere nelle relazioni sessuali”.

Enrico Mentana. “Secondo quel che rivela, con tanto di carte citate, il New York Times, Asia Argento era ben conscia di avere pendente un’azione legale per molestie sessuali da lei compiute nei confronti di un giovane attore quando l’anno scorso lanciò le accuse a Weinstein per averla sottoposta allo stesso tipo di abuso”, scrive sul caso il direttore di La7 Enrico Mentana. “Il movimento Metoo ha dato una sacrosanta spallata a pratiche che insultano la dignità delle donne; ma Asia Argento con la sua memoria selettiva riguardo alle colpe e alle denunce ne esce davvero male, e diventa improponibile come portabandiera di ogni diritto delle donne”, aggiunge Mentana.

Vittorio Feltri. Il commento del giornalista Vittorio Feltri: “La molestata Asia Argento molestò un minore americano. E rimedia una figura pazzesca. Ma è pazzesco anche che un diciassettenne si spaventi davanti alla passera”.

Marco Travaglio. Travaglio ha scritto un lungo editoriale in cui difende Asia Argento: “Stento a capire l’equazione Harvey Weinstein-Asia Argento formulata in questi giorni dalle migliori gazzette”, dice il direttore. “Uno è un potentissimo produttore, considerato il padrone di Hollywood, influentissimo sulla giuria dell’Oscar e dei maggiori premi cinematografici mondiali: a chi fa l’attore conviene averlo amico e soprattutto non averlo nemico. L’altra è un’attrice che ha fatto anche la regista di piccoli film”. Le denunce dell’attore Jimmy Bennet secondo il direttore del Fatto non sono paragonabili a quelle che sono state mosse dalle attrici riunite nel movimento #MeToo.

Maurizio Costanzo. Il giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, che ha avuto un rapporto di amicizia con Dario Argento, regista e padre dell’attrice, ha voluto dedicare al caso Asia Argento-Jimmy Bennett le pagine settimanali che scrive sulla rivista Chi. “Non riesco a schierarmi. Per alcuni anni della mia vita ho frequentato Dario Argento e sua figlia Asia. L’attrice avrà avuto 10 anni. La ricordo molto sveglia e intelligente”, scrive Costanzo. “Sarò sincero, non riesco a dare un giudizio, a schierarmi”. “Asia pare avere malumori, ansie interiori che la portano a vivere in modo diverso, discutibile”, scrive Maurizio Costanzo. “Credo che solo un bravo psicoterapeuta possa riuscire ad aiutarla. Non certo il polverone mediatico”.

Il discorso di Asia Argento a Cannes. A maggio 2018 Asia Argento ha tenuto pubblicamente un discorso contro Weinstein proprio al Festival del cinema di Cannes, durante il quale ha detto: “Nel 1997 sono stata stuprata da Harvey Weinstein qui a Cannes. Avevo 21 anni. Questo festival era il suo territorio di caccia. Voglio fare una previsione: Harvey Weinstein non sarà mai più benvenuto qui. Vivrà in disgrazia, escluso dalla comunità che un tempo lo accoglieva e che ha nascosto i suoi crimini. E perfino stasera, seduti tra di voi, ci sono quelli che ancora devono essere ritenuti responsabili per i loro comportamenti contro le donne, che non sono accettabili in questo settore. Sapete chi siete. Ma soprattutto noi sappiamo chi siete. E non vi permetteremo più di farla franca”.

Chi è Jimmy Bennett. Da bambino Jimmy Bennett era considerato una baby star. Era talmente bravo da essersi conquistato l’ammirazione di star del calibro di Harrison Ford e Bruce Willis. A sette anni, il giovanissimo Jimmy Bennett viene scritturato per “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, film del 2004 diretto, scritto e interpretato da Asia Argento. Lì, in quel lontano 2004, ebbe inizio lo stretto rapporto con l’attrice e regista italiana. La carriera di Bennett, però, sembra essersi fermata al 2013. L’anno in cui l’attore sostiene di aver subito l’aggressione sessuale da parte di Asia Argento. Da allora, Bennett pare aver avuto un crollo emotivo talmente forte da averlo condizionato sul set. Oggi riveste ruoli marginali in puntate di serie tv.

Il compleanno di Asia Argento: alla scoperta dell’attrice più discussa, scrive Notizie musica. Alla scoperta di Asia Argento: dalla carriera di attrice al banco di X Factor passando per le polemiche e la vita privata. Asia Maria Vittoria Rossa, conosciuta semplicemente come Asia Argento, è nata il 20 settembre del 1975. La ragazza è una nota e apprezzata attrice che ha fatto spesso parlare di sé dividendo l’opinione pubblica. Andiamo alla scoperta di Asia Argento, la paladina delle donne e la vittima dei media.

La carriera di Asia Argento. La carriera da attrice di Asia Argento inizia quando lei era solo una bambina e difficilmente la sua strada avrebbe potuto prendere una via diversa visto che altro non è che la figlia di Dario Argento, uno dei massimi registi italiani, e di un’attrice, Daria Nicolodi. Oltre alla passione per il cinema, che la porta a recitare in film come Palombella Rossa, Asia si appassiona anche alla danza e alla regia. Diventa una delle attrici più ambite del cinema italiano e internazionale, lavora con Carlo Verdone e Michele Placido, tanto per citarne due, e vince due David di Donatello, prestigiosi riconoscimenti per gli attori. Se le qualità di attrice non sono in discussione, i comportamenti di Asia hanno spesso diviso l’opinione pubblica. La ragazza ha posato nuda in diverse occasioni ed è stata protagonista di alcuni coloriti battibecchi con personaggi pubblici. Famosissima la lite tra Asia Argento e Meloni, con l’attrice che aveva definito la politica una lardosa fascista prima di porgere le sue scuse per una frase fuori luogo e poco rispettosa. Asia Argento a X Factor Nel 2018 Asia è entrata nella squadra dei giudici di X Factor. La scelta dell’attrice ha lasciato perplessi molti fan del programma che hanno messo in dubbio le capacità di giudizio della ragazza che nel mondo della musica non ha lasciato il segno. Asia è stata poi sollevata dal suo incarico dopo le accuse di violenza sessuale a causa di Jimmy Bennett, ma la produzione del programma ha deciso di mandare comunque in onda le audizioni registrate con Asia che ha convinto il pubblico al punto che è nata una petizione spontanea per chiedere la reintroduzione di Asia anche per le puntate live.

La vita privata di Asia Argento: Morgan, i figli, gli amori e le polemiche. Asia Argento ha avuto una lunga storia con Morgan, cantante dei Bluvertigo e padre di Anna Lou, nata nel 2001. La storia è finita ufficialmente nel 2007, poi è andata avanti a lungo tra alti e bassi fino al 2017, quando l’attrice ha pubblicamente accusato l’ex compagno di non essersi interessato della figlia né dal punto di vista affettivo né da quello economico. Intanto nel 2008 Asia Argento è stata legata a Michele Civetta e dal rapporto tra i due è nato il secondo figlio di Asia Argento, Nicola Giovanni. Chiusa anche questa storia, l’attrice ha iniziato un rapporto con lo chef di fama mondiale Bourdain, tragicamente scomparso nel 2018, quando si è tolto la vita per cause ancora da chiarire. La relazione tra Asia Argento e Anthony Bourdain è stata a lungo criticata dai media per la differenza di età tra i due. L’attrice, regista e cantate è molto attiva sui social. Asia Argento su Instagram ha pubblicato anche foto sensuali e provocanti, secondo alcuni al limite della censura. Dopo le accuse di Bennett ha preferito prendersi una pausa allontanandosi dalla piazza telematica per qualche mese.

Caso Weinstein: Asia Argento paladina delle donne… prima delle accuse di Bennett. Nel 2018 Asia Argento diventa una delle paladine delle donne per il suo impegno nella lotta contro le molestie sulle attrici da parte di attori, registi, manager e produttori. La bufera porta alla caduta di Harvey Weinstein, accusato di molestie sessuali. L’attrice, inizialmente accusata e criticata dai giornali, diventa per molti un punto di riferimento anche se, a distanza di pochi mesi, finirà a sua volta nella bufera per le accuse da parte di Jimmy Bennet, secondo il quale la donna lo avrebbe forzato ad avere rapporti sessuali quando lui era ancora diciassettenne. Hanno fatto molto discutere le parole di Vittorio Feltri su Asia Argento per quanto riguarda il caso Bannett: “Trovo ridicolo che un giovanotto debba ricevere un risarcimento perché è stato a letto con una donna: solo un cretino si spaventa davanti alla passera – scrive Feltri dalle colonne di Libero. E continua così: “Anche io in età minorile (ai miei tempi si era maggiorenni a 21 anni) ebbi un rapporto con una signora di 29 anni. L’ indomani, dato che mi ero trovato bene, non mi recai in questura per accusarla, bensì mi precipitai dal fiorista onde inviarle un mazzo di rose”. Argento malattia: forse non tutti conoscono il suo vero dramma, scrive Andrea Paolo il 20 settembre 2018 su Urban Post. Di Asia Argento si sta parlando tantissimo nell’ultimo anno.  Da capofila delle donne in rivolta molestate da Harvey Weinstein a presunta molestatrice. Asia Argento avrebbe aggredito sessualmente un minorenne suo protetto, secondo le rivelazioni del New York Times. Lei nega. Ma Jimmy Bennett, l’accusatore, rompe il silenzio. Ma quest’ultimo sarebbe stato accusato da una sua ex di avere abusato di lei. Insomma, un vortice senza fine. Per Asia Argento, appena all’inizio del cammino, è quindi finita l’avventura dell’attrice come giurata a X Factor 12. Bourdain – morto suicida da pochi mesi – aiutò Asia, impegnata nella “battaglia” #MeToo, a gestire la vicenda, aveva scritto il Times. Nella nota diffusa da Asia Argento si legge: “Anthony insistette che la questione venisse gestita in privato e ciò corrispondeva anche al desiderio di Bennett. Anthony temeva la possibile pubblicità negativa che tale persona, che considerava pericolosa, potesse portarci. Decidemmo di venirgli incontro. Anthony si impegnò personalmente ad aiutare Bennett a condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita”. Ma come dicevamo, non è questo l’unico dramma della vita di Asia Argento. 

Asia Argento malattia: il dramma che (forse) non tutti conoscono. Una sindrome controversa, sia nella diagnosi che nelle cure, ma certamente terribile: Asia Argento soffre di una malattia chiamata fibromialgia, che affligge chi ne soffre con dolori cronici diffusi. E’ la stessa attrice ad averlo annunciato, ormai anni fa, pubblicando sul proprio profilo Instagram una foto che la ritrae, con gli occhi chiusi e le occhiaie scavate, mentre tiene in mano un manuale, proprio sulla fibromialgia. La malattia interessa particolarmente il mondo scientifico, che non si trova concorde nel definirne cause e terapie. L’attrice si è avvicinata a questo complesso argomento scientifico che la interessa (suo malgrado) da vicino, cercando di capire la sua malattia anche nei suoi aspetti scientifici, ma senza rinunciare alla chiarezza e alla semplicità. Per questo, il manuale che mostra di leggere è intitolato: “Fibromyalgia for dummies”, ossia fibromialgia per principianti.

Asia Argento malattia: la stessa di Lady Gaga. La malattia di cui soffre Asia Argento non è facilmente curabile, ed è certamente capace di impedire a chi ne soffre di continuare a vivere la propria vita come niente fosse. La foto di Asia Argento su Instagram ha commosso i followers di tutto il mondo, pronti a lasciare un messaggio di conforto e una testimonianza della loro esperienza. I sintomi? Lady Gaga dice che è come essere su un “ottovolante”: “Mi sento stordita. Sai quella sensazione quando sei sulle montagne russe e stai per scendere da un pendio davvero ripido? Quella paura e il vuoto nello stomaco? Il mio diaframma si blocca. Poi ho difficoltà a respirare, e tutto il mio corpo va in uno spasmo. E inizio a piangere “, ha spiegato l’artista.

Guida ragionata ai tatuaggi di Asia Argento. La regista e attrice ha fatto del suo corpo, come ha affermato lei stessa, una mappa che racconta la sua vita e le fa ricordare sempre dove si trovi, scrive di LinkPop il 20 Settembre 2018 su L’Inkiesta. Sulle dita conta la speranza (Hope) ma su un avambraccio porta la fermezza (Firmeza). Riconosce, sull’altro, di essere stata salvata (Saved) e col tempo – e un laser – ha trasformato un ricordo un po’ pazzo, quello di Panos (“Una persona che ho incontrato solo una volta nella mia vita, ma che ha avuto un impatto fortissimo”, dichiarò anni fa alla Bbc), in “Pausa” (paused), a indicare una sosta precisa, un momento di quiete necessario. I tatuaggi di Asia Argento sono tantissimi. Forse una trentina, forse di più. Segnano, come ha dichiarato lei stessa, “i passaggi della vita, come se il mio corpo fosse una mappa: ogni cicatrice resta sempre con me e dirà dove sono stata, come per gli animali”. Il primo, ricorda, lo ha fatto a 14 anni, ed era un occhio tatuato sulla scapola della spalla sinistra. Poi ha continuato, spaziando per forma, modi e colori. Il sito Stealherstyle ne conta 22 (conosciuti) e li mette tutti in fila.

Si parte dal più celebre, cioè l’angelo sul ventre. Un tatuaggio antico (del 1992), fatto da giovanissima e “restaurato” nel 2013 dal suo tatuatore di fiducia, Marco Manzo. Il suo significato non è mai stato svelato, ma è un angelo (anzi, un’angela) “che torna per la vendetta e per la protezione”. Non a caso è accompagnato dalla parola portoghese Proteçao.

Si continua con le nocche delle dita della mano sinistra, che portano i nomi dei suoi musicisti preferiti: “Bob” per Bob Marley; “Syd” per Syd Barrett e “Moz” per Morrissey, con in più “Joe”, riferito a Joe Coleman, un artista suo amico che in passato le ha fatto un ritratto. Tutti opera di Michele Agostini. (Sul lato si nota la scritta “Saved”): Mentre su quella destra reca scritto, una lettera per dito, la parola “Hope”, speranza. Sull’indice ha anche uno staurogramma (cioè la sovrapposizione di due lettere greche, “tau” e “rho” a forma di croce). Il motivo è anche qui religioso: insieme all’immagine la regista/attrice ha aggiunto questa citazione, un passaggio dalla Prima lettera ai Corinzi, 11-13: “Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”

Sull’avambraccio destro, invece, ha un cerchio: simbolo del matriarcato. Su quello sinistro il logo della cantautrice Cat Power, sua amica (fatto nel 2013).

E ancora: sull’interno del braccio destro la croce patriarcale (all’incontrario, così quando la guarda è rivolta verso di lei) e la parola “Firmeza”, ancora in portoghese, che richiama un inno religioso. (Questo: “Firmeza firmeza no amor / Firmeza firmeza aonde estou /Eu estou firme com meu Jesus / Eu estou firme nesta luz / Aonde estou”). Sul braccio sinistro, invece, una stella di David. Con la scritta, sempre in portoghese, “Verdade”, cioè verità.

E ora si passa a quelli più spettacolari.

Sul fianco destro una enorme e stupenda rappresentazione del fiore yagé (usato per la preparazione dell’ayahuasca) da cui parte una spirale di triangoli (opera del maestro Marco Manzo).

Su quello sinistro un altro fiore, la Psychotria viridis (anche questo usato per l’ayahuasca), da cui si diramano forme geometriche meno definite.

Sul petto, il disegno enorme e raffinato di una collana in stile vittoriano. L’opera ha richiesto almeno 15 ore per essere completata.

Che prosegue sulle due spalle, continuando con altre geometrie (il tutto è disegnato da Francesca Bonis e realizzato da Marco Manzo).

Sulla schiena, invece, domina una sorta di scudo, una “Warrior Mermaid” che copre tutta la superficie, con fiori di loto e geometrie di varia natura. Anche questo è opera del duo Boni/Manzo.

Mentre sulla coscia sinistra, dal 2016, c’è una peonia coloratissima, in stile giapponese. E non è un caso: anche l’autore, Akilla, è di Tokyo.

E sull’avambraccio sinistro c’è anche un corrispettivo: un altro fiore (stavolta un miz tra peonia e crisantemo). 

Anna Lou Castoldi, la figlia di Asia Argento denunciata per aver imbrattato un bus Atac. Guai giudiziari per la figlia 17enne di Asia Argento e Morgan. L’azienda dei trasporti della Capitale ha spedito un esposto alla magistratura, scrive il 29 agosto 2018 "Il Corriere della Sera". Aveva chiesto scusa pubblicamente Anna Lou, la figlia 17enne di Asia Argento e Morgan - per aver sfacciatamente pubblicato su Instagram le foto dei sedili di un bus appena imbrattati con un pennarello -, ma all’azienda dei trasporti della Capitale le scuse non bastano e ora dovrà rispondere legalmente per la «bravata».

Multa fino a 1.000 euro. Anna Lou Castoldi dovrà infatti rispondere dell’accusa di aver imbrattato un bus della città di Roma e di essersene poi vantata sul social. L’Atac, secondo Il Messaggero ha anche mandato l’esposto in procura e la 17enne potrebbe addirittura dover pagare una pena pecuniaria di circa 1.000 euro per il reato previsto dall’articolo 639 del codice penale. Il fatto è accaduto meno di un mese fa e le sue foto scatenarono un coro di offese e insulti sul web e per questo Anna Lou si affrettò a fare mea culpa chiedendo di essere perdonata: «Gli errori li commettiamo tutti – aveva scritto in un post su Ig Stories – Gli adolescenti, poi, sono una miniera di sbagli».

Anna Lou Castoldi, la figlia di Asia Argento e Morgan denunciata per aver imbrattato un bus: la reazione è scomposta…, scrive il 31 agosto 2018 Edoardo Montolli su Oggi. La diciassettenne rischia una multa di mille euro. Le immagini scatenarono polemiche sul web e lei aveva chiesto scusa a tutti. Ma all’azienda dei trasporti le scuse non sono bastate Nuovi guai per Asia Argento. L’attrice italiana ex paladina del #metoo, dopo essere finita nella bufera mediatica per il caso Jimmy Bennett, le ulteriori accuse del comico Jeff Leach e quelle gravissime dell’amica Rose McGowan, deve ora occuparsi anche della bravata della figlia diciassettenne Anna Lou Castoldi, avuta dal cantante Morgan.

LA BRAVATA - La ragazza è infatti stata denunciata dall’azienda di trasporti Atac per aver imbrattato i sedili di un bus, postandone successivamente le foto su Instagram per vantarsene. Il guaio nel guaio è che la reazione della ragazzina è decisamente scomposta: accusa il mondo e la società dio non offrire abbastanza possibilità agli adolescenti. Che quindi, sarebbero costretti… a imbrattare i bus.

LE SCUSE - L’episodio risale al mese scorso. Il post scatenò numerose polemiche e Anna Lou fu pesantemente attaccata sui social. Alla fine si scusò pubblicamente, con un nuovo post su Ig Stories: “Gli errori li commettiamo tutti. Gli adolescenti, poi, sono una miniera di sbagli”.

LA MULTA - Ma, a quanto risulta al Messaggero, le scuse all’Atac non sono bastate. Tanto da aver deciso di inoltrare un esposto alla magistratura. Ora Anna Lou rischia una multa di circa mille euro, in base all’articolo 639 del codice penale.

FIGLIA CONTESA - Anna Lou, che vive con Asia, è stata al centro di una lunga disputa legale per la custodia tra i genitori. Il contrasto tra i due si acuì con l’esplosione del caso di Harvey Weinstein e le accuse di Asia nei confronti del produttore. Morgan intervenne sostenendo che Asia aveva parlato tardi e che non era un “buon modello di madre”. Quest’ultima ricordò che aveva fatto pignorare la casa del cantante in quanto in ritardo sul pagamento degli alimenti, in un botta e risposta al veleno. 

La figlia di Asia Argento rompe il silenzio dopo aver imbrattato il bus: "Non ditemi che ho fatto una cosa strana". Dopo essersi vantata di aver imbrattato i bus dell'Atac, la figlia di Asia Argento e Morgan chiede scusa, ma "giustifica" i suoi errori, scrive Anna Rossi, Mercoledì 1/08/2018 su "Il Giornale". La figlia di Asia Argento e Morgan l'ha fatta grossa e ora prova a chiedere scusa. Per chi se lo fosse perso, la ragazzina ha imbrattato un pullman dell'Atac, ha pubblicato sui social il fattaccio e si è vantato sui social. Il motivo di tanto vanto? Forse essere andata contro le regole. E ora la 17enne prova a chiedere scusa. Prova, appunto. La figlia di Asia Argento e Morgan, dopo essere stata duramente criticata e segnalata alle autorità per aver imbrattato gli autobus a Roma, ha scritto sui social un lungo sfogo. "È vero, ho fatto una cosa di cui non mi vanto, un errore, lo capisco, ora lo vedo, ho sbagliato e chiedo scusa - scrive Anna Lou Castoldi -. Chiederò scusa in modo sincero col cuore e con la testa alle persone che ho offeso, non a chi non ha nulla a che fare con quello che è successo e che parla solo per offendermi, ma non c'entra nulla, non sa nulla di me, non è minimamente toccato da questo fatto, non sa nulla di mio padre e mia madre, di cosa possa significare essere figlia loro, se un privilegio o una condanna, non certo una colpa. Chi non sa cosa significa avere 17 anni oggi, in questo mondo privo di tenerezza, di esempi gentili, violento e disumano". E dopo queste premesse, la figlia di Asia Argento parla degli errori che commettono i giovani. Gli adolescenti come lei. "Gli errori li commettiamo tutti -. Non venitemi a dire però che quello che ho fatto è una cosa strana per la mia età. Non è altro che una 'ragazzata', ma ciò non mi giustifica e per questo chiedo personalmente scusa". E dopo un colpo alla botte e una al cerchio, la figlia dell'Argento e Morgan pubblica tra le storie di Instagram tutti quelli a cui chiede scusa: a chi deve pulire, a chi si è sporcato, a chi lavora sui mezzi pubblici, a tutti i contribuenti, alle persone che per colpa sua hanno subito un disservizio. Poi alla mamma e al papà: "Ai miei genitori per aver dato un'altra occasione per criticarli".

ANNA LOU CASTOLDI, rimosso il suo profilo Instagram? La figlia di Morgan e Asia Argento si scusa ma...Il rimosso di Anna Lou Castoldi, figlia di Morgan e Asia Argento, è stato rimosso: dopo le polemiche per avere imbrattato un pullman dell'Atac, la 17enne ha tentato le scuse ma..., scrive il 2 agosto 2018 Annalisa Dorigo su "Il Sussidiario. Gran brutta figura per Anna Lou Castoldi, la figlia di Morgan e Asia Argento, che dopo aver imbrattato un pullman dell'Atac a Roma, se ne è vantata nelle sue Instagram Stories. Le foto da lei pubblicate hanno scatenato un gran polverone mediatico, che forse ha stupito la stessa ragazzina. Per questo a distanza di poche ore, Anna Lou ha deciso di intervenire nuovamente nel suo profilo tentando di spiegare le ragioni del suo gesto, da lei considerato una ragazzata, e scusandosi per l'accaduto: "Gli errori li commettiamo tutti. Non venitemi a dire però che quello che ho fatto è una cosa strana per la mia età. Non è altro che una 'ragazzata', ma ciò non mi giustifica e per questo chiedo personalmente scusa". Parole dispiaciute anche nei confronti dei genitori, chiamati in causa dal popolo del web e accusati di non seguire la figlia come dovrebbero: "Chiedo scusa ai miei genitori per aver dato un'altra occasione per criticarli". Anna Lou ha cercato di rimediare al grave errore commesso ma le sue parole non hanno affatto convinto i suoi followers. A continuare ad essere oggetto di critiche è soprattutto parte del lungo sfogo da lei scritto: "Chiederò scusa in modo sincero col cuore e con la testa alle persone che ho offeso, non a chi non ha nulla a che fare con quello che è successo e che parla solo per offendermi, ma non c'entra nulla, non sa nulla di me, non è minimamente toccato da questo fatto, non sa nulla di mio padre e mia madre, di cosa possa significare essere figlia loro, se un privilegio o una condanna, non certo una colpa". A distanza di qualche ora da tale commento e in risposta al polverone mediatico che forse ha stupito l'intero clan Castoldi, è stata quindi presa una decisione radicale: il profilo Instagram di Anna Lou è stato rimosso in attesa che le tante polemiche vadano nel dimenticatoio. E anche Morgan e Asia Argento, solitamente molto attivi nei social, evitano di esprimersi...

Chi è Anna Lou Castoldi? La 17enne imbratta i bus di Roma, ma finisce nella bufera per essere la figlia di Asia Argento e Morgan, scrive l'1/08/18 Giulia Galletta su Sportfair.it. Anna Lou Castoldi al centro delle polemiche per aver imbrattato i bus dell’Atac di Roma ed essersene vantata sui social: se non fosse stata la figlia di Morgan ed Asia Argento la ragazza sarebbe finita lo stesso su tutti i giornali? Anna Lou Castoldi è uno dei trend topic del web della ultime ore. Il nome della ragazza forse non vi dirà un granché sulla sua identità, ma vi basterà sapere che la 17enne è figlia del cantante Morgan e dell’attrice Asia Argento, per capire come ogni cosa da lei fatta diventi di dominio pubblico. La ragazza sui social ha postato dei video che l’hanno portata al centro dell’attenzione mediatica. Anna Lou, che su Instagram vanta 33mila follower e mostra di sé un’immagine ribelle e dark, si è immortalata mentre imbratta i bus dell’Atac di Roma con bombolette spray e pennarelli. I video, poi prontamente rimossi dalla 17enne, mostrano il gesto condannabile della giovane donna, ma che a lei, a differenza di molti altri writer, è costato ‘la prima pagina’ di tanti giornali. “La mela non cade mai lontano dall’albero”, sostengono in molti che si sentono liberi di dare giudizi a caso su una giovane ragazza cresciuta tra dispute per il mantenimento e genitori separati. Per una volta potremo provare ad erigerci un po’ meno salvatori della Patria, soprattutto se l’imputato è una ragazzina di 17 anni?

Da popcorntv.it. Anna Lou Castoldi: ecco chi è la figlia di Asia Argento e di Morgan Bella, indipendente e dalla forte personalità: Anna Lou Castoldi ha un carattere che è un bel mix tra quello della mamma Asia e quello del papà Morgan 0 Frangia tagliata corta, lunghi capelli che spesso tinge dei colori più strani e una pelle che ricorda le bambole di porcellana: ecco chi è Anna Lou Castoldi, figlia di Asia Argento e dell'ex frontman dei Bluvertigo Marco Castoldi, in arte Morgan, che si è resa protagonista di una bravata che ha deciso di postare anche sul proprio profilo Instagram, ossia quello di imbrattare dei bus dell'Atac di Milano, che ha scatenato non poche polemiche sui social. PUBBLICITÀ Chi è Anna Lou Castoldi Classe 2001, Anna Lou Castoldi è originaria di Roma. Fin da piccola ha sempre respirato non solo il profumo del cinema, essendo nipote del regista Dario Argento, ma anche le vibrazioni della musica del padre, anche se Anna Lou ha sempre avuto un carattere ribelle e indipendente che rispecchia in pieno quello di entrambi i genitori. All'età di 14 anni, inoltre, per la primissima volta ha messo piede su un set cinematografico prendendo parte alla pellicola Incompresa, diretta dalla mamma Asia Argento e che è stato presentato anche al Festival di Cannes. Quello è stato l'unico film, fino ad oggi, a cui ha preso parte. Su Instagram, invece, Anna Lou è una vera e propria celebrità e lo testimoniano i numerosi followers che la seguono da tutto il mondo.  Anna Lou Castoldi: vita privata Della vita privata di Anna Lou non sappiamo moltissime cose, anche se siamo a conoscenza che ha frequentato il liceo linguistico di Roma e ha due fratelli: Nicola Giovanni Civetta, nato dalla relazione della mamma Asia con Nicola Civetta, e Lara Castoldi, figlia del papà Morgan insieme alla compagna Jessica Mazzoli.  5 curiosità su Anna Lou Castoldi 1) Anna Lou ha ammeso che la scrittura è la sua più grande passione 2) Ama viaggiare tantissimo 3) Non tutti lo sanno ma Anna Lou pratica la boxe 4) Asia Argento avrebbe vietato ad Anna Lou di potersi fare un tatuaggio fino ai 18 anni 5) Ha un piercing al naso.

Chi è Anna Lou Castoldi, la figlia di Asia Argento e Morgan, scrive vipegossip.com il 29 maggio 2018. Un po’ cosplay, un po’ gipsy, un po’ dark “ma sensibile”, ecco chi è Anna Lou Castoldi la figlia di Asia Argento e Morgan, ex frontman dei Blu Vertigo nonché nipote del regista horror Dario Argento.

Chi è Anna Lou Castoldi. Classe 2001, ha 17 anni ed è la figlia di Asia Argento e Morgan. Nata quando la coppia stava per lasciarsi, è cresciuta prendendo un po’ da entrambi i genitori: l’aria ribelle della mamma Asia e lo stile dark/punk del papà. Il gusto del gotico invece, lo ha ereditato dal nonno Dario Argento. Anna Lou ama la musica di qualsiasi genere, passione ereditata dal padre, ma soprattutto dalla madre. Ama la scrittura che definisce la sua vera passione, viaggia tantissimo, pratica boxe ed ha un profilo Instagram con oltre 26000 followers. All’età di 12 anni, nel 2014, è attrice protagonista in Incompresa, film della mamma Asia Argento che lo ha presentato al Festival di Cannes. L’esperienza davanti alla cinepresa non deve esserle piaciuta troppo. Da allora, infatti, Anna Lou si è allontanata dai riflettori, rifugiandosi su Instagram dove è diventata un’icona dark/punk per i millenials. Anna Lou frequenta il liceo Linguistico a Roma ed ha altri due fratelli: Nicola Giovanni Civetta, 5 anni, figlio di Asia Argento e Nicola Civetta e Lara Castoldi, 5 anni, figlia di Morgan (Marco Castoldi) e Jessica Mazzoli. Con i suoi fratellini minori, Anna Lou ha un rapporto speciale: “provo la stessa immensa quantità di amore per entrambi ed è bellissimo”.

Com’è il rapporto tra Anna Lou e i genitori? Il rapporto tra Anna Lou e la mamma è ottimo. Asia Argento addirittura le ha vietato di tatuarsi fino alla maggiore età. Le ha permesso però di farsi un piercing al setto nasale. Asia con Anna Lou è molto protettiva e premurosa. Col papà Morgan i rapporti sono più freddi, frutto forse delle ripetute diatribe con la ex moglie che rivendicava una maggiore presenza da parte del padre. Ora pare che i rapporti tra la ex coppia siano tornati molto buoni. “Io ed Asia siamo ottimi amici” ha dichiarato recentemente l’ex frontman dei Bluvertigo. Questo riavvicinamento ha fatto rafforzare anche il legame tra Anna Lou e Morgan. Anna Lou Castoldi è senza ombra di dubbio una ragazza che sta cercando di diventare un’artista poliedrica, le sue passioni per la batteria, l’ukulele, la moda, il grapich design, Marylin Manson, i Beatles, il make up, la scrittura e la fotografia, hanno contribuito a darle una personalità artistica tanto contraddittoria quanto lineare. Ecco chi è Anna Lou. È una ragazza curiosa e frizzante, dark ma solare, o, come direbbe lei #DarkMaSensibile.

Anna Lou, imbrattali tutti (e goditi la tua adolescenza). La canea social, complice il caldo e la noia, si scaglia contro la figlia di Morgan e Asia Argento: come se nessuno avesse mai avuto 17 anni. Come se i problemi degli autobus romani fossero quattro tratti di pennarello, scrive Grazia Sambruna l'1 Agosto 2018 su "L'Inkiesta". Dateci oggi la nostra indignazione quotidiana. Una di quelle indignazioni futili, per riempir la bocca di punti esclamativi sotto la cappa di calore e umidità estiva che si scontra con l’asfalto creando una trappola di noia e sudore. Del resto è agosto, la politica è in vacanza, salvo qualche tweet, e anche le manifestazioni contro il razzismo dilagante vengono rimandate a settembre, come le conference call coi clienti, pure quelli più demanding. In buona sostanza ad agosto non succede un cazzo ma, anno del Signore 2018, siamo incappati in una grande, storica svolta: abbiamo capito quale sia il problema di Roma, l’unico, il principale, quello per cui indignarsi una volta per tutte: Anna Lou Castoldi, figlia di Asia Argento e Marco Castoldi, in arte Morgan. La ragazza, 17 anni compiuti a giugno, si è resa protagonista di quello che è stato definito, a partire dal sito “Roma fa schifo”, un atto di deprecabile “vandalismo”. Geneticamente “ribelle per forza”, la creatura avrebbe osato imbrattare i sedili di un bus Atac con il proprio nome, pardon, il suo tag, ovvero la firma che si è scelta come nomignolo con gli amici. Di base, uno scarabocchio leggibile quanto un geroglifico in comic sans. Ma siamo figli d’arte, oltre al font c’è di più: una volta ultimato lo scempio, l’ha immortalato in una storia Instagram della durata di ore 24 e sono in molti a interrogarsi sulle conseguenze che questo abominio subculturale potrebbe scatenare nelle giovani e malleabili menti dei suoi 30mila follower. Sono usciti articoli che titolano, tronfi, “la mela non cade mai lontano dall’albero” (Dagospia), altri invece, pur usando il condizionale, lasciano intendere che questa Anna Lou l’avrebbe proprio fatta fuori dal vasino rendendosi protagonista di un atteggiamento inqualificabile, sbagliato, ma del resto “con due genitori del genere cosa ci si poteva aspettare” tuonano già i primi haters benpensanti a commento di qualunque foto social della ragazza, di sua madre e se il loro cane avesse ig, probabilmente tenterebbero l’impresa di moralizzare pure lui, tanto per essere sicuri che il messaggio di indignazione, sia esso di un luminare in psicologia o, molto più probabilmente, di Beppe l’imbianchino, arrivi forte e chiaro ai diretti interessati. O a chiunque legga quell’italiano zoppicante per piazzargli una heart reaction di sostegno. Ora, una volta posato il fiasco, vediamo di fare un quadro della situazione: lo sappiamo che fa caldo, che gli argomenti notiziabili ad agosto sono sempre meno, che non si può fare un giornale parlando solo di Temptation Island o di Bobo Vieri che diventa papà.

Però. Però qui, davvero, non è successo niente. Chi scrive non abita a Roma ma possiede un account Twitter in cui ogni giorno impera l’hashtag #atacmerda. Ne emerge nitidamente l’idea che se il pendolare medio della capitale avesse un indelebile tra le mani non scriverebbe certo il proprio nome sul sedile di un bus, ma piuttosto una sequela di bestemmie ad hoc per ogni veneratissimo santo del calendario. E se non lo fa non è per senso civico, ma perché sta stipato in una carrozza fatiscente dove lo spazio vitale è ridotto a un quarto di ciuffo di Marco Castoldi in arte Morgan e anche solo scrivere “Sto arrivando” su Whatsapp è un’operazione complessa che si può compiere solo sotto l’arcata ascellare di uno sconosciuto con gravi problematiche di igiene personale. Per questo viaggio in prima classe, l’eroico pendolare medio di cui sopra, ha aspettato, se va bene, minuti trentatrè sotto questo sole dove forse sarebbe stato bello, sarebbe stato meglio, pedalare. Lo stesso vale per le metro e qualunque altro mezzo di trasporto pubblico capitolino. Però, oggettivamente, in questa splendida cornice, non si può negare che un mezzo scarabocchio sul sedile sia fastidiosissimo, nonché il vero cuore del problema. Prima di scagliare l’uniposca contro una diciassettenne che sì, ha sbagliato, ma non risulta si stia facendo pere di eroina negli occhi, potremmo fare una rapida rassegna mentale dei nostri diciassette anni, di quelli di ognuno di noi. Non si è mai parlato molto di Anna Lou Castoldi. Anche perché, Dio la benedica, non ha ancora scelto di infestare la nostra tv sfruttando il cognome che porta. Certo, una parte di ognuno di noi, la più gossippara, è sempre stata curiosa di vedere come sarebbe venuta su la creatura di Asia Argento e Morgan. Ebbene, dal suo profilo Instagram (ora reso privato causa bufera mediatico-graffitara) salta fuori, oltre ad un’innegabile bellezza, il profilo di una ragazzina con gli occhi azzurri e le pose un po’ darkettone, sempre preferibili, almeno secondo chi scrive, a quelle con la bocca a deretano di galliforme da pollaio.

Il guaio è che un giorno magari ingrasserà e usciranno degli “articoli” a farglielo notare, il mese successivo posterà un selfie coi capelli rasati o in compagnia dell’unicorno che ha ricevuto in dono dai genitori, quello dopo ancora chissà. Prima di fare uscire la “notizia”, però, sarebbe opportuno mettere da parte il livello di maggiore o minore simpatia che possiamo provare nei confronti dei due che l’hanno messa al mondo (senza averci preso manco un caffè insieme, tra l’altro) e lasciarla vivere, crescere, compiere idiozie (perché sì, scrivere sui sedili, sui muri e così via è un’idiozia nonché un reato, va bene, che la si multi) senza un’eco mediatica che lei stessa non vuole (altrimenti sarebbe già in tv o il suo faccino svetterebbe sulla cover di un disco) e non merita (non avendo ancora fatto una cippa di mediaticamente “interessante”). Infine, prima di scagliare l’uniposca contro una diciassettenne che sì, ha sbagliato, ma non risulta si stia facendo pere di eroina negli occhi, potremmo fare una rapida rassegna mentale dei nostri diciassette anni, di quelli di ognuno di noi. Personalmente, non so voi, pur non essendo figlia d’arte, ero piuttosto certa di essere un vampiro, cantavo a squarciagola “Supereroi contro la municipale” dei Meganoidi anche se non avevo ancora la patente e il mio tag (sì, esistevano già allora, prima dei social) era “Maybe”. Arrestateci tutti. Ma venite in macchina che coi mezzi non arrivate più.

I comunisti, la morale e la prostituzione minorile, scrive Guido Prussia il 19 luglio 2014 su Il Giornale. I comunisti, la morale e la prostituzione minorile. Tutto si può riassumere in un episodio della mia vita. Aereo che va verso Cuba, all’interno una massa di sinistroidi arrapati per l’avvicinarsi dell’arrivo nell’isola dove il sogno comunista si è fatto realtà. Mi domando: Ma come sarà’ questo sogno comunista che si è fatto reale? La risposta arriva il giorno dopo sulla spiaggia. Gli stessi sinistroidi arrapati che erano con me sull’aereo avevano finalmente una faccia meno arrapata e più soddisfatta. Ed era vero, il sogno comunista diventato realtà aveva permesso a questi militanti di poter finalmente scopare delle meravigliose ragazzine cubane in cambio di pochi dollari. Fu una rivelazione. Non è vero che il comunismo non è servito a nulla. Milioni di uomini vivono ancora oggi, non nella nostalgia dei discorsi di Berlinguer, ma nella nostalgia dell’impero Comunista che anziché moltiplicare pane e pesci (miracolo troppo populista) ha trasformato milioni di calze di nylon in milioni di trombate.

"Sesso orale in fascia protetta": Mara Venier, prime grane a Domenica in, scrive il 17 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Mara Venier torna su Rai1 a Domenica In ed è subito polemica. La puntata della trasmissione è nel mirino del piddino Anzaldi per alcuni passaggi del talk su Asia Argento e le molestie sessuali. "Come cambiano i tempi, una volta alle due a Domenica In il buon Pippo giocava col pubblico osa si parla di sesso orale...", cinguetta un utente. "Alle 2.10 mentre mangio la braciola... Posso mai sentire ste cose a Domenica In? Bah! Passera, sesso orale e altre cose belle...", gli fa eco un altro. E c'è chi addirittura teme che Mara Venier, andando avanti di questo passo, non riesca ad approdare a domenica prossima: "Mara torna in Rai da 6 minuti e già è stato nominato "sesso orale" e la "passera". Arriverà alla seconda puntata".

"Sesso orale dalla Venier", si mette male per Mara: istruttoria in Rai, la brutta voce, scrive il 20 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Non si placano le polemiche sul sesso orale da Mara Venier (ovviamente solo parlato). Durante il talk show a Domenica In dedicato al caso di Asia Argento si è parlato di “passera” e “cunnilingus” alle due del pomeriggio. Michele Anzaldi, il deputato Pd aveva sollecitato l’attenzione dell’Ad Fabrizio Salini e dell’Agcom sulla trasmissione per i temi a sfondo sessuali in fascia protetta. Anzaldi aveva annunciato un’interrogazione in Vigilanza.  Il nuovo amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini - si legge sul Fatto - ha inviato questa mattina una lettera al deputato Anzaldi, nella missiva visionata dal quotidiano Avvenire, Salini scrive che l’episodio “nel rispetto dell’autonomia editoriale, è già stato portato all’attenzione delle strutture aziendali competenti”. Si apre dunque una istruttoria, dunque. Mara, dalla sua, ha gli ascolti. La spunterà?

Verifica Rai su Domenica in, pronunciati i termini “passera” e “cunnilingus” in fascia protetta. La Rai ha fatto partire un’indagine interna sulla nuova Domenica in di Mara Venier su sollecitazione del deputato Pd Michele Anzaldi che aveva chiesto verifiche all’Ad Fabrizio Salini dopo il talk in stile Arena andato in onda nella puntata del 16 settembre 2018. Mentre si dibatteva sul caso di Asia Argento sono state pronunciate più volte le parole “passera” e “cunnilingus”, scrive il 19 settembre 2018 Stefania Rocco su Fan Page. A meno di una settimana dal debutto, Mara Venier si ritrova ad affrontare la prima bagarre in merito alla nuova edizione di Domenica In che porta la sua firma. Nel corso del talk show iniziale in stile “Arena” che è andato in onda nella prima parte della puntata del 16 settembre 2018 si è discusso in studio del caso Asia Argento. Riflettori puntati su alcuni dei termini pronunciati in fascia protetta (erano le 14 circa), tra i quali “passera” e “cunnilingus”. A sollevare il caso è stato il deputato del Pd Michele Anzaldi che aveva biasimato l’accaduto e sollecitato un intervento dell’Ad Fabrizio Salini e dell’Agcom. Nella lettera il parlamentare aveva anticipato un’interrogazione in Vigilanza dopo avere riportato “le lamentele di diversi telespettatori, attraverso i social network, per la trattazione di tematiche riguardanti il sesso, anche con valutazioni esplicite, in piena fascia pomeridiana, quando spesso le famiglie sono riunite di fronte alla tv a tavola o dopo pranzo”.

Il commento piccato di Asia Argento. Nemmeno la Argento aveva manifestato apprezzamento rispetto al talk allestito in fascia protetta sul caso delle presunte molestie a Jimmy Bennett. A poche ore dalla messa in onda e in riferimento all’episodio in questione, l’ex giudice di X Factor aveva twittato: “Sinceramente sono abituata a NON GUARDARE questi processi consumati in squallidi salotti televisivi e giocati sulla mia pelle”.

La replica di Mara Venier ad Anzaldi. Al Corriere della Sera, la Venier ha replicato all’interrogazione richiesta da Anzaldi: “Non conosco Anzaldi, ma sono felice di incontrarlo quando vorrà e sono pronta a farmi dare delle indicazioni. Si scandalizza se uno dice passera? Si è parlato anche di cunnilingus? Non l’ha capito nessuno a cosa si riferisse, è una parola che non conosce nessuno, si vede invece che Anzaldi la conosce molto bene”. Intanto, l’Ad Salini ha risposto ad Anzaldi mediante una lettera in cui fa sapere che quanto accaduto “nel rispetto dell’autonomia editoriale, è già stato portato all’attenzione delle strutture aziendali competenti”. Ha concluso specificando che “la programmazione della Rai deve sempre necessariamente distinguersi sotto il profilo della qualità”, anticipando quindi l’apertura di un’istruttoria che valuti il caso.

Marco Giallini contro #Metoo: Avvelenati i pozzi dei rapporti tra uomini e donne, scrive il 20/09/2018 Blasting News. L’attore romano critica i metodi e i risultati ottenuti dal movimento in difesa delle donne nato negli Usa. Secondo marco giallini il movimento #Metoo, nato negli Usa allo scopo di difendere le donne da molestie e violenze sessuali, ha ottenuto il risultato di rovinare i rapporti tra Uomini e donne, visto che ormai non è più possibile nemmeno fare una “battuta” nei confronti del gentil sesso. Il rischio, infatti, è quello di vedersi denunciare per molestie. L’attore romano, intervistato dal quotidiano La Verità, rischia così di spaccare, con le sue parole, il movimento formatosi dopo l’esplosione del caso Weinstein, rappresentato da attrici famose e discusse come l’italiana asia argento. La denuncia contro i metodi e i risultati ottenuti dal movimento #MeToo arriva da dove meno ci si aspetta, da quel dorato mondo del cinema che si è dichiarato più volte compatto nella difesa delle donne, ma anche degli omosessuali, dai predatori sessuali annidati tra registi, produttori ed attori di Hollywood e dello star system in generale. È infatti l’attore romano Marco Giallini, classe 1963, a lanciare il sasso nello stagno, senza però ritirare la mano. Il protagonista della fiction Rocco Schiavone, in onda in questo periodo su Rai 2, si lascia intervistare da Antonello Piroso per La Verità, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Sollecitato a dire la sua sul caso #Metoo, Giallini non ha peli sulla lingua e critica non solo gli “uomini laidi” presenti nel mondo del cinema, ma anche tutte quelle donne con “pochi scrupoli” che usano il loro corpo per fare carriera. Basterebbe infatti rifiutare le avances di questi ‘predatori sessuali’, a parole oppure con “un paio di sberle”, mentre, invece, in molti casi, le vittime non parlano e non denunciano. Insomma, per colpire poche persone, sono stati “avvelenati i pozzi dei rapporti tra uomini e donne”. In pratica, conclude Giallini, ormai è divenuto rischioso persino rivolgere una battuta o un apprezzamento nei confronti del gentil sesso, perché il rischio di essere accusati di molestie è troppo elevato. L’attacco di Marco Giallini è rivolto al #Metoo, movimento di matrice femminista, diffusosi in tutto il mondo dall’ottobre 2017, dopo le rivelazioni sulle presunte molestie sessuali compiute dal potente produttore Harvey Weinstein. Al Me Too hanno aderito diverse star del cinema, le quali hanno dichiarato pubblicamente di aver subito violenze. Tra queste, le più famose sono Gwyneth Paltrow, Ashley Judd, Jennifer Lawrence, Uma Thurmane la nostra Asia Argento, in seguito travolta da altre polemiche per le presunte molestie messe in atto da lei stessa contro un altro attore, stavolta maschio: Jimmy Bennett.

Sky caccia Asia Argento. È il nuovo sexmaccartismo. Asia Argento non sarà più giudice di X Factor, finita stritolata nella gogna pubblica che, quando lei era nel “metoo”, aveva già travolto attori e registi, scrive Angela Azzaro il 6 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Ora è ufficiale: Asia Argento non sarà più giudice di X Factor. Sky, che produce il talent musicale, l’ha scaricata dopo le accuse di violenza sessuale mosse contro di lei dall’attore Jimmy Bennett. Le puntate già registrate andranno in onda, ma entro qualche giorno si saprà il nome di chi la sostituirà. Da accusatrice di Harvey Weinstein ad accusata, anche Asia Argento è finita stritolata nella gogna pubblica che, quando lei si trovava dall’altra parte della barricata del “metoo”, aveva già travolto attori e registi. Il suo (ormai quasi ex) collega Manuel Agnelli, anche lui giudice di X Factor, si è detto «addolorato». Penso, ha sottolineato, che «tutta questa vicenda abbia raggiunto dei vertici di distorsione pericolosi. Il New York Times non può essere il tribunale. Se non c’è un’accusa, se non c’è un’indagine, se non c’è un processo e non c’è una sentenza, non ci può essere una condanna pubblica così violenta, così mostruosa. È stato uno schifo!». Tra la fine degli anni 40 e i primi anni 50 gli Stati Uniti d’America furono travolti dal “maccartismo”, dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthy. Si veniva perseguitati e censurati con l’accusa di essere comunisti: gli attori e i registi che finivano nella lista nera venivano allontanati da Hollywood come se fossero appestati. Nella rete di accuse false e caccia alle streghe finirono alcuni grandi nomi dell’epoca, tra cui Humphrey Bogart, Artur Miller, Lauren Bacall, Bertolt Brecht, Carl Foreman, Joseph Losey. Oggi l’accusa non è più quella di essere comunisti. Il reato è legato alla sfera sessuale, ma il meccanismo è lo stesso: basta il sospetto o l’accusa, anche se non verificata, per venire processati dall’opinione pubblica ed essere cacciati: una sorta di lapidazione virtuale dagli effetti, come ha detto Manuel Agnelli, mostruosi. Kevin Spacey, dopo 5 straordinarie stagioni di House of cards, la serie culto sul potere politico, è stato “cancellato”. La sesta stagione sarà senza di lui. Ad aver scatenato le ire maccartiste di Netflix sono state le dichiarazioni di alcuni attori e alcuni membri della tropue che hanno accusato Spacey di averli molestati sessualmente. Non c’è stato (se mai ci sarà) un processo, ma la sentenza è definitiva: via Spacey dalla serie che lui ha contribuito a far diventare un successo mondiale. E via il suo volto dal film di Ridley Scott dedicato al rapimento di John Paul Getty III. Tutte le scene in cui l’attore compariva sono state rigirate e in Tutti i soldi del mondo di lui non c’è la più piccola traccia. La mannaia del “processo mediatico” non ha risparmiato un altro grande della scena contemporanea: Woody Allen anche lui travolto, di riflesso, dallo scandalo Weinstein. Su Allen pesa il sospetto di aver abusato della figlia, Dylan Farrow. Nel ‘ 91-’ 92 si svolse una indagine che si concluse con un nulla di fatto contro di lui. Ma dopo il caso Weinstein la figlia e la madre, l’attrice ed ex moglie di Allen, Mia Farrow, hanno rilanciato le accuse. Tanto è bastato perché Amazon, che ha prodotto gli ultimi suoi lavori, abbia preso la decisione di bloccare l’uscita di A rainy day in New York. Il film, già finito, non verrà distribuito e Allen si è preso una pausa, che sembra forzata, dal set. Meno remissivo è stato Roman Polanki, che è stato fatto fuori dall’Accademia delle Arti e delle Scienze del cinema americano. La decisione è arrivata sull’onda del “metoo” ma i fatti che incastrerebbero Polanski risalgono a quasi 50 anni fa, quando il regista premio Oscar fu accusato di aver abusato di una ragazza minorenne. Lui, però, ha reagito e ha denunciato l’Academy. In Italia abbiamo il caso Fausto Brizzi. Questa volta c’è un prima e un dopo. Il prima: alcune attrici, tramite il programma le Iene, raccontano di avere subito violenza o molestie da parte di Brizzi. La risposta della Warner Bros, che ha prodotto il film natalizio Poveri ma ricchissimi, è durissima: decide di non farlo partecipare neanche alla promozione natalizia e rescinde il contratto con il regista. Il dopo: tre delle attrici sporgono regolare denuncia e a, seguito dell’inchiesta, le accuse vengono archiviate. Per Brizzi la strada è ancora in salita, ma i meccanismi dello Stato di diritto è come se avessero messo un freno alla gogna pubblica, ne hanno ridefinito i confini, instillando almeno qualche dubbio. Ah, ad aver fomentato l’opinione pubblica contro Brizzi, è il giornalista Dino Giarrusso, poi candidato non eletto del Movimento Cinque stelle, ora incaricato dal Miur di vigilare sui concorsi universitari… Nessuno si sarebbe immaginato che anche Asia Argento fosse travolta dallo stesso problema, accusata di aver costretto ad aver un rapporto sessuale l’allora giovane attore Jimmy Bennett, al quale ha anche versato del denaro perché il caso non diventasse pubblico. L’attrice sta, purtroppo, imparando direttamente sulla sua pelle che cosa significhi subire un processo mediatico. La condanna è certa, la difesa viene considerata un orpello. Il popolo ha già deciso. E con il popolo decidono anche le case di produzione che di quel popolo hanno bisogno per guadagnare. Asia Argento, quando stava sulla cresta del “metoo”, diceva che il garantismo è roba “medievale”. Oggi forse ha capito che è esattamente il contrario: niente è più barbaro di questa nuova gogna, anche e soprattutto quando si parla di un tema delicatissimo e complesso come la violenza contro le donne.

Asia conquista X Factor e il web vuole salvarla…Successo per lei nella prima puntata registrata. Su Twitter sono partiti appelli per farla rimanere tra i giurati, scrive Giulia Merlo l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Il web ha detto sì: dopo averla massacrata, ora sta con Asia Argento. La giudice a tempo determinato di X Factor è riuscita nel paradosso del gatto di Schroediger, che nella scatola è contemporaneamente vivo e morto. Lei, nella scatola di X Factor, è contemporaneamente fuori e dentro. Dentro per le sette puntate registrate, la prima delle quali è andata in onda ieri con un messaggio di Sky in cui si spiega la sua esclusione «per il bene dei concorrenti» (ma non era stata scelta per le sue competenze musicali e non per il suo ruolo pubblico nel # metoo?). Fuori, per le successive otto in diretta live. Chi la sostituirà è ancora un mistero: si rincorrono nomi, solo per venire smentiti o considerati non all’altezza. Eppure, una gestione del programma che potrebbe sembrare frutto di totale assenza di controllo, potrebbe non avere nulla di casuale e nascondere il vero segreto della costruzione di un format di successo. Durante la serata della prima puntata, come tutti gli anni, si è verificato il fenomeno della “second screen experience”, gergalmente detta “mentre guardo un programma televisivo twitto forsennatamente le mie impressioni”, che ha generato un flusso di decine di migliaia di tweet. Fin qui nulla di strano, se non che la giudice squalificata e addirittura malamente oscurata in tutti gli spot pubblicitari è piaciuta a tutti, ma proprio tutti. Lei era ovviamente l’osservata speciale del pubblico, complice il suo già annunciato licenziamento, e piano piano il consenso nei suoi confronti è montato. Tutti si sono stupiti del fatto che intervenisse in modo appropriato, avesse competenza musicale, fosse giusta nei giudizi, piangesse come gli altri giudici per una performance emozionante. Risultato: sono spuntati già i primi hashtag per impedirne la cacciata dal tavolo dei giudici e i commenti contro di lei sono spariti nel flusso di chi già annunciava che senza di lei l’X Factor di quest’anno non avrebbe senso. E siamo solo alla prima puntata. E qui il (forse) genio degli autori di X Factor, che di mestiere fanno prodotti di intrattenimento e non moralità pubblica. Se in due mesi di puntate registrate (e di polemiche sulle molestie sgonfiate) Asia fosse diventata la beniamina del pubblico, potrebbero anche tornare – benevoli – sui loro passi, anche perchè il sostituto non è stato nemmeno annunciato. O almeno è quello che spera il volatile popolo del web, svelto a condannare senza appello Asia come molestatrice ipocrita, quanto a riabilitarla appellandosi al beneficio del dubbio appena ne intravede il volto umano, mentre piange su una cover ben riuscita di “Io che amo solo te”.

Fabrizio Corona e Asia Argento, quando una «coppia» brucia in fretta, scrive Stefania Saltalamacchia su Vanity fair il 29 Novembre 2018. Un mese o poco più. Tanto sarebbe durata la relazione tra l'ex fotografo e l'attrice romana. Anche se lei adesso minimizza: «Ci siamo visti quattro volte in un mese e non so da dove è nata l'idea della storia d’amore». I baci «incappucciati», a voler prendere in prestito la definizione di mamma Daria Nicolodi; le storie di Instagram in auto, tra musica a tutto volume e «amore, vieni qui»; le dichiarazioni in tv in cui si sottolineava l’identico «tormento interiore»; il caffé di Gramellini; il soprannome «Bonnie e Clyde». Il (tanto) discusso amore tra Fabrizio Corona e Asia Argento è durato solo un mese, o poco più. I «titoli di coda» li vediamo scorrere, come spesso accade di questi tempi, via social. Con la figlia di Dario Argento che scrive una frase carica di significato: «La mia vita sembra un film dei Monty Python diretto da David Lynch. Una farsa grottesca. Mi faccio due risate e scendo da sta’ giostra», fa sapere lei. L’ex re dei paparazzi, invece, sceglie una canzone, Quando finisce un amore di Riccardo Cocciante, e la fa ascoltare ai follower. The end, insomma. Una serie di indiscrezioni indagano sui motivi dell’addio: Corona sarebbe concentrato sul nuovo processo che l’attende. Nell’ultima udienza davanti al tribunale di sorveglianza di Milano, l’accusa ha infatti sostenuto: «troppe violazioni alle regole imposte dal tribunale di sorveglianza. Sconti in cella il resto della pena», alludendo alla recente incursione nella casa del Gf Vip, con lite con la padrona di casa Ilary Blasi, le frequenti ospitate in tv, le serate di lavoro in giro per l’Italia. Dopo l’ultimo periodo in carcere, da cui è uscito lo scorso 21 febbraio, il fotografo era stato affidato per un periodo a una comunità di Limbiate per curare la sua tossicodipendenza, e adesso dovrebbe rispettare gli orari e le prescrizioni dei giudici. Ma così, si sostiene, non è. E tutto questo, pare, l’avrebbe anche allontanato dalla «fidanzata». Che, dopo l’ultimo incontro a Milano, sarebbe tornata a Roma dicendo «basta». Versione confermata dalla stessa attrice in un’intervista a Repubblica, in cui dichiara di non aver apprezzato la continua esposizione mediatica: «Quando ho visto le speculazioni sul nostro rapporto, su un fantomatico contratto, ho capito che non potevo accettare la piega che stava prendendo la cosa sui media e ho deciso di chiudere con Fabrizio Corona. È una chiusura senza alcun risentimento, perché in quel breve periodo in cui ci siamo sentiti e visti Fabrizio mi ha portato il sorriso. Mi ha fatto del bene, non penso assolutamente male di lui né che sia una persona cattiva o che mi abbia usato», ha fatto sapere. Asia, poi, minimizza. Lei e Corona, aggiunge, in questo mese di dirette social e ospitate in tv, si sono visti solo quattro volte. «Lui ha voluto incontrarmi per parlare di lavoro», continua, «io ero stata una grande amica di suo padre Vittorio. Però già dalla seconda volta che ci siamo visti la cosa è degenerata nel gossip. Il gossip non mi riguarda, mi fa orrore. Ho vissuto tutta la vita in maniera riservata, riparata». Delle «tantissime cose in comune» non c’è più traccia.

Asia Argento, schiaffo a Fabrizio Corona: la fotografia oscena, che schiaffone, scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Asia Argento, terminata la sua storia d'amore con Fabrizio Corona, durata un mese, si scatena sui social. L'attrice 43enne pubblica una foto in cui è praticamente nuda, si copre solo con una corazza. Pubblica la foto su Instagram, ma non scrive niente. La love story è finita dopo pochissime settimane di fidanzamento. Asia Argento ha ammesso di essere scesa dalla giostra per sottrarsi a questo "circolo mediatico"; Corona ha replicato dicendo che lui non ha costretto nessuno a salire su questa giostra e che evidentemente ad Asia piaceva questa situazione. Tant'è che ha rimediato diverse ospitate televisive.

Asia Argento dimentica Corona così: FOTO senza veli su Instagram, scrive la redazione di Blitz Quotidiano il 30 novembre 2018. La storia tra Asia Argento e Fabrizio Corona è finita qualche giorno fa e Asia Argento si mostra senza vestiti su Instagram. Dopo la rottura tra i due si è parlato di un contratto da 100mila euro, soldi che Corona avrebbe dato alla Argento e categoricamente smentiti dall’ex re dei paparazzi. L’unica cosa certa al momento è che l’attrice sembra essersi fatta già una ragione sulla rottura tra i due. Su Instagram, infatti, Asia si mostra coperta solo dal calco di una statua. Lo scatto, condiviso per pubblicizzare la pagina di un fashion designer, restituisce l’immagine di una Argento spensierata e già lontana dai tanti gossip che l’avevano travolta nelle ultime settimane. Fabrizio Corona, nei giorni scorsi ha smentito a Mattino Cinque l’esistenza di un contratto tra lui la figlia del regista dell’horror. Ecco cosa ha detto Corona all’inviato del programma di Federica Panicucci che lo ha intercettato sotto casa: “Diciamo che è una storia un po’ complessa. L’unica cosa che ci tengo a dire, a parte gli scherzi, è che quello che hanno scritto i giornali sul contratto che ci sarebbe è una grandissima stronzata”. “Ma quale contratto. Ma uno può scrivere una roba su un sito e viene ripresa da tutti i giornali? Ma secondo voi siamo due tipi da fare un contratto? Io ho bisogno di dare 100 mila euro a lei??  Viviamo in un Paese dove funzionano soltanto le fake news e i populismi, come andare con le ruspe e con il cappello davanti agli zingari”, ha concluso Corona. 

Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati. Tribunale: “Troppe violazioni…” e lui rompe con la fidanzata. Asia Argento e Fabrizio Corona si sono lasciati e secondo gli ultimi pettegolezzi sembra che alla base di tutto ci sia il “vizio” di lui di cercare altre donne, rispunta Zoe Cristofoli? Scrive il 28.11.2018, agg. il 29.11.2018, Hedda Hopper su "Il Sussidiario". La storia tra Fabrizio Corona e Asia Argento è durata anche meno di quanto ci si poteva aspettare. “La mia vita sembra un film dei Monty Python diretto da David Lynch. Una farsa grottesca. Mi faccio due risate e scendo da sta’ giostra”, aveva fatto sapere lei. Il catanese invece, si lascia cullare da “Quando finisce un amore” di Riccardo Cocciante. Corona pare essere troppo concentrato sul nuovo processo. Ed infatti nell’ultima udienza davanti al tribunale di sorveglianza di Milano, l’accusa ha infatti sostenuto: “troppe violazioni alle regole imposte dal tribunale di sorveglianza. Sconti in cella il resto della pena”, accennando alla recente scorribanda nella casa del Grande Fratello Vip, con tanto di litigio in diretta televisiva, con Ilary Blasi. L’ex agente fotografico poi, ha continuato ad andare in TV come se niente fosse, portandosi a casa, una serata di lavoro dietro l’altra, in giro per l’Italia. Dopo l’ultima fase in carcere, da cui è andare fuori lo scorso 21 febbraio, il fotografo era stato consegnato per un periodo a una comunità di Limbiate per curare la sua tossicodipendenza, e adesso dovrebbe onorare gli orari e gli ordini dei giudici. Ma pare che – ancora una volta – non stia andando esattamente in questo modo. Per questo trambusto, pare che abbia allontanato Asia che, dopo l’ultimo faccia a faccia in quel di Milano, avrebbe detto “basta” tornando a Roma. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

“SONO UN’ARTISTA…” Asia Argento e Fabrizio Corona si sono ufficialmente lasciati. La conferma è arrivata sui social, per la precisione su Instagram, con un’addio scritto dall’attrice e regista: “La mia vita sembra un film dei Monty Python diretto da David Lynch. Una farsa grottesca. Mi faccio due risate e scendo da sta giostra”. Nessun risentimento da parte dell’attrice che, intervistata da Repubblica ha dichiarato: “in quel breve periodo in cui ci siamo sentiti e visti Fabrizio mi ha portato il sorriso. Mi ha fatto del bene, non penso assolutamente male di lui né che sia una persona cattiva o che mi abbia usato”. L’Argento ben presto si è resa conto che la situazione le stava sfuggendo di mano: “già dalla seconda volta che ci siamo visti la cosa è degenerata nel gossip. Il gossip non mi riguarda, mi fa orrore. Ho vissuto tutta la vita in maniera riservata, riparata. Non esco per non essere fotografata, non mi dà eccitazione che la gente faccia speculazioni sulla mia vita privata. La terza volta che l’ho visto, c’erano ancora e sempre i paparazzi, ho capito che questo tipo di situazione non potevo viverla. Non mi ci riconosco. Sono un’artista, mi interessa quello”. (aggiornamento di Emanuele Ambrosio)

FRECCIATINE TRA I DUE. La storia tra Fabrizio Corona e Asia Argento è ormai finita e, a quanto pare, anche in malo modo. A prendere la fatidica decisione è stata Asia Argento che, con un’intervista rilascia a La Repubblica, ha voluto fare un chiarimento ben preciso: “Quando ho visto le speculazioni sul nostro rapporto, su un fantomatico contratto, perfino il mio ingaggio all’Isola dei famosi, ho capito che non potevo accettare la piega che stava prendendo la cosa sui media e ho deciso di chiudere con Fabrizio Corona.” Ma queste dichiarazioni ben poco sono piaciute a Fabrizio Corona, che ha replicato pungente contro la sua ex: “Dice che l’ho portata sulla giostra, a me pare che ci sia voluta salire lei. Ci sono andato io o lei a fare le ospitate? Mi pare che ne abbia fatte 5.” Tra i due c’è un’aria molto tesa, fatta di frecciatine che potrebbero cessare non così presto. (Aggiornamento di Anna Montesano)

“FABRIZIO MI HA RIDATO IL SORRISO MA…” Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati, la storia d’amore del momento è durata veramente pochissimo. I due protagonisti sono decisamente stanchi di tutte le voci che i media hanno rilanciato nelle ultime settimane e così hanno deciso di prendere una netta posizione. Asia ha pubblicato su Instagram uno screenshot di una sua intervista in cui dichiarava: “Fabrizio Corona mi ha ridato il sorriso, ma non sono fatta per il gossip e la nostra storia finisce qui”. A commento spiega: “Su La Repubblica di oggi. Stop al gossip, alle notizie false e alle speculazioni. Arrivederci e grazie”, clicca qui per il post e per i commenti dei follower. Il pubblico però non si accontenta e vuole sapere qualcosa di più di quanto realmente accaduto tra i due. Mentre in molti pensano che il loro sia stato un avvicinamento di facciata, per far parlare di loro, c’è chi pretende di capire altro visto che da personaggi pubblici sono in parte “obbligati” a dare delle spiegazioni. (agg. di Matteo Fantozzi)

FRECCIATINA E POLEMICHE. Asia Argento ha parlato della sua storia (finita male) con Fabrizio Corona. La regista romana infatti, ha chiarito il punto della situazione intervistata da Repubblica. Queste dichiarazioni naturalmente, sono state prontamente visionate dall’ex re dei paparazzi che, non ha potuto fare a meno di commentare anche in maniera polemica: “Anche La Repubblica fa gossip e pubblica in prima pagina spacciato come cronaca, inserendo due domande obsolete e oggi inutili. Tutto, ma proprio tutto ormai gira intorno a questo. L’onestà intellettuale non esiste più, ma giornalisti capaci di fare una domanda ce ne sono ancora? Cazzo l’evidenza, cazzo l’oggettività! Ma si sanno raccontare le storie?”. Proprio questa mattina il catanese, era stato raggiunto dalle telecamere di Mattino Cinque, che l’attendevano sotto casa. “Asia ha fatto cinque ospitate televisive, ci sono andato io o c’è andata lei? Non l’ho portata sulla giostra, c’è salita. Insomma, ha fatto cinque ospitate televisive, quindi evidentemente la giostra le piaceva”, ha confidato. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

STORIA D’AMORE O GOFFO TENTATIVO? È finita tra Asia Argento e Fabrizio Corona. La “coppia” si era fatta travolgere dalla passione per un paio di settimane ma poi, è tornata alla vita di sempre. Dopo essere stati “casualmente” paparazzati tra le pagine del settimanale Chi, i due hanno deciso di mettere fine alla loro relazione. L’ex re dei paparazzi, l’aveva perfino fatta conoscere al figlio Carlos Maria e tra i due, era già nata una intesa speciale. Lei invece, aveva pensato bene di presentarlo a papà Dario e le indiscrezioni di gossip parlano di una intesa immediata, creando un rapporto di amicizia istantaneo. Sembrava tutto perfetto e forse lo era fino a quando… sempre la rivista diretta da Alfonso Signorini, ha fatto sapere della decisione di Corona, di mettere da parte questo amore per mancanza di serenità. Dopo il silenzio, Asia ha detto la sua intervistata su Repubblica. “Quando ho visto le speculazioni sul nostro rapporto, su un fantomatico contratto, perfino il mio ingaggio all’Isola dei Famosi, ho capito che non potevo accettare la piega che stava prendendo la cosa sui media. E così ho deciso di chiudere con Fabrizio Corona. È una chiusura senza alcun risentimento, perché in quel breve periodo in cui ci siamo sentiti e visti Fabrizio mi ha portato il sorriso”, ha confessato la regista. Poi ha aggiunto: “Mi ha fatto del bene, non penso assolutamente male di lui, né che sia una persona cattiva o che mi abbia usato. Ci siamo visti quattro volte in un mese e non so da dove è nata l’idea della storia d’amore. Lui ha voluto incontrarmi per parlare di lavoro. Io ero stata una grande amica di suo padre Vittorio, un grande dell’editoria, a 19 anni scrivevo nei suoi magazine. Però già dalla seconda volta che ci siamo visti la cosa è degenerata nel gossip”. Nessuna storia d’amore quindi, ma solo un goffo tentativo… (Aggiornamento di Valentina Gambino)

CORONA-ARGENTO, CAPITOLO CHIUSO. Fabrizio Corona sembra aver già chiuso il capitolo Asia Argento parlando di altre donne e sorridendo a Mattino 5 alla domanda su Zoe Cristoli, ma rimane il fatto che è stato il gossip a montare un vero e proprio caso. Due persone come Asia e Corona si sono incontrate, hanno condiviso qualche copertina e qualche palco in tv, magari qualche volta sono stati a letto insieme, e la storia d’amore che tutti hanno sognato eccola lì a favore di flash e riflettori. E adesso? Dopo un mese passato tra Roma e Milano, sono i diretti interessati a gettare un velo pietoso su questa storia e liquidando tutto come un incontro di sensi, qualche incontro furtivo, niente di più. La stessa Asia Argento parlando di quello che è successo in un’intervista a La Repubblica, ha rivelato: “E’ stato brevissimo, ci siamo visti 4 volte in un mese e non so da dove è nata l’idea di una storia d’amore. Lui ha voluto incontrarmi per parlare di lavoro, in un momento di grande solitudine, in cui non pensavo di avere rapporti”. Tutto è cambiato già dalla seconda volta – racconta Asia Argento – da quando si è accorta che ad ogni incontro c’erano i paparazzi pronti ad aspettarla/i e così ha capito “che non potevo vivere una situazione di questo tipo. Non mi ci riconosco. Sono un’artista, mi interessa quello”. A quanto pare tutto questo è stato più forte del loro feeling visto che a lei non piace stare al centro del gossip mentre lui vive di questo “il nostro rapporto non ha avuto il tempo nemmeno di crescere, è stata un’amicizia, tutto qui”. Capitolo chiuso quindi?

IL VIZIETTO DI CORONA HA ROVINATO TUTTO? Sono lontani i tempi dei cuoricini sulle dirette Instagram, Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati ed è tutto ormai ufficiale. In un primo momento sembravano rumors nati da una serie di pettegolezzi ma, soprattutto, da un messaggio Twitter in cui proprio la bella attrice e regista aveva condiviso lasciando intendere di essere pronta a “scendere dalla giostra” e parlando di uno spettacolo di cui non avrebbe voluto fare più parte. In un primo momento Corona stesso aveva un po’ liquidato tutto lasciando credere che non ci fosse alcuna crisi con Asia Argento ma solo ieri, con l’arrivo del comunicato di Chi, c’è stata la conferma. Fabrizio Corona e Asia Argento si sono lasciati e oggi a Mattino5 si parla proprio di questa ennesima bomba scoppiata nella vita dell’ex re dei paparazzi. Secondo quanto si evince sembra proprio che a rovinare tutto sia stato il “vizietto” di Corona ovvero quello delle donne, forse una come Asia Argento non gli bastava? Abbiamo qualche dubbio in merito ma alla base della rottura tra i due potrebbe esserci un’altra donna.

IL RITORNO DI ZOE CRISTOFOLI. Secondo gli ultimi rumors sembra proprio che tra i due sia spuntata nuovamente Zoe Cristofoli. In particolare, si parla di uno scambio di messaggio o di una chiamata di lui alla sua ex ed è questo che avrebbe fatto infuriare Asia Argento che, proprio a Milano da lui in quei giorni, avrebbe preso il treno per Roma e gli avrebbe detto addio. Al momento non ci sono ancora conferme su tutto questo e anche il giornalista di Mattino 5 che è riuscito ad intercettare nuovamente Corona non è riuscito a strappargli un’altra dichiarazione a riguardo. L’ex re dei paparazzi alla domanda di Zoe Cristofoli non risponde e stuzzica il pubblico e la stessa Federica Panicucci rilanciando: “Se aspettate un’oretta scende un’altra ragazza da casa”. L’unica cosa certa è che la storia tra i due è finita e che Zoe potrebbe essere solo la scusa, almeno a detta di tutti coloro che non hanno mai creduto in questa storia d’amore.

FABRIZIO CORONA A MATTINO 5 SU ASIA ARGENTO. Francesco de Luca, il giornalista di Mattino5 è riuscito ad incettare Fabrizio Corona e non le ha chiesto solo di Zoe Cristofoli ma anche di Asia Argento e della telefonata che potrebbe cambiare la sua vita. In particolare, proprio riguardo alla questione giudiziaria ribadisce: “Ma non rilascio interviste, non dico nulla, ma non è un momento facile soprattutto perché sono in attesa di una telefonata che potrebbe cambiare la vita. Penso di aver fatto tutto in maniera giusta… se ci sarà modo ne parleremo in tv dopo che tutto sarà finito”. Riguardo alla sua neo fiamma, invece, Corona conferma la fine della loro storia ma smentisce il fatto che lui l’abbia costretta a salire sulla giostra che, a suo dire, lei avrebbe gustato e non poco. In particolare, rivela: “Asia Argento ha lasciato un’intervista a La Repubblica ma l’unica domanda che avrebbero dovuto farle è: chi è andato in tv a parlare della vostra storia d’amore, lei o io? Ha fatto cinque ospitate televisive, le piaceva forse la giostra…

Asia Argento ha spiegato perché #MeToo è un capitolo chiuso. Ne ha parlato in un'intervista a Repubblica: «Sto cercando di guarire dalla mia sofferenza e non riesco a farmi carico di quella delle altre. Devo pensare alla mia vita», scrive il 29 novembre 2018 Lettera donna. È passato poco più di anno da quando è scoppiato lo scandalo Weinstein. Un anno di denunce da parte di centinaia di donne, un anno di manifestazioni femministe, di dibattito sulle molestie sessuali, di testimonianze a suon di #MeToo. Il percorso è complicato e lunghissimo, ma qualcosa è certamente cambiato. E cambiata completamente, da ottobre 2017 a oggi è anche la vita di Asia Argento. Prima la confessione della violenza da parte di Weinstein a Ronan Farrow, i mesi in prima linea come paladina del movimento. Poi il suicidio di Anthony Bourdain, lo scandalo Bennet, l'esclusione da X Factor. E la liaison con Fabrizio Corona - durata meno di un mese - che ha spiazzato tutti. Asia Argento ha parlato di tutto questo in un'intervista rilasciata a Repubblica, dove ha spiegato che il mondo del gossip non fa per lei, e ripercorso l'esperienza intensa vissuta con #MeToo, da cui però si è allontanata.

«DEVO PENSARE ALLA MIA VITA». «Ha aperto un discorso importante sull'abuso di potere non solo nel cinema ma su tanti luoghi di lavoro. È una grande rivoluzione femminile, ma per me questo capitolo è chiuso. Il mio contributo l'ho dato. Non mi sento di poterne parlare più perché devo pensare alla mia vita, che è stata molto scossa. Quando apri le porte per prima ricevi un sacco di bastonate. Poi la gente passa attraverso questa porta con facilità e magari con vestiti d'alta moda e una spilletta sul petto. Io ho beccato le bastonate e mi devo riprendere», ha dichiarato la Argento. Si dice «fiera delle donne che combattono e continuano», ma spiega di non riuscire più a essere come loro: «Voglio leggerezza ora nella mia vita. Il rapporto con Fabrizio significava questo per me. Cerco solo cose che mi fanno ridere e che mi entusiasmano, la musica, i dj set. Sto cercando di guarire dalla mia sofferenza e non riesco a farmi carico di quella delle altre».

Asia Argento, Pietro Senaldi: ora se ne frega delle molestie, vuole la pace, scrive Pietro Senaldi il 29 Novembre 2018 su Libero Quotidiano. "La donna è mobile" canta il Rigoletto di Giuseppe Verdi. Asia Argento, in questo, è molto donna. Ha la contraddizione nel dna. Il mese scorso si era messa con il re dei paparazzi, Fabrizio Corona, e si era fatta immortalare dalla rivista patinata Chi. Con il bel pregiudicato formava la nuova coppia maledetta. Fatti suoi, certo, ma la madre l'aveva messa in guardia: «Non fa per te». «Zitta troia» è stata la risposta. Ieri ha dato ragione a mamma, annunciando di averlo scaricato. Motivo? È insofferente al gossip. Sarà per questo che ha concesso un'intervista a tutta pagina per raccontare gli affari suoi: come l'ha conosciuto, cosa si sono detti, cosa provava. Esilarante. Non è questo però che ci sta più a cuore. La parte interessante dello sfogo è quando Asia dichiara ufficialmente «un capitolo chiuso, perché ho dato il mio contributo» il suo impegno, da sedicente molestata, a favore delle donne abusate. Ma come? Ha girato le piazze agitando il pugno e invitando le donne a non mollare e ad accusare chi le violenta, ha dato il la a un movimento globale femminile di denuncia, il cosiddetto #metoo, e ora abbandona tutte come se nulla fosse? Casualmente scende dal carro proprio quando nel movimento si intravedono le prime crepe e, anche tra le donne, si apre il dibattito se la caccia al maschio violento non abbia prodotto un'isteria planetaria facendo di ogni erba un fascio e rovinando uomini che non avevano fatto nulla di male. Sono centinaia nel mondo anglosassone i manager licenziati su due piedi sulla base di semplici accuse; molti di loro sono stati sostituiti da esponenti del gentil sesso, quasi con significato riparatorio. Non siamo fissati con Asia. Ci ostiniamo a non lasciarla nel suo brodo in quanto una sua fan ci ha fatto causa e l'Ordine dei giornalisti ci ha censurati a causa di un articolo sulla sua vicenda titolato "Prima la danno via e poi piangono". Non potevamo immaginare come si sarebbe concluso lo show e non abbiamo aggiunto "e alla fine se ne vanno pure lasciando tutti a leccarsi le ferite". Rimediamo oggi. La signora afferma di aver necessità di voltare pagina perché ora vuole «leggerezza nella sua vita». La troverà, la sua storia le dà speranze. Oltre vent'anni fa ha seguito il produttore americano Weinstein in una camera d' albergo e non è riuscita a sottrarsi alla richiesta di questi di leccarla tra le gambe. A suo dire, ne è rimasta sconvolta per due decenni e passa, il che non le ha impedito di lavorarci e frequentarlo a lungo anche privatamente. Un peso insopportabile, poi, sono le parole dell'attrice oggi, «un giornalista chiama e fa una domanda» e lei vuota il sacco. Così, per caso.

UN POLVERONE - L' animo umano segue vie imprevedibili. Ne nasce un putiferio, lei piange, insulta, denuncia, mobilita mezzo mondo. Infine, un giovane attore, tale Jimmy Bennett che la chiamava «mamma» accusa lei di averlo violentato e Asia perde il posto a Sky. Si scopre perfino che la signora gli ha liquidato 300.000 dollari per rabbonirlo, ovviamente su consiglio del fidanzato defunto, si giustifica lei. Da attrice esperta, capisce che è il momento di far calare il sipario sul bordello che ha scoperchiato e ritirarsi dalla scena. Ne ha diritto, ma sulla scena si contano feriti e altro. Weinstein è rovinato per sempre, molti potenti d' Oltreoceano pure. Nel nostro piccolo, in Italia, abbiamo processato e messo al bando senza prove il regista Fausto Brizzi, salvo poi riabilitarlo in omaggio alla nostra cialtroneria nazionale. Centinaia di migliaia di donne sono state illuse dalla loro paladina, il fidanzato americano di Asia, il cuoco di fama mondiale Anthony Bourdain si è tolto la vita, il giornalista francese con il quale Asia si è fatta fotografare sempre da Chi mano nella mano prima del suddetto suicidio è sparito, Corona è stato mollato. A noi di Libero in fondo è andata bene: incrociare Asia ci è costata soltanto un'ammonizione nella speranza non arrivi di peggio. Un anno fa, quando scrivemmo l'articolo per il quale siamo stati condannati dall'Ordine, sostenemmo che Asia Argento non era la persona ideale per incarnare il simbolo delle donne abusate dagli uomini e portarne avanti la battaglia. Oggi, lei stessa ci dà ragione: «Non riesco a farmi carico della sofferenza delle altre» è la frase con cui si sfila dal #metoo. Con tanti saluti alle compagne che le avevano creduto. Ma le signore abusate si consolino, certi testimonial è meglio perderli che trovarli. Salvo che dopodomani l'attrice non decida di cambiare ancora parte. Pietro Senaldi

"Sapevo che andava da Weinstein". La rivelazione di Morgan su Asia Argento. Morgan, ospite di Live! Non è la D'Urso, si è espresso sulle accuse che Asia Argento ha rivolto ad Harvey Weinstein svelando di esserle stato accanto quando lei frequentava il produttore, scrive Luana Rosato, Giovedì 04/04/2019 su Il Giornale. Dopo la partecipazione di Asia Argento a Live! Non è la D’Urso, Morgan si è seduto nel salotto di Canale 5 dando anche la sua versione dei fatti sul caso Weinstein e le accuse di stupro da parte della sua ex compagna nei confronti del produttore statunitense. Morgan, però, pur non confermando di aver visto l’intervista che Asia Argento ha rilasciato a Barbara D’Urso, non ha esitato ad accusarla di aver recitato il ruolo della vittima durante la sua ospitata su Canale 5. “Ti dico subito che non sono un bravo attore così”, ha sbottato Morgan, lasciando intendere quello che la conduttrice ha recepito immediatamente e di cui ha più volte chiesto spiegazioni. “Non sto dicendo che lei lo ha fatto, ma che io non sarò in grado!”, ha tentato di spiegare con sorriso ironico Morgan prima di dire la sua sul caso Weinstein. Dopo aver riportato una intervista di Vittorio Sgarbi, che raccontava di aver saputo da Castoldi che i rapporti tra Asia Argento e Weinstein erano tipici di due persone che sono legate sentimentalmente, il cantautore ha provato a spiegare il suo punto di vista sull’accaduto. “È un argomento delicatissimo però ci sono delle cose evidenti: dentro di sé uno può dire che è stato uno stupro, ma agisce come se non lo fosse – ha dichiarato Morgan, aggiungendo – Io c’ero tutti i giorni quando lei frequentava Harvey Weinstein, era proprio il momento in cui vivevo con lei a Los Angeles e c’era la nostra figlia”. “Non voglio raccontare queste cose perché sono private, delicate, non voglio far soffrire le persone e non faccio carne da macello - ha concluso Morgan, spiegando -. Asia soffriva, me lo diceva e io comprendevo. Non la chiudevo in casa e le dicevo di non andare. Io sapevo che andava da Weinstein ed era un problema per me, per lei e per tutti. Questo uomo non era certo uno stinco di santo, ma lei non tornava con i lividi. Basta trasformare queste vicende in qualcosa di più grave!”.

"Morgan mi confessò: Asia era lusingata dalla corte di Weinstein". L'ex marito dell'attrice: "Lui per lei prendeva l'aereo privato fino a Roma e le portava i fiori", scrive Paolo Giordano, Sabato 14/10/2017, su Il Giornale. «Morgan mi ha detto che Asia Argento ha avuto a lungo rapporti con Weinstein e non gli sembra si sia mai lamentata. Anzi, oggi lui fatica a credere che Asia l'abbia denunciato ora. E che non l'abbia fatto a suo tempo». Vittorio Sgarbi ha chiacchierato a lungo con l'artista che è stato per molto tempo compagno di Asia Argento e con la quale ha avuto la figlia Anna Lou (ora ha 15 anni). Nei giorni scorsi l'attrice ha rivelato di aver subito rapporti molto ravvicinati con Harvey Weinstein, che avrebbe «fatto» con lui sesso orale quando aveva 21 anni. Ieri il Giornale ha riportato le confidenze che la figlia di Dario Argento ha fatto via fax alla nostra cronista Daniela Fedi proprio in merito alla frequentazione con il più potente produttore di Hollywood. Ora, mentre l'attrice si lamenta di essere stata maltrattata dopo le sue rivelazioni, il suo ex compagno Morgan, parlando con l'amico Vittorio Sgarbi, ricorda come lei «fosse contentissima quando Weinstein prendeva l'aereo privato e arrivava a Roma per incontrarla. Dopo l'atterraggio, prendeva un elicottero e la raggiungeva. Spesso portava anche dei fiori, come un vero innamorato in pieno corteggiamento. E talvolta lei non si faceva trovare, mortificandone le dimostrazioni amorose». Vittorio Sgarbi ha incontrato Harvey Weinstein alcune volte specialmente alla Mostra del Cinema di Venezia, nelle vesti sia di sottosegretario ai Beni culturali sia di Soprintendente alle Belle Arti, «e ci ho anche litigato perché mi sono trovato di fronte una persona molto arrogante che non ho nessuna voglia di difendere. Mi è sempre sembrato un maiale», ricorda. Ma, mentre riporta le parole di Morgan, Sgarbi sembra convinto della realtà delle accuse. E si spinge a ricordare il caso di Artemisia Gentileschi che accusò (e fece processare) per stupro il pittore Agostino Tassi «non per la violenza in sé, ma perché lui dopo un mese non l'aveva ancora sposata». In ogni caso, per tornare ai nostri tempi, si tratta di una questione delicatissima e, ovviamente, sottoposta a tutti i condizionali del caso. Di certo, il rapporto lavorativo di Asia Argento non si è interrotto dopo la presunta violenza, ma è proseguito per anni senza alcuna apparente variazione. «Morgan mi ha ricordato che Asia gli ha sempre riferito cose positive sia per la personalità sia per le qualità professionali di Weinstein sia per le sue manifestazioni amorose, che lei mostrava di apprezzare e di aver ricevuto molto di più di quanto avesse chiesto, lavorando con piena soddisfazione e gratitudine per lui. Non avendo mai pensato che lei avesse intenzione di denunciare Morgan si chiede perché lo abbia fatto oggi, forse non avendo più avuto quello che prima le era stato utile. E che quindi anche in questo caso abbia fatto quello che le era più conveniente, essendo così abile da far tornare a suo favore quello che al tempo non la preoccupava minimamente, di cui non mi ero affatto accorto e non si era mai lamentata con me». A questo punto, se le parole di Morgan riportate da Vittorio Sgarbi saranno confermate, lo scenario cambia completamente e le iniziali dichiarazioni di Asia Argento riceverebbero un riflesso diverso e inedito anche all'interno di questa delicatissima questione ormai allargatasi da Hollywood al resto del mondo. Anzi, secondo quanto riporta Morgan attraverso Sgarbi, «Asia Argento qualche volta addirittura si rifiutava di incontrarlo e lo mandava via come un cane bastonato». In sostanza, le solite schermaglie tra due persone che flirtano. Schermaglie che, se confermate, si inserirebbero con un'altra luce in una questione della quale tutto il mondo, con paura o curiosità, sta parlando da giorni.

Asia Argento risponde a Morgan: "Spero che sia stato pagato bene per dire tutte quelle menzogne in tv". L'attrice replica alle parole dell'ex marito, ospite del programma di Barbara D'Urso. "Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io, l'ha persa lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia", scrive il 4 aprile 2019 La Repubblica. Morgan, ospite di Live - non è la D'Urso su Canale 5, in veste di padre si è difeso dalle accuse delle sue ex Asia Argento e Jessica Mazzoli di trascurare le sue figlie e di non pagare gli alimenti. "Io ho desiderato queste bambine" ha detto l'artista a Barbara D'Urso parlando di Anna Lou (17 anni) e della piccola Lara (6 anni).  "Non ho mai detto "non voglio pagare gli alimenti di mia figlia." Io non ho mai fatto questioni. Ma quando non ci sono i soldi, da dove li tiro fuori?" ha aggiunto. Asia Argento ha replicato alle parole di Morgan. "Come è noto dal 2000 al 2007 sono stata legata sentimentalmente con Marco Castoldi, in arte Morgan, con cui ho avuto una figlia, Anna-Lou. Per circa 2 anni e mezzo, dal 2002 al 2004, ho vissuto e lavorato a Los Angeles, da sola con nostra figlia" scrive l'attrice e regista in un comunicato diffuso tramite il suo avvocato, Roberto Serio. "Morgan per diverse ragioni, anche professionali, non è venuto con noi a Los Angeles e non vi ha mai vissuto. Ci ha raggiunto sì e no due o tre volte nell'intero periodo - pagandogli io le spese di viaggio affinché vedesse Anna-Lou - e sempre per pochi giorni. Non ho mai incontrato Weinstein mentre Marco era a Los Angeles e lui ha sempre saputo benissimo, fin da quando ci siamo conosciuti, della violenza sessuale che avevo subito e cosa pensavo di quell'uomo". "Quello che è accaduto dopo è cronaca: mi sono separata da Marco nel 2007 (lui dice che l'ho l'abbandonato) e quasi subito ha smesso di esistere per nostra figlia, che non trova il tempo di vedere nemmeno quando viene a Roma per lavoro e per cui da circa 10 anni non versa nemmeno un euro dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice. E questo anche durante gli anni in cui ha lavorato per X Factor e per Amici: non proprio momenti di difficoltà economica. Cinque anni fa, come fanno tante donne nelle mie condizioni, mi sono rivolta a un avvocato per agire nei suoi confronti per ottenere che pagasse quanto dovuto per Anna-Lou". "Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io" prosegue Asia Argento. "l'ha persa lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia e di accumulare debiti con banche, fisco e creditori vari. Ritenermi responsabile di avergli tolto la casa, di averlo messo in mezzo alla strada, è un buon motivo per avercela con me? Probabilmente sì, come ho avuto modo di constatare con profonda tristezza ieri durante la trasmissione di Barbara D'Urso, in cui ha detto una serie incredibile di bugie e di calunnie di una cattiveria inaudita nei miei confronti: su me e Weinstein, sulla sincerità delle mie lacrime della settimana prima, sempre nella stessa trasmissione, e soprattutto su nostra figlia e sui motivi per cui è stato assente come padre durante tutta la sua vita". "Mi dispiace perché nonostante tutto, nonostante non abbia contributo in alcun modo a crescere Anna-Lou, non ho mai rinunciato all'idea di mantenere un rapporto civile con Marco per il bene di nostra figlia. E per tutta risposta lui ieri ha accusato di tenergli lontana la figlia per i soldi. Ma evidentemente è lui che non riesce proprio a tenere distinto il piano economico, i soldi, da quello affettivo e familiare". "Spero che sia stato pagato bene per dire tutte quelle menzogne in tv e per fare questa ennesima, pessima figura con Anna-Lou" conclude firmando: Asia Argento. 

Da Il Messaggero il 5 aprile 2019.  «Spero che sia stato pagato bene per dire tutte quelle menzogne in TV e per fare questa ennesima, pessima figura con Anna-Lou»: Asia Argento, attraverso il suo legale Roberto Serio, replica a distanza alle dichiarazioni del suo ex marito Morgan ospite ieri di Non è la D'Urso su Canale 5. «Non ho mai incontrato Weinstein mentre Marco Castoldi in arte Morgan era a Los Angeles e lui ha sempre saputo benissimo, fin da quando ci siamo conosciuti, della violenza sessuale che avevo subito e cosa pensavo di quell'uomo», dice l'attrice che sottolinea come il musicista «non trova il tempo di vedere» sua figlia «nemmeno quando viene a Roma per lavoro e per cui da circa 10 anni non versa nemmeno un euro dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice». Cinque anni fa, «come fanno tante donne nelle mie condizioni, mi sono rivolta ad un avvocato per agire nei suoi confronti per ottenere che pagasse quanto dovuto per Anna-Lou. Ho firmato la procura all'avvocato e da allora non ho firmato più nulla». Sul conseguente pignoramento della sua casa spiega: «Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io, l'ha persa lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia e di accumulare debiti con banche, fisco e creditori vari. Ritenermi responsabile di avergli tolto la casa, di averlo messo in mezzo alla strada, è un buon motivo per avercela con me? Probabilmente sì! Come ho avuto modo di constatare con profonda tristezza ieri durante la trasmissione di Barbara D'Urso, in cui ha detto una serie incredibile di bugie e di calunnie di una cattiveria inaudita nei miei confronti: su me e Weinstein, sulla sincerità delle mie lacrime della settimana prima sempre nella stessa trasmissione e soprattutto su nostra figlia e sui motivi per cui è stato assente come padre durante tutta la sua vita». E conclude: «Mi dispiace perché nonostante tutto, nonostante non abbia contributo in alcun modo a crescere Anna-Lou, non ho mai rinunciato all'idea di mantenere un rapporto civile con Marco per il bene di nostra figlia, che infatti non più di due settimane fa ho portato anche a vedere il suo concerto a Roma. E per tutta risposta lui ieri ha accusato di tenergli lontana la figlia per i soldi. Ma evidentemente è lui che non riesce proprio a tenere distinto il piano economico, i soldi, da quello affettivo e familiare».

Asia Argento: "Morgan mi manca, ma le accuse su Weinstein disgustose". Asia Argento, in collegamento con Live!, ha avuto modo di replicare alle ultime dichiarazioni rilasciate da Morgan negli studi di Canale 5, scrive Luana Rosato, Giovedì 11/04/2019 su Il Giornale. A distanza di una settimana dalla partecipazione di Morgan a Live!, Asia Argento ha avuto modo di replicare alle accuse dell’ex compagno sui rapporti con Weinstein attraverso i microfoni di Barbara D’Urso. In collegamento con Canale 5, Asia Argento ha iniziato il suo intervento dal chiarimento sugli alimenti che Morgan non avrebbe versato alla figlia Anna Lou tanto da costringere la ex compagna a rivolgersi agli avvocati e procedere con il pignoramento della casa. “Ho lasciato Morgan perché la mia vita con lui era invivibile, ma ho sempre cercato di mantenere un rapporto civile con lui – ha chiarito la Argento, spiegando di aver più volte tentato di far incontrare la figlia con il padre e di aver preteso i soldi per il mantenimento di Anna Lou come da legge - . Gli alimenti non erano 4mila euro al mese ma 2mila, che non sono mai stati contestati da Marco e non sono mai stati dati. Non capisco perché lo giustifichino in quanto artista. Un uomo deve fare il padre, che sia un artista o in camionista”. Asia Argento, nonostante le controversie familiari, ha aggiunto di voler mantenere dei rapporti civili con Morgan e, in merito alle accuse dell’ex sui rapporti con Weinstein è stata perentoria. “Morgan ha detto cose disgustose su di me – ha tuonato l’attrice, ribadendo che Castoldi non ha mai vissuto con lei e la figlia a New York - . L'unica volta che ha visto Weinstein fu quando questi si imbucò al mio 25esimo compleanno e apparì in mezzo alla folla”. Riguardo le confessioni che Morgan avrebbe fatto a Vittorio Sgarbi, quindi, la Argento ha accusato entrambi di essere stati “alticci” e ha rilanciato con un’altra calunnia: “Marco è un incontinente. Gli scappa la pipì e la fa dappertutto. Fa ridere. Deve curare questa incontinenza”. Infine, Asia Argento, messe da parte le diatribe con il cantautore, ha difeso il suo ruolo di madre e si è lasciata andare ad una dichiarazione inaspettata nei confronti di Morgan. “Marco manca ad Anna, ma manca anche a me – ha fatto sapere - . Io lo vorrei nella mia vita”.

JIMMY BENNETT INDAGATO PER DIFFAMAZIONE DALLA PROCURA DI ROMA. Da “la Repubblica” l'11 aprile 2019. «Sì, Asia Argento mi ha violentato», questa l' accusa che Jimmy Bennett, 22 anni, aveva riportato, ospite di Non è l'Arena. La procura di Roma lo ha indagato per diffamazione. Se l' accusa reggesse e la reputazione dell' Argento fosse oltraggiata da un' affermazione falsa, la vicenda cambierebbe.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” l'11 aprile 2019. Jimmy sostenne di essere stato violentato da Asia in California quando era ancora minorenne L' attrice in questo procedimento è parte offesa «Una donna può essere bella e affascinante ma abusare di un uomo». Jimmy Bennett 22 anni, aveva riportato, ospite di Non è l' Arena, la sua versione su quel che sarebbe avvenuto nel 2013 in una camera di un albergo a Los Angeles con Asia Argento. La puntata della trasmissione condotta da Massimo Giletti era andata in onda lo scorso 23 settembre. Una versione adesso al vaglio della procura di Roma, soprattutto nel passaggio in cui l' attore afferma: «Sì, Asia Argento mi ha violentato, è stato un rapporto sessuale completo». La procura, il pubblico ministero è Maurizio Arcuri, ha iscritto il giovane artista per il reato di diffamazione. In pratica, se l' accusa dovesse reggere, e la reputazione dell' Argento dovesse essere oltraggiata dall' eventuale affermazione falsa di Bennet, l' intera vicenda che ha travolto l' attrice italiana cambierebbe radicalmente. Da persecutrice a vittima di un grande imbroglio. Intanto è stata inviata negli Usa la notifica per l' elezione di domicilio, l' atto che comunica l' iscrizione nel registro degli indagati, con la relativa richiesta di nominare un avvocato. La storia ha ruotato fino a pochi mesi fa intorno al « caso Bennett». Una vicenda esplosa dopo un articolo del New York Times. Un servizio in cui si sosteneva che Argento, tra le principali accusatrici del produttore cinematografico Harvey Weinstein, si fosse a sua volta impegnata a versare a favore di Jimmy Bennett la somma di 380 mila euro. Il giovane attore americano accusa l' artista italiana di violenza sessuale. L' episodio risalirebbe a un incontro a Los Angeles del 2013, quando lui aveva 17 anni, che configurerebbe un reato secondo le leggi della California. L' attrice inizialmente aveva sostenuto di non aver mai fatto sesso con il 17enne, in seguito però sono diventati pubblici i messaggi tra l' attrice e una sua amica modella, in cui Argento ammetteva di aver avuto un rapporto con Bennett. L'artista italiana ha poi cambiato versione: «È stata Argento ad essere aggredita», aveva fatto sapere il nuovo legale, annunciando la volontà di interrompere i pagamenti nei confronti di Bennet. Pagamenti, come ha sempre sostenuto Argento, concordati, per evitare di finire coinvolto in uno scandalo, dall' ex compagno Anthony Bourdain, morto suicida lo scorso giugno.

“HO RACCONTATO I CAZZI MIEI IN TV PER MANTENERE I MIEI FIGLI”. Gaspare Baglio per Rollingstone il 30 aprile 2019. «Stavo giocando a Monopoly con i miei figli». Interrompo la quotidianità di Asia Argento per questa intervista che arriva dopo un reciproco rincorrersi. Un via vai di messaggi su Whatsapp, per un paio di giorni e finalmente troviamo il punto d’incontro. L’occasione per parlare con Asia è la mostra Asia Argento Antologia Analogica (a cura di Stefano Iachetti), al Museo del Cinema di Torino fino al 27 maggio. Un’esposizione che inizia già dalla cancellata esterna della Mole Antonelliana, con 23 immagini (pellicola 35 mm) realizzate tra il 2001 e il 2004. E quattro scatti di Iachetti che ritraggono l’attrice sul set di Incompresa. Nell’Aula del Tempio, all’interno del museo, si possono ammirare 170 polaroid «sulle quali ho dipinto sopra da gennaio a una settimana prima che inaugurasse la mostra. In realtà ne ho fatte più di 400, ma non sono tutte esposte». Parlare con Asia è come tenere, tra le mani, un cuore di cristallo pieno di crepe: si ha paura di romperlo da un momento all’altro. Una persona (prima che un personaggio) fragile, con le mani e le ginocchia sbucciate da un anno terribile, che metterebbe alla prova chiunque. Le vicende le conosciamo tutti, inutile stare qui a rivangare. Con la Argento, però, voglio essere un ascoltatore attento più che con gli altri, sentire quello che ha da dire. Un flusso di parole con l’anima più pura di questa artista.

Asia, cosa rappresenta questa mostra?

«Questa mostra è stata importante a livello di sopravvivenza».

Perché?

«Riuscire a creare, nel momento in cui si sta male, non è facile, ma è necessario. Non sono riuscita a esprimermi nelle maniere che conoscevo meglio, quelle della scrittura e con la regia».

Come mai?

«Ho passato un grossissimo periodo di solitudine, di riflessioni e di autoanalisi senza riuscire a cavare fuori nulla. Ho avuto, però, la consapevolezza che solo la creazione, in questo caso fisica – di manipolare, toccare con le mani –, è stata la maniera per uscire fuori da un anno terribile. Poi è anche primavera, mi sembra davvero una rinascita».

Cos’hai provato in quest’anno?

«Quando sono stata sotto quest’onda nera, che sembrava non finire mai, non vedevo proprio luce, non vedevo neanche il tunnel».

Cosa hai fotografato, ma soprattutto che visione hai voluto dare?

«Con uno sguardo ossessivo, sono sempre gli stessi soggetti che non avevano apparentemente e non hanno, per me, ancora, un significato intrinseco: c’è questo giornale anni ’80 con la foto del cantante dei Bauhaus, ci sono vinili, frasi, immagini e quella poesia che si trovavano nella mia camera da letto e nel mio bagno: non riuscivo a uscire da questo recinto. Imprimerle era come stare chiusi in una stanza di gomma, continuavo a vedere gli stessi oggetti, che non avevano senso».

E poi?

«Il fatto di manipolarli, dipingendoci sopra e colorando le immagini che svaniscono dei vecchi rullini della polaroid, era come bloccare questo attimo, tirarlo fuori da me. Imprimerlo per liberarmene per sempre».

Un aiuto, insomma.

«Il flash della polaroid ha illuminato una zona buia in cui brancolavo, ma che non era dentro di me, era fuori di me. Come quando accendi la luce e scappano via tutti gli scarafaggi. È questa la sensazione».

Quanti scarafaggi hai incontrato quest’anno?

«Alcuni erano scarafaggi, altri erano veri e propri serpenti, pericolosi, velenosi. Un giorno, forse, tutto questo avrà un senso. Capirò perché ho dovuto affrontare queste persone. Dovevo crescere, stare più attenta, fidarmi di meno. Dovevo proteggermi come una specie a rischio, come fanno al WWF. Sono stata attaccata da animali feroci, da predatori, persone cattive, spiriti bassi. Penso agli scarafaggi e ai serpenti perché strisciano, stanno in terra, ma sono molto furbi. Per questo mi sono tatuata un serpente, per farmelo amico».

Ah sì?

«È l’unico modo: se il serpente è mio amico, gli altri avranno paura ad avvicinarsi. Come si dice? Keep your friend close and your enemy closer».

Non pensi che, quest’anno, abbia in qualche modo oscurato la tua carriera?

«Non l’ha oscurata, si è spostata l’attenzione dalla creazione, da quello che ho fatto, a una morbosità sul mio privato. Sono diventata un fatto di cronaca per quello che faccio, le persone che vedo, che mi circondano, che vedono i miei messaggi. Tutto ciò è stato completamente alienante e sfido qualsiasi essere umano. Però anche questo fa parte della longevità del mio mestiere: ne ho viste e ne ho vissute di cotte e di crude, non solo in questo anno».

Cosa intendi?

«Lavoro nello show business da quando avevo nove anni e ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Quindi quest’anno, sì, è stato terribile, ma le altre cose, grazie a Dio, me le sono tenute per me».

Ma ci sarà una differenza tra le difficoltà che hai passato quest’anno, rispetto a quelle vissute in tempi meno recenti…

«Quest’anno mi è sembrato di vivere ancora più sotto i riflettori, cosa che io, assolutamente, non cerco. Sono lontana dai pettegolezzi e dalla mondanità. È andata così, l’universo voleva che andasse così».

Ok, ma se non volevi stare ulteriormente al centro dell’attenzione mediatica, perché andare a parlare di quello che ti è successo a Non è L’Arena, Domenica in e Live – Non è la D’Urso?

«Mi hanno pagato tanto, amico mio. Come potevo sopravvivere, come mamma single di due figli, che mantengo da sola, avendo perso il lavoro – perché l’ho perso – e senza prospettive, sola al mondo? La gente pensa solo al fatto che sono figlia di Dario Argento, ma mio padre è un regista e ha fatto film di genere. Io sono cresciuta nella stessa stanza da letto con le mie due sorelle, mio padre non mi ha mai aiutata. Sono andata a vivere da sola, a diciotto anni, e mi sono sempre mantenuta autonomamente. Non è facile. Quindi, se l’unico introito che potevo avere era andare in tv a raccontare i cazzi miei, non ho nessun orgoglio in questo. Per mantenere la mia famiglia ho fatto di tutto, in questi anni».

Tipo?

«Ho venduto qualsiasi cosa, come la mia batteria. Ci tenevo, aveva un valore per me. Non me ne frega niente dei soldi, l’importante è mantenere i miei figli. Quindi ho partecipato a queste trasmissioni per questo motivo, fratello, non te lo nego. Altrimenti non ci sarei mai andata in vita mia».

Torniamo, per un attimo, alla mostra. Ci sono icone come Frida Kahlo che sono presenti. Quali sono le personalità che, in qualche modo, sono state fonte di ispirazione per la tua carriera?

«Frida, sicuramente, è una di queste. Mi sento vicina al suo spirito, non a caso dovrei fare un documentario – non come regia, è un altro tipo di collaborazione – su di lei. Tutto torna. Ce ne sono mille di fratelli e sorelle spirituali, viventi e non. Mi danno la forza di andare avanti, sono artisti che sono sempre stati degli outsider. Loro si sono riconosciuti in me – quelli viventi – e io in loro. Ci unisce l’orgoglio di sentirci fuori dal coro, ma è una predisposizione con cui si nasce. Non è una cosa che ci si può prefiggere, è il destino».

Ti abbiamo vista al live di Salmo. Stai preparando qualcosa a livello musicale?

«Mi piace tantissimo l’album di Salmo, è uno dei dischi che, in generale, ho ascoltato di più quest’anno. Anche con i miei figli, ci fa molto ridere quando mi “cita”. In questo momento, però, ho avuto la forza solo di fare queste polaroid».

Quindi niente musica…

«Non ho avuto tempo per pensarci, ma sono in contatto con tantissimi musicisti e ci sono progetti in ballo. Sicuramente, quando starò meglio, mi verrà voglia anche di scrivere testi e collaborare. Ho fatto, però, tantissimi dj set quest’inverno, non li facevo da anni. Avevo smesso perché non mi divertivo più».

Com’è andata?

«È stato divertente, ma stancante. La nightlife, per me, è troppo faticosa: mi sveglio la mattina presto per portare i miei figli a scuola. Va bene per un periodo, mi è servito e mi piace sempre condividere la musica e i generi che conosco, però ora mi sono pure stufata».

Anche la regia, in questo momento, è difficile da ipotizzare?

«Ho fatto solo polaroid, non ho avuto modo di pensare ad altro. Tutto il resto tornerà, in questo momento sono completamente svuotata. Ora farò una trasmissione su Rai 2, Realiti, con Enrico Lucci. Inizierà l’8 maggio, un format completamente nuovo, molto buffo, assurdo, una specie di Truman Show».

Cosa farai?

«Diciamo che dirò la mia. In questo momento riesco solo a fare foto ed essere me stessa. Anche a X Factor dovevo essere semplicemente me stessa. Questa cosa mi risulta più facile di questi tempi. Tutti mi incoraggiano a scrivere, pensare a film, a regie, ma non è quello che mi sento di fare in questo momento».

Senti, ma X Factor, almeno come rivincita, lo rifaresti?

«Come rivincita no, sarebbe come tornare insieme a un fidanzato che ti ha fatto tanto male, che ti ha trattato in malo modo. Quindi bisognerebbe vedere, col tempo, se si ha voglia di avere a che fare con questo fidanzato un po’ stronzo. Magari ne trovi uno più bello, più accogliente, più tuo e più innamorato di te».

Ma di The Voice of Italy che mi dici? Sembrava dovessi fare il coach.

«Sono tanti i discorsi che si fanno, però come tutto quel che mi riguarda, anche quando i discorsi sono molto lontani, si danno per certi. Parlare di qualcosa non vuol dire che ci sia la volontà. Con The Voice non c’è stato nemmeno un vero discorso».

E il lavoro di attrice, invece?

«Ah, sì. Sto facendo un film. Lo vedi, non sono molto brava a farmi auto-promozione».

Di che film si tratta?

«È l’opera prima della regista belgo-turca Banu Sivaci. Ha già fatto dei corti bellissimi. Lo giriamo in Belgio e in Olanda».

Il tuo ruolo?

«Interpreto la madre del protagonista, che è un ragazzo di diciotto anni, ma sono solo nei suoi ricordi».

Qual è la trama?

«È ambientato in un futuro distopico, in cui il sole fa venire l’acufene solo a una parte della popolazione. Questa cosa manda le persone fuori di testa e si fanno tutti di un collirio che, per un attimo, li distoglie da questo suono così forte che li porta a fare gesti estremi. Non tutti credono che alcuni essere umani sentano questi suoni e, questi sfortunati, sono costretti a vivere sottoterra. Questa è la storia».

Come sta andando?

«Mi diverte molto, mi piace il film, mi piace l’atmosfera sul set, mi piace la regista. Poi è un lavoro che non mi toglie troppo tempo e non mi fa stare molto lontano dall’Italia, visto che ho due figli».

Il titolo del film?

«Sans Soleil, che significa “senza sole” in francese».

Nella tua vita si può dire che il sole è mancato per troppo tempo.

«Ma ce ne sono state più di una, di cose tremende. Ora che è qualche settimana che non mi succede niente di brutto, sto iniziando a ridermela sotto i baffi. Dopo avere ricevuto ogni giorno una brutta notizia, ho quasi paura a gioire, ma a questo punto ne ho talmente bisogno che me la rido».

Ci sono state, però, persone che ti sono state vicine, come Vera Gemma.

«Perché lei è vera. Tutte le mie amicizie, le persone di cui mi fido, sono del mio periodo pre-lavorativo. Di loro mi fido».

Perché sono tutte del periodo pre-lavorativo?

«C’è qualcosa nella fama e nelle cose fittizie e fatue, che per chi non ce le ha, sembrano la luccicanza extra terrena. Le persone con cui condivido e ho condiviso tutto me le tengo ben strette, le posso contare su una mano, non mi hanno mai tradito».

Qualcuno ti ha deluso?

«Tutti, a parte la mia famiglia e questi tre/quattro amici. Però è bellissimo: è una grande pulizia, è come il serpente che cambia la pelle e si toglie tutta la zozzeria di torno. Gli scarafaggi sono rimasti attaccati alla pelle vecchia».

Come ti vedi da qui a un anno?

«Non ci penso nemmeno. Già è tanto vivere alla giornata».

MORGAN DA LEGARE. Arianna Ascioni per il Corriere della sera il 10 aprile 2019.  

Passioni tormentate. Lo abbiamo visto a Sanremo mentre metteva a ferro e fuoco il palco dell'Ariston insieme ad Achille Lauro e tra poche settimane Marco Castoldi in arte Morgan inizierà la sua nuova avventura come giudice a «The Voice». Ma in questi giorni, complice il passaggio della scorsa settimana nel salotto serale di Barbara d'Urso per uno scontro uno contro tutti, l'attenzione di molti si è più concentrata sulla sua tumultuosa vita privata che sui progetti professionali in partenza, anche a causa delle sue dichiarazioni su Asia Argento («Non sono bravo a recitare come lei») e Jessica Mazzoli («Lei ha deciso di andarsene, pretendendo soldi»).

Con Asia, amore ribelle. «Il vero amore dura per sempre, anche quando non si sta più insieme. Nulla scalfisce l'incontro di due anime» aveva raccontato Asia Argento al settimanale F nel 2016. Quello tra lei e Morgan è stato sicuramente un rapporto travolgente e tormentato: si sono conosciuti e messi insieme nel 2000, lasciati nel 2007 e ancora oggi continuano - a giorni alterni - a scontrarsi e fare pace. Sia durante la loro relazione sia dopo la rottura le loro strade si sono incontrate spesso anche a livello artistico: in tv ad esempio i due sono apparsi insieme ad «X Factor» (più di una volta) e a «Ballando con le Stelle» (2016). Morgan - che aveva scritto per lei la colonna sonora del film «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa» (2004) - ha anche partecipato all'album di Asia «Total Entropy» del 2013.

Jessica, galeotto fu X Factor. Sono ormai lontani i tempi in cui il frontman dei Bluvertigo dichiarava ai quattro venti il suo amore per l'ex concorrente di «X Factor» Jessica Mazzoli (attualmente reclusa nella casa del Grande Fratello 16): si può dire che si sia trattato di un vero e proprio colpo di fulmine, visto che il cantautore l'aveva già notata durante i casting («Prima è arrivato il suo viso pallido, poi lei», aveva detto a Chi). Ha aspettato che venisse eliminata prima di provarci (perché farlo durante la gara, aveva aggiunto, «sarebbe stato volgare») e quando questo è avvenuto due minuti dopo era già fuori dal suo camerino. Oggi gli strascichi di quella passione lampo, finita in malo modo - e con un comunicato stampa -, forniscono ancora un sacco di materiale per i giornali di gossip e i «caffeucci». Proprio la scorsa settimana Morgan è stato ospite di «Live Non è la D'Urso» per parlare di questa relazione, e ha accusato Jessica di averlo «incastrato».

Anna Lou e Lara. «Jessica mi ha incastrato»: con quell'espressione - poco galante - Morgan ha fatto riferimento alla figlia Lara, nata alla fine del 2012 dopo solo un anno di fidanzamento. Una bambina che, a detta della sua ex, il cantautore avrebbe visto soltanto due volte in sei anni. E che non è nemmeno stata citata nella sua biografia, a differenza di Anna Lou, la sua altra figlia avuta nel 2001 da Asia Argento («l’unica famiglia che io sia mai stato in grado di avere in vita mia»).

Le battaglie legali in tribunale. Citazione o non citazione nella biografia alla fine tutte e due le sue ex hanno trascinato Morgan in tribunale. Due i fronti delle battaglie legali che lo hanno visto protagonista: gli alimenti, versati solo parzialmente, e l'affidamento delle figlie. Nel 2010 Asia aveva anche presentato la richiesta di decadenza della potestà genitoriale in seguito alla discussa intervista rilasciata dall'artista alla rivista Max in cui ammetteva di fare uso di droga.

La casa pignorata. A causa degli alimenti non versati ad Anna Lou dal 2011 il Tribunale civile di Monza nel 2017 gli ha pignorato la casa: «Appena ho sgarrato una mezza volta, e non per mia volontà, ecco che subito arrivano il pignoramento e le diffamazioni - aveva scritto in quei giorni difficili in una lettera  aperta - “Dai massacriamolo, senza un minimo di rispetto!” e non parlo del ricordarsi di aver detto “ti amo”, ma del minimo rispetto di un essere umano». Dal canto suo Asia, messa sotto accusa, sempre tramite lettera aveva risposto: «Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io, l'ha perso lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia». Per impedire il pignoramento molti fan del cantautore si erano mobilitati e contemporaneamente, a distanza di pochi giorni, Morgan aveva deciso di vendere su internet numerosi cimeli appartenenti al suo passato. Ufficialmente per cambiare vita: «Il Morgan che avete conosciuto fino ad oggi è morto — aveva scritto su Facebook —. Chiuso un ciclo di vita, mi preparo ad entrare in uno nuovo fatto di musica nuova, voce nuova, corpo nuovo, stile nuovo. Per compiere questa metamorfosi abbandono definitivamente tutto quello che appartiene al mio passato».

Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano” il 13 giugno 2019. Un flash mob per evitare lo sfratto. A chiederlo è Morgan, il cantante e personaggio televisivo che presto dovrà lasciare la sua abitazione di Monza per effetto di un pignoramento deciso dal Tribunale della stessa città a fine 2017. I giudici avevano accolto le ragioni delle ex mogli di Morgan, Asia Argento e Jessica Mazzoli, che lamentavano i mancati pagamenti degli alimenti per le figlie Anna Lou e Lara, ma da mesi l' ex leader dei Bluvertigo sostiene di non aver rispettato gli obblighi perché trovatosi all' improvviso senza soldi per colpa di chi gli gestiva gli introiti. Adesso, a ridosso dello sfratto e della vendita all' asta della casa, Morgan ha inviato una richiesta d' aiuto ad amici e colleghi. Obiettivo: aiutare "un uomo-artista-cittadino che viene cacciato da casa sua ingiustamente", ricorrendo anche all' occupazione se necessario. Nell'appello il cantante rivendica il suo impegno "di divulgatore musicale a livello nazionale, che sarebbe bastato a non consentire una simile e umiliante circostanza", prima di dare appuntamento ai suoi: "Monza, venerdì 14, ore 9 di mattina. Se verrò arrestato per questo e non per aver commesso un reato sarà perché sono stato lasciato solo". D' altra parte Morgan ha più volte ribadito come, in caso di sfratto, non avrebbe a disposizione altre abitazioni: "Se verranno a sbattermi fuori dormirò sul marciapiede davanti a casa, come un cane che non vuole abbandonare la propria dimora", aveva spiegato a Libero qualche giorno fa. Motivo per cui mobilitare gli amici: "Nessuno è riconoscente? Nessuno è complice? Tutti hanno impegni proprio quel giorno? Dove siete artisti che scrivono canzoni? La pietà dov' è? Indignatevi, vi sto chiedendo esplicitamente di appoggiarmi". A nulla, secondo Morgan, sono serviti i compensi televisivi di questi anni - il cantante è tuttora impegnato come giudice di The Voice, dopo le esperienze ad Amici e X-Factor - perché affidati alle persone sbagliate: "Da una giorno all' altro - aveva scritto su Facebook - sono venuto a sapere che ho un gigantesco debito con l' Agenzia delle entrate, accumulatosi in dieci anni di tasse mai pagate. Non sapevo nulla perché nessuno me lo aveva detto". Da lì i mancati alimenti e la causa in Tribunale, in un momento in cui, stando a quanto dichiarato dal cantante, neanche la vendita della casa risanerebbe i suoi conti in rosso. Nonostante le vicende giudiziarie, oggi Morgan giura agli amici di essere sempre stato "integro, civile e serio" e di essere protagonista di "una situazione insostenibile e moralmente inaccettabile". Per questo il cantante è pronto ora a disobbedire alla legge per mantenere la casa: "Come dice Silvano Agosti, una volta che uno ha un tetto, dei vestiti e del cibo tutto il denaro in più è una sconfitta, una protesi per comprarsi il pezzo di mondo che non ha dentro di sé. Bene, a me stanno togliendo il tetto".

Da Tgcom24 il 13 giugno 2019. Non è la d’Urso" si oppone con forza alla precaria situazione che lo coinvolge. “Le leggi non sono la giustizia” dice l'artista, che tra due giorni sarà costretto a lasciare la propria casa per motivi economici. “Un provvedimento immorale, bisogna essere vuoti di cervello e di cuore. Come si può attaccare alla legge quando è sbagliata? Perché lo Stato mi deve uccidere?" "Prima di liberarmi dalla casa dovrò prendere tante cose, tra cui dischi di De Andrè - questo peraltro è il De Andrè che conosco" aggiunge, una probabile stoccata a quella Francesca De André che ha fatto e sta tuttora facendo molto discutere dopo quanto successo al "Grande Fratello 16". Morgan cerca poi di raccontare come si sia trovato in questa spiacevole situazione. “Non parlerei di colpa, non mi piace, al limite di responsabilità” spiega riferendosi anche ad Asia Argento. L’ex coach di "X Factor" e "The Voice" ci tiene però a precisare: “Non sono sfrattato a causa dei debiti. Mi sono ritrovato nel 2015 con un'enorme quantità di tasse non pagate, questo per colpa di un commercialista truffaldino ha gestito malamente la mia situazione finanziaria. Quello stesso anno tutti i compensi che ho preso li ho dovuti versare all’agenzia delle entrate e non ho ancora saldato il debito. Più lavoro e più riesco a ottemperare a questa cosa”.

Morgan ha un malore, sfratto rinviato: «In 7 giorni devo trovare 200 mila euro». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Valentina Baldisserri su Corriere.it. E alla fine lo sfratto non c’è stato. A Morgan sono stati concessi altri sette giorni di sospensione del provvedimento. Il cantante ha avuto un malore all’arrivo degli ufficiali giudiziari nella sua casa di via Adamello a Monza e, vista la situazione, considerate le buone intenzioni dell’inquilino, il custode giudiziario incaricato di procedere con lo sfratto ha deciso di dargli altro tempo. «In questi sette giorni cercherò di raccogliere, con l’aiuto di tanti miei amici che mi sono accanto, la somma sufficiente a ricomprarmi la mia casa. In queste quattro mura c’è la mia vita e c’è il mio lavoro- si è sfogato l’artista - questa casa è come un museo, non può essere smantellata». Ore difficili quelle trascorse nella mattina di venerdì al civico 8, nella residenza del cantante sottoposta a pignoramento per debiti non onorati e già venduta all’asta. Il pignoramento è stato deciso dal Tribunale di Monza alla fine del 2017, in seguito a ingiunzioni per mancato pagamento degli alimenti per le due figlie Anna Lou (avuta da Asia Argento) e Lara (avuta da Jessica Mazzoli). Capannello di giornalisti e cameraman sin dall’alba, un gruppo sparuto di fan in attesa, amici e parenti in processione, l’amico e cofondatore dei Bluvertigo, Andy. E’ arrivata anche la figlia piccola di Morgan, Lara di 6 anni, nata dalla relazione con Jessica Mazzoli conosciuta a X Factor e presente a Monza in segno di solidarietà. All’esterno della casa il cantante aveva appeso sin dall’alba un cartello che citava articoli della Costituzione, come l’articolo 9, che sancisce come la Repubblica promuova lo sviluppo della cultura: «Io sono promotore della cultura a livello nazionale, la mia casa è un museo» ha ribadito Morgan. Morgan ha raccontato ancora perché si trova in questa situazione. Ha parlato del commercialista truffaldino che non avrebbe pagato le sue tasse, e del debito che si è accumulato nei confronti di Equitalia, pari a circa 350 mila euro. «Non avevo più modo di pagare gli alimenti alle mie figlie, si è innescata una macchina infernale che mi ha portato a perdere la mia abitazione che io avevo acquistato per 760 mila euro ed è stata svenduta per 250 mila». Evitare lo sfratto, ormai esecutivo, sarà davvero molto dura. Soltanto un atto di generosità di chi l’ha acquistata (per ora rimasto anonimo) potrebbe restituire a Morgan la sua casa.

DIO LI FA E POI LI ACCOPPIA.  Vittorio Sgarbi trova casa a Morgan. Lo storico e critico d’arte ha messo a disposizione del musicista il secondo piano di Palazzo Savorelli a Sutri, la cittadina della Tuscia di cui Sgarbi è sindaco dallo scorso anno. Il Palazzo, che ha una storia secolare, è immerso in un grande parco ed ospita attualmente le iniziative culturali promosse da Sgarbi. “Ho impartito le necessarie direttive ai miei uffici - spiega Sgarbi - perché, almeno fino alla scadenza del mio mandato (tra 4 anni) Palazzo Savorelli possa ospitare lo studio di Morgan. Qui potrà trasferirsi già nei prossimi giorni. L’arte e la creatività vanno sostenute in maniera concreta. Qui Morgan potrà insegnare il suo magistero ai giovani sensibili alla musica”

Da “la Zanzara – Radio24” il 28 giugno 2019.  “Ho risolto la questione Morgan. Andrà in una parte di Villa Savorelli, un palazzo comunale bellissimo con un intero piano vuoto e mi pare giusto occuparlo…”. Vittorio Sgarbi parla a La Zanzara su Radio 24 della vicenda Morgan e nasce uno scontro di fuco con Giuseppe Cruciani. Dice Sgarbi: “Lui può fare un’accademia di musica per insegnarla ai giovani”. Cruciani: “E i disoccupati e la gente che perde la casa?”. Sgarbi: “Ma vuoi capire, testa di cazzo che è più importante l’arte? Perché essa insegna. Cosa c’entrano i disoccupati, coglione. Non dire stupidaggini. Un genio va aiutato. Se tu hai Michelangelo, tu lo fai lavorare, testa di cazzo. Non permetterti di far retorica con me. Demagogo di merda. Non ti permettere, non fare lo stronzo. Un genio va aiutato”. Vuoi dargli soldi pubblici, dice ancora Cruciani: “Non sono soldi pubblici. Vai a fare in culo, non gli dò niente, gli dò uno spazio inusato, vuoto. Pubblico perché insegni, perché insegni anche a te, testa di cazzo”. Cruciani: Le bollette chi le paga?: “Le bollette le pago comunque perché sta aperto come consiglio comunale per una parte di consiglieri inutili, testa di cazzo. E i barboni  di Sutri?: “Quanto ti pagano? Quanto ti pagano per fare lo scemo alla radio? Quanto ti pagano, testa di cazzo?”. E i disoccupati e i barboni, dice ancora Cruciani: “Non c’entrano niente, i barboni te li metti a casa tua, testa di cazzo, coglione”. Perché vuoi dare un posto pubblico a Morgan che potrebbe tranquillamente affittarsi una casa?: “Voglio dare un posto in cui lui paga con la sua arte, cretino. Si affittasse una casa? Non deve affittarsi niente perché lui lavora gratis, come non fai tu, testa di cazzo. Lui insegna ai giovani quello che tu non sai e non saprai mai, perché sei un ignorante e un imbecille. Non ti permettere, la retorica la usi con gli altri. Sei un cretino, devi fare da controparte, che controparte fai? D’Annunzio ha avuto il Vittoriale da Mussolini”. Ma che c’entra D’Annunzio?: ”Ringraziamo il cielo che lo ha avuto. Testa di cazzo, Morgan è un genio e tu sei un coglione…sei una merda, retorico, peggio di Giordano. Quanto guadagni, quanto guadagni? Lui paga insegnando”. Ma è un posto pubblico: “E’ pubblico ma è vuoto. Ed io pago lo stesso la luce, testa di cazzo”. Potrebbe tranquillamente con i cachet che prende ai concerti prendersi una casa, ribatte ancora Cruciani: “Non fare la morale per gli altri. Inetto, inutile”.

Da tusciaweb il 28 giugno 2019. Vittorio Sgarbi dà il secondo piano di villa Savorelli a Morgan, che ha da poco perso la casa. Tra il sindaco di Sutri e il giornalista Giuseppe Cruciani volano gli stracci. Su Radio 24, alla Zanzara. Per Cruciani, “a Sutri c’è gente che ha bisogno di un tetto: barboni, disoccupati e persone che perdono la casa”. Ma “Sgarbi vuole dare un posto pubblico… vuole mettere Morgan a villa Savorelli”. Secondo il sindaco di Sutri, però, “i disoccupati non c’entrano”. E, nel rispondere a suo modo al giornalista, urla: “Non dire stupidaggini, non ti permettere di fare il retorico con me. Demagogo. L’arte è più importante, perché insegna”. Sgarbi poi spiega: “A Sutri, a villa Savorelli, che è un posto comunale, ho un intero piano vuoto. Lo volevo dare a un’accademia d’arte di Emmanuele Emanuele. Ma si è comportato in modo scostante e maleducato e non mi pare più giusto darglielo, gli toglierei anche la cittadinanza onoraria. Così lo do a Morgan, che può portare lì le sue cose e farci un’accademia per insegnare la musica ai giovani”. Cruciani chiede: “Ma le bollette chi le paga?”. “Io, come comune – ribatte Sgarbi -. Per quel piano la luce la pago lo stesso, anche se vuoto. Morgan ripaga insegnando la sua arte. Io non gli do niente, non gli do dei soldi. Gli do un posto pubblico, ma vuoto, perché insegni e perché metta lì delle cose importanti: il suo archivio, perché l’archivio di un vivente è importante come quello di un morto. Voglio che Morgan lavori per me gratis, e ho avuto il consenso di tutti. Il presidente della commissione cultura del Senato ha detto di essere d’accordo. Morgan è un bravissimo artista, che va aiutato”. Anche per Cruciani, “Morgan è bravissimo. Ma – dice – si può aiutare da solo perché prende dei cachet. Affittasse una casa come tutti e mettesse lì le sue cose. Non c’è bisogno di dargli degli spazi pubblici. A Sutri che ne pensano?”, chiede più volte il giornalista. “Devono ringraziare – conclude Sgarbi – di avere un sindaco che fa di Sutri una città ospitale”.

Morgan, Filippo Facci sullo sfratto: "Ha insultato i poliziotti, che hanno più dignità di lui". Libero Quotidiano il 26 Giugno 2019. L'hanno sfrattato, e d'accordo. Ma, artisticamente parlando: chi si incarica - è una domanda - di prendere a schiaffi Marco Castoldi detto Morgan? Altro che discussioni sulla sinistra dei nessuno (tipo Tomaso Montanari) che invadono i temi di maturità, altro che vecchi discorsi sull' egemonia culturale: qui l' abbiamo l' egemonia degli stronzi televisivi ma nessuno dice niente, anzi, i siti dei quotidiani si compiacciono e piazzano i video con gli insulti di questo fallito ai poliziotti che l' hanno legittimamente sfrattato da casa: come se lo spettacolo dovesse sempre continuare. Dunque ripeto, e chiedo: chi si incarica? Devo farlo io? Ne avrei titolo: sono nato a Monza come Morgan, ho la cultura musicale di quarantacinque Morgan (che faceva il figo, ieri, e citava Stockhausen, i cui concerti andavo a vedere nel 1986, quando Morgan non guidava ancora il motorino), ma soprattutto ho appena vissuto un' esperienza simile all' ex povero marito di Asia Argento: con la differenza che io ho dovuto vendere la casa di mia proprietà (la casa dei miei sogni) per darne il ricavato a Equitalia, mentre Morgan, scandalizzato, si è fatto sfrattare dalla casa di sua proprietà (perdendo tutto) pur di non pagare i debiti dei cittadini qualsiasi, quelli che non sono «artisti» e tirano avanti senza pettinarsi come Crudelia De Mon e usare cocaina come antidepressivo. Ma tornando allo sfratto: come ha reagito questo «artista», conosciuto per aver sposato una che dopo di lui, piuttosto, si è messa a limonare coi cani? Sentite che cosa ha detto alle forze dell' ordine che sono andate a sloggiarlo: «Lei è un boia codardo mamma mia che faccia da sbirro analfabeti come siete a voi le parole vi fanno paura perché siete poveri di letteratura siete ridicoli avete la faccia di gente che ha sempre preso cinque a scuola, perché voi non sapete un cazzo». Un classismo snobistico schifoso, e dall' alto di che cosa? Ripetiamo: di-che-cosa? Verrebbe l' impulso di citare Pier Paolo Pasolini, quello che «simpatizzava coi poliziotti perché sono figli di poveri» e che detestava i giornalisti che inseguono i Morgan, ma non vale la pena: sia perché a esser poveri, ormai, sono i giornalisti, e sia perché oggi i poliziotti non sono più appunto «poveri» (anche se non navigano nell' oro) ma è gente che si fa il mazzo e banalmente paga le tasse, gli affitti, i mutui, gente che non si fa pignorare casa; anche se magari pensano che Stockhausen sia un esterno del Bayern. «I poliziotti si cagavano sotto perché io avevo l' arma della parola e gli stavo leggendo dei sonetti di Shakespeare avevano già la mano nella fondina mi volevano far paura con le armi». È sempre il buffone a parlare: a smentirlo ci sono i video, dove i poliziotti sono tranquillissimi e hanno il pathos di chi sta comprando un etto di prosciutto. Poi, vabbé, c' è lo stupore di Morgan perché altri suoi amici «artisti» non l' hanno aiutato economicamente (Morgan ne cita qualcuno: Vasco Rossi, Jovanotti, Zucchero, Ligabue) i quali vengono definiti non «amici» (non più) bensì «individualisti che promuovono l' individualismo, perché loro devono fare il disco loro hanno come priorità il loro disco, come se al mondo importasse, come se fossero Stockhausen». Ridaje con Stockausen, forse l' unico che in Italia ha venduto meno di Morgan: del quale vi sfidiamo a ricordare una canzone che sia una. Quanto agli altri, oh, è davvero strano che dei cantanti (che a differenza di Morgan qualche canzone riescono addirittura a venderla) pensino a fare dei dischi anziché affrettarsi a elargire paccate di soldi a uno che non ha pagato i debiti o gli alimenti all' ex moglie, Asia Argento, altro personaggio - esattamente come Morgan - «famoso per essere famoso», come direbbe Roberto D' Agostino. A chi gli ha chiesto della questione degli sfratti nel Paese, Morgan ha risposto: «Sono al fianco di chi occupa le case, facciamo una battaglia per i diritti, avevo anche chiesto di venire a occupare la casa». Traduzione: manco i centri sociali se lo sono filato. Filippo Facci

Simone Bauducco per Il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2019. “Sono l’ultimo bohémien di questo paese. Oggi mi sfrattano, ma questa è la legge, non è la giustizia che è al di sopra della legge”. Questa mattina Marco Castoldi, in arte Morgan, ha lasciato la sua villetta di Monza, dopo che nel 2017 il Tribunale aveva deciso per il pignoramento in seguito al mancato pagamento degli alimenti alle figlie delle sue ex mogli e un debito con Equitalia. Dopo il rinvio dello sfratto della scorsa settimana, l’artista aveva provato a salvare l’immobile senza successo e oggi punta il dito contro il sistema giudiziario e contro i suoi colleghi che lo hanno lasciato solo: “Vasco, Jovanotti e Ligabue pensano solo a fare dischi, non sono stati al mio fianco”. Di fronte ai giornalisti ha raccontato di aver passato l’ultima notte scrivendo due canzoni e a chi gli chiede della questione degli sfratti nel paese: “Sono al fianco di chi occupa le case, facciamo una battaglia per i diritti, avevo anche chiesto di venire a occupare la casa”.

Valentina Baldisserri per corriere.it il 24 giugno 2019. «Non sono preparato a questo, né psicologicamente né praticamente...». Il giorno della resa dei conti è ormai arrivato per Morgan che affida al suo canale ufficiale sul web gli ultimi affannosi pensieri alla vigilia dello sfratto che stavolta sembra inevitabile. Sono le ultime 24 ore (o anche meno) in quella che è stata la sua casa e che dopo il pignoramento deciso dal Tribunale di Monza nel 2017 per debiti, è stata venduta all’asta. Morgan dovrà andar via dal civico 8 di via Adamello martedì 25 giugno, quando arriverà il custode giudiziario e lo inviterà ad uscire. Dieci giorni fa fu rinvio per un malore, questa volta difficilmente potrà intervenire qualche novità che salvi Marco Castoldi da un destino segnato. E di questo oggi il cantante, aldilà della teatralità dei gesti, sembra ben conscio. Dei 200 mila euro che Morgan aveva detto di voler raccogliere in pochi giorni per fare un’offerta a chi aveva comprato all’asta la sua casa, non si parla neppure più. Evidentemente la colletta non ha funzionato. Così il cantante ha deciso di entrare in contatto col nuovo proprietario della sua ex abitazione. Gli ha scritto su whatsapp, gli ha chiesto di incontrarlo nel tentativo forse di cercare un’ultima sponda. «Per me tutto ciò rappresenta un grande dolore che si aggiunge ad una vita complessa e tragica che trova un senso nella creatività ma è innegabilmente piena di ferite: Io devo elaborare questa nuova sofferenza come si elabora un lutto, con forza e statura morale». L’altro gli ha risposto di sì all’incontro , ma soltanto dopo lo sfratto. Nessun aiuto dunque, nessun ripensamento. E la delusione di Morgan è esplosa colpendo un po’ tutti, anche quei colleghi «Che non hanno mosso un dito», quegli amici a parole «ma quando si tratta di dare...», quei parenti della famiglia paterna : «Che hanno la casa di mia nonna disabitata ma a me non la danno...». La mamma di Morgan, in una conversazione whatsapp resa pubblica, lo consola e lo sprona ad andare avanti nonostante questo sfratto: «So che la cosa per te ha tanti ricordi ma uno giovane come te ha anche bisogno di cose nuove. Confido in una tua maturità. Sorridi il lavoro ti va bene, hai tanta gente che ti vuole bene, sei un musicista».

Da la Zanzara – Radio 24 il 25 giugno 2019. “Nella Costituzione si parla di protezione dell’essere cittadino, dell’uomo, in quanto lo Stato garantisce il diritto al lavoro e fa in modo che tutti gli ostacoli che vanno a impedire il diritto sacrosanto al lavoro, verranno rimossi dalla Repubblica. Allora io dico che se questa casa è un luogo di vita ed io non ne ho un’altra, un luogo dove c’è tutto il mio lavoro, tutto, completamente tutto, quindi ci sono i miei strumenti, c’è il mio archivio, il mio passato e il mio futuro e gli strumenti di lavoro, vuol dire che questa è una doppia azione contro di me. Non solo va ad impedire quella che è la mia vita… cioè io non avrò più un tetto, ma neanche il lavoro”. A La Zanzara su Radio 24 Morgan parla di Costituzione violata a proposito dello sfratto, poi attacca il conduttore Giuseppe Cruciani e i suoi colleghi artisti definiti “codardi”: “La casa non dovrebbe essere pignorabile. Ma se la perdi ti devono almeno dare dei servizi, lo Stato deve farlo. Ma cazzo, quando uno ha un figlio handicappato, ce l’ha perché ha fatto un errore nella vita. Gli errori sono umani….La gente ha dei bambini, figli handicappati nel momento in cui saranno tossicodipendenti…(?)… hanno fatto un errore, ma come fanno li uccidono?”. Ma tu qualche errore l’hai fatto coi soldi: “Tu devi indagare il perché sono arrivato ad una situazione debitoria. Non puoi portar via una casa ad uno che non ne ha un’altra. Lo uccidi.Ma che cavolo me ne frega di dirli a voi gli errori. Vai in tribunale a parlarne, occupatene”. Non c’è lo Stato cattivo e il Morgan buono: “Sei anche una persona insensibile, se fai così. Non solo un po’ sciocco, anche insensibile. Oltre a problemi di ragionamento, hai anche problemi di cuore”. Poi Parenzo dice: Io sto con Morgan. E lui: “Ma va a quel paese. Parlate di cose che non capite”. Perché i tuoi colleghi non ti stanno aiutando?:  “I miei colleghi sono, diciamo così, dei codardi. Perché pensano solo al loro denaro, pensano solo al loro disco, alla loro classifica. Fanno finta di essere dei cantautori impegnati, ma sono impegnati stocazzo. Non sanno neanche così significhi più l’impegno da un punto di vista sociale e culturale. Questa è gente che pensa solo ai conti in banca. Jovanotti, Ligabue, Zucchero, tutti, tutti. Vasco Rossi comunista di chi, di che? Comunista, ma quale comunista? Si fanno i cazzi loro e basta. Nessuno che parla, nessuno che dice, nessuno che fa un dibattito. Ma dov’è l’intelligenza in questo paese? Siamo morti da anni. Non ci caga nessuno, non ci caga nessuno. E fanno bene. Non siamo nessuno. Siamo degli sfigati provinciali morti...”. Questo solo perché non dicono una parola su di te?: “Ma va a cagare. I miei colleghi non sono stimolabili, non hanno un briciolo di reazione. Perché soltanto l’empatia con un collega che fa determinate dichiarazioni…Loro sono tanto bravi però tu vendi centomila copie e vengono a chiederti di fare il duetto. Io ho venduto cento, tu hai venduto cento, allora possiamo fare il duetto. Così ragionano questi coglioni. Lo vuoi capire che pensano solo ai soldi, perché non c’hai un’idea di quello che fanno…. Di questi qua in realtà non voglio neanche parlarne. Non ascolto la loro musica perché fa cagare. Loro dicono devo fare un disco, devo fare un disco, ma quel devo devono toglierselo. Quando dicono mi dispiace Morgan, amico, ti vogliamo tanto bene, ma sono in studio, non posso venire. Devo fare un disco. Devo. Ma questo dovere dove sta? E’ il dovere di mantenersi un conto corrente. O il dovere che certi menomati lobotomizzati ascoltano la loro musica. Sappiano questi signori che nel mondo non gliene frega un cazzo a nessuno di quello che fanno. E’ ovvio che siano completamente stupidotti. Sono finti pensatori. Io invece avrei l’ideale, diciamo, di una classe di cantautori come De Andrè, come Tenco, come Gaber. Facevano battaglie questi signori”. Qualcuno ti sta aiutando però: “Mi sta aiutando la moglie di De Andrè e sai perché? Non è che Dori Ghezzi sia Fabrizio De Andrè, sono ben diversi, ma almeno respira ed ha respirato quella che è l’anima di un grande poeta come De Andrè, che si sarebbe incazzato come una bestia di fronte ad una cosa del genere”. Non è che se non ti aiutano, diventano immediatamente dei figli di puttana, forse hanno sempre pensato ai cazzi loro: “E bravo, vai a difendere una società di individualisti di merda. Vai a difenderla, complimenti. Poi il risultato sai qual è? Che in questa società, diciamo dell’Italia di oggi, alla fine c’è un sacco di pattume in giro. L’individualismo rende una merda il paese che invece è bellissimo. E’ un paese dove non gliene frega un cazzo a nessuno di niente. Io mi lamento perché sono una persona che ha dato tantissimo, dato tanto tanto tanto per il vostro sollazzo di segaioli davanti al televisore. Per divertire voi, coglioni. Non siete in grado di raccogliere questo esempio. Mi fate vivere una situazione indecente che non merito”. Ma forse te la sei creata da solo e poi anche tu sei uno che vende un prodotto: “Me la sono creata da solo? Smettetela. Anche io vendo il mio prodotto? Non rompere, dai, sei stupido, io non parlo con uno stupido. Sei stupido. Anch’io vendo? Io adesso mi metto a vendere il deretano in viale Zara. Domani dove vado? Che cosa te ne frega? Perché sei uno di quelli che non raccoglie assolutamente nulla di quello che ho detto”.

Dagospia il il 25 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Massimiliano Parente: Caro Dago, sono commosso dallo psicodramma di Morgan che accusa Vasco Rossi, Jovanotti e Ligabue siccome, avendo lui ricevuto lo sfratto, loro non gli danno i soldi per aiutarlo perché "non sono dei veri comunisti” e “ pensano solo ai soldi". Sinceramente non so quanto Vasco Rossi si sia mai dichiarato comunista, ma forse gli altri due sì, e il principio è giusto. E quindi, vivendo io da vent’anni solo di diritti d’autore, ho pensato di chiedere pubblicamente un bonifico a Roberto Saviano, a Erri De Luca, a Michela Murgia, a Antonio Scurati, a praticamente tutti gli autori italiani, i quali sicuramente guadagnano molto più di me, molto più di me che fatico perfino a pagarmi una escort, e a differenza mia non hanno mai scritto opere fondamentali. Tra l’altro io non sono comunista, loro sì, dovrebbero farlo per partito preso. Ringrazio Morgan per aver sensibilizzato l’opinione pubblica su questa grave tematica artistica, ideologica e sociale. Baci, Massimiliano Parente.

Morgan e Asia Argento, dall'amore agli scontri in tribunale (e a «Live - Non è la D'Urso»). Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Corriere.it. Lo sfratto incombe ma Morgan non ha intenzione di muoversi dalla sua abitazione, pignorata e battuta all'asta a causa degli assegni per il mantenimento della figlia Anna Lou non versati. In collegamento mercoledì sera a «Live - Non è la D'Urso» il cantautore ha rinnovato la richiesta di aiuto alle madri delle sue due figlie: «Io chiedo aiuto morale, chiedo di ritornare ad essere persone sensibili e capaci di dialogare. Non chiedo soldi, smettiamola di litigare». Destinatarie dell'appello Jessica Mazzoli, ex concorrente di «X Factor» e del «Grande Fratello 16» nonché mamma di Lara, ma soprattutto Asia Argento. È stata quest'ultima infatti a dare il via al procedimento giudiziario che lo priverà dell'amata casa, ultimo atto di un rapporto caratterizzato - da sempre - da alti e bassi.

Taylor Mega durissima contro Morgan: "Grazie a Dio mi sono disintossicata". Lo sfratto di Morgan è stato bloccato a seguito di un malore. Ma proprio in queste ore, Taylor Mega lancia una frecciatina al veleno. Anna Rossi, Venerdì 14/06/2019, su Il Giornale. Proprio questa mattina sarebbe dovuto iniziare lo sfratto di Morgan. La sua casa, infatti, è stata pignorata per il mancato pagamento degli alimenti ai figli delle ex compagne Asia Argento e Jessica Mazzoli. Tutto sembrava pronto, tutto era stato annunciato anche nel corso dell'ultima puntata di Live-Non è la d'Urso, ma ora sembra essere arrivato lo stop perché Morgan sta male e fuori dalla sua abitazione a Monza si sono fatti trovare decine di fan del cantante. Come riportato da Fanpage, quindi, pare che lo sfratto previsto per oggi, sia stato rimandato e che per il momento Morgan potrà rimanere nella sua abitazione in via Adamello a Monza. Il motivo del rinvio sarebbe l'arrivo di un medico sul posto, chiamato – probabilmente – per soccorrere il cantautore colto da un improvviso malore. Ma questi sono i fatti, ora spunta un commento piuttosto duro. Nel corso dell'ultima puntata di Live-Non è la d'Urso, infatti, Morgan si appellava ai suoi fan chiedendo di aiutarlo a "boicottare" questo sfratto. Il video dell'appello è diventato virale sui social e anche un'insospettabile Taylor Mega ha voluto commentarlo. "Ringrazio Dio di essermi disintossicata e di non aver fatto sta fine", scrive Taylor. Parlo fortissime che vanno a virare su un altro tema. Sempre piuttosto delicato...

Grande Fratello, Jessica Mazzoli e la rivelazione intima su Morgan: "Mi ha inseguito nei camerini e poi...", scrive il 14 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Nuovi clamorosi dettagli sulla storia tra Jessica Mazzoli e Morgan. Al Grande Fratello è la giovane cantante a rivelare com'è nata la relazione con il cantante, poi finita in disgrazia con tanto di figlia trascurata dall'ex leader dei Bluvertigo. I due erano rispettivamente giudice e concorrente a X Factor 2012. Una sera "mi ha inseguito nei camerini, ero appena stata eliminata dalla semifinale, e mi ha detto: Ti amo, voglio passare la mia vita con te. Questo è stato l'inizio. Per un periodo le cose andavano benissimo, altrimenti non avrei deciso di farci una figlia". Poi però è andato tutto a rotoli e a coinquilini della casa Jessica non lesina altri particolari privati: "Lui in tv da Barbara D'Urso ha detto che vorrebbe dei rapporti con mia figlia. E poi non mi risponde al telefono? Poi ha detto che a Natale stava male. Pensa che a Natale gli volevo pagare il viaggio per vedere la bimba. Meglio che sto zitta, per lui esiste il Dio denaro. Io non voglio fargli fare figure di merda, io sto solo dicendo la verità su me, lui, Asia Argento, la nuova ragazza e quello che è successo".

Grande Fratello, Jessica Mazzoli e la D'Urso "sotto choc". Corna e lingerie: "Con chi mi tradiva Morgan", scrive il 14 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Barbara D'Urso era shoccata". Nella casa del Grande Fratello la ex di Morgan, Jessica Mazzoli, continua a regalare ai coinquilini dettagli piccanti sulla storia con il cantante ex leader dei Bluvertigo e giudice di X Factor, con cui ha avuto una storia e una figlia e con cui ora ha rapporti ai minimi termini. "Ma come può dire che l'ho incastrato? - si sfoga Jessica - Ma ci rendiamo conto? Mi ha fatta soffrire. Barbara era sconvolta. La D'Urso era senza parole proprio. Lui ha detto in diretta Jessica mi ha incastrato. Io me ne sono andata che la bambina aveva tre mesi. Lui mi ha portato ad andare via. Siamo stati in casa insieme più di un anno. Lui ha sempre espresso il desiderio di volere un altro figlio. Io ero appena uscita da X Factor mi avevano chiamato per lavorare da Teresa Mannino. Però per me era presto diventare mamma. Lui ci provava, così tanto, stavamo insieme, ci amavamo e così è successo. Poi è finita dopo che è nata la bambina. Ma il bello è che io sono venuta a sapere che lui stava con questa ragazza che io mi ritrovavo sempre nelle hall degli alberghi quando stavo con lui. Una groupie pazza di quelle che seguono i cantanti. Con questa ci sta ancora, con una sciroccata. Ma poi lui mi diceva Questa ragazza è una spalla per me. Ma non ci credo, loro stavano insieme già da prima. Lei è andata a trovarlo insieme ad un'altra ragazza, quando io stavo ancora con lui. Una volta trovai della biancheria intima non mia". La Mazzoli è un fiume in piena: "Io mi sentivo con Asia Argento in privato e lei faceva la solidale con me, visto che c'era passata da quella situazione. Io mi aspettavo che mi potesse dare dei consigli. Lei invece ha contribuito a questa cosa per i suoi scopi e interesse personali. Però vabbè, sti cavoli di Asia. Qui lo stronzo era lui".

Gf, la ex di Morgan attacca: "Se vuole vedere sua figlia deve fare un percorso psicologico riabilitativo". La ex di Morgan replica alle accuse del cantante: "Io non l'ho incastrato. Nostra figlia è frutto dell'amore", scrive Serena Pizzi, Martedì 09/04/2019 su Il Giornale. Il Gf parte col botto. Il cast è letteralmente esplosivo, la conduttrice e gli opinionisti pure. Dopo un primo sketch fatto di battute e presentazione dei primi concorrenti, è arrivata la volta di Jessica Mazzoli, la ex compagna di Morgan. Jessica ha passato gli ultimi quattro giorni chiusa in un albergo, lontana da televisione e telefono. Per questo non ha potuto vedere quanto dichiarato dal suo ex a Live-Non è la d'Urso. Nel corso dell'ultima puntata, infatti, Marco Castoldi ha spiegato di voler fare il padre, ma che Jessica glielo impedisce. Per questo non ha mai visto in sei anni sua figlia Lara, se non due volte. Per Morgan, quindi, la colpa è di Jessica ("Lei mi ha incastrato"), ma per la Mazzoli la realtà è un'altra. E la svela proprio nella prima puntata del Gf. "Lara è stato frutto dell'amore, è stato cercato da entrambi - ha attaccato la ex di Castoldi -. Lui ha sempre espresso questo desiderio. Se poi lui si è pentito, questo non gli dà il diritto di sputare cattiverie su un figlio. Usare il termine incastrare per una bimba fa schifo. Io spero che mia figlia non veda mai quell'intervista. Io non gli ho mai portato via la bambina. Lui sapeva cosa avrebbe dovuto fare per vedere la bambina, lui aveva problemi psicofisici. Io per il bene di mia figlia me ne sono andata". La verità di Jessica è diametralmente opposta. La ragazza madre - così lei si definisce - non avrebbe mai impedito a Morgan di conoscere sua figlia, "ho rinunciato a 5 anni di alimenti perché ci fosse pace tra me e lui, lui non può dirmi che l'ho usato solo per i soldi", se solo lui avesse seguito un percorso "psicologico riabilitativo genitoriale che hanno stabilito ben due giudici avrebbe potuto conoscere sua figlia. Se vuole avere un rapporto con la figlia lui sa cosa deve fare". La Mazzoli cita una serie di episodi per far capire di cosa sta parlando. "Mia figlia ha gli occhi verdi scuri e lui non lo sa - ha aggiunto -. Un Natale avevamo organizzato di vederci e poi è scomparso. Lui non risponde al telefono. Questo uomo sparisce, non sono io che non gli faccio vedere Lara". Le parole di Jessica sono piuttosto dure e anche le sue accuse. "Se quello che stai dicendo è vero, stai sputtanando Morgan", sentenzia Cristiano Malgioglio. Ma a Barbara d'Urso interessa solo che la piccola Lara possa avere un rapporto con il padre. "Sei disposta a dargli questa possibilità?", chiede la conduttrice. Ma Jessica è perplessa: "Lui deve prima fare questo percorso". "So che in questa sede non ci sarà la riappacificazione - chiude la d'Urso -. Ma io ci spero come è successo a Bobby Solo e Veronica".

 MORGAN, MA VUOI LAVORARE O NO? Da la Repubblica il 30 giugno 2019. "Io non voglio suonare con questa scenografia offensiva a tre giorni da uno sfratto, chiunque abbia pensato di fare questo è una persona che mi vuole umiliare". Il cantante Morgan affida la propria rabbia alla sua pagina ufficiale su Facebook. Presente ad Avellino per un'esibizione all'interno di una manifestazione enogastronomica, Irpinia Street Mood, non ha gradito l'allestimento trovato, annunciando che devolverà il suo compenso a favore dei senzatetto e svelando il suo cachet. "Io trovo umiliante vedere un grande artista buttato in mezzo a una strada che suona per cinquemila euro con cui a stento riuscirei a pagare le spese di viaggio, perché in questo momento sono sulle prime pagine di tutti i giornali e quindi il mercato ne dovrebbe tenere conto. Invece - scrive Morgan - mi pagano come un principiante con una scenografia che non solo non è di mio gradimento, ma è di cattivo gusto, e non sto parlando della città di Avellino, ma di una strada qualsiasi dietro il palco, anche se fosse stata L'Appia antica. Quindi sapete cosa vi dico: ho talmente rispetto delle persone, anche se fossero 3 soltanto che sono venute per vedere il concerto e magari sono già lì, io canterò stasera in quella merda di contesto e questi soldi verranno devoluti a delle famiglie senza tetto, ma voglio avere la garanzia - conclude Morgan - che questo avvenga e scusate se vi chiedo di darglieli tutti e di non mettere fuori le vostre spese. Questi 5.000 euro devo essere tutti dati ai senza tetto o all'associazione della zona. Lo so che non è molto ma è il mio contributo e non sarà il primo".

Dalla pagina facebook di Irpinia Mood il 30 giugno 2019. Caro Marco, in arte Morgan, da giovani abbiamo amato l’artista estroverso e di rottura che sei stato. Abbiamo amato il tuo periodo sperimentale. Abbiamo accolto con scetticismo alcuni exploit televisivi. Emotivamente ti abbiamo “perdonato” tutto (lasciacelo passare), per amore dell’artista non del personaggio. Per amore anche di un disco di spessore artistico notevole come: “Canzoni dell’appartamento”. Titolo che si è poi rivelato tristemente premonitore visti gli episodi degli ultimi mesi. Non possiamo neanche immaginare quanto possa essere violento perdere contemporaneamente la propria casa e il proprio luogo di lavoro e quanto possa essere sconfortante e dannoso per la propria vita e degli affetti più cari. Ma in questo caso l’empatia va ad infrangersi sul muro che hai eretto con le parole di ieri sera. Non serve sottolineare che ogni singolo punto nel contratto concordato e formalizzato con il tuo management è stato rispettato. Dalle schede tecniche al cachet al pianoforte di 47mila euro, era tutto sottoscritto. Non serve raccontarti che Irpinia Mood nasce all’anagrafe come Irpinia STREEAT Mood, con l’intenzione di valorizzare le eccellenze irpine, da quelle culinarie a quelle musicali protagoniste di tutto il programma della manifestazione, e l’idea di “strada”, di festa regalata in mezzo alle persone, la porteremo avanti per sempre con ferma convinzione. Non serve perché potrebbe passare un’idea distorta, ovvero che ci stiamo “giustificando” per qualcosa che amiamo: la nostra terra. Il luogo in cui hai suonato, di fronte a migliaia di spettatori, in fondo ti è piaciuto, lo dimostrano le due ore di esibizione (foto di Gaetano Renna) . Avellino, in momenti storici diversi dal nostro, ha ospitato cantautori e artisti di livello mostruoso, indimenticabili. L’aspirazione è far rivivere alla Città esperienze speciali di unione e condivisione nel segno della tipica generosità che contraddistingue tutto il popolo irpino. Popolo fiero, aperto ma diffidente nei confronti di chi si pone “ra coppa”, ossia al di sopra con un’aria snob e di sufficienza. Per tutto questo e per tanto altro abbiamo una proposta per te: hai detto a più riprese che rifiuti i cinquemila euro di cachet, somma comunque considerevole, e che chi aveva il compito di bonificarli a tuo favore avrebbe avuto il dovere di devolverli in beneficenza per i senza tetto. Come ben sai però la transazione pattuita, come tutto il resto, è vincolata ad un contratto a cui non si può venire meno se non in maniera formale e concordata. È per questo che chiediamo a te e al tuo management di autorizzarci nella pratica e formalmente a fare quello che ci hai chiesto. Se la tua proposta è seria come noi crediamo che sia, promettiamo di attuarla immediatamente e di rendere pubbliche tutte le transazioni che andranno in beneficenza a sostegno delle criticità del nostro territorio, in particolare:

3000 euro alla Casa della fraternità mons. Antonio Forte gestita dalla Fondazione Opus Solidarietatis pax Onlus della Caritas di Avellino;

1500 euro distribuiti equamente tra Aipa (che gestisce il canile di Atripalda), il Rifugio di Camilla e In ricordo di Lacuna, associazioni che fanno i salti mortali per occuparsi di randagi e di cani abbandonati, senza casa, triste fenomeno che porta violenza nelle strade estive;

I restanti cinquecento euro saranno devoluti direttamente al Comune di Avellino per contribuire alla realizzazione di una piccola area giochi per bambini in luoghi di periferia, perché è attraverso la bellezza e le cose semplici che si inizia a cambiare il proprio contesto.

Da tutto questo trambusto, oltre che un meraviglioso momento di musica partecipato e distaccato da parole scritte sui social, può nascere qualcosa di importante con influenze immediate nella vita delle persone meno fortunate. Aspettiamo solo un cenno formale che faccia seguito alle parole, intanto rilanciamo: ad Avellino, quando c’è un fraintendimento dovuto a questioni di rispetto, si usa dire “prima di parlare sciacquit’a vocca” (prima di parlare sciacquati la bocca) e, una volta chiariti, si va a bancone a dividersi qualcosa da bere. Fatti tutti i passaggi, in questo caso sarebbe bello puntare direttamente al momento conviviale. L’Irpinia è terra ospitale e benefica, nei paesi si vive con lentezza e concretezza, le tradizioni si mischiano meravigliosamente con le modernità, i paesaggi e il territorio regalano mille sorprese diverse, il cibo è condivisione e espressione di qualità, che sia la casa di una nonna o un ristorante rinomato. Vienici a trovare più spesso, sarebbe bello confrontarsi in modo sano, abbiamo tante cose da imparare e tante da far conoscere al mondo intero, siamo convinti che dai contrasti gestiti bene possa nascere progresso e innovazione, e che a volte una bella litigata renda i nemici amici e gli ospiti fratelli. Sperando in una tua/vostra risposta formale per procedere ai bonifici di beneficenza, ti salutiamo. E viva il lupo. Irpiniamood

Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” Il 17 luglio 2019. Sembra che il problema, per certi artisti, sia trovare il modo di pagarsi l' infanzia, quando quella gratis, diciamo fino ai vent' anni, si esaurisce. Può succedere anche un po' dopo, ma succede: cominciano a capitare cose normali, tipo le tasse, i figli, le code alla posta, per le quali la testa che bisogna usare non è la stessa di quella per creare. Quello è il momento in cui bisogna essere ricchi oppure bisogna diventare adulti. Sennò le cose normali, che fra l' altro cominciano a moltiplicarsi e a complicarsi fino a occupare troppo tempo, le devono fare altri, perché a quei certi artisti le cose normali pesano di più che agli altri, perché alla loro natura sfugge il passaggio fra la creatività e la concretezza. È lì, probabilmente, che, fra i tanti artisti che sono inciampati, è inciampato Morgan. Al secolo Marco Castoldi, anni 46, cresciuto a Muggiò, alla periferia di Milano; capo dei Blue Vertigo e poi solista, bassista mancino e pianista, compositore. E campione mondiale di contraddizioni. Uno che andava in giro con l' eyeliner e il rossetto, che è in grado di citare metà della letteratura occidentale e però ha sposato la più rozza e dark delle lady, un matrimonio sciagurato con Asia Argento; uno fra i primi, negli anni Ottanta, a sdoganare il pop come musica colta, componendo brani volutamente difficili ma, con una certa astuzia, anche quasi orecchiabili, con testi duri e intimisti su ritmi eclettici; sfoggiando un' immagine da rockstar che neanche i Kiss. Ha saggiato la fighetteria di "essere di nicchia" con un pugno di album; poi ha sfiorato la popolarità alla manifestazione che è il contrario di lui, il Festival di Sanremo. Infine l' ha trovata, la popolarità, diventando, come giudice e coach, il maggior vincitore di talent show al mondo: a quel format, X-Factor, si è piegato per smania di visibilità o forse illudendosi (delirio) di poterne cambiare il corso. Tant' è vero che dichiara tutt' ora di detestarlo.

IL PIGNORAMENTO. Insomma, Morgan è difficile da capire e da commentare, anche dopo la sceneggiata con cui ha bucato un' altra volta il video, quella sul pignoramento della sua casa, vicenda che è passata duecento volte su qualsiasi canale televisivo. È difficile capire quanto ci è e quanto ci fa: ha dichiarato di stare «bene solo sul palco, fuori dal palco è una merda, non chiedetemi di vivere, io non sono in grado». Si divincola dalla normalità, però per casa sua, che per lui significa radici e ricordi, vita vissuta, ci ha fatto una malattia; per non dire del forsennato affetto per la mamma, in contrasto con il rapporto ostico con il padre, schema familiare tutt' altro che raro, negli artisti e anche negli altri. È vero che è anche colpa sua, delle sue dipendenze, della compulsione alla provocazione cronica, di quel carattere chiaramente instabile e narcisista, come si intuisce da un' altra delle sue esternazioni: «Non è mai andata molto bene alle persone interessanti: prendete quella più interessante di tutte, il più figo, il più bravo, il più colto, cioè Gesù Cristo. Lo hanno molestato, punito, violentato e messo in croce davanti a tutti, perché ha rotto il c. ai mercanti. Finché faceva la rockstar sul mulo, e tutti lo applaudivano quando entrava nelle città, andava bene. Ma gli è stato fatale quando ha detto a tutti che nel tempio con le mani non si vende ma si prega». Viene il dubbio che Morgan dicesse Gesù Cristo ma intendesse Morgan, e qui sta il lato patologico di questo personaggio.

IL PETTEGOLEZZO. Ma a saltare all' occhio è, vedi poi gli italiani, che di uno degli artisti più complessi e intellettualmente dotati che negli ultimi trent' anni abbiamo avuto - precisiamo che si parla sempre di pop - proprio il pop(olo) ha trovato "interessante" soprattutto il pettegolezzo, le storie di corna, di droga, la devianza, la disgrazia. Le canzoni, alcune bellissime, sono quasi dimenticate. In calce agli articoli online che lo riguardano, una buona parte dei commenti sono del tono «vai a lavorare», «chi è causa del suo mal». Vittorio Sgarbi - che è una mente raffinata, è ricco e a capire gli artisti ha costruito una carriera - gli ha offerto asilo, come se gli dovesse qualcosa: forse non nello specifico, ma nel sentimento globale del rapporto fra arte e umanità, è esattamente così. Morgan ha il difetto, imperdonabile per un mondo che non conosce la compassione ma l' invidia sì, di essere un incompiuto. Un po' non ha avuto fortuna, un po' se l' è cercata; ma per durare nel tempo, superare le crisi, tollerare se stessi, oltre che avere molti soldi a un certo punto bisogna piegare le proprie ossessioni fino a farne legna per il fuoco dell' arte, anzi, una via di redenzione. Anche solo per vivere meglio. Viene in mente Roger Federer, che in gioventù è stato un cattivo ragazzo che rompeva le racchette con cui perdeva, ma che ha trovato in sé questa qualità, e anche la fortuna di prendere in moglie un sergente più intelligente di lui. maturità A Morgan non è toccata la stessa buona sorte, ancora una volta anche per colpa sua: tant' è che a buttarlo in mezzo a una strada, oltre che alle cattive abitudini e, a suo dire, l' aver consegnato il borsellino a qualche persona sbagliata, sono state le donne, Asia Argento e Jessica Mazzoli, che gli hanno dato le sue due figlie. La strada per invecchiare senza diventare adulti, parliamo a entrambi, signor Castoldi e artista Morgan, è costosa. Se non si ha abbastanza denaro o lo si è perduto o sperperato, come forse voi due avete fatto, non resta che ricorrere alla disciplina aurea dell' uomo nato per creare: «Rigore e immaginazione», scrisse il poeta T.S. Eliot. La seconda finisce invariabilmente bruciata dall' assenza del primo, ma in presenza di entrambe, l' uomo nato per creare invece di adulto, diventa maturo, la condizione necessaria e perfetta per la gestazione delle grandi opere d'arte.

Morgan contro tutti. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Barbara Visentin su Corriere.it. Finalmente libero dalla «paranoia del video», Morgan può concentrarsi sulla «magnificenza dell’audio»: dal 14 settembre approda su Radio2 come autore e mattatore di Cantautoradio, un programma imperniato sulla storia della canzone d’autore italiana. Una nuova pagina del suo percorso a cui arriva dopo anni di esperienze musicali in televisione, giudice di X-Factor, Amici, The Voice of Italy, trasmissioni troppo assoggettate, sostiene, all’importanza dell’immagine: «Le ho passate tutte. E tutti purtroppo pensano solo al video e al look. Così c’è una scenografia bella, ma il cantante stona. Adesso resettiamo. Io sono un paladino del bel suono e voglio tornare a prima della televisione, agli anni 50 e 60 quando la musica si faceva solo in radio». Il cantautore, 46 anni, come sempre non usa mezzi termini per condannare le logiche commerciali che, a suo dire, guidano le scelte musicali: «Oggi tutti si intendono di musica, ma la competenza è un’altra cosa. Però questo non interessa, tanto che avremo un esperto di quiz a Sanremo. Amadeus è un grande professionista, ma è come chiamare un elettricista a riparare un lavandino, spero almeno che faccia dei quiz sulla musica». Avrebbe preferito un Baglioni-ter? «Lui era perfetto, ma non faceva il direttore artistico, faceva Baglioni. Io mi sarei vergognato al suo posto, a cantare i miei brani ogni tre minuti e a trasformare il Festival in un concerto di Baglioni. Quest’anno io e Chiambretti avevamo presentato il nostro progetto, ma evidentemente si preferiscono gli indovinelli». Marco Castoldi non risparmia neanche la radio: «C’è un andazzo tremendo, un livello bassissimo. Io arrivo per tornare a un discorso serio». Per il suo show ha in mente dei «galà musicali monografici», fra parole e note: «Approfondirò otto grandi cantautori, da Battiato a Paoli a De Andrè. Dalle canzoni trarrò un affresco sociale, un dibattito aperto di cui sarò l’anfitrione». Durante la trasmissione prevede di mettere a confronto voci eterogenee: «Inviterò un ospite che conosce il protagonista, che sia un parente o un amico. Chiamerò un “inarrivabile” come Mina, Moroder o Morricone, e farò anche parlare un giovane di quelli che vanno forte oggi, come Achille Lauro, Willie Peyote, Young Signorino o ex partecipanti dei talent». Immaginare Mina che interviene accanto a Young Signorino è un po’ bizzarro, ma anche questo interessa a Morgan: «Si creeranno conflitti e attriti, ma va bene. Ho in mente un luogo dove si chiacchiera e si suona, dando delle chiavi di lettura per far capire alla gente perché questi cantautori sono così grandi». Divulgare è una delle cose che gli stanno più a cuore, anche se il suo principale lavoro, precisa, è comporre musica. I tumulti abitativi degli ultimi mesi, però, stanno mettendo in crisi la sua creatività : «Non compongo più, non ho il mio posto. Stavo scrivendo un libro illustrato per bambini e non posso più farlo» ha detto, riferendosi allo sfratto dalla sua casa di Monza, reso effettivo il 25 giugno. 

Per questo, il 6 agosto ha scritto al ministro della cultura Alberto Bonisoli, chiedendo che venga bloccato l’ordine esecutivo e gli venga restituita la casa. Vi ha aggiunto anche una petizione su change.org (arrivata a poco più di 2.500 firme), lanciando l’hashtag #IoStoConMorgan. È uno degli ultimi appelli legati al pignoramento della sua abitazione, stabilito dal tribunale nel 2017 a causa del mancato pagamento degli alimenti per le sue figlie. Ma lui non si rassegna: «Mi hanno tolto il mio laboratorio ed è una questione di coscienza generale perché l’artista è un artigiano e la sua abitazione è un futuro museo. Ma non mi dispero. Dopotutto la musica è la mia casa».

Francesca Galici per il Giornale il 9 ottobre 2019. Lo sfratto di Morgan sembra essere una storia infinita. Il cantante già da diversi mesi non è più in possesso dell'immobile, che è stato pignorato dal Tribunale di Monza e venduto all'asta a causa di alcuni contenziosi per tasse non pagate. Sono stati inutili gli appelli del cantante, che in più di un'occasione e sfruttando la sua notorietà aveva provato a far valere le sue ragioni in diversi programmi televisivi, senza però riuscire a ottenere risultati. Nelle settimane precedenti, Morgan aveva anche tentato di provare a rientrare in possesso dell'immobile, chiedendo un incontro al nuovo proprietario per tentare una transazione. È stato tutto inutile, però, e così l'artista è costretto a vuotare la casa dove per lunghi anni ha costruito la sua musica. Su questo punto Morgan ha insistito a lungo, perché quella casa ha una storia artistica ed è un vero e proprio museo dell'arte in cui sono custoditi pezzi unici del suo lavoro ma anche di quello di tantissimi altri musicisti e artisti di cui Morgan negli anni ha raccolto le opere. Oggi, 8 ottobre, è stato il giorno dello sgombero dell'immobile e Striscia la Notizia ha voluto documentare il momento con le sue telecamere, raccogliendo lo sfogo dell'artista. “Durante l’estate ho avuto la tournée, tra la macchina e gli alberghi un posto dove stendermi l’ho trovato. Ora dormo in case in affitto momentaneo”, ha detto Morgan a Valerio Staffelli, dopo che nei giorni passati aveva dichiarato di dormire in sgabuzzini pieni di insetti. Durante l'intervista, le telecamere del tg satirico di Antonio Ricci hanno ripreso gli addetti intenti allo sgombero, commentati da Morgan: “Sul camion ci sono oggetti messi alla rinfusa. Sai che questo servizio me lo fanno pagare 8000 euro? Uno viene sfrattato perché dicono che ha tasse arretrate, gli vendono la casa a un terzo del valore di mercato, non gli danno la procedura di solo indebitamento - e significa che non posso lavorare – però sgomberano e pago io.” La rabbia del cantante è tanta e Morgan si rivolge anche ai giudici, considerando sbagliato questo modo di agire.

Da I Lunatici Rai Radio2 il 10 settembre 2019. Morgan è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il popolare cantautore ha raccontato: "Il mio rapporto con la notte? La adoro, è il tempo della musica, è come un foglio bianco tra le mani di un poeta. E' lo spazio ideale per costruire la musica. Che ha bisogno del silenzio e del respiro degli altri. Quando un musicista crea lo fa per gli altri, devono stare tutti tranquilli. Mi capita spesso di scrivere di notte". Morgan condurrà su Radio2 il programma Cantautoradio: "La radio per me significa non vedere, ma sentire. Oggi la questione dell'audio contrapposta alla questione del video è importante. L'audio rimane privilegiato, rimane più scientifico. E lavorare nell'audio è più complesso che lavorare nel video. Pensate a quanto è facile fare un fotomontaggio e quanto è complicato invece fare un montaggio audio. La radio è la voce, è per quello che nonostante sia tecnologicamente inferiore rispetto alla televisione è rimasta in auge. Nel mio programma si parlerà di canzoni. L'unica cosa che ci salva, l'unica cosa che abbiamo. Nella prima puntata, sabato 14 settembre, parleremo di De Andrè. In questo format io parlo, spiego, suono, ogni volta prendendo in considerazione un cantautore e andando ad approfondire la sua opera. Sarà un programma con tanti registri di espressione, con molti temi. E' un po' un varietà secondo me. Un varietà vintage e tecnologico allo stesso tempo". Sul rapporto con i fans: "Una volta sola non sono stato riconosciuto, in aeroporto, perché mi ero travestito da Venditti. Mi ero messo i rayban, il panama, poi ci vogliono i capelli leggermente fuori dal cappello e l'impermeabile con jeans e mocassini. E' l'unico modo per non farsi sgamare. Vogliono tutti una fotografia, ti chiamano dall'altra parte della strada, rischiano di essere investiti. C'è l'esigenza primaria della foto. Su questo voglio aprire un dibattito: è grave questa cosa, per due motivi. Non solo perché mi rompo pesantemente i coglioni, ma perché innanzitutto non voglio essere localizzato sempre e invece appena ti fanno la foto poi la postano. L'irrintracciabilità è un diritto che io voglio avere. La seconda cosa, ancora più importante, è che io lavoro con l'immagine. E' il mio bene, è la cosa su cui firmo i contratti. Mi pagano, il mio lavoro consiste in questo. La Siae dovrebbe far valere il diritto all'immagine che è un nostro bene. Tu puoi farmi una foto, ma non la dovresti pubblicare. La gente non si rende conto che questo per me è un lavoro. Stiamo esagerando. Se lo dici si fanno una risata. Io vi dico che se avessi avuto un centesimo da tutte le foto che ho fatto negli ultimi tre anni non solo non sarei stato sfrattato ma avrei comperato la Sony". Sulla casa da cui è stato sfrattato: "C'è un giudice che è il paladino degli sfratti. Peggio del giudice della canzone di De Andrè, che diventa giudice solo per poter mandare al patibolo la gente. I giudici dovrebbero giudicare, lo dice la parola stessa. Prendi una questione, ne valuti gli aspetti, pesi e capisci cosa pesa di più. Non fai a priori tutto. Il giudice che ho incontrato io non è un giudice, è uno che non si sa perché è lì, è uno sbruffone. Dovrebbe sfruttare l'occasione per fare veramente il suo lavoro e pensare, ma evidentemente non ce la fa. Ora manderà tutto al macero. Sto molto male, non sono più lo stesso. Uno non ci pensa, ma quello che mi è successo equivale a uno stupro. E' identico. La casa è importante, è la più importante cosa che hai. Quando non sai ripararti dal freddo fai a casa e sopravvivi. Questo vale per tutti. Per una persona come me, che fa di quello che ha attorno un oggetto d'arte, lo è ancora di più. La mia casa era un'installazione. La mia casa è stata svenduta a 200.000 euro quando ha come valore di mercato 700.000 euro. E' stata comprata da un maniaco che ha voluto la mia casa perché è un mitomane. Mi hanno portato fuori dalla mia casa con le armi. Io piango, ho tutto lì, tutti i miei progetti. Io stavo sempre in casa a studiare, non sono uno come J Ax o Fedez. Ora sono in uno sgabuzzino a china town a Milano con un sacco di insetti. Non sto più lavorando, prima facevo un sacco di cose, ora non faccio più niente".

Mattia Marzi per il Messaggero il 16 settembre 2019. Morgan è un fiume in piena. Per il cantautore brianzolo, che sempre più spesso, ormai, fa parlare di sé per vicende che con la musica c' entrano poco (il pignoramento della sua casa di Monza è solamente l' ultima, in ordine di tempo), le interviste sono anche e soprattutto un modo per sfogarsi. Non pubblica un disco di inediti da più di dieci anni e le partecipazioni come giudice a X Factor e Amici lo hanno di fatto reso più un personaggio televisivo che altro. Però ora c' è un nuovo impegno di cui parlare: è Cantautoradio, il programma radiofonico da lui condotto su Rai Radio2 ogni sabato sera, per otto puntate (la prima è andata in onda ieri). Un viaggio nella storia della canzone d' autore, a partire da De André.

C' è un motivo particolare per cui ha scelto di dedicargli i primi due appuntamenti?

«De André è un cantautore che sa essere sempre attuale. Il suo è un messaggio profondo, molto etico. Cristiano, direi».

Addirittura?

«Sì, assolutamente. De André è un vero cristiano. Nel senso cristologico del termine, non in quello cattolico. Trovo che nelle sue canzoni ci sia una profonda umanità e oggi più che mai ne abbiamo bisogno».

Quale sarà il suo obiettivo con questo programma?

«Il messaggio che voglio far passare è largo, spero arrivi tanto ai giovani quanto agli anziani. Ai miei concerti c' è gente di tutte le età ed estrazioni sociali: non sono Sfera Ebbasta, io».

Non sia polemico.

«Non lo sono. Semplicemente, ci tengo che quello che faccio venga compreso da tante persone. Le puntate di questo programma non sono esegesi per addetti ai lavori o analisi per universitari».

A proposito di Sfera Ebbasta.

Qualcuno dice che i rapper oggi riescono a raccontare quello che un tempo narravano i cantautori, storie di disagio e di emarginazione.

«L' hip hop italiano ha avuto un buon momento, ma ora si è stabilizzato. E comunque i rapper sono troppo legati alla realtà, invece il cantautore è ancorato al sogno, all' utopia».

Crede che le canzoni oggi possano ancora avere una funzione sociale?

«Ormai la parola sociale è andata a farsi fottere, ha perso di senso. Rimanda ai social network, che però sono l' anti-sociale. Ha ancora senso parlare di cantautori socialmente impegnati, oggi?»

Qual è il filo che lega gli artisti di cui parlerà nel programma?

«Il senso di libertà e di fiducia nell' uomo».

E lei si sente libero?

«Io sono estremo nella mia libertà. Dico quello che penso. Nessuno è in grado di farlo. I politici non dicono quello che pensano, i miei colleghi dicono solo quello che conviene. Io sono un rompicoglioni, uno scomodo. Uno che è meglio non averlo intorno».

Non faccia la vittima.

«È la verità. Hanno provato a disabilitarmi in molti modi, a partire da quell' intervista sulla droga. I giornali mi hanno triturato. Forse si sentono minacciati dal mio senso di libertà, ma a me non interessa il potere».

A chi si riferisce?

«A quelli che comandano in tv, nell' intrattenimento. Mi fanno la guerra. Ma perché? Una volta che sarò morto cosa ci avranno guadagnato?».

Però in tv ci è stato, anche in tempi recenti.

«La Rai è un ambiente sano: è molto più professionale di tutti i privati messi assieme. Quelli fanno solo clientelismo, senza meritocrazia. Però non mi danno un programma tutto mio: neanche i miei amici direttori, come Campo Dall' Orto, Dallatana o Freccero, sono riusciti a farmi lavorare. Secondo me mi sopravvalutano».

Però deve ammettere che lei è un personaggio un po' difficile da gestire.

«Girano un sacco di voci su di me. Dicono che sono inaffidabile, che faccio scenate: falsità».

E qual è la sua versione di Morgan?

«Sono una persona docile e collaborativa. Soprattutto, quando lavoro sono uno stacanovista».

Non pubblica un nuovo album da più di dieci anni.

«Nell' universo musicale di oggi non mi ci ritrovo. Sono tutti alla ricerca del successo del momento. Le cose a cui sto lavorando sono fuori dagli standard. Nel mio rapporto con la musica ho rivoluzionato tutto: lavoro come se fossi Stockhausen. A me ora interessa quel tipo di indagine musicale: il pop è una roba da dementi».

Quest' anno l' abbiamo vista a Sanremo insieme ad Achille Lauro: si è divertito?

«Mi ha ricordato la mia partecipazione con i Bluvertigo nel 2001, si è presentato con l' atteggiamento giusto. Andare a Sanremo è come andare nel paese delle meraviglie, vedi il mondo attraverso le lenti dell' ottico di De André: Vedo gendarmi pascolare, donne chine sulla rugiada... (canta)».

Parlerà anche dei cantautori contemporanei nel suo programma?

«Certo, racconteremo i nomi tutelari e il modo in cui hanno ispirato le generazioni successive».

Chi le piace dei giovani?

«Calcutta, Motta. E anche qualcosa dei Thegiornalisti».

Chi l' avrebbe mai detto.

«Era una provocazione (ride)».

Morgan litiga e picchia un fotografo in corso Garibaldi. Denunciati entrambi. Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 da Corriere.it. Il cantautore Morgan è stato denunciato dalla polizia per esercizio arbitrario delle proprie ragioni dopo aver aggredito, attorno all’una di mercoledì notte, un paparazzo che lo aveva fotografato assieme a una donna a Milano, nel centralissimo corso Garibaldi. Secondo quanto riferito dalla polizia Morgan, nome d’arte di Marco Castoldi, ha strattonato il fotografo strappandogli la camicia. La 30enne che era in compagnia di Morgan ha raccontato alla polizia che il fotografo, di 29 anni, dopo la lite le ha detto che in realtà avrebbe voluto vendere le foto a Morgan per evitare che uscissero sui giornali, dai quali avrebbe ricavato, a suo dire, 15 mila euro. Non ha specificato quale cifra voleva dall’artista, ma chiaramente doveva essere superiore. Il paparazzo è stato denunciato per tentata estorsione. Nessuno dei presenti ha voluto far ricorso alle cure dei sanitari.

Ida Di Grazia per leggo.it il 20 ottobre 2019. Non è la D'Urso, Barbara va in onda anche senza Morgan: «E' un artista che non rispetta gli artisti». Come fu per Pamela Prati, Barbara D'Urso nonostante la buca all'ultimo minuto del cantante - verso le 18 Morgan ha annunciato che non sarà in studio -  manda comunque il blocco che lo riguarda e lo "distrugge". L'ospite viene annunciato, lui non si presenta, resta un divano vuoto. La prima a farlo fu Pamela Prati, domenica sera, durante la diretta della sesta puntata di Live non è la D'Urso, lo ha replicato anche Morgan. «Come vedete Morgan non c'è - spiega la D'Urso seduta su un divano vuoto -  l'ospitata di questa sera era stata confermata dall'avvocato di Morgan con un contratto per un'intervista concordata, tra i vari argomenti anche la sua casa. Lui ha coinvolto mediaticamente tutti, noi per primi. Noi non prendiamo in giro nessuno e proprio per questo vi faccio vedere come avrei iniziato questa intervista con Morgan». La D'Urso lancia il primo video in cui racconta lo sfratto del cantante, poi sottolinea che a voler rendere noto a tutti la sua situazione è stato fin da subito Morgan, così manda il servizio di Striscia la Notizia. «Verso le 17 telefona il manager di Morgan al produttore di Live e dice "Morgan non viene più, non posso dire perchè lo comunicherà lui sui social". Alle 18 Morgan ha scritto le motivazioni sui social, su facebook, e ora spieghiamo tutto». La D'Urso legge, in modo particolarmente teatrale, il post che Marco Castoldi ha pubblicato su Facebook. «La domanda è ma Morgan con chi l'ha avuto questo meraviglioso dialogo? Non con noi, non ne sappiamo niente, la nostra autrice ha provato a parlare con lui ma Morgan era sempre impegnato, questo terrificante dialogo con chi l'hai avuto? Noi non sappiamo cosa ti hanno detto i tuoi avvocati, il tuo staff, guarda se non sei contento di stare qui stai a casa e chi se ne frega. Siamo basiti! Io penso che Morgan è sicuramente un grandissimo artista ma penso che sia un artista che non rispetta altri artisti e non parlo di me Barbara D'urso che non sono nulla, ma parlo dei giornalisti che hanno lavorato in questa settimana, sono artisti anche gli operai che hanno fatto l'una di notte per fare le prove e capire come portare il piano per far suonare Morgan, sono artisti tutti coloro che hanno organizzato il collegamento con Vittorio Sgarbi. Per quanto mi riguarda il discorso è chiuso qui, ci vediamo tra pochissimo»

Dal profilo Facebook di Morgan il 20 ottobre 2019. Io non vado da Barbara D’Urso questa sera, nonostante abbiano pubblicizzato che ci sarei andato. Vi dico perché, anche se sono dinamiche che andrebbero tenute riservate. Ma sono esausto di tutte quelle assurdità che poi si dicono e si scrivono sul mio conto, fasulle, frutto di una non conoscenza dei fatti. Sono solo un incontrollato mare di delirio impietoso e impreciso, su cui cercherò di aprirvi gli occhi perché le cose prima di essere giudicate vanno conosciute e valutate. Perché arrivo all’ultimo momento a dire: non ci vado? Semplice, perché io che non ci vado lo dico sin dalla prima volta che mi viene richiesto, gentilmente. E rispondo altrettanto gentilmente no, grazie, ringrazio tanto ma no. E dopo un giorno ritornano e io rispondo ancora no. Mi chiedono perché. Non è il mio mondo, rispondo, non guardo la tv, non ho tempo, sto lavorando e quel mondo non mi appartiene. Ma ti diamo tanti soldi: no grazie, non mi interessa. Ah va beh, contento tu. Ritornano all’attacco il giorno dopo: ti diamo veramente tanti soldi. No. No grazie, basta, mi state un po’ rompendo. Ho detto no. E andiamo avanti così per mesi. Esasperato, un giorno mi dicono “ti diamo tutto ciò che vuoi”. Voglio un pianoforte, suonare e parlare di musica. No, devi parlare dello sfratto, di Jessica e di Asia. No no no no no no no no no no. Ok, puoi avere il pianoforte, però devi parlare di sfratto. No. Ti diamo il triplo. No. Ti diamo il piano e il triplo. No. Cosa vuoi allora? Voglio che mi lasciate in pace, non voglio andare in questo tipo di programmi. Ma ti facciamo parlare della casa. Ah sì?

E non ci sono i giornalisti avvoltoi? E non c’è il gossip? E non ci sono gli stronzi? No, parli della casa. Ma con chi ne parlo? Io della casa voglio parlare con chi può fare qualcosa. Dicci con chi vuoi parlare. Con il Ministro Franceschini. Ok, poi chi altri? Se si può mi piacerebbe una conversazione seria sul tema della casa d’artista con il Ministro, Vittorio Sgarbi e il sindaco di Monza. Insomma, per farla breve mi strappano un sì, con dolore, con esasperazione, con mille specchietti per le allodole. Ma stasera non ci sarà il Ministro né il sindaco e Sgarbi è al telefono. Quindi ritorno su ciò che ho sempre detto: NO grazie. E non mi pare di essere particolarmente incomprensibile. Cosa vuol dire no? Vuol dire no. È inutile che mi trasciniate, io non voglio andarci, non ho mai voluto e se l’ho fatto era perché mi hanno trascinato. Oggi ho la forza di non farmi di nuovo trascinare. Chiedo scusa ma sono chiaro e inequivocabile.

Morgan non si presenta dalla d'Urso. Lei lo asfalta in diretta. A poche ore dalla messa in onda di "Live: non è la d'Urso", Morgan con un post sui social da forfait, ma Barbara d'Urso non ci sta e in diretta racconta come sono andate realmente le cose. Roberta Damiata, Lunedì 21/10/2019, su Il Giornale. Questa settimana Morgan doveva essere ospite a “Live: non è la d’Urso" per raccontare come sta vivendo ora dopo lo sfratto, ma poche ora prima dalla diretta, a sorpresa, il cantante fa uscire un messaggio su Facebook in cui racconta che non ci sarà, spiegando per filo e per segno le sue motivazioni. Così, all’inizio della trasmissione, tutti si chiedono se davvero questo sia uno dei soliti colpi di testa di Morgan, o se veramente il cantante non si è presentato in studio. A chiarire cosa sta succedendo è Barbara d’Urso, che dopo aver mandato il filmato che avrebbe introdotto Morgan all’intervista, si siede da sola sul divano dove avrebbe dovuto intervistarlo e racconta la sua versione dei fatti che è molto diversa da come l’ha raccontata il cantante sui social. “L’ospitata era stata confermata dall’avvocato e dal manager di Morgan - comincia la conduttrice - per un’intervista concordata in cui si sarebbe parlato tra i vari argomenti anche di quello della sua casa, perché proprio lui ha iniziato una vera propria battaglia coinvolgendo i media quando è stato sfrattato dalla sua abitazione, e ha avuto anche il nostro supporto partecipando più di una volta alle mie trasmissioni”. Mostra, quindi, il secondo firmato che avrebbe visto Morgan e che riguarda un servizio di “Striscia la Notizia” in cui l'inviato Staffelli era andato da lui il giorno in cui dalla sua casa sono stati portati via i mobili. “Come vedete - continua la d'Urso - lui ha coinvolto i media e noi siamo stati sempre vicini, proprio come ha fatto anche Striscia la Notizia in questo servizio”. "Per l’ospitata -prosegue Barbara d'Urso- era stato firmato un contratto ormai da tempo e per questo motivo come facciamo sempre avevamo pubblicizzato il suo arrivo con vari spot sulle reti Mediaset. Verso le 17 di oggi pomeriggio telefona il manager di Morgan dicendo al produttore di “Live: non è la d’Urso” che Morgan non sarebbe più venuto, ma il motivo lo avrebbe spiegato Morgan stesso. Ed infatti alle 18 Morgan scrive sui social". Qui la conduttrice legge il post dell'artista. Un post piuttosto lungo: "Perché non vado dalla d'Urso? Non è il mio mondo, rispondo, non guardo la tv, non ho tempo, sto lavorando e quel mondo non mi appartiene. Ma ti diamo tanti soldi: no grazie, non mi interessa. Ah va beh, contento tu. Ritornano all’attacco il giorno dopo: ti diamo veramente tanti soldi. No. No grazie, basta, mi state un po’ rompendo. Ho detto no. E andiamo avanti così per mesi. Esasperato, un giorno mi dicono “ti diamo tutto ciò che vuoi”. Voglio un pianoforte, suonare e parlare di musica. No, devi parlare dello sfratto, di Jessica e di Asia. No no no no no no no no no no. Ok, puoi avere il pianoforte, però devi parlare di sfratto. No.Ti diamo il triplo. No. Ti diamo il piano e il triplo. No. Cosa vuoi allora? Voglio che mi lasciate in pace, non voglio andare in questo tipo di programmi. Ma ti facciamo parlare della casa. Ah sì? E non ci sono i giornalisti avvoltoi? E non c’è il gossip? E non ci sono gli stronzi? No, parli della casa. Ma con chi ne parlo? Io della casa voglio parlare con chi può fare qualcosa". Il post di Morgan continua nella sua versione dei fatti. ​"Dicci con chi vuoi parlare - prosegue a scrivere Morgan -. Con il Ministro Franceschini. ok, poi chi altri? Se si può mi piacerebbe una conversazione seria sul tema della casa d’artista con il Ministro, Vittorio Sgarbi e il sindaco di Monza. Insomma, per farla breve mi strappano un sì, con dolore, con esasperazione, con mille specchietti per le allodole. Ma stasera non ci sarà il Ministro né il sindaco e Sgarbi è al telefono. Quindi ritorno su ciò che ho sempre detto: NO grazie. E non mi pare di essere particolarmente incomprensibile. Cosa vuol dire no? Vuol dire no. È inutile che mi trasciniate, io non voglio andarci, non ho mai voluto e se l’ho fatto era perché mi hanno trascinato. Oggi ho la forza di non farmi di nuovo trascinare. Chiedo scusa ma sono chiaro e inequivocabile. Morgan". Al ritorno in studio la d'Urso si chiede con chi Morgan abbia fatto questo meraviglioso dialogo e fermamente dice: “Sicuramente non con noi, con nessuno di noi. Noi non ne sappiamo niente. La nostra autrice ha provato a parlare con lui, ma ogni volta e con una scusa diversa non rispondeva. Ma avendo concordato un contratto con i nostri legali Mediaset era sicura la sua presenza. Caro Morgan, se avessimo saputo che - e riprende il foglio per leggere le sue esatte parole - "basta non mi va di venire, mi sento trascinato, sono costretto", io per prima avrei detto chi se ne frega, resta a casa a suonare che sei un grande artista, qui viene solo chi ha voglia di venire". La d'Urso di dice basita di tutto questo show da parte di Morgan. "Prima voleva il sindaco di Monza - precisa - poi ha cambiato idea e voleva il Ministro Franceschini che ovviamente ha altre priorità, ma noi eravamo in contatto con il sottosegretario Bonaccorsi, ci ha dato la sua disponibilità per aiutarlo e glielo avrei detto, poi dice che Vittorio Sgarbi non ci sarebbe stato e invece sarebbe stato in collegamento dal teatro di Salerno a perorare la causa che Morgan ha tanto strombazzato anche qui a Live. Caro Morgan, non me l’hai mai detto che non volevi venire, nemmeno dopo che sei stato qui, non avevo idea che stessi così male, Morgan è un grandissimo artista, ma è un artista che non rispetta gli altri artisti e non parlo di Barbara d’Urso che non conta nulla, ma degli autori, dei giornalisti, degli operatori, dei macchinisti, dei tecnici che hanno fatto le prove per sistemare il pianoforte fino all’una di notte per spostarlo in pochi minuti. Per quanto mi riguarda il discorso è chiuso qui andiamo avanti”.

Morgan senza pace, brutta storiaccia di soldi: "Chi mi deve tanti quattrini". Francesca d'Angelo su Libero Quotidiano il 2 Novembre 2019. Morgan continua a ripetere che, a causa dello sfratto, non è più in condizioni di lavorare. Lo sostiene anche in questa intervista. Eppure, l' ex voce dei Bluvertigo ha appena realizzato un gioiellino: il suo programma Cantautoradio, on air su Rai Radio2, è un appuntamento cult che ha appassionato così tanti radioascoltatori da entrare di diritto nelle Teche Rai e aggiudicarsi un posto fisso nel palinsesto di RaiPlay Radio. Stasera alle 21 c' è il gran finale: una puntata live, per celebrare il padre di tutti i cantautori, ossia Domenico Modugno. Di lui parleranno (e canteranno) Ranieri, Arbore, Capossela, Cristicchi, Magoni, accompagnati dall' Orchestra Notturna Clandestina. Beh, se questo vuol dire non essere messi nelle condizioni di lavorare «In realtà ho fatto il minimo sindacale».

Poteva fare meglio?

«Meglio non lo so, ma magari avrei potuto farlo in un altro luogo».

Diverso dalla Rai?

«Di per sé la Rai è un concetto astratto che, peraltro, mi piace molto. Poi ci sono le persone che fanno la Rai e queste cambiano di volta in volta. Chissà se la Rai tornerà a essere il servizio pubblico che faceva programmi belli, veri, smettendo di competere con il mercato becero. Mi spiace dirlo ma la Rai oggi de-alfabetizza».

Compresa Radio Rai?

«Radio Rai no, anzi sono grato che mi abbiano fatto fare questo programma perché pur essendo uno show di intrattenimento ha in sé un' intenzione culturale. Sono il primo a voler divertirsi e divertire ma credo che ci sia modo e modo di farlo. Una volta in Rai non potevi fare un programma senza avere un certo livello culturale».

Ha in serbo qualche colpo di teatro per stasera?

«Silvio Berlusconi. Se tutto va bene, verrà a cantare la canzone «Il posto mio». È perfetta per lui e lo dice uno che ha anni di talent show alle spalle: per vincere basta associare una voce alla giusta canzone».

A proposito di talent, Mika ha fatto intendere che i giudici di X Factor siano guidati dagli autori tramite auricolari. Possibile?

«Certo. Fedez non aveva solo gli auricolari: dentro a una finta Smemoranda, nascondeva un tablet dove riceveva le istruzioni degli autori su cosa dire. D' altronde non mi sembra che sia famoso per il suo titolo di studio».

E lei?

«Non avevo gli auricolari: non erano imposti. Potevi scegliere se usarli, come potevi scegliere se fare o meno X Factor. Non sempre: l'ultima volta sono stato costretto. Avevano detto che se avessi accettato di tornare in giuria mi avrebbero pagato 1 milione di euro».

Chiamala costrizione.

«Peccato che non me l' hanno dato, sostenendo che una volta ero arrivato in ritardo, un' altra avevo detto o fatto qualcosa: praticamente non mi hanno pagato perché mi sono comportato da Morgan. Siamo in causa, comunque».

Anche a The Voice ci sono i suggeritori?

«No. Tra l' altro è un talent diverso che parte da un presupposto positivo: si cerca la conciliazione, non lo scontro. Forse per questo ha meno ritmo, ma l' idea è bella».

Lo rifarà?

«Il giudice non è un ruolo che fa per me. Lei vorrebbe vedere giocare Maradona in serie C?».

Cosa vorrebbe fare?

«Suonare. Purtroppo non ho più il mio studio».

Ha ancora fiducia nella politica?

«Al governo non ci sono più Pannella e Berlinguer. Oggi i politici sono persone che hanno disimparato ad ascoltare, che non sanno cosa sia la bellezza. Fanno tutto per routine o per convenienza. Li trovo noiosi. Vogliono però il potere e quindi temono il mio istinto libertario: sono una minaccia perché penso che il mondo debba essere fatto da persone che ragionano».

Non salva nessuno?

«Sgarbi. È l' unico che si spende».

·         Gianluca Grignani.

Gianluca Grignani insorge sul caso Sea Watch: "Una colletta per aiutare chi viola la legge...". Il caso politico della Sea watch 3 continua a dividere l'opinione del web: il cantautore Gianluca Grignani ha condiviso un post contenente un messaggio che contesta la colletta pro Carola Rackete. Serena Granato, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Continua a dividere l'opinione pubblica il caso politico di Sea watch 3 nel porto di Lampedusa. Nella notte dello scorso 29 giugno, la capitana del natante ha deciso di forzare il blocco per entrare nel porto di Lampedusa, nonostante la mancata autorizzazione. La capitana, nella manovra di attracco a Lampedusa, ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza, rischiando uno scontro fatale. Carola Rackete è finita agli arresti domiciliari per le accuse di "resistenza a nave da guerra" e "tentato naufragio". Ma a catalizzare particolarmente l'attenzione del popolo del web, nelle ultime ore, sono i messaggi lanciati dagli artisti italiani sull'affaire Sea watch. Dopo Emma Marrone, Fiorella Mannoia e Paola Turci, anche il cantautore milanese Gianluca Grignani ha voluto condividere con gli internauti un post sull'accaduto, il cui messaggio contesta la strumentalizzazione che una parte della classe politica, rappresentata in particolare dal Pd, attuerebbe sui migranti. "Siamo destinati a stare insieme tutti...Pensa se arrivassero gli alieni ...-scrive il cantautore di "Destinazione paradiso", a corredo di una nuova foto pubblicata su Facebook- Allora cosa saremmo, uomini di serie a e serie b. Il mondo è un diritto di tutti e la politica dovrebbe imparare a togliersi le bende dagli occhi, per iniziare a vedere veramente come stanno andando le cose e vergognarsi di ridurre il proprio operato a mera attività di gossip! Io non ho nessuna paura di essere considerato né di destra né di sinistra, mi preoccupo solo ed esclusivamente del popolo e della gente". Il monito lanciato da Grignani è visibile nella descrizione di una foto, sulla quale è riportato un altro messaggio che contesta la colletta pro Carola Rackete:"Il Pd si mobilita per pagare le spese legali di chi ha violato la legge. Secondo loro questi sono i motivi per cui mobilitarsi". Tra i commenti giunti per Grignani su Facebook, si legge: "I veri popoli da aiutare sono quelli che restano lì, impoveriti senza acqua e poco cibo. Di quelli il Pd non se ne interessa. Credo che un po' tutti dovremmo considerarci parte di un solo mondo". L’obiettivo della colletta, il cui appello è stato lanciato dai conduttori tv tedeschi Jan Boehmermann e Klaas Heufer-Umlauf, è il pagamento delle sanzioni che sarebbero inflitte a Carola Rackete per aver forzato l'ingresso nel porto di Lampedusa, oltre che per le spese giudiziarie previste per l'arresto della capitana.

·         Benji e Fede bullizzati.

Benji e Fede bullizzati dai fan dopo il concerto di Radio Italia a Palermo. Insulati dopo il concerto di Radio Italia a Palermo per non essersi fermati a farsi selfie e firmare autografi, Benji e Fede sono stati pesantemente insultati sui social. Sandra Rondini, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Dopo la vicenda della piccola attrice Lexie Rabe di “Avengers: Endgame”, bullizzata perché non si ferma sempre a firmare autografi ai fan che la insultano ferocemente sui social, nonostante sia solo una bambina di sette anni, ora la stessa sorte tocca a Benji e Fede, costretti anche loro a spiegare tramite i social perché non sempre si fermano a salutare i loro ammiratori. La polemica contro di loro ha toccato il suo picco dopo il concerto di Radio Italia a Palermo. Federico Rossi, cantante del duo artistico “Benji e Fede”, ha voluto rispondere in prima persona ai follower che hanno accusato sia lui che Benjamin di non essersi fermati apposta a farsi le foto con i fan e a firmare autografi, perché "arroganti a cui il successo ha dato alla testa, mostrando come sono davvero". In un video su Instagram il cantante ha detto in proposito: “Raga può succedere che una mattina uno abbia i cazzi suoi, che abbia dei suoi scazzi o dei suoi problemi e non abbia voglia di fermarsi. Fidatevi, dopo che sono cinque anni che giriamo ovunque se per una mattina perché comunque siamo di fretta o abbiamo i nostri problemi, i nostri pensieri, se non ci fermiamo non è la fine del mondo. Questo però dovete mettervelo in testa perché come siete umani voi lo siamo anche noi. Non siamo delle macchine, abbiamo dei sentimenti e abbiamo il diritto di salvaguardare ogni tanto la nostra privacy. Quindi è inutile che ogni volta sia sempre la stessa storia”. “Voglio dirvi una cosa. Adesso non è che le persone debbano aver paura a chiedermi una foto, un video saluto o di parlarmi, quello che volevo dire è una cosa ben diversa: se in un momento una persona è in difficoltà o vuole farsi i cavoli suoi, deve avere tutto il diritto di farlo senza che nascano delle polemiche inutili”, ha precisato Federico in un'altra Story in cui, forse temendo di essere stato un po’ duro in precedenza e ricordandosi che sono i fan a decidere il suo successo, comprando dischi e seguendolo in tour, ha aggiunto che “questo non vuol dire che io non voglia fare più foto o video, anzi! Forse ne farò anche più di prima, ma bisogna capire che c'è momento e momento per chiedere determinate cose”. 

·         Diana Del Bufalo.

Diana Del Bufalo: “Amo molto Paolo Ruffini, ma non voglio sposarlo”. L'attrice romana smentisce le voci di crisi tra lei e Paolo Ruffini, di cui si dice molto innamorata anche se tra i suoi sogni non c'è quello di sposarsi. Sandra Rondini, Martedì 02/07/2019, su Il Giornale. Durante un'intervista rilasciata al settimanale "Gente", Diana Del Bufalo è tornata a parlare della sua storia d'amore con Paolo Ruffini, smentendo i rumor che li danno in crisi. “Ma quale crisi! Mi rendo conto che la felicità possa dare fastidio, ma noi siamo felici. Da quasi cinque anni. Paolo mi ha fatto innamorare per la sua bontà smisurata, non ha paura di dire la sua, anche se sbaglia, perché non si cura troppo dei pareri altrui. E non è convenzionale, come piace a me. Io non amo i tipi precisini che bevono le tisane e sono patiti del fitness”, ha dichiarato l’attrice romana che ha voluto comunque precisare di non sentire alcuna necessità di sposarsi. “Amo tantissimo Paolo, ma non sogno il matrimonio. Non sono per niente portata per le nozze. Noi stiamo bene così”, ha spiegato Diana, che si è detta certa che il suo compagno possa capire e rispettare questa sua scelta. I due stanno attraversando un periodo particolarmente felice, fatto anche di vacanze insieme “rigorosamente tricolori! Siamo appena stati in Trentino e presto andremo a Ischia. A Paolo non piace viaggiare all'estero, gli dà fastidio non capire la lingua del posto e mangiare male: lui è una buona forchetta!”, ha scherzato Diana che per il suo futuro desidera una carriera da conduttrice tv in un programma brillante che metta in luce tutte le sue doti artistiche. “Il mio più grande sogno al momento è quello di avere un giorno il timone de Le Iene ”, ha concluso l’attrice, determinata a conquistare il piccolo schermo con la sua bellezza e simpatia.

Da ilmessaggero.it il 16 dicembre 2019. Diana Del Bufalo e Paolo Ruffini si sono lasciati. La coppia molto amata sarebbe arrivata al capolinea, anche se la notizia non sembra arrivare come un fulmine al ciel sereno per i fan che già da qualche settimana avevano notato come nessuno dei due comparisse più nelle stories e nei post dell'altro. Che ci fosse aria di crisi era venuto il sospetto, ma ora Diana spiega come sono andate le cose. L'ex concorrente di Amici, oggi attrice e cantante stimata, ha spiegato la situazione tra lei e Paolo in un post su Instagram dove ha raccontato a cuore aperto ai fan il suo stato d'animo. «Con il rischio di sembrare patetica, comunico questa cosa perché non ce la faccio più: io e Paolo non stiamo più insieme già da un mese e mezzo». Pare però che le cose tra i due non siano finite bene e a parlarne è la stessa Diana: «Cercherò di moderare la rabbia e il risentimento che sto provando in questo momento. Ho tentato con lui.... tanto.  Le persone non cambiano e non SI cambiano. La grande delusione e l’immensa sofferenza che mi faceva piangere sul pavimento di camera mia, mi ha resa donna... per questo, lo ringrazio». Diana qualche tempo fa aveva raccontato di non stare passando un periodo facile della sua vita, e il sospetto che le cose non andassero bene con Paolo era venuto. Dopo una parentesi di sofferenza però la Del Bufalo sembra pronta a voltare pagina e nel post conclude: «A 29 anni posso dire di essere una donna cosciente, buona, completa e che sa quello che vuole! È poco? Non direi proprio! Donne, lo sapete di avere il sesto senso... ascoltatelo».

Paolo Ruffini a Verissimo: "Vedere soffrire Diana mi fa stare male". Paolo Ruffini ha parlato a Silvia Toffanin della fine della relazione con diana Del Bufalo, tradendo il forte sentimento che ancora lo lega all'attrice con la quale è stato fidanzato dal 2015. Francesca Galici, Venerdì, 20/12/2019, su Il Giornale. La separazione tra Diana Del Bufalo e Paolo Ruffini sta tenendo banco da ormai diversi giorni, da quando l'attrice ha deciso di darne comunicazione via social con un post condiviso sul suo profilo Instagram. Rabbia e rancore traspaiono dalle sue parole, alle quali a distanza di una settimana ha deciso di dare un seguito Paolo Ruffini durante l'intervista concessa a Verissimo, che sarà in onda domani 21 dicembre. Da ormai più di un mese i due non sono più una coppia ed evidentemente Diana Del Bufalo non è riuscita a sopportare oltre quel peso, tanto da volerlo condividere. Diverso è stato l'atteggiamento di Paolo Ruffini, che ha preferito lasciare che fosse la sua ex fidanzata a parlare, riservandosi di parlarne in maniera pacata durante l'intervista con Silvia Toffanin. "Qualsiasi cosa che finisce in maniera dolorosa mi fa star male e mi dispiace", afferma il comico toscano, che è stato legato per diversi anni all'ex alunna di Amici di Maria De Filippi. "L’amore per me è come la vita, si commettono degli errori. Diana è un essere umano stupendo e vederla soffrire mi fa male", confessa l'attore e regista, probabilmente in riferimento alle velate accuse lanciate da Diana Bufalo nel suo post, nel quale ha parlato di "grande delusione e immensa sofferenza." Sono parole molto dolci quelle che Paolo Ruffini dedica a Diana Del Bufalo, con la quale ha fatto coppia fissa dal 2015. Ci sono stati alcuni bassi, momenti di crisi che la coppia sembrava aver superato ma evidentemente certi ostacoli non si lasciano mai del tutto alle spalle. "Tenevo più alla sua felicità che alla mia e alla sua vita più che alla mia. L’ho amata tanto e a volte il mio amore può essere stato sbagliato. Diana rimarrà sempre una principessa Disney meravigliosa", ha dichiarato Ruffini, in una veste inedita. Il pubblico è abituato a conoscerlo per l'ironia e la spensieratezza che regala con i suoi film e le apparizioni televisive ma la fine di un amore scopre sempre un lato nascosto, quella parte che si cerca di preservare e di proteggere. Leggendo il dolore anche nelle parole di Paolo Ruffini, Silvia Toffanin ha provato a chiedere se ci fosse la possibilità di un ritorno di fiamma ma la risposta dell'attore è stata abbastanza netta: "Credo che il suo sia un dolore che mette il punto." Nonostante tutto, nonostante la fine della relazione, ma non dell'amore com'è evidente dalle sue parole, Paolo Ruffini ha voluto fare una dedica speciale a Diana Del Bufalo, che nasconde una piccola speranza: "Le auguro il Natale più bello del mondo e che possa trovarmi in qualche angolo."

·         J-Ax insulta Matteo Salvini. 

Sea Watch, J-Ax insulta Matteo Salvini: "Stronzo pronti a fottere, come i nazisti". Anche il rapper J-Ax è intervenuto a sostegno di Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3. lanciandosi in citazioni di Sant'Agostino, Madre Teresa di Calcutta, Martin Luther King e Gandhi. Il cantante ha addirittura interrotto il suo concerto di Bologna per sottolineare la motivazione sul perché ha postato sui social #iostoconcarola. "Secondo me salvare 40 persone dall'affogare in mare e portarle in salvo, a costo della propria libertà, significa affrontare una di quelle ingiustizie fottendosene delle conseguenze e di cosa ne pensano i commentatori sui social". Poi ancora: "Ora stiamo vivendo un'ingiustizia, è arrivato il momento di intervenire. Che cazzo vuol dire violare le leggi italiane?". E fa il pugno duro a Matteo Salvini. "Per inciso, Martin Luther King è stato arrestato 30 volte. Non fatevi fottere da questi stronzi che hanno nascosto il Rolex sotto la felpa. Non sono il popolo, e non lo rappresentano. Lo sapete che quello che hanno fatto i nazisti in Germania era legale e quindi era giusto?". Insomma, il buonismo ha colpito anche il rapper che guadagna milioni, ma fa la morale. 

·         Fermato per furto il cantante Marco Carta.

Marco Carta assolto per il furto alla Rinascente, il giudice: «Le magliette erano un regalo di compleanno a sorpresa». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. È «insufficiente e contraddittoria» la prova che Marco Carta abbia concorso nel furto di 6 magliette, lo scorso 31 maggio alla Rinascente, di Milano. Lo scrive il giudice Stefano Caramellino nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 31 ottobre nel processo abbreviato ha assolto «per non avere commesso il fatto» il cantante dall’accusa di avere rubato nello store multibrand nel centro di Milano. Secondo il giudice «l’ipotesi ricostruttiva alternativa» della difesa invece «è confortata da elementi di conferma». «Il movente dichiarato da Fabiana Muscas, consistente nel volere fare un regalo di compleanno a sorpresa a Marco Carta - scrive il giudice Caramellino nelle motivazioni della sentenza -, corrisponde a una eventualità non certo remota né congetturale, bensì oggettivamente riscontrata nel caso concreto, poiché coerente con l’effettiva data di compleanno di Marco Carta, dieci giorni prima del fatto». Il cantante aveva da poco compiuto 34 anni: il suo compleanno cade il 21 maggio.

Fermato per furto il cantante Marco Carta. Ma il giudice non convalida l’arresto. Pubblicato sabato l'1 giugno 2019 da Andrea Laffranchi su Corriere.it. Il cantante Marco Carta, 34 anni, è stato arrestato venerdì sera, insieme con una donna di 53 anni, per furto aggravato alla Rinascente di piazza del Duomo, a Milano. Stava uscendo dalla Rinascente con sei magliette del valore di 1.200 euro a cui aveva tolto l’antitaccheggio, ma non la placchetta flessibile che ha suonato all’uscita. Arrestato dalla Polizia locale, per il vincitore di Sanremo, Amici e Tale e Quale Show sono stati disposti gli arresti domiciliari. Sabato mattina al processo per direttissima il giudice non ha però convalidato l’arresto. Il cacciavite usato per togliere l’antitaccheggio e le magliette erano nella borsetta della donna. E il cantante si è difeso dicendo «di non aver rubato lui le t-shirt». Ora la polizia locale ha acquisito i video delle telecamere di sorveglianza della Rinascente, per ricostruire quanto accaduto. Marco Carta comunque rimane imputato: è stato infatti rinviato a giudizio con l’accusa di furto aggravato in concorso. Il processo si terrà a settembre. Il giudice invece ha convalidato l’arresto per la donna, che è stata comunque scarcerata. «Le magliette non le ho prese io, l’hanno visto tutti. Il giudice ha capito, ora sono un po’ scosso perché non sono abituate a questa cose», ha commentato il cantante uscendo dall’aula del Tribunale di Milano dove si è tenuta l’udienza dopo l’arresto. «Ma chi le ha rubate?», gli hanno chiesto i giornalisti. «Non mi va di dirlo. Non faccio la spia. Non sono stato io, questa è la cosa più importante e sono felice di poterlo dire», ha risposto Marco Carta, precisando che «magari ne approfitterò per chiarire bene sui social». «È totalmente estraneo. Marco è una bravissima persona - ha aggiunto il suo avvocato, Simone Ciro Giordano, ai microfoni dopo l’udienza -. Il giudice ha acclarato ciò nell’ordinanza in cui non ha convalidato l’arresto e non ha applicato alcuna misura cautelare». «Carta è felice - ha aggiunto - È stato contentissimo». Marco Carta, 34 anni, è diventato famoso al grande pubblico dopo la vittoria di «Amici» nel 2008. L’anno successivo la vittoria al Festival di Sanremo con «La forza mia». Nel 2017 poi la vittoria nella settima edizione di «Tale e quale show». Di lui si era parlato anche a ottobre 2018 quando aveva fatto coming out in diretta tv raccontando: «Non voglio più nascondermi, sono fidanzato e felice».

Il giudice: "L'arresto di Carta illegittimo". Lo scrive il giudice per le direttissime Stefano Caramellino nel provvedimento dell'1 giugno con cui non ha convalidato i domiciliari. Luisa De Montis, Lunedì 10/06/2019 su Il Giornale. L'arresto del cantante Marco Carta, insieme a una donna, per il presunto furto di sei magliette del valore di 1200 euro alla Rinascente di Milano, "non può ritenersi legittimo". Lo scrive il giudice per le direttissime Stefano Caramellino nel provvedimento dell'1 giugno con cui non ha convalidato i domiciliari. "Carta - spiega il magistrato - non deteneva all'uscita dell'esercizio commerciale la borsa contenente i vestiti sottratti". Era stato invece convalidato l'arresto per l'amica che l'accompagnava nella cui borsa era stato trovato il cacciavite usato per togliere l'antitaccheggio e le magliette. "L'unico teste oculare - si legge nel provvedimento con riferimento alla testimonianza dell'addetto alla sicurezza del grande magazzino - ha descritto un comportamento anteriore ai fatti che ha giudicato sospetto, ma gli elementi di sospetto sono del tutto eterei, inconsistenti: è normale che due acquirenti si guardino spesso attorno all'interno di un esercizio commerciale di grande distribuzione; l'ipotesi che essi stessero controllando se erano seguiti da personale dipendente è formulata in modo del tutto ipotetico e vago ("Come se controllassero", dice l'addetto sentito a sommarie informazioni il 31 maggio)". Inoltre, "il fatto che i due coimputati si siano recati in un piano diverso per provare le maglie è compatibile con il proposito di trovare un camerino di prova libero, posto che entrambi hanno affermato che grande era l'affollamento e che lo stesso scontrino in atti conferma che era giorno di offerte speciali, cosiddetto “black Friday”. Il passaggio della borsa è stato confermato dall'imputato, che quindi sulla dinamica ha confermato integralmente le risultanze delle sommarie rese dall'addetto alla sicurezza". Nel provvedimento del giudice Caramellino, si legge anche che "gli operanti che hanno provveduto all'arresto (la Polizia Locale, ndr) non hanno visto alcunchè dell'azione asseritamente furtiva e che, con riferimento alla posizione di Carta, la versione degli imputati non è allo stato scalfita da alcun elemento probatorio contrario". Il processo a carico di Carta e dell'amica Fabiana Muscas, infermiera di 53 anni, comincerà il 20 settembre. Per il magistrato, è rilevante anche il fatto che nemmeno l'addetto alla vigilanza ha affermato "di avere visto l'inserimento degli abiti nella borsa dopo che era stata appoggiata nel camerino, nè ha affermato di avere sentito alcun rumore compatibile con la rottura delle placche antitaccheggio, peraltro avvenuta con uno strumento solo parzialmente idoneo, vale a dire un cacciavite e non un tronchese".

Marco Carta e il furto, pm ricorre in appello: «Condannarlo a 8 mesi». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Il pm Nicola Rossato ha depositato ricorso in appello contro l’assoluzione del cantante Marco Carta dall’accusa di tentato furto di 6 magliette, il 31 maggio, alla Rinascente di Milano. Per la Procura, che in 28 pagine smonta la sentenza di fine ottobre, il 34enne va condannato a 8 mesi perché contribuì al furto commesso con un’amica rimuovendo «le placchette antitaccheggio» e nascondendole «nel bagno». Per il pm il giudice è stato «molto indulgente» nel credere al cantante, malgrado le dichiarazioni di un «teste oculare». Il pm nel ricorso spiega di aver già dato conto nel primo grado, davanti al giudice Stefano Caramellino, «di quante volte gli imputati hanno mentito» nell’interrogatorio di convalida (il giudice non convalido’ l’arresto di Carta, ma poi la Cassazione di recente gli ha dato torto) anche sulla base, poi, della «visione dei filmati di videosorveglianza». Malgrado ciò, si legge nel ricorso, il giudice ha ritenuto di «dare la prevalenza nella ricostruzione degli eventi al narrato degli arrestati (Fabiana Muscas si è assunta le responsabilità e per lei è stata decisa la messa alla prova, ndr)», «rispetto a quello del teste oculare». E ciò anche se «la genuinità delle relative dichiarazioni» dei due «è ovviamente inficiata dal rapporto di amicizia e dalla preoccupazione della Muscas» per «le conseguenze mediatiche della vicenda che potrebbero derivare a Carta». Carta, spiega ancora il pm, «nega il proprio coinvolgimento, ma non riesce a spiegare quando e in che modo la Muscas avrebbe preso i capi di abbigliamento da lui indossati nel camerino», ossia le 6 magliette del valore di 1200 euro. Per la Procura, che punta a smontare nel dettaglio tutti i passaggi delle motivazioni del verdetto, «l’intero percorso motivazionale» del giudice «parte dall’assunto che» il teste oculare, ossia l’addetto alla vigilanza della Rinascente, «non sia credibile e tutti gli elementi probatori a disposizione» sono stati «vagliati secondo tale prospettiva». Il giudice, infatti, nelle motivazioni, depositate a fine novembre, aveva sostenuto che la prova della colpevolezza del cantante era «insufficiente e contraddittoria». E che era valida, invece, la ricostruzione alternativa, ovvero che a rubare le t-shirt fu l’infermiera e amica Muscas, che voleva fare un «regalo di compleanno» al 34enne. Nel frattempo, la Suprema Corte ha stabilito che il giudice, nel non convalidare in direttissima l’arresto eseguito dalla Polizia locale, «non ha fatto buon governo» dei principi che regolano «l’arresto in flagranza di reato e la relativa procedura di convalida».

Il pm ricorre contro l'assoluzione di Marco Carta: "Va condannato a 8 mesi". Il cantante che ha vinto il Festival di Sanremo 2009, è stato assolto in primo grado nel processo per il furto di sei magliette alla Rinascente. Il pubblico ministero: "Giudice indulgente". La Repubblica il 14 dicembre 2019. La procura non ci sta all'assoluzione del cantante Marco Carta dall'accusa di tentato furto di sei magliette, il 31 maggio, alla Rinascente di Milano, e fa appello: secondo il pm Nicola Rossato, che in 28 pagine smonta la sentenza di fine ottobre, il vincitore di "Amici 2008" e "Sanremo 2009" va condannato a 8 mesi e 400 euro di multa perché contribuì al furto commesso con un'amica rimuovendo "le placchette antitaccheggio" e nascondendole "nel bagno". Per il pm il giudice è stato "molto indulgente" nel credere a Carta, malgrado le dichiarazioni di un "teste oculare". Il magistrato nel ricorso spiega di aver già dato conto nel primo grado "di quante volte gli imputati hanno mentito" nell'interrogatorio di convalida anche sulla base, poi, della "visione dei filmati di videosorveglianza". Malgrado ciò, si legge nel ricorso, il giudice ha ritenuto di "dare la prevalenza nella ricostruzione degli eventi al narrato degli arrestati" (Fabiana Muscas si è assunta le responsabilità e per lei è stata decisa la messa alla prova - ndr), "rispetto a quello del teste oculare". E ciò anche se "la genuinità delle relative dichiarazioni" dei due "è ovviamente inficiata dal rapporto di amicizia e dalla preoccupazione della Muscas" per "le conseguenze mediatiche della vicenda che potrebbero derivare a Carta". Questi, spiega ancora il pm, "nega il proprio coinvolgimento, ma non riesce a spiegare quando e in che modo la Muscas avrebbe preso i capi di abbigliamento da lui indossati nel camerino", ossia le sei magliette del valore di 1.200 euro. Per la Procura, che punta a smontare nel dettaglio tutti i passaggi delle motivazioni del verdetto, "l'intero percorso motivazionale" del giudice "parte dall'assunto che" il teste oculare, ossia l'addetto alla vigilanza della Rinascente, "non sia credibile e tutti gli elementi probatori a disposizione" sono stati "vagliati secondo tale prospettiva". Il giudice, infatti, nelle motivazioni, depositate a fine novembre, aveva sostenuto che la prova della colpevolezza del cantante era "insufficiente e contraddittoria". E che era valida, invece, la ricostruzione alternativa, ovvero che a rubare le t-shirt fu l'infermiera e amica Muscas, che voleva fare un "regalo di compleanno" al 34enne. Ma secondo la procura, con queste motivazioni il giudice ha cercato solo "di rinvenire elementi che potessero confermare" la propria precedente decisione di non convalidare l'arresto (decisione stigmatizzata dalla Cassazione) e ha sviscerato "le possibili ricostruzioni fattuali alternative per quanto improbabili o stravaganti". Come quando il "giudice si sofferma sul calcolo, effettuato mediante una stima, del numero di persone che hanno frequentato" uno dei bagni della Rinascente quel giorno, "dopo Carta" che, per l'accusa, proprio là avrebbe nascosto le placchette antitaccheggio. Tra i vari capitoli del ricorso della Procura, poi, c'è anche quello che verte sull'uso del "termine 'camerini' anziché del termine al singolare 'camerino'" che, "sembra paradossale", scrive il pm, ma "è uno degli elementi usati dal Giudice per sancire l'inattendibilità del testimone".

Marco Carta e il furto alla Rinascente. L’addetto: «Ho visto come è andata». Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 da Gianni Santucci e Andrea Laffranchi su Corriere.it. Sono le 19.30 di venerdì quando un responsabile della sicurezza della Rinascente nota un ragazzo e una donna. Hanno un comportamento strano. S’avvicinano ai vestiti, ma più che altro si guardano intorno di continuo «come se controllassero di non essere osservati». Inizia in quel momento, nello storico tempio dello shopping milanese, nella folla del «black friday», la sequenza che porterà all’arresto del cantante Marco Carta, 34 anni, vincitore di Sanremo 2009, bloccato insieme a una sua amica, 53 anni, per il furto di sei costosissime t-shirt «Neil Barrett» (valore: 1.200 euro). Ieri mattina, il giudice delle direttissime ha convalidato l’arresto della donna (era lei che aveva in borsa le magliette e il cacciavite per spaccare i sigilli), ma non quello del cantante: che resta comunque imputato di furto aggravato in concorso. Udienza del processo: 20 settembre. Il Corriere può ricostruire la dinamica del furto grazie alla testimonianza dell’addetto alla sicurezza della Rinascente allegata ai verbali di arresto. L’uomo vede la coppia che prende le sei magliette al primo piano e poi si avvia con le scale mobili fino ai camerini del terzo: in questa fase «la donna resta fuori e passa le maglie, una per una, al ragazzo all’interno del camerino. Finito di passare gli abiti, la donna dà al ragazzo anche la sua borsa. Il tutto dura qualche minuto». A quel punto Carta esce e «nessuno dei due ha più in mano le maglie»: che infatti poco dopo, quando la coppia sarà fermata, verranno ritrovate nella borsa della signora. Usciti dai camerini, i due salgono al quarto piano, senza accorgersi che l’uomo della security li sta seguendo senza mai perderli di vista: il cantante entra per un attimo in bagno e esce. Poi la coppia scende al secondo, «dove il ragazzo prende due costumi da uomo, va alle casse e li paga. Poi entrambi imboccano l’uscita su piazza Duomo». Le barriere antifurto suonano: perché le magliette di così alto valore avevano due tipi di sensori. Quelli rigidi erano stati spaccati, ma erano rimasti quelli più morbidi e nascosti, più difficili da individuare. La dinamica del furto sembra dunque lineare e lampante, proprio perché è stata seguita minuto per minuto dalla «guardia». Ma nei verbali d’arresto gli uomini dell’Unità reati predatori della Polizia locale, specializzati sui ladri dei negozi del centro, sottolineano due elementi. Il primo: subito dopo il fermo all’uscita, nel bagno del quarto piano vengono ritrovati proprio i sigilli antifurto tolti alle magliette, fatto che presuppone una certa scaltrezza, perché di solito gli impiegati della Rinascente fanno verifiche nei camerini per controllare se ci siano «resti» di quel genere e intercettare potenziali ladri. In più, gli investigatori fanno notare quell’acquisto regolare (77,28 euro) che potrebbe rientrare in uno stratagemma tipico di chi ruba nei grandi magazzini: fare un piccolo acquisto per sembrare un tranquillo cliente, non destare sospetti e nascondere il grosso degli oggetti trafugati. Davanti al giudice, il cantante ha attribuito tutta la responsabilità alla donna, che ha confermato questa versione (altro elemento decisivo per la mancata convalida dell’arresto). La Polizia locale ha scaricato i video delle telecamere interne della Rinascente, che saranno fondamentali nel processo per confermare (o smentire) la testimonianza degli addetti alla vigilanza. «Le magliette non le ho prese io, l’hanno visto tutti - ha detto il cantante - Sono onesto, non rubo». Carta ha parlato anche di «estraneità» al fatto: per la giustizia, in questo momento, non è estraneo, ma imputato per quel furto.

Marco Carta arrestato, Leonardo Pieraccioni commenta la notizia ma viene subito insultato. Libero Quotidiano l'1 Giugno 2019. "6 magliette 1200 euro! E per furto hanno arrestato Marco Carta". Le difese sono arrivate da Leonardo Pieraccioni che con un post su Twitter ha ironizzato. Immediate le critiche: "Le espongono ma nessuno ti obbliga a comprarle, così come nessuno ti legittima a prenderle senza pagarle". E ancora: "Se pensi che costano troppo non le compri, nemmeno le rubi" e "Caro il mio Leonardo, hai perso un'occasione per stare zitto". 

Caterina Balivo furiosa per le battute su Marco Carta: "Ma in che mondo viviamo?" Libero Quotidiano l'1 Giugno 2019. La notizia dell'arresto di Marco Carta, in seguito all'accusa e all'arresto per furto (arresto non convalidato poi dal giudice) ha lasciato tutti senza parole facendo in breve il giro di tutti i media. Giornali e social si sono scatenati contro il cantante e numerosi sono stati i commenti più o meno ironici sull'accaduto. Caterina Balivo, amica del cantautore di Amici, più volte ospite a Vieni da me, si è indignata moltissimo: "Guardo l'infinito del mare e penso che i più amano deridere chi si trova in difficoltà psichica o economica o familiare. In che mondo viviamo? Mai nessuno che tenda la mano o che stia zitto. Buon week end, evito di guardare i social perché oggi davvero non mi piacciono". Dopo le repliche di alcuni followers la conduttrice ha poi spiegato meglio il suo pensiero aggiungendo attraverso alcuni commenti di non voler in alcun modo giustificare il comportamento di Carta ma piuttosto di non sopportare il clima di sfottò che si è creato intorno alla vicenda. "Non mi piace subito fare battute e deridere chi ha fatto una cosa brutta e va fatta pagare". "Nessuno giustifica. Ma deridere, no, non si fa mai di nessuno. Così sono stata educata e così vorrei che fossero i miei figli da grandi", ha aggiunto Caterina.  

Paolo Giordano per “il Giornale” il 2 giugno 2019. La storia di Marco Carta ha gli ingredienti perfetti del feuilleton che mescola sfortuna e talento, cadute e risalite. E l' arresto per furto (con tanto di mancata convalida) è un altro capitolo ideale della vita di questo cagliaritano di 34 anni appena compiuti, rimasto orfano di padre a 8 anni (leucemia) e di madre a 10 (cancro) che ha subito sostituito la passione per la musica allo studio da perito. Faceva il parrucchiere nel salone della zia quando finalmente è entrato (a fine 2007) nel cast di Amici dopo averci provato per ben quattro volte, avanti e indietro Cagliari Roma. Lì ad Amici, pian piano, dopo le prime puntate è diventato un idolo del pubblico (molto meno degli insegnanti) ha vinto il programma con il 75% dei consensi, trasformandosi di diritto nel primo parafulmine degli anti-talent, categoria allora diffusissima di chi contesta il successo «tanto e subito».

Pro e contro. Se lo merita. No, non vale nulla. Figurarsi dopo la vittoria al Festival di Sanremo del 2009, ottenuta con una quantità enorme di televoto: era polemica piena. Mentre si giocava la vittoria all' Ariston, Marco Carta era atteso, pedinato, invocato per le strade di Sanremo più di chiunque altro in quella edizione, a dimostrazione che spesso storie così si trasformano in autentici catalizzatori di consenso. La Forza mia si intitolava il suo brano al Festival, e la forza sua allora sembrava essere inarrestabile. Però Marco Carta era poco più di un ventenne, peraltro molto sensibile, e l' onda d' urto del successo si è rivelata quantomeno destabilizzante, come rischia di essere per chiunque si trovi a passare in pochi mesi da un salone da parrucchiera di Cagliari ai principali palchi italiani. Nonostante una voce particolare, con un bel «raschiato» e una buona estensione, i suoi passi successivi non hanno ottenuto un riscontro paragonabile. Spieghiamoci: l' impatto mediatico è sempre stato alto, ma i risultati di vendita e di critica un po' meno. Però una delle caratteristiche di questo ragazzo sardo (che ha fatto un coraggioso e ormai inderogabile «coming out» televisivo sulla propria omosessualità) è di saper diversificare, di essere eclettico e sempre disposto a nuove sfide. Per dire, nel 2010 ha addirittura fatto la «voce recitante» in Pierino e il lupo di Sergej Prokofiev. E poi, nel 2016 è arrivato sesto all' Isola dei Famosi, conquistando un pubblico completamente diverso da quello che lo aveva conosciuto fino a quel momento. Dopotutto Marco Carta, che tuttora ha una frangia agguerrita di tifosi che lo segue a qualsiasi costo, mostra ogni volta una forza divisiva che riesce sempre a sparigliare le carte. E così è stato anche alla settima edizione di Tale e Quale Show su Rai1 nel 2017, dove è arrivato tra i tanti e ne è uscito vincitore, confermando di essere un personaggio che, se focalizzato su di un obiettivo, riesce a non disperdere le energie e a ottenere il meglio. È quando non c' è una precisa concentrazione sull' obiettivo che forse il suo lato selvaggio e incontrollato ha il sopravvento. E anche ora, nei risvolti indefiniti di questa vicenda, il feuilleton di Marco Carta si allunga con un altro capitolo, imprevisto e imprevedibile, che creerà ancora più polemica su questo ragazzo venuto dal nulla con la voglia di lasciare un segno.

Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2019. La parabola, quella artistica non quella umana, è sempre più veloce. Tanto rapidamente si arriva in vetta, quanto in fretta si viene scaricati. Marco Carta ha aperto l' era dei talent. Ha vinto Amici 2008 e, tranne i nerd del genere, nessuno ricorda i nomi scritti prima del suo nell' albo d' oro. C' è un prima e un dopo Marco Carta.

Erano gli anni in cui la discografia, presa a schiaffi dalla pirateria, aveva abdicato alla sua funzione di scouting e si era rifugiata nel porto sicuro dei talent. La televisione offriva dei «semilavorati» in cui quel particolare tipo di ingrediente costituito dalla popolarità abbondava. Il teorema era: se quello è già noto, venderà anche. Vero. «Ti rincontrerò», l' album di debutto di Marco uscito dopo l' esperienza di Amici, salì fino al podio della classifica di vendita e al disco di platino. La narrazione è quella del sogno e del riscatto, del ragazzino rimasto orfano prestissimo e cresciuto dalla nonna che arriva grazie alla musica. L' anno dopo l' ex parrucchiere sardo, grazie al televoto (se lo segni chi pensa che debba essere legge assoluta per decidere le sorti dei concorsi) vinse il Festival di Sanremo, una delle edizioni di Paolo Bonolis, con «La forza mia». Ancora disco di platino. Un altro anno e un altro album («Il cuore muove»): nonostante l' ondata dei talent fosse in piena, Marco resisteva. Dove c' era un premio con il televoto o un singolo da scaricare a 99 centesimi la base di fan si mobilitava. Gli album iniziavano a perdere qualche colpo, la qualità artistica era quella che era, ma sembrava che il cantante fosse riuscito a superare il punto critico, quello in cui la bolla si sgonfia. Insomma, sembrava essersi garantito una carriera, magari in tono minore.

I problemi sono iniziati quando l' effetto sostituzione si è fatto sentire, quando il pubblico di Amici si è spostato su Alessandra Amoroso e su Emma Marrone. Carattere spigoloso e immune all' autocritica, Carta si era fatto molti nemici nel giro, non soltanto nella critica musicale - che non gli ha mai risparmiato nulla -, ma anche fra gli addetti ai lavori. E quando i passi falsi sono diventati più di uno, si è formato il vuoto attorno alla sua carriera professionale. A quel punto a poco sono serviti i cambi nello staff che gestiva la sua carriera. Per cercare di riportare interesse sul personaggio, nel 2016 Marco aveva pianificato un ritorno passando ancora dalle telecamere. Una specie di nuovo battesimo. La sua partecipazione a «L' isola dei famosi» era però sembrata il tentativo disperato di riaccendere le luci e il disco uscito per l' occasione («Come il mondo») era stato un naufragio. Erano rimasti solo i fan fedelissimi, agguerriti come pochi altri, a seguirlo. E visto che anche il successivo «Tieniti forte» era passato inosservato, ecco un' altra tornata di passaggi sul piccolo schermo. Le imitazioni di «Tale e Quale», di cui ha vinto l' edizione 2017 sotto lo sguardo di Carlo Conti, e il coming out durante un' intervista con Barbara D' Urso lo scorso autunno. Fiammate che riportano un' attenzione che non dura. Perché il problema sono le canzoni forti: quelle continuano a non arrivare.

Marco Carta, dove si fa beccare dopo l'accusa di furto alla Rinascente: altro disastro per l'ex Amici? Libero Quotidiano il 3 Giugno 2019. Dopo l'arresto, la fuga all'estero. Marco Carta non si fa mancare nulla e dopo lo scandalo alla Rinascente di Milano (andrà a processo per concorso in furto aggravato a settembre) ha pensato bene di andare in vacanza a Mykonos, in Grecia, per "staccare la spina", come testimoniano alcune "Instagram stories" pubblicate sul suo profilo. Ancora indagato a piede libero, al cantante sardo ex vincitore di Amici di Maria De Filippi la giustizia consente di lasciare l'Italia, anche se la sua posizione non pare così limpida. Un addetto alla sicurezza e un commesso del grande magazzino di lusso milanese hanno ricostruito la dinamica del "colpo" su Repubblica: "Mi sono accorto di una coppia, un ragazzo e una donna, che si guardavano spesso attorno, come se controllassero di non essere osservati dal personale, un comportamento che mi ha insospettito, diciamo anomalo - ha spiegato l'addetto alla sicurezza -. Allora ho deciso di seguirli. Ho visto prendere delle maglie dagli espositori e salire con la scala mobile fino al terzo piano. Entrano nei camerini, quando escono, in mano non avevano più le maglie prelevate poco prima. Mentre noi della sorveglianza continuavamo a seguirli, loro si dirigono al quarto piano nei bagni della clientela. Vedevo il ragazzo entrare e uscire immediatamente. Credo si tratti di un'azione preordinata. Lui ha nascosto gli abiti nella borsa di lei, poi si è chiuso alla toilette e lì ha staccato le placche antifurto". "Vedevo entrambi i soggetti prelevare delle maglie al primo piano e con le stesse salire con le scale mobili fino al terzo piano - ha ricordato invece il commesso -; fatto ciò, li vedevo entrare nei camerini di prova dove rimanevano svariati minuti. In questa fase, la donna restava fuori e passava le maglie al ragazzo che si trovava all'interno. Finito di passare tutte le maglie, la donna dava la propria borsa personale al ragazzo, che poco dopo usciva dai camerini. Entrambi usciti dai camerini, notavo che in mano non avevano più le maglie prelevate. Seguivo sempre visivamente i soggetti e li vedevo salire con le scale mobili e andare al quarto piano, più precisamente nei bagni adibiti al pubblico (vedevo il ragazzo entrare e uscire immediatamente). Riprendevano le scale mobili fino al piano secondo, dove il ragazzo prelevava dagli espositori due costumi da uomo e si recava alle casse per il pagamento. Riprendevano le scale mobili fino al piano terra, dove oltrepassavano le batterie anti-taccheggio facendole allarmare".

Marco Carta, la ricostruzione: "Chi ha cercato di ostacolare il suo arresto alla Rinascente". Libero Quotidiano 3 Giugno 2019. Marco Carta è per ovvie ragioni un protagonista della cronaca di questi ultimi giorni. Dopo l'arresto e la mancata convalida da parte del giudice, il cantante è partito alla volta della Grecia e al momento si trova a Mykonos. Nel frattempo con il proseguire delle indagini emergono fuori nuovi particolari. Oltre alla versione riportata da un vigilante della Rinascente che sembrerebbe inchiodare il cantante, il web è infiammato tra sostenitori e detrattori del cantante sardo. Carta ha un seguito vastissimo sui social e, stando a quanto rivelato dalle telecamere di sicurezza, sono stati proprio i fans, nella serata di venerdì a rendere difficile il fermo di Carta all'uscita dalla Rinascente. Mentre la polizia municipale tentava di fermare il cantante, infatti, i fans lo hanno assalito chiedendo selfie, abbracci, autografi, foto a raffica proprio mentre stava uscendo dal grande magazzino insieme a Fabiana Muscas, 53 anni, che nascondeva in borsa sei magliette Neil Barret da 1.200 euro. Ignari di essere nel bel mezzo di un arresto i sostenitori di Carta lo riconosciuto e accerchiato rimanendo basiti quando lo hanno visto andare via accompagnato dagli agenti.

Fabiana Muscas, chi è la donna che accompagnava Marco Carta alla Rinascente. Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 da Alberto Pinna su Corriere.it. La donna che ha accompagnato Marco Carta alla Rinascente ed è stata poi arrestata con lui per il furto di sei magliette è un’infermiera professionale. Fabiana Muscas lavora all’ospedale Brotzu di Cagliari, nella divisione cardiologia. «È lei, l’abbiamo riconosciuta nelle immagini in televisione mentre usciva dal tribunale» così alcuni suoi colleghi. Ha lavorato fino a giovedì, poi alla fine del turno ha preso un aereo e ha raggiunto Carta a Milano. Si conoscono da anni, lei era una fan accanita e dopo la vittoria al Festival di Sanremo la frequentazione fra i due è diventata amicizia. Nata nell’ottobre 1966, diploma, ottime referenze, carattere non facile. «È una donna decisa, rapporti a volte spigolosi con gli altri operatori sanitari», dicono in reparto. Della divisione cardiologia è stata coordinatrice dell’équipe infermieristica, ha partecipato come tutor a numerosi eventi formativi e a congressi scientifici, con relazioni sul ruolo e i compiti del personale infermieristico nei programmi di riabilitazione dopo eventi cardiovascolari. Ha avuto anche parte attiva nel sindacato, iscritta alla Cisl (ora non più) e nella lista per l’elezione della rappresentanza sindacale aziendale. Negli ultimi tempi aveva manifestato il proposito di andare via da Cagliari. Sembra confermarlo anche la partecipazione a una recentissima selezione all’Azienda ospedaliero universitaria Sant’Andrea di Roma. Il suo nome figura nella graduatoria degli idonei a un concorso di mobilità per collaboratori sanitari professionali. Ad amici che hanno cercato di contattarla dopo la disavventura alla Rinascente, laconiche risposte: «Non ho fatto niente».

Infermiera, vedova e fan accanita: Fabiana Muscas, la donna arrestata con Carta. Pubblicato martedì, 04 giugno 2019 da Alberto Pinna su Corriere.it. Piccoletta, bionda, svelta, decisa e all’occorrenza ruvida. Fabiana Muscas, l’amica di Marco Carta arrestata con lui per il furto di sei magliette, è un’infermiera professionale. Lavora all’ospedale Brotzu di Cagliari, divisione cardiologia. Al processo per direttissima domenica il cantante si è difeso: «Io non ho rubato». E il giudice non ha convalidato l’arresto. A lei - 53 anni, sposata e vedova, una figlia - invece lo ha confermato, pur senza misure cautelari (cioè nessuna detenzione, in attesa del processo per entrambi, il 20 settembre). Da quel momento è svanita: non si sa se sia ancora a Milano o se è ritornata a Cagliari, dove vive in un quartiere popolare in casa dei genitori. «Fabiana non è qui» risponde al citofono una voce femminile. E non era neanche al lavoro in ospedale. Fabiana Muscas è al centro della brutta storia che ha coinvolto Carta: potrebbe salvarlo, prendendo per sé ogni colpa, o inguaiarlo, accreditando la versione dell’addetto alla vigilanza, che li ha seguiti alla Rinascente e ha affermato che è stato Carta a misurare le magliette e a staccare i dispositivi antitaccheggio. Lei tace, per ora, anche se a un’amica ha risposto con un breve messaggio, fotocopia di quanto ha messo a verbale Carta: «Io non ho fatto niente». Anche i colleghi dell’ospedale sono increduli: «È una donna determinata, a volte spigolosa nei rapporti, ma ineccepibile nel lavoro. Quando l’abbiamo vista in tv a palazzo di giustizia e abbiamo saputo siamo rimasti allibiti. Impossibile pensare che una come lei abbia potuto rubare». Il curriculum sembrerebbe confermare: coordinatrice dell’équipe infermieristica di cardiologia, tutor di eventi formativi, relatrice in congressi scientifici, esperta di programmi di riabilitazione dopo eventi cardiovascolari. Si è impegnata anche in attività sindacale, con la Cisl (ma ora non è più iscritta) fra i delegati della lista per la rappresentanza aziendale. Tuttavia una nota dell’ordine degli infermieri di Cagliari proietta qualche ombra («Fabiana Muscas non risulta iscritta all’albo») e annuncia approfondimenti sulla sussistenza dei requisiti per esercitare la professione. Sulla vita privata si sa poco: famiglia tranquilla, padre artigiano pasticciere, madre casalinga, una figlia che vive a Sassari. Ha lavorato fino a venerdì, poi, come spesso nei fine settimana, ha preso l’aereo ed è andata da Carta a Milano. I due si conoscono bene: lei fan entusiasta, sporadiche frequentazioni dai tempi di «Amici», dopo la vittoria al festival di Sanremo un’intesa sempre più solida. Sempre più attratta dagli atteggiamenti anticonvenzionali del cantante, Fabiana da qualche tempo ostentava piercing e tatuaggi. E non sembrava contenta del lavoro, forse voleva andar via dalla Sardegna: aveva fatto domanda per partecipare a una selezione dell’Azienda ospedaliera universitaria Sant’Andrea di Roma. Ora il futuro - almeno quello giudiziario - di Marco Carta, può essere nelle sue mani, anche se l’avvocato Simone Ciro Giordano, che difende il cantante, si mostra sicuro: «Dimostreremo che è innocente, non temiamo le immagini delle telecamere: saremo noi a chiederne l’acquisizione». 

Amica e infermiera, ecco la donna arrestata per furto con Marco Carta. I due sono stati fermati alla Rinascente di Milano con sei magliette per un valore di1200 euro non pagate. Lavora in ospedale, ha fatto la tutor ma l'ordine professionale dice che non risulta iscritta. Monia Melis il 03 giugno 2019 su La Repubblica.  È un'infermiera che lavora nelle corsie del reparto di cardiologia dell'ospedale Brotzu di Cagliari, uno dei più importanti della Sardegna. È lei, Fabiana Muscas (53 anni il prossimo ottobre) la donna che lo scorso venerdì era in compagnia del cantante Marco Carta quando i due sono stati fermati per il furto di sei magliette da 1200 euro alla Rinascente di Milano. Sarebbe arrivata nella penisola con un volo diretto, una volta finito il suo turno. Con il cantante 32enne la donna condivide l'origine isolana, del sud Sardegna, come tradisce il suo cognome. Nessun profilo social per lei, le uniche tracce sul web riguardano il suo lavoro. Relatrice per alcuni convegni scientifici, referente per alcuni corsi di aggiornamento di settore sui "percorsi diagnostici e terapeutico-assistenziali" per pazienti cardiopatici rivolti agli infermieri. Ma soprattutto il lavoro sul campo, in ospedale. Una carriera interna dopo un periodo di precariato e il diploma, chi la conosce la descrive come una professionista di carattere, attiva anche nel sindacato. La forte passione per il cantante riguarda la sua vita privata e non è un segreto, sarebbe riuscita a instaurare con lui un'amicizia dopo la vittoria a Sanremo. Ed è lei – bionda - ad apparire di sfuggita nei video al tribunale di Milano, poi riconosciuta dai colleghi sardi. Tra i documenti recenti – fine maggio - che la riguardano anche una procedura di mobilità nazionale tra aziende ed enti sanitari per collaboratori professionali: il suo nome è nell'elenco dell'Azienda ospedaliero universitaria Sant'Andrea di Roma. E oltre al giallo delle magliette c'è un altro giallo che riguarda Fabiana Muscas. Pur risultando nelle delibere dell'azienda ospedaliera e la sua attività di tutor e relatrice,  con nome e qualifica,  l'ordine degli infermieri di Cagliari sostiene che non esiste una sua iscrizione.  “Se tale dato venisse confermato, costei eserciterebbe la professione infermieristica al di fuori delle norme vigenti in materia”. E propone quello che lo stesso ministro della Salute Giulia Grillo ha indicato, ovvero "pugno duro contro l'abusivismo professionale, sia nei confronti dell'infermiera, sia di chi ha permesso che una persona non in regola con la legge esercitasse e svolgesse ruoli perfino di tutor e di coordinamento".

Marco Carta, perché avete già deciso che è colpevole? Angela Azzaro 5 giugno 2019 su Il Dubbio. Il piacere che dà la caduta di un potente o di una persona famosa non è un sentimento nuovo. Più si sta in alto, più è forte il tonfo, anche perché sotto ad aspettare chi crolla c’è la folla plaudente. Ma questa sorta di rito che sopravvive dalla notte dei tempi, assume una particolare ferocia quando la folla plaudente ha a disposizione un nuovo strumento come i social network. La storia del cantante Marco Carta, prima arrestato e poi rinviato a giudizio per un furto di magliette alla Rinascente di Milano, è emblematica di come oggi si reagisca rispetto alle accuse mosse a qualcuno più importante di noi. Quanto la notizia ha avuto risalto su siti, tv e giornali che hanno titolato a carattere cubitali come se fosse stato finalmente catturato Jack lo Squartatore “arrestato Marco Carta”, su facebook e su twitter c’è stata una gara, non di solidarietà, ma di condanna. L’utente dell’acquario del web dopo qualche secondo aveva già deciso: il vincitore di Sanremo 2009, uno dei volti più noti del talent Amici, è colpevole. L’entità del furto, 6 magliette per un totale di 1200 euro, ha impedito di usare toni particolarmente aggressivi. Una volta tanto a nessuno è venuto in mente di invocare la pena di morte o l’ergastolo. Per quanto crudeli, i commentatori hanno dovuto frenare il loro desiderio di vendetta. Su una cosa però non hanno ceduto: la convinzione che se si è accusati, bisogna aver per forza commesso qualcosa di sbagliato. La presunzione di innocenza non vale neanche in questo caso, quando in gioco non c’è l’accusa di omicidio, ma di aver rubato alcune magliette. La prima udienza è stata fissata per il 20 settembre, a processo non solo Carta ma l’amica con cui si trovava venerdì scorso alla Rinascente, indicata da alcuni organi di stampa, che ne hanno fornito ampiamente le generalità, come la vera responsabile. Vedremo. Per fortuna non siamo noi a dover decidere su facebook, né saranno i giornali ad emettere la sentenza. Non solo abbiamo già deciso che sono colpevoli, ma abbiamo anche dimenticato la pietà. Quello che forse più colpisce di questa vicenda è come molti si siano sentiti in dovere, non solo e non tanto di condannare, ma di ironizzare» : una feroce ironia. In pochi, almeno sul web, hanno provato pietà per una persona, che proprio perché famosa viene ancora di più travolta da episodi come questo, vere o false siano le accuse. Darebbe un po’ di sollievo davanti ad eventi che risultano ancora avvolti dall’incertezza chiedersi, non se uno è colpevole o meno, ma come mai si è trovato coinvolto, cosa lo abbia spinto, quale sia stata la dinamica. Sarebbe cioè umano, mettersi nei panni dell’altro, provare a capire che cosa stia provando, tentare di comprendere le sue ragioni, giuste o sbagliate che siano. Ci metteremmo così non dalla parte dei giudici, ma proveremo a restare quello che siamo: persone come le altre con tutti i nostri pregi e i nostri difetti.

Renato Franco per corriere.it il 6 giugno 2019. «Ho passato dei momenti brutti, mi ripetevo che ero una brava persona, l’opposto che un ladro, che è la cosa più brutta di questo mondo». Marco Carta ha scelto la tv per raccontare la sua verità sull’accusa di furto di sei magliette (valore 1.200 euro) alla Rinascente di Milano. Il cantante si è affidato ancora una volta a Barbara D’Urso: alla conduttrice aveva già rivelato qualche mese fa il suo coming out, mercoledì dopo la mezzanotte era di nuovo lì, su Canale 5, a Live - Non è la D’Ursoper offrire la sua ricostruzione dei fatti. «Sono molto molto scosso — ha detto tra mille frasi interrotte dall’emozione, lacrime comprese, la conduttrice che gli teneva la mano —, è difficile quando sei in un manicomio dimostrare che non sei pazzo». Riannoda i fili di quel venerdì sera: «Ero con una persona che è stata fermata, un’amica che conosco da tempo. Io avevo una busta con delle cose pagate, con regolare scontrino. All’uscita gli addetti alla sicurezza ci hanno fermato e abbiamo dovuto seguirli. Poi ho visto che toglievano delle magliette dalla borsa della mia amica: ero sconcertato, allibito, per me non era possibile. Alla fine ci hanno separato, siamo saliti su due macchine della polizia e ci hanno portato in cella». Dopo il post su Instagram («sono una persona onesta e certamente non rubo»), Marco Carta ha voluto ribadire di essere estraneo ai fatti, anche se il padre della donna con cui era a fare shopping la vede diversamente: «Mia figlia si è presa la responsabilità per salvare lui». Ad accusare il cantante c’è anche un responsabile della sicurezza che era in servizio alla Rinascente e che ha messo a verbale di aver visto Carta entrare nel camerino e la donna passargli una maglietta alla volta e, alla fine, la borsa. Poi i due sono entrati nella toilette (dove sono stati trovati i sigilli antifurto tolti alle t-shirt) e quindi si sono diretti verso l’uscita. Le barriere antifurto hanno suonato perché le avevano un antitaccheggio più morbido e nascosto. Dopo qualche ora in cella («mi sentivo un animale in gabbia») il giudice aveva deciso di non convalidare l’arresto per il vincitore di Sanremo 2009, ma il cantante dovrà comunque comparire il 20 settembre in tribunale per difendersi dall’accusa di furto aggravato. La notizia era diventata subito virale in Rete e sui social, migliaia di condivisioni, lo stupore per una persona famosa che cade, la gara a chi fa la battuta più divertente. Per la verità c’è tempo.

Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 13 Giugno 2019. "È difficile credere alle cose belle, ma è possibile", ha dichiarato il cantante Marco Carta a Domenica Live qualche giorno fa, quando per la prima volta ha parlato dell' ormai noto furto di magliette alla Rinascente di Milano per il quale sarà processato a settembre per direttissima. In effetti è davvero difficile credere a tutte le cose belle che ha raccontato, perché la sua versione dei fatti è lacunosa e zoppicante, costellata di "Non posso rispondere". Decido quindi di chiamarlo per farmi chiarire alcuni punti. Intanto l' antefatto: venerdì 31 maggio la Rinascente in Duomo è stracolma di persone, c'è il Black Friday. Poco dopo le 20, Marco Carta e l' amica che faceva shopping con lui, Fabiana Muscas, stanno uscendo dalla Rinascente quando suona l' allarme. Un uomo della sicurezza li porta nel retro e trova sei magliette del valore di 1.200 euro nella borsa della Muscas. Magliette a cui è stato asportato l' antitaccheggio rigido ma non quello flessibile nascosto all' interno. Nella borsa c' è anche un cacciavite. Carta e la Muscas vengono arrestati ma, dopo qualche ora in cella, l' arresto per il cantante non viene convalidato (per l' amica invece sì). Il giorno dopo si svolge l' udienza per direttissima e il processo viene fissato a settembre. La testimonianza dell' addetto ai controlli è la seguente: "Ho notato una coppia che si guarda spesso intorno e visto il comportamento anomalo ho deciso di seguirla. I due prendono delle maglie dagli espositori per poi salire con la scala mobile fino al terzo piano. Marco Carta entra in camerino, l' amica gli passa delle maglie. Poi gli passa la borsa. Carta esce dal camerino e non hanno più le magliette. Vanno al quarto piano, Carta entra in bagno, esce subito. Al secondo piano il cantante acquista un costume, poi i due vengono fermati all' uscita". Nel bagno in questione vengono trovate le placche dell' antitaccheggio abbandonate sul pavimento. Per il giudice Stefano Cramellin, che non ha convalidato l' arresto di Carta "nessuna circostanza descritta nel verbale d' arresto costituiva sufficiente sintomo del concorso di Carta nel furto". Dopo aver visto l' intervista di Carta a Domenica Live però, di dubbi ne restano parecchi. Intanto perché definisce l' amica di vecchia data Fabiana Muscas "una persona". "Ero con una persona", dice, come a voler prendere le distanze. Afferma di non ricordarsi cosa si sia detto con "la persona" e gli addetti alla sicurezza quando hanno trovato la merce rubata. In compenso ricorda bene quello che è accaduto prima, perché sostiene che quello che ha riferito la guardia non sia vero: "Non so perché abbia detto queste cose". Quindi la guardia si è inventata tutto? Marco Carta, in tv hai confermato di essere entrato nel camerino, di aver provato le maglie e che lei te le ha passate.

Confermi anche di essere entrato in bagno. Dopo che hai provato le maglie in camerino, non ti sei accorto della loro sparizione?

«Non sono sparite, le ho lasciate in cassa».

E le magliette che la Muscas aveva in borsa da dove arrivavano?

«Non lo so, lo shopping non lo abbiamo fatto sempre insieme».

Le maglie rubate erano da uomo?

«».

Erano quelle che ti sei provato in camerino?

«No cioè, non lo so, forse no, ma le ho viste da lontano in ufficio, le ho intraviste».

Come ha fatto la Muscas a togliere l' antitaccheggio senza che tu te ne accorgessi?

«Non lo so».

Ti ha passato o no la borsa mentre eri in camerino?

«Non me l' ha passata, l' ha poggiata sulla sedia in camerino».
Non ha molto senso che tu provi delle cose e ci sia la borsa della Muscas mentre lei resta fuori.

«Mi ha detto che la borsa le pesava».

Strano pure che vengano trovate le magliette proprio in quella borsa che le pesava ed è rimasta senza proprietaria in camerino con te.

«Se una persona si separa poi ha il tempo di fare delle cose. I video li ho visti e non solo per quel che riguardano me, so probabilmente quando è stata fatta la cosa».

Però in bagno ci sei andato tu e gli antitaccheggio sono stati trovati in bagno.

«Io avevo un jeans e una maglietta, dove li mettevo sette antitaccheggi?»

In bagno la Muscas non è andata.

«Questo non lo so».

In tv l' hai detto tu di essere andato nel bagno del quarto piano.

«Non posso dire queste cose, metto in difficoltà le indagini».

L' antitaccheggio è stato trovato nel bagno in cui sei andato tu o no?

«No. O forse sì, ma anche altrove. E non si sa se quegli antitaccheggi sono di quelle magliette rubate anzi ovvio che no, perché non erano dello stesso quantitativo delle maglie».

Ti hanno visto alla Rinascente anche il giorno prima del furto.

«È un punto a mio favore, io sono andato a prenotare delle cose che poi ho comprato».

In effetti si possono prenotare prodotti alla vigilia del Black Friday . Il papà della Muscas ha detto che la figlia ti ha coperto, che si è presa la colpa.

«Allora va a parlare con i miei, così uno a uno e palla al centro. Io comunque non parlo di questa persona».

Perché la chiami "questa persona" visto che è una tua amica di vecchia data, una tua fan?

«Questo lo dici tu».

Lo hai ammesso tu in tv.

«Sì, è un' amica carissima, ma non una fan».

Alla fine Marco Carta confessa che per questa cosa ci sta rimettendo la salute, le perplessità ci sono e le capisce, chiede solo che ci sia meno foga verso di lui. Gli rispondo che in tv è andato lui a parlarne. "Era giusto dire delle cose, ero spezzato", risponde. Certo, delle perplessità sulla sua versione restano, è strano che la sua carissima amica l' abbia raggiunto a Milano partendo da Cagliari, ma che alla famiglia abbia detto che andava a Roma in vacanza, per dire. Di certo, però, ci sono solo due cose: il giorno dopo l' udienza, Carta era già a Mykonos e guarda caso, per la prima volta veniva paparazzato in effusioni col suo fidanzato Sirio, commesso in un negozio in via Sant' Andrea a Milano. Un anno fa il coming out era avvenuto giusto il giorno prima l' uscita del suo disco. Sempre nello stesso salotto tv. Aveva sostenuto di aver rivelato la sua omosessualità "anche per i ragazzi che ci guardano, per le famiglie". Il primo giugno però è stato invitato al Modena Pride e ha chiesto 8.000 euro (gli hanno risposto "no, grazie"). Senza compenso, la causa LGBT gli sta un po' meno a cuore. Ah, il 21 giugno esce il suo nuovo disco. Lo ha ricordato anche questa volta in tv, subito dopo aver difeso la sua innocenza. E forse sarebbe meglio per lui cantare e basta, fino a settembre, quando - si spera - uscirà da questa vicenda pulito come un foglio di Carta bianchissimo.

Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 21 giugno 2019. Se Marco Carta abbia rubato o no alla Rinascente non lo sappiamo, di sicuro però sappiamo che il cantante ha qualche problema con la verità. Il giorno dopo l' episodio del furto infatti, l' organizzatore del Gay Pride a Modena, Matteo Giorgi, aveva scritto un post su Facebook: "Se Marco Carta avesse accettato l' invito al Modena Pride, anziché farci sfanculare dal suo management in maniera inconcepibilmente sgarbata, magari anziché trovarsi in quella situazione sarebbe stato in una piazza in una moltitudine di colori". Si riferiva al fatto che aveva invitato Carta come ospite d' onore del Pride il primo giugno, ma la trattativa non era andata in porto. La ragione, aveva poi spiegato Giorgi al Fatto, era che Carta aveva fatto una richiesta economica piuttosto esosa: 8.000 euro. Alla fine, a Modena, erano andati Benji e Fede, gratis.

Marco Carta è stato assolto dall’accusa del furto di magliette. «Non ha commesso il fatto». Il cantante era accusato del furto di sei t-shirt del valore di 1.200 euro nel maggio scorso alla Rinascente di Milano. La reazione dell’artista in lacrime al telefono: «Grazie!» Giuseppe Guastella il 31 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera. Il cantante Marco Carta è stato assolto dall’accusa di aver rubato sei magliette del valore di 1.200 euro lo scorso 31 maggio alla Rinascente di Milano. La sentenza è arrivata dopo due ore di camera di consiglio: per il giudice «Il cantante non ha commesso il fatto». L’ex vincitore di Amici e di Sanremo non era presente in aula davanti al giudice di Milano Stefano Caramellino della sesta penale, dove giovedì mattina sono stati proiettati i video delle telecamere di sorveglianza del grande magazzino. Il pm aveva chiesto per Marco Carta una condanna a otto mesi di carcere e 400 euro di multa . «Carta ha sempre dichiarato la sua innocenza - ha detto l’avvocato Simone Ciro Giordano, uno dei due legali dell’artista 34enne - . E per noi la vicenda finisce qui. Forse però ci rivedremo in Appello, ma deve essere chiaro che Carta non poteva essere consapevole di ciò che aveva fatto la signora». Immediatamente dopo le dichiarazioni ai giornalisti il legale ha chiamato Carta al telefono e gli ha detto: «Marco sei stato assolto. Ok?». E la risposta del cantante è stata: «Oddio, grazie!». Dopodiché ha chiuso il telefono commosso in lacrime. «Ho sentito il mio assistito al telefono - ha aggiunto poi l’altro legale di Carta, Massimiliano Annetta - e la sua risposta è stata: “Per me è finito un incubo”. Gli effetti di questi processi su una persona nota sono devastanti». Nel processo la Rinascente non si era costituita parte civile. La scorsa udienza era stato stralciato il procedimento a carico di Fabiana Muscas, l’infermiera 53enne che quella sera fu arrestata insieme a Carta (per lei l’arresto fu convalidato, per il cantante no). La donna, assistita dal legale Giuseppe Castellano, ha chiesto di essere ammessa all’istituto della messa alla prova, ovvero di potere svolgere lavori di pubblica utilità in un’associazione che si occupa di donne vittime della tratta della prostituzione a Cagliari e il giudice deciderà se accogliere la richiesta nell’udienza del 17 dicembre. Questa mattina i difensori di Carta hanno continuato a sostenere che, dalla proiezione dei video in aula, risulterebbe «tutto quello che è stato detto dalla difesa, ovvero che la signora (Fabiana Muscas, ndr) è entrata nel camerino più di una volta, che non c’è la prova che sia stato Carta a entrare nel bagno a lasciare gli antitaccheggio che sono stati poi ritrovati lì, anche perché dalle immagini emerge che quella massa di antitaccheggio non potesse essere occultate nelle tasche di una persona che porta i jeans aderenti e che di statura non grossa tale da potere occultare il tutto».

Marco Carta assolto per il furto alla Rinascente: "Finito un incubo". Il pm aveva chiesto otto mesi. Era accusato di avere rubato alcune magliette per un valore di 1.200 euro, i fatti risalgono al 31 maggio scorso. Per il giudice "non ha commesso il fatto", la procura farà ricorso. La Repubblica il 31 ottobre 2019. Assolto Marco Carta "per non aver commesso il fatto": nel processo che vede imputato il giovane cantante, accusato del furto di magliette del valore di 1.200 euro alla Rinascente per il quale fu arrestato il 31 maggio, oggi i giudici hanno deciso. Il pm di Milano Nicola Rossato aveva chiesto una condanna a 8 mesi e 400 euro di multa. La difesa rappresentata dagli avvocati Simone Ciro Giordano e Massimiliano Annetta aveva chiesto invece l'assoluzione piena. Il suo legale gli ha comunicato la notizia dell'assoluzione al telefono, Carta ha risposto in lacrime "grazie, è finito un incubo". La procura, da quanto si apprende, impugnerà la sentenza di assoluzione. Su Instagram il cantante ha subito scritto: "Non ho mai smesso di credere. È come se oggi mi svegliassi da un brutto sogno. Perché è questo che rimane, solo un brutto ricordo in via d’estinzione. Ringrazio tutte le persone che non hanno mai creduto neanche per un secondo alle cattiverie dette gratuitamente. Grazie alla mia famiglia, ai miei amici, quelli veri. Grazie Sirio, amore mio. Adesso posso riprendere ancora più forte la mia musica e le mie giornate, ora posso tornare a sorridere". Carta, vincitore di "Amici" nel 2008 e del Festival di Sanremo nel 2009, non era presente in aula davanti al giudice di Milano Stefano Caramellino della sesta penale, dove questa mattina sono stati proiettati i video delle telecamere di sorveglianza del grande magazzino. "Marco Carta è innocente, e ora lo possiamo dire ad alta voce. E' stata una vicenda minimale, ma la notorietà aiuta e spero che possa essere d'aiuto a tutti per capire che i processi si fanno nei tribunali", commentano i legali Giordano e Annetta. "La difesa aveva sempre portato avanti una linea - hanno continuato - il signor Carta ha sempre dichiarato la sua innocenza, oggi un giudice ha acclarato ciò e la questione per noi è chiusa qui. Se la procura impugnerà la sentenza, ci rivedremo in Corte d'Appello". E ancora: "Il dato è talmente certo che siamo sicuri che la vicenda finirà qui. Dai filmati emerge l'estraneità totale di Carta e la condotta delittuosa della Muscas (l'infermiera 53enne anche lei arrestata, e per la quale il procedimento è ancora in corso, ndr), ma dalle immagini mostrate in aula è chiaro che Carta non poteva essere consapevole di condotta fraudolenta della Muscas. Attendiamo comunque le motivazioni del giudice". La scorsa udienza era stato stralciato il procedimento a carico di Fabiana Muscas, l'infermiera 53enne che quella sera fu arrestata assieme a Carta (per lei l'arresto fu convalidato, per il cantante no). La donna, assistita dal legale Giuseppe Castellano, ha chiesto di essere ammessa all'istituto della messa alla prova, ovvero di potere svolgere lavori di pubblica utilità in un'associazione che si occupa di donne vittime della tratta della prostituzione a Cagliari e il giudice deciderà se accogliere la richiesta nell'udienza del 17 dicembre. Questa mattina i difensori di Carta hanno continuato a sostenere che, dalla proiezione dei video in aula, risulterebbe "tutto quello che è stato detto dalla difesa, ovvero che la signora (Fabiana Muscas, ndr) è entrata nel camerino più di una volta, che non c'è la prova che sia stato Carta a entrare nel bagno a lasciare gli antitaccheggio che sono stati poi ritrovati lì, anche perché dalle immagini emerge che quella massa di antitaccheggio non potesse essere occultata nelle tasche di una persona che porta i jeans aderenti".

Da Winona Ryder a Sarah Jessica Parker. Quando la star è cleptomane. Pubblicato domenica, 02 giugno 2019 su Corriere.it. La vicenda di Marco Carta ha fatto tornare alla mente storie del passato in cui sono state coinvolte star americane, finite sulle prime pagine per episodi di cleptomania. Winona Ryder, 47 anni, è la più nota: a dicembre 2001 è stata arrestata per aver rubato merce per oltre 4 mila dollari in un grande magazzino di Beverly Hills, a Los Angeles. L’attrice americana è stata condannata a tre anni di libertà vigilata, al pagamento di quasi 10 mila dollari di multe, a 480 ore di volontariato e a sottoporsi obbligatoriamente a un trattamento di consulenza psichiatrica.

CHE FAI, RUBI? Da Tgcom24 l'1 giugno 2019. Belli, famosi e cleptomani: sono tanti i vip sorpresi a rubare in grandi magazzini e negozi oggetti di valore più o meno ingente. Dopo il fermo (convertito in domiciliari) per il cantante italiano Marco Carta, pizzicato mentre usciva con sei magliette non pagate per un valore di 1200 euro, si allunga la lista delle celebrities protagoniste di episodi simili: da Winona Ryder a Megan Fox, da Lindsay Lohan alle gemelle di "Come un gatto in Tangenziale", da Farrah Fawcett a Britney Spears, passando per Beth Ditto.

L’ex fidanzata di Johnny Depp, Winona Ryder, è stata sorpresa più volte, mentre sottraeva abiti e accessori per 5.500 dollari da un grande magazzino Saks di Beverly Hills. A incastrala le telecamere di sorveglianza.

Lindsay Lohan ha rubato una collana del valore di 2500 dollari in un negozio californiano. A rischio di scontare tre anni di carcere, aveva detti che si trattava di un prestito. Paris Hilton invece, si era dimenticata di restituire dei gioielli del marchio Damiani del valore di 60 mila dollari, ricevuti in prestito. Megan Fox, da adolescente, era stata sorpresa a rubare un lucidalabbra da 7 dollari.

Britney Spears ha saccheggiato il guardaroba di un locale rubando alle sue quattro cappotti firmati, per un valore di 28.200 dollari. Per sua stessa ammissione, avrebbe rubato nei bar anche accendini e caramelle.

Megan Fox ha ammesso di avere rubato numerosi prodotti di makeup quando era una teenager.

Le gemelle di "Come un gatto in Tangenziale", le attrici Alessandra e Valentina Giudicessa, sono state segnalate dal proprietario di un negozio di Roma per aver rubato due flaconi di profumo, dal valore totale di 500 euro. Nel film "Come un gatto in tangenziale" con Paola Cortellesi e Antonio Albanese interpretavano proprio il ruolo di due cleptomani irriducibili.

Nel 1970 l'attrice Farrah Fawcett  fu fermata ben due volte per aver portato via due abiti da due diverse boutique: se la cavò con due multe da 125 e 265 dollari. Lei disse di averlo fatto perché i negozi non le avevano voluto cambiare dei capi precedentemente acquistati.

"Stupidi divertimenti da adolescente": così ha definito dei furtarelli di lieve entità Beth Ditto, l'ex leader dei Gossip, pentendosi di quanto fatto da ragazzina.

Giuseppe Scarpa per ilmessaggero.it il 17 ottobre 2019. La mano paffuta si infila dentro la borsetta di una signora concentrata a fare la spesa. Immersa tra gli scaffali, attenta agli sconti, spinge il suo carrello nell'Eurospin in via dell'Acquafredda. Non si accorge dei due avvoltoi che le volano intorno. La complice monitora. Fa un po' di baccano, crea un diversivo, mentre la socia perfeziona l'opera. Alessandra e Valentina Giudicessa sono al lavoro. Le sorelle conosciute dal grande pubblico grazie al film Come un gatto in tangenziale colpiscono di nuovo. Interpretano loro stesse, non recitano la parte delle sorelle cleptomani nella commedia con Paola Cortollesi. La mano rovista fino a quando viene agguantato il portafoglio. Il borsello viene sfilato con scioltezza. L'anziana non intuisce niente, imperturbabile colma il carrello di ogni ben di Dio. Ma l'incursione non è ancora terminata. La vittima non deve accorgersi di nulla, almeno nell'immediato. La stangata, infatti, arriverà solo dopo. Le due si allontanano, aprono il portafoglio e afferrano la carta di credito. Adesso bisogna rimettere tutto al suo posto. L'operazione è altrettanto chirurgica, come la prima. Il borsello, intonso, viene ricollocato mentre la vecchietta, con il naso all'insù continua affacendata ad afferrare pacchi di pasta. Il colpo è andato a segno. Le gemelle Giudicessa escono dal supermercato, si fregano le mani e vanno a fare shopping. La prima tappa è una gioielleria in via Pietro Maffi. Strisciano la carta e comprano degli orecchini. La seconda tappa è meno suggestiva, ma non meno dispendiosa. Si dirigono in un negozio cinese in via Di Torrevecchia, la Grande Muraglia. Anche qui le due fanno grandi acquisti. In meno di due ore spendono 1367 euro. Tre distinte operazioni. Nel frattempo, però, la signora ha finito di fare la spesa e mentre sistema i pacchi sul cellulare piovono messaggi. Segnalano le spese folli. Qualche cosa non va, prende il borsello e si accorge che manca la carta di credito. Il resto è cronaca giudiziaria. La vittima denuncia e le due, anche grazie alle telecamere, vengono subito riconosciute mentre comprano di tutto. La chiusura indagine è di ieri. Il pm Eleonora Fini contesta alle gemelle l'indebito utilizzo della carta di credito e il furto aggravato. Si tratta di una nuova contestazione, la terza, a carico di Alessandra e Valentina Giudicessa che, nel film Come un gatto in tangenziale, recitavano nei ruoli di Pamela e Sue Ellen. Dopo essere state già denunciate per aver rubato due profumi da 550 euro nel luglio 2018 in un negozio di via Marmorata, le due sono state scoperte dai carabinieri il 13 dicembre scorso mentre andavano via da una bottega, senza pagare, con 18 capi d'abbigliamento. In quel caso vennero arrestate, ai domiciliari, per concorso in furto aggravato. L'ultima vicenda, il colpo con la carta di credito, ancora inedito, è in realtà il primo furto messo a segno dalla coppia. La storia porta la data del 21 ottobre 2017, due mesi dopo uscirà il film che le ha rese famose.

·         Gerry Scotti.

Caduta libera, Gerry Scotti racconta il passato di lavoretti umili: "Cosa facevo per campare". Libero Quotidiano il 7 Agosto 2019. In occasione del 63esimo compleanno Rudy Zerby, dai microfoni di Radio Dee Jay, ha telefonato a Gerry Scotti. Dopo le prime battute di rito tra i due, Gerry ha scherzato sul fatto che a lui è stato chiesto di lavorare al preserale Mediaset per tutta l'estate, ma "non è neanche lavorare...se ci scoprono ci mettono in galera". Sempre allegro e con la battuta pronta, il simpatico conduttore si ferma poi a ricordare dei due ultimi vincitori di Caduta Libera - in onda su Canale5 - per poi lanciare la frecciatina a Zerby: "Cambio la vita a due tre uomini all'anno, ma non sei mai tu". Una lunga carriera quella del conduttore lombardo, che in un giorno così importante non poteva non essere riportata alla memoria. Ma Gerry ci svela anche quelli che sono stati i suoi primi "lavoretti". "Era buona abitudine nostra negli anni '70, quando si finiva la scuola, andare a fare qualche lavoretto per pagarsi le vacanze, gli studi o le iscrizioni alle università" racconta con un velo di nostalgia Gerry. "Ho stampato guarnizioni in cartone, nel '72, e le 400 mila lire guadagnate le usai per andare in vacanza a Lignano Sabbiadoro. L'anno dopo ho consegnato libri di testo...facevo lo spacciatore di libri di scuola" scherza Scotti. Gerry si ferma poi un momento, prima di raccontare il suo anno più bello. "Ero già maggiorenne, mi hanno messo all'insaccamento di mangimi per vitelli ma io da pirla ci mettevo il quadruplo della vitamina", e la battuta sulla carne “Scottona” non è venuta che naturalmente. Sono 63 le candeline oggi per Gerry Scotti che di strada ne ha di certo fatta. 

Gerry Scotti: «Amo il mare e la moto. Seduzione? Ho resistito alle letterine». Pubblicato mercoledì, 07 agosto 2019 da Maria Volpe su Corriere.it. In occasione del compleanno di Gerry Scotti, riproponiamo questa intervista realizzata nell’agosto del 2018 da Maria Volpe per Liberi Tutti Incontrare i personaggi famosi nella loro casa, nella loro quotidianità racconta molto di loro. Gerry Scotti non fa eccezione. È gioviale come in tv, ironico, parla tanto. Gli piacciono le cose semplici, vere, retaggio di origine contadine. Ma ha un forte senso estetico che si respira in ogni stanza. Ha una compagna bella, discreta. Sono una coppia discreta. E il loro amore è nato in modo discreto. Si sono conosciuti perché i lore figli erano a scuola insieme. Si sono ritrovati, entrambi separati. Si sono frequentati sempre con discrezione per non turbare la serenità dei figli. Ci hanno messo anni prima di mostrarsi alla luce del sole, anni di viaggi tutti insieme ma rigorosamente in camere separate negli alberghi. Tanto che i figli, nel frattempo diventati adolescenti, li hanno presi in giro: «Eh quanto ci avete messo!». In un mondo dove i nuovi fidanzati di mamme e papà entrano nelle vite dei figli dopo una settimana, Gerry e Gabriella sono due rarità. «Ma rifarei tutto perché mi sono sentito a posto con la mia coscienza». 

Nel ‘92 è diventato papà, non giovanissimo. «È stata una scelta ponderata, certo non capitata tra capo e collo. Entrambi già maturi, avevamo 36 anni. Io e la mamma di Edoardo abbiamo frequentato il corso prenatale all’Ospedale Buzzi di Milano. Quasi 30 anni fa non era una pratica normalissima. L’idea era che io dovessi entrare in sala parto , ma il primario della neonatologia, al momento del parto, mi ha detto: “Lei non ha una bella faccia, venga con me nella stanza delle infermiere”. Era un professore sui 70 anni , bello, alto, abbronzato, con il camice. Ha aperto la moka, ha fatto il caffé, me l’ha versato nella tazzina. Chiacchieravamo, mi ha distratto. A un certo punto mi ha detto: “Venga con me”. Edoardo era nato. Me l’hanno messo in mano da lavare (e mentre ricorda si commuove, ndr)».

L’ha raccontato come fosse una fotografia di cui non ha rimosso neppure il minimo dettaglio.

«È così. Tanti anni dopo, l’ infermiera, Simona si chiama, quella che mi ha dato in mano Edoardo, è venuta in una mia trasmissione. E mi ha portato un dono. Era un rettangolo impacchettato, un po’ pesante. Ho detto: “È un maxi gianduiotto?”. L’ho aperto e c’era la foto incorniciata con il piccolo in braccio a me che indossavo il camice bianco, le infermiere e il dottore» (naturalmente la foto, con la cornice originale, sta là in camera da letto).

Qual è la cosa più spericolata che ha fatto con suo figlio?

«Io e sua mamma ci eravamo separati da poco, un momento delicato nel quale temevo per Edoardo, invece lui è stato bravissimo, più bravo di noi. Aveva 8 anni e siamo partiti per un viaggio in barca a vela noi due, il primo da soli. È stato indimenticabile».

A dispetto della sua indole metodica, lei ha un lato avventuroso sconosciuto ai più: barca, moto...

«L’esperienza più avventurosa l’ho vissuta nell’88: con l’irruenza di un trentenne, non sapendo andare in barca a vela, l’ho guidata fino all’isola di Porquerolle. Ed è un miracolo se sono ancora vivo. Ma da allora più che mai il mare mi ha conquistato: è quel che amo in vacanza. Fare il bagno in mare, cucinarmi in barca. Leggere e ascoltare musica al largo. E poi la moto, la mia adorata Harley-Davidson. Per i miei 60 anni, due estati fa, mi sono regalato un viaggio in moto, con Gabriella, e un’altra coppia di amici, in Usa, sulla Route 66. Un viaggio splendido, in totale libertà».

Libertà, tempo libero, vacanze, viaggi. Lei vive in tv, è uno stakanovista. Riesce a staccare davvero, o senza piccolo schermo sta male? Sinceramente...

«Ho quasi 62 anni, sono privilegiato sotto tutti i punti di vista, ho un figlio, una compagna. Onestamente, mi manca solo il tempo libero. Mi sono chiesto: che senso ha se un libero professionista che teoricamente non ha vincoli non può smettere come vuole e quando vuole? Mi sono dato questa risposta: per gente come me o Carlo Conti o Paolo Bonolis che hanno fatto del nostro esserci quotidiano il nostro modo di essere, come la credenza in salotto, è faticoso dare uno stop. Certo la vacanza è fondamentale e per me significa “sparire”, non avere orari , ozio, noia . Gabriella mi dice: “Quando sei in vacanza ti esaurisci”. Io rispondo: “No, sono in stand-by”. Sono un metodico anche in vacanza: mi alzo tra le 7 e le 8, ginnastica un giorno si e uno no, il rito del caffè. Alle 13 mangio e guardo “La signora in giallo” anche se le puntate le ho riviste cento volte e so già come va a finire. Vado in barca nel mio buen ritiro in Costa Azzurra. Ho preso casa lì in tempi non sospetti. Ho vicini di casa illustri: Bill Gates, De Niro, Rod Stewart, il principe del Belgio, Bono degli U2 che butta giù case e le ricostruisce , sembra il re della cementificazione. Ma queste star mi “proteggono”: sono tutti molto più famosi di me e io sto sereno».

Lei non è nato ricco. Non dica che si era più felici una volta, quando c’erano pochi soldi...

«Mio papà era operaio, faceva il rotativista al Corriere della Sera. Faceva il turno di notte e il suo tempo libero lo passava correndo da suo padre in campagna, a Campo Rinaldo nel pavese, per aiutarlo a dare il verderame sulle viti. Questo è l’ambiente dove sono nato e cresciuto. Penso che una volta ci fossero meno necessità e il livello di soddisfazione arrivava prima. Ora soffro senza aria condizionata, ma fino a 20 anni fa non soffrivo, abbassavo i finestrini dell’auto. Lo faccio ancora adesso per abitudine e Gabriella mi prende in giro, con ‘sto braccio che ciondola dalla portiera... Ci sembra tutto più bello solo perché eravamo giovani. Possibile che il pane secco nel caffelatte fosse così buono? Però sono convinto che l’effetto nostalgia non guasti. Non vergogniamoci: se la vivi bene è sana, se la vivi male fa tristezza. Io ho una sana nostalgia quando ripenso alle mie domeniche passate in viale Zara, seduto sul marciapiede. Avevo 16 anni, nel pieno dell’austerity, con i miei amici il gioco era indovinare il colore della prima macchina che passava. Sembravamo trogloditi, e invece no, andavamo al liceo classico. Chissà oggi: io proverei a far fare questo gioco ai ragazzi....».

Com’è suo figlio Edoardo?

«Fa il produttore televisivo. Ha studiato e lavorato in America e credo lo abbia fatto per affrancarsi da me. Si è staccato dall’ombra del padre. Ha fatto bene. Ora è sereno, è bravo nel suo lavoro. Abbiamo un bellissimo rapporto».

Lei da sempre è circondato da belle ragazze, vallette, «letterine» ai tempi di «Passaparola». Da anni conosce il mondo dello spettacolo, le dinamiche, la voglia di arrivare, i giochi di potere. Mai avuto cedimenti?

«Sono fortunato: la mia sessualità e carnalità hanno resistito a tutto. Se non sono finito in galera con le letterine sono stato bravo. Non so se dipende dalla mia rettitudine morale o se sono percepito come uomo tutto d’un pezzo. In 35 anni, nessuna ragazza ha fatto la lasciva con me. E comunque ho sempre voluto al mio fianco compagne di lavoro già realizzate che non avevano bisogno di me».

Che compagno è?

«Gabriella mi dice che sono pedante, io penso di essere solo un po’ pesante, in tutti i sensi.... Si lamenta perché quando torno a casa dal lavoro sono taciturno. Ma dopo aver registrato diverse puntate non ho voglia di parlare, penso sia comprensibile... Ha ragione quando dice che sono pignolo, metodico e tendo a imporre ad altri le mie regole. Romantico? Detesto le celebrazioni obbligate, ma per il suo compleanno mi piace organizzare sorprese». 

Ha fatto la battuta sulla «pesantezza», riferendosi al suo corpo. Apparentemente lei vive con autoironia il suo aspetto corpulento, ma magari ne soffre.

«No, vivo con grande serenità il mio quintale. Trascuro il mio corpo meno di quanto si possa credere, però, specie da una decina di anni. Faccio costantemente ginnastica tre volte la settimana, sono regolare negli orari, detesto mangiare quando capita; mi piace molto il cibo ma alle 23 non apro il frigorifero e non mi attacco al tubo della maionese. Ceno con amici, sono godurioso e sono convinto che le cose buone facciano meno male delle cose cattive. Se vado a Varzi a mangiare un buon salame e poi vado in una cantina a scegliere un buon vino rosso, sono convinto che questo gesto sia un toccasana per il corpo e per l’anima. Penso che faccia meglio del tofu. La qualità della vita e della scelta sono più importanti di tutto. Altrimenti potremmo vivere con gli integratori. Analisi alla mano... Dieci chili in più non fanno sempre male».

In fondo alla sala campeggia una splendida poltrona di velluto rosso. E poi tanti dettagli curati, lampade di design...

«Questa poltrona la adoro. L’ho fatta ricoprire con il velluto rosso che si usa per le poltroncine del Teatro alla Scala di Milano. Quando i bambini ci salivano con le scarpe o ci venivano a giocare i cani, mi sentivo morire... Gli oggetti li ho scelti tutti io con cura: volevo fare architettura, ma mi hanno fatto fare legge perché era più facile trovare il posto fisso... Se vuoi farmi felice regalami un libro di architettura. Tra gli oggetti che amo di più c’è il mappamondo. Siamo cresciuti in un mondo bi-dimensionale, il tridimensionale è venuto dopo. Solo il mappamondo è un oggetto con tutte le dimensioni».

·         Caduta Libera, il campione Nicolò Scalfi.

Nicolò Scalfi, si interrompe dopo 88 puntate e 651mila euro la serie del «campioncino» di «Caduta libera». Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 su Corriere.it. Una vincita record, tre mesi sempre in testa, sono i primati di Nicolo Scalfi, appena ventenne che sabato ha chiuso la sua super serie a «Caduta libera», il quiz condotto da Gerry Scotti su Canale 5. Sì, sono state 88 le puntate e 651mila euro i soldi portati a casa da quello che Scotti ha definito «il campioncino» . E lui, Nicolò, assai emozionato, ha ringraziato tutti gli spettatori che si sono identificati con la sua cavalcata trionfale: «È un pianto di gioia, è stato bellissimo, ringrazio la produzione, tutti, ma Gerry in particolare. Complimenti poi a tutti gli sfidanti». E lo stesso conduttore Scotti si è commosso anche lui: «Sono emozionato anch’io come spesso accade, è un momento che non avrei mai voluto celebrare, ma è la regola: “The show must go on”. Rivedremo Nicolò nei nostri tornei. L’ho avuto qua per tre mesi, come un figlio, è dura anche per me. Ne ho visti tanti di campioni, ma questo ragazzo di 20 anni è uno dei più grandi che io abbia mai conosciuto nella mia carriera di presentatore».

Esce di scena il "campioncino" di Caduta Libera. La commozione di Nicolò Scalfi. Dopo 88 puntate di Caduta Libera il campioncino Nicolò Scalfi perde la sfida e in studio ci sono lacrime di commozione. Carlo Lanna, Domenica 07/07/2019 su Il Giornale. Nella puntata di Caduta Libera andata in onda sabato 6 luglio, il giovane Nicolò Scalfi non ha resistito al peso della sfida e ha dovuto cedere il testimone a un nuovo campione. Il concorrente che ha tenuto con il fiato sospeso il pubblico dello show condotto da Gerry Scotti ha perso. In studio ci sono state lacrime di commozione. Dopo tre mesi, 88 puntate e un montepremi di 651mila euro, il campioncino di Caduta Libera si ritira dal gioco di Canale 5, perde la sfida e cade nella botola, non riuscendo a indovinare la parola “coniglietto”. Ma la sua partecipazione è già record, essendo entrato di diritto nella storia dei quiz italiani. C’è commozione sia da parte del campione che da parte di Gerry Scotti, il quale ha sempre tifato per il ragazzo di appena venti anni, idolo di Caduta Libera. "Il mio è un pianto di gioia – confessa poco prima di lasciare la trasmissione -. È stata un’esperienza bellissima che non potrò mai dimenticare. Ringrazio tutti ma te in particolare – rivolgendosi a un Gerry altrettanto commosso -. Non posso che essere grato a tutti voi. Complimenti agli sfidanti e in particolare a Francesco". Il conduttore di Caduta Libera risponde poi alle parole di Nicolò. "Questo è un momento che non avrei mai voluto celebrare, ma è la regola. Lo show continua – afferma -. Lo abbiamo avuto qui per tre mesi ma tornerà per il torneo dei campioni. Ne ho visti tanti di ragazzi, ma lui a soli 20 anni è uno dei più grandi".

Caduta libera, Nicolò Scalfi vince e sfonda il muro dei 640mila euro. Libero Quotidiano da Redazione Tvzap il 2 luglio 2019. Con l’ennesima vittoria nella puntata in onda il 1° luglio il campione mette in tasca altri 131mila euro per un totale di 641mila euro. Oops!… He did it again. Nicolò Scalfi è inarrestabile e alla sua 83° partecipazione a Caduta libera mette a segno un’altra vittoria nel gioco finale de “I dieci passi”. È quel che è avvenuto nella puntata del game show di Gerry Scotti in onda lunedì 1° luglio su Canale 5. Al termine di una gara in cui, ancora una volta, il ‘campioncino’ ha perso i soldi guadagnati per colpa del Perde tutto, dopo aver rimesso insieme un montepremi da 131mila euro ha affrontato l’ultimo step uscendone vincitore.

Nicolò Scalfi, un campione da record.

Nicolò Scalfi, il ventenne che viene da Brescia e ha infranto qualsiasi record a Caduta libera, ha vinto con 83 partecipazioni ben 641mila euro, benché recentemente abbia dichiarato, scherzando: “Diciamo che per il momento, visto che ancora non ho ricevuto tutto il montepremi, sono più povero di quando ho iniziato! (ride)”. In trasmissione aveva trovato anche una fidanzata, Valeria Filippetti, che per amore si era ritirata dal gioco. La storia è poi finita e i due sono rimasti amici.

I 10 passi di Nicolò Scalfi nella puntata del 1° luglio. Di seguito le domande e le risposte degli ultimi 10 passi con cui Nicolò Scalfi ha vinto 131mila euro a Caduta libera nella puntata del 1° luglio:

Colore che tende al viola chiaro e prende il nome da un fiore: Glicine

Una donna che compie malefici a danno di qualcuno: Fattucchiera

Le biografie farcite con elementi d’invenzione: Romanzate

Il meccanismo per far girare lo spiedo progettato da Leonardo nel suo Codice Atlantico: Girarrosto

Primadonna nel teatro leggero e in tv: Soubrette

Raffigurazione in cui vengono esasperate alcune caratteristiche del soggetto: Caricatura

Un modo ormai desueto per dire “donne”, oggi usato per lo più in maniera scherzosa: Gentil sesso

Un “work” in fase di realizzazione: In progress

Le origini italiane di Papa Francesco: Piemontesi

Imperfezione che può verificarsi nel trucco ma anche ridondanza o lungaggine: Sbavatura

Caduta Libera, il campione Nicolò: "Per ora più povero di prima". Il concorrente il 27 maggio ha vinto 70mila euro, raggiungendo la cifra totale di 400mila euro. Un piccolo record: si è aggiudicato o la cifra più alta di sempre e quello con il maggior numero di presenze (53 puntate). Andrea Conti, Martedì 28/05/2019, su Il Giornale.  Nicolò Scalfi, 21 anni a luglio, è il super campione di "Caduta Libera", il game show condotto da Gerry Scotti su Canale 5. Un vero e proprio record-man. Infatti Nicolò nella puntata del 27 maggio si è aggiudicato 70mila euro raggiungendo la cifra totale di 400mila euro. Non è tutto perché ha vinto la cifra più alta di sempre e ha messo a segno anche il maggior numero di presenze (53 puntate). Per vincere non basta solo la cultura. Infatti, il segreto del successo del giovanissimo concorrente è il cruciverba. Ne fa uno al giorno in compagnia della nonna. “A scuola non ero un secchione le materie scientifiche non mi piacevano, studiavo poco ma avevo la sufficienza anche grazie alla memoria”, ha confessato in una intervista a Tv Sorrisi e Canzoni. La vita è sicuramente cambiata e gli effetti della fama televisiva si fanno sentire. “Sono più popolare e mi fa piacere - ha rivelato - tante signore vogliono fare una foto con me, le ragazze mi corteggiano di più anche se sono ancora single. E qualcuno mi chiede di offrirgli un drink in discoteca. Diciamo che per il momento, visto che ancora non ho ricevuto tutto il montepremi, sono più povero di quando ho iniziato! (ride, ndr) Per il resto la mia vita non è cambiata, esco con gli amici di sempre, ma faccio più attenzione al perché la gente si avvicina a me”. L'alta cifra vinta servirà “per studiare, comprare un'auto nuova e una casa, quando tra qualche anno andrò a vivere da solo. Inoltre aiuterò i miei: papà è un operaio quasi in pensione, mamma di recente ha trovato lavoro come inserviente e vorrebbe cambiare. Intanto mi sono tolto qualche sfizio: ho un cellulare nuovo e sono stato con i miei tre amici a Barcellona”. Qual è il sogno segreto di Nicolò? Diventare telecronista sportivo (il suo profilo Instagram è pieno di campioni del calcio), ma prima c'è la laurea.

Caduta Libera, la dedica imbarazzante per il campione Nicolò Scalfi. Gerry Scotti blocca tutto: "Basta". Libero Quotidiano 8 Giugno 2019. Prosegue l'avventura di Nicolò Scalfi al game-show Caduta Libera, in onda con successo nel pre-serale di Canale 5. Nel corso dell'ultima puntata, al campione è stata indirizzata una nuova dedica d'amore del tutto speciale. Dopo il ritorno nel gioco di Valeria, con cui il campione aveva avuto una storia l'anno scorso questa volta la ragazza in questione si chiama Veronica e, al termine della sua sfida, ha dedicato una canzone d'amore a Nicolò. Guardando il ragazzo che l’ha spedita a casa, Veronica ha modificato il testo del brano di Alex Britti Oggi sono Io da “come stai bene con quei pantaloni neri, come stai bene oggi” a “pantaloni blu”, gli stessi indossati in puntata da Nicolò. Gerry Scotti ha interrotto l’esibizione di Veronica prima che il testo arrivasse alla strofe più spinte: “Basta, Basta. Ma è inutile che adesso guardi me, quando canti ‘pantaloni blu’ che sono quelli che indossa lui. Capite? Vengono qui, lui le massacra, loro perdono con lui e però gli dedicano anche le canzoni, non le capisco”. In attesa di scoprire se tra Nicolò e Veronica ci saranno dei risvolti sentimentali nel corso delle prossime settimane, i fan del campioncino sono stati scossi da alcuni rumors secondo cui, essendo il programma registrato, Nicolò sarebbe stato già eliminato ad oggi, ma, per vedere in onda la puntata del programma relativa alla presunta eliminazione del "campioncino", bisognerà attendere il mese di luglio.

Caduta Libera, Nicolò Scalfi porta in studio la fidanzata: il commento di Gerry Scotti, imbarazzo in tv. Libero Quotidiano 24 Giugno 2019. Nicolò Scalfi di Caduta Libera ha voltato pagina dopo la storia con Valeria e poi con Veronica (entrambe conosciute durante il programma di Gerry Scotti). Ora il suo cuore batte per Sara, sulla quale il campione precisa: "Stiamo insieme da poco". Durante la puntata di sabato 22 giugno, il conduttore ha presentato la ragazza: “Nicolò, il ragazzo dei record per sfide e cifre, con 510.000€. Questa sera lui si è tenuto una sorpresa, in studio c'è la nuova ragazza. Caspita, ma tu le scegli tutte belle, Sara è una meraviglia. Guardate che faccino che ha la fidanzatina del campione. La mamma l'ha già presentata a noi e agli autori". Fidanzata a parte, Scalfi potrebbe restare alla corte di Gerry ancora per poco. Su Instagram un utente è sicuro che il campione lascerà il quiz nelle prossime settimane. Sembra infatti che in una registrazione che vedremo a luglio, Nicolò abbia perso contro uno sfidante.

·         Caduta Libera. Il Campione Christian Fregoni.

Chi è Christian Fregoni, il campione bagnino di Caduta libera. Redazione Tvzap il 7 agosto 2019. Tutto quello che c’è da sapere sul giovane protagonista del quiz di Gerry Scotti. Dopo Nicolò Scalfi è Christian Fregoni il campione che fa impazzire il pubblico di Caduta libera. 27 anni, bresciano, il bel bagnino ha fatto breccia nel cuore dei telespettatori e non esclude in futuro l’ipotesi di diventare attore. Ecco tutto quello che c’è da sapere su di lui.

Christian Fregoni, età e biografia. Christian Fregoni è di Brescia, ha 27 anni e una sorella di nome Giulia che ha 18 anni. Papà Pierangelo è operaio, mentre mamma Cristina fa la cassiera in un supermercato. “Siamo una famiglia di umili origini, i miei si sono sacrificati tanto per non farci mancare nulla e permetterci di studiare, perché loro non hanno potuto farlo. Sono molto grato per tutto quello che hanno fatto per me” confessa a Tv Sorrisi e Canzoni nel numero in edicola martedì 6 agosto. Christian ha frequentato il liceo scientifico, è sempre stato affascinato dalla storia, letteratura e filosofia, ma si sta laureando in Scienze Motorie “perché lavoro nel mondo dello sport da quando ho 16 anni e pensavo che così sarebbe stato più facile trovare un’occupazione […]”.

Christian Fregoni e il lavoro come bagnino. Fregoni lavora infatti come bagnino in uno sporting club di Brescia e non esclude prima o poi di aprire una sua struttura sportiva da gestire. Intanto con i soldi vinti a Caduta libera (120mila euro finora) vorrebbe comprare una casa per sé.

Christian Fregoni a Caduta libera. È stata la sorella Giulia a iscriverlo di nascosto al programma dal momento che da casa Christian rispondeva a tutte le domande del quiz di Gerry Scotti. Dopo aver fatto il casting è apparso per la prima volta nella puntata del 3 luglio e il 17, giorno del suo compleanno, ha trascorso la prima giornata come campione. Alla base della sua preparazione, confessa Christian, c’è la passione per l’enigmistica, la lettura, il cinema e l’attualità.

I sogni di Christian Fregoni. In passato i genitori gli dicevano di fare il modello ma lui non l’ha mai vista come esperienza adatta a sé. “Uomini e donne? Non so se lo farei(ride). Ma se mi proponessero di fare l’attore magari sì. I reality invece non sono fra i miei programmi preferiti” ammette.

Christian Fregoni, situazione sentimentale. Al momento il bel bagnino è single: “Sono esigente e per ora mi diverto. Se arriverà la persona giusta lo capirò. Finora non ho avuto storie importanti, solo cose da poco”.

Caduta libera, il campione Christian Fregoni vince altri 90mila euro. Redazione Tvzap l'8 agosto 2019. Il bagnino di Brescia trionfa ancora una volta nella puntata del 7 agosto. Un altro successo per Christian Fregoni. Il bagnino campione di Caduta libera (QUI chi è) si è aggiudicato altri 90mila euro nella puntata in onda mercoledì 7 agosto, la stessa in cui Gerry Scotti ha festeggiato il suo 63° compleanno. Nel corso della serata infatti sono state diverse le domande che hanno avuto per oggetto la carriera del conduttore del game show di Canale 5, che sul finale ha celebrato con lo spumante non solo la ricorrenza che lo riguarda ma anche il trionfo del campione. Giunto a quota 18 difese del titolo, Christian Fregoni ha vinto ad oggi 210mila euro.  Ecco le risposte che gli sono valse la nuova vittoria nel gioco de "I dieci passi". I 10 passi di Christian Fregoni, puntata del 7 agosto.

Espropriare, sottrarre, sequestrare: Confiscare

Quelli della “Rue Morgue” sono stati narrati da Edgar Allan Poe: I delitti

Si dice che per difendere le sue scoperte dal plagio, Galileo Galilei facesse uso di: Anagrammi

Sensazione di benessere e ottimismo: Euforia

Un sostegno per apparecchi fotografici: Treppiede

L’ultimo film interpretato da John Wayne si intitola emblematicamente: Il pistolero

Il trattato che nel 1992 diede il via alle basi della Moneta Unica Europea: Di Maastricht

Sciocco, rintronato, dotato di scarsa intelligenza: Babbione

In meteorologia la linea che unisce tutti i punti con la stessa pressione atmosferica: Isobara

Pompeo Magno, che assieme a Cesare e Crasso formò il noto triumvirato nel 60 a.C., era un: Generale romano

·         Caduta Libera: battuto il campione Gabriele.

Caduta Libera: battuto il campione Gabriele, in tutto ha vinto oltre 300 mila euro. Cristiano Bolla suthesocialpost.it il 28 ottobre 2019. Cade il campione del popolare show di Gerry Scotti, Caduta Libera. Dopo oltre un mese e un montepremi incredibile, Gabriele Giorgio cede il posto ad un altro concorrente e per lui si è aperta la botola.

Lontano il record di Scalfi. Gabriele Giorgio, pesarese di 33 anni, si è imposto in poco tempo come uno dei volti più celebri del programma di Canale 5. È diventato famoso per le sue freddure, ma anche per un comportamento sempre mite e rispettoso. Nella puntata di domenica 27, tuttavia, ha dovuto cedere il trono dopo un mese di permanenza e l’ottima somma di 316.000 euro. L’ultima volta è stata 2 giorni fa, quando ha vinto altri 30 mila euro. Lontano il record di Nicolò Scalfi, che si è portato a casa oltre 615 mila euro. Gabriele invece si deve “accontentare” di questa cifra, dopo essere stato eliminato nel corso dell’ultima puntata. La domanda che ne ha sancito l’eliminazione non era irresistibile, ma il campione è arrivato senza vite e non ha saputo la risposta. La domanda era: “Quale attore rifiutò il ruolo di protagonista in Taxi Driver, poi andata a Robert de Niro?”. Era Dustin Hoffman, ma Gabriele non ha saputo rispondere. Gabriele e lo stesso Gerry Scotti, inoltre, nei giorni scorsi avevano dovuto far fronte a delle critiche. Molti spettatori si sono infatti lamentati sui social della scarsa difficoltà delle domande fatte a Gabriele, sia nelle manche con gli altri concorrenti sia nei 10 passi. Critiche che non hanno toccato il conduttore, che al momento della eliminazione ha riservato belle parole per il concorrente: “È stato un piacere ed è sempre un momento di stupore quando il campione perde. Confesso che ho amato tutti i miei campioni, ma Gabriele l’ho amato ancora di più per il suo carattere”. Parole d’affetto, poi la botola si è aperta e Gabriele è caduto con un sorriso sulle labbra.

Il nuovo campione. Al suo posto ora c’è Diego da Ghisalba, provincia di Bergamo. Ha preso il posto di Gabriele, senza tuttavia avere una partenza sfolgorante: non ha ereditato nulla dall’ex campione e sotto la casella scelta c’erano solo mille euro. Da regolamento però il minimo è 10 mila e da questa cifra è partita la manche finale dei 10 passi. Qui il nuovo campione si è fermato a 6 risposte esatte su 10 e così non è riuscito a festeggiare con una prima vincita. Ci potrà riprovare nelle prossime puntate, stando lì dove fino a ieri troneggiava Gabriele Giorgio.

Caduta libera, maxi vincita del pesarese Gabriele Giorgio. Il 33enne, disoccupato, esce dal gioco di Canale 5 dopo aver vinto oltre 300mila euro. Emozionato anche Gerry Scotti. Amedeo Pisciolini su ilrestodelcarlino.it il 29 ottobre 2019. Caduta libera, Gabriele lascia il programma dopo 35 partite (da Facebook). "Confesso che ho amato tutti i miei campioni, ma Gabriele l’ho amato ancora di più, ti rivedremo penso alle finali". Così Gerry Scotti domenica sera ha commentato l’uscita di Gabriele Giorgio di Pesaro dal gioco di Canale 5 ‘Caduta Libera’. Il campione 33enne di Pesaro, visibilmente emozionato e un po’ stanco dopo le tante sfide (ha giocato 35 partite, ndr) oltre a Gerry Scotti ha salutato e ringraziato la sua famiglia, la sua fidanzata e il pubblico. Gabriele ha vinto complessivamente un montepremi di oltre 300.000 euro, non male per uno tra l’altro disoccupato. Gabriele Giorgio si è classificato il vice campione di tutti i tempi di Caduta Libera.

Caduta libera, Diego batte il campione Gabriele Giorgio e fa coming out: cosa confessa in diretta. Libero Quotidiano il 29 Ottobre 2019. Colpo di scena a Caduta Libera, il programma di Gerry Scotti su Canale 5. Nel corso dell'ultima puntata del 27 ottobre il super campione Gabriele Giorgio ha perso lo scettro dopo aver incassato una somma totale di 316mila euro. Il concorrente è stato battuto da Diego. Con il quale è stata davvero emozionante e avvincente la sfida sulla domanda decisiva che riguardava gli attori del celebre film Taxi Driver. Ancora di più è stato sorprendente il coming out dello sfidante Diego. Il quale dopo aver risposto perfettamente a una domanda sul Parco Nazionale del Gargano, ha ammesso: "Ho il fidanzato pugliese, poi. Figuriamoci". Gerry Scotti non si è per nulla imbarazzato e ha solo commentato: "Sei forte Diego, lo sapevamo". 

·         Giuseppe Cruciani: “Le mie passioni? La radio e le donne”.

Giuseppe Cruciani: “Le mie passioni? La radio e le donne”. Marco Lomonaco il 21/05/2019 su Il Giornale Off. Giuseppe Cruciani, lo sappiamo, non è certo uno che le manda a dire. Questa volta ha risposto per le rime a Gad Lerner che, su Repubblica, aveva scritto: “Salvini ha al servizio il caravanserraglio dei talk, come la radio di Confindustria che ogni sera trasmette due ore di greve propaganda leghista travestita da zanzara ribelle”. La risposta del conduttore della Zanzara è stata la seguente: “Due piccole paroline al signor Lerner, che evidentemente senza ascoltare questa trasmissione rutta falsità quando ne parla – spiega il giornalista dai microfoni di Radio 24 – Allora, questo signore ha l’ossessione e si è bevuto il cervello e lo dico quasi con rispetto, perché non è affatto così e lui lo sa benissimo. Per cui, chiamate un medico bravo…”. Sul venerdì di Repubblica,  Lerner è tornato a tuonare contro quei giornalisti dei giorni nostri che lui paragona ai “propagandisti del razzismo italiano novecentesco”. Scrive Lerner, come riportato da Dagospia: “Ebbene, lasciatemelo dire, infine: i vari Paolo Del Debbio, Giuseppe Cruciani, Mario Giordano, Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri più altri epigoni minori, non sono forse i Telesio Interlandi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante, Julius Evola, ovvero i difensori della razza dell’Italia di oggi? Un applauso alla loro temerarietà, tanto i posteri non gliene chiederanno mai conto”. A noi di OFF, verrebbe da dire, giù le mani da Almirante: poiché mai paragone fu più fuori luogo! Ma come risponderà il conduttore della Zanzara (se risponderà) all’ennesima provocazione di Gad Lerner? Intanto vi proponiamo l’intervista a Giuseppe Cruciani realizzata per OFF da Marco Lomonaco. 

Giuseppe Cruciani, 52 anni, giornalista e conduttore radiofonico di successo, mattatore ai microfoni di La Zanzara, dove ogni giorno su Radio 24 dichiara battaglia al politicamente corretto e al buon costume. Un’arena dove la prima regola è parlare chiaro… C’è stato un momento in cui hai avuto paura che La Zanzara chiudesse per davvero?

«No, paura che chiudesse per davvero mai. Ci sono stati dei momenti di contrasto con l’editore, il che è normale per una trasmissione di questo tipo, ma per il resto gli ascolti ci hanno sempre premiato e l’editore di Radio 24 mi ha sempre lasciato molta libertà».

La radio è la tua più grande passione; possiamo dire che anche le donne lo sono?

«Assolutamente sì».

Ci racconti un episodio OFF della tua carriera?

«Qualche anno fa mi volevano in Rai per fare la radio e la televisione. Ci accordammo, arrivammo ai dettagli, ma al momento di chiudere sparirono nel nulla. Fu una grande fortuna per me…»

Perché una fortuna?

«Perché in quel contesto non sarei durato nemmeno una settimana. La cosa divertente che scoprii è che mi volevano i dirigenti della Rai, ma non i direttori delle radio, dove sarei dovuto finire. Cose di questo tipo possono succedere solo alla Rai».

Tu fai una trasmissione trasgressiva in cui affronti tematiche importanti a muso duro. Dall’ascolto sembra che tu non abbia paura di nulla e che te ne freghi di tutto. Non è così ovviamente, quindi: di cosa ha davvero paura Giuseppe Cruciani?

«Sono molto ansioso, vivo nell’ansia costante della produzione quotidiana. Io vorrei fare una trasmissione molto più trasgressiva di così, ma ho dei freni che mi inibiscono. Lo stesso [David, n.d.r.] Parenzo rimane stupito quando a volte gli spiego cosa vorrei dire in trasmissione di nuovo, quali tabù vorrei abbattere».

Hai paura di perdere quello che hai?

«Sì, ma è una paura che hanno tutti quella di perdere ciò che si è costruito. Diciamo che penso costantemente al momento in cui questo periodo finirà e come tutti cerco di limitare i danni che ne conseguiranno. Non riesco quindi a godermi il presente, perché vivo nella costante angoscia della produzione quotidiana di qualcosa che deve stupire e superarsi e farlo in maniera spontanea. Pensa alla nutria che mi sono mangiato in studio: quella non era una scenetta costruita per scioccare la gente, bensì la conclusione di un percorso di battaglia con i vegani che è emerso e si è sviluppato in maniera totalmente naturale».

Stai avendo ancora problemi con i “nazi-vegani”?

«No, quel capitolo è abbastanza chiuso, del resto da noi i vegani sono dei chiacchieroni. Invece in Francia sono molto più seri, difatti assaltano le macellerie per portare avanti le loro proteste e stanare coloro che reputano assassini».

Quando sono venuti qui sotto Il Sole 24 Ore a protestare cos’hai pensato?

«Ho pensato di aver fatto bene il mio lavoro, di aver toccato un nervo scoperto e di aver messo in discussione e movimentato un gruppo di persone. E” stato un bel momento di confronto».

·         Abramo Orlandini il maggiordomo di Vittorio Sgarbi.

Vittorio Sgarbi, il maggiordomo Abramo Orlandini? Che brutta fine ha fatto, come è ridotto a vivere. Vanni Zagnoli su Libero Quotidiano il 13 Maggio 2019. «Mi arriva l'accompagnamento, sono 460 euro al mese. All'inizio me l' avevano negato, poi ho fatto ricorso e adesso attendo qualche arretrato». Abramo Orlandini (il "maggiordomo" di Sgarbi quotidiani) sembrava tutto, escluso uno che avesse bisogno del sussidio sociale. «Mi è stata riconosciuta l' invalidità al 100%, per problemi psichici». Un quarto di secolo fa era un volto di Canale 5, la spalla di Vittorio Sgarbi. Quest' uomo basso (anche meno dell' uno e 68 dichiarato), con il panciotto, faceva il maggiordomo dietro, impettito, come parte degli arredi nello studio di Sgarbi Quotidiani. Oggi festeggia i compleanni, vestito di rosa shocking. Abramo ha 58 anni e a Reggio Emilia, la sua città, è persino invidiato: «Perché ha coronato il sogno di andare a Cinecittà». Pupi Avati, che gli ha riservato varie particine, in particolare un cameo con Riccardo Scamarcio nel film Un ragazzo d' oro del 2014 dove recitava anche Sharon Stone, ha detto una volta di lui: «Mi fa sempre piacere, è un buon attore». Fuori intervista, Orlandini fa capire di essere rimasto deluso da Sgarbi, gli resta grato perché l' aveva fatto diventare personaggio, a Mediaset. Anche se, proprio a Reggio un anno e mezzo fa, il grande polemista ci ricordava quegli anni con il maggiordomo. «Adesso Abramo dipinge, è anche bravo. La nostra trasmissione si potrebbe riprendere, se qualche editore ci pensasse, senza essere vintage: eravamo così moderni che lo saremmo ancora. E potremmo ripartire di nuovo con lui dietro, a distanza di 20 anni. Abramo sarebbe felice». Due anni fa, l' attore è stato seguito per 24 ore da un fumettista armato di telecamera che ha realizzato un cortometraggio.

Abramo, indossa spesso il papillon...

«Vestivo così già negli anni '70, a 15-16 anni».

Ha il sacchetto della farmacia, ci rivela le medicine?

«Meglio di no... Aiutano a dormire, anche 18 ore di fila».

Davvero si sente un pittore?

«Proprio un artista. E poi recito poesie, dei maledetti, Baudelaire e altri ancora».

Quale sarà il prossimo film?

«Non lo so. A Pupi Avati costa troppo farmi tornare a Roma, allora mi manda qualche aiuto economico, tramite vaglia online».

La sua principale qualità?

«Sono un pacioccone. A Reggio mi vogliono tutti bene, compreso il sindaco».

Qui ha sempre mantenuto un' abitazione?

«Certo. Fu la mia seconda zia a mettermi nello stato di famiglia, poi la casa restò a me, ce l' ho da 35 anni».

L'unico suo problema sembra la concentrazione sul lungo periodo...

«Già, mi stanco, a reggere l' attenzione».

Ha mai fatto lavori manuali?

«A Roma. Per tre anni feci il giornalaio, la notte lavoravo vicino al Parlamento. Lì conobbi l' onorevole Sgarbi. Finita la trasmissione, nel 1999, feci poi il cameriere a Trastevere, al Rugantino, uno dei migliori locali. A Reggio, invece, avevo l' edicola assieme ai miei, ma raramente davo una mano».

Vive di notte?

«Anche a Roma. Andavo al Gilda, locale frequentato dagli attori. Lavorai tanto, anche con Enrico Montesano».

Nella sua città, mai una chance nel mondo dello spettacolo?

«No, ma qui c' è poco. Venne il grande Marco Ferreri e mi prese per 3 giorni, da comparsa, quando ero un ragazzino. La prima scena importante fu nel 1987, con Pupi Avati. Avevo 27 anni e c' era anche un certo Ugo Tognazzi, in Ultimo minuto». Quanto ha guadagnato in carriera? «Non si dice. Con Sgarbi lo stipendio era onestamente buono. Con Tinto Brass, due milioni di lire in due giorni: festeggiai con una donna, in un albergo di Ravenna».

·         Pio e Amedeo. I filosofi trash della tv.

Tapiro d’oro per Pio e Amedeo: "Gli spettacoli sono uguali ai precedenti". Pio e Amedeo ricevono il Tapiro d'oro di Striscia la notizia: secondo alcune segnalazioni, i loro nuovi spettacoli sarebbero uguali a quelli di sei mesi fa, anche se presentati con un nome diverso. Luana Rosato, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Valerio Staffelli ha raggiunto Pio e Amedeo per consegnare loro il primo Tapiro d’oro della carriera. Il motivo? Secondo alcune segnalazioni, lo spettacolo che i due comici hanno messo in scena a Verona e in Sicilia sarebbe uguale a quello di sei mesi fa nonostante venga presentato con un titolo diverso. “È il punto di arrivo di una vita! Uno fa questo mestiere per avere il tapiro, anche se questa è una truffa: non è veramente di oro!”, hanno ironizzato i due prima di conoscere le reali motivazioni per le quali Striscia la notizia ha voluto consegnare loro il premio satirico. Senza mai perdere il sorriso e con fare canzonatorio, Pio e Amedeo hanno commentato: “Le segnalazioni? Impossibili, il nostro pubblico non sa scrivere! E poi: se uno viene a vedere per due volte il nostro spettacolo vuol dire che è davvero malato!”. Tornando seri, o almeno provando a farlo, i comici hanno replicato alle accuse di chi ha sostenuto che i loro spettacoli siano tutti uguali. “Dobbiamo fare una precisazione: abbiamo dei pezzi da repertorio che sono stati proposti nei precedenti spettacoli e a questi abbiamo aggiunto dei pezzi nuovi – hanno voluto specificare Pio e Amedeo - . È come se andassi ad un concerto di Vasco Rossi e non cantasse Albachiara”. “Comunque dobbiamo dire la verità: stiamo provando da tempo a fare una cazzata affinchè tu ci consegnassi il Tapiro – hanno continuato a scherzare i due, chiedendosi – . Ma non è che la segnalazione è arrivata da Ficarra e Picone?”. A chiusura dell'incontro con il tapiroforo, Pio e Amedeo hanno lanciato un appello ad Antonio Ricci: “Prendici per la conduzione di Striscia la notizia! Via tutti gli altri!”.

I filosofi trash della tv. Pubblicato giovedì, 04 aprile 2019 da Renato Franco su Corriere.it. La loro forza è non prendere mai una posizione, non scegliere mai da che parte stare, «siamo abituati a stare per strada e salire sul carro vincente». La filosofia opportunista di Pio e Amedeo è la cifra della loro comicità, marcata inflessione foggiana, il gioco sul prototipo dell’italiano medio e cafone, una maschera per fare ironia in modo non banale. Dopo un Sanremo da applausi sono tornati in tv, ospiti fissi di Amici di Maria De Filippi.

Tra «Amici» e Sanremo non c’è molta differenza, è una gara di cantanti e anche al Festival non è che fossero così famosi...

«Noi eravamo così terrorizzati all’idea di esibirci a Sanremo che nemmeno sapevamo chi cantava. Per la verità non sappiamo nemmeno chi ha vinto».

Ad «Amici» avete ironizzato su Salvini e Di Maio. Ora vi date alla satira?

«È stata una sfida. Abbiamo provato a portare un po’ di satira politica dentro un programma dedicato ai ragazzi. Non un’ironia alla Crozza, che è un fenomeno, ma secondo la nostra cifra, mantenendo un linguaggio accessibile a tutti, non solo a chi legge tutti i giornali. Ci ha sorpreso la reazione dei ragazzi, soprattutto sulle battute a Di Maio». 

Chi fa più ridere tra Salvini e Di Maio?

«Insieme sono uno spettacolo. Litigano, fanno pace, litigano di nuovo. Ma dipende dagli ormoni, perché da quando sono fidanzati sono più nervosi. Quando cominci una storia non consumi, al massimo fai una pomiciata, per cui entrambi sono inquieti... Di Maio e Salvini sono giovani, parlano lo stesso nostro linguaggio, avvicinano molto i ragazzi alla politica».

Sicuri che siano felici se dite che parlano il vostro stesso linguaggio?

«Dice che si devono offendere? Però il post sul tiramisù l’avevamo già fatto noi un anno fa, molto prima di Salvini».

Alex Britti non sembrava felice delle vostre battute...

«Bisogna capirlo, aveva preso una multa, gli hanno tolto tre punti, ma non se lo meritava, era una contravvenzione ingiusta, per le quattro frecce sul passo carraio...».

Il vostro talent è stato la strada?

«Lo è tuttora, se stai a casa non trovi niente: il dovere di un comico è spiare la gente, prendere spunto da quello che succede, rubare in strada... in senso lato perché purtroppo tra gli aspetti negativi della popolarità c’è che non possiamo più rubare all’autogrill». 

In tempi di politicamente corretto è più difficile fare comicità?

«Se riesci a scavare su certi argomenti, riesci a essere vincente: lo stimolo è confrontarsi in format diversi, capire il pubblico a cui ti rivolgi e sollecitarne la reazione». 

Vi date un limite?

«No, ce lo danno gli altri... Scherzi a parte non siamo mai stati censurati, ci hanno sempre permesso di fare quello che volevamo, siamo noi piuttosto che decidiamo cosa fare in determinati contesti».

A settembre sarete in scena all’Arena di Verona per il vostro nuovo spettacolo «La classe non è qua».

«Sicuramente chi viene a vederci non si deve aspettare correttezza, sarà una sorta di esperienza mistica e pensiamo di invitare qualche guest star, qualcuno che in questo periodo sta toccando il fondo del barile e ha tempo libero a disposizione».

Sanremo, «Amici», come si torna alla vita di tutti i giorni, alla tv di tutti i giorni?

«Il segreto della comicità è fare cose importanti e riposarsi quando hai consumato le munizioni. Per i prossimi due anni i colpi in canna li abbiamo, speriamo sempre di mantenere uno standard elevato. Al limite ricominciamo dal basso, stiamo già pensando al concorso nei vigili del fuoco». 

Cosa vi fa arrabbiare?

«Le persone che si prendono troppo sul serio, la facilità con cui non si rispetta il lavoro degli altri, l’odio dei social, gli haters. La critica è legittima, la cattiveria fa paura». 

Siete una coppia di fatto...

«Non solo una coppia di fatto, ma anche una famiglia allargata, siamo cresciuti insieme, alla fine non sai più chi è la mamma di chi... Battute a parte, non è più tempo di giudicare, e lo diciamo noi che veniamo da una realtà evolutissima come Foggia».

Voi che siete popolo e non élite per chi votate?

«C’è un nostro cugino che è candidato alla circoscrizione di Foggia. Anzi se non le dispiace chieda dei voti a nome suo, perché noi siamo per il sistema clientelare. È passato in 12 anni dal Pd a Forza Italia, alla Lega, ora è nella Lista Civica: lui è per la pagnotta e non si schiera mai».

Silvia Fumarola per “la Repubblica”il 25 settembre 2019. Hanno intitolato lo spettacolo “La classe non è qua”. Pio e Amedeo ignorano cosa sia la classe ma a giudicare dal successo all' Arena di Verona, al pubblico poco importa. Risate, applausi, un tripudio per il duo comico di Foggia che spazia dalla tv delle lacrime (con Pio che fa Barbara D'Urso, esilarante), alle storie di famiglia, ai rapporti uomo-donna in cui tirano fuori i luoghi comuni maschilisti più orridi, da prenderli a schiaffi - ma la folla è entusiasta. Osservazione della realtà in salsa trash. Fieri qualunquisti, prendere o lasciare, nemici del politicamente corretto, al grido di "L'ironia salverà il mondo" giocano sulle donne che vogliono tutto («Una volta era diverso, ho chiesto a mia nonna: "Hai mai raggiunto l'orgasmo?". Mi ha risposto: "Non mi sono mai mossa da qui"» ), sui gay, sui vegani, sui sex toys, sui soldi in nero. Quando appare la foto del premio Nobel Rita Levi Montalcini - ribattezzata Levis Montalcini - fiato sospeso. «È una nostra collega. Lo sapete, l'ha uccisa l' Inps: prendeva troppi soldi di pensione». Finale con i figli piccoli in braccio «perché la famiglia è tutto». Da Emigratis a Sanremo al sodalizio con Maria De Filippi (ora ad Amici celebrities su Canale 5), Pio D'Antini e Amedeo Grieco, 36 anni (prima foto insieme in braccio alle mamme, neonati, stessa stanza del reparto maternità) si preparano a una stagione da protagonisti. Il 3 dicembre da Torino parte il tour nei teatri, poi il varietà su Canale 5 e il cinema: stanno scrivendo il film prodotto da Lorenzo Mieli.

Possibile che neanche l'Arena di Verona vi intimorisca?

«Siamo come gladiatori, a strapiombo sul palco. Non vedi la gente, l'inizio fa paura. Poi si accendono le luci e parti».

Ad "Amici celebrities" avete ironizzato sui "due Mattei", Salvini e Renzi. È l'ora della satira politica?

«La nostra è una satira accessibile a tutti, non come quella del collega Maurizio Crozza, oddio dice che si arrabbia se lo chiamiamo collega?».

Andiamo avanti.

«Lui fa un tipo di satira per gente informata dei fatti, noi facciamo satira per informare. Non tutti leggono il giornale o hanno il tempo per capire i continui sconvolgimenti».

E voi cosa spiegate?

«Che cambia tutto perché non cambi niente. Tra Renzi e Salvini è una bella lotta, hanno ironia tutti e due e la sfacciataggine di fare i propri interessi. Salvini ci voleva liberare, Renzi vuole cambiare il paese. Beh, noi non gli crediamo».

Che dite del premier Giuseppe Conte, vostro corregionale?

«È nato vicino a Foggia. Tecnicamente non ci ha raccomandato ancora nessuno. Se vuole, a questo punto, lo raccomandiamo noi».

Come lavorate?

«Ci mescoliamo tra la gente. Abbassiamo il tiro, cerchiamo di circondarci di persone sempre più brutte. Poi ci riuniamo con i nostri autori Fabio Di Credico e Aldo Augelli in posti dove non c'è nulla e facciamo grandi brain storming».

Giocate con la volgarità: vi date delle regole?

«Il concetto di volgarità va esaminato. Sono molto più volgari quelli che speculano sul dolore in tv. In questo spettacolo ironizziamo sul fatto che in Italia non si può mai andare oltre: il politicamente corretto ha ucciso tutto. L'ironia invece può salvare il mondo».

Vi siete chiesti cosa trova il pubblico in voi?

«Si configura, si specchia. Capisce che siamo sinceri e siamo partiti dal nulla. Sa che crediamo in quello che facciamo. Prima di Telenorba, c'era stata TeleFoggia: con una sola telecamera e tre ore a disposizione eravamo sempre alla ricerca della battuta. Una palestra».

Il successo a Sanremo ha cambiato qualcosa?

«Quando ci siamo rivisti abbiamo capito il segreto, sembrava che non avessimo nulla da perdere».

Non vi vergognate mai?

«No, perché? Siamo popolo ma ride anche l'élite. Siamo il compagno di banco, l' amico del bar, non ci chieda l'alchimia. Il target di riferimento è un mistero, sono tutti. Però va usato il linguaggio giusto, vale per i prof all'università e per i comici».

Siete fieramente qualunquisti.

«Sì e lo rivendichiamo. Ci vuole coraggio, no? ».

Che farete nello show di Canale 5?

«Le nostre cose, ci stiamo lavorando. Ma saremo liberi, come sempre».

Com'è nata la collaborazione col produttore Lorenzo Mieli?

«È stupita? Ci ha chiamato lui, ci ha invitato a casa per parlare. A un certo punto è andato in cucina e ci ha fatto anche il caffè con la macchinetta. Lui, con le sue mani. Un bellissimo incontro. Il film affronterà un tema che ci riguarda tutti, non possiamo dirlo adesso».

Oggi è più difficile far ridere? Sul web circolano battute geniali.

«Molto più difficile. Cerchiamo spunti nostri. Tornando al discorso dei limiti, in America fanno molto peggio».

Chi vi fa ridere?

«Chi ostenta. Poi il modo con cui si avvicinano ai social gli ultra sessantenni. Mia madre (parla Amedeo, ndr) non ha Facebook ma usa il profilo di mio padre. E a un certo punto vedi: Federico Grieco ha condiviso la ricetta dei cannelloni».

·         Simona Tagli.

Luana Rosato per Il Giornale il 25 settembre 2019. La castità sembra essere una vera e propria tendenza tra i vip: a praticarla, come raccontato a Mattino Cinque, è Simona Tagli, che ha rivelato di non avere rapporti sessuali con un uomo da dieci anni. Intervistata da Federica Panicucci durante la puntata odierna del programma di Canale 5, la Tagli ha raccontato la sua esperienza e spiegato i motivi che l’hanno spinta verso questa scelta considerata, da alcuni, veramente estrema. “Io ho sublimato il concetto di amore, l’ho condensato in una sfera mia – ha raccontato la showgirl alla conduttrice - . Mi sono aggrappata, dieci anni fa, ad un filo d’amore che oggi è diventato un’ancora di salvezza che mi ha portato fuori da situazioni molto dolorose legate alla famiglia, alla separazione, ai figli...”. Certa della decisione presa, Simona Tagli ha sottolineato che “si può vivere e si può amare anche senza fare sesso”. “Si parla di amore e di sesso in un equilibrio – ha aggiunto ancora - . Io ho fatto questo voto e lo scioglierò nel momento in cui potrò trovare una persona che mi intrighi”. La scelta di castità della showgirl, quindi, deriva da un avvicinamento alla preghiera e alla sublimazione avvenuto in un periodo di grande dolore che, però, le ha permesso di “fare un viaggio dentro” e maturare scelte tanto importanti. La Tagli, tuttavia, non è l’unico personaggio televisivo ad aver intrapreso questo stile di vita: come lei, anche Andrea Preti, che ha spiegato di non avere rapporti con donne dallo scorso maggio.

·         Ramona Badescu.

Ramona Badescu, la ricordate? Incinta per la prima volta a 50 anni. Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. Ramona Badescu, una delle star della televisione italiana degli anni '90 (fece il Bagaglino, tra le altre cose), diventerà madre per la prima volta all'età di 50 anni. La stessa soubrette posa con il pancione su Diva e donna e Tgcom.  La showgirl e attrice è stata paparazzata a Roma dal settimanale Diva e Donna all’uscita da una visita ginecologica ed è apparsa con un pancione molto… ingombrante! Ramona è stata una delle star del Bagaglino e ha recitato in numerose fiction, negli scorsi anni ha lavorato come consigliere per i rapporti con la comunità romena del Comune di Roma. Oggi ha scelto di condurre una nuova vita, lontana dai riflettori e dalle luce della ribalta. La Badescu fa coppia fissa con un avvocato, con cui si è sposata qualche tempo fa. Finalmente riesce a coronare il sogno di diventare madre. Darà alla luce un maschietto. 

Ramona Badescu diventa mamma a 50 anni: "Avevo congelato gli ovuli, ma..." Ramona Badescu ha rivelato di essersi recata presso un ginecologo, con l'intento di ricorrere alla fecondazione assistita. Serena Granato, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. Nata da una famiglia benestante in Romania, Ramona Badescu vive in Italia dal 1990 e viene ricordata dai telespettatori soprattutto per aver partecipato alla seconda edizione del reality show La fattoria, condotta da Barbara d'Urso. L'attrice, politica e showgirl dalle curve esplosive riesce da tempo a tenersi a distanza dai riflettori del mondo dello showbiz, tant'è vero che la sua gravidanza è passata inosservata, almeno fino al momento in cui Diva e donna non l'ha paparazzata con tanto di pancione in bella vista. All'uscita da uno studio medico, infatti, la Badescu è stata beccata dai paparazzi, presumibilmente dopo un controllo medico di routine. L'attrice è apparsa con le forme da futura mamma e secondo le ultime indiscrezioni sul conto del suo primo nascituro, la showgirl sarebbe in attesa di un maschietto, concepito con un avvocato. Nelle foto di Diva e donna, Ramona Badescu appare serena mentre porta in braccio il suo cagnolino bianco, lo stesso che viene ritratto nell'ultima foto postata su Instagram, che l'attrice ha condiviso sul suo profilo personale lo scorso luglio.

La gravidanza di Ramona Badescu a 50 anni. In un'intervista concessa a Ok Magazine, Ramona Badescu ha parlato della sua gravidanza, un sogno che è riuscita a coronare all'età di 50 anni: "Ho sempre desiderato avere un figlio, ma è importante farlo con la persona giusta. Non avrei mai accettato l’idea di concepirlo con un uomo dal quale non fossi stata attratta e amata". La showgirl dalle origini rumene e naturalizzata italiana non ha nascosto di aver congelato i propri ovuli in passato per poter ricorrere, nel caso in cui ne avesse avuto bisogno, alla pratica della fecondazione assistita: "Anche se ho 50 anni come età anagrafica, per l’età biologica ne ho circa 32, come dimostrano le analisi. Questo perché non ho mai avuto eccessi e ho condotto una vita sana". L'ex protagonista de La Fattoria ha fatto sapere di essersi recata presso un ginecologo lo scorso gennaio, con l'intento di ricorrere alla fecondazione assistita, e proprio in occasione della visita ginecologica in questione l'attrice ha scoperto di essere già in attesa del suo futuro primogenito: "Quando sono andata per iniziare la procedura, il mio ginecologo mi ha guardato con un grande sorriso e mi ha detto che ero già incinta di due settimane".

·         Mauro Marin.

Stefania Rocco per Fanpage.it il 25 settembre 2019. Mauro Marin, vincitore del Grande Fratello 10, sarebbe stato ricoverato press il reparto di psichiatria dell’ospedale di Montebelluna. A documentare la vicenda è La Tribuna di Treviso che ha raggiunto l’ex concorrente del più noto reality show italiano. “Sto male, ho bisogno di aiuto” avrebbe riferito Marin “Grazie ai medici, chi ha problemi come me non si vergogni di farsi visitare”. Sul caso anche le telecamere di Pomeriggio5, trasmissione condotta da Barbara D’Urso. La conduttrice ha parlato di una “situazione controversa” e ha fatto a Marin i suoi migliori auguri affinché possa ristabilirsi al più presto e finalmente conoscere il bambino nato dalla relazione con Jessica Bellei. Un servizio mandato in onda durante la trasmissione del pomeriggio di Canale5 ha fatto sapere che Marin sarebbe reduce da una “forte depressione”. Secondo quanto riferisce La Tribuna di Treviso, Marin sarebbe stato inizialmente ricoverato la scorsa settimana e poi dimesso. Venerdì 20 settembre, a distanza di qualche giorno da quel momento, sarebbe rientrato in ospedale per un secondo ricovero. Già in passato, Marin aveva raccontato in un libro di avere avuto qualche problema di salute. Gli sarebbe stato diagnosticato un disturbo di tipo schizofrenico. L’ultimo periodo, segnato dalla nascita del figlio che non ha ancora mai conosciuto, potrebbe avere messo a dura prova la stabilità emotiva di Mauro. Dopo la vittoria al Grande Fratello 10, Marin aveva descritto i suoi problemi di salute in un libro. Mauro sarebbe stato ricoverato in una struttura psichiatrica a seguito di una diagnosi ricevuta nel 2004: “Nel 2004 mi è stata diagnosticata una schizofrenia affettiva con disturbo bipolare, dovuta all’eccesso di sostanze. I miei genitori mi hanno raccolto con il cucchiaino e mi sono svegliato al reparto psichiatrico di Montebelluna”. Si era visto costretto a chiarire dopo un’intervista andata in onda sui canali social di Mediaset:“Io non mi vanto certo di avere fumato spinelli, né dico che combattono la depressione. Anzi, le droghe, tutte le droghe, la depressione la creano. Poi gli effetti sono variabili, dipendono da persona a persona. Su di me ad esempio anche delle semplici gocce per dormire hanno causato quella specie di collasso che tutti hanno potuto vedere in tivù, durante l’intervista di Mediaset in videochat”.

·         La Gatta morta Marina La Rosa.

Da I Lunatici Rai Radio2 il 28 settembre 2019. Marina La Rosa è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Marina La Rosa ha raccontato: "Sono il sogno erotico di tante persone, che evidentemente non stanno bene. Io non ho un grandissimo rapporto con i social, ma mi scrivono tante persone. Ci sono persone che vorrebbero venire a pulirmi casa. Poi c'è chi vuole assolutamente acquistare le mie scarpe usate e per farlo pagherebbe qualunque cifra. Ho fatto un trasloco due anni fa, avevo una busta enorme di scarpe e non sapevo cosa farci. Allora le ho vendute. I negozietti vintage non le volevano, così un paio le ho vendute ad un feticista. Era felice. Mi ha pagato, la cifra che mi ha dato non mi ha cambiato la vita, ma almeno ho fatto felice una persona. Ancora più interessante è il money slave. Uno ha provato talmente tante volte a chiedere il mio iban che dopo qualche anno gliel'ho dato. Ha insistito tre anni, pregandomi tutti i giorni. Alla fine, anche per farlo felice, gli ho dato l'iban. E mi ha mandato dei soldi.  E' stato felice così. Poi c'è chi mi manda foto delle sue parti intime. In situazioni anche imbarazzanti". Marina La Rosa è tornata sulla prima edizione del Grande Fratello cui prese parte venti anni fa: "Ho fatto il provino più che altro per fuggire dalla mia vita universitaria. Cercavo una via d'uscita, ho partecipato convinta che nessuno mi avrebbe mai preso. Il primo provino l'ho fatto con migliaia di persone, a Palermo. Sono entrata prendendo in giro gli autori, convinta che comunque non mi avrebbero mai preso. Poi mi hanno richiamato, ho superato una decina di provini, fino ad arrivare all'incontro con lo psicologo. Anche lui mi ha ritenuto idonea ed è andata così. Qualche tempo fa ho rivisto Sergio, che tutti ricordano come 'ottusangolo'. E' tanto carino, è passato con la sua attuale compagna, siamo stati molto bene. Siamo felici ogni volta che ci vediamo. Se ci sono cose che non si sono ancora dette su quella edizione? Certo che ci sono, ma se non sono state ancora dette, evidentemente non si possono dire. Pietro Taricone? Era un personaggio meraviglioso. Lo era veramente e la conferma è che quando se ne andò piansero tutti, anche persone che mai lo avevano conosciuto.  Era una persona semplice, riusciva a parlare con chiunque. Era anche colto, fissato con la filosofia. Una persona fantastica. E' andata così, purtroppo. Il nostro flirt nella casa? Tutte le donne d'Italia in quel momento vedevano Cristina Plevani, che poi vinse l'edizione, che era completamente innamorata di Pietro. E pensavano a me come elemento disturbante. Ma io ero corteggiata da Pietro, non accettavo nessuna avance, proprio perché c'era una donna innamorata di lui e quindi sarebbe stato un comportamento scorretto nei confronti di un'altra donna".

Dagospia il 24 novembre 2019. Da "I Lunatici del week-end - Radio2". Marina La Rosa è intervenuta nel corso della trasmissione I Lunatici del week end in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Andrea Santonastaso e Roberta Paris.

Sul Grande Fratello: I pregiudizi sono una cosa devastante. Io con la grande esperienza del Grande Fratello, visto che tutti mi hanno vista in un certo modo, ho imparato a cercare di abbattere i pregiudizi ed è importante per conoscere la persona. Negli anni mi sono anche abituata, le mie grandi amicizie sono nate con momenti di grande antipatia. Sono uscita da lì come se fossi stata Sophia Loren negli anni ’70, per cui ognuno mi proponeva lavori interessanti. Io non mi sentivo sicura, quindi ho cominciato a fare corsi di recitazione, di dizione, quindi in realtà la problematica me la sono posta io. Menomale da alcuni punti di vista, peccato da altri perché nel frattempo ho detto no a una serie di proposte.

Su Rocco Casalino: Se avessi detto dei si adesso sarei potuta essere il portavoce di Casalino. Tra un po’ Casalino avrà bisogno di un portavoce. Ci sentiamo, ci mandiamo dei messaggi, quindi tutt’ora c’è un grande affetto e una grande stima. Rocco è un uomo intelligente, poi può piacere o non piacere la direzione politica ma il suo ruolo lo sa fare.  Fin da allora diceva che voleva fare politica.

Su Pietro Taricone: Quando eravamo nella casa Pietro Taricone, meraviglioso, diceva che sarebbe andato ad Hollywood a lavorare con De Niro, poi c’era qualcun altro che voleva il ristorante stellato, Rocco invece diceva che gli sarebbe piaciuto fare politica. Lui in realtà è un terrone come me, per cui lui sentiva tutta una serie di problematiche che ci riguardavano e spesso se ne parlava. Però nessuno poteva immaginare, e sicuramente neanche lui, che poi sarebbe riuscito in questo intento. Pietro non aveva solo talento nella recitazione, era una persona aperta a 360° che si buttava nelle cose. Io mi ricordo che aveva una passione per i cavalli e lui non ha comprato solo i cavalli, si è costruito da solo proprio la stalla, il maneggio. Si buttava a capofitto nelle cose con grandissima passione, per cui in quello che faceva riusciva.

LA GATTAMORTA È VIVA E GRAFFIA PIÙ CHE MAI!  tvzap.kataweb.it il 6 aprile 2019. “Quando ti dicono che niente devi partire per forza, non si può rimandare alla prox settimana, quando insistono così tanto che ti propongono anche di più rispetto al solito cachet, quando piove e tu vorresti solo stare a casa, goderti casa tua invece ti svegli alle 5 del mattino per poter arrivare in tempo.. quando poi ti accorgi che tu hai fatto tanto e gli altri, purtroppo, non hanno fatto un cazzo […]”. Lascia trasparire una certa amarezza il post (poi rimosso) di Marina La Rosa che si fotografa mentre, in treno, si dirige agli studi di Verissimo per registrare la puntata in onda sabato 6 aprile. La seconda classificata de L’isola dei famosi dice chiaramente che la trasmissione condotta da Silvia Toffanin, pur di averla ospite, le avrebbe proposto anche una somma maggiore davanti alla sua intenzione di rimandare l’intervista di qualche giorno, e così alzatasi all’alba la ex naufraga è salita sul treno destinazione Cologno Monzese. Qualcosa, però, nel corso della registrazione avrebbe infastidito Marina La Rosa. A un utente che le scrive: “Ero in studio a Verissimo ad applaudirti. Nonostante non mi siano piaciute le domande, tu resti sempre una grande, per come te la sei giocata” la ex gieffina replica: “Ah ecco, spero se ne siano resi conto anche tutti gli altri”, e poco dopo a chi le chiede se sia andata a Verissimo e che cosa sia successo risponde diplomatica: “Aspetterò con tutta calma sabato prima di espormi totalmente. Nel frattempo, ci diranno di non brillare ma noi brilliamo lo stesso […] Registrato oggi, andrà in onda sabato. Spero lascino tutto senza tagli, sarebbe interessante. Molto“. Non resta che attendere la puntata del 6 aprile per capire che cosa è accaduto tra Marina e la produzione di Verissimo.

Da ''Mediaset.it'' il 6 aprile 2019. Rispetto ad alcuni ex naufraghi che non intende più incontrare terminato il reality, neppure nello studio di Verissimo, dichiara: “Ci sono persone che non ho piacere a incontrare. Soleil e Riccardo Fogli rappresentavano per me un’energia negativa. Con Soleil – spiega – non c’è niente di personale, ma non mi piace come persona. Non è una questione d’invidia, perché è bella e forte. Non può esserci invidia con una che ha vent’anni, io alla mia età, ho partecipato con un atteggiamento diverso, più maturo”. Rispetto alle incomprensioni con Riccardo Fogli, Marina confida: “Avrà il suo pubblico, i suoi fan, ma a me Riccardo non piace. Mi spiace che ora non stia bene, ma con me si è comportato in modo sbagliato. A 71 anni dovrebbe essere un po’ più maturo rispetto a quello che si è dimostrato. Sia lui che Soleil hanno usato parole sgradevoli”. Se con alcuni naufraghi non è scattato il feeling, Marina ha invece stretto un legame molto forte con un altro concorrente, Luca Vismara: “Anche se c’è una grande differenza anagrafica, con lui c’era molta sintonia. Ancora adesso, non riuscendo ancora a dormire di notte a causa dell’adrenalina, ci scriviamo messaggi durante la notte, come quando ci trovavamo sull’isola a parlare intorno a fuoco”. Infine, rispetto ai suoi progetti per il futuro confessa: “Adesso sparisco dalla tv. Torno a casa da mio marito, che mi ama anche con i miei difetti, e dai miei figli”.

Chiara Maffioletti per il ''Corriere della Sera'' il 6 aprile 2019. Non è passata una settimana dalla finale dell’«Isola dei famosi». Maria La Rosa non ha ancora commentato il suo secondo posto. Lei che attraverso un reality, orami 19 anni fa, è passata dall’essere una perfetta sconosciuta a uno dei volti più popolari della televisione, quelli dei ragazzi del primo «Grande Fratello».

Cosa le resta, ore, di questa esperienza?

«È difficile spiegare quale sia stato per me il senso di questa incredibile avventura. Normalmente è come se fossimo tutti isole in un arcipelago di indifferenza, invece dovremmo essere tutti piccole isole collegate tra loro da sottili strisce di sabbia per essere facilmente raggiungibili l’un l’altro. L’isolamento “forzato” mi ha reso ancora più consapevole di quanto gli altri siano importanti, senza gli altri noi non saremmo infatti nessuno. Sarà un concetto banale ma è quello che penso, l’amore verso se stessi, verso gli altri e verso il pianeta che ci ospita, è questo per me il senso del tutto».

Perché ha deciso di accettare di fare proprio un reality come l’«Isola dei famosi»?

«Ho sempre guardato l’isola non come un reality ma come una sorta di prova psicofisica per i concorrenti. Mi ha sempre eccitato l’idea di partecipare per vedere come avrei potuto reagire io stessa in una situazione del genere cosi precaria».

Quale è la sua idea, in generale, dei reality show?

«Il reality è un programma televisivo che, come dice la parola stessa, dovrebbe rispecchiare la realtà. L’ho sempre trovato un esperimento interessante soprattutto quando i concorrenti si mettono a nudo e non hanno paura di mostrare le loro emozioni. Sono laureata in psicologia, gli esseri umani li trovo così interessanti».

Dopo il successo del «Grande Fratello» si sarebbe mai immaginata questo futuro per lei? Pensava altro?

«Il “Grande Fratello” del 2000 è stato il vero reality poiché era proprio il primo ad andare in onda nel nostro paese. Da allora son passati 20 anni e, non avendo la sfera di cristallo, non sapevo cosa potesse riservarmi il mio futuro ma fino a questo momento posso ammettere di essere abbastanza soddisfatta».

Cosa ha imparato rispetto alla ragazzina di allora del successo e della tv? Se tornasse indietro cosa cambierebbe?

«Ho imparato che il successo non ha necessariamente una correlazione con il lavoro che facciamo. In Occidente purtroppo il successo di una persona si misura dalle amicizie, dal lavoro che svolge, dalla classe sociale e dalle possibilità economiche. Il mio di successo si basa invece su altro, semplicemente da quanto mi sento felice».

Perché continua a piacere agli italiani?

«Perché gli italiani, si sa, sono persone intelligenti... Scherzi a parte, credo di piacere non a tutti ma alle persone che nella vita non danno mai niente per scontato e come me cercano sempre il senso e la verità in ogni cosa».

Considera questo secondo posto è una rivincita rispetto a quel 74 (o 72 per cento bulgaro ) che la eliminò dal «GF»?

«Questo secondo posto è in realtà solo una conferma di quanto (almeno nel mio caso) le percentuali non contino molto. L’eliminazione dal GF non ha significato proprio nulla, non a caso sono sempre stata considerata la vincitrice morale del programma».

C’è ancora chi la insulta mentre cammina per strada? Come ricorda quell’aspetto della fama?

«Ho sempre sorriso davanti agli insulti. L’ho sempre ritenuta una questione pirandelliana, ognuno ti vede così come ti vuole vedere e solo in pochi si spingono oltre per vedere cosa c’è dietro la corazza. Per me è stato, il post GF, un periodo davvero molto interessante, è facile stare bene quando si sta bene, la vera crescita avviene proprio nei momenti più difficili».

Ha realizzato di essere stata forse la prima a difendersi dagli haters che oggi sono ovunque nei social?

No, effettivamente non ci avevo pensato. Fortunatamente (in realtà dietro c’è un lungo lavoro) il valore che ho di me stessa non dipende dagli altri, ne tanto meno dai vari haters che altro non sono che persone disturbate mentalmente. Insomma le opinioni cattive degli altri, siano esse sui social che per strada, non mi interessano affatto».

E’ consapevole di essere nella storia della TV? Le fa effetto?

«La storia della televisione italiana è fatta di programmi ma, soprattutto, di persone. È un grandissimo onore per me farne parte, forse significa che a differenza di tanti altri, ho sempre avuto qualcosa da dire»

Sente ancora Rocco Casalino? Cosa pensa dei Cinque Stelle?

«Rocco ha fatto molto discutere perché anche lui è stato uno dei protagonisti indiscussi di quell’importante cambiamento che ha subìto la televisione italiana quando appunto, nel 2000, partecipò al “Grande Fratello”.

Trovo ingiusto, banale ed anche abbastanza mediocre additare qualcuno ed incasellarlo in un’etichetta, è noioso e stupido questo bisogno di categorizzazioni, se hai fatto un programma in tv non significa tu non possa fare altro, puoi essere ciò che vuoi... ogni giorno abbiamo tutti la possibilità di cambiare la nostra vita, è proprio questo il bello. Purtroppo però non tutti lo capiscono. Dei Cinque Stelle invece non penso niente, proprio nulla, le uniche stelle a cui adesso riesco a pensare sono quelle che illuminano Caio Paloma».

·         Al Gf la figlia d’arte Serena Rutelli.

Grande Fratello, la confessione di Serena su Francesco Rutelli: "Ci ho messo anni a convincerlo". Libero Quotidiano il 7 Giugno 2019. Serena Rutelli figlia adottiva di Barbara Palombelli e Francesco Rutelli è stata una delle protagoniste dell'edizione di quest'anno del Grande Fratello. L'ex gieffina è stata al centro dell'attenzione dopo le rivelazioni fatte riguardo alla sua infanzia difficile, vissuta in una casa famiglia dopo aver subito delle violenze dai genitori biologici. In una lunga intervista a Il Giornale la Rutelli ha infatti rivelato che vivere un'esperienza come del Grande Fratello l'abbia fatta crescere e maturare e abbia confermato che partecipare al reality, nonostante i genitori non volessero, sia stata la scelta giusta. Parlando di questo Serena ha infatti rivelato: "Mio papà in particolare temeva che mi demoralizzassi, che la prendessi male. Non è stato facile convincerlo, ci sono voluti anni. Mia madre invece era favorevole, glielo avevo chiesto tante volte. Poi quando mio padre ha visto come reagivo nella casa si è tranquillizzato". Serena è poi tornata sul suo difficile passato, mentre era nella Casa infatti la madre biologica aveva chiesto alla produzione di poterla incontrare. Possibilità negata dalla concorrente che a proposito ha infatti raccontato: "Mi avevano messo in guardia sul fatto che sarebbe potuto capitare, andando in televisione. E pensavo di prenderla peggio. Invece ho reagito bene, non sono stata male e ho rifiutato di incontrarla". Ad oggi Serena progetta il suo futuro con il fidanzato Alessandro anche lui adottato e che prima di entrare nella Casa le ha chiesto di sposarla e di cui a proposito ha detto: "Ci siamo conosciuti casualmente un anno e mezzo fa in un locale al centro di Roma. È stato un colpo di fulmine. Un amore puro. Raro. Forse anche perché abbiamo avuto la stessa sorte all’inizio della nostra vita".

Grande Fratello, Serena Rutelli: "Telecamere meglio dello psicologo". Ritratto indiscreto: com'è oggi. Costanza Cavalli su Libero Quotidiano il 24 Giugno 2019. Ultimo avamposto di coloro che rimangono pervicacemente attaccati al mito dei quindici minuti di celebrità, il Grande Fratello, alla sedicesima edizione, pare abbia indossato anche i panni virtuali dello stregone. Per la concorrente Serena Rutelli, il reality show, una full immersion della durata di sessantaquattro giorni, piena di gente, telecamere e dirette tivù, sarebbe risultato più efficace di diciannove anni di terapia. Serena Rutelli (comunque eiettata dalla casa-zoo al cinquantesimo giorno di reality, il 27 maggio scorso) anche se di sponda, è una vip: romana, 29 anni, estetista, è soprattutto la figlia adottiva di Francesco Rutelli e Barbara Palombelli. Ora che il programma ha chiuso la stagione, ha rilasciato alcune interviste, l' ultima delle quali al settimanale Gente, nelle edicole da venerdì scorso. Più sicura - Nel servizio, corredato da una parure di foto insieme con la illustre mamma, l' ex concorrente racconta: «Volevo mettermi alla prova e restare sola con me stessa. Per questo sono entrata nella Casa». «La mia vittoria è stata entrare e diventare la persona che sono adesso. Ero sicura che sarei cresciuta, sapevo che il Gf mi avrebbe resta più sicura. Il reality è un percorso dove vivi un cambiamento profondo», aveva già raccontato al Corriere il 10 giugno scorso. Le sue parole su Gente proseguono così: «Per la prima volta sono stata davvero sola davanti alla mia vita, alla mia storia. Negli ultimi vent' anni sono stata seguita da un' analista, sempre la stessa. L' ho salutata prima di entrare nella casa e da allora non ci sono più tornata. Forse ho imparato a gestire le mie insicurezze, le mie paure. Sono uscita più forte di prima». Serena, abbandonata insieme con la sorella Monica dai genitori biologici in una casa famiglia, è stata presa in affido e poi adottata quando aveva sette anni. Solo a ventidue, confida al settimanale, ha chiamato la Palombelli "mamma" e non più "Barbara". Quando l' intervistatrice del Corriere le domandò - immaginando la perplessità del lettore - «Perché ti fa crescere, un reality?», rispose: «Perché sei sola, non hai vicino nessuno dei tuoi familiari, se sei giù di morale nessuno ti incoraggia. Affronti tutto la sola, e ti devi fare forza da sola». Un modo singolare per mettersi in viaggio alla ricerca di se stessi.  Di sicuro più economico di un volo per l' India e certamente anche dello psicologo. E infatti, altra domanda, «la Serena che è entrata nella casa del Gf è diversa dalla Serena che è uscita?» - «Completamente cambiata», risponde la giovane, «Prima ero insicura, avevo paura dei giudizi della gente, ora non più». Andare in tivù se si temono i pareri che hanno gli altri di noi non sembra particolarmente ragionevole. Ma forse è una paura che si sconfigge come l' aracnofobia, l' orrore dei ragni: abbandonando la prudenza e gettandosi in una vasca di tarantole. «Se devo dire una cosa, la dico senza occuparmi di che cosa potrà pensare la gente», e qui Serena è più che guarita, sembra aver perso il treno del buon senso, passando direttamente all' estremo opposto. Ex timida - «Poi ero davvero timida, non parlavo con le persone: lì sei obbligato a farlo e questo mi è servito»: timidezza che se l' è data subito a gambe, lasciando libera Serena di farsi riprendere dalle telecamere di giorno e di notte; una ragazza tanto riservata da far sapere all' intero Paese che cosa le aveva scritto la madre biologica, da raccontare della famiglia, del suo ragazzo, 21enne di origini senegalesi, anche lui adottato: «Stiamo pensando a un bambino. È la prima cosa che mi ha detto quando sono uscita dal Gf. Vorrei aspettare ancora un po'. Magari anche con bimbi in adozione. Per me è stata una fortuna». Eppure, di acqua ne corre tra il desiderio di aprire un centro estetico "tutto mio" e la decisione di partecipare a un reality, senza aver mai pensato al mondo della tivù (così lei ha affermato), per di più con un genitore ex politico e una genitrice giornalista televisiva. Insomma, un dubbio sull' utilità di qualche altro giro dallo psicologo, viene. Magari, dopo vent' anni, uno diverso. Costanza Cavalli

Serena Rutelli: "Dopo il Gf la mia famiglia biologica è sparita". Rispondendo ai suoi fan su Instagram, Serena Rutelli rivela che i membri della sua famiglia biologica - dopo essersi fatti vivi durante il Grande Fratello - sono spariti: "Avevo previsto che sarebbero venuti fuori solo per avere un briciolo di visibilità". Gianni Nencini, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. Rispondendo ai suoi fan su Instagram, Serena Rutelli ha rivelato che la sua famiglia biologica - dopo essersi fatta viva durante il Grande Fratello - è sparita: "Cercavano solo visibilità, lo avevo previsto". La figlia di Barbara Palombelli e Francesco Rutelli ha conquistato il pubblico dell'ultima edizione del Grande Fratello di Barbara d'Urso con la sua semplicità e con la sua storia personale. Serena Rutelli è stata infatti adottata insieme alla sorella Monica dalla coppia formata dalla conduttrice di Forum e dall'ex sindaco di Roma. Durante il periodo della sua permanenza all'interno della casa del Grande Fratello, alcuni membri della sua famiglia d'origine erano venuti allo scoperto per cercare un riavvicinamento con la ragazza. In quei giorni, Serena Rutelli aveva lasciato le porte aperte a un contatto con suo fratello, mentre aveva respinto la richiesta di riconciliazione da parte della madre biologica, perché troppo ferita dal suo comportamento pregresso. Adesso, però, a sei mesi da queste suppliche di riavvicinamento, la situazione sembra aver preso una triste piega. Rispondendo ai suoi fan su Instagram, Serena Rutelli rivela quello che già i più maliziosi si aspettavano: "Non si sono mai più fatti sentire". "Se avevano tutta questa voglia di stabilire un rapporto con me, perché sono spariti?", si chiede retoricamente la ragazza. Ma la giovane, che più volte ha dimostrare la sua maturità, ha già la sua tristemente realistica risposta: "Hanno fatto la sceneggiata in tv e poi basta". "Ma avevo previsto che sarebbero venuti fuori solo per avere un briciolo di visibilità", aggiunge Serena con un pizzico di amaro cinismo. Quando a Barbara d'Urso giunsero le richieste di riavvicinamento da parte della famiglia d'origine, la conduttrice del Gf sostenne di averlo comunicato anche a Barbara Palombelli, che subito avallò la scelta di rendere partecipe anche la figlia. Evidentemente la giornalista e conduttrice era conscia che Serena avrebbe avuto la forza anche di resistere ad eventuali nuove delusioni. Il rapporto tra la Palombelli e Serena è infatti molto forte ed è stata proprio la giovane a ribadire su Instagram di considerarla la sua unica mamma: "Lo era prima, lo è adesso, lo sarà sempre". "Ci sono cose che non riesco ad affrontare e non riuscirei a perdonare mia madre", ha aggiunto riferendosi alla donna che l'ha partorita. "Sono fatta così. E poi una famiglia ce l’ho", ha chiosato sicura la giovane Rutelli.

Gf, Serena Rutelli: "Non voglio vedere mia madre perché il passato è chiuso". Nell'ultima diretta del Grande Fratetello 16, la gieffina Serena Rutelli è venuta a conoscenza di una lettera destinatale dalla mamma naturale. Serena Granato, Mercoledì 01/05/2019, su Il Giornale. La nuova diretta del Grande Fratello 16, il reality-show condotto da Barbara D'Urso e trasmesso su Canale 5, può dirsi all'insegna di colpi di scena. Particolarmente emozionante è stato il momento televisivo che ha visto la gieffina Serena Rutelli, la figlia adottiva di Barbara Palombelli e Francesco Rutelli, venire a conoscenza del contenuto di una lettera destinatale dalla mamma naturale. “Ciao, sono la vostra mamma. Mi chiamo Maria. Io non vi ho abbandonate. Sono state le circostanze a portarmi a fare certe scelte. Non volevo vedervi vivere nella miseria, come sto facendo io. Sono una clochard e non ho voluto questo per voi. Però vi ho sempre nel mio cuore. Non vi chiedo nulla. Non voglio nulla. L’unica cosa che voglia è rivedervi. Spero di potervi riabbracciare, la vostra mamma”, queste le parole che Barbara D'Urso aveva letto in diretta al GF, delle dichiarazioni importanti che la signora Maria ha scritto per la figlia Serena. Nel corso dell'ultima diretta del GF16, la conduttrice del reality-show Barbara D'Urso e gli opinionisti della trasmissione, Iva Zanicchi e Cristiano Malgioglio, avevano invitato Serena Rutelli a non sentirsi in colpa. La giovane estetista, che insieme alla sorella Monica era stata abbandonata dal padre naturale, aveva fatto sapere in diretta di non avere nessuna intenzione di incontrare la signora Maria.

Così, all'indomani dell'ultima diretta targata GF, Serena Rutelli ha voluto chiarire la sua posizione, in merito alla sua scelta di chiudere con il suo turbolento passato, vissuto con i suoi genitori naturali:“Quando ho visto le foto e la lettera ho avuto un impatto di gelo e di distacco. Non ho proprio intenzione di vedere mia madre biologica, perché da parte mia la cosa è proprio chiusa”.

Serena Rutelli umilia la madre biologica: "Vederla mi dà fastidio...". Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 su Il Tempo. Serena Rutelli, concorrente del Grande Fratello 16, è tornata a parlare della madre biologica che le ha scritto una lettera esprimendo il desiderio di rivederla. La 29enne romana ha rifiutato l’incontro e il perdono: “Ora non ha senso. Una madre e un padre ce l’ho, basta così”, ma ci pensa ancora. Oggi Serena è ritornata sull’argomento con Erica Piamonte e Martina Nasoni: “Non ho ricordo di lei di quando ero piccola, sì per me è come se fosse morta, che senso c’ha? Cosa vuoi che vengo lì a braccia aperte?”. Erica ha notato: “Il rapporto di sangue certe volte vale zero. E non è questo il modo di farsi perdonare. Non c’è un motivo per cui debba perdonarla” e Serena: “C’è chi riesce a perdonare, chi no. Mi fa pensare che mi ha scritto adesso che sono al GF. Non poteva uscire quando ero fuori da qui?”. Martina e Erica hanno espresso giudizi molto aspri nei confronti della mamma biologica e la Rutelli: “E’ molto complicato capire. Io mi ricordo che prima di venire il mio fidanzato Ale mi disse "se viene fuori tua madre devi essere molto forte" e io risposi "mah, mi ci devo trovare", chissà. Che situazione del ciufolo. Non ho chiesto altre informazioni in Confessionale. Questa settimana va così, vediamo poi se resto”. Mila, l’unica comprensiva con la mamma naturale ("potrebbero esserci delle motivazioni, non deve essere stato facile anche per lei"), si è aggiunta al discorso: “Magari ti viene voglia di conoscerla”, ma la Rutelli: "Cosa darei per sapere cosa pensa mia mamma. Lei mi ha sempre detto "Sere, ma tu non ci pensi mai? Non hai voglia di conoscere tua madre? Io voglio che tu ti senta libera, non vorrei mai che tu pensi che io ti vieti qualcosa. Vorrei che fossi sicura e che un giorno non avessi il rimorso. Io mi sono sempre arrabbiata davanti a questa cosa. Rispondevo "non me ne parlare perché per me è fuori da qualsiasi cosa. Infatti non le parlai per un giorno intero, poi abbiamo chiarito. Adesso che ci penso lei spesso lo diceva, adesso sono contenta, mi sono presa la soddisfazione di mandarla indietro, di non dare una risposta positiva perché non se lo merita. Io non l’ho mai vista. Mai, mai. Mio padre sì, più volte. Comunque mi darebbe fastidio vederla, parlarle, stare lì con lei. Vedere quella foto (neonata in braccio alla madre, nda) mi ha dato fastidio, poteva risparmiarsela”. Barbara Palombelli ha rivelato che il padre di Serena era un uomo violento e pericoloso, morto di TBC, mentre la madre biologica ha confessato di essere una clochard e di non aver voluto condannare le figlie a una vita di stenti.

Grande Fratello, Barbara Palombelli da lacrime: "Serena nella casa, siamo andati dallo psichiatra". Libero Quotidiano 3 Maggio 2019. Questa sera tra gli ospiti del Maurizio Costanzo Show ci sarà Barbara Palombelli. La conduttrice, al centro del gossip dopo la partecipazione della figlia adottiva Serena al Grande Fratello, ha deciso di dire la sua riguardo alla presenza della figlia nella Casa. A quanto pare né lei, né il marito, Francesco Rutelli, inizialmente appoggiavano Serena, nonostante la ragazza avesse comunicato già da tempo il suo desiderio di prendere parte al reality. Con il tempo il suo parere si è smussato ma non quello del marito che si è opposto fino alla fine chiedendo aiuto anche allo psichiatra che li segue. Leggi anche: Grande Fratello, Francesca De Andrè umiliata: lei in casa e il fidanzato con la biondona. Corna in diretta. “Tu e Rutelli eravate d’accordo?”, ha chiesto Costanzo alla conduttrice di Forum riferendosi chiaramente alla partecipazione della figlia al Grande Fratello. “Io ero molto d’accordo perché me lo chiedeva da 10 anni. Francesco era contrario. Però abbiamo chiesto aiuto allo psichiatra che ci segue e ci ha detto di mandarla, perché l’avrebbe rafforzata”. Questa sera si parlerà anche della questione adozione: nell'ultima puntata Serena ha deciso di non incontrare la madre biologica ma subito dopo ha avuto un pesante crollo emotivo nella Casa.

Barbara Palombelli parla di sua figlia Serena: “Il padre la picchiò fino a spaccarle i denti”. La conduttrice tv racconta la terribile infanzia di Serena: la prima volta che la portò dal dentista, il dottore pianse guardando i dentini spaccati dalle botte del padre biologico. Sandra Rondini, Domenica 12/05/2019, su Il Giornale. Ospite di Silvia Toffanin a “Verissimo”, Barbara Palombelli ieri pomeriggio ha parlato del padre biologico di sua figlia Serena Rutelli, concorrente del “Grande Fratello”. L’uomo, deceduto qualche anno fa, è sempre stato un uomo violento. “Quando ho adottato Serena e l’ho portata per la prima volta dal dentista per farle sistemare i dentini – ha raccontato la conduttrice di Forum - il dentista si mise a piangere perché i denti da latte erano tutti scheggiati, erano stati rotti dal padre. Serena aveva anche una cicatrice. Il dentista si mise a piangere perché aveva capito ciò che aveva vissuto la bambina”. “La sua mamma biologica, prima delle mie figlie, ha messo al mondo altri tre figli. Serena ha tre fratelli più grandi che sta crescendo la sorella di lei. Uno le ha scritto, ora vedremo se lo faranno anche gli altri. Io sono per il lieto fine. Avrei fatto conoscere a Serena e Monica la mamma ma loro hanno sempre detto che non volevano” ha aggiunto la conduttrice tv, rivelando che “Serena ha quattro fratelli biologici: Monica, adottata anche lei da me e Francesco, ed altri tre più grandi, che sono stati adottati da sua zia, la sorella di loro mamma, che ora è una clochard” ha concluso, visivamente amareggiata.

AL ''GF'' CI SARÀ ANCHE SERENA RUTELLI, FIGLIA DI FRANCESCO E DI BARBARA PALOMBELLI. Veronica Cursi per Il Messaggero il 5 aprile 2019. «I miei? Si sono rassegnati», dice Serena Rutelli, figlia adottiva di Barbara Palombelli e Francesco Rutelli, tra i concorrenti del 'Grande Fratello 16', che prenderà il via lunedì prossimo su Canale 5. A far da padrona di casa sempre Barbara D'Urso accompagnata dall'inseparabile Cristiano Malgioglio e dalla new entry Iva Zanicchi. La ragazza, 29enne, è una dei quattro figli della coppia, di cui tre adottati. Oltre a Serena, il politico e la conduttrice – dopo aver dato alla luce Giorgio, oggi 36enne – hanno allargato la famiglia adottando Francisco (31 anni) e Monica (26 anni). Serena è fidanzata con Prince Zorresi,  italo-senegalese di 21 anni, promessa dell'Audace Calcio. «Sono Serena e ho 29 anni. Mio padre è Francesco Rutelli e mia madre è Barbara Palombelli - dice durante il video di presentazione -  Sono stata adottata quando avevo 7 anni. La mia vita non è stata molto facile. Mia madre ci ha abbandonato quando eravamo molto piccole con mio padre e lui ha deciso di lasciarci in una casa-famiglia. Siamo rimaste là dentro 3 anni. Il giorno più bello è stato quando sono arrivati i miei genitori e hanno deciso di adottarci. Da lì la mia vita è cambiata. Siamo una bella famiglia unita e piena d’amore». La ragazza che fa l'estetista ha confessato di avere sempre sognato di partecipare al Grande Fratello, fin dalle prime edizioni: «Ho due genitori secchioni - ha scherzato - quindi uno potrebbe immaginare che la figlia sia come loro, una secchiona. Invece no, sono proprio l’opposto, e quindi faccio l’estetista. Mio padre è un coccolone, ride e scherza. Mia madre, invece, è più seria e bacchettona. Voglio entrare nella Casa del GF da quando avevo 19 anni. Quest’anno si sono rassegnati, entro, quindi si dessero pace». Nella nuova edizione entreranno anche Ivana Icardi, sorella di Mauro Icardi (ma pare che i due non si parlani da quando lui ha sposato Wanda Nara), Ambra, professoressa che fa anche la modella, Cristian Imparato, vincitore della prima edizione del talent per bambini 'Io Cantò, Kikò, ex marito di Tina Cipollari e noto Hair stylist.

Da Adnkronos il 5 aprile 2019. C'è anche Serena, figlia adottiva di Barbara Palombelli e Francesco Rutelli, tra i concorrenti del 'Grande Fratello 16', che prenderà il via lunedì prossimo su Canale 5. "Ho cercato di sconsigliarla, ma mi sono dovuto arrendere perché è un sogno di Serena da quando è stata adottata ed è entrata a far parte della nostra famiglia, circa 20 anni fa", ha commentato Francesco Rutelli con l'Adnkronos. Nella nuova edizione, presentata stamattina a Cinecittà, entreranno anche Ivana Icardi, sorella di Mauro Icardi, anche se pare che i due non si parlino da quando lui ha sposato Wanda Nara, Ambra, professoressa che fa anche la modella, Cristian Imparato, vincitore della prima edizione del talent per bambini "Io Canto", Kiko, ex marito di Tina Cipollari e noto Hair stylist. C'è poi anche il 'farmacista-dietologo dei vip' Alberico Lemme. Ed altri concorrenti che saranno annunciati in diretta, direttamente lunedì. Ma non è escluso che la conduttrice Barbara D'Urso dia qualche anticipazione anche durante "Domenica Live". L’avventura di Grande Fratello è già cominciata inoltre per Angela, aspirante speaker radiofonica con una laurea triennale in Scienze della comunicazione, Audrey, modella e hostess di Aosta che vive a Ibiza, Erica, in passato ragazza immagine, ora fa la commessa in un centro commerciale, e Daniele, imprenditore che vive a Verona e lavora nell’azienda di pubblicità e marketing di famiglia. I quattro, infatti, stanno vivendo da mercoledì 3 aprile in un “Ranch” immerso nella campagna laziale, vicino Tivoli. Qui, dovranno convivere fino al giorno del kick off, lunedì 8 aprile, quando scopriranno cosa Grande Fratello ha in serbo per loro. "Io mi rendo conto di essere l’unica al mondo ad avere 4 programmi contemporaneamente. Ma da sempre ho sposato una filosofia con l’azienda: quando hanno bisogno di me, io ci sono. Quando ho capito che avevano bisogno di uno slot il mercoledì sera, che ora riesce a raggiungere il 16 per cento di share, ho accettato". Barbara D'Urso parla così della sua stagione da recordwoman del p iccolo schermo , presentando il 'Grande Fratello 16', che la vedrà tornare al timone al reality più longevo della tv. D'Urso ha anche spiegato che il numero di concorrenti che entreranno nella 'Casa' di Cinecittà per la prima puntata saranno 16 e che la Gialappa’s Band non sarà coinvolta in questa edizione.

Barbara Palombelli: «È stato lo psichiatra a consigliarci di mandare Serena al Grande Fratello». Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Maria Volpe su Corriere.it. C’era da aspettarselo. La coppia Barbara Palombelli - Francesco Rutelli alla notizia che la figlia Serena avrebbe partecipato al Grande fratello 16 non l’hanno presa bene. All’inizio sia la mamma (molto più morbida sull’argomento) che il papà hanno cercato di dissuaderla, ma constatato che Serena non avrebbe cambiato idea si sono rassegnati. O meglio: Palombelli ha «ceduto», per Rutelli è stata più dura. Giovedì sera Barbara Palombelli era ospite all’ultima puntata del Maurizio Costanzo show. Il giornalista — peraltro amico della coppia da anni e anni — ha chiesto a Barbara di commentare la partecipazione della figlia Serena al Grande Fratello 16. «Tu e Rutelli eravate d’accordo?» ha chiesto Maurizio. «Io ero molto d’accordo perché mia figlia me lo chiedeva da una decina di anni. — ha risposto la giornalista conduttrice di Forum su Canale 5 e Stasera Italia su Retequattro — Invece Francesco non voleva assolutamente e abbiamo anche discusso su questo. Però, poi abbiamo chiesto aiuto ad uno psichiatra che ci segue e ci ha consigliato di mandarla, perché quest’esperienza l’avrebbe rafforzata e l’avrebbe aiutata a crescere». Serena Rutelli, figlia adottiva della coppia, non ha avuto un’infanzia facile: è stata abbandonata dalla madre biologica a soli 7 anni in una casa famiglia e per anni è dovuta fuggire da un padre violento che minacciava di ucciderla. Per questo, secondo lo psichiatra di famiglia, la ragazza, partecipando al Gf, avrebbe potuto riacquistare fiducia in sé. Questi miglioramenti, Barbara Palombelli, li sta notando giorno dopo giorno, guardando la figlia in tv. «La televisione è un acceleratore di emozioni, queste emozioni le ho viste sera dopo sera: l’hanno maturata, lei è una ragazza molto decisa ma ha avuto certamente un passato non facilissimo» ha concluso la giornalista.

Barbara Palombelli: «Così ho salvato Serena e Monica da un padre biologico violento». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. Ieri, a seguire il Grande Fratello, c’erano Francesco Rutelli e Barbara Palombelli, anche loro col fiato sospeso per la scelta della loro Serena, la ventinovenne dal sorriso dolce che li chiama «papà» e «mamma» da quando ha sette anni e ha iniziato a stare con loro, prima in affido, poi finalmente adottata, assieme alla sorellina, oltre che con gli altri due figli della coppia, uno naturale, l’altro anche adottato. Barbara D’Urso le ha chiesto se poteva leggerle una lettera scritta dalla madre biologica, che Serena non ha mai conosciuto e che l’ha abbandonata neonata. La sua è una storia mai raccontata per intero, ma Barbara Palombelli l’affronta, adesso, nella sua autobiografia, in uscita per Rizzoli il 14 maggio (pp. 176, euro 18). Il libro s’intitola Mai fermarsi, c’è dentro il suo percorso di donna, di giornalista e di mamma. Qui, anticipiamo alcuni passaggi sull’adozione di Serena e della sorellina, a partire dal giorno del 2000 in cui i due Rutelli le incontrano in una casa famiglia di suore a Roma, dov’erano state lasciate dal padre biologico quando Serena aveva tre anni. Vederle e desiderare che si uniscano a loro e a Giorgio e Cisco, arrivato dall’Ecuador, è un tutt’uno. Scrive Palombelli: «Non voglio pensare alla burocrazia, voglio portarle al luna park, è un loro desiderio. Già salire sulla mia macchina — a loro — sembra una festa. Le loro risposte sono commoventi e agghiaccianti allo stesso tempo: hanno dieci e sette anni, ma non hanno mai festeggiato un compleanno, mai un Natale in famiglia, mai visto il mare, mai un film, mai un ascensore, mai uscite con il buio, mai frequentato un fast food, mai fatto uno sport». I genitori non vanno mai a trovarle, loro sono due bimbe che si fanno forza a vicenda. Ricorda Barbara: «Al luna park Monica era scoppiata in un pianto disperato solo perché la sorella si era separata da lei per salire sul trenino del lago». L’ansia di proteggerle inizia a logorare il cuore di madre. Racconta: «La storia va tenuta segreta, segretissima. Il padre biologico, un uomo violento e pericoloso, allora girava ancora per la città. Potremmo incontrarlo, lui o uno dei suoi amici malavitosi, le ragazze ne hanno il terrore. Non devono uscire foto sui giornali, nessuno deve sapere». I primi anni sono resi complicati anche dalla burocrazia: «Io non sono ancora nessuno, per le piccole», scrive Palombelli, «Francesco sfida alle elezioni politiche Silvio Berlusconi e io combatto per non essere come minimo arrestata per sottrazione di minori. Guido pianissimo, quando sono con loro cerco di essere prudente come mai. (...) Sono stati mesi terribili: portare in giro due ragazzine che non hanno il tuo cognome e senza un pezzo di carta che ti autorizzi è un’impresa durissima. E rischiosa: in caso di incidente, di allergia o di una banale infezione, i genitori biologici — all’epoca ancora titolari della patria potestà, incredibilmente non decaduta dopo anni di abbandono e di istituto — avrebbero potuto rivalersi su di noi». È in quei mesi, ricorda, che lei ha la conferma della forza della loro alleanza familiare e che tocca con mano le difficoltà di relazionarsi con i tribunali dei minori in casi così delicati. Però, se il percorso di adozione si rivela una via crucis, da subito, Serena e Monica, si sentono a casa. La serenità, tuttavia, è un’altra cosa. Spiega Barbara: «Il tribunale, che aveva più volte messo sotto processo il padre biologico per violenze fisiche e altri reati, condannandolo a sei anni in via definitiva, non faceva decadere la patria potestà nonostante gli ormai tre anni di distacco dalle piccole. Senza la dichiarazione dello stato d’abbandono, nessun minore può diventare adottabile. E lui, che non era in carcere (...) continuava a vagabondare. Le ultime parole che aveva pronunciato all’indirizzo delle suore e che le bambine avevano sentito benissimo erano state gridate: “Un giorno tornerò e vi ucciderò tutte”. Ogni tanto Serena continuava a chiedermi: “Non è che un giorno ci trova?”». Non le troverà, per fortuna, morirà prima, di Tbc. Ma fino ad allora, ricorda Barbara, lei non porterà mai le figlie fra la folla: «Mai nei grandi mercati o centri commerciali, mai a piazza Navona... ». E forse, chi sa, è per questo, che ora Serena, per presentarsi al mondo, ha scelto un affollato reality.

Barbara Palombelli: «Io, una mamma domatrice Combatto contro l’ansia». Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 Candida Morvillo su Corriere.it. Barbara Palombelli, perché la sua biografia per Rizzoli, Mai fermarsi, si apre con questa confessione sull’ansia: ero una bimba molto preoccupata, sono una donna ancora preoccupata?

«Perché l’ansia è la mia maledizione e il mio motore. Ho sempre paura di star ferma o che le cose vadano male. Da ragazza, potevo restare alla radio, invece ho cercato i settimanali, i quotidiani, poi la tv. Voglio sempre di più e questo aiuta anche a tenere a bada una vena di depressione». 

Lei sarebbe depressa?

«Ne ho un po’, di Dna. L’ho scoperto a 15 anni: fatti i compiti, mi pesavano le ore vuote. Dopo, ho ritrovato la depressione in tanti giornalisti. Indro Montanelli mi confidava la sua malinconia, Eugenio Scalfari si descriveva come il figlio unico che guarda il mare e ha paura per i genitori». 

Aveva 15 anni nel ’68, come ha vissuto quella stagione?

«Sentivo che i ragazzi potevano avere voce e libertà, infatti, sono andata a lavorare: di pomeriggio, ero segreteria in una scuola di danza, ma già sognavo di diventare giornalista. L’Europeo era il mio sogno: quando ci entrai, mi sentii come a Disneyland. Mi ci sento ancora oggi, quando si accende la telecamera a Forum o a Stasera Italia. Rivedo la ragazzina che sognava una carriera, non il matrimonio». E tuttavia si è poi sposata, con Francesco Rutelli, prima civilmente poi in chiesa. «La prima volta è stata una formalità di cinque minuti dopo tre anni di convivenza. Ero incinta e Francesco diceva: non facciamo pensare a nostro figlio che non lo volevamo. In chiesa, siamo andati praticamente di nascosto. Per noi, sposarsi è un fatto burocratico. Invece, le nostre figlie sognano l’abito bianco e il brillante, come si vede in tv».

Come se lo spiega?

«La loro generazione è così. Le giovani stanno tornando indietro, non hanno coscienza della fatica fatta per avere diritti su divorzio, aborto, parità. Vogliono il marito capofamiglia quando noi volevamo il compagno complice».

E lei cosa dice alle figlie?

«Che le cose importanti sono altre. Ma loro sono ragazze che lavorano, si mantengono, sono brave, perciò quella cerimonia gliela comprerò».

Nel 1980, il Rutelli neosegretario dei Radicali le disse: non voglio legami. Come siete arrivati a quattro figli, due nipoti, sei cani?

«Sui figli, all’inizio, ho insistito io. Erano altri tempi, e a 29 anni, quando è nato Giorgio, mi sentivo già anziana».

Perché, dopo, avete voluto tre figli adottivi?

«Con Isabella Rossellini, che ha frequentato la mia stessa scuola di suore e anche lei ha adottato, ci siamo dette che forse ci hanno condizionato i discorsi delle suore sui bimbi meno fortunati di noi».

Si definisce domatrice di figli. Come li doma?

«Metto ordine nel caos, essendo severa mentre Francesco è più giocherellone. Ci sono stati momenti da panico e fasi dell’adolescenza in cui i figli ci si sono rivoltati contro. Scriva che rimpiango seriamente collegi e servizio militare e civile obbligatorio».

Perché mai?

«È da pazzi pensare che una madre gestisca da sola un Ufo in casa. Nel mondo anglosassone c’è il college, noi avevamo il collegio e il militare. Ai tempi di mia madre, i figli partivano e tornavano che adoravano la mamma, mangiavano tutto, avevano un’identità sessuale definita e avevano imparato uno sport. Oggi, c’è solo la scuola italiana a cui consegni un angioletto e ti rende un diavolo ».

Serena e Monica le ha avute prima in affido poi le ha adottate, com’è stato?

«Dura. Avevano 7 e 10 anni, e denti mancanti per le botte del padre. Per far loro superare i traumi, abbiamo fatto tutti terapia di gruppo, io Francesco, i fratelli. Una cosa che consiglio a ogni famiglia».

Come si cresce un figlio adottato?

«Lotti con il Dna, affinché non ne condizioni la vita, e conta l’esempio che dai. Le figlie, per dire, mi hanno visto lavorare tanto e lavorano tanto».

Un capitolo del libro è sulle calunnie contro di lei.

«Ne hanno dette e scritte d’incredibili. Anche che, da moglie del sindaco di Roma, gestivo parcometri con Maria De Filippi: una voce messa in giro dai tassisti. Ho mandato gli amici a registrarne alcuni, che ho denunciato, vincendo le cause. Con quelli e altri risarcimenti, ho comprato un “cubetto” alle Eolie».

Ammette anche di essere stata molestata.

«Sul lavoro, mi hanno messo le mani addosso più volte. Potrei fare nomi celebri, ma sarebbe ancora più umiliante: la mia parola contro la loro».

Perché un’autobiografia?

«Per dire grazie alle persone care che mi hanno aiutata a gestire il mio circo familiare, per spiegare ai figli da dove vengo, per dirmi che tutte le cose belle che ho sono vere, non ho sognato».

Che sogno le resta?

«Solcare l’Atlantico in nave: in mare, non conosco ansia».

Rutelli: "Essere verdi non significa dire sempre No". Intervista al capostipite degli ecologisti italiani che racconta la vita politica e quella privata. Luca Telese 13 giugno 2019 su Panorama.

Onorevole Rutelli, mi spiega...

(Sorride). «La fermo subito. Non sono più onorevole, ma presidente dell’Anica. Sono un ex militante radicale e verde, lavoro da volontario sulle questioni ambientali e non mi occupo più di politica».

Ancora meglio: è la persona giusta per rispondere a una delle grandi domande del dopo voto.

«Dice? Sentiamola».

Perché i Verdi hanno vinto nel Nord Europa ma in Italia fanno flop?

«È un ragionamento lungo, da dove inizio?

Dal racconto sulla sua prima azione da ambientalista militante...

«Allora partirei da un arresto».

La storia si fa subito interessante!

«Era un sit in del partito radicale contro la centrale nucleare di Latina».

E la repressione degenerò fino a portarla in carcere?

«La repressione purtroppo non c’era».

Come, «purtroppo»?

«Il dilemma di quel giorno era che la polizia, che non voleva problemi, non voleva arrestarmi.

Gli arresti come medaglie che fanno curriculum. Anche Roberto Giachetti lo ha raccontato.

«Esatto. Era l’unico modo che avevamo per rendere visibile la protesta.

E lei quanti anni aveva?

«Era il 1972, 26 anni, ero un uomo-sandwich di cartelloni antinuclearisti, volantinavo, e purtroppo per me, quel giorno non volevano proprio arrestarmi».

Ma anche voi eravate preparati.

«Uhhh!!! Ci accompagnava l’avvocato Caiazza, all’epoca militante radicale anche lui, oggi presidente delle Camere penali. E avevamo uno stratagemma».

In che senso?

«Avevamo predisposto una trappola per costringerli a intervenire. Vicino alla centrale c’era un poligono di tiro e Caiazza ebbe l’idea: nel volantino aveva inserito un invito alla diserzione per i soldati del poligono che, come è noto, costituiva una gravissima violazione del codice penale».

E cosa accadde?

«Una scena che all’inizio sembrava da commedia all’italiana».

Cioè?

«Io comincio a dare i volantini ai poliziotti, quelli si allontanano, noi militanti li inseguiamo e Caiazza inizia a gridare: «Lei deve immediatamente arrestare il signor Rutelli! Il signor Rutelli sta violando gravemente la legge». Ah ah ah».

E alla fine ci è riuscito?

«Tre giorni di carcere e processo. Un risultato straordinario. Ma che fatica!»

Non resisto. Un altro aneddoto.

«Lei conosce il partito radicale: quando si imbarcava in una battaglia nulla ci fermava. Iniziammo a raccogliere le firme contro il buco nell’ozono».

Ah, ah, ah...

«E si può immaginare cosa fosse, nei primi anni Settanta, parlare di ambiente con termini scientifici.

Voi partivate nel solito modo: volantini, banchetti...

«... E maratone televisive. Ovviamente anche su Teleroma 56, la tv dei radicali».

Ovvio.

«Un giorno, durante una lunga diretta, mi chiama un certo Vincenzo, da Roma, e mi fa: «Mi sente? Per quanto riguarda il buco nell’ozono, vorrei dirle che io preferisco il buco del culo! Ha capito?».

Ah, ah, ah. È un video cult, ancora oggi su YouTube. Perché il giovane Rutelli risponde senza scomporsi...

«Gli dico: «È un problema di gusti, ma tutti sono assolutamente legittimi!»».

Allora i Verdi vincono nel Nord Europa perché ora c’è Greta?

«No, o almeno non solo».

In che senso?

«I Verdi hanno successo sicuramente, perché c’è una bandiera come Greta che rende visibile il problema, e trascina i giovani. Ma anche e soprattutto perché in Germania i Verdi firmano un accordo con la Siemens per le tecnologie sostenibili».

Non lo sapevo.

«Perché i loro temi diventano cultura di governo ed enorme opportunità di mercato. Ora vorrei spiegarle, con alcuni esempi, questo mondo che cambia».

Molti ricordano Francesco Rutelli sindaco di Roma o leader nazionale della Margherita. Ma la sua storia politica inizia molto prima, come militante radicale e proto-ambientalista. Oggi Rutelli ha una moglie famosa, volto televisivo di Forum e di Stasera Italia, Barbara Palombelli, un figlio che lavora a Dagospia e un’altra appena uscita dal Grande Fratello. Sospira divertito: «Lo so: in questa famiglia ormai sono l’unico normale»».

Rutelli e Palombelli, una coppia che fa rima: entrambi belli, famosi e romani da generazioni.

«Io ho un nonno che ha creato la Fontana delle Naiadi a piazza Esedra, lei un antenato che ha scolpito l’oceano nella Fontana di Trevi. Non c’è storia. Vince lei».

Sappiamo che i Rutelli venivano dalla Sicilia.

«L’ultimo architetto dell’Arsenale di Venezia, quello che lo ha trasformato nel monumento che è oggi, è il mio trisnonno Felice Martini. Militare, talento cristallino, uno dei fondatori del Genio».

Mentre l’altro ramo?

«I palermitani erano una famiglia di origini umili, avevano iniziato come maestri della pietra e costruttori».

Poi diventano scultori.

«Il salto evolutivo avviene quando costruiscono il Teatro Massimo. L’architetto Basile, che vince la gara, decide che deve essere fatto di pietra».

Bella fortuna.

«Riesce a ottenere che sia fatto dai maestri di pietra. E che a costruirlo siano proprio «i Rutelli»».

Suo nonno Mario.

«A 12 anni scalpellinava i fregi del Massimo. E che poi - questo non lo sapeva nessuno - con un investimento formativo enorme viene mandato a studiare da Rodin, a Parigi!»

Così i Rutelli diventano scultori e architetti.

«Con la mia eccezione. Visto che studio e do molti esami. Ma poi mi metto a fare politica. La laurea l’ho presa con soddisfazione 30 anni dopo...»

Facciamo una digressione di padre in figlio. È vero che non era d’accordo che sua figlia Serena partecipasse al Grande Fratello?

«Sì, ero contrarissimo».

Addirittura?

«Le ho detto: «Ti fidi di tuo padre? Non andare»».

E lei?

«Ha fatto come le pareva, ed è andata. Esattamente come io avevo fatto rispetto agli appelli dei miei genitori».

Perché era contrario?

«Perché so che in quel meccanismo possono prevalere invidie e malignità».

E poi?

«È stata bravissima. Sobria, sincera, nessuna scivolata di stile. La guardavo, settimana dopo settimana, ed ero quasi commosso. Perché i figli sono questo».

Quindi guardava il programma? Non ci credo.

«E che dovevo fare!!!??? La volevano eliminare tutte le settimane! Ha vinto lei sulle mie riserve».

Mentre Giorgio, talento del giornalismo digitale, è il deus ex machina di Dagospia.

«In effetti è così. Ha talento e cultura».

E quando Dagospia scrive malignità su Rutelli?

(Sospiro). «Che devo fare? Romanamente abbozzo!»

Torniamo alle Europee. Stupito del risultato?

«Non voglio recitare il ruolo del facile profeta. Ma un anno fa avevo detto che immaginavo questo risultato non sulla base di una vocazione oracolare, ma seguendo un ragionamento logico. Avevo detto: i primi in fila ai seggi saranno gli eurocritici».

Qualcuno dice: i partiti eurofili hanno tenuto.

«Sì, certo. Ma se gli euroscettici sono primi a Londra, a Parigi, a Roma, come fai a ignorare la forza di questo dato? È un segnale molto robusto».

Altri dicono che era scontato. 

«Le racconto una cosa. Nel 1989 fui tra i promotori del referendum di indirizzo  più eurofilo della nostra storia».

Perché?

«Perché chiedevano di introdurre un mandato costituente sul modello immaginato da Altiero Spinelli. Votarono sì 29 milioni di italiani. E vinse il sì con l’80 per cento!»

Oggi sembra incredibile.

«Infatti, dal 1979 ai primi anni 2000 il sentimento degli italiani nei confronti dell’Europa era quello. Oggi gli antieuropei restano minoranza, ma gli eurocritici sono in netta maggioranza, non solo quando si vota, ma per una sorta di egemonia culturale dovuta all’incertezza del futuro»

Perché in Italia i Verdi restano al palo?

«Per due motivi specifici. Il primo è questo: l’ecologia è un’ottima risposta di sistema alla scontentezza e alla delusione dell’elettorato progressista. In Francia - per dire - la lista ecologista ha preso il doppio dei socialisti. In Germania l’Spd è al minimo storico».

Mentre da noi il Pd di Zingaretti ha invertito la tendenza delle Politiche e si è ripreso. E poi?

«I Verdi europei offrono economia e lavoro: mentre l’ambientalismo politico italiano, temo, offre quasi esclusivamente protesta».

In che senso offrono lavoro?

«I Verdi tedeschi si sono messi a discutere nelle fabbriche. Di brevetti, di posti di lavoro, di riconversione. Ho citato la Siemens, ma gli esempi sono tantissimi. I Verdi italiani, e gli ecologisti che sono dentro il  M5s, mi sembrano ancora molto attardati nella cultura del no: no al ponte, non all’infrastruttura, no alla Tav...»

Una cosa che in Europa non  accade mai.

«All’estero non si discute dalla mattina alla sera se si fa un’opera o no! Se non si può fare non si fa... Se si è decisa si porta a termine».

A Roma la Raggi ha sbagliato sui rifiuti?

«Non parlo di politica. Non do giudizi su di lei, non sarebbe né opportuno né carino. Però, oltre a sprecare meno, e ridurre il volume dei rifiuti, una parte va valorizzata».

E l’euroscetticismo?

Verso Bruxelles non bisogna avere nè sudditanza, nè sentimenti vittimistici. Forse, come accade all’estero, dovremmo spiegare con i cartelli tutto quello che si realizza con i fondi europei».

Noi fatichiamo molto a farle.

«Se nelle periferie si facesse il partito della manutenzione con un programma di base come potare gli alberi, togliere le scritte dai muri, aggiustare marciapiedi e sturare le fogne prenderebbe il 20 per cento. E sarebbe una battaglia verde».

Lei da sindaco si portò dietro Panatta per un doppio contro il primo cittadino di Mosca e un allenatore della nazionale. Dice Adriano che «Rutelli aveva una impostazione classica, alla Federer».

(Ride). «Panatta mi prende per culo. Però è vero che per salvare i rapporti, facemmo vincere Luskov».

Il punto più basso.

«No, quello fu una serata con il sindaco di Tokyo».

Cosa accadde?

«Era un noto attore, con un ruolo tipico della commedia giapponese, dove recitava travestito da donna».

Ah.

«Quella sera gli uomini della scorta lo portarono via dal ristorante italiano mentre cantava O sole mio, completamente ubriaco, sollevandolo da terra. Ah, ah, ah».

È vero che andò bussare alla sede di Torre Argentina a 18 anni e le aprì Marco Pannella?

«Vero. Io leggo un articolo sul Messaggero e mi dico: «Ma sono completamente d’accordo con loro!»».

Faceva politica?

«Leggevo solo il Corriere».

Quello di Ottone, per via dei fondi di Pasolini?

«No, il Corriere dello sport. Per via della Lazio».

E in cinque anni si ritrova a dirigere l’Asino, con Carlo Cassola, mostro sacro della letteratura del dopoguerra.

«Era un visionario e un nemico della corsa agli armamenti. Ho imparato molto».

Nel 1989 fonda i Verdi Arcobaleno. 

«Con Edo Ronchi, Adelaide Aglietta, Franco Corleone. Il giovane Roberto Giachetti e Ivan Novelli. Il simbolo era la Margherita».

Poi vi unificate con il Sole che ride e lei scala i Verdi.

«Non fu un’Opa. Sono stato eletto a scrutinio segreto!»

Una cosa verde fatta da sindaco.

«Il coinvolgimento dei cittadini. I pensionati davanti alle scuole, a tenere aperti i musei. Il più grande tema verde è la manutenzione e la messa in sicurezza delle città. Migliaia di cantieri senza tangenti o avvisi di garanzia».

Un terreno su cui si può migliorare?

«Uso la mia esperienza per misurare il futuro. Per fare il piano urbano del traffico non avevamo pc o trattamento dati. Lo facevamo, pensa, in base alle risposte  date in appendice al sondaggio decennale Istat!»

Una sua trovata geniale?

«Ho collaborato con Airbnb sui temi urbani e sa perché?»

Non ne ho idea.

(Ride). «Airbnb l’ho inventato io, per il Giubileo del 2000. Con una delibera avevamo reso possibile che ogni famiglia potesse ospitare una famiglia».

Fu un successo?

«Un fiasco, direi. Lo praticarono «solo» 2 mila famiglie. Ma non c’era internet».

L’idea giusta nel momento sbagliato.

«Esatto. Poi arrivano tre ragazzi di San Francisco che mettono tre materassini gonfiabili in salotto in un giorno in cui c’era un congresso, tutto esaurito negli alberghi, e li affittano in rete. A fine giornata dicono: «Cavolo abbiano guadagnato 80 dollari!». Fu la rivoluzione».

Ecco perché si chiama «Air».

«Adesso la tecnologia ci offre possibilità di modificare le città».

Esempio?

«Se a Venezia fai pagare di meno il vaporetto a chi non va a San Marco, puoi ridisegnare i flussi del turismo. Il futuro sarà tutto così».

Primo incontro con la Palombelli?

«Nel 1979, a via della Palombella».

Non ci credo.

«Giuro, accanto al Pantheon. Si teneva una manifestazione radicale. Solo qualche settimana dopo abitavano insieme».

Oltre la bellezza folgorante, cosa la colpì?

«Era una donna molto curiosa. Scriveva di cultura».

Confessi, quanto l’ha fatta arrabbiare la saga del vignettista Vauro su voi due a letto sempre in bianco?

«Io ho appeso in salotto il più bel disegno della serie.

Quale?

«Quello in cui dico a mia moglie scontenta per i soliti motivi: «Ma Barbara, stasera sono da Santoro!». E lei, arrabbiata: «Ma se è un’intervista registrata!»».

Cosa vi tiene ancora insieme?

«Se non si sta bene insieme non si resiste 30 anni. Eppoi ci siamo impegnati in una impresa familiare molto complessa. Tre adozioni non sono una photo opportunity. O crolli o vieni cementato. Avere a che fare con figli con il trauma profondo dell’abbandono, da genitore, è un impegno enorme. Questo, come famiglia, ci ha forgiato e uniti».

Chi è più romantico tra voi?

«Lei è più romantica di me. Ma la domanda, visto che siamo romani, va rovesciata. Chi è meno romantico di voi?»

Lei non è romantico?

«Romantico, senza sentimenti, che vita è? Una settimana fa è morta Camilla, la nostra labrador. Sono stato a terra per due giorni».

Cosa intende per «siamo romani»?

«Solo a Roma si poteva inventare il detto: «Morto un Papa se ne fa un altro»».

Spieghiamolo meglio.

«Prenda la stratigrafia di questa città. Il Circo Massimo».

Ora è un parco.

«Giusto. Ma nell’antichità quella era la Valle Murcia. Ci sfociava l’Almone: un fiume sacro. Poi coperta per farci uno stadio, per i giochi. E infine infrastrutturata per l’arrivo della Cloaca Maxima che, a proposito di città, è la prima grande opera fognaria della storia dell’umanità».

Bellissimo, ma eravamo partiti dal fatto che lei è Barbara siete romani. Cosa c’entra.

(Sorriso e sospiro). «Al fianco della fogna scorre il sacro. E viceversa. Noi romani siamo così, da tremila anni».

·         Martina Nasoni, vincitrice del GF 2019

Martina Nasoni: "Io, con il cuore di latta ho vinto il Gieffe. E una volontà di ferro". La trionfatrice, che ha ispirato la canzone di Irama: "Mi sono confidata e lui m'ha capita". Lorenza Sebastiani, Mercoledì 12/06/2019, su Il Giornale. E alla fine questo Grande Fratello lo ha vinto Martina Nasoni, lo stereotipo della semplicità. 21 anni, ternana, tre anni fa tenta la strada di Miss Italia, ma si ferma alle semifinali di Jesolo. Poi quando ormai pensava di dedicarsi solo alla professione di tatuatrice fa un provino per il GF, supera le selezioni e fa un ingresso col botto. Nella clip di presentazione racconta: «La ragazza con il cuore di latta, il brano che Irama ha portato in gara all'ultimo Sanremo, è ispirata a me». Ai tempi dei social questo basta e avanza per regalarti una botta di popolarità immediata. Qualche fan del cantante non la prende bene, «hai sfruttato la dedica intima di un cantante solo per far parlare di te», le hanno scritto in tanti. Ma lei si è fatta conoscere nella Casa a poco a poco, con i suoi toni garbati, la sua (finta) ingenuità che l'ha fatta cadere mani e piedi in un flirt poco ricambiato con il bel Daniele Dal Moro. Alla fine in tante, soprattutto giovanissime, si sono identificate in lei e le hanno messo in mano quello scettro che dall'inizio in tanti pensavano sarebbe finito all'inquieta Francesca De André.

Partiamo dalle basi. C'è chi definisce trash il GF.

«Non penso che sia tale. Quando ci sei dentro è diverso. Non è solo una gara a chi la spara più grossa o a chi fa di più il pagliaccio. È un turbinio di emozioni, un viaggio dentro se stessi».

E lei lo ha vinto. Se lo aspettava?

«Mai al mondo. Ho sempre volato basso, a volte nella vita paga. Credo che alle persone sia piaciuto il mio modo di affrontare la vita, i problemi. E qualche mio atteggiamento».

Tipo?

«Quello che ho tenuto durante le discussioni con Francesca De André. A volte ho perso le staffe, ma era impossibile non scontrarsi con lei. Era agitata, ingestibile. Spesso ho interrotto discussioni andandomene, non perché non avessi più argomenti. Comprendo che le stesse accadendo di ogni, a livello personale, e che non abbia un passato facile. Però questo non è una giustificazione».

Cioè?

«Prenda me, ho un problema cardiaco, che ormai ben conoscete. Ma non posso prendermela col prossimo. La sincerità la apprezzo, ma lei spesso diventa irrispettosa per questioni di poco conto».

Cosa pensa di chi, come Iva Zanicchi, l'ha definita la vera anima di questo GF?

«Credo che sia stato un reality molto centrato sulla sua vita personale, pure troppo. Capisco che i suoi accadimenti personali lo meritassero, ma parlarne un filo meno non sarebbe stato male. Detto ciò, non credo sia stata l'unica protagonista. Sono uscite storie bellissime, da ognuno di noi...»

A proposito. Cosa pensa di fare con Daniele, lo frequenterà?

«Purtroppo al GF non riesci a conoscere davvero le persone. Credo che a volte avrebbe potuto sostenermi di più. Mi piacerebbe rivederlo fuori, per parlare un po'».

Lei ha sempre raccontato apertamente della sua cardiopatia congenita. Come l'ha scoperta?

«Sapevo fin da piccola di averla. A 12 anni c'è stata necessità di impiantarmi un defibrillatore, in quel momento la mia spensieratezza se n'è andata. Ero molto arrabbiata con la vita, non comprendevo le mie coetanee che soffrivano per stupidaggini. Non potevo correre o fare sport. A dire il vero, ancora oggi quando passeggio con le amiche spesso devo chiedere loro di rallentare il passo. Sarà così sempre. Però ho intorno persone che mi capiscono».

Pare che anche Irama l'avesse capita. Ci racconta come vi siete conosciuti?

«Durante una serata in Salento tramite amici comuni, cantavamo, suonavamo la chitarra tutti insieme. È un ragazzo, sensibile, intelligente e mi sono sentita di parlargli di me, mi sono confidata. Non era ancora fidanzato con Giulia De Lellis».

E dopo?

«Ci siamo rivisti e mi ha fatto sentire una bozza della canzone. Ci siamo poi sentiti per telefono, ma a livello di amicizia. In pratica non ci siamo più rivisti. Poi è iniziata la sua storia con la De Lellis..»

Lo risentirebbe?

«Mi farebbe piacere. Ma rispetto la sua vita, i suoi impegni, la sua carriera. Se ci sarà modo sarò contentissima».

Ultima curiosità: lei è la pupilla di Malgioglio. Come la vive?

«Lo ringrazio pubblicamente per i post meravigliosi che ha scritto su di me».

·         I guai di Gianni Nazzaro.

Frosinone, ruba un Hoverboard in autogrill: arrestata la moglie di Gianni Nazzaro. Il furto nell'area di servizio Macchia Ovest. Nada Ovcina, 77 anni, compagna storica del cantante napoletano, nel 2007 fu fermata a Napoli dopo aver sottratto dei vestiti nella boutique di Gucci. Clemente Pistilli l'11 giugno 2019 su La Repubblica. Arrestata dalla polizia stradale di Frosinone, con l'accusa di aver rubato uno skate elettrico durante una sosta in autogrill, la moglie del cantante napoletano Gianni Nazzaro. Gli investigatori, su ordine del gip del locale Tribunale, hanno messo la 77enne Nada Ovcina ai domiciliari. La donna, che è anche manager dell'artista, avrebbe compiuto il furto il 3 maggio scorso all'interno dell'area di servizio La Macchia Ovest, nel Comune di Anagni. Avrebbe rubato un Hoverboard della Ducati Corse, un articolo in edizione limitata, esposto all'interno dell'Autogrill e del valore di circa 200 Euro. Riuscendo a non far scattare i dispositivi antitaccheggio, una volta all'esterno la 77enne è stata immortalata dalle telecamere mentre saliva su un'auto con due uomini a bordo che l'attendevano nel parcheggio, il figlio e il marito, e a quel punto i tre avevano poi ripreso il viaggio in autostrada in direzione sud, per recarsi in Puglia dove era fissata un'esibizione di Nazzaro. La Polstrada specifica che "la perquisizione dell'abitazione romana della coppia aveva permesso pochi giorni dopo di rinvenire e sequestrare l'Hoverboard rubato". Per Ovcina, che sempre gli investigatori sottolineano è già nota alle forze dell'ordine per "precedenti penali specifici" -  nel 2007 fu arrestata per aver rubato degli abiti da Gucci a Napoli - è stata così ora arrestata e dovrà rispondere dell'accaduto insieme al figlio, indagato a piede libero, essendo quest'ultimo proprietario dell'auto utilizzata per allontanarsi dall'Autogrill dopo il furto. Nazzaro raggiunse il successo negli anni '70, vincendo anche il Festival di Napoli con Me chiamme ammore, in coppia con Peppino di Capri. Poi i successi L'amore è una colomba, Bianchi cristalli sereni, Non voglio innamorarmi mai, A modo mio e In fondo all'anima. Dopo otto anni di matrimonio con Ovcina, il cantante era stato protagonista di una burrascosa separazione, per poi, dopo un grave incidente subito in Francia, tornare insieme alla compagna di tutta la vita.

·         Gigi D’Alessio.

"Se ascoltassi le stronzate mi sarei ammazzata": la figlia di Gigi D’Alessio zittisce un hater. La figlia di Gigi D'Alessio risponde a tono ad un hater che accusa il padre di essere ammaliato dalle donne giovani: "Ho le spalle larghe". Luana Rosato, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Non rimane in silenzio davanti alle accuse troppo violente di un hater e Ilaria D’Alessio, figlia del cantante Gigi, replica con prontezza a chi le ha fatto notare che il padre è attratto da donne più giovani di lui. La polemica è nata in seguito ad una foto postata giorni fa da Ilaria, ritratta mentre è tra le braccia del papà. “Come ve lo spiego”, ha commentato la figlia di Gigi D'Alessio per esprimere tutto il suo affetto nei confronti del genitore. Eppure, un momento così semplice e tenero condiviso sui social si è trasformato in pretesto per aizzare una polemica. “Ma è tua figlia o la tua compagna?”, ha commento un utente. “Beh tanto a tuo padre gli piacciono le ragazzine quindi non c’è da meravigliarsi se eri la sua compagna!”, ha aggiunto un'altra internauta facendo riferimento alla relazione di Gigi D’Alessio con Anna Tatangelo, più giovane di lui di alcuni anni. Davanti a queste illazioni, però, Ilaria D’Alessio non è rimasta in silenzio, ma è intervenuta mettendo a tacere tutti. “[...] Sono cose che si dicono...alle quali non do peso – ha commentato la figlia del cantante partenopeo - . Se ascoltassi le stro...te della gente a quest’ora mi sarei ammazzata. Ho le spalle larghe. Mi faccio una risata e auguro una buona vita a tutti”. In tanti, quindi, si sono rivoltati contro gli hater di Gigi e hanno condiviso il pensiero di Ilaria che, nonostante la giovane età, ha dimostrato di saper fronteggiare bene i detrattori della sua famiglia.

La grande scalata al successo di Gigi D'Alessio. Gigi D'Alessio ha masticato musica sin da bambino e ha sdoganato le sue canzoni melodiche dai vicoli di Napoli alle maggiori città del mondo. Monica Montanaro, Domenica 22/12/2019, su Il Giornale. Gigi D'Alessio è diventato negli anni una vera icona della musica italiana e simbolo di una tradizione cantautorale partenopea che ha saputo mescolare classicità e innovazione. Una vita dedicata interamente alla musica quella di Gigi D'Alessio. Il suo talento innato e le sue doti canore lo hanno approcciato al mondo musicale sin da bambino. Il canto melodico e l'unicità della voce dello scugnizzo rimandano i suoni tipici dei canti popolari napoletani. La passione e la devozione verso la musica lo hanno portato a fare di essa la primaria ragione di vita. Lo scugnizzo è cresciuto nei vicoli della sua città, Napoli, da cui ha tratto ispirazione per i suoi numerosi brani di successo. Nell'arco di un trentennio è riuscito a sdoganare il suo stile musicale in giro per il mondo. Con costanza e amore ha fatto un salto strepitoso nella sua carriera: passato dalle esibizioni alle feste di matrimonio sino a riempire i maggiori stadi del mondo, conseguendo un notevole successo. Artista dall'anima umile e gentile, Gigi D'Alessio è molto amato dal suo pubblico, specialmente da quello della sua terra, la Campania. Ha acquisito nel corso degli anni una fama straordinaria che lo ha portato a realizzare concerti sold out e a vendere milioni di copie dei suoi dischi in Italia e all'estero. Le canzoni scritte da Gigi D'Alessio raccontano d'amore e di sentimenti e riescono a emozionare l'anima della gente. Del resto il cantautore napolentano ha realizzato 18 dischi nella sua brillante carriera vendendo oltre 20 milioni di copie. Si è aggiudicato gli ambiti dischi di diamante e di platino e ha lavorato con i più illustri nomi della musica napoletana, arrivando a suonare per il padre della canzone melodica, il colosso di bravura, Mario Merola. Una vita professionale clamorosa, quella di D'Alessio, piena di soddisfazioni anche in ambito privato, le cui vicende sono balzate agli onori della cronaca per la sua popolarità.

La biografia e la carriera dello scugnizzo.

Nato il 24 febbraio 1967 sotto il segno dei Pesci, Gigi D’Alessio è uno dei cantanti più amati in Italia. Originario di Napoli, è cresciuto nel rione Cavalleggeri d’Aosta. Luigi “Gigi” D’Alessio nasce in una famiglia umile, ultimo di tre figli. Ha soltanto quattro anni quando il padre, costretto a trasferirsi per motivi di lavoro in Venezuela per garantire una vita dignitosa alla sua famiglia, gli regala una fisarmonica acquistata a Caracas. È il primo approccio alla musica. A dodici anni si iscrive al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli conseguendo a ventuno anni il diploma di pianoforte. Alla giovane età di 23 anni ha l'occasione di dirigere la prestigiosa Orchestra Scarlatti, importante esperienza formativa che ha contribuito alla sua crescita professionale. La sua carriera esordisce quando incontra fortuitamente Mario Merola, il re dei re della sceneggiata napoletana, il quale dopo averlo ascoltato cantare per caso, ma, soprattutto, dopo aver appreso delle sue composizioni per altri artisti come Gigi Finizio e Nino D'Angelo, lo recluta come autore e pianista. Questo incontro segna il suo ingresso nel mondo della musica al quale succedono le prime serate, le apparizioni alle feste di piazza, i concerti e i matrimoni. Per il celeberrimo Merola ha scritto "Cient’anne": il brano, diventato la colonna sonora di un omonimo film, gli ha procurato una fama anche al di fuori della sua terra natia.

Sul finire degli anni '80 e agli esordi del nuovo decennio, gli anni '90, in quel di Napoli, D'Alessio ha cominciato a pubblicare i suoi primi dischi. Il primo album, "Lasciatemi cantare", è uscito nel 1992, segnando l'esordio di una carriera in costante ascesa. Il percorso artistico di Gigi D’Alessio incarna la storia di un ragazzo che deve il suo successo alla sua città, Napoli. La sua scalata al successo parte dai vicoli e si spinge sia alle zone popolari che altolocate della città partenopea, fino a spopolare in ogni parte dell'Italia. La sua fama cresce nel tempo e i suoi dischi iniziano a vendere in tutta la penisola. L'anno dopo pubblica "Scivolando verso l'alto", 30mila copie vendute e D'Alessio, parimenti all'altro mito della canzone napoletana, Nino D'Angelo, è dominatore assoluto. Gigi D'Alessio nel suo percorso professionale ha attinto al fenomeno dei "neo-melodici" arricchendo il suo stile musicale. Ecco allora che nel 1994, cavalcando questa nuova tendenza, la storica Ricordi ha deciso di produrlo. Il 1994 segna il suo ingresso nella discografia ufficiale grazie alla pubblicazione dell'album "Dove mi porta il cuore" e successivamente di "Passo dopo passo" che contiene due canzoni simbolo di D'Alessio, "Fotomodelle un po' povere" e "Annarè".

Il 1997 è l'anno della grande scalata al successo con l'uscita di "Fuori dalla mischia" che contiene altre hit come "Anna se sposa", "Chiove", "30 Canzoni" entrate nel repertorio del periodo. Gigi D'Alessio e la sua band hanno tentato il grande colpo, suonare allo stadio San Paolo. Lo stadio di Napoli ha raggiunto la capienza record di spettatori. Nella primavera del 1998 ha pubblicato il suo sesto album intitolato "È stato un piacere", disco che contiene le sue storie della gente comune, di amori turbolenti, di sentimenti combattuti. Quest'ultimo lavoro ha fatto emergere la vera identità dell’artista: autore e musicista di alto profilo. In giugno è uscito nelle sale cinematografiche "Annarè" del regista Ninì Grassia, una trovata cinematografica per rilanciare la carriera dell'artista. Il film è stato girato nei quartieri storici della città partenopea. A fine anno Gigi D'Alessio approda all'etichetta BMG, e ha realizzato un nuovo lavoro musicale, accorpando in "Tutto in un concerto", il suo settimo album, i momenti salienti della sua carriera.

Nel 1999 il cantante napoletano ha inciso "Portami con te", il suo ottavo album, contenente 11 nuovi brani pilastri del suo repertorio sempre più eterogeneo come: "Una magica storia d’amore", "Portami con te", "Dove sei", "Buongiorno". Nello stesso anno si è esibito alla presenza del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton in occasione dell'importante evento del Gala del N.I.A.F. Arriva per D'Alessio la prova suprema di calcare il prestigioso palco del Festival di Sanremo, una chance importante per lanciarsi a livello nazionale. E' il febbraio del 2000 quando con "Non dirgli mai", pur non vincendo il Festival, ma risultando il vincitore morale di quell'edizione, sfonda come fenomeno di costume. Dopo l'apparizione alla nota kermesse le sua canzoni hanno riscontrato per mesi il più alto indice radiofonico, mentre il relativo album dal titolo premonitore, "Quando la mia vita cambierà" (il nono), dopo soli quindici giorni dall’uscita, si è aggiudicato il disco d'oro superando le 400.000 copie di vendite.

Da qui in avanti il suo percorso è tutto un susseguirsi di successi. Sanremo è una forte tentazione a cui il cantautore non sa resistere. Nel 2001 ha partecipato alla competizione canora con il brano "Tu che ne sai" confermando l'exploit dell'anno precedente, mentre il suo decimo album, "Il cammino dell'età" è giunto in vetta alla hit parade. D'Alessio può fare concorrenza ai grandi della canzone italiana. L'artista partenopeo ha ormai raggiunto una piena maturazione della sua brillante carriera. L’album è un’altra impresa riuscita che sforna un successo dopo l’altro: "Il primo amore non si scorda mai", "Il cammino dell’età", "Un’altra donna dentro te", "Tu che ne sai", "Insieme a lei", "Parlammene dimane", "Bum bum", "Mon Amour". A fine giugno il cantante ha presenziato al gala della premiazione del 32° Premio Barocco dove ha conosciuto l'attrice Sophia Loren, duettando con lei "Reginella".

Nel luglio 2002 viene inciso il singolo "Miele" che anticipa il suo quinto album per la BMG "Uno come te", i brani riproducono un andamento melodico vivo. Tra febbraio ed aprile del 2003 la musica di Gigi D’Alessio è approdata in Canada, Australia e Stati Uniti (Montreal, Toronto, Sidney, Melbourne, Atlantic City) facendo tappa in una decina di imponenti teatri. Il tour viene trasposto in uno special televisivo, "Uno come te…in giro per il mondo", trasmesso in seconda serata su Raiuno, conseguendo un successo strepitoso per il suo debutto sul piccolo schermo. La pop star italiana ha tenuto due concerti gloriosi allo stadio Olimpico di Roma e al San Paolo di Napoli che hanno chiuso il suo tour "Uno come te" nel mese di giugno. In autunno è uscito nei negozi di musica "Buona vita", un doppio cd contenente 22 brani che celebrano i primi dieci anni della carriera dell'artista.

Il nuovo album "Quanti amori" viene promosso nell'ottobre del 2004, altre 13 canzoni favolose: "Non c’è vita da buttare" (con le chitarre di Alex Britti), "Spiegami cherè", "Napule" (cantata superbamente a quattro voci: D’Alessio, Sal Da Vinci, Gigi Finizio e Lucio Dalla), "Liberi da noi", "La donna che vorrei", "Le mani" sono i brani principali. La casa editrice Mondadori ha pubblicato il libro autobiografico "Non c’è’ vita da buttare", in cui Gigi D'Alessio ha raccolto tutta la miriade di appunti scritti nel corso della sua vita e carriera accorpandoli in tale lavoro editoriale. In marzo 2005 Gigi D'Alessio ha partecipato per la terza volta al Festival di Sanremo. In questa 55esima edizione presenta "L’amore che non c’è", estratta dal disco dalle tinte estrose "Quanti amori", l’album che in pochi mesi ha oltrepassato le 300.000 copie, e in vetta alla top ten per diverse settimane consecutive. Il 30 settembre 2005 viene organizzato a Napoli, in piazza Plebiscito, uno dei più grandi eventi della storia della musica italiana. Alla serata hanno partecipato nomi illustri del panorama musicale italiano e internazionale. Dall'emozionante esperienza collettiva, D'Alessio ne fa scaturire il progetto "Cuorincoro".

Il 2006 si è aperto con una nuova tournée mondiale e due importanti riconoscimenti alla carriera per l'artista napoletano: il Venice Music Award, e il Premio Barocco. Nello stesso anno viene inciso il suo nuovo album "Made in Italy", il nono prodotto con l'etichetta SonyBmg, e il 15esimo della sua carriera. "Made in Italy" afferma il ruolo di Gigi D'Alessio compositore, è lui l'autore dei suoi testi (alcuni in collaborazione con Mogol ) e delle sue musiche. Il musicista è tornato al Festival di Sanremo nel 2007, questa volta, però, in qualità di super ospite, dove si è esibito cantando brani celebri del repertorio classico: "Con il nastro rosa", "Adagio" e "Un cuore malato". Il 14 ottobre dello stesso anno D’Alessio ha tenuto un concerto grandioso all’Olympia, location d'eccezione della musica parigina, al cui evento ha partecipato Anna Tatangelo e l’artista francese Lara Fabian. I memorabili momenti del live sono stati raccolti nel DVD "Gigi D’Alessio – A l’Olympia Live in Paris" che ingloba 27 brani. Sempre nel mese di ottobre viene pubblicato il box "Mi faccio in 4" preceduto dal nuovo singolo "Non mettermi in croce" . Ottobre 2008 è il momento di "Questo sono io", l’album n. 16, primo per la sua etichetta GGD. Un lavoro dall'impronta autobiografica che fa affiorare i sentimenti privati di un artista completo e arrivato musicalmente. Tra i brani dell'album spicca "Male d’amore" in cui D'Alessio ha confessato i tormenti di un uomo che ama una donna molto giovane. Il 18 settembre 2009 è uscito il nuovo album "6 come Sei" (GGD/Sony Music), un EP che contiene 6 brani inediti.

Nel gennaio 2010 Gigi D'Alessio ha prestato il suo volto come testimonial della campagna contro il bullismo promossa dal Comune di Roma. Il 4 e l’11 marzo D’Alessio è apparso in veste di presentatore nello show "Gigi, questo sono io", due grandi prime serate trasmesse in diretta su Raiuno che hanno conseguito un notevole successo di pubblico e di critica. L’8 giugno è uscito il sequel di "6 come sei", intitolato "Semplicemente sei" e anticipato nelle radio dal singolo "Vita", dedicato al figlio appena nato Andrea. Il 12 giugno il cantante si butta a capofitto nella sua nuova impresa, "Gigi D’Alessio, Questo sono io World Tour 2010", un tour programmato negli stadi italiani e proseguito nei palasport mondiali. Il 14 febbraio 2011 D'Alessio si esibisce al fantastico concerto-show nel mitico Radio City Music Hall di New York, attorniato da famose star internazionali.

Nel 2012 Gigi D'Alessio festeggiando i 20 anni di carriera ha realizzato un nuovo progetto musicale. Il 15 febbraio pubblica, infatti, "Chiaro", il suo diciassettesimo album che è entrato subito nella top ten degli album più venduti. Sempre nel 2012 ha partecipato anche al 62° Festival di Sanremo nel duo canoro con Loredana Bertè, concorrendo con il brano "Respirare" che in breve tempo ha scalato le classifiche. A ottobre Gigi D’Alessio esporta la sua musica melodica anche in Sud America prentando "Primera Fila", il suo primo album cantato in spagnolo. Il 19 ottobre esce "Ora", un album in cui Gigi D'Alessio manifesta il suo affetto per coloro i quali lo hanno supportato, i suoi fan. Il 2012 è un anno ricco di risvolti positivi. Accanto alla sua compagna di vita e professionale Anna Tatangelo, una nuova promessa della musica italiana, esordiscono sul piccolo schermo. Il 25 novembre e il 2 dicembre, conducono insieme "Questi siamo noi", il loro primo varietà televisivo trasmesso sulla rete amiraglia Mediaset, Canale 5.

Il nuovo anno, il 2014, inizia strepitosamente per Gigi D'Alessio, poiché si aggiudica la vetta della World Billboard Music Chart con l’album "ORA", replicando il celebre Domenico Modugno. Un traguardo importantissimo nella carriera ventennale di D’Alessio. Successivamente ne scaturisce "ORA Tour", una tournée importante in giro per il mondo: USA, Canada, Italia. Il 2014 si conclude eccelsamente festeggiando il Capodanno in Piazza del Plebiscito con una trasmissione in diretta su Canale 5, "Gigi & Friends". Gigi D'Alessio, sensibile ai temi sofferti della sua terra, ha deciso di affrontare la piaga della Terra dei Fuochi. Il 6 settembre 2015 ha organizzato un concerto evento benefico presso la Reggia di Caserta. L'artista di Napoli ha realizzato un progetto serio denominato "Malaterra", un docufilm dedicato alla terra dei fuochi.

D'Alessio ha realizzato nel 2017 un nuovo lavoro discografico intitolato "24/02/1967", la sua data di nascita, che viene pubblicato proprio nella data del 24/02/2017, giorno in cui il cantautore ha compiuto 50 anni. In questo album compare il brano "La prima stella" con cui Gigi D'Alessio ha partecipato per la quinta volta nella sua carriera alla kermesse canora per antonomasia, il Festival di Sanremo, alla sua 67esima edizione. D'Alessio è tornato in tv e a febbraio del 2017 ha condotto, sostituendo il duo comico Gigi e Ross, il programma satirico di Raidue Made in Sud. Nel 2019, infine, viene reclutato a presiedere la giuria di The Voice Italy 2019, il talent show canoro, nel ruolo di coach, vincendo l'ultima edizione condotta da Simona Ventuta. Sempre nel corso del 2019 Gigi D’Alessio ha inciso il nuovo album dal titolo "Noi due". Il singolo che ha anticipato l'album si intitola "Domani vedrai".

La vita privata del cantautore partenopeo. Gigi D'Alessio nella sua vita ha avuto due grandi amori, quello per la moglie con la quale ha generato tre figli e quello con Anna Tatangelo, la quale gli ha donato un figlio. Il cantante è stato sposato con Carmela Barbato, un matrimonio solido durato oltre vent’anni. Il legame coniugale con la Barbato è perdurato dal 1986 al 2006. Dalla loro unione sono stati concepiti tre figli: Claudio, nato nel 1986, Ilaria, nata nel 1992, e Luca, nato nel 2003. Progressivamente il rapporto si è sfibrato e concluso nel momento in cui il cantante ha incontrato Anna Tatangelo. Nel 2002 nel corso del Festival di Sanremo ha conosciuto la giovane e bella Anna Tatangelo, cantante di 19 anni più giovane di lui. L'attrazione tra il maestro e l'allieva è scattata nel 2005 quando hanno fatto una tappa in Australia durante un tour mondiale, lei allora aveva solo 16 anni ed era ospite nei vari concerti. Tra D'Alessio e la Tatangelo è stato un vero colpo di fulmine. Dopo un anno lui le ha offerto l'opportunità di farle incidere un album, poiché conquistato dalla sua voce. Nella fase iniziale della loro storia entrambi hanno smentito ogni pettegolezzo sul loro conto, anche perché l'artista era ancora sposato. Ma nel dicembre del 2006 hanno deciso di ufficializzare la loro storia, notizia che all'epoca ha fatto molto scalpore. La loro relazione è stata sempre molto criticata e discussa soprattutto per la differenza d'età tra i due, circa venti anni, e anche perché la storia è iniziata quando il cantante era ancora spostato. Nel dicembre 2006, in un'intervista al settimanale Chi, la moglie del cantautore, Carmela Barbato, ha rivelato pubblicamente che suo marito Gigi D'Alessio intratteneva una relazione con la sua collega Anna Tatangelo (allora diciannovenne). La loro storia è andata avanti nonostante le voci critiche e nel 2010 la coppia ha deciso di convivere. Nello stesso anno è venuto alla luce il loro primo figlio, Andrea, nato il 31 marzo 2010. Successivamente, nel marzo 2018, dopo mesi di crisi nel loro rapporto, la coppia ha annunciato la rottura definitiva. La Tatangelo ha raccontato che litigavano spesso e il loro legame era pressocché inesistente. Per tale motivo la cantante ha deciso di trasferirsi in un’altra abitazione con il figlio. Ad agosto del 2018, però, pare che la coppia si sia ricomposta. La Tatangelo ha rilasciato un’intervista al magazine Vanity Fair in cui ha confidato che il rapporto con Gigi stava migliorando: "Non c'entrano terzi. Litigavamo sempre più spesso, eravamo finiti ad andare a letto senza più dirci una parola, senza più darci neanche la buonanotte. Gigi è stato, è e sarà sempre la persona più importante della mia vita". Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio, infatti, sono stati paparazzati insieme in Sardegna, nella villa di Porto Rotondo, dove hanno trascorso le loro vacanze. Tuttavia, nonostante si siano riconciliati, i due latitano sui social web, non apparendo mai insieme in scatti intimi. Il musicista napoletano e la sua compagna, Anna Tatangelo, hanno acquistato una villa nel quartiere residenziale Olgiata di Roma, che hanno denominato Amorilandia. La coppia ancora oggi vive nella sontuosa casa a Roma con il figlio Andrea e pare che i due siano ancora insieme.

Curiosità su Gigi D'Alessio. Le misure fisiche di Gigi D'Alessio: è alto 1,78 centimetri e pesa 78 chili. Il cantante ha compiuto 52 anni. L'artista ha lanciato molte promesse della musica, componendo per loro diversi brani. Ha prodotto gli album di cantanti come: Anna Tatangelo, Sal da Vinci e Rosario Miraggio. Ha scritto testi di canzoni per vari musicisti tra i quali Gigi Finizio, Nino D'Angelo e Gianluca Capozzi. Gigi D’Alessio è registrato su tutti i profili social più popolari. Su Instagram appaiono poche foto riguardanti la sua vita privata. Infatti il cantante ha postato unicamente scatti concernenti la sua vita professionale che lo immortalano al pianoforte o durante vari concerti. La sua canzone "La prima stella" è dedicata a sua madre, deceduta quando il cantante aveva soltanto 18 anni. Dopo la scomparsa dei suoi genitori ha lavorato nel loro negozio di abbigliamento, ma D'Alessio ha raccontato che non era l'attività a lui più congeniale e per allietarsi portava con sé la chitarra per suonare. Gigi D’Alessio è diventato nonno nel 2017 e nel corso di un'intervista rilasciata a TV Sorrisi e Canzoni ha dichiarato: "Sono felicissimo. Diventare nonno così giovane, a soli 39 anni, è un gioco!". D’Alessio e la Tatangelo durante un viaggio in Australia si sono regalati un tatuaggio: lui il Gatto Silvestro, e lei il canarino Titti. La cantante in merito all'episodio ha raccontato al giornale Il Mattino: "[…] volevo che lui si incidesse il gatto e io Titti, ma lui mi ha detto: ‘Anna, se io devo portare sulla mia pelle l’immagine che ti rappresenta, voglio disegnarmi addosso Titti e tu lo farai con il gatto Silvestro. E così è stato, anche se l’immagine di Titti non è che sia molto maschile su un uomo“.

L'ultima impresa televisiva del D'Alessio showman. Gigi D'Alessio e Vanessa Incontrada hanno condotto il programma "20 anni che siamo italiani", trasmesso su Raiuno in tre serate per tre venerdì consecutivi. Uno show innovativo la cui formula ha mescolato il varietà, ampi spazi musicali, comicità e molto altro. Gigi D’Alessio e Vanessa Incontrada sono stati al timone dello show evento esordito venerdì 29 novembre 2019 in prima serata, un programma ideato per raccontare un doppio inatteso anniversario: dal successo nazionale di D’Alessio al Festival di Sanremo all’arrivo della Incontrada in Italia. Per celebrare i due padroni di casa hanno preso parte al varietà uno stuolo di ospiti noti. "20 anni che siamo italiani", un titolo non perfettamente corretto grammaticalmente è ispirato al fattore che Vanessa Incontrada è nata in Spagna, ma ormai da due decenni vive in Italia. Sono stati proprio i due conduttori a raccontarlo al settimanale TV Sorrisi e Canzoni con tono divertito e complice: "Giochiamo sul fatto che io ho cominciato a lavorare e a vivere stabilmente in Italia 20 anni fa, e Gigi, che era già una star a Napoli, è diventato popolare in tutta Italia grazie al Sanremo del 2000. Da questa coincidenza è partita l’idea dello show: nelle tre serate racconteremo cosa è successo in questi ultimi 20 anni a noi, cosa è successo nel mondo, i cambiamenti che ci sono stati in Italia, nelle nostre vite, e li racconteremo con tanti amici che verranno a trovarci". Un successo per il napoletano d’Alessio che ha padroneggiato con savoir faire la scena sia durante le sue esibizioni canore ma anche nel ruolo di conduttore. Gigi D'Alessio ha il merito di aver sdoganato la musica napoletana tradizionale in diretta televisiva sulla tv pubblica. Gli omaggi ai grandi personaggi della canzone napoletana classica sono stati il clou delle tre serate, come i successi cantati dal presentatore D'Alessio e dagli ospiti in onore al grande maestro Renato Carosone. "20 anni che siamo italiani" è stato uno show dal sapore nazional-popolare, non sconfinato nello stucchevole. Gigi D'Alessio e Vanessa Incontrada e i loro famosi ospiti hanno dato sfoggio alle loro brillanti interpretazioni riuscendo ad emozionare il pubblico attraverso il racconto dei loro primi 20 anni da italiani e di come in questo arco temporale si siano evolute le abitudini, i costumi e la cultura nel Belpaese.

·         Gérard Depardieu.

Vittorio Sgarbi e Greta Mauro per “il Giornale” il 4 ottobre 2019.

Gérard Depardieu, vorrei chiederti: tu sei un uomo occidentale, cosa pensi dei musulmani?

«I musulmani mi piacciono, non mi piace la politica dentro l' islam. L' islam è venuto fuori... guarda che Giscard d' Estaing, per togliere i debiti della Francia con lo scià dell' Iran, ha liberato questo nero integralista ayatollah Khomeini. Da questo momento, il 1975...».

Comincia da lì?

«Sì... e gli americani hanno iniziato prima con i Talebani».

Ho fatto questa domanda perché c' è un tuo film, Thalasso, con Michel Houellebecq, che è uscito in Francia, uscirà in Italia tra poco... come è stato il vostro dialogo? A me pare che Houellebecq sia molto duro...

«Sul fatto dei musulmani?».

Sì, sul rischio per l' Occidente, perché è un rischio reale.

«Sì, perché lui aveva subito una fatwa. Non esiste che si possa uccidere qualcuno in nome di Dio. In ogni religione purtroppo a volte si predicano cose così, i francesi avevano i crociati. Nel X secolo in nome di Cristo...».

E oggi dobbiamo evitare che capiti lo stesso con noi...

«Sì, anche con i turchi... Doha, il Qatar, sono pericolosi. Adesso anche l' Arabia Saudita... Dunque penso che non può esistere la politica nella religione, non è possibile».

Come valuti il pensiero di Bernard-Henri Lévy? Hai visto ha fatto questo giro dell' Europa...

«No, non mi piace, non mi convince, anche in Libia... è terribile. Non è amico mio. Non mi piace, questo mettere i piedi sui morti, no, non mi piace».

Putin sì?

«Putin sì, Putin non si occupa di politica, non lo vedi mai, lo conosco molto bene, lui non si mette dentro la burocrazia. Lui va in giro, va a veder la gente che gli piace, amica».

E Trump ti piace?

«No... Ma non mi frega niente, è un americano!»

Berlusconi ti piace?

«È un personaggio rispettabile, anche se tutti dicono certe cose, insomma, è stato tirato in ballo in diverse faccende. Ma vediamo la storia cosa dirà di Berlusconi: per me è un personaggio certamente interessante, più di Trump, più di altri, è un grande amico di Putin. L' ho visto con Putin, non era triste...».

Preferisci Berlusconi a Bernard-Henri Lévy?

«Non c' è bisogno di dirlo, Bernard-Henri Lévy non sa dove va. Lui è pieno di soldi, ma non gliene frega niente, fortuna per lui... Se potessi rubargliene un po'».

È venuto in Italia e invece di parlare male di Macron ha parlato male solo di Salvini, di Berlusconi. È venuto da noi a spiegarci che siamo un paese di merda.

«Ah sì? Come si permette? Chi se ne frega... Io amo molto l' Italia: è cambiata, come la Francia e come l' Europa, troppo, la gente è triste, non guarda più la terra, non so cosa guardi. Non torno spesso in Francia».

Macron ti piace?

«No, lo conosco e non mi piace troppo perché lui è sicuro, ma sicuro di che? La moglie, anche, mi fa la stessa cosa, troppo sicura».

E il Ministro della Cultura?

«L' ho visto, è venuto a vedermi, l' ho guardato, era stanco e mi ha fatto i complimenti e io ero nervoso perché c' era una telecamera che registrava senza che io lo sapessi... gli ho chiesto quanti anni hai? 45, l' ho conosciuta attraverso mio padre, ho sentito parlare di lei. Ciao grazie, ciao, non mi interessa. Jack Lang mi piaceva. Mitterrand invece non mi piaceva troppo. Chirac mi piaceva, perché era umile, ha fatto tutto quello che si può fare in politica, perché in politica si può fare tutto».

E Valéry Giscard d' Estaing? Secondo te è andato a letto con Lady Diana?

«No, non mi piace. Per niente».

Ti ricordi che ha scritto che è andato a letto con Lady Diana?

«Sì, però è anche quello che ha liberato l' ayatollah Khomeini quando abitava vicino a Marguerite Duras. Lo vedevo perché facevo visita alla Duras».

E chi sono stati i tuoi migliori amici?

«Marcello Mastroianni, Tognazzi, Marco Ferreri, Umberto Eco: abbiamo fatto le letture di Sant' Agostino, a Verona, era bravo! Umano, grande umano. Sono amico anche di un produttore di olio in Toscana. Sono pieno di amici».

E tra le donne con cui hai lavorato? Ornella Muti di te ha detto: «Non si può descrivere, perché lui è Gérard Depardieu».

«Ho lavorato con tante belle attrici: Stefania Sandrelli, Fanny Ardant, una grande amica dell' Italia, una donna di una cultura enorme, veramente, io sono niente».

Tu, quando hai deciso di fare l' attore, come hai cominciato?

«Non lo so, avevo difficoltà di parola, mi è venuta con la lettura ad alta voce, perché ero troppo emotivo e ho perduto la parola».

L' hai ritrovata molto bene poi però.

«Sì ma non come Vittorio, Vittorio è un maestro della parola».

Noi ci siamo conosciuti credo a Pantelleria, io volevo che facessi il Caravaggio, eri perfetto. Bello pieno di vita. Hai mai ucciso qualcuno? Poi non lo abbiamo fatto. Poi hai interpretato Dominique Strauss-Kahn nel film di Ferrara.

«Sì, era un film di Abel Ferrara, non mi piaceva il primo quarto d' ora. Dominique Strauss-Kahn è molto intelligente, ma matto, perché con il sesso si diventa matti. Il sesso è terribile. La vecchiaia fa vedere altre cose. Non sono una bestia del sesso, sono molto civile, mi piacciono troppo le donne, non fanno solo sesso, sono madri, fanno cibo».

E con il conflitto tra te e i tuoi personaggi? Cioè tu sei i tuoi personaggi o diventi un altro? A me sembri sempre tu.

«Non sono americano, non ho il problema di incarnare il personaggio, non mi frega niente».

Quando finisce il personaggio, lo dimentichi?

«Sì, non so come inizia questo personaggio. Recito le parole che lui dice: dentro tutte le parole si trova il personaggio. Se tu leggi Shakespeare è cattivo, terribile, tu puoi rifarlo senza essere cattivo, basta unire le parole che dice lui ed è fatta. Pirandello? Lo stesso. C' era un buon attore, un po' matto, Carmelo Bene... e Marco Ferreri. Marco era un istinto incredibile, Ettore Scola, Mario Monicelli... Voi avete tanto genio. Vittorio Gassman... ma era più costruito».

Invece i francesi? Quello che ha fatto quel bel film con Buñuel, Michel Piccoli?

«Formidabile!».

Tu le guardi le serie tv?

«Le guardavo prima, ma adesso mi rompo le palle».

Faresti una serie? Di quelle lunghissime?

«Ne ho vista una volta una sulla droga... Ma tutte le serie... Guarda questi americani. Kevin Spacey? È perché è gay, e boom. Eh lui è stato il MeToo che lo ha spazzato via, ormai... Anche io sono stato accusato...».

La tua questione si è chiusa?

«Sì, sì, ma mi telefona ancora. È pericoloso. Una volta mentre stavo girando il film Green Card c' era una segretaria con due seni così... Io ho detto: Beautiful breasts!. E lei: What!. Disse che dovevo scusarmi, non capivo apologise. Alla fine ho dovuto cedere, mi sono dovuto scusare e così dissi: I apologise, you don' t have beautiful breasts».

Però pensa adesso, Green Card è stato venti anni fa. Oggi non puoi prendere nemmeno un ascensore con una donna, devi stare attento.

«È strana quest' epoca, siamo lontani dalla filosofia».

Siamo tornati indietro.

«Non siamo mai andati avanti, non si sa come fare per parlare a una donna... Guarda Stendhal, guarda Balzac... è terribile... Moravia usa un sacco di dettagli erotici per fare il romanzo. Oggi manca la storia e la cultura, perché la gente non ha più cultura, non è più curiosa d' imparare, leggere, manca l' essere, l' essere esiste soltanto in politica, l' arte. Non c' è più...Quando tu vedi le serie televisive americane le attrici sono vestite come le porno attrici. Non è facile vivere in una società dove si ignora la cultura. A me piacciono i migranti... Ti danno un altro punto di vista, non è giusto che questa gente muoia in mare».

Hai lavorato con Bertolucci. Com' è stato?

«Grande momento, è stato come rinascere una seconda volta in Italia, avevo 22 anni e ho vissuto nel nord Italia».

·         Franca Valeri: non mi annoio.

Franca Valeri: non mi annoio. Sofia Mattioli per “la Stampa” il 29 luglio 2019. L' incipit coincide con il crollo delle illusioni del Duemila, atteso con trepidazione e isteria e ridotto a una manciata di momenti per niente diversi dai precedenti. Nel miscelare riflessioni e memorie nel nuovo libro Il secolo della noia (Einaudi), Franca Valeri, 99 anni il 31 luglio, si interroga sulle aspettative mancate e sui rischi di un presente frammentato. Valeri guarda al teatro e all' arte cercando di intravedere crepe e prospettive future, racconta cosa sfugge a chi continua a picchiettare sullo smartphone. Guarda alla sua, di storia, alle ferite e agli incontri- da Vittorio Caprioli a Pasolini- e cerca di immaginare come il genio possa ancora germogliare nelle generazioni future. Persino nella più comune delle insidie, la noia.

"La noia del secolo avrà pure sia una ragione che una scappatoia" scrive. Qual è la ragione?

«Al contrario del mondo che io ho conosciuto, il presente è meraviglioso, comodissimo, però, più noioso, privo di scambi reali».

La via d' uscita può risiedere nel bisogno di una creatività condivisa?

«Credo di sì. Quando siamo partiti alla volta di Parigi con il Teatro dei Gobbi eravamo in tre, io, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci. Non sapevamo cosa avremmo fatto. Ma eravamo, nei primi periodi, sempre insieme ed era emozionante immaginarsi il teatro, perché le cose si fabbricavano con l' aiuto l' uno dell' altro. Non oso immaginare come possa essere penoso per i giovani, oggi, fare arte o teatro. Noi abbiamo vissuto una giovinezza libera, libera di creare e creare non da soli».

Racconta la noia eppure dice di essersi annoiata raramente e che la sua vita sia stata piena di svolte incredibili «Le mie svolte sono state sono stati incontri, letture, persino ascolti. Ho sempre dato molta importanza alla musica».

Un incontro che le ha fatto cambiare rotta?

«Potrei citarne infiniti ma preferisco parlare di opere letterarie, soprattutto di scrittori francesi. Mi chiamo Valeri perché mio padre preferiva da attrice non avessi il mio nome e, una mia amica, che stava leggendo un libro di Paul Valéry mi ha suggerito di utilizzare il cognome fittizio Valeri. Quando ho incontrato i figli di Valéry, anni dopo, mi hanno chiesto se eravamo parenti. In un certo senso sì, qualcosa ci legava».

Dice che far ridere è una formula matematica. Quando nella scrittura di un personaggio capiva che quell' equazione funzionava?

«Era istintivo, io ce l' avevo dentro, voltavo tutto in comico. La mia quotidianità, le persone che incontravo, tutto era materia d' ispirazione. I miei personaggi non erano l' imitazione di qualcuno ma frammenti rubati a tantissimi visi che conoscevo».

Nel libro ricorda il suo debutto al Teatro Valle.

«Per me il Teatro Valle è indimenticabile. La prima volta in cui vai in scena, ti assicuro, te la ricordi per tutta la vita: la sala non è ancora piena e ti sembra già di sentire le voci di un pubblico che non vedi ma puoi immaginare. Se penso, oggi, che il Teatro Valle sia ancora chiuso, provo un forte dolore. Non credo che l' amministrazione di Roma abbia fatto abbastanza».

Quali sono le responsabilità della politica?

«Tante. Ci dovrebbe essere sempre una parte politica, un partito, che lotta per qualcosa come ricreare un teatro. Ma il Teatro Valle non è l' unico esempio. Se si parla di patrimonio artistico in Italia, ci sono molte cose che si perdono e nessuno si chiede o sa il perché».

Nel suo libro ricorda le grandi ferite della storia a partire da una dimensione privata: "Quando sono uscite le leggi razziali papà era seduto sul letto ancora in pigiama, e due lacrime gli scendevano sulle guance" scrive «Ero una ragazza nel 1938, avevo 18 anni. E' stato un momento atroce, insensato della storia. Eravamo terrorizzati, ho sempre in mente una giovane che conoscevo il cui nome ho poi ritrovato nel resoconto delle vittime. E' assurdo che qualcuno ignori questa pagina terribile».

Cosa secondo lei si è inceppato nella memoria storica collettiva?

«Me lo chiedo spesso. Quella voglia di dimenticare subito dopo l' orrore era forse l' immediata reazione a qualcosa di tremendo, però non so cosa abbia portato a rimuovere poi».

A questo proposito il dilagare di estremismi politici può definirsi un paradosso?

«Sì, è un vero paradosso. Mi chiedo avendo avuto un passato recentissimo così come sia possibile. Io non ho mai dimenticato».

Lavinia Capritti per oggi.it il 26 ottobre 2019. La casa, a sorpresa, è piena di ninnoli delicati. Lei, Franca Valeri, siede dritta in salotto, un vestito blu pieno di ghirigori in grado di far impazzire le ragazze, un cardigan peloso, le mani con le unghie di un rosso accesso. Sulla libreria, una foto con la dedica che recita più o meno così «Alla mia carissima Francuzza con immenso amore». La firma è di Sophia Loren. Loro due guardano davanti sorridendo e stringendosi l'una all'altra. «È una cara ragazza», dice lei. E in effetti la Loren ha 85 anni, la Valeri ne ha 99 e quindi la Loren è una «ragazza». Tutto è relativo. La Valeri, ed evidentemente non è un modo di dire, ha fatto la storia d'Italia. Era a piazzale Loreto quando fu mostrato Mussolini, ha votato quando per la prima voilà le donne hanno avuto diritto al voto, ha conosciuto Charlie Chaplin e Tote', ha dato del «cretinetti» ad Alberto Sordi, è stata per noi la signorina Snob e la sora Cecioni, ha avuto due uomini e scritto 15 libri, l'ultimo nel 2019. Quindi nel suonare al cancello di casa sua è difficile non avere il batticuore, domandarsi come sia oggi questo mito di 99 anni. Novantanove: anche solo a sillabarlo si prova una vertigine. «Franca ha la testa di una 50enne in un corpo da centenaria», dicono le persone che le stanno vicine tutti i giorni. Ed è davvero così.

Signora Valeri, è considerata il mostro sacro della comicità.

«Sono ironica di natura e quindi trasferire la mia comicità nel lavoro stata una... grande mancanza di fatica. Mi piace avere questo dono».

Se dovesse riassumere in un unico momento la sua vita?

«Non mi viene in mente quasi niente che abbia un significato così profondo da rappresentarmi. Mi ritengo una persona estremamente normale e questo è un vantaggio vivendo parecchio».

Se lei fosse una persona normale non saremmo qua.

«Il 25 aprile del 1945, quello è stato il giorno che mi ha dato più emozioni. Quando ho visto il futuro, che mi sembrava impossibile. Quando sono potuta andare a Piazzale Loreto e ho pensatoche tutto allora era possibile nella vita, tutto quello che sembrava negato era assolutamente possibile».

Oggi cosa direbbe alle ragazze dall'alto dei suoi 99 anni?

«Di scegliere un lavoro che appartenga loro perché una donna non può vivere sperando di incontrare 1’amore. È molto difficile che lo incontri e, soprattutto, che lo riconosca. Questo spiega la quantità di...».

Amanti?

«No di separazioni».

Lei, però, ha avuto due grandi storie d'amore, con Vittorio Caprioli e Maurizio Rinaldi: come ha fatto a sfuggire ai seduttori di una notte?

«Non ho fatto niente. Conoscendomi si poteva capire come mi vedessero gli uomini. Probabilmente spesso non mi vedevano ed e stata la mia fortuna».

Non la vedevano?

«Non sono mai stata un oggetto femminile. Sia perché sono indubbiamente molto intelligente e sia perché non sono di una bellezza sfolgorante. Sono queste le qualità le qualità che mettono le donne in salvo dall'essere un oggetto».

E come si capisce su quali uomini investire?

«Oh, si capisce benissimo».

Ha conosciuti proprio tutti.

«Vittorio De Sica mi voleva bene, aveva subito capito le mie possibilità e mi ha aiutato molto. È stato un grande».

Alberto Sordi?

«Un grande affetto, mi assomigliava nella comicità. Quando inventai "cretinetti" sorrise. Non era tirchio. Era generoso nelle cose in cui si può dimostrare di essere generosi, tipo il caffè o il pranzo. Cose semplici ma da cui si capisce se la persona è tirchia o no».

Totò?

«Non doveva essere un malinconico, aveva un lavoro ben remunerato ed era un artista straconosciuto. Lui però per dovere alla sua maschera non doveva essere un allegrone, così come tanti attori comici».

E poi c'è la Loren, ho visto la vostra foto sulla sua libreria.

«Abbiamo recitato in un film insieme, Il segno di Venere, e lei era molto affettuosa. Faceva la parte di mia cugina, non potevamo essere sorelle date le sue qualità di donna».

Lei ha anche scritto quel capolavoro che è La Signorina Snob. «Vivendo a Milano se ne incontravano per forza ed avendo un po' di inventiva ne ho fatto tesoro. Lo snobismo è qualcosa che tenta le milanesi».

Di cognome lei nasce Norsa, non sarà stata un po’ snob pure lei nell'assumere il cognome del poeta francese, Paul Valéry?

«Non fu una questione di snobismo. Mio padre non voleva, come tutti i padri, che sua figlia dichiarasse una passione per il teatro e in quel periodo una mia amica stava leggendo un libro di Valéry...».

Fa una pausa di secco rimprovero. Poi, commenta: «Sa che lei ha il difetto moderno di non parlare chiaro? Molti oggi parlano troppo in fretta senza il gusto della propria lingua».

Tocca spiegare: signora Valeri, non è un difetto moderno, mio nonno quando ero bambina appoggiava il registratore su un tavolo per farmi capire quanto mangiassi le parole. Lei sferzante: «Suo nonno era un genio».

E in che cosa è snob lei?

«Direi parecchie cose. Mi piacciono certe cose esagerate, tipo i cani. Ci tengo molto alla raffinatezza, fino a detestare la non eleganza ora di moda. Non capisco quel modo che adesso hanno le donne in generale di conciarsi».

Lei era famosa per i suoi abiti di Roberto Capucci. Dove sono ora?

«Nel guardaroba, dove vuole che li tenga? Per casa, per dimostrare che posseggo dei Capucci?».

Vedo che ha lo smalto sulle unghie.

«È stato il divertimento di un giorno perché la mia deliziosa nipotina si è incaricata di mettermi lo smalto. E mi piace abbastanza. Ci sono colori tipo il verde o il nero che appaiono sulle mani delle donne che non sarebbero auspicabili per nessuno. L'eleganza costa molto, mentre la raffinatezza di una donna può essere anche gratuita».

Una curiosità signora Valeri: lei li ha mai traditi i suoi uomini?

«No, perché non si incontrano molti uomini che sono delle tentazioni».

·         Parla Lina Wertmüller.

Da Ansa il 21 giugno 2019. “Lina Wertmuller avrà la sua stella sulla Walk of Fame! Dopo l'Oscar alla carriera festeggiamo un altro traguardo di cui siamo orgogliosi con l'Istituto Capri nel Mondo e l'Accademia Internazionale Arte Ischia. Viva Lina, viva il cinema italiano!''. E' il giornalista e produttore Pascal Vicedomini, che è stato promotore del riconoscimento presso la Camera di Commercio di Hollywood a rilanciare la notizia appena giunta dagli Usa del nuovo prestigioso tributo alla grande regista italiana che in ottobre riceverà l'Oscar e sarà onorata sull'Hollywood Boulevards con la sua stella insieme ad artisti come Spike Lee, Julia Roberts, Mahershala Ali, Chris Hemsworth, Octavia Spencer e per la musica Elvis Cosello Billy Idol, 50Cent, Alicia Keys. ''Siamo orgogliosi del grande lavoro svolto a Los Angeles dalle nostre associazioni, cosi come avvenne per le assegnazioni delle stelle a Bernando Bertolucci, ad Andrea Bocelli e ad Ennio Morricone. Il nuovo grande tributo a Lina riempie di felicità il cinema italiano e conferma come l'incessante opera di promozione di Los Angeles, Italia, ponte con i festival Capri,Hollywood e Ischia Global fest abbia dato ancora una volta i suoi frutti''.

Silvia Bizio per “la Repubblica” il 28 ottobre 2019. Hollywood si è mobilitata per accogliere Lina Wertmüller, 91 anni, la prima regista donna a venir candidata per un Oscar (per Pasqualino Settebellezze , nel 1977) e a tutt' oggi una delle sole cinque registe candidate alla prestigiosa statuetta (e di queste solo una, Kathryn Bigelow, l' ha vinta nel 2010 per The Hurt Locker ). Sono state scelte proprio Greta Gerwig e Jane Campion per consegnarle l' Oscar alla carriera ieri sera a Los Angeles Insieme alla Wertmüller, anche David Lynch, Geena Davis e Wes Studi hanno ricevuto lo stesso Oscar onorario nel corso di una cerimonia filmata dall'Academy e che verrà mandata in onda, in piccoli spezzoni, durante la serata dell' Oscar il prossimo 9 febbraio. La regista è arrivata a Los Angeles con la figlia Maria Zulina Job (figlia del compianto marito Enrico, il celebre scenografo che la Wertmüller cita sempre e a cui dedica l' Oscar), con il fidanzato della figlia e un nutrito gruppo di amici venuti da Roma. Nei giorni scorsi si sono succedute le celebrazioni in suo onore, compresa la stella sul marciapiede di Hollywood Boulevard. Martha De Laurentiis, vedova di Dino, ha aperto la sua lussuosa villa di Beverly Hills per una colazione in giardino cui sono intervenuti Jodie Foster, Greta Gerwig, Danny Huston, Wes Studi, il grande capo della Netflix Ted Sarandos, Paolo Sorrentino, e l' ex stella del calcio Alessandro Del Piero. «Lina è incredibile, il suo cinema ha aperto le porte su un modo diverso di vedere la vita», dice Martin Scorsese. Wertmüller, vivacissima alla sua veneranda età, stringe le spalle: «Dovete chiederlo a loro perché in America i miei film sono piaciuti tanto e perché hanno tanto affetto per me», dice sorridendo, pur facendo capire che sa benissimo i motivi che hanno reso così popolare la sua sregolatezza e l' irriverenza dei suoi lavori. «Sono contenta di ricevere questo Oscar» ammette la regista fra un fan adorante e l' altro. «Ma non sapevo fossero state solo cinque le donne candidate. D' altra parte quando ho cominciato le donne non pensavano alla carriera, figuriamoci alla regia, non avevano il tipo di ambizione che avevo io, che mi sono rifiutata di piegarmi alle regole borghesi. Le cose stanno cambiando, ma rimane il fatto che per spuntarla, che tu sia donna o uomo, devi fare un bel film. È questa l' unica vera regola. Certo, ci è voluto carattere: è sempre stata una questione di carattere. Anche se dovevo menare le mani sul set per farmi rispettare. A Luciano De Crescenzo ho dato un morso al dito: gli hanno messo tre punti perché continuava a gesticolare!» dice ridendo. Necessario? Le chiediamo. «Utile», è l' immediata, sorridente risposta. E ricorda quella lontana cerimonia degli Oscar nel 1977. «Sarà che un po' non avevo fatto molto caso alla candidatura perché ero a San Francisco a girare Una notte piena di pioggia, ma mi sono divertita. Alla cerimonia avevo scambiato posto con la moglie del critico cinematografico Tullio Kezich, che ci aveva accompagnato, per poter restare dietro a ridere con Giancarlo Giannini, e così ogni volta che veniva citato il mio nome la telecamera inquadrava lei e non ci capivano più niente. Però ero molto emozionata però! Quest' anno, lo confesso, proprio non me l' aspettavo. Me lo hanno comunicato con una telefonata, era l' Academy: ma parlavano inglese, io non capivo e gli ho attaccato il telefono in faccia!».

Arianna Finos per “la Repubblica” il 28 ottobre 2019. «Volevo accompagnarla a Los Angeles, ma sono bloccato dal lavoro. La seguirò da qui», racconta al telefono Giancarlo Giannini, attore feticcio della Wertmüller.

«Avrebbero dovuto darle l' Oscar quarant' anni fa. Sono contento che si siano ricreduti. Meglio tardi che mai. Anche perché gli altri film in lizza nel '77 non erano meglio del nostro Pasqualino Settebellezze, che ebbe quattro candidature».

Fu la prima candidata regista.

«È un genio, s' intendeva di cinema e sapeva fare tutto, l' aiuto di Fellini e gli spettacoli di Garinei e Giovannini e il Gian Burrasca . E sapeva ballare, cantare».

Un pezzetto della statuetta appartiene anche a lei.

«Mi ha inventato Lina. Abbiamo condiviso molta vita, intere nottate trascorse a casa sua a scrivere, leggere, montare. Abbiamo riso tanto, facevamo film per giocare e non per cambiare il mondo, come oggi pensano alcuni giovani. Il cinema non cambia il mondo, racconta favole ai grandi. Io ho avuto una candidatura all' Oscar, non è una targa ma è una grande soddisfazione. Anche perché Pasqualino Settebellezze nacque una mia idea: Pulcinella in un campo di concentramento. Solo un' artista coraggiosa come lei poteva assecondarmi».

A Lina Wertmüller l’Oscar alla carriera. Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 su Corriere.it. L’Academy of Motion Picture Arts & Sciences ha annunciato che tra gli Oscar alla carriera assegnati quest’anno c’è anche la statuetta per la regista italiana Lina Wertmuller. Novant’anni, è stata la prima donna candidata all’Oscar come migliore regista, per il film «Pasqualino Settebellezze» nella cerimonia del 1977. I quattro premiati - oltre alla Wertmuller ci sono David Lynch, Wes Studi e Geena Davis - saranno presentati il 27 ottobre agli 11/i Annual Governors Awards dell’Academy. A proposito del riconoscimento, l’Academy ha commentato: «L’Oscar viene conferito alla regista perché si è distinta in modo straordinario lungo la sua carriera e per il contributo eccezionale dato al cinema».

Mattia Carzaniga per Rivista Studio il 7 giugno 2019. Questo non è un coccodrillo, anche se ne ha tutta l’aria. Quando c’è di mezzo una veneranda signora, è inevitabile cascare dentro il pozzo nero di biografismo e aneddotica, sintesi modello Wikipedia e sommo elogio tardivo. Fortuna la signora è Lina Wertmüller, che per tutta la vita, ancora densa e arzilla anche più delle nostre, tutte queste cose non la ha attirate mai. Fortuna c’è una gioiosa celebrazione di mezzo: la novantenne regista degli insoliti destini e degli amori anarchici riceverà l’Oscar alla carriera 2020, applausi, evviva, urrà! Triste è solo diventata la procedura con cui oggi vengono assegnate le statuette ad honorem. Non più la consegna sul palco del grande show di febbraio/marzo, sempre più accorciato perché nessuno ha più voglia di guardarlo, ma una serata che da dieci anni cade molti mesi prima – quest’anno il 27 ottobre 2019, la dicitura corretta è Annual Governors Awards – dove sono confinate le stelle del secolo scorso, a questo giro anche David Lynch: lui e la Lina, che coppia! Scordiamoci dunque momenti glamour come Sophia Loren premiata alla carriera nel ’91 da Gregory Peck durante la classica diretta televisiva. Hollywood dibatte sull’invecchiamento dei divi (là lo chiamano aging) che non può essere causa di discriminazione: ma, se deve tagliare un blocco dalla più importante delle sue cerimonie, allora sarà proprio quello delle glorie coi capelli bianchi. Chissà se, nella scelta di premiare Wertmüller, ha inciso la fotografia scattata all’ultimo Festival di Cannes prima della proiezione della versione restaurata di Pasqualino Settebellezze. Si vede la regista con, da una parte, Giancarlo Giannini, suo attore-feticcio come si dice tecnicamente, dall’altra Leonardo DiCaprio, che come sponsor tra i giurati dell’Academy ha un peso notevole. Certo è che l’America ha sempre tenuto in gran conto la nostra autrice qui invece bistrattatissima. Di recente rileggevo il primo Tales of the City di Armistad Maupin (tra poco arriva su Netflix l’ultimo adattamento della saga), ritratto di gay e non solo nella San Francisco anni ’70. Uno dei personaggi dice: «Sei un tipo romantico, vero? Ti piacciono i colori caldi, le serate con la nebbia, i film di Lina Wertmüller e le candele profumate al limone da accendere mentre fai l’amore». E un’altra tizia più avanti, a proposito delle feste principesche organizzate in passato: «Non mi sono lamentata quando non m’hai permesso di invitare Truman Capote o Giancarlo Giannini». Il primo romanzo della serie Tales of the City è uscito nel 1978, Pasqualino Settebellezze tre anni prima e ha avuto quattro nomination agli Oscar del ’77, insomma Wertmüller era nel pieno dell’hype, si direbbe oggi. Da noi, invece, era appunto piuttosto maltrattata dalle critiche democristiane e non, pure la sinistra al tempo non l’amava perché ironizzava sulle classi operaie, dal metallurgico Mimì (sempre Giannini con la favolosa Mariangela Melato, 1972) al marinaio villano travolto da un insolito destino cioè quello d’incapricciarsi di una borghese (ancora Giannini e ancora Melato, 1974). In realtà, nell’incedere sempre grottesco dei suoi copioni, Lina dava ai suoi splendidi protagonisti proletari l’occasione di amare, emancipava quei volti e quelle storie dalla dimensione puramente marxista in cui li avevano rinchiusi la letteratura e il cinema intellettuali, li tirava fuori dai cortei davanti alle fabbriche, dal racconto degli umiliati e degli offesi eternamente subordinati ai padroni. Dava loro, anzi, la possibilità di innamorarsi (persino di un padrone!), di scegliere almeno il proprio destino sentimentale, di diventare materia per una commedia dove il gioco delle parti restava lo stesso ma cambiava ogni volta. Figurarsi se il Pci e i suoi recensori avrebbero potuto accettarlo a quel tempo, e difatti Wertmüller regista “di sinistra” non fu considerata mai, e proprio per questo in patria è stata poco celebrata, mai accolta nel clan dei maestri, mai infilata dentro le rassegne del grande cinema del Dopoguerra nonostante film come I basilischi, 1963: incredibile, a riguardarlo oggi, che sia un’opera prima. Lina è frettolosamente diventata «quella dei titoli lunghissimi», almeno quanto il suo nome di battesimo: Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich. C’era poi il tema dell’essere donna, detto senza fregole modaiole di oggi. L’Italia del tempo era non solo bigotta ma pure sessista a destra come a sinistra, e in fondo lo è ancora, e Lina che sfidava i maschi e faceva il suo cinema libero e sfrenato non poteva mica stare simpatica. Lei però non ha mai prestato il fianco al gioco del femminismo usato per convenienza. È stata la prima regista donna candidata all’Oscar, ovviamente per Pasqualino Settebellezze, ma non ha mai utilizzato questo primato per strumentalizzare il suo genere e il suo ruolo. Nel pieno del #MeToo dell’anno scorso, interpellata da Variety e proposito di quella lontana nomination e del dibattito in corso quarant’anni dopo, ha detto: «Era tempo che le storie di donne soggette a molestie, umiliazioni e abusi di potere venissero alla luce. È importante denunciare queste ingiustizie, e sono colpita dal fatto che ci siano voluti così tanti anni perché si trovasse il coraggio di parlare, di fare accuse pubbliche. Quanto al movimento che s’è originato a partire dagli sconcertanti abusi che molte attrici hanno subito, la mia sensazione, devo confessarlo, è che nell’ambiente ci sia sempre stata molta ipocrisia, quell’ipocrisia che ha tenuto queste vicende sotto silenzio per così tanto tempo e che, per reazione contraria, oggi si è trasformata in una caccia alle streghe. Il rischio è un totalitarismo inverso. Sono rimasta sconvolta dall’esplosione di reazioni in Francia contro le tante artiste che hanno firmato la lettera di Catherine Deneuve. Al di là dell’essere d’accordo o meno con quella lettera, la violenza con cui quelle donne sono state attaccate dev’essere motivo di riflessione. Ho scoperto leggendo il giornale che una di loro, Brigitte Sy, s’è trovata con la proiezione del suo film cancellata da un gruppo di femministe. Questo atteggiamento intimidatorio dev’essere considerato esso stesso una forma di violenza, e non è per niente istruttivo nei confronti delle generazioni più giovani». Così parlò l’autrice che, in quella stessa intervista (leggetela tutta), raccontava soprattutto il lavoro, l’essere donna dentro un mestiere di maschi e per giunta una donna anticonvenzionale, testona, un cane sciolto che creava problemi a colleghi ambosessi. Femminista, appunto, non lo è stata mai. L’ha ribadito in un’altra intervista, due anni fa, a Lenny Letter, la newsletter di Lena Dunham e Jenni Konner chiusa di recente: «Non ho mai creduto nel movimento femminista. Le femministe hanno sempre criticato me e i miei film, non hanno amato il ritratto delle donne che ho fatto in Travolti da un insolito destino». E ancora: «Dobbiamo considerarci registi e basta, non registe donne». Nei suoi ultimi anni di lavoro i critici o scribacchini vari – uomini e donne, di sinistra e di destra – hanno tirato un sospiro di sollievo. Non c’era nemmeno più da nascondere il divertimento da spettatori, Wertmüller era tornata a fare la tv, dov’era partita col Giornalino di Gian Burrasca subito dopo I basilischi, e a fare film d’umorismo un po’ spento, certo manierati, sicuramente non memorabili. Tutti uniti e felici di sbertucciarla, come se quel che aveva fatto prima non fosse esistito mai. Sono gli stessi scribacchini che oggi celebrano anzitempo l’award alla carriera: venerata maestra! Non credo che Lina se ne curi. Con le logiche meschine di questo Paese, che lei ha dipinto in modo non comune a nessun altro, non c’entrava ieri, non c’entra nemmeno oggi.

Lina Wertmüller: "Agli Oscar credo poco, preferisco pensare al nuovo film". Maurizio Di Fazio il 03 giugno 2019 su La Repubblica. La regista de "I basilischi" e "Pasqualino Settebellezze", prima donna ad essere candidata all'Academy Award si racconta in occasione dell'uscita del documentario "Dietro gli occhiali bianchi": gli incontri, il cinema, la politica, la società. "Ho sempre avuto una grande simpatia per gli occhiali. Prima ne possedevo di tutti i colori. Poi un giorno, come nelle migliori storie d'amore, ho fatto l'incontro fatale: quello con gli occhiali bianchi. Perché hanno quest'aria come di festa estiva: sono solari, balneari. E così ne ho ordinati 5 mila". Dopo essere stato presentato con successo a Venezia esce, lunedì, nei cinema Dietro gli occhiali bianchi (prodotto da White Glasses Film e Recalcati Multimedia), un documentario sincopato e poetico che racconta l'inimitabile vissuto artistico di Lina Wertmüller. "Ho la fortuna di collaborare con Lina da tanti anni ormai. L'idea è stata mia anche perché lei, come dice sempre, non è mai interessata a se stessa - ci spiega Valerio Ruiz, il giovane regista del film -. Ho cercato di farne un ritratto, in qualche modo, completo, che toccasse l'essenza e il metodo del suo lavoro. Il cinema di Lina non assomiglia a quello di nessun altro". Che donna c'è dietro gli occhiali bianchi? "Una persona estremamente ironica, che sa trasformare il lavoro in gioco. Una donna che è rimasta sempre giovane. Una scugnizza".

Dentro Dietro gli occhiali bianchi scorrono tutti i luoghi, fisici, filmici e dell'anima, di questa vertiginosa regista italiana "di buonumore", amata in tutto il mondo. Dalla spiaggia in Sardegna dove ambientò Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto agli allora "marziani" borghi pugliesi e lucani che fecero da sfondo al suo primo film I basilischi; dalla sua casa romana di Piazza del Popolo alle inedite riprese mute realizzate sul set di 8 e Mezzo di Fellini, che la videro aiuto-regista. E poi il teatro, la televisione con Rita Pavone/Gianburrasca e la primissima Canzonissima, la commedia musicale con Garinei&Giovannini; la sua ironia sferzante, la sua iconoclastia; le ragioni della scelta del grottesco come chiave di lettura del mondo ("altra cosa dalla commedia all'italiana", ha sempre puntualizzato lei); il suo essere stata la prima donna a ricevere una nomination all'Oscar come miglior regista, nel 1975, per Pasqualino settebellezze. "Sappiate che se mi piglia un colpo me ne vado come un commensale sazio" ha scritto in Tutto in ordine e niente a posto, la sua autobiografia del 2012. "Nell'intera storia del cinema, secondo me, ci sono state solo due grandi registe: Leni Riefenstahl e Lina Wertmuller" afferma nel docufilm il critico cinematografico (e non solo) americano John Simon, famigerato per le sue feroci stroncature. Mentre Martin Scorsese punta i riflettori sull'epocale Travolti da un insolito destino..., maldestramente rifatto vent'anni dopo da Guy Ritchie con Madonna al posto di Mariangela Melato e Adriano Giannini invece di suo padre Giancarlo. In Dietro gli occhiali bianchi rendono sincera testimonianza tanti illustri compagni di viaggio della regista dei capolavori dal titolo chilometrico: tra gli altri, Sophia Loren, Harvey Keitel, Raffaele La Capria, Nastassia Kinski.

Lina Wertmüller, la prima regista candidata all'Oscar.

Signora Wertmuller, le è piaciuto questo documentario su di lei?

"Mi è piaciuto, certo".

Suo padre era pugliese e in Puglia lei ambientò parte de "I Basilischi". Il Mezzogiorno d'Italia è poi ricorso spesso nei suoi film. "Il sud è fallito" sostiene oggi Roberto Saviano. Sta di fatto che una buona metà dei "basilischi contemporanei" è senza lavoro...

"É vero, ma è un vecchio problema, ormai cronicizzato. E un po' di cose, in fondo, sono cambiate, l'Italia è cambiata. C'è stato un grande sviluppo dell'andare: il sud è andato al nord, il nord è andato al sud. Questo movimento biunivoco ci ha permesso di conoscerci meglio".

Nei suoi film più conosciuti lei spesso ha messo in scena, apostrofandoli, tic e cliché di due classi sociali che sembrano in via di estinzione: la borghesia e il proletariato.

"I conflitti di classe ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Esiste ancora una borghesia, così come esiste ancora il proletariato. Muta solo il modo di definirli".

Non è mai stata una regista militante e ha sempre menato fendenti sia a destra che a sinistra.  C'è chi le ha giurato inimicizia eterna per essersi rispecchiato in qualche personaggio, magari tra i più grotteschi, del suo cinema?

"Forse c'è stato, ma io non me ne sono accorta".

A quali personaggi dei suoi film è più legata?

 "Non riesco a fare preferenze tra i miei personaggi e le mie pellicole. Sono tutti miei figli".

Lei è una grande anticonformista: vede oggi più conformismo o anticonformismo in giro?

"Domanda difficile. Se restiamo nel campo artistico l'arte, per sua natura, è anticonformistica".

Le piace la televisione italiana contemporanea?

"La guardo. Tante cose si salvano".

Lei ha lavorato ed è stata una grande amica di Federico Fellini.

"Federico era una meraviglia. Una meraviglia, umana e artistica".

Paolo Sorrentino è il nuovo Fellini?

"No, non mi pare. É tutto un altro mondo".

Il cinema nazionale è ancora in grado di raccontare il presente?

"Credo di sì. Il cinema racconta sempre il Paese. O almeno ci prova".

Ha diretto tutti i nostri attori più importanti. Come Sophia Loren.

"Una donna e un'attrice meravigliosa: ringraziamo Dio di averla avuta, e di avercela ancora".

Nino Manfredi, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Stefania Sandrelli. Marcello Mastroianni.

"Sono cresciuta a casa di Marcello, eravamo legatissimi e sua moglie Flora è stata la mia più cara amica. Sa, per ognuno di questi giganti si potrebbero scrivere romanzi. Sono cose di famiglia per me".

Che rapporto ha con Internet, e con le nuove tecnologie? L'anno scorso ha diretto il primo film in 4k della Rai...

"Le uso, e quanto al web osservo molto. Alcune cose le trovo interessanti, altre molto meno".

La condizione della donna è migliorata rispetto a trenta o quarant'anni fa?

 "Certo che è migliorata. É cambiato tutto".

E della nuova generazione politica che mi dice? Le piace Matteo Renzi?

"Mi sembra intelligente, un ragazzo in gamba".

Signora Wertmuller: non pensa  di meritarselo un Oscar alla carriera?

"Nei premi ci credo poco. I premi per me sono tutti i film che riesco a fare".

A cosa sta lavorando adesso?

"Ma sa, io lavoro sempre. Scrivo. Qualche volta quello che metto su carta diventa un film, altre volte no. Però scrivo sempre. La chiave di tutto è il racconto".

Lina Wertmüller: «Nanni Moretti un cafone. Il morso a De Crescenzo? Meritato». Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 da Stefania Ulivi su Corriere.it. A come allegria, la sua parola preferita. Z come Rita la zanzara, grazie a cui incontrò Giancarlo Giannini (faceva il professore di musica della Pavone) destinato a diventare un suo alter ego cinematografico. Il vocabolario di Lina Wertmüller, 90 anni compiuti in agosto, è un mondo popoloso e appassionante. Lei che con le parole ci ha sempre giocato (sceneggiatrice, autrice per il teatro, scrittrice, paroliera) inventandosi quei titoli chilometrici fonte di gioia e disperazione per pubblico e critica. Il 22 maggio sarà a Cannes, per l’omaggio che il festival le riserva con la versione restaurata dalla Csc-Cineteca nazionale di Pasqualino Settebellezze. «Di premi e festeggiamenti non me ne frega molto, preferisco mi dicano che sono simpatica. Ma certo questo omaggio di Cannes mi rende felice», commenta dal salotto della sua casa, a un passo da Piazza del Popolo. Su una parete il ritratto in bianco e nero, magnifico, di suo marito Enrico Job («un uomo straordinario che mi ha reso molto felice: intelligente, bello, spiritoso. Per lui scrissi Mi sei scoppiato dentro al cuore che cantò Mina»). Risate, sigarette, curiosità, tenerezze verso la figlia Maria che l’accompagnerà a Cannes («Sono io che insisto») e Valerio Ruiz, autore del doc Dietro gli occhiali bianchi, da sempre il suo marchio. 

Ci sarà Giannini? 

«Lo spero. Un amico, abbiamo vissuto vite insieme». 

«Pasqualino Settebellezze» mostra il lato grottesco del nazismo, con quel personaggio della kapò. 

«Un incrocio tra Buddha e Winston Churchill. Scelsi un’attrice, Shirley Stoler, che vidi in un film, I killer della luna di miele. Andai a New York a cercarla, in teatrino off Broadway. Il grottesco aiuta a guardare anche le cose più atroci. Deformando la realtà è più facile farmi capire». 

Fu candidato agli Oscar, regia compresa, la prima volta di una donna.

«Merito di un critico cattivissimo, John Simon del New York Magazine, che già aveva apprezzato Storia d’amore e d’anarchia. Venne a Roma a incontrami e scrisse un articolo molto bello. Poi alla prima di New York mi chiesero di fare un discorso ma parlavo male l’inglese. Avevo una bella cintura fatta con un calamaio, chiesi come si dicesse cintura. “Do you like my belt?” esordii. Venne giù la sala». 

Con i produttori di Hollywood andò peggio, vero? 

«All’inizio tutti mi volevano, feci un contratto con la Warner Bros per quattro film. Il primo, Fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia con Giannini e Candice Bergen non andò bene. Mi cercò il proprietario di Penthouse per propormi il Caligola scritto da Gore Vidal, che poi fece, male, Tinto Brass. Rifiutai. All’inizio mi sentivo eroica, poi in taxi mi vennero le lacrime agli occhi. Che cretina, rinunciare a tutti quei soldi».

Rimpianti? 

«Nessuno. Meglio l’Italia dell’America. Non c’è gara».

C’è Agnès Varda sul manifesto di Cannes 72. Lei è stata tra le pioniere anche lì, in concorso nel ‘73 con «Film d’amore e d’anarchia» per cui Giannini fu premiato. «Noi ragazze eh... Sul set bisogna avere la forza di imporsi. Dirigere vuol dire tenere in mano le fila di tutto». 

È una leggenda che menasse? 

«Vero, vero. De Crescenzo era uno di quelli che recitavano con il dito. Lo avvisai: guarda che te lo mozzico. Poi con una certa volgarità gli dissi: sai dove te lo dovresti mettere? Niente. E lo morsi». 

Cambiato idea su Moretti? 

«No. Fu cafone. Mi aveva preso in giro in Io sono un autarchico. Quando lo incontrai a Berlino, sul red carpet, mi avvicinai per stringergli la mano e riderci su. Lui se ne andò. E allora gli dissi: A Moretti, ma vaffa... Perché con il ma davanti vale di più». 

Fellini e i musicarelli. Canzonissima di cui fu autrice e le regie liriche. «I Basilischi» e «Giamburrasca». Le sceneggiature per Zeffirelli e per Sollima. Tutto si tiene con lei.

«Libertà assoluta, non credo nei generi. La gioia di vivere è la cosa più importante. Le regole? Vanno tradite. Però c’è una cosa che non sa di me». 

Cosa? 

«Sono stata campionessa romana di boogie woogie, in coppia con Sergio Corbucci. Ballavo molto bene, mi divertivo. Lei balla?».

A volte. Niente gare però. 

«Mai dire mai».

·         Giancarlo Giannini.

Giancarlo Giannini: «La regista Wertmüller sa far recitare anche le pietre». Pubblicato domenica, 09 giugno 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. «Ho imparato a dormire anche solo venti minuti per notte, perché più stai sveglio, più vivi. Quando giravo Film d’amore e d’anarchia di Lina Wertmüller, Tunin il contadino richiedeva otto ore di trucco e non mi restava tempo per il sonno. Al che, pur non essendo un figlio dei fiori, provai una tecnica yoga usata dai cammellieri del deserto: fai meditazione facendo partire il rilassamento dai piedi e, quando arrivi alle ginocchia, già cadi in un sonno profondo, ti svegli subito e sei riposatissimo. Purtroppo, con l’età, funziona meno».

Che cos’ha da fare, di notte, Giancarlo Giannini?

«Certi copioni è meglio non studiarli di giorno, se no, moglie e figli ti prendono per matto. Per esempio: Il male oscuro di Mario Monicelli non sapevo come farlo. Mi chiedevo: come si fa vedere la sofferenza interiore?».

Che si rispose?

«Che dovevo creare un personaggio disarmonico. Perciò, m’ispirai a tanti animali quante erano le scene, 104: cavalluccio marino, mammut, scimmia... Mi misi a provare. Però, dici la battuta ruggendo come un leone e senti che non la capisce nessuno, allora, la rifai e la rifai e, piano piano, rendi il leone umano e poi gli dai una tensione che forse lo lega alla scena precedente in cui facevi l’asino. Per cui, il pubblico sente l’inconscio dissociato di uno che soffre e ha ora le tensioni del leone, ora la morbidezza del serpente. Le prove puoi farle solo di notte, se no, arriva l’ambulanza». L’Oscar alla carriera che Lina Wertmüller ritirerà il 23 febbraio prossimo lo deve anche a Giannini, protagonista di otto suoi film, fra cui Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto e Pasqualino Settebellezze, già candidato nel ’77 a quattro Oscar, di cui uno per il miglior attore. Lui, classe 1942, spezzino di nascita, diplomato perito elettronico a Napoli al seguito di un papà che di mestiere posava cavi sottomarini, finito per caso all’Accademia d’arte drammatica di Roma pensando di partecipare a una selezione per l’Accademia militare, si era affermato con un Romeo e Giulietta diretto da Franco Zeffirelli. «Una sera, uscendo dal teatro, Lina mi fece letteralmente prelevare dal suo produttore, mi trovai sul set di un musicarello con Rita Pavone», ricorda adesso Giannini. Dopo, ha girato più di cento film, con Scola, Monicelli, Risi, con mostri di Hollywood come Francis Ford Coppola e Ridley Scott. Negli anni ’70, ha incarnato l’immagine del sottoproletario in film come Mimì Metallurgico ferito nell’onore, poi ha fatto di tutto, ha recitato accanto a Antony Hopkins in Hannibal e a Daniel Craig in due James Bond. È stato un sex symbol, si è sposato due volte. Dalla prima moglie, ha avuto Adriano, che ha girato con Madonna il remake di Travolti da un insolito destino, e Lorenzo, che è mancato a 19 anni, per un aneurisma. Con la seconda moglie, Eurilla del Bono, sposata nell’83, ha due figli, Emanuele e Francesco, entrambi musicisti. Ora è in tournée per teatri, su Sky Atlantic è nella serie Catch-22 di George Clooney. «Bravissimo regista», dice, «perché non chiede nulla. Mi ha messo sul set e ha detto: fammi vedere che fai. Quelli bravi sperano che puoi fare qualcosa che neanche si aspettano. Così era Luchino Visconti, così è Ridley Scott».

Serve sempre il ruggito del leone per entrare nei personaggi?

«Devi innanzitutto divertirti. Per il resto, basta fingere, usare la fantasia. Rispetto il metodo Stanislavskij, ma non certe declinazioni violente, quelle per cui ti devi immedesimare e per fare il malato terminale stai sei mesi in ospedale tra i moribondi, poi però non sai più uscire dal personaggio. Io finisco un film e già voglio farne un altro. La volta in cui mi sono divertito di più è stato in Sessomatto di Dino Risi: dieci personaggi in un solo film. Io sul set mi diverto come un bambino che si mette il vestito di Zorro ed è Zorro. Agli studenti del Centro Sperimentale, insegno non a dire la battuta, ma insegno la gioia di vivere».

E che cos’è la gioia di vivere?

«Conservare il fanciullino infantile. Se no, come fai a raccontare, a giocare? Gli attori che s’immedesimano troppo cadono depressi, bevono, si drogano. Ecco, torniamo indietro». 

Perché fece piangere Keanu Reeves?

«Giravamo Il profumo del mosto selvatico, Alfonso Arau voleva che provassimo un’immedesimazione, dissi: guarda che sono cose pericolose per la mente. Niente. Dovevo insultare Keanu, facevo il padre di una ragazza che non volevo sposasse, e lui, immedesimandosi, si è messo a piangere, è scappato e non s’è più trovato. Dissi ad Arau: hai visto? Oggi non giriamo, pensa quanto costa alla produzione».

Keanu ricomparve dopo un’ora, due?

«No, no. Il giorno dopo». 

Cos’è per lei un attore?

«Lo chiesi a uno grandissimo, il francese Jean-Louis Barrault. E lui: è colui che col movimento incide lo spazio del palco e con la voce incide il silenzio. Che cosa meravigliosa... Per me, l’attore è uno che vuole comunicare. Io entro in un bar, vedo la vecchietta seduta, le chiedo com’è il caffè. Lei magari mi guarda male, pensa che voglio portarle via la borsetta, poi mi racconta la sua vita. Sorride. Fare l’attore è far sorridere, è “quel momento”».

Lei quanto sorride?

«Tanto. La vita è un mistero che qualcuno ha detto “non lo penetrare, non arriverai mai alla conoscenza”, ma io ogni giorno penetro piccoli misteri che mi appagano, come il mistero semplice di uno spaghetto buono».

Semplice non era la sua spiegazione della pasta al pesto: 30 pagine nella sua autobiografia «Sono ancora un bambino».

«Far bene il pesto significa partire da come nasce il seme del basilico, iniziando dalla storia delle scalinate costruite in Liguria su terre a picco sul mare. Se fai l’attore, devi andare al fondo di tutto, devi capire il perché della tua espressività, quindi, devi essere curioso, non ti devi perdere nulla anche se parli di basilico».

La formazione da elettrotecnico c’entra con la voglia di capire?

«C’entra molto con la recitazione, che è giocare con quello che non c’è. Come fai a sapere cosa succede dentro un filo di rame, a migliaia di circuiti piccoli, a un chip? Lo devi immaginare. Allo stesso modo, quando ti danno un personaggio, cosa fai? Lo devi inventare. Scena uno, due, tre... Io adopero l’elettronica per fare diagrammi del personaggio».

Che genere di diagrammi?

«Faccio il suo elettrocardiogramma, segno i battiti del suo cuore, mi chiedo che ritmo ha quando fa scena uno, due, tre... Poi, lo guardo e penso: posso movimentarlo di più, cambio il ritmo da andante ad allegro a severo, come per la musica. Per adoperare la fantasia, devi essere coraggioso. Significa incontrare qualcosa in cui puoi sbagliare. Agli studenti, dico: ragazzi, sbagliate, se non è errore, è una scoperta».

Com’è essere diretti da Lina?

«Ha l’energia di cinque registi uomini messi insieme. E riesce a parlare in modo diverso a ogni attore, capendone la psicologia. Perciò sa far recitare le pietre. In Mimì metallurgico, aveva scovato una cantante napoletana analfabeta, bravissima, le insegnavo io le battute, perché non sapeva leggere. Io e Lina abbiamo costruito insieme i miei personaggi, Mimì nacque da un trattamento che le avevano rifiutato in tanti. Mi chiamò dopo avermi visto in Dramma della gelosia di Ettore Scola, voleva un proletario come quello, e ci mettemmo a lavorare cercando quel vecchio soggetto fra i faldoni, i copioni, affastellati in tutta la casa». 

Affiancandola a Mariangela Melato, lanciò una coppia di sex symbol.

«Mariangela aveva grazia, era simpatica, ed è facile recitare con chi viene dal teatro».

Se non prova copioni, che altro fa di notte?

«Invenzioni. Ho inventato di tutto... Un portachiavi che risponde ai comandi vocali, guanti per la realtà aumentata, un giubbotto interattivo finito in Toys di Barry Levinson. Robin Williams mi chiamava di continuo per sapere come farlo suonare o vibrare. Se lo voleva tenere, non gliel’ho dato».

Che posto ha avuto l’amore nella sua vita?

«Le donne mi sono sempre piaciute, da quando m’innamorai la prima volta, non ricambiato, a sette anni. Ora, porto in teatro Le Parole note, dove con un accompagnamento musicale recito poesie sulle donne dal Duecento a oggi, dal “tanto gentile tanto onesta pare” ai versi più carnali di Pablo Neruda, “corpo di donna, bianche colline, cosce bianche”».

E lei con le donne è dantesco o nerudiano?

«Metto insieme tutto, la donna è talmente complicata che non puoi semplificarla».

Che marito è stato?

«Che viaggiava tanto. Però, quando ho potuto, sono stato vicino ai figli. Quando mi sono separato, il sabato e la domenica, li caricavo in auto, lanciavamo una monetina in aria per decidere se andare a Nord o a Sud. Ci fermavamo nel verde, facevamo foto, filmini, acquerelli, entravamo in un ristorante, davamo i voti ai piatti. Questi sono i piaceri della vita».

Com’è stato perdere un figlio ventenne?

«Terribile. L’unica cosa che ricordo era che guardavo il resto della famiglia e mi dicevo: se credi in Dio, devi aiutare loro».

E lei crede in Dio?

«La fede mi è entrata dentro intorno ai 30 anni, come un mistero, un piedistallo per affrontare tutte le cose della vita. Vittorio Gassman, quand’era depresso, mi chiedeva sempre com’era entrata e non glielo sapevo spiegare. E lui: sono geloso perché hai questo piedistallo, ne vorrei uno pure io, anche piccolino».

A che cosa pensa, la notte, quando finalmente spegne la luce?

«A quello che non c’è. Penso sempre che una stella, morta milioni di anni fa, ancora manda la sua luce, che viaggia a 300 mila chilometri al secondo. E penso al mio corpo sdraiato al centro del letto mentre, dal centro Terra, parte una forza, che è la gravità, e che è gratis. Mi dico: a saperla sfruttare, potrebbe essere una nuova forma di comunicazione».

·         Franco Zeffirelli teme la morte.

Franco Zeffirelli: «Temo la morte, prego molto. Ricordo la sera con Magnani e Callas». Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Emilia Costantini su Corriere.it. «Ho paura di morire. Sono credente e prego molto, ma quando in giardino mi guardo intorno, dico ai miei figli: pensate, prima o poi non potrò più godere di questa meraviglia, non vedrò più questa bellezza». Franco Zeffirelli, che firma un nuovo allestimento della Traviata (dal 21 giugno all’Arena di Verona) è sofferente nel corpo, ma sereno nell’animo e accoglie con gioia il premio che la presidente Casellati gli consegna oggi in Senato, nell’ambito del ciclo di eventi Senato&Cultura, «per aver saputo creare e trasporre mirabilmente sui palcoscenici più importanti del mondo e sul grande schermo le atmosfere, lo spirito e le emozioni del teatro e dell’opera lirica, rappresentando l’idea autentica della bellezza, contribuendo a diffondere il genio e l’eccellenza italiana nel mondo». 

Che effetto le fa?

«I premi sono un riconoscimento all’impegno di tutta una vita di lavoro, non possono che far piacere. Nel mio percorso ho avuto la fortuna di incontrare straordinari artisti, che mi hanno sostenuto nella creatività».

Tra i tanti personaggi, il ricordo più divertito? 

«È quello di Anna Magnani e Maria Callas: due Divine con caratteri difficili. Anna aveva voglia di vedermi e sarebbe venuta da me a cena, purché le garantissi che saremmo stati soli, per poter parlare tranquillamente. Glielo promisi, però poco dopo mi telefona Maria, bisognosa di consigli, quindi la invitai a cena. Solo dopo aver riattaccato il telefono mi ricordai di aver fatto la stessa proposta ad Anna. Presagivo una serata d’inferno: io, solo, con due primedonne che non sapevano della presenza l’una dell’altra». 

Come andò a finire? 

«Arrivò per prima la Magnani, di pessimo umore, e quando l’avvisai che ci avrebbe raggiunto la Callas, andò su tutte le furie. Suona il campanello, vado a ricevere la cantante che, al contrario, accolse con piacere la notizia di condividere la cena con l’attrice, esclamando entusiasta come una ragazzina: “Grazie! Lei Anna è una grande artista, io solo una poveretta che cerca di fare il suo meglio”». 

E l’Anna furiosa? 

«Si placò in un attimo, colta in contropiede dalla dichiarazione entusiastica. Cominciò un amabile minuetto tra le due tigri, facevano a gara per apparire la più modesta. Ma c’era un altro da problema da risolvere, il posto a tavola: chi delle due avrebbe dovuto sedersi alla mia destra? Aspettai che Anna andasse a incipriarsi il naso e dissi a Maria: “Senti cara, l’attrice che ammiri è più anziana di te, dovrò mettere lei alla mia destra”. “Devi!”, replicò convinta». 

Figuriamoci se Magnani avesse sospettato questo retroscena.

«Per carità! Sentirsi definire la più anziana, una catastrofe. La serata proseguì benissimo: loro due chiacchieravano fitto, ignorandomi e non permettendomi nemmeno di intervenire. Mi arresi: avevo il privilegio di assistere all’incontro fra due tigri di razza, d’amore e d’accordo». 

Zeffirelli o Zeffiretti, come avrebbe dovuto chiamarsi se l’impiegato dell’anagrafe non avesse commesso uno sbaglio di trascrizione? 

«Sarebbe stato più adatto alla mia carriera Zeffiretti, dalla celebre aria mozartiana, cognome scelto da mia madre, preveggente, che amava Mozart. Ma Zeffirelli mi ha portato fortuna». 

Ennio Flaiano, stroncando i suoi spettacoli, la ribattezzò Scespirelli. Perché ce l’aveva tanto con lei? 

«Non ricordo le sue stroncature, so solo che poi diventammo molto amici. Tutto ciò che ho fatto, stroncature o no, è il risultato di scelte personali. Io stesso ho criticato liberamente tutto e tutti, manifestando le mie idee e, a volte, pagandone le conseguenze». 

Per esempio?

«Mi è mancato l’appoggio della critica italiana, che non mi ha mai sostenuto. Anche oggi non vengo mai nominato, in Italia è come se non fossi esistito».

Gli anni che passano sono un peso che si aggiunge alla fatica di vivere? 

«La vecchiaia è un grosso fardello, ma cerco ancora di sfornare idee da realizzare nel mio, molto imminente, futuro e ciò mi tiene occupato mentalmente. Gli unici rimpianti che ho sono due progetti rimasti nel cassetto: un film sull’Inferno di Dante, difficile da realizzare perché pieno di effetti speciali economicamente insostenibili, e un grande affresco sulla vita e le opere dei Medici: la bellezza, appunto, di cui un giorno non potrò più godere».

·         Guai, amori e Oscar di Vittorio Cecchi Gori.

Vittorio Cecchi Gori ricoverato d’urgenza in ospedale per una peritonite. Arrivato al policninico Gemelli a Roma con forti dolori all'addome, il produttore cinematografico è stato ricoverato per un'appendicite acuta. Roberta Damiata, Domenica 29/09/2019 su Il Giornale. Convinto telefonicamente dall'ex moglie Rita Rusic, attualmente a Miami Il produttore Vittorio Cecchi Gori e’ stato oggi pomeriggio ricoverato al pronto soccorso in codice rosso al Policlinico Gemelli per dei forti dolori all’addome. Accompagnato dal figlio Mario, Il noto produttore cinematografico è attualmente in sala operatoria per una peritonite. Ad assistere all operazione anche il professor Francesco Landi che lo aveva tenuto in cura nel suo reparto di geriatria due anni fa sempre al Gemelli. Dopo l'intervento sarà poi portato in terapia intensiva. La ex moglie Rita Rusic attualmente a Miami è in stretto contatto con il figlio ed i medici del Gemelli. Proprio ieri la notizia della condanna del tribunale civile di Firenze a risarcire per 19 milioni di euro di danni nell’ambito della causa per responsabilità nell’amministrazione della vecchia società. A darne notizia è l’ufficio stampa della famiglia Cecchi Gori, Angelo Perrone. Vittorio, il 26 ottobre è atteso al Festival del Cinema di Roma, per presentare il docu-film "Cecchi Gori - di Vizi e di Virtù" che racconta la storia della vita della famiglia Cecchi Gori con le testimonianze di Carlo Verdone, Roberto Benigni, Leonardo Pieraccioni, Giuseppe Tornatore e Marco Risi.

Vittorio Cecchi Gori operato d’urgenza a Roma, sta bene. Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 su Corriere.it da Clarida Salvatori. L’intervento al policlinico Gemelli per una appendicite acuta. Dal primo bollettino medico l’intervento è pienamente riuscito. Vittorio Cecchi Gori è stato operato d’urgenza nella notte, al policlinico Gemelli di Roma. La causa dell’intervento è una appendicite acuta con peritonite. Arrivato in ambulanza e visitato in pronto soccorso, è stato «operato d’urgenza di appendicectomia laparoscopica dall’équipe del professor Sergio Alfieri, direttore della Uoc di chirurgia digestiva mini invasiva». Da un primo bollettino medico, diffuso dalla struttura ospedaliera, si sa che «è andato tutto bene e al momento le condizioni del paziente sono stabili e il trend in miglioramento lascia prevedere una rapida dimissione dalla terapia intensiva post chirurgica». Solo un anno e mezzo fa si era temuto per le condizioni di salute del produttore cinematografico (che in passato aveva avuto guai giudiziari: l’arresto per bancarotta dopo il fallimento del gruppo Finmavi e il coinvolgimento in un’indagine per droga). Era la vigilia di Natale quando venne trasportato in emergenza in ospedale, sempre al policlinico Gemelli, per un’ischemia cerebrale e complicazioni cardiache. Rimase per quasi due mesi in terapia intensiva. Oltre 70 giorni di ricovero in tutto. Non si sapeva se il suo corpo, allora aveva 75 anni, avrebbe reagito e superato quello scompenso. E invece ne uscì: «È stato un brutto colpo - aveva raccontato durante la convalescenza - ma sono stato fortunato». Al suo fianco ci sono sempre stati l’ex moglie Rita Rusic e il loro figlio.

 (ANSA il 28 settembre 2019) - A 17 anni dal crac della sua Fiorentina, Vittorio Cecchi Gori è stato condannato a un maxi risarcimento come unico responsabile del dissesto finanziario che portò al fallimento della società viola. Il tribunale civile di Firenze ha condannato l'ex patron a pagare oltre 19 milioni di euro di danni nell'ambito della causa per responsabilità nell'amministrazione della vecchia società, promossa dalla curatela fallimentare. Cecchi Gori, già condannato in sede penale, per gli stessi fatti, a 3 anni e 4 mesi per bancarotta, è stato anche condannato a pagare le spese processuali verso la curatela, quantificate in 113 mila euro. Il tribunale ha invece rigettato la richiesta di danni verso gli altri consiglieri e amministratori, tra cui Luciano Luna, Mario Sconcerti, Zerunian Sarkis, Ottavio Bianchi, Marco Vichi, Sergio Bartolelli, gli eredi di Ugo Poggi e verso i componenti del collegio sindacale. Nei loro confronti la stessa curatela dovrà rifondere le spese di lite, per un totale di oltre 700mila euro. Il declino economico della Fiorentina, come ricostruito dagli stessi giudici nella sentenza, iniziò nel settembre del 1998, quando la società cedette alla Merril Lynch tutti i futuri proventi che avrebbe potuto ricavare fino al 2010 da abbonamenti, biglietti al botteghino e diritti televisivi, ottenendo in cambio un finanziamento di 67 miliardi e 500 milioni delle vecchie lire. Denaro che però invece di finire nella casse del club venne dirottato per ripianare i conti di altre società del gruppo Cecchi Gori. Stessa sorte ebbero i 70 miliardi anticipati nel 1999/2000 dalla Faber Factor e i 27 miliari che erano stati incassati dalla Fiorentina dalla rescissione del contratto col calciatore Edmundo. A causa di queste operazioni, il club si indebitò per un totale di 155 miliari di lire. Le società del gruppo Cecchi Gori che beneficiarono dei finanziamenti infatti, la Fin.Mavi spa e la Regal srl, non restituirono mai le somme stornate. A questo seguì "un periodo di progressivo indebitamento della società", scrivono i giudici nella sentenza, che provocò anche il mancato versamento all'Erario delle trattenute Irpef e dell'Iva, arrivando a un debito complessivo di 180 miliardi di lire. Alla fine del luglio del 2002 il dissesto finanziario era tale che impedì l'iscrizione al campionato di serie B, determinando la perdita del titolo sportivo e lo svincolamento dei giocatori tesserati. Nel settembre del 2002 il tribunale di Firenze dichiarò il fallimento dell'A.C. Fiorentina spa.

Vittorio Cecchi Gori vince la causa contro Martin Scorsese: "Ora ritorno agli Oscar". Si è conclusa a favore di Vittorio Cecchi Gori, la causa contro Martin Scorsese per i crediti del film "The Irishman" ed è proprio il produttore italiano che ci spiega come sono andate le cose. Roberta Damiata, Domenica 22/12/2019 su Il Giornale. Vittorio Cecchi Gori ha vinto la battaglia contro Martin Scorsese. Un giudice della California gli ha infatti dato ragione contro il regista e sceneggiatore americano in una vicenda che affonda le sue radici molto lontano, ma che vede l’apice per una questione di diritti sul film “Irishman”. In questa intricata vicenda, non è però il regista l’unico a farne le spese.

È arrivata la sentenza con la sua piena vittoria, ci racconta come sono andate le cose?

“Questa storia va un po’ in là nel tempo. Quando ero in America avevo fatto un contratto con Martin Scorsese per il film “Silence”, avendo io i diritti del libro. Lui voleva farne il film, ci teneva molto, così ci siamo accordati. Questa operazione ci ha portato anche a fare amicizia, anche grazie alla mia società americana che ha iniziato ad appoggiare le sue produzioni”.

Lei divenne quindi uno dei produttori dei suoi film?

“All’inizio solo con 'Silence', la cui produzione venne però spostata per fare il 'Departed' il film con Leonardo DiCaprio, Jack Nicholson e Matt Damon. Un bellissimo film tra l’altro, con cui collaborando entrai come produttore, come nel successivo 'Shutter Island' anche questo con DiCaprio e Mark Ruffalo. Finalmente poi si stava per cominciare 'Silence', ma all’ultimo momento Scorsese decise di fare 'Wolf of Wall Street'. Per questa pellicola mi disse: 'Vittorio tu su questo film non hai partecipato, quindi non posso metterti come produttore'. Ed aveva ragione, però, noi avevamo i contratti fatti per "Silence" ed era già passato del tempo e come società stavamo perdendo dei soldi”.

Quindi cosa successe?

“Alla mia richiesta lui mi disse: "Ok Vittorio spostiamo "Silence" , perché io voglio fare "Wolf of Wall Street", e magari poi mi aiuti anche in "The Irishman"". Firmammo i contratti. All’inizio della lavorazione di "The Irishman", però, io stavo sempre di più in Italia, e questo è stato il problema di fondo. Avevo sì partecipato ad alcune riunioni con De Niro con cui avevo fatto anche diversi film come ‘Jackie Brown’ che avevo interamente prodotto, e anche con Joe Pesci avevo lavorato e quindi diciamo che ero "nel giro", ma prevalentemente ero qui in Italia anche perché poi non sono stato bene”.

Per “The Irishman” quindi?

“Come dicevo, mi sentii molto male, tanto da non poter tornare in America, per questo avevo incaricato di seguire questa vicenda un avvocato, e per stare ulteriormente sicuro anche ad un’altra persona che conoscevo di lingua americana che aveva anche conoscenze legali. Venni poi ricoverato in gravi condizioni per un problema cerebrovascolari in seguito ad un’ischemia cerebrale. Il film quindi fu realizzato ma io avevo partecipato solo alla prima parte”.

Però in America lei aveva questi due rappresentati "legali" che facevano le sue veci...

“Non fu proprio così ed è proprio questo il centro del problema. Intanto, facendo una divagazione, dietro questo film c’è anche una storia di produzione, perché ‘Silence’ era stato preso dalla Paramount e anche ‘Irishman’ doveva essere preso da quella, però il film era costoso, soprattutto nella parte del "ringiovanimento" dei due attori, che necessitava una lavorazione molto particolare che ha fatto lievitare i costi, per questo all’ultimo momento lo ha preso Netflix. Ricordo che dissi: "Non ci sarà il problema dell’uscita ai cinema?" essendo Netflix un circuito televisivo”.

Poi cosa successe?

“Io non seppi più niente, ma "sentivo" che c’era qualcosa che non mi quadrava. Intanto perché dovevo incontrare Scorsese alla ‘Festa del cinema’ di Roma e non successe, cosa molto strana perché con lui avevo sempre avuto ottimi rapporti. Devo dire un po’ meno con l’entourage, con i suoi avvocati, che hanno sempre fatto molta confusione e anche in passato mi avevano creato un altro problema. Però pensavo che al massimo non mi avessero messo come produttore del film, almeno della prima parte come era negli accordi”.

Infatti è stato così, lei non era presente tra i produttori...

“Non solo questo, quando il 27 novembre uscì il film io andai subito a vederlo per cercare di capire cosa fosse successo, e il mio nome non c’era effettivamente, al suo posto era stato messo quello del traduttore legale che avevo incaricato di controllare i credit quando io ero in Italia perché stavo male”.

Si era sostituito a lei? Ha preso il suo posto nei crediti quando invece era stato incaricato di controllare i suoi interessi?

“Esatto, una cosa pazzesca, lui tra l’altro non aveva mai prodotto un film, non c’entrava nulla, quindi per quale ragione doveva fare una cosa del genere? Per fortuna, questi due che avevo incaricato, li avevo già denunciati tempo prima per un’altra questione e stava per uscire la sentenza in California. Io ho fatto in tempo per fortuna a fare un’esposto immediato al giudice che stava deliberando contro di loro e questa cosa è andata per direttissima”.

E il giudice?

“Non soltanto li ha incriminati per i reati precedenti, ma anche per sostituzione di persona, per crediti del film "The Irishman", intimandoli di rimettere il mio nome tra i produttori come prima cosa, e a stabilire poi i danni che questa omissione ha comportato. Tra l’altro il film è molto bello, forse un po’ lungo ma bellissimo, e adesso ha preso cinque candidature ai "Golden Globe", e visto che io faccio parte dell’Academy so bene che questo vuol dire che avrà anche delle nomination agli Oscar”.

Scorsese in tutto questo?

“Io sono sicuro che lui è una persona per bene, ma è contornato da tanta gente. Certo, la truffa di questi due va a coinvolgere a ‘pioggia’ sia la società di Scorsese, e perfino Netflix in teoria, anche se non ha una responsabilità oggettiva perché non c’è stata una volontà da parte loro di escludermi, anche perché in America io sono molto conosciuto”.

Non si è fatto un'idea del perché di tutto questo?

“Io credo, ma questa ovviamente è una mia supposizione, che quando ero in ospedale in Italia, visto che ci sono rimasto due mesi, questi due che ho poi denunciato, sono venuti all’inizio a trovarmi e fecero una battuta che nelle mie condizioni di salute non ho sentito ma mi è stata riferita: "Certo che Vittorio, è molto più utile da morto che da vivo". Visto che si pensava che morissi, secondo me questi si sono sostituiti pensando che io non ce l’avrei fatta”.

Scorsese non lo ha più sentito dopo questa vicenda?

“No, perché purtroppo per quelle cose, nonostante ci siano mille modi per comunicare, bisogna stare in America, e se io ero lì questa cosa non sarebbe successa. Ora comunque le cose si rimetteranno a posto e io di sicuro mi sentirò con lui, di questo sono sicuro, e speriamo proprio che questo sia un film che prenderà l’Oscar anche se c’è questa diatriba su Netflix sul fatto che possa prendere o meno l’Oscar”.

Può spiegarcela?

“Il problema di Netflix è che va diretto in televisione e salta le sale cinematografiche. Le regole dell’Oscar dicono che un film deve uscire nelle sale. Ultimamente hanno fatto delle correzioni su questa regola, così Netflix per una settimana o due fa uscire il film nelle sale e poi lo passa in tv, ma nonostante questo c’è sempre questa discussione se possa riceverlo o meno”.

Riprenderà a fare cinema?

“Sì, io stavo già lavorando ad altri progetti sia in America che qualcosa anche in Italia. Quella che è successa è una cosa che mi giova molto, dico la verità, e io a febbraio potrei anche andare agli Oscar. Ci sono già stato con "l’Ultimo Imperatore", per il "Postino", "La vita è bella", e con quest’ultimo l’ho anche vinto. Questa volta se accadesse non rinuncio, stavolta partecipo”.

Augurandole che le cose vadano per il verso giusto, un’ultima domanda: cosa farà a Natale?

“Come tutte le persone che vivono da sole, un pochino di tristezza c’è. Comunque in Italia c’è Rita (Rusic ex moglie ndr), e anche mio figlio Mario, quindi io vedrò loro, perché la famiglia a Natale è proprio importante”.

 I DOLORI DI CECCHI GORI. Anticipazione Stampa da “Vanity Fair” il 4 settembre 2019. «Non so se in Italia esista qualcuno che sia stato più truffato di me». Così, in un’intervista a Vanity Fair, Vittorio Cecchi Gori riassume per il vicedirettore Malcom Pagani il fallimento della sua avventura cinematografico-calcistica, raccontata anche in un docufilm (Cecchi Gori - Una famiglia italiana, di Simone Isola e Marco Spagnoli) che verrà presentato in ottobre alla Festa del Cinema di Roma. «Mi hanno messo di mezzo, si sono inventati a tavolino il mio fallimento, hanno preso a pretesto una distrazione, una cazzata minore, per mandarmi all’aria. [Una distrazione di fondi è una cazzata] se parametrata a un gruppo enorme, che valeva una fortuna e dava lavoro a migliaia di persone. Poteva essere punita, come un debito da tre milioni per i quali me ne pignorarono centinaia, senza distruggere la Fiorentina, la Finmavi, la mia reputazione. Spero che il mio caso serva a rivedere l’intera legislazione sui fallimenti. Così com’è favorisce soltanto i predatori, gli approfittatori, gli avvoltoi. Verdone è tra i pochissimi a essermi rimasto vicino. Ho aiutato tanta gente e tanta gente mi ha abbandonato. La mia storia è stata raccontata male. A iniziare dai giornali, a cui ridere di me è sempre piaciuto. Il resto l’hanno fatto il sensazionalismo e la seconda religione nazionale: l’invidia. C’è chi mi ha ferito e se il destino vuole avrà quello che si merita, ma non vivo augurandomi il male di nessuno. Ho una carriera che resta un patrimonio nazionale e aspetto ancora giustizia con fiducia. C’è un ricorso al Consiglio di Stato che per il “furto” delle tv, a fine anno, potrebbe farmi riavere 900 milioni di euro. Altri 400 pendono dal furto della Fiorentina. E ad avere la forza, potrei intraprendere molte altre cause. Ma ho 77 anni...». Nell’intervista a Vanity Fair, l’ex produttore più importante del cinema italiano (un Oscar per La vita è bella dopo la nomination per Il postino) ammette per la prima volta che la sostanza trovata dai poliziotti nella sua cassaforte, la mattina del 2001 in cui lui e l’allora compagna Valeria Marini furono svegliati da una perquisizione, non era «zafferano», come affermò all’epoca: «Lo zafferano era una stronzata, ma quella droga è sempre stata un mistero. Le pare che sapendo di essere perquisito avrei lasciato cocaina nella cassaforte? Ce la misero apposta: calunnia, calunnia, qualcosa resterà. Poi la cocaina è una barzelletta, non fumo, non bevo, ho fatto sempre sport». Cecchi Gori parla inoltre della sua gratitudine per l’ex moglie Rita Rusic, a cui si è riavvicinato dopo l’ischemia che lo ha colpito due anni fa: «Mi è stata vicina mentre ero malato. Mi ha dato forza per smascherare i banditi e le sanguisughe che cercarono di depredarmi e isolarmi. “Cecchi Gori è più utile da morto che da vivo”, dicevano. Invece sono vivo, li ho scoperti e adesso faccio tana. Mi riprendo tutto. Spero ancora di fare qualche film». La sposò, spiega a Vanity Fair, «perché avevo superato i quarant’anni e voltandomi indietro vedevo i miei amici che si erano sistemati, avevano mogli, figli, famiglie. Io non avevo niente. Ho capito che rischiavo di diventare un fenomeno e di rimanere solo “figlio” senza mai diventare un uomo. Poi un po’ figlio e basta sono rimasto comunque. Son stati talmente belli i miei genitori che la mia vera famiglia sono rimasti loro. Mia madre era una donna molto intelligente e mio padre (Mario, fondatore della casa di produzione, ndr) un magnifico padre. Abito in una casa che era quella che Mario comprò ai tempi de Il sorpasso». Film di Dino Risi di cui vorrebbe ora fare il remake: «Ho scelto Andrea Purgatori e Marco, il figlio di Dino, per scrivere il copione. Il sorpasso era uno spaccato del Paese e non è che da allora sia cambiato poi molto».

Malcom Pagani per Vanity Fair il 16 settembre 2019. Consuntivi: «Non so se in Italia esista qualcuno che sia stato più truffato di me, ma tra collaboratori infedeli, giudici scorretti e avvocati traditori che quando sono stato in difficoltà hanno provato a darmi il colpo di grazia rubandomi quel poco che mi era rimasto, in quella classifica mi piazzerei bene». Tra un risultato e un altro, l’uomo che si affacciava dalla balaustra dello stadio Franchi e palleggiava con Gabriel Omar Batistuta, gioca ormai in un altro campionato: «Il mio fallimento è stato la Waterloo del cinema italiano. Un sistema che non si è mai più ripreso e poggia le sue basi sulle rovine imprenditoriali. Puoi avere le migliori idee del mondo, però senza uno spazio in cui farle correre metterle in pratica è difficile e, se manca il campo, toccare bene il pallone può risultare inutile». A 77 anni, i sogni di Vittorio Cecchi Gori non sono più a occhi aperti ma somigliano a una metafora: «Per diplomarmi preparai tre anni in uno e fu un massacro, una fatica enorme. Ce la feci per un pelo, ma pensai fino all’ultimo che mi avrebbero bocciato. Quando mi addormento torno a quegli anni, all’epoca della maturità classica e sogno spesso che una commissione mi contesti la versione di greco revocandomi tutto il resto degli studi».

Con le debite proporzioni, proprio quello che le è successo. Aveva un impero, è rimasto con niente.

«Il cinema era tutto ciò che avevo, ho sempre immaginato la mia vita come un film e così è stata. Mi hanno rapinato, è vero, ma è stata anche colpa mia. Non sono mai stato all’altezza e mi sono dimostrato inefficiente, ma il mio crollo fu una cosa imprevista e non ero attrezzato. All’inizio non avevo capito cosa mi stesse succedendo né come reagire».

Cosa succede quando l’esistenza prende un altro verso?

«Si soffre e poi ci si rialza. Altri sarebbero morti, io ho assorbito la botta e adesso sono qui. Non posso più fare le vacanze senza ragionare sulle spese, ma non me ne importa niente. Ora so che posso vivere con meno soldi e sto bene. Sono più speranzoso e più ottimista, anche se in fondo in fondo mi resta un’amarezza».

Che tipo di amarezza?

«M’hanno fatto una camiciola e non ho ancora avuto giustizia».

Una camiciola?

«Mi hanno messo in mezzo, si sono inventati a tavolino il mio fallimento, hanno preso a pretesto una distrazione, una cazzata minore, per mandarmi all’aria. Ma è così che ti fregano».

Così come?

«Con i dettagli. Con le cazzate».

Una distrazione di fondi non è una cazzata.

«Lo è se parametrata a un gruppo enorme, che valeva una fortuna e dava lavoro a migliaia di persone. Poteva essere punita, come un debito da tre milioni per i quali me ne pignorarono centinaia, senza distruggere la Fiorentina, la Finmavi, la mia reputazione. Spero che il mio caso serva a rivedere l’intera legislazione sui fallimenti. Così com’è favorisce soltanto i predatori, gli approfittatori, gli avvoltoi che ti girano sulla testa e per arricchirsi indebitamente, alla prima occasione, ti trasformano in carcassa. Le ingiustizie sono state pesanti, negli ultimi anni mi hanno rovinato la vita. E questi anni non me li ridarà nessuno. Sono stato molto solo, sa?».

I vecchi amici di un tempo non l’hanno sostenuta?

«Ho cenato da poco con Verdone che è una brava persona ed è tra i pochissimi a essermi rimasto vicino. Altri sono fuggiti, ma quando le acque si agitano, sparire è nella natura umana. Ho aiutato tanta gente e tanta gente mi ha abbandonato. Le cose però bisogna guardarle in maniera più ampia. Nel mio mondo davano tutti per scontato di guadagnare comunque a prescindere dalle disgrazie del singolo».

Invece?

«Invece non è successo, ma sono rimasto comunque solo, anche perché la mia storia è stata raccontata male. A iniziare dai giornali a cui ridere di me è sempre piaciuto. Il resto l’hanno fatto il sensazionalismo e la seconda religione nazionale: l’invidia. In maniera magari inconscia, il potente che sbatte e cade in disgrazia dà sempre un sottile piacere».

Lei cova rancore?

«Per niente. C’è chi mi ha ferito e se il destino vuole avrà quello che si merita, ma non vivo augurandomi il male di nessuno. Ho una carriera che resta un patrimonio nazionale e aspetto ancora giustizia con fiducia. C’è un ricorso al Consiglio di Stato che per il “furto” delle tv, a fine anno, potrebbe farmi riavere 900 milioni di euro. Altri 400 pendono dal furto della Fiorentina. E ad avere la forza, potrei intraprendere molte altre cause. Ma ho 77 anni, il tempo che rimane è quel che è e di bistecche se ne mangia solo una alla settimana».

Vale a dire?

«Che farò quello che è nelle mie possibilità. Ma intanto mi sento forte come prima e avere un orizzonte davanti è già molto. Cammino a testa alta: è vero, ho compiuto degli errori, ho avuto una condanna e ho un paio di procedimenti ancora in corso, ma la mia storia giudiziaria è piena di accuse, dal riciclaggio al voto di scambio, risolte anni dopo con il proscioglimento “perché il fatto non sussiste”. Recuperare serenità è stata una grande conquista ed è più consolante di aspettare il cadavere del nemico sull’altra sponda del fiume».

A proposito di voto di scambio, L’Ulivo nel 2001 la mandò nel collegio di Acireale. Una volta messo piede in città, prima di perdere con Basilio Catanoso, lei promise di acquistare la squadra di calcio e venne accusato di aver pagato i tifosi in cambio delle preferenze.

«La promessa la feci, ma sono cose che si dicono. Io in politica non volevo neanche entrare. Non mi piaceva, non c’entravo niente. Ero il coglione in mezzo ai furbetti. La Dc era allo sbando, ma Martinazzoli era un brav’uomo e nel ’94, proprio mentre Berlusconi entrava in Parlamento, cercai di dare il mio contributo con il Partito Popolare. Stava cambiando tutto. L’unico che aveva capito in che direzione si andasse era Andreazzoli».

Intende Beniamino Andreatta?

«Sì, certo, Andreatta. Andreazzoli è l’allenatore del Genoa. Con i nomi faccio sempre confusione».

25 anni dopo, invece, confondere il nome del leader di Forza Italia è impossibile. Berlusconi era, Berlusconi è.

«Chiunque gli abbia fatto ombra o ci abbia soltanto provato, fossero Craxi, Fini o la Dc, non ha fatto una bella fine. Forse al dunque, io e lui un accordo lo avremmo anche trovato. Ormai è tardi, anche per chiacchierarne».

Nel 1989 fondaste insieme la Penta Film.

«Un compromesso un po’ democristiano per unire distribuzione e produzione, cinema e tv prima che la televisione fosse presa dalla tentazione di sopraffare tutto e tutti. Io comunque Berlusconi non lo vedo e non lo sento da quasi 15 anni. Ci abbracciammo alla Casina Valadier, per un mio compleanno, e mi regalò 12 cravatte di Marinella. Lo incontrai poi per l’ultima volta poche settimane dopo. Gli portai in dono un libretto di García Márquez, Memoria delle mie puttane tristi. Apprezzò. Erano poche pagine e cominciò a leggerlo avidamente. Le donne gli sono sempre piaciute, ma non sono state neanche loro il suo vero problema».

E quale è stato?

«La logica del potere che si impone sfruttando la comunicazione. Berlusconi aveva le tv. Berlusconi entrava a casa tua all’ora di cena. Berlusconi lottava e trasformò il Paese in un teatro di guerra. La filosofia del suo gruppo era non fare prigionieri. E la sua, di dominare. Se gli davi il dito ti prendeva il culo. La battuta era mia, poi Agnelli se ne impossessò».

Le donne sono piaciute anche a lei.

«Il massimo della vita. Ma a differenza della generazione di mio padre, uomini borghesi, rispettosi dell’istituzione familiare, ma anche puttanieri, all’idea del bordello non mi adattavo. Cercavo, anche in una storia brevissima, il romanticismo. In fondo sono stato un monogamo, mi affezionavo alle persone e se con gli amici ho sbagliato spesso, con le donne è accaduto di rado. Le rispettavo e con quasi tutte le mie ex ho mantenuto ottimi rapporti».

Lei e Valeria Marini nel 2001 foste svegliati da una perquisizione per l’inchiesta sul riciclaggio. Nella cassaforte i poliziotti trovarono cocaina. Lei la definì zafferano.

«Lo zafferano era una stronzata, ma quella droga è sempre stata un mistero. Le pare che sapendo di essere perquisito avrei lasciato cocaina nella cassaforte? Ce la misero apposta: calunnia, calunnia, qualcosa resterà. Poi la cocaina è una barzelletta, non fumo, non bevo, ho fatto sempre sport. Non ero il tipo».

Ha mantenuto buoni rapporti anche con Rita Rusic?

«Adesso, anche con lei. Mi è stata vicina mentre ero malato e così mio figlio Mario, timido e ancor più timorato di Dio di me con le ragazze, un erede meraviglioso. Con mia figlia invece, che vive in America e non vedo da 5 anni, le cose vanno meno bene. Abbiamo perso la consuetudine. È grave. Ma recupereremo. Ne sono sicuro».

Quindi Rita l’ha aiutata?

«Mi ha dato forza per smascherare i banditi e le sanguisughe che cercarono di depredarmi e isolarmi. “Cecchi Gori è più utile da morto che da vivo”, dicevano. Invece sono vivo, li ho scoperti e adesso faccio tana. Mi riprendo tutto. Come le ho detto, spero ancora di fare qualche film».

Qualcuno insinuò che l’allontanamento del tecnico Gigi Radice, ai tempi della Fiorentina, dipendesse dal fatto che lei si era convinto che l’allenatore facesse la corte a Rita.

«Ma quando mai? È una delle tante balle che hanno scritto su di me. Radice lo mandai via perché non aveva fatto giocare Batistuta. Adesso non c’è più e non è bello dirlo, ma c’era da menallo, altroché».

Di Rita, suo padre disse: «“Quella, il mi’ figliolo se lo mette in saccoccia”».

«Lo escludo. Non era il linguaggio di papà. Non ha mai messo bocca nei miei rapporti e se ha detto mezza parola indicandomi una direzione, io, facendo male, non l’ho mai ascoltato».

I giornali scrivevano che lei voleva essere come suo padre e che non l’aiutò l’adolescenza agiata.

«Me la ricordo bene la mia adolescenza, né io né mio padre siamo nati ricchi, tutt’altro. Mario era del 1920, gli è arrivata addosso la guerra a vent’anni, poveraccio».

È vero che Maria Grazia Buccella, il giorno in cui lei sposò Rita, si presentò sul sagrato per dirle di non farlo e fu portata via dai carabinieri?

«È vero. A Maria Grazia voglio molto bene così come me ne ha sempre voluto tanto anche lei. La conosco dal 1964, dai tempi de Il gaucho di Dino Risi. Ancora ci telefoniamo».

Le donne l’hanno fatta soffrire?

«Anche, certo. Quando mi innamorai della Muti sul set di Eutanasia di un amore di Enrico Maria Salerno presi una bella sbandata. A mia madre, Ornella piaceva: “Se proprio devi finire con un’attrice prova a stare con lei, è la più spiritosa di tutte”. Purtroppo finì male, lei aveva un altro e la storia non proseguì. Qualche anno fa ci siamo incontrati: “Abbiamo fatto un capolavoro”, le ho detto, “io ho divorziato, il tuo ex ti ha portato via tutto, proprio bravi siamo stati”. Lì per lì abbiamo riso insieme, però non l’ho mai più vista».

Perché sposò Rita?

«Avevo superato i quarant’anni e voltandomi indietro vedevo i miei amici che si erano sistemati, avevano mogli, figli, famiglie. Io non avevo niente. Ho capito che rischiavo di diventare un fenomeno e di rimanere solo “figlio” senza mai diventare un uomo».

E poi?

«Poi un po’ figlio e basta sono rimasto comunque. Son stati talmente belli i miei genitori che la mia vera famiglia sono rimasti loro. Mia madre era una donna molto intelligente e mio padre un magnifico padre. Abito in una casa che era quella che Mario comprò ai tempi de Il sorpasso».

A proposito di Sorpasso. Nel film, attorno a un tavolo da ping-pong, con Spaak e Gassman, lei recitò da comparsa. 57 anni più tardi, lei del film di Risi vorrebbe fare il remake. 

«Ho scelto Andrea Purgatori e Marco, il figlio di Dino, per scrivere il copione. Il film era bello e confrontare l’Italia di oggi e quella di allora, stimolante. Il sorpasso era uno spaccato del Paese e non è che da allora sia cambiato poi molto».

Cosa era per lei il cinema?

«Ero un uomo normale che si sedeva in sala e capiva cosa poteva interessare al pubblico».

E a lei, che film piacevano?

«I western con John Wayne che andavo a vedere con mia madre piangendo a dirotto all’Aurora di Firenze. Quelli in cui l’eroe moriva. Per me era un dramma, se mi capitava di rivederli, quei film, mi alzavo dal mio posto sempre un minuto prima che accadesse».

(Il cane abbaia, Cecchi Gori lo tacita: “No, ’bbono, stai ’bbono”. Sul tavolo, mentre l’addetto stampa che gli è vicino da sempre, Emilio Sturla Furnò, lo osserva con affetto, Vittorio è alle prese con una parmigiana. Una targhetta in plexiglas color oro con un forno in effigie emana un riflesso da Prima Repubblica: “Riservato Cecchi Gori”).

Lei ha conosciuto bene Harvey Weinstein.

«Mediterraneo, Il postino, La vita è bella. Insieme abbiamo fatto tanti film. Di cinema si intendeva parecchio e aveva capito l’importanza di un cinema che non fosse solo americano. Poi certo, qualche difetto, qualche vizietto, Harvey ce l’aveva. Le donnette ad esempio, ogni tanto ne raccomandava una anche a me, ma se è caduto non è stato per quello. Aveva contro tutte le major. Un po’ come, facendo le debite proporzioni, è accaduto a me. Il mio progetto era sfociare in una piattaforma di prodotto simile all’attuale Netflix. Avevo talmente tanti film tra magazzino e library che avrei potuto farcela, poi sappiamo come è andata».

Sul MeToo che giudizio ha?

«Qualche vittima c’è stata e qualcuno che voleva farsi pubblicità, anche. Ma se penso al divano del produttore mi viene da ridere. Mai andato con una donna per farla lavorare, casomai è accaduto il contrario. Sul set ho conosciuto attrici con le quali poi ho avuto una storia».

Se si guarda indietro cosa vede?

«Una grande tenerezza. Sono stato sempre in buona fede, istinto, ho agito più di istinto che con il ragionamento e adesso più di allora mi sento una brava persona. Invecchiando il cervello fa chiarezza e ogni cosa si fa più limpida. Mi resta quello perché per il resto, non cammino neanche più tanto bene».

Come vorrebbe essere ricordato?

«Come un entusiasta, uno che sapeva fare bene il cinema».

Guai, amori e Oscar di Vittorio Cecchi Gori: "Sono pacificato e glorifico il passato". Il produttore si racconta alla fine delle riprese del documentario «Di vizi e di virtù». Pedro Armocida, Sabato 08/06/2019, su Il Giornale.  «Questa è la casa del Sorpasso». In che senso? «Mio padre l'ha comprata dopo il successo di quel film». Ci troviamo a casa di Vittorio Cecchi Gori: «Ci sono tornato da poco a viverci, prima non volevo, ma ora ho glorificato tutto il passato. Ogni tanto vedo spuntare mio padre e mia madre... La verità è che mi sento sempre più figlio che padre», confida ora a 77 anni in mezzo alle tantissime foto del padre Mario. Dalla terrazza panoramica, attico e superattico, di via dei Monti Parioli, forse la strada più esclusiva della Capitale, si vede tutta Roma, con in omaggio pure la Cupola di San Pietro. Sul grande tavolo del salone tre statuette dell'Oscar vengono usate come centro di una tavola ricolma di tartine variopinte. Nel salone accanto, una parete intera ospita un numero imprecisato di premi tra Leoni d'Oro e David di Donatello. L'impero Cecchi Gori, l'ultima major italiana, è racchiuso qui, in un riflesso di uno spettacolare tramonto romano della grande bellezza che fu. Dietro il luccichio di un'età dell'oro che mai più ritornerà, un enorme tapis roulant fa bella mostra di sé in una porzione di terrazzo probabilmente condonato come fanno i più comuni mortali. E in effetti la storia di Vittorio Cecchi Gori è per certi versi paradigmatica di come siamo fatti noi italiani. Vittorio voleva fare l'americano e, andando a pranzo con il boss della Warner - «sul volo per Los Angeles m'è venuta l'idea per un soggetto che poi hanno fatto loro ed è diventato Seven, un successo stratosferico» -, scopre che per fare i soldi veri le grandi aziende diversificano: «Pensi che per Warner, proprietari anche di una squadra, la prima voce degli introiti era relativa a quelli musicali mentre quelli cinematografici erano solo al terzo posto, poi ho visto che si sono anche associati con un canale tv». Così prova a importare il modello americano nel sistema italiano ma le cose non girano per il verso giusto: «La verità è che si va a smuovere grandi interessi. C'è stato un conflitto naturale tra cinema e tv e alla fine purtroppo ha vinto la tv sul cinema. Ho evitato di avvicinarmi ai giornali che erano un'altra cosa. Sono stato vittima di un conflitto di interessi». Finito, come sarebbe potuto succedere in uno qualsiasi dei film che ha prodotto, con il carcere per bancarotta fraudolenta: «Non è facile andare da Fontanella Borghese a Regina Coeli. E non ho certo vissuto bene il fatto di essere stato arrestato davanti ai miei figli ma avevo capito che eravamo nella follia del potere. In quei momenti devi essere forte, devi fare fronte, però avevo capito che saltava tutto. Ma, alla fine, sa una cosa? Di tutto questo me ne sono fatto una medaglia». «Oltretutto - prosegue come un fiume in piena - ho avuto due figli meravigliosi e con Rita (Rusic, ndr) sono rimasto in buoni rapporti. Anche se, certo, eviterei di andare a fare una passeggiata insieme con Rita e con Valeria (Marini, ndr) che comunque, ci tengo a sottolinearlo, ho conosciuto solo dopo che ci eravamo separati». Tempo di bilanci. E la politica? «Era morto mio padre e mi chiamò Martinazzoli per chiedermi di candidarmi al Senato 1 di Firenze, altrimenti vincono tutti i comunisti mi disse. E io che dovevo fare? In fondo la Democrazia cristiana era il partito di origine che avevamo un po' più frequentato. Però l'ho capito, la politica non era il mio mestiere, la Dc poi oltretutto mi si è sbriciolata tra le mani...». Un po' dimagrito e con un sorriso malinconico, in effetti Vittorio Cecchi Gori si presenta ora come un uomo «pacificato», «perché tanto che ci vuoi fare quando a un tuo giudice gli danno 12 anni per corruzione». Ed è in qualche modo questa nuova fase della sua vita che vedremo nel documentario che Simone Isola e Marco Spagnoli stanno dedicando a uno dei personaggi chiave del cinema italiano. Sarà anche per quest'aria di festa di fine delle riprese, in attesa di vedere Cecchi Gori - Di vizi e di virtù probabilmente a settembre al festival di Venezia. Un lavoro impressionante, «delle 15mila foto conservate ne abbiamo utilizzate 1800» spiega il regista Spagnoli mentre su un monitor scorrono, sempre accanto a Mario e a Vittorio Cecchi Gori, i volti di Bruce Willis, Andreotti, Brad Pitt mentre Roberto Benigni, Giuseppe Tornatore, Leonardo Pieraccioni, Carlo Verdone, Lino Banfi e Marco Risi nel documentario racconteranno il loro rapporto speciale con i Cecchi Gori. «Con alcuni di loro ho un po' battibeccato, soprattutto per via della storia delle morti alla fine dei film, con Benigni insistevo che in La vita è bella non c'era bisogno di sentire la mitragliata finale. Ovviamente la lasciò. Anche a Massimo Troisi dicevo che non doveva morire nel Postino ma, tre giorni prima che morisse veramente, mi scrisse: Non ti devi preoccupare, ricordati che Troisi per il pubblico è sempre vivo e lo spettacolo continua». Come gli Oscar vinti per questi due film (e per Mediterraneo), ora finiti come centrotavola.

·         Luca Barbareschi e "La mafia dei froci".

Da la7.it il 16 dicembre 2019. Il Teatro Eliseo rischia di chiudere e di mandare a casa circa 300 lavoratori. Il Direttore Luca Barbareschi, rinviato a giudizio per i fondi al Teatro Eliseo, denuncia la vicenda e fa un appello per salvarlo.

Da adnkronos.com il 16 dicembre 2019. "Voglio essere arrestato se ho fatto qualcosa di male". Luca Barbareschi, chiuso dentro una gabbia, nello studio di Non è l'Arena riassume la vicenda del Teatro Eliseo. "Dieci anni fa il Teatro Valle è stato occupato ed è stato distrutto, ci vorranno 4000 giorni per riaprirlo. Dieci anni dopo un volontario, Luca Barbareschi, ha deciso di investire 5,6 milioni per rifare l'Eliseo più altri 7 milioni per comprarlo e investire in un polo di bellezza, cultura e innovazione in una città dolente e devastata come Roma", dice. "Il risultato dal punto di vista qualitativo è enorme. Quando ho deciso di fare questa cosa, il ministro della Cultura mi diede un enorme endorsement. Da lì è iniziato un incubo. Sono stato inquisito per traffico di influenze: negli ultimi 5 anni, ogni anno faccio il mendicante per i palazzi cercando di far capire che l'unico teatro italiano senza sovvenzioni non può stare in piedi. Questo mi è costato un avviso di garanzia e un rinvio di giudizio", aggiunge. "Se ho fatto qualcosa di male, voglio essere arrestato perché continuo a fare traffico di influenze. L'Eliseo non ha avuto sovvenzioni lo scorso anno e non le ha avute quest'anno. Se non le avrà, ad aprile finiremo la stagione e chiuderemo battenti. Nell'anno del centenario, con un francobollo commemorativo, il teatro chiude mandando a casa 80 persone fisse più altre 220 che lavorano con noi", conclude.

Eliseo, Barbareschi: "Pronto a dimettermi, farò causa allo Stato". Da adnkronos.com il 27 novembre 2019. "Mi dichiaro colpevole". Comincia così la conferenza stampa indetta a tamburo battente da Luca Barbareschi, nel suo Eliseo, dopo la notizia del suo rinvio a giudizio per "traffico di influenze", nell'ambito dell'inchiesta sui fondi appunto al teatro Eliseo. "Mi dichiaro colpevole, lo sto facendo da cinque anni, busso alle porte della politica, dei politici chiedendo attenzione per il teatro, se questa è una colpa, sono colpevole. Se questa è una colpa lo sono tutti, dalla Scala al Piccolo Teatro, tutti bussano alle porte della politica". Una ironica ammissione di colpa cui Barbareschi fa seguire l'esclamazione di essere pronto a dimettersi, se solo così potrà evitare uno stop di fondi pubblici al suo teatro. "Sono pronto a dare le dimissioni, a lasciare il ruolo di direttore artistico dell'Eliseo, se mi verrà chiesto dal ministro Franceschini, se sarà necessario per evitare che vengano bloccati i fondi al teatro", spiega Barbareschi, sottolineando comunque di "sperare che Franceschini mi chieda di restare". Fra lo stizzito e il divertito, Barbareschi non risparmia accuse all'Italia, all'incultura del Paese fomentata dalla classe politica, alla piccineria dei 'colleghi' responsabili di altri teatri, alla magistratura, da Mani pulite in avanti, e annuncia: "Sto scrivendo una lettera al Csm per annunciare che farò causa allo Stato, per danni. E vincerò!", attacca Barbareschi. Nel merito della vicenda, Barbareschi sostiene più volte che "non esiste il traffico di influenze", che "non è stato fatto nulla di male, non c'è stato nessun passaggio di denaro o altro", che "a dimostrare la trasparenza c'è anche il fatto che ho pagato perché venisse svolta una normale attività di lobbing". Al centro del discorso di Barbareschi e della vicenda tutta il tema dei fondi pubblici per l'Eliseo: "Proprio in questi giorni si decide al Senato il destino della legge per i finanziamenti all'Eliseo, che orologi straordinariamente sincronizzati ci sono in Italia!", afferma Barbareschi, ricordando poi di aver investito sull'acquisto e la ristrutturazione del teatro, interamente di tasca propria, circa 13 milioni di euro, "ho pagato io - scandisce l'attore e regista - prima di me l'ultimo privato che ha comprato un teatro in Italia a spese sue fu Rossini". La sua avventura con l'Eliseo, ha detto Barbareschi, rischia di chiudersi con la stagione in corso: "Se non arrivano fondi pubblici l'Eliseo chiuderà alla fine di questa stagione. Il teatro è un punto di riferimento, ha successo, è il miglior teatro d'Italia, attrae giovani, ma quando in Italia hai successo devono farti fallire", afferma e annuncia infine che se non potrà far altro venderà il teatro, "se lo Stato mi fa un'offerta...". 

Dagospia il 27 novembre 2019. Barbareschi rinviato a giudizio. Sgarbi: “Dai magistrati invadenza insensata. Chi tiene aperti i teatri è rinviato a giudizio, chi stupra a casa di suo padre è protetto”. Comunicato Stampa. Vittorio Sgarbi commenta il rinvio a giudizio per “traffico d’influenze” a carico di Luca Barbareschi, direttore del Teatro Eliseo di Roma: “L’azione giudiziaria contro Barbareschi è un altro attentato alla cultura che, in nome di un giustizialismo tutto politico e del tutto estraneo ai problemi reali, ostacola, interdice e blocca ogni azione positiva per i cittadini, per la cultura, per la nazione. È sempre lo stesso scenario, con invadenza giudiziaria insensata, proclamando false opere autentiche, impedendo in nome della dea corruzione la conclusione dei lavori del Mose , costringendo ad obbedire a ordini giudiziari le aziende, come nel caso dell’Ilva e , oggi, a sospendere l’attività del Teatro Eliseo per un ridicolo “traffico di influenze”. Si rinvia giudizio a Barbareschi per aver cercato di salvare il suo teatro e si continua oscenamente a consentire a un grottesco comico di fare un governo per garantire il proprio figlio accusato di stupro. Chi tiene aperti i teatri è rinviato a giudizio , chi stupra a casa di suo padre è protetto”.

Barbareschi: “Solo contro una casta di idioti raccomandati”. Il Giornale Off il 03/09/2019. Luca Barbareschi è uno dei produttori del film “J’accusè” di Roman Polanski, presentato alla conferenza stampa della 76esima Mostra di Venezia, dove ha difeso il regista polacco: “Basta polemiche su di lui, questo non è un tribunale morale”. Intanto vi proponiamo questa intervista cult del nostro Gabriele Lazzaro (Redazione).

Luca, mi racconti un episodio OFF degli inizi della tua carriera?

«Ce ne sono tanti… quest’anno compio quarant’anni di carriera…»

Uno che però non hai mai raccontato a nessuno?

«Il mio vero primo ruolo nell’Enrico V–poi dopo ho lavorato solo in ruoli più importanti–era suonare il tamburo nascosto in quinta, cioè, fare le rullate mentre Gabriele Lavia faceva i monologhi. Chiuso in una scatola di legno, a Verona, a luglio, con un caldo infernale, suonavo questa grancassa per circa un’ora e mezza pensando di suonare la batteria. Questo è stato il mio debutto teatrale, a diciotto anni».

Come si vive a diciotto anni un’esperienza del genere?

«Mah, io ero felice! mi sembrava di toccare il cielo con un dito! Era una compagnia meravigliosa, c’era il Garrani, Lavia… Meschieri e Fo erano i produttori… Ciò che mi fa tristezza oggi è  vedere ragazzi di 18 anni che sono già vecchi. Sanno già tutto, hanno già capito tutto, sono già depressi. E’ tutto politico… invece ai miei inizi era poesia pura, arte pura: il teatro, di sera, nella Piazzetta delle Erbe… Suonavo bene la chitarra e il piano: ero un musicista, più che altro, per cui intrattenevo gli altri, cercavo gli spazi cercando di fare simpatia e di fare il mio lavoro: l’entertainer. Ma questo ha messo in moto il mio  futuro: il regista mi aveva preso all’inizio come uno che doveva fare il caffè, poi sono diventato il suo primo aiuto – lui era il numero due insieme a Strehler (leggi l’intervista di Ornella Vanoni su Giorgio Strehler) al Piccolo – e due mesi dopo ero a Chicago a fare il primo aiuto all’Opera Lirica. Le opportunità, se le vivi con entusiasmo, sono bellissime. Anche perché poi, questo lo vedo adesso, a quasi sessant’anni vuoi circondarti di persone piene di entusiasmo, di voglia di fare, e di bellezza. No?»

Certo. E quindi questo stupore è un po’ quello che ti ha accompagnato in questi quarant’anni di carriera…

«E’ ancora così per me. Se vieni a vedere il mio one man show a Spoleto a giugno, piangerai e riderai. Ci sono io con una band di cinque elementi, uno è Marco Zurzolo, un jazzista che ha aperto Umbria Jazz, tra i più bravi musicisti italiani; io mi diverto con in scena le mie Stratocaster, le Martin, un pianoforte a coda Steinway, cinque elementi d’orchestra… facciamo di tutto, per due ore e un quarto. Come se avessi quindici anni».

Il tuo one man show, “Cercando segnali d’amore nell’universo”, per la regia di Chiara Noschese lo vedrò al Teatro Manzoni, perché verrai anche qui a Milano… ti aspettiamo! Nella tua carriera hai fatto veramente di tutto: teatro, cinema, hai condotto programmi di successo:  alcuni me li ricordo anche molto bene…

«“Il grande bluff”…»

Come no! E “C’eravamo tanto amati”. Ma questo tuo essere così tanto eclettico e così professionale in qualche modo lo devi all’esperienza americana?

«Infatti io sto sulle palle a tutti i vari Virzì e Servillo… questa gente qui mi odia, perché loro sono degli snob tremendi… quindi, fanno finta di essere intimisti, profondi, ma è tutta gente che vive in una casta. Io ho imparato a vivere in America che qualsiasi cosa fai ti arricchisce: facevo l’aiuto regista, facevo i servizi per Gerry Minà sulla storia della boxe e contemporaneamente vincevo a Venezia con il mio film “Summertime”. Poi non c’avevo più una lira di nuovo e facevo l’aiuto regista per Mario Merola in “Da Corleone a Brooklyn”… In questo modo mi sono costruito un curriculum che credo non abbia nessuno. Ho una bellissima azienda, oggi, che ha prodotto più di centotrenta film, ho quotato in borsa la mia azienda di informatica… e l’ho fatto per curiosità. Quando vedo i ragazzi demotivati…  Io adesso sto facendo un film sulla vita di Pietro Mennea, per esempio, è la cosa più bella è che lui è stato il più grande campione del mondo come velocista e poi si è preso tre lauree, si è candidato parlamentare europeo, è ricordato come uno degli uomini più importanti del Parlamento Europeo… Perché tutto dipende da noi, alla fine. Da quanto tu credi che la vita ti possa dare e da quanto sei aperto».

Proprio parlando di tutte queste trasformazioni che possono far parte del percorso di una persona, nel 2002 hai diretto “Il trasformista”, che è un film molto arrabbiato verso il cattivo uso della politica…

«I miei film verranno apprezzati tra vent’anni. Perché in quel film ho detto tutto quello che sarebbe successo dieci anni dopo, ma quando l’ho fatto io… poi, quando l’hanno dato in televisione è andato bene, ma in sala… mi ricordo che quando ho fatto il primo film, Ardena, tutti i vari ortodossi della sinistra hanno fatto un picchetto per impedire al Barberini di andare a vedere il film del fascista Barbareschi. Che imbecillità… il povero Morando Morandini ha anche scritto da qualche parte: “Barbareschi ha osato fare un film falcata, tempio degli intellettuali come Amanda Sandrelli”… delle cazzate così neanche uno sceneggiatore se le può inventare. Adesso l’ha rifatto con “Something good”, questo film sulle frodi alimentari, l’han tolto dopo un giorno dalle sale! Tu pensa a Milano Expo il tema è la sicurezza alimentare, ed il mio film che è venduto in tutto il mondo, girato in Cina sul tema alimentare, niente. Non è interessante!»

È pazzesco, perché tra l’altro è stato anche apprezzatissimo da Spielberg…

«Ti mando le foto: alla prima al festival di Los Angeles, c’erano ad applaudire Meryl Streep, Julia Roberts, Tom Hanks, Bono degli U2 con il suo chitarrista The Edge… c’era tutta Hollywood ma in Italia non se ne è parlato per niente. Basta vedere i David di Donatello: la più grande porcata fatta in televisione negli ultimi vent’anni. Dove un’idiota come Ruffini si permette di insultare Sophia Loren dicendole “bella topa”… Qui c’è una casta di idioti raccomandati, protetti dalla politica, protetti dalla casta autocelebrativa, che ha ucciso lo spettacolo italiano. Ci sono anche quelli veri, oggi, nello spettacolo, c’è gente che fa un patto col pubblico: Brignano fa 130 mila euro a sera. Cioè, gente vera… Proietti, io, che faccio teatro da quarant’anni, Branciaroli (leggi l’intervista a Franco Branciaroli)… Poi però c’è una casta autocelebrata che può anche fare un peto al cinema o in teatro. Ed è sempre Chanel.

Una Casta che lavora moltissimo…

«Io il David di Donatello non lo vincerò neanche se faccio Ben Hur… io non son stato neanche invitato».

Perché Ruffini alla conduzione? È sempre stato molto istituzionale…

«Perché non hanno capito che chi deve celebrare la messa non può far le pernacchie. Il master of ceremony deve essere istituzionale. O sennò è un genio come Billy Crystal, quando ha presentato una volta gli Academy Awards, che però non si è permesso di insultare Jack Nicholson. Anche perché Jack Nicholson gli staccava la testa in diretta… Invece i premi italiani sono finti. I David sono finti , i Leoni sono finti. Io ho ricevuto una lettera di Alberto Barbera, il direttore della Mostra del cinema di Venezia, quest’estate … non mi hanno preso  perché non faccio parte della schiera dei suoi amici».

È una cosa forte, questa…

«Ma mi ha scritto su carta da bollo protocollata! Allora, siccome sono cretini, fanno marchette autocelebrativa che infatti hanno ucciso il cinema. Lo scollamento dell’autocelebrazione critica della casta è totale. Checco Zalone può piacere o non piacere – a me personalmente piace – e quest’anno ha fatto settanta milioni. Ma non può non aver vinto un premio! È bravissimo e spiritosissimo e non puoi non tener conto di quello che esiste, no? Ma ho detto una vecchia cosa. Tornatore ha fatto un film bellissimo quest’anno e in televisione l’avrebbero ucciso».

Tornando a bomba sulla politica di cui tu hai parlato ne “Il trasformista”, quindi sei stato un po’ profetico… com’è cambiata la politica del 2002 rispetto a quella di oggi? I politici sono gli stessi…

«La politica di una volta  – ti faccio un’immagine molto semplice – da cinquant’anni in America ci sono due simboli: l’asinello e l’elefantino. Uno sono i repubblicani e l’altro i democratici. Dentro quei due piccoli simboli per cinquant’anni cambiano le facce. In Italia succede l’opposto: le facce son le stesse, cambiano i simboli. Ulivo, melo… il nome: PD, PDC MDC, CFC…Questa secondo me è l’immagine di un paese morto. A parte che è morto perché in mano a mafia, ’ndrangheta e camorra.  Al di là della corruzione dei politici, che fanno schifo, al di là di queste facciate delle Iene da cui mi son preso delle querele, io le leggi le ho fatte. Tu vai a vedere la legge sulla tax credit, è mia. Pensi che qualcuno mi abbia ringraziato?»

Penso proprio di no.

«Infatti, nessuno. La legge sulla pedofilia, l’ho fatta io. Poi l’altro giorno ho fatto un tweet di sfogo, stupido, da ragazzino, che dimostra la mia età dell’anima… dicevo che qualsiasi cosa io faccia – perché l’altro giorno c’è stato un processo in cui ero parte lesa, perché dopo otto anni hanno finalmente condannato una pazza…»

La skipper?

«La skipper, sì. Sai cos’ha scritto Repubblica? “Barbareschi dal suo panfilo caccia una povera lavoratrice del mare”. Capisci che, visto così, la mia responsabilità va a quel paese. Io, anche se faccio Arancia Meccanica moltiplicato per Otto e mezzo di Fellini, devo firmarlo con un nome diverso. Perché sono scomodo, perché voglio essere indipendente, non me ne frega più un cazzo di nessuno di questi servi che hanno scritto sulla stampa le cose peggiori, anzi non hanno scritto… La vera tangentopoli dei  giornalisti dev’essere ancora scritta!»

Ti fa  onore l’aver trasformato il tuo percorso artistico, la tua fortuna, tutto quello che fa parte del tuo impero, in forza lavoro, perché hai aperto una società di produzione…

«È questo, il mio “Summertime”, che ha vinto a Venezia quando non c’erano ancora questi mentecatti servi dei politici».

In un certo senso sei un esempio per i giovani…

«Voi però dovete ribellarvi! Dovete mandarli a fanculo. Sai perché odio quelli del Valle? (Leggi e firma l’appello per liberare iln Teatro Valle) Non perché l’hanno occupato, perché l’occuperei anch’io, ma perché non hanno fatto un cazzo dentro il Valle. È questa la tragedia: Peter Brook alla Gare du Nord dentro un garage ha rivoluzionato il teatro mondiale! Noi, nel nostro piccolo, all’Elfo di Milano… “Sogno di una notte d’estate” fatto trent’anni fa, è stato in cartellone un anno, ed eravamo degli illustri sconosciuti! Io, Claudio Bisio, Paolo Rossi, Maddalena Crippa, Irene Capitani… oggi siamo tutti conosciuti, ma allora eravamo sconosciuti. Eravamo in un garage, non è che fossimo al Piccolo. Un anno in cartellone, ottocento persone a sera. Contro il Piccolo di Strehler, che stava morendo. Non abbiamo mica avuto bisogno di occupare il Teatro Lirico… Però c’era talento. Eravamo tutti giovani pieni di talento che hanno fatto delle cose. Qui invece occupano i teatri e non hanno idee… e questo è il risultato».

Hai citato il Teatro Valle… noi abbiamo lanciato anche una petizione…

«Sai chi sono i peggiori, in malafede? Sono Gifuni, il figlio di Gifuni, il funzionario di stato. Quell’altro, come si chiama? Che è anche un bravissimo attore, ricciolino, rosso…»

Elio Germano?

«Elio Germano. Tutti froci col culo degli altri! Vanno al Valle, fanno i combattenti, però col cazzo che si fanno arrestare. Hanno distrutto la società di raccolta per gli attori, questo per colpa anche di un senatore idiota del Pdl… tutti quelli di adesso hanno distrutto la Repubblica. Perché non appena arriva uno di sinistra si calano le braghe per essere accettati. Di società di raccolta ce ne erano tre, adesso più niente».

Noi fra l’altro siamo contenti di averti fra le firme di quelli che hanno aderito a questa petizione per liberare il Teatro Valle perché l’iniziativa che ha lanciato Edoardo Sylos Labini dalle nostre pagine secondo me è fondamentale…

«È encomiabile, ha fatto bene. Infatti ho aderito subito, io ci sono anche andato a litigare da solo».

Ma sai che non è facile…

«Io ho chiesto di farmi entrare perché volevo parlare. Ma ormai non c’è più nessuno, cinquanta precari, gente che non ha mai fatto un provino in vita sua, non c’è gente dello spettacolo lì».

Ma ti hanno ascoltato, quando sei andato a bussare alla loro porta?

«Ma chi? Non sono attori! Qui c’è il malinteso: gli occupanti del Valle non sono attori. Non sono registi, non sono scenografi… sono dei precari, c’è gente di cinquant’anni. Ma sai chi è l’altro deficiente, lì? Ronconi è andato al Valle a dire “sono con voi”. Ronconi! Ronconi ha devastato il teatro italiano: al Piccolo non lavora un giovane da vent’anni. Capisci com’è facile il trucco? Quando c’erano le manifestazioni a Milano, c’era gente che scendeva dalle Rolls Royce col maggiordomo, che diceva: “Vi passo a prendere dopo, che la mamma vi manda tutti a Saint Moritz?”, questo era il movimento studentesco a Milano. Nessuno racconterà mai la verità su questo. I movimenti veri erano Lotta Comunista, Lotta Continua a Torino. Gli operai, non i fighetti di Milano!»

Però, Luca, non è semplice…

«Posso dirti? Il signore del Giornale vostro, il signor Sallusti, quando c’è da fare una battaglia con quelli come me non la fa. Diteglielo pure. Io non sono mica la Santanché».

Glielo stai dicendo tu, perché sarai ascoltato…

«Glielo dico, glielo dico. Perché son spariti tutti, invece di far coesione fra i cervelli migliori, vanno a Cannes, si fanno vedere alla Festa dei Ciak…c’è  Servillo a braccetto con Verdone e la Santanché…. Qui è una questione di competenze, di mettere il meglio, fare scuole di eccellenza, però bisogna capirle, le cose. Io son contento che ci sia Edoardo, perché ha tanta competenza e tanta voglia di fare. Io le ho fatte le mie battaglie, da onorevole, per cinque anni. Litigai con lo stesso Berlusconi con cui ai tempi non ero d’accordo».

Ecco, il bello della battaglia di Edoardo è proprio che è bipartisan, a nome della cultura libera e al di là del colore politico.

«Ma non vi caga nessuno. Guarda, io sto a testa alta, perché nelle mie produzioni, tu le avrai viste, da Olivetti a Walter Chiari, lavorano solo professionisti. Mai raccomandati. Tu vedrai da Paolo Graziosi a Rocco Papaleo. Però se faccio la prima di “Something Good” gli attori che ho fatto lavorare credi che siano venuti? No, perché hanno paura che se vai a una prima di Barbareschi magari non ti chiama Nanni Moretti. A me di Nanni Moretti non me ne frega un cazzo, ma neanche a nessuno di questi. Io lavorerei domani con Moretti, se ha voglia, alla pari però».

Torniamo alla tua carriera: tu teatralmente hai sempre fatto delle scelte originali. Hai portato sulla scena italiana autori come Mamet, Polanski…  oggi, secondo te, di quali testi avremmo ancora bisogno teatralmente?

«Banalmente di copiare quello che hanno fatto all’estero. Se tu vai a vedere, il teatro è contemporaneo: solo qui è un’eccezione. Il teatro racconta quello che accade in questo momento, non quello che accadeva. Poi, i grandi teatri stabili dovrebbero star fermi e non itinerare. Ma i teatri non me li danno mai, l’unico teatro che ho diretto per due anni è stato l’Eliseo e hanno tentato di cacciarmi subito, perché io mi opponevo a questa consorteria degli scambi, di comprare a scatola chiusa uno spettacolo».

Ma infatti la tua direzione artistica si è conclusa poco dopo…

«Perché ho detto che avrei fatto una compagnia fissa a Roma, con otto novità all’anno e fine. Risparmiavo sulle spese per i trasporti e diventava un teatro innovativo».

Quindi copiamo dall’estero. Importiamo novità dall’estero…

«Ma li vedi questi qua del Piccolo? Che non sanno neanche la differenza tra sceneggiatura, scenografia e coreografia? Gente attaccata alla sedia, al potere, fanno gli scambi, prendono chi è utile, che è figlio di questo o di quello…»

Luca Barbareschi, bomba sul cinema italiano: "La mafia dei froci". Fa i nomi, accusa devastante, scrive il 3 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Altrove mi rispettano come un professionista che dialoga alla pari con Mamet,Coppola o Polanski, qui sono vissuto come un'anomalia. Non a caso, da trent'anni, non esco a cena con quelli che fanno il mio mestiere. Non amo il pettegolezzo, mi annoierei". Luca Barbareschi, in una intervista a Vanity Fair, lancia delle vere e proprie bombe sul cinema italiano: "Io do da lavorare a più di 60 persone, sto producendo il film di Polanski, il più costoso d’Europa, con 26 milioni di euro trovati da me. Intanto metto in piedi spettacoli e fiction per la tv. Guardi, le faccio vedere la curva più sexy del mondo" e tira fuori il grafico della fiction su Mia Martini. Poi attacca: "Gli altri urlano Barbareschi è una testa di cazzo, un bastardo, deve morire, glielo mettiamo al culo e io intanto faccio il 40 per cento". Poi parla del cinema del passato, del salotto di Morazzano: "Il luogo di reclutamento delle marchette di Roma, dove tutti i grandi registi, quelli iscritti al Pci che fino al 25 luglio del 43 erano stati fascisti di stretta osservanza, passavano in rassegna i ragazzi e davano loro una parte per la loro bellezza, al di là dell’effettivo talento: Tanto poi li doppiamo, dicevano Valli, De Lullo, Zeffirelli,Visconti e tutte le altre signore delle camelie. Tutti indistintamente omosessuali, tutti molto cattivi. Verrà il giorno dei professionisti mi dicevo e invece la professionalità in Italia non è mai nata". E ancora: "Molto cinema italiano si è perso per corruzione, quella vera. Io, Castellitto, Rubini e quelli della nostra generazione abbiamo dovuto aspettare che inciampassero gli altri, i bellocci. Siamo passati dall’obbligo della tessera politica alla mafia dei froci". Ma Barbareschi "no, non sono omofobo e trovo l’omosessualità una cosa meravigliosa. Credo anzi che non fare coming out, non dichiararsi, sia un passo indietro terribile".

Malcom Pagani per vanityfair.it del 3 aprile 2019. Nella città «in cui nessuno dice quello che pensa e nessuno fa quello che dice» Luca Barbareschi arrivò negli anni ’70. «Roma è un luogo di truffe costanti e il mio battesimo non fece eccezione. Gigliola, bella, intelligente e simpaticissima, aveva sparso la voce che Mike Nichols, il regista del Laureato, fosse arrivato in Italia allo scopo di cercare fondi per la sua nuova opera. Aveva assoldato un figurante bello come il sole e dopo averlo messo su un trono al centro del salotto con dei Ray-Ban specchiati, aveva radunato i facoltosi e dato via alla raccolta: “Chi di voi vuole mettere dei soldi nell’impresa?”».

Pausa: «Ci cascarono tutti, la dama se li sputtanò allegramente fino a quando Mike Nichols, avvertito da qualcuno, non fu costretto a ricorrere all’Ansa per dire che lui, a Roma, non metteva piedi da anni».

Pausa: «Il clima era questo, da imbroglio seducente o da seducente imbroglio – come preferisce – e in un’epoca senza internet c’era chi all’inganno abboccava. Dopo era tardi perché dopo è sempre tardi».

Di squali e altri predatori, si occupa Dolceroma di Fabio Resinaro – tratto da Dormiremo da vecchi di Pino Corrias – che Barbareschi divora alla sua maniera interpretando Oscar Martello, un produttore cinematografico di ignoranza pari all’entusiasmo: «Sono sempre stato larger than life, ormai ho l’età per i ruoli alla Gassman».

Quanto c’è di lei nel protagonista di Dolceroma, Oscar Martello?

«Poco. Sono molto competitivo, ma non conosco invidia. Non ne avrei motivo, nella vita mi è andato tutto molto bene».

Il cinema italiano raccontato da Dolceroma è desolante.

«Purtroppo ci sono molti miserabili. Prenda il mio caso. Altrove mi rispettano come un professionista che dialoga alla pari con Mamet, Coppola o Polanski, qui sono vissuto come un’anomalia. Non a caso, da trent’anni, non esco a cena con quelli che fanno il mio mestiere. Non amo il pettegolezzo, mi annoierei».

Quello che vede nello spettacolo italiano non le piace?

«Quando occuparono il Teatro Valle volevo andare dai ragazzi e dar loro un consiglio: spiegare che quando eravamo giovani, ai tempi dell’Elfo, a Milano, io, De Capitani e Salvatores non occupammo il Piccolo per bivaccare e scrivere sui marmi viva la libertà – cose devastanti per cui adesso prima di rivedere il Valle a nuova luce serviranno 22 milioni di euro di restauri – ma affittammo un garage e ci inventammo Sogno di una notte di mezza estate. Un anno da tutto esaurito con un’idea.

Con un prodotto. Mettendo in seria difficoltà i grandi teatri milanesi che legavano alla sedia gli operai della Breda costretti a sorbirsi il cartellone in ginocchio sui ceci. Li portavano in sala con i pullman, proprio come la Cgil faceva a Roma quando scendeva in piazza. I volti tristi dei manifestanti a piazza San Giovanni me li ricordo bene. Gente sudata, stravolta, con il panino in mano, la bandiera arrotolata e le 20.000 lire in tasca: “Mò su, torniamo a Parma dai”».

Ai ragazzi del Valle poi ha parlato?

«Non mi hanno fatto entrare, ma non importa. Io sono molto più rivoluzionario di loro. Do da lavorare a più di 60 persone, sto producendo il film di Polanski, il più costoso d’Europa, con 26 milioni di euro trovati da me. Intanto metto in piedi spettacoli e fiction per la tv. Guardi, le faccio vedere la curva più sexy del mondo». (Barbareschi armeggia con uno smartphone, tira fuori un grafico, è quello della fiction su Mia Martini, nda)

Cosa devo guardare?

«La linea sotto siamo noi. L’altra è il resto della tv italiana. Gli altri urlano “Barbareschi è una testa di cazzo, un bastardo, deve morire, glielo mettiamo al culo” e io intanto faccio il 40 per cento».

Dicono così di lei?

«Ma certo. Pensi che ho un avviso di garanzia per traffico di influenze e mi aspetto anche di essere rinviato a giudizio. Secondo il pm avrei corrotto chiunque, da Mattarella a Gentiloni».

A che scopo?

«Salvare l’Eliseo. Ho avuto 4 milioni di euro grazie una legge firmata da Lega, Pd, Forza Italia poi votata in Parlamento, ma mi mettono sotto processo per l’intercettazione telefonica di un lobbista. Sa che mestiere faccio io? Il postulante. Il mendicante. A qualcuno non va giù che l’Eliseo, una macchina che costa più di 5 milioni e mezzo di euro l’anno, in Italia sia un’eccellenza e abbia messo in fila tutti. Siamo diventati i numeri uno. Vendiamo 7.500 abbonamenti e lo facciamo, a differenza di altri, senza metterli a prezzi di saldo. Il ministero ci dà 500.000 euro. Degli altri teatri che prendono sovvenzioni di decine di milioni di euro da Provincia, Comune e Mibac stranamente non parla nessuno».

Quanti numeri.

«Sui numeri sono diventato una spada e sa perché? Perché i numeri non mentono. Sono un vecchio capocomico e non mi faccio prendere per il culo da chi gioca sporco».

Lei giocherebbe pulito?

«Fin dagli inizi. All’epoca gli attori li sceglievano nel salotto Morazzano».

Cos’era il salotto Morazzano?

«Il luogo di reclutamento delle marchette di Roma, dove tutti i grandi registi, quelli iscritti al Pci che fino al 25 luglio del ’43 erano stati fascisti di stretta osservanza, passavano in rassegna i ragazzi e davano loro una parte per la loro bellezza, al di là dell’effettivo talento: “Tanto poi li doppiamo”, dicevano Valli, De Lullo, Zeffirelli, Visconti e tutte le altre signore delle camelie. Tutti indistintamente omosessuali, tutti molto cattivi. Verrà il giorno dei professionisti mi dicevo e invece la professionalità in Italia non è mai nata».

Perché?

«Molto cinema italiano si è perso per corruzione, quella vera. Io, Castellitto, Rubini e quelli della nostra generazione abbiamo dovuto aspettare che inciampassero gli altri, i bellocci. Siamo passati dall’obbligo della tessera politica alla mafia dei froci».

Lei usa un linguaggio violento per forma e sostanza. È omofobo?

«Guardi, io sono figlio di mio padre. (Indica una foto in bianco e nero. A destra della bandiera d’Israele e della porta d’ingresso, sulla parete, c’è un giovane partigiano in pantaloni corti. È in posa, il 25 aprile del ’45, nda). Uno che ha lottato per la libertà e che quando seppe che suo fratello aveva rubato dei materassi dovette essere fermato con un cazzotto perché voleva giustiziarlo lì per lì.

Quindi no, non sono omofobo e trovo l’omosessualità una cosa meravigliosa. Credo anzi che non fare coming out, non dichiararsi, sia un passo indietro terribile. Quando a Roma sento dire “meglio drogato che frocio” mi sento male. Ma trovo il politicamente corretto, anche e soprattutto nel linguaggio, una messinscena terribile».

Parliamone.

«Di cosa vuole parlare? Il politicamente corretto è un tumore nel corpo della cultura occidentale. Hanno detto che Se questo è un uomo è lo stupro psicologico di un ragazzo di vent’anni. Ma si rende conto? Le memorie di Primo Levi sarebbero uno stupro psicologico. Viene voglia di mandare tutti a cagare».

Ce n’è motivo?

«Fondato. Alla Columbia University hanno proibito Ovidio perché destabilizzerebbe sessualmente. Allora io penso che di fronte ad aberrazioni del genere, l’unica cosa da consigliare sia un sano ritorno alla terra».

Si spieghi.

«Soffia in giro una preoccupante coglioneria e forse tornare a zappare la terra rimetterebbe in circolo due neuroni. Qui si vorrebbero eliminare le sigarette dalle dita di Humphrey Bogart, rifare il processo a Michael Jackson, forse mettere al rogo Jimi Hendrix. Sarebbe bello vederlo sul banco degli imputati, lui, chiavatore seriale, che alle 9 del mattino aveva 4 grammi di eroina in corpo e non so quanto speedball. Mi chiedo solo quando abbatteremo la Cappella Sistina, bandiremo Caravaggio, aggrediremo Mozart in quanto coprofilo o cancelleremo Rossini. Uno che è morto di sifilide. Sa cosa farò?».

Cosa farà?

«Uno spettacolo. Lo sto scrivendo. Lo intitolerò Bipolare cerca bipolare per conversazione a quattro. Un finto inno al politicamente corretto per disvelarne la follia».

Le piace disvelare?

«Moltissimo. Purtroppo gli altri non stanno al passo. Qualche tempo fa telefono ad Antonio Monda, il direttore artistico della Festa del cinema di Roma. Gli dico: “Antonio, ho visto un film delizioso, Thanks for Vaselina, in cui c’è un Luca Zingaretti strepitoso che interpreta un trans. Ti va di guardarlo?”. “Mi dispiace”, pigola, “ma ho già chiuso le liste”. “Antonio, non bluffare, non è vero, lo so”. Seguono istanti di imbarazzo che decido di troncare con una proposta secca: “Ti va di vederlo?”. “Mandami un link”, mi dice. Un link. Io non chiamo direttamente il fratello di Zingaretti perché mi sembrerebbe volgare e lui mi dice mandami un link».

Morale?

«La verità è che tutti fanno certi mestieri per sentirsi più grandi e importanti. Non vivono il presente se non per creare rapporti utilitaristici necessari a diventare sempre più potenti. Una miseria. Viva Gian Luigi Rondi allora. Uno che si alzava alle 6 e alla segretaria che arrivava in ufficio alle 7,32, con due minuti di ritardo, diceva: “Signorina, è forse stanca?”. Rondi era un uomo leale. Quando ci premiò a Venezia con Summertime nell’83, lo fece senza avere paura di nessuno. Aveva i coglioni, vivaddio. Oggi dominano appiattimento culturale e conformismo».

Anche nel cinema ci ha detto.

«Il cinema italiano non ha voluto fare i conti con la realtà. Da un lato ha vissuto di retorica, di Anac, di Citto Maselli. Persino il povero Ettore Scola, uno che ha fatto sempre film meravigliosi, negli ultimi anni era ridotto a mettere in scena tinelli tristi con Giulio Scarpati e Valeria Cavalli, militanti comunisti in crisi da divano per il dissidio tra Occhetto e Ingrao. Immagini l’eccitazione.

D’altra parte a Cannes nel ’94 fecero vincere Nanni Moretti con Caro diario preferendolo al più bel film di Tornatore, Una pura formalità, dicendo: “Ecco Moretti, l’uomo che ha detto no a Berlusconi”. Io ragionavo: “Benissimo, ma che c’entra col cinema?”. Sa chi dovrebbe raccontare l’Italia oggi? Il figlio della mia filippina. Uno che dopo aver visto i genitori, laureati, pulire il culo per una vita a tutti i vecchi di Roma, si è stancato e adesso fugge in Canada. Le racconto una cosa».

Dica.

«Un anno mi fidanzai con una ragazza filippina: non c’era pranzo o cena a cui andassimo in cui qualcuno le rivolgesse parola. Allora avevo preso a dire che era la figlia del presidente della Filippine. Avrebbe dovuto vedere il servilismo improvviso: “Ma cara”, cinguettavano mielosi, “siamo stati a Manila, divino, me/ra/vi/glio/sooo”.

I cinema sembrano perdere la gara contro le tv e lo streaming.

«In parte sono vecchi. Anche perché gli esercenti sono stati finanziati dallo Stato, senza alcun obbligo di programmazione, facendo favori distributivi agli americani che non ne avevano alcun bisogno, defiscalizzando persino le opere di Tarantino. Un po’ come oggi, permettono di non pagare le tasse ai giganti del web. Una roba vergognosa, vergognosa, vergognosa».

La vedo arrabbiato.

«Ma no, conosco il pressing economico di certe realtà. Mi chiedo chi poi costruirà asili, scuole e ospedali e perché io debba pagare il 52 per cento di tasse mentre un informatico pipparolo nel mio Paese ne è esentato. Ma non c’è problema: se mi rompo i coglioni torno a fare il barista o vado a Filicudi, stappo una buona bottiglia e mi metto a osservare il tramonto. Tanto ai David non mi invitano».

Tutti nudi/ a Filicudi/ a mangiar pesci crudi, scriveva Benni.

«Nudi non lo so, a mangiare, a bere e a stare insieme ai miei figli sicuramente. Sono cresciuti bene. Io vengo da Milano, via Venezuela 4, il Bronx. Mi sono fatto strada da solo e mi ricordo molto bene di quando non riuscivo neanche a pagarmi il biglietto della metro. Loro, sventati i rischi dell’origine, sono cresciuti bene».

Quali rischi?

«Andiamo a Filicudi con un volo privato e a un tratto uno dei miei figli si lamenta: “Papà, quest’elicottero fa un rumore insopportabile, non ce n’è uno più grande?”. “Benissimo”, dico. “Comandante, atterriamo, spenga i motori”. Scendiamo a Catania, prendiamo un autobus per Milazzo, arriviamo dopo sedici ore. I ragazzi erano devastati. “Ma Filicudi è lontanissima”. “Lontanissima è la distanza che vivrete per tutta la vostra esistenza tra la realtà e i soldi che dovrete guadagnarvi”. Sanno che non lascerò loro un solo euro in eredità. E quindi, di conseguenza, sapranno cavarsela benissimo».

Diceva dei David. Non la invitano?

«Non è un dramma. Ha ragione Fiorello, rispetto ai David sono più allegri i funerali. Comunque tempo fa mi trovavo in America da qualche mese, mi viene malinconia del mio Paese. Mi dico: “Possibile che non venga mai chiamato a dare un premio in nessun contesto?”. Telefono al responsabile del David e mi sfogo: “Pur di non scegliere me avete messo in giuria qualsiasi decerebrato passasse di lì. Credo che sarei un ottimo giurato”. Aggiungo: “Perché non mi invitate?”.

Passa mezz’ora e mi contatta Rondi: “Mi dicono che sei arrabbiato”. “Sono amareggiato, è diverso”. “A proposito”, mi dice, “per caso hai il numero di Polanski?”. “Certo”. Me lo dai?”. “No”. “Guarda che se viene gli diamo il premio come miglior film straniero”. Attacco e parlo con Roman. Lui ride: “Devono essere davvero impazziti per il film. Se vengo mi premiano, altrimenti no?”. Ci salutiamo. Passa mezz’ora e al posto di Rondi mi richiama quel verme con cui avevo discusso a inizio giornata: “Caro Luca, credo ci sia stato un equivoco, volevo chiederti se ti va di premiare Polanski”. Metto la pratica nelle mani di Roman che esagera. First class per me e per lui da Los Angeles. Albergo a Roma. Autista per 24 ore. Ai David sarei andato gratis, invece gli sono costato 50.000 euro».

È mai tornato?

«Non sono mai stato richiamato. Tempo fa ho chiesto due biglietti, me ne hanno dato uno e mi hanno messo vicino al cesso. Ho chiamato mia moglie e con lo smoking ancora addosso sono andato a cena con lei. Il David per anni è stato un merdaio retto dai voti finti. Lo sanno tutti, non lo dice nessuno. Adesso mi dicono che Piera Detassis lo stia ripulendo. Me lo auguro».

C’è qualcuno che stima nel cinema italiano?

«Qualcuno c’è. Stimo Pietro Valsecchi, un uomo generoso, un vero underdog venuto dal nulla che con Zalone il cinema italiano se lo è messo nel taschino. A Natale voleva uscire con 1.000 copie del film di Checco. L’ho chiamato e gli ho detto: “Pietro, così il 25 dicembre muoiono tutti. Non esagerare, metti da parte la hybris, non voler stravincere”. Mi ha dato retta. Purtroppo non gli hanno dato retta gli altri produttori, del resto l’Anica è sorda alle novità».

Con questa intervista si è fatto qualche nuovo amico.

«Negherò di aver detto qualunque cosa e forse negherò persino di chiamarmi Barbareschi. Il mio nome è Oscar Martello».

Stella Dibenedetto per Il Sussidiario il 25 luglio 2019. Dopo l’omaggio a Paolo De Andreis, storico capostruttura della Rai, l’ospite della puntata di Io e Te in onda il 24 luglio, è Luca Barbareschi che, nel corso della sua carriera, non si è fatto mai mancare niente. Attore, regista, produttore e conduttore: Luca Barbareschi è tutto questo e a Pierluigi Diaco racconta i segreti della sua vita, partendo dal rapporto con la madre. “Io ho amato tantissimo mia madre e l’ho rispettata come dovrebbero fare tutti i figli con i genitori” – racconta Barbareschi che, proprio dalla madre, ha ricevuto un grande dolore quando era solo un bambino – “Io, spesso, mi chiedo come abbia fatto quella donna a lasciarmi a sette anni dicendomi che si era innamorata di un altro uomo. Io non l’ho più rivista. Sono cresciuto con due zie e dico a tutte le persone che hanno provato un dolore a non credere che sia colpa loro”. Padre di sei figli, Luca Barbareschi ha preso una decisione importante per il futuro dei suoi ragazzi. “Ho tolto l’eredità a tutti i miei figli. Nessuno di loro avrà un euro ma ho dato a tutti l’opportunità del lavoro. Io sono nato in Uruguay, ho passaporto uruguagio, ho il passaporto italiano e avendo lavorato tanto in America ho anche il passaporto americano honoris causa. Questo mi ha dato il privilegio di poterlo dare a tutti i miei figli per cui tutti e sei hanno il passaporto uruguagio, il passaporto italiano e il passaporto americano. Cosa vuol dire questo? Che loro possono lavorare in America, in tutto il Mercosur cioè dall’Argentina al Messico e in tutta l’Europa. Tutti hanno studiato in università che costano un milione di euro per l’educazione di quattro anni” – spiega Barbareschi raccontando ciò che è riuscito a donare ai figli. Il produttore, poi, spiega perché ha preso tale decisione: “i figli dei ricchi diventano cretini, ma non sono cretini. Il cervello è un muscolo e va allenato. Se tu non studi e non elabori, il cervello s’impigrisce.

«Ce l’ho fatta da sola. Ma speravo almeno in un aiuto per la casa». Pubblicato venerdì, 26 luglio 2019 da Emilia Costantini su Corriere.it. «L’eredità di papà? Ha cominciato ad avere figli da giovanissimo e gli auguro di campare fino a 120 anni, quindi se ne riparla tra una sessantina di anni... non ci conto proprio». Eleonora Barbareschi, 35 anni, terzogenita dell’attore e regista, ribatte le affermazioni del padre Luca senza tanti complimenti: «Condivido con le mie sorelle l’eredità, quella sì, di un genitore con un carattere difficile, che ci ha allevato come tre maschi e quindi con il desiderio di essere libere, di venire riconosciute per i propri sforzi, in maniera meritocratica. Il problema, semmai è un altro». 

Quale?

«È confondere la linea sottile che intercorre tra il rendere un figlio libero di emanciparsi e l’abbandono».

Si è sentita abbandonata?

«Un po’ sì. Mi è mancata la sua presenza. Non lo faceva per cattiveria, ma perché è troppo preso da se stesso. Un’assenza scivolata poi nella sua rigidità».

In che senso?

«Be’, la sua fissazione di costringerci a camminare con le nostre gambe. Se, a suo tempo, mi avesse comprato casa non mi sarei mica offesa».

Per questo voleva cambiarsi il cognome?

«È stato il mio primo desiderio, sentivo di non avere nessuna associazione con Barbareschi e non volevo passare per raccomandata. In quel periodo non ci parlavamo da 5 anni, io volevo sentirmi autonoma persino dal suo cognome».

E lui come reagì?

«Quando glielo comunicai, mi rispose: va bene, fallo pure. Il mio non era un gesto contro di lui, ma una necessità per la mia sopravvivenza».

Poi ha continuato a chiamarsi Barbareschi.

«Ci siamo incontrati: mi sono specchiata nei suoi occhi, abbiamo scoperto di avere delle esperienze condivise e allora mi sono detta: chi se ne importa del cognome, è la genetica che vince. Abbiamo riallacciato il rapporto, la rabbia è sparita. Avevo anche risolto il problema di essere figlia di un personaggio famoso».

Infatti lei ha intrapreso una strada molto diversa dalla sua, creando lo studio di design...

«Ho iniziato a lavorare a 23 anni, anche se papà ci faceva lavorare da ragazzine nel suo ufficio. Poi ho scelto un percorso distante, per dimostrare che non ero una demente. È stata sempre molto forte in me la spinta ad affrancarmi. Tra noi una sana competizione: ce l’ho fatta anche senza il suo aiuto».

PSICODRAMMA ALL’ELISEO. Giulio De Santis per il “Corriere della sera - Edizione Roma”  il 20 luglio 2019. È accusato di essersi impossessato delle poltrone Frau, dei sipari, dei condizionatori. E persino della moquette. Oltre ad altri impianti vari di proprietà della Nuova Teatro Eliseo, approfittando dello stato di dissesto della società ormai prossima al fallimento. Ad accaparrarsi quei beni senza averne diritto, secondo la procura che l' ha indagato con l' accusa di distrazione, sarebbe stato Luca Barbareschi, all' epoca amministratore della Casanova Teatri srl prima di diventare direttore artistico della storica struttura di via Nazionale sorta più di un secolo fa, nel 1900. Valore degli oggetti di cui l' attore-regista-imprenditore sarebbe entrato in possesso il 23 marzo del 2016: 813mila euro. Ora Barbareschi, in passato deputato del Pdl, rischia di finire sotto processo dopo l' avviso di chiusura delle indagini preliminari disposto dal procuratore aggiunto Rodolfo Sabelli e dal pubblico ministero Antonio Clemente. Questo capitolo dell' inchiesta si aggiunge all' altro in cui l' attore è finito nei guai per la gestione dell' Eliseo: qui da tempo la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per traffico d' influenze. Secondo il pm Barbareschi, come direttore artistico, avrebbe esercitato pressioni illecite volte a ottenere (con successo) un finanziamento di quattro milioni di euro con o la manovra finanziaria del 2017. In questo filone, con le medesime accuse, la procura ha chiesto di processare - perché ritenuti determinanti nelle manovre dell' attore - pure l' ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, nonché suocero di Barbareschi, e Luigi Tivelli, in passato consigliere parlamentare e giornalista. Invece il secondo procedimento riguarda il crac delle società Nuova Teatro Eliseo spa ed Eliseo Teatro srl, per il quale sono indagati con l' accusa di bancarotta fraudolenta i tre soci che erano al comando delle aziende fallite prima dell' ingresso di Barbareschi. Si tratta di Vincenzo Monaci, Gianni Bartoli e Massimo Monaci. Indagato anche Paolo Scarinaci, a cui le società, già vicine al crac, avrebbero girato un credito che vantavano dal Mibac per farlo sparire ai creditori. L'Eliseo Teatro è stata dichiarata fallita nel 2016 con un passivo di dieci milioni di euro. Ed è proprio nell' agonia delle due ultime gestioni che Barbareschi si sarebbe infilato per assicurarsi tutti gli arredi. Tra l' altro raccontando una bugia, secondo il pm che l'ha indagato pure per falsa testimonianza, altra accusa per cui è stata disposta la chiusura delle indagini. Nell' aprile del 2018 infatti al giudice civile Barbareschi racconta che il giorno dello sfratto dei precedenti gestori, datato 20 novembre 2014, non è all' interno del teatro e di conseguenza è all' oscuro di cosa ci fosse dentro. Circostanza per il pm smentita dal verbale di rilascio che riporta la presenza dell' attore nei locali di via Nazionale.

Lettera di Luca Barbareschi a Dagospia  il 21 luglio 2019. Caro Dago, grazie per ospitare anche il mio punto di vista in questo ridicolo e costante attacco alla mia persona e a tutti i lavoratori del mio gruppo ELISEO Media. Circa 7 anni fa abbiamo deciso di fare questo salto e di integrare la nostra attività di cinema e teatro e fiction televisiva con la gestione e poi l’acquisto del più importante teatro italiano. Mentre un gruppo di facinorosi occupava il teatro Valle (Per altro ancora chiuso) accompagnato dagli applausi della cosiddetta intellighenzia di sinistra io andavo controcorrente. Mettevo soldi miei: 5.600.000 per il restauro e poi 7.000.000 per l’acquisto dei Teatri Piccolo e grande EliseoiIn stato fallimentare che riceveva impropriamente soldi dal Mibact senza una agibilità dei vigili del fuoco. Ma, come si dice, transeat. Nessun articolo. Nessun attacco. Perché ai compagni di merenda è sempre concesso tutto. Anche distruggere e occupare i teatri. Anche truffare come è successo all’Imaie i diritti d’autore. Noi invece dal momento in cui si è saputo che Barbareschi rilevava e poi avrebbe comprato L’Eliseo Abbiamo collezionato centinaia di articoli polemici e denigratori. Al grido di allarmi I fascisti all’Eliseo!! Attacchi personali. Ricorsi al TAR. Abbiamo vinto tutte le nostre battaglie. Oggi L’Eliseo è tornato ad essere il più grande teatro italiano per numero di abbonati e presenze. I vari brand Eliseo Cinema Eliseo Fiction Eliseo Cultura Eliseo Musica Eliseo Ragazzi e ovviamente Eliseo teatro hanno, con non poca fatica, portato successi in tutti i settori. Mia Martini Cyrano Mennea i film di Brizzi DOLCE ROMA dal romanzo di Corrias il nuovo fil di Polanski  ROCCO CHINNICI  E J’ACCUSE ETC ETC. E decine e decine di altri prodotti nati da un gruppo editoriale libero in cui , come nella cosmogonia di Rostand l’artista è in alto e la politica è in basso. Senza per questo denigrarla ma per sostenere il primato che deve avere la cultura nella società contemporanea. ABBIAMO OTTENUTO UNA LEGGE AD HOC!!! Si è vero perché solo qualche imbecille può pensare che il Piccolo di Milano nostro omologo per qualità e presenza sulla capitale riceva circa 15.000.000 (milioni) l’anno e noi 500.000. Abbiamo regolarmente pagato dei lobbisti (RETI) per raggiungere questo risultato. Quindi nessun ‘traffico ‘ di influenze ma solo tanta fatica. Ora Roma ha di nuovo il teatro dove (come mostreremo all’inizio di stagione) hanno avuta o residenza artistica da Stravinsky a Defilippo da Visconti a Lavia da Orsini alla Falk. Da Petroni griffi a Mauri e centinai di altri. Quest’ultimo articolo in cui mi sarei incamerato i soldi delle poltrone e del sipario va oltre la comicità. Io nel 2014 non avevo nessun rapporto con L’Eliseo. La firma del mio contratto è nel maggio 2015. Quindi come diceva un grande comico: una grande risata travolgerà  questo simpatico gruppo di frustrati Maldicenti! W L’Eliseo che è tutta in altra città. Luca Barbareschi

Che fuori tempo che fa, Luca Barbareschi confessa: "Chi mi ha fatto cacciare da Mediaset", nome clamoroso, scrive il 9 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Tempo di confessioni per Luca Barbareschi, che si racconta a Che fuori tempo che fa, il programma di Fabio Fazio in seconda serata su Rai 1 il lunedì sera. Nel corso di un'intervista, l'attore torna sulle ragioni per le quali fu cacciato da Mediaset. Era il 1996, e travestito da concorrente portò scompiglio nel corso di una puntata de La ruota della fortuna, il programma del mitico Mike Bongiorno. Il quale, letteralmente, perse le staffe. "Venni preso e cacciato fuori da Mediaset per due anni", ha ricordato Barbareschi. "Rovesciai la ruota su Mike che tirò più moccoli di un camionista che buca sulla Cisa d'inverno", ha aggiunto. Barbareschi fece quella gag per Scherzi a parte, lo rivelò a Bongiorno, ma non servì a nulla: "Gli dissi chi ero e lui replicò non me ne frega una sega". Lo scherzo venne censurato e fu mandato in onda solo nel marzo del 1997 da Striscia la Notizia, che lo usò per lanciare la coppia Paolo Villaggio-Massimo Boldi, che sostituirono il rodatissimo duo Ezio Greggio-Enzo Iacchetti.

“NON FU LICENZIATO PER LO SCHERZO A MIKE BONGIORNO”. Lettera di Antonello Piroso a Dagospia il 9 aprile 2019. Ciao Roberto. Quel simpatico "bandito" (absit inuria...) di Luca Barbareschi è un abile affabulatore dalla memoria intermittente. Non fu licenziato da Mediaset perchè fece uno scherzo a Mike Bongiorno. Bensì perché in una puntata de "I guastafeste", che coconduceva con Massimo Lopez, invitò il pubblico a non pagare l'eurotassa che il governo di Romano Prodi si era inventato per ridurre il disavanzo pubblico quel minimo necessario e sufficiente a rispettare i famigerati "parametri di Maastricht" per farci entrare in area euro. In azienda fecero un salto sulla sedia, perchè volevano mantenere buoni rapporti con un governo "d'opposizione" (a Berlusconi), tanto più dopo che Massimo D'Alema era andato fisicamente negli studi di Cologno Monzese ad assicurare che non ci sarebbero state "vendette" su Mediaset, "un'impresa strategica, un patrimonio per l'Italia".

·         Lucrezia Lante della Rovere.

Lucrezia Lante della Rovere: “Quella volta Monicelli mi ha fatto proprio arrabbiare!”. Sacha Lunatici il 23/09/2019 su Il Giornale Off. Dopo il grande successo della prima stagione, su Rai1 è tornata “La strada di casa“, serie televisiva che contamina il family classico con venature noir. A vestire nuovamente i panni di Gloria, la donna forte della famiglia Morra, Lucrezia Lante della Rovere. L’attrice romana racconta a Il Giornale OFF l’emozione di tornare sul set di uno dei prodotti televisivi di maggior successo degli ultimi anni.

L'Alzheimer raccontato da Haber e Lante Della Rovere.

Come evolve il personaggio di Gloria durante la seconda stagione de “La strada di casa”?

«Se nella prima stagione abbiamo conosciuto una donna forte, che fa di tutto per tenere compatta la sua famiglia, nel corso di questo secondo capitolo Gloria comincerà a perdere l’equilibrio. Questo suo vacillare, dovuto a qualcosa di cui nemmeno lei stessa conosce il vero motivo, verrà usato all’interno di questa serie tv a tinte gialle».

Quanto le somiglia Gloria?

«In realtà abbiamo due caratteri completamente diversi. Gloria è molto più pacata e riflessiva… io agisco d’istinto! (ride, ndr). Paradossalmente rimango molto più lucida e razionale se devo affrontare dei problemi più seri mentre vado nel pallone davanti a situazioni più leggere».

E’ stato emozionante tornare sul set?

«Prendendo ispirazione dal titolo della serie, per me è stato un po’ come tornare a casa. Ho avuto la fortuna di lavorare per la seconda volta con persone fantastiche: una vera e propria famiglia. Il clima sul set è molto più disteso se, come nel nostro caso, c’è un rapporto di amicizia e stima reciproca tra noi attori e con il regista, Riccardo Donna».

Quali sono gli elementi che hanno reso La strada di casa una serie di successo?

«Riccardo Donna è un grande maestro e, grazie alla sua regia, è riuscito a portare ne “La strada di casa” delle atmosfere davvero intriganti e affascinanti che sin dalla prima stagione incollano al piccolo schermo tanti telespettatori. E poi fanno da cornice una sceneggiatura accuratissima che non lascia nulla al caso e delle musiche emozionanti che arricchiscono le scene e conferiscono loro il giusto pathos».

C’è un personaggio che le piacerebbe interpretare?

«Non tutti sanno che nella vita privata sono molto leggera e brillante… chi mi conosce bene lo sa! Non mi dispiacerebbe interpretare un personaggio che valorizzi questo mio lato più divertente: magari un film ironico che non ha paura di superare la barriera del politicamente corretto».

Un episodio off della sua carriera?

«Non dimenticherò mai la mia prima esperienza cinematografica sul set di “Speriamo che sia femmina” del grande maestro Mario Monicelli: ero giovanissima e di una timidezza senza pari, arrossivo per qualsiasi cosa. Ricordo che un giorno, durante una pausa pranzo, Monicelli mi stuzzicava di continuo al ristorante chiedendo informazioni sul menu. Seduto a tavola c’era tutto il cast, tra cui Catherine Deneuve, Liv Ullmann e Stefania Sandrelli. All’ennesima richiesta, lo mandai d’istinto a quel paese. Lui, soddisfatto di aver provocato in me una reazione, esclamò: “Oh brava!”».

·         Il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione".

Nuovi guai per Polanski, accusa di stupro in Francia. Su "Le Parisien" la testimonianza di una ex modella su violenza nel '75. La Repubblica l'8 novembre 2019. Quarantaquattro anni dopo, Valentine Monnier non ce l'ha fatta più a tacere. E a convincerla a parlare è stato proprio l'ultimo film di colui contro il quale oggi punta il dito, Roman Polanski. Aveva appena 18 anni, dice Valentine, quando lui la stuprò, "con estrema violenza". Lei era una giovane fotografa, modella, saltuariamente attrice. Molto bella. Oggi, a Le Parisien, racconta tutto. "Nel 1975 - ha scritto in un testo dopo aver più volte chiesto sostegno a personalità come Brigitte Macron o la ministra Marlene Schiappa - fui violentata da Roman Polanski. Non avevo alcun legame con lui, né personale, né professionale e lo conoscevo appena. Fu di estrema violenza, dopo una discesa in sci, nel suo chalet a Gstaad, in Svizzera. Mi colpì, mi riempì di botte fino a quando non opposi più resistenza, poi mi violentò facendomi subire di tutto. Avevo appena 18 anni". Perché l'ultimo lavoro di Polanski, 'J'accusè, l'ha spinta a uscire allo scoperto? Dopo aver ricevuto sempre risposte evasive o di impotenza da un punto di vista giudiziario vista la prescrizione dei fatti, ha deciso di rivelare tutto a Le Parisien: "il ritardo di reazione non significa che si è dimenticato - dice - lo stupro è una bomba a orologeria. La memoria non si cancella, diventa fantasma e ti insegue, ti cambia insidiosamente. Il corpo finisce spesso per risentire di quello che la mente ha tenuto in disparte, fino a quando l'età o un avvenimento di rimette di fronte al ricordo traumatico". Nel film, Polanski mette in scena l'errore giudiziario per antonomasia, la storia del capitano Alfred Dreyfus: "è sostenibile, con il pretesto di un film, nascondendosi dietro la Storia, sentir dire J'accuse da colui che ti ha marchiato a fuoco, mentre a te è vietato, a te vittima, di accusarlo?". Figlia di industriali alsaziani, Valentine all'epoca dei fatti aveva appena preso la maturità e decise di andare a festeggiare in montagna con amici, ospiti di Polanski. Valentine racconta che Polanski le chiese molto chiaramente se volesse fare sesso con lui durante una risalita in seggiovia. Lei rispose di no, poi la sera cenò con lui in un ristorante dal quale si sarebbe tornati scendendo lungo la pista con le fiaccole. Nello chalet, Polanski la chiamò e quando lei uscì sul pianerottolo cominciò la sua furia: botte, colpi, una pillola che le fece ingoiare prima di violentarla: "ero totalmente sotto shock, pesavo 50 chili, Polanski era piccolo, ma muscoloso e, a 42 anni, nel pieno delle forze: ebbe la meglio in due minuti. Mi dissi: ma è Roman Polanski, non può rischiare che si venga a sapere, quindi mi dovrà uccidere". Poi, arrivarono le scuse del regista, in lacrime, con lei che promise di non dire niente. Polanski, 86 anni, è stato condannato nel 1977 per violenza sessuale su minore negli Stati Uniti, paese nel quale non può tuttora rientrare. Sua moglie, Sharon Tate, fu uccisa da una setta guidata da Charles Manson nel 1969 negli Stati Uniti, mentre era incinta. Attualmente vive in Francia con la sua ultima moglie, l'attrice Emmanuelle Seigner, dalla quale ha avuto due figli.

Ufficiale e spia di Roman Polanski. Marco Giusti per Dagospia il 19 novembre 2019. Non sarà facile vedere in maniera limpida il nuovo film di Roman Polanski, “L’ufficiale e la spia – J’accuse”, Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia, appena uscito con grande successo in Francia tra mille polemiche, picchetti femministi fuori dai cinema, accuse di nuove “vecchie” molestie da parte dell’attrice Valentine Monnier (in Italia fece un buon postatomico, 2019-Dopo la caduta di New York di Sergio Martino, che la ricorda serissima sul set). Non sarà facile perché è il film stesso a rendere impossibile separare l’opera dalla vita dell’artista, perché Polanski stesso ha fatto della figura di Alfred Dreyfus e del suo caso una sorta di caso Polanski. E ha fatto del film una sorta di pamphlet che lo dovrebbe liberare per sempre da ogni accusa. “Spero che il fatto di essere ebreo non influisca sul suo giudizio su di me”, chiede proprio all’inizio del film il capitano Alfred Dreyfus al suo superiore e maestro, il tenente-colonnello Georges Picquart. “No, starò attento a separare i sentimenti dai fatti”, risponde Picquart, lasciando così modo a Dreyfus di fargli presente che il suo giudizio è già in qualche modo compromesso. In modo non tanto diverso ci si pone così un po’ tutti noi rispetto al film di Roman Polanski, sceneggiato assieme al Robert Harris di The Ghostwriter e prodotto da Alain Goldman con Luca Barbareschi, Paolo Del Brocco e Roman Abramovich. Anche noi stiamo “attenti” rispetto al film proprio perché è di Polanski in un momento particolare della sua vita. Lo hanno dimostrato le polemiche legate al MeToo, le poleniche a Venezia legate alle dichiarazioni di Lucrecia Martel, presidente della giuria, la recente rivelazione di Valentine Monnier. Sia che lo si ritenga un fresco capolavoro o un buon polpettone un filo polveroso girato da un grande maestro a 86 anni, non riusciamo davvero neutrali. Anche perché è Polanski a farci sapere da subito che lui si sente da tutta la vita massacrato e additato come il capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale francese innocente degradato e punito come traditore dalla destra reazionaria e fintopatriottica francese solo perché ebreo. E per questo finirà rinchiuso per anni in una cella coi ceppi ai piedi in quel dell’Isola del Diavolo, prima che il colonnello Picquart, interpretato qui da un grande Jean Dujardin, e Emile Zola sulla prima pagina di “L’Aurore” salvino il suo corpo e soprattutto il suo onore di militare e di francese. Ma c’è di più. Perché, proiettandosi nella storia di Dreyfus, Polanski affronta una serie di situazioni pur di fine ’800 che oggi ci appaiono estremamente attuali. Come se poco o niente fosse cambiato nella vecchia Europa. Il sovranismo, l’odio per l’Internazionale Ebraica della propaganda fascista, il gioco al massacro delle fake news. Se ci fu un vero e proprio Affare Dreyfus, prototipo di tanti se non tutti i casi giudiziari-politici del 900, seguito da centinaia di articoli sui giornali e con uno strascico che portò alla realizzazione di film celebri, come The Life of Emile Zola di William Dieterle con Paul Muni come Zola e Joseph Schlidkraut come Dreyfus, c’è anche un vero e proprio Affare Polanski, con martirio dello stesso regista, centinaia di articoli e polemiche su polemiche. Ripeto. E’ Polanski, nel bene e nel male, con un po’ di grandeur poco polanskiana (lui che è sempre stato così ironico), a vedere il proprio caso riflesso nella storia di Dreyfus, condannato ingiustamente dalle forze fasciste e razziste francesi a un martirio infinito. Come fu ingiustamente condannato, dall’opinione pubblica mondiale, addirittura a causa demoniaca della tragedia della moglie Sharon Tate. Condannato perché non americano, regista di un film come Rosemary’s Baby, perché star della Swinging London piena di eccessi, orge e droga. E così, in questo caso, non è semplice, per lo spettatore cresciuto con i capolavori del regista, ma che dagli anni di John Ford e di Pablo Picasso, sa distinguere tra opera e autore, staccarli. Certo. Come film, questo Ufficiale e spia è un perfetto esempio di grande scrittura e messa in scena. Fotografia meravigliosa di Pawel Edelman, lo stesso de Il pianista e di tutti gli ultimi film di Polanski. Scenografie ricchissime di Jean Rabonne. Bellissimo cast, con Louis Garrel cone Dreyfus, Mathieu Amalric come grafologo, Emmanuele Seigneur come amante di Picquart, una serie di nomi eccelsi della Comédie. Non è un film moderno, diciamo. E Polanski è più vicino agli anni di Dreyfus che a quelli del Jocker. E non è per nulla un film alla Polanski, con svelamenti di identità. Anzi. Con questo è una macchina narrativa costruita alla perfezione. Per vecchi signori, ovvio. Ma, ripeto, il problema del nostro sguardo sul film è quasi insormontabile. In sala da giovedì 21.

Gloria Satta per il Messaggero il 19 novembre 2019. Roman Polanski, jeans e capelli allegramente spettinati, sorseggia acqua minerale nel suo studio parigino situato in un elegante e super-sorvegliato condominio a due passi da Champs Elysées. Al piano di sotto c' è l' appartamento in cui il regista, 86 anni, vive con la moglie Emmanuelle Seigner e i loro due figli Morgane e Elvis. «Il mio vero successo non riguarda il cinema: è aver creato una famiglia felice», rivela. L' autore premio Oscar di capolavori come Rosemary' s Baby, Chinatown, Il Pianista appare disteso e si muove agile come un gatto mentre fuori è l'inferno: la recente accusa dell' ex modella Valentine Monnier, che ha raccontato ai giornali di essere stata violentata da lui 44 anni fa, sta scuotendo la Francia. Ma, nonostante il boicottaggio delle femministe, l' ultimo film di Polanski L'ufficiale e la spia, Leone d' argento a Venezia, sta sbancando i botteghini (esce da noi il 21 novembre). «Ha raccolto 500mila spettatori in un week end, un record: il pubblico ama il grande cinema al di là del gossip», esclama Luca Barbareschi che si è battuto sei anni per produrre, con i francesi e RaiCinema, questa potentissima opera dell'amico Roman, ispirata al caso ottocentesco dell' ufficiale ebreo Alfred Dreyfus ingiustamente condannato per spionaggio e poi scagionato. Dell' ultimo, presunto stupro Polanski non parla, lasciando al suo avvocato Hervé Tenime il compito di respingere ogni accusa. Ancora a rischio di finire in carcere per l' abuso del 1977 su una minorenne (non lascia la Francia per non venire estradato negli Usa), il regista racconta invece con entusiasmo L' ufficiale e la spia che ha per protagonista Marie-Georges Picquart (lo interpreta il premio Oscar Jean Dujardin), il colonnello che si batté per dimostrare l' innocenza di Dreyfus (Louis Garrel). Emmanuelle Seigner fa l' amante di Picquart.

Che cosa l' ha spinta a riproporre quell'episodio storico?

«Un vecchio film americano su Emile Zola, l' autore del famoso J' accuse in difesa di Dreyfus. La scena della degradazione mi è rimasta in testa per anni invogliandomi a raccontare quella storia affascinante che affronta temi attualissimi: false verità, antisemitismo, ingiustizia».

Pensa che ingiustizia e mistificazione abbiano colpito anche lei, girare il film è stato dunque catartico?

«No, non considero il lavoro una terapia. Ma molte dinamiche esistenti dietro il sistema persecutorio mostrato nel film mi sono familiari».

Oggi potrebbe ripetersi, secondo lei, un caso Dreyfus?

«La vicenda racconta un errore compiuto dall' esercito e l' ostinazione nel non volerlo ammettere: è un atteggiamento tuttora praticato da grandi istituzioni come lo stesso esercito, la Chiesa, la stampa».

Ritiene che i media si siano comportati male con lei?

«Mi hanno fatto molti torti, raccontando un sacco di balle sul mio conto. Tutto iniziò nel 1969 con l' assassinio di mia moglie Sharon Tate, la grande tragedia della mia vita».

Cosa intende?

«Finché non si è arrivati alla setta di Charles Manson, il caso sembrava così inspiegabile che è stato più facile addossarmene ignobilmente la responsabilità su uno sfondo di presunto satanismo. Da vittima, fui trasformato in un mostro... I media continuano ad accusarmi, aggiungendo strati alla palla di neve della mia reputazione. Escono storie assurde di donne mai conosciute che mi addebitano fatti accaduti in teoria decenni fa. Difendersi è come combattere contro i mulini a vento».

Crede di essere un bersaglio del maccartismo femminista?

«Dico soltanto che oggi non esiste più l' equo processo. Viviamo in un' epoca di post-verità in cui i fatti non contano: l' unica verità è quella delle emozioni». 

Si sente una vittima di questa situazione?

«No, ma ne soffro. E non sono l' unico».

Ha visto C' era una volta a Hollywood, il film di Tarantino sul massacro del 1969?

«No. Volevo evitare di dover poi esprimere un giudizio».

Perché ha denunciato l' Academy che nel 2018 l' ha espulsa?

«La decisione è stata presa ingiustamente e senza ascoltarmi: l' ho saputo dai media. Sono membro dell' Academy dal 1969 e prima dell' espulsione c' è stato questo (indica l'Oscar, vinto nel 2003 per il Pianista, che brilla in un ripiano della libreria in mezzo a tanti altri premi, ndr)».

Picquart è un eroe del passato, chi sono gli eroi attuali?

«Gorbaciov, che ci ha liberati dallo stalinismo. E i whistleblowers come Edward Snowden o Julian Assange che attraverso la tecnologia smascherano gli abusi del potere».

Oggi vede una recrudescenza dell' antisemitismo?

«Certo. Le cronache ci dimostrano ogni giorno che contro gli ebrei crescono intolleranza e pregiudizi. E che si sta perdendo la memoria del passato».

Che valori pensa di aver trasmesso ai suoi figli?

«L' amore per la verità, l' onestà, il rispetto del lavoro. Solo Morgane, 26 anni, vuol fare cinema: dopo aver studiato arte drammatica e interpretato la serie Vikings ha perso interesse per la recitazione e pensa alla regia».

Cosa la mantiene in forma?

«La curiosità e lo sci che pratico regolarmente».

Il futuro del cinema è al di fuori dalla sala?

«Gli antichi greci profetizzavano la fine del teatro, i romani la sparizione del circo... malgrado lo streaming, la gente vuole ancora gustare il cinema in compagnia, sul grande schermo. Immagina un film come Borat guardato sul tablet? Assurdo. La risata va condivisa».

Faceva ridere anche Barton Fink, la commedia dei fratelli Coen a cui nel 1991, da presidente della Giuria a Cannes, assegnò la Palma d' oro e gli altri premi principali.

«Il film li meritava! Subito dopo, il Festival proibì di affiancare altri premi alla Palma in nome della filosofia marxista che prescriveva di dare una caramella a ciascuno. Penso alle gare senza vincitori della Cina maoista...».

Lei invece è competitivo?

«Sì. La vita è una continua competizione».

Intervista a Roman Polanski: «Molestie? Su di me giudizi emotivi, la realtà è un’altra». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. Tra i molti modi di fare un’intervista, il più scomodo è quello sull’orlo di un burrone. Esattamente dove rischia di trovarsi chi deve intervistare Roman Polanski dopo che la fotografa Valentine Monnier lo ha accusato di averla picchiata e violentata. I fatti risalgono a 44 anni fa e sono ormai prescritti, ma proprio per questo l’accusa (la quinta, dopo quella di Samantha Geimer nel 1977 per cui ha un conto ancora aperto con la giustizia americana, e quelle di altre tre donne, tra il 2010 e il 2017) rischia di trasformarsi in una condanna che nessun tribunale potrà mai cancellare. Un imbarazzo per chi vorrebbe mantenere distinto l’artista dall’uomo, che però ogni domanda rischia di amplificare, visto che il tema del suo ultimo film L’ufficiale e la spia, Gran Premio della giuria a Venezia, è proprio la storia di un errore giudiziario. E che errore, visto che racconta il caso Dreyfus, il più celebre scandalo della giustizia francese…

Il suo film inizia con la degradazione del colonnello Dreyfus che grida la sua innocenza di fronte a chi gli strappa i gradi e gli spezza la spada. Perché ha voluto raccontare quella storia?

«Dopo aver fatto Il pianista mi sono accorto della differenza e della soddisfazione che provi ad affrontare un tema importante, sociologicamente, politicamente o emozionalmente. I grandi soggetti fanno nascere spesso dei grandi film e la storia di Dreyfus, che avevo scoperto quindicenne in un mediocre film americano, Emile Zola di William Dieterle, e di cui mi aveva impressionato proprio la scena della degradazione, è indubbiamente un grande tema».

Il film racconta gli sforzi del capitano Picard, appena nominato a capo dei servizi segreti, per smontare le accuse contro Dreyfus, accusato ingiustamente di spionaggio. E per farlo l’ufficiale non esita ad andare contro il Governo e lo Stato Maggiore dell’Esercito, cioè le sue ragioni di vita. Per la verità bisogna sacrificare ogni cosa?

«Ci sono delle persone che muoiono per la verità. Molte lo hanno fatto e nel mio film ho voluto rappresentare lo scontro tra la fedeltà alla Ragion di Stato e quella alla verità. Picard la difende sia di fronte al generale Gonse, che lo invita a tener segrete le sue scoperte e portarsele nella tomba, sia di fronte all’attendente Henry, pronto a uccidere chiunque, anche un innocente, se gli viene comandato».

Oggi è ancora così?

«Un giorno ne ho parlato con il capo dell’esercito francese che mi spiegava come il loro compito fosse preparare i soldati a morire e a uccidere per la patria e come per un soldato fosse più facile morire per un ideale che uccidere. Ma l’esercito è così, ha aggiunto: vi si dice di uccidere qualcuno e voi ubbidite e se poi si scopre che c’è stato un errore, non è colpa vostra. Mi ha detto proprio queste parole, le stesse che poi ho messo nel film in bocca a Henry».

I personaggi dei suoi film spesso scivolano verso un dramma che neppure immaginano, come se vivere volesse dire soffrire, perché è difficile distinguere il bene dal male, il vero dal falso.

«Sono convinto che più si vive più si debbano prendere dei rischi: niente è senza prezzo. Come dicono gli inglesi: there is not free lunch, non ci sono pasti gratis. Picard è un soldato coraggioso e onesto. Non può accettare che l’esercito nasconda la vera spia per non dover ammettere di aver sbagliato. Lo ribadisce quando dice che avrebbe preferito che Dreyfus non fosse innocente: la sua vita sarebbe stata più semplice».

Eppure alla fine del film, di fronte a Dreyfus che chiede la promozione che non ha avuto per colpa dell’incarcerazione, Picard diventato ministro spiega che l’opinione pubblica non capirebbe e perciò non può promuoverlo.

«Le cose sono andare veramente così: è la verità e non volevo cambiarla. Ma soprattutto non volevo un happy end»

Perché?

«Volevo ribadire che anche oggi viviamo in tempi simili, nell’epoca della post-verità, dove l’emozione è più importante della realtà. Anche tutto quello che si scrive su di me risponde maggiormente alle emozioni che ai fatti reali. Per questo ho voluto fare un film dove si dice che in nome della verità bisogna sacrificare ogni cosa. Anche se poi alla fine bisogna imparare a fare i conti con il fatto che c’è qualcosa di ancora più forte della verità, l’opinione pubblica».

Sembra che lei stia parlando delle accuse che le sono state rivolte. Il suo avvocato ha smentito le affermazioni di Valentine Monnier, ma lei non sente il dovere di ristabilire la verità su quei fatti anche di fronte al pubblico?

«Ne ho l’intenzione. Ma non con lei».

Insisto: quelle accuse non arriveranno mai in tribunale e quindi nessuna sentenza potrà stabilire la verità. La sola persona che può ribattere e spiegare i fatti è lei: non vuole farlo?

«Ho assolutamente intenzione di farlo. A ogni mio film succede qualcosa di simile a quello che è successo nei giorni scorsi. Dichiarazioni e accuse che finiscono per creare una palla di neve che rotola e si ingrandisce sempre più. Ogni volta c’è qualcuno che mi rimprovera qualcosa. Finora non ho parlato ma sono la sola persona che può farlo e lo farò al più presto».

Quelle accuse risalgono a quasi 50 anni fa. È cambiato da allora Roman Polanski?

«Sono invecchiato, naturalmente, ma penso anche di essere molto cambiato. Come regista ho imparato molto e mi sembra di fare meno errori: cerco di raccontare senza dover far vedere troppo, come quei pittori giapponesi che inseguono la purezza. Da giovane ero più esuberante, influenzato dal surrealismo e dal teatro dell’assurdo. Oggi mi sembra di essermi allontanato da tutto questo. Oggi mi sembra di essere più saggio».

Polanski, tra annullamenti a ripetizione e boicottaggi del film, la polemica non si placa dopo le accuse di abusi. Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. Le nuove accuse di violenze rivolte a Roman Polanski stanno rendendo difficile la promozione del film «J’accuse», che esce mercoledì 13 novembre nei cinema francesi. Venerdì scorso Valentine Monnier, ex modella e attrice, ha dichiarato di essere stata picchiata e violentata dal regista franco-polacco nel 1975, quando aveva appena compiuto 18 anni, durante una vacanza sugli sci a Gstaad, in Svizzera. È la quinta donna ad accusare pubblicamente Polanski. Il regista ha negato tutto tramite il suo avvocato, ma diventa difficile parlare del film senza affrontare la questione delle accuse rivolte al suo autore. Per questo motivo Jean Dujardin, protagonista del film, domenica sera ha preferito annullare la sua partecipazione al telegiornale delle 20 su Tf1, che pure è visto in media da sei milioni di telespettatori. Lunedì, la rete pubblica France 5 invece ha cancellato la trasmissione «C à vous» che aveva come ospite d’onore Louis Garrel, l’attore che impersona il capitano Alfred Dreyfus nel film. E il giorno successivo la moglie di Roman Polanski, Emmanuel Seigner, che ha sempre difeso il marito, ha rinunciato a presentarsi negli studi radiofonici di France Inter dove era attesa per «Boomerang». La stessa radio pubblica ha poi evitato di trasmettere «Popopop» di Antoine Caunes, già registrata, che aveva di nuovo Louis Garrel come ospite d’onore. «Abbiamo pensato che era impossibile mandarla in onda perché la questione di queste nuove accuse non veniva sfiorata. Inviteremo di nuovo Louis Garrel», ha detto la direttrice di France Inter, Laurence Bloch. «J’accuse», presentato alla Mostra del cinema di Venezia e salutato come uno dei migliori film degli ultimi anni di Polanski, è molto atteso in Francia. Molti invitano a distinguere la vita privata dell’artista dalla sua opera, una posizione che è diventata più difficile dopo l’affermarsi del movimento #MeToo. Nel caso di Polanski e di «J’accuse», in particolare, separare i due piani è reso più complicato da un’intervista rilasciata mesi fa da Polanski all’intellettuale Pascal Bruckner. Gli chiede Bruckner: «In qualità di ebreo perseguitato durante la guerra e di cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, pensa di sopravvivere al maccartismo neo-femminista di oggi che vi segue ovunque nel mondo, cerca di impedire la proiezione dei vostri film e, tra altre vessazioni, vi ha escluso dall’accademia degli Oscar?». «Nella storia trovo talvolta momenti che ho vissuto io stesso; posso vedere la stessa determinazione di negare i fatti e di condannarmi per cose che non ho fatto», come è accaduto al capitano Dreyfus. Qualche giorno fa Polanski ha comunque corretto il tiro, dicendo al JDD che «non oserei mai paragonarmi a Dreyfus».

Marco Giusti per Dagospia il 14 Novembre 2019. “Polanski violentatore! Pubblico complice!”. Bufera sul nuovo film di Roman Polanski, L’ufficiale e la spia – J’accuse, ispirato al caso Dreyfus, premiato a Venezia lo scorso settembre, uscito il 12 novembre in Francia e che uscirà da noi il 21. In patria ha incassato un ottimo risultato nel primo giorno di programmazione: 56.680 spettatori su 545 sale, primo in classifica con oltre 300mila euro. Le femministe francesi picchettano i cinema dove viene proiettato e sono anche riuscite a bloccarne uno. Ma la parte peggiore riguarda la promozione del film. Jean Dujardin, il popolarissimo protagonista, doveva andare ospite in diretta al telegiornale di France 1 e ha rinunciato. Lo stesso ha fatto, per altri motivi, Emmanuelle Seigneur. Ma Dujardin ha girato da poco un film con Adèle Haenel, Daim di Quentin Dupieux, e l’ha appoggiata quando il 4 novembre, l’attrice ha lanciato su “Mediapart” le sue accuse contro gli abusi sessuali nel cinema francese, specialmente quelli da lei subiti su un set dove era giovanissima. Ma il macigno contro Polanski è arrivato l’8 novembre, quando l’attrice e fotografa francese Valentine Monnier su “Le Parisien” ha accusato il regista di averla violentata a Gstaad quando era ancora minorenne. “Nel 1975 sono stata violentata da Roman Polanski, Io non avevo alcun legame con lui, né personale né professionale, e lo conoscevo appena. (..) Fu di una estrema violenza, dopo una discesa di sci, nel suo chalet, a Gstaad. Mi gettò a terra, mi dette delle botte fino a che mi arresi poi mi violentò facendomi subire tutte le vicissitudini. Dovevo ancora compiere 18 anni e ebbi la mia reazione solamente qualche mese dopo. Credetti di morire”. Le stesse accuse erano state lanciate contro di lui dall’attrice Charlotte Lewis, protagonista di Pirati, che ha detto nel 2010 di essere stata abusata da Polanski quando aveva 16 anni, e dalla svizzera Renate Langer, che, come la Monnier, ha detto di essere stata violentata a Gstaad nel 1972, dove il regista ha una casa. Ma la Monnier è la prima attrice francese a accusare pubblicamente Polanski, la sesta donna in assoluto, e le sue dichiarazioni, uscite proprio durante la promozione del film hanno avuto un effetto pauroso sulla storia. Anche perché il violento J’accuse di Adèle Haenel, unito a queste dichiarazioni, ha avuto un effetto esplosivo su quello che doveva essere il grande film di difesa di Polanski contro il “maccartismo femminista”, come lo ha chiamato lui, la sua celebrazione di perseguitato. Al punto che un giornale come “Liberation” da una parte, con lo storico Vincent Duclert ha distrutto il film da un punto di vista storico, accusandolo di accomodare la vicenda Dreyfus e la figura del suo difensore, Picquart, al solo scopo di fare un paragone Dreyfus-Polanski, da un altro, con Camille Nevers, dimostra quanto sia difficile ora avere uno sguardo chiaro e non complice sul film. Perché, e qui torna la polemica già scatenata a Venezia tra opera e autore, proprio di fronte a un film che già si pone come difesa del suo autore, e che lo fa servendosi di un personaggio simbolo come Dreyfus, è assolutamente impossibile dividerlo dal suo autore. E allora cosa possono fare i critici di fronte a questa confusione? La cosa più interessante, nota Camille Nevers, è che il vero J’accuse si capovolge nella cronaca, e l’accusatrice di fatto è Adèle Haenel e l’accusato è Polanski e il film funziona quasi da boomerang per il regista ormai di 86 anni che cercava così di ripristinare onore e dignità messe in discussione, facendo di se stesso un personaggio hitchockiano di “falso colpevole”. Alla fine, scrive la Nevers, “Zola giustifica Haenel”. E “l’opera di Polanski finisce immediatamente confiscata e superata dalla notizia”. Ma c’è di più. Visto che “Il teatro degli eventi più alla moda è stato ripreso, per una volta, non dai social network con hashtag di vendetta, ma da questi buoni vecchi media a cui nessuno crede più, la stampa quotidiana, nelle colonne di una piattaforma e grazie al lavoro di giornalismo investigativo impegnato. Quindi, una finzione cinematografica di esercizio della verità arriva, in un incredibile paradosso e una piroetta, a coronare il fondamento del passo della rivolta radicale dell'attrice. J’accuse, il film, autentica e giustifica Adèle Haenel. Il film, d'altra parte, non è di alcun aiuto per l'uomo o l'artista, per la sua storia di autore che forse aveva premeditato. Arriva all’esatto opposto, al punto che il film di Polanski segna il trionfo di una verità completamente diversa da quella attesa, inimmaginabile una settimana fa”. Ma, al di là di ogni polemica, e di ogni problema giudiziario, rimane il fatto che davvero rispetto al film non è facile mantenere uno sguardo limpido. 

Marco Giusti per Dagospia il 30 agosto 2019. “Spero che il fatto di essere ebreo non influisca sul suo giudizio su di me”, chiede all’inizio del film il capitano Alfred Dreyfus al suo superiore e maestro Georges Picquart. “No, starò attento a separare i sentimenti dai fatti”, risponde Picquart, lasciando così modo a Dreyfus di fargli presente che il suo giudizio è già in qualche modo compromesso. In modo non tanto diverso ci si pone un po’ tutti noi rispetto a questo J’accuse di Roman Polanski, sceneggiato assieme al Robert Harris di The Ghostwriter e prodotto da Alain Goldman con Luca Barbareschi, Paolo Del Brocco e Roman Abramovich. Anche noi stiamo “attenti” rispetto al film proprio perché è di Polanski in un momento particolare della sua vita. Quando cioè i vecchi processi americani per violenza carnale e le polemiche legate al MeToo e alla presenza di questo film a Venezia ne compromettono in ogni modo uno sguardo neutrale. Sia che lo si ritenga un fresco capolavoro o un buon polpettone un filo polveroso girato da un grande maestro a 86 anni, non riusciamo davvero mai a distinguere l’opera dall’autore. Anche perché, e mai come in questo caso, l’opera è l’autore. E’ Polanski a farci sapere da subito che lui si sente da tutta la vita massacrato e additato come il capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale francese innocente degradato e punito come traditore dalla destra reazionaria e fintopatriottica francese solo perché ebreo. E per questo finirà rinchiuso per anni in una cella coi ceppi ai piedi in quel dell’Isola del Diavolo, prima che il colonnello Picquart, interpretato qui da un grande Jean Dujardin, e Emile Zola sulla prima pagina di “L’Aurore” salvino il suo corpo e soprattutto il suo onore di militare e di francese. Ma c’è di più. Perché, proiettandosi nella storia di Dreyfus, Polanski affronta una serie di situazioni pur di fine ’800 che oggi ci appaiono estremamente attuali. Come se poco o niente fosse cambiato nella vecchia Europa. Il sovranismo, l’odio per l’Internazionale Ebraica della propaganda fascista, il gioco al massacro delle fake news. Se ci fu un vero e proprio Affare Dreyfus, prototipo di tanti se non tutti i casi giudiziari-politici del 900, seguito da centinaia di articoli sui giornali e con uno strascico che portò alla realizzazione di film celebri, come The Life of Emile Zola di William Dieterle con Paul Muni come Zola e Joseph Schlidkraut come Dreyfus, c’è anche un vero e proprio Affare Polanski, con martirio dello stesso regista, centinaia di articoli e polemiche su polemiche. Ripeto. E’ Polanski, nel bene e nel male, con un po’ di grandeur poco polanskiana (lui che è se,pre stato così ironico), a vedere il proprio caso riflesso nella storia di Dreyfus, condannato ingiustamente dalle forze fasciste e razziste francesi a un martirio infinito. Come fu ingiustamente condannato, dall’opinione pubblica mondiale, addirittura a causa demoniaca della tragedia della moglie Sharon Tate. Condannato perché non americano, regista di un film come Rosemary’s Baby, perché star della Swinging London piena di eccessi, orge e droga. E così, in questo caso, non è semplice, per lo spettatore cresciuto con i capolavori del regista, ma che dagli anni di John Ford e di Pablo Picasso, sa distinguere tra opera e autore, staccarli. Certo. Come film, questo J’accuse è un perfetto esempio di grande scrittura e messa in scena. Fotografia meravigliosa di Pawel Edelman, lo stesso de Il pianista e di tutti gli ultimi film di Polanski. Scenografie ricchissime di Jean Rabonne. Bellissimo cast, con Louis Garrel cone Dreyfus, Mathieu Amalric come grafologo, Emmanuele Seigneur come amante di Picquart, una serie di nomi eccelsi della Comédie. Non è un film moderno, diciamo. E Polanski è più vicino agli anni di Dreyfus che a quelli del Jocker. E non è per nulla un film alla Polanski, con svelamenti di identità. Anzi. Con questo è una macchina narrativa costruita alla perfezione. Per vecchi signori, ovvio. Ma, ripeto, il problema del nostro sguardo sul film è quasi insormontabile. E anche i grandi applausi, che partono dall’industria cinematografica europea che rivendica la propria indipendenza da Hollywood, ricevuti a tutte le proiezioni tradiscono un po’ questo problema. Chissà se la festa per il film l’hanno fatta all’Isola del Diavolo?

MA È UNA MOSTRA DEL CINEMA O UN TRIBUNALE SPECIALE? Lettera a Il Fatto Quotidiano il 30 agosto 2019. Gentile redazione, ogni volta mi stupisco di come Polanski venga trattato dai colleghi, ultima la presidente di giuria a Venezia, che si rifiuta di andare alla proiezione di gala del suo film per le accuse di molestie su una minorenne. Sono accuse orribili, per cui il regista è stato anche condannato, ma cosa c' entrano con l' arte? Ma è una Mostra o un tribunale? Io sto con il direttore Barbera: non siamo giudici, ma critici di cinema. Eliana Parenti

LA RISPOSTA DE "IL FATTO". Gentile Eliana, la ringrazio per le sue riflessioni, che considero una giusta reazione rispetto a un comportamento reiterato. Anzitutto mi permetto di darle alcune novità sulla questione, tuttora in corso di dibattito nell' ambito della Mostra veneziana iniziata da pochi giorni. Roman Polanski non sarà presente alla première del suo film, "J' accuse". La sua scelta, di cui non sappiamo le ragioni, è stata comunicata prima che la polemica prendesse corpo, è dunque precedente alle dichiarazioni della presidente di giuria di Venezia 76, Lucrecia Martel. Poi se oggi al Lido vedremo comparire il grande cineasta polacco saremo felici della sorpresa, naturalmente. Chiaramente la questione è delicatissima e come purtroppo spesso accade, viene cavalcata dai media (soprattutto "social") con quel "tanto al kilo" da svilirla e anzi fraintenderla proprio. Martel ha sbagliato il tiro: se questa era ed è la sua posizione, doveva dimettersi dal ruolo di presidente di giuria non appena è stata comunicata la selezione del concorso veneziano, vale a dire a metà luglio. Questo suo comportamento non solo è discutibile, ma anche goffo. E, ancor più grave, rischia di minare la bontà di qualsivoglia verdetto sortirà la Mostra. Ma non solo. Seppur la sua posizione sia legittima, farne oggetto di dibattito e polemica in pasto alla folla ha portato allo svilimento - se non addirittura a un vero e proprio depotenziamento concettuale - della battaglia di molte donne contro violenze e molestie. L' effetto è un clamoroso boomerang: tutti (e quasi tutte le donne) si sono schierati a favore di Polanski - che ricordiamo vittima egli stesso per la sua vita intera di ogni genere di sopruso a partire dall' Olocausto in poi -, il quale ha scontato e tuttora sta pagando cara la molestia sulla ragazza avvenuta decenni fa. La stessa sua vittima rilasciò a suo tempo delle dichiarazioni ed è noto che Polanski le abbia chiesto scusa per i suoi atti, certamente da condannare ma non tali da costargli una crocifissione praticamente reiterata a ogni festival che ospiti una sua opera. Anna Maria Pasetti

CHIUSO IL CASO POLANSKI: CON LE SCUSE DI LUCRECIA MARTEL, PRODUTTORI SODDISFATTI. Da la stampa.it il 30 agosto 2019. Il caso Polanski che ieri, con le dichiarazioni della presidente di giuria, l'argentina Lucrecia Martel, ha dominato l'apertura della Mostra del cinema di Venezia, può ritenersi chiuso, almeno per quanto riguarda la produzione che pure aveva ipotizzato il ritiro del film.

«A nome di tutta la compagine produttiva accettiamo - fanno sapere ufficialmente oggi - le scuse della Presidente della Giuria Lucrezia Martel. Nella certezza che rimarrà la serenità di giudizio nei confronti del film, J'accuse di Roman Polanski resta in concorso alla 76/ma Mostra del Cinema di Venezia».

MALATI DI METOO. Simonetta Sciandivasci per ''La Verità'' il 30 agosto 2019. C' è una bellissima canzone di Franco Battiato che parla di una puttana, «la più grassa puttana che mai avessi visto», alla quale uno scemo disse che era una schifosa montagna di grasso, mentre invece tutti gli altri sapevano, avendolo sperimentato, che a letto lei diventava più bella di Marylin Monroe. «Vedete come va il mondo? Ecco com' è che va il mondo», così fa il ritornello. Significa che la mole non schiaccia ma eleva e che spesso, nella vita, a essere spacciati, o almeno condannati all' insipienza, non sono quelli impacciati dai propri difetti, bensì quelli che non ne hanno neanche uno, e sono dritti, e retti, e magari anche magri. Significa anche che il mondo è molto strano, va per conto suo, e in momenti in cui viene investito da epidemia di demenza come da un po' di anni a questa parte, può capitare che un grande scrittore come Franzen dica che siccome Caravaggio è stato un maluomo, allora non vuole vedere i suoi quadri. E che la presidente della giuria del Festival di Venezia, Lucrecia Martel, si rifiuti di presenziare alla cena di gala in onore del regista Roman Polanski e dica che non applaudirà il suo film e che se fosse stato per lei non lo avrebbe mai invitato e che quando ha scoperto che ci sarebbe stato anche lui era troppo tardi per tirarsi indietro e abbandonare il ruolo gentilmente concessole. La ragione è sempre la stessa: Polanski sarebbe uno stupratore seriale pedofilo e non avrebbe saldato il suo debito con la giustizia (e pensare che sono anni che la ragazzina che violentò, ormai signora, Samantha Geimer, implora di lasciarlo in pace). Ora, vedete come va il mondo. Lucrecia Martel vanta «diversi riconoscimenti internazionali» (quando nelle bio non specificano quali, insospettirsi sempre, come per i giornalisti che scrivono di scrivere «per diverse testate») e nessuno di voi ha visto un suo film. Roman Polanski è quello di Rosemary' s baby, un capolavoro che hanno visto anche quelli che non l' hanno visto, tanto ha fatto la storia. Ed ecco com' è che va il mondo: non è lui a non applaudire lei, ma lei a non applaudire lui e, inelegante e scema com' è, ci tiene anche a sottolinearlo, perché non sa che la maleficenza, come la beneficenza, si fa di nascosto.

"PERCHÉ NON REAGISCO? SAREBBE COME COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO". GIANNI SANTORO per repubblica.it il 30 agosto 2019. "Perché non reagisco? Perché sarebbe come combattere contro i mulini a vento". Parola di Roman Polanski. Il regista parla per la prima volta del suo film in gara alla Mostra di Venezia, J'accuse, che i produttori hanno minacciato di ritirare dal concorso dopo le critiche da parte della presidente di giuria Lucrecia Martel ("Non separo l'uomo dall'opera: non lo applaudirò"). Da anni ricercato dalla polizia statunitense e perseguitato dalle polemiche per la condanna per "rapporto sessuale con minorenne" del 1977, il regista si paragona al protagonista della storia, Alfred Dreyfus, il capitano dello stato maggiore francese ebreo condannato per alto tradimento, accusa poi rivelatasi falsa. La rara intervista a Polanski è parte del materiale stampa del film e ne è venuto in possesso il sito americano Deadline, che ne riporta le frasi salienti. Intervistato dallo scrittore francese Pascal Bruckner, spiega perché ha deciso di raccontare il caso Dreyfus: "Da grandi storie spesso nascono grandi film. La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affascinante e attuale, visti i rigurgiti di antisemitismo. (...) Un caso simile potrebbe ripetersi. Ci sono tutte le circostanze: accuse false, superficialità giudiziarie, magistrati corrotti e soprattutto i social media che ti condannano senza un giusto processo né il diritto di appello". Bruckner poi chiede a Polanski se "da ebreo perseguitato in tempo di guerra e regista perseguitato in patria, sarà in grado di sopravvivere al maccartismo neo-femminista". "Un film come questo mi aiuta molto", risponde il regista, "ho ritrovato esperienze personali, la stessa determinazione a negare i fatti e a condannarmi per reati che non ho commesso. La maggior parte delle persone che mi molestano non mi conoscono e non sanno niente del caso". E ricorda poi come gli attacchi siano iniziati nel 1969 con l'uccisione di sua moglie Sharon Tate: "Stavo già attraversando un periodo tremendo, la stampa si impadronì della tragedia e la gestì nel modo più deplorevole possibile, sottintendendo che ero uno dei responsabili del suo omicidio, in un contesto di satanismo. Per loro, il mio film Rosemary's baby era la prova che fossi in combutta con il diavolo. Durò per mesi, finché la polizia non trovò i veri assassini, Charles Manson e la sua "family". Tutto questo ancora mi perseguita. È come una valanga, si aggiunge sempre uno strato. Storie assurde di donne che non ho mai visto che mi accusano di cose che sarebbero accadute più di mezzo secolo fa". "Non vuole reagire?", chiede l'intervistatore. "A che serve? Sarebbe come combattere contro i mulini a vento".

Venezia: il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione". Film storico, rigoroso ma poco vibrante, ricostruisce lo scandalo Dreyfus della Francia di fine Novecento. Una vicenda che per il regista assomiglia molto alla sua vicenda giudiziaria. Simona Santoni il 30 agosto 2019 su Panorama. Al Lido di Venezia è il giorno di J'accuse (L'ufficiale e la spia) di Roman Polanski, che arriva in scia alle polemiche che hanno aperto la 76^ edizione della Mostra del cinema. In corsa per il Leone d'oro, è un film dall'impianto classico, di stile rigoroso, che sembra il J'accuse del regista stesso contro il sistema giudiziario e l'opinione pubblica che l'hanno messo sulla griglia. Racconta l'affaire Dreyfuss, con toni più solenni che vibranti.  Ma andiamo per gradi. 

La polemica Polanski a Venezia. Il dilemma atavico è sempre quello: è giusto dare onore e spazio - e in questo caso la platea internazionale del concorso di Venezia 76 - a un ricercato dalla legge? Il regista polacco di origini ebraiche, a cui la Francia ha dato cittadinanza negandone l'estradizione, è accusato di violenza sessuale compiuta ai danni di una minorenne negli anni '70 negli Stati Uniti, da cui da allora si è tenuto sempre alla larga. Nella conferenza stampa di apertura della Mostra del cinema, a tale dubbio il direttore artistico Alberto Barbera ha risposto da cinefilo qual è: l'opera d'arte deve essere distinta dall'uomo che la realizza. E quindi, ben venuto a J'accuse di Polanski. La presidente di giuria Lucrecia Martel, dal canto suo, è stata più severa. Ha ammesso che non avrebbe partecipato al galà del film per evitare di dover applaudire il suo autore. Questa affermazione, estrapolata da una dichiarazione più ampia, è stata poi rilanciata da testate giornalistiche e social a suon di polemiche, con qualcuno che ha anche messo in dubbio il suo ruolo di presidente di giuria e la sua obiettività di giudizio. A noi non sembra che l'osservazione della regista argentina intacchi la sua capacità di valutazione. Eccola: "Non voglio partecipare al gala perché rappresento donne nel mio Paese che sono vittime di questo tipo di abusi, per cui non mi sento di alzarmi e applaudire ma il film c'è. Su questo tema c'è un dibattito e quale miglior luogo che questo, il festival, per il confronto? Non intendo essere il giudice di una persona, occorre affrontare il tema attraverso il dialogo". Insomma: il film è il film. L'uomo è l'uomo. Si può applaudire il film, si può non applaudire l'uomo. Polemica chiusa. E ora si parli del film. 

Rivive il caso Dreyfus. J'accuse (L'ufficiale e la spia) è stato applaudito alla prima proiezione per la stampa in Sala Darsena. Con una ricostruzione solida che lascia però pochi picchi emotivi, racconta l'affaire Dreyfus, uno dei fatti più controversi della storia francese del Novecento. Un episodio che ha proiettato un'ombra lunga su quello che sarebbe successo da lì a breve, con la vergogna dell'Olocausto. Il 5 gennaio 1895 il capitano ebreo Alfred Dreyfus, promettente ufficiale dell'esercito francese, dopo essere accusato di essere un informatore dei tedeschi, viene degradato e condannato alla deportazione a vita nell'Isola del Diavolo nell'oceano Atlantico, al largo delle coste della Guyana francese. Lo incarna un Louis Garrel irriconoscibile, stempiato, ben diverso dal sex symbol noto. Umiliato e circondato da un crescente clima di antisemitismo, Dreyfus continua a sostenere la sua innocenza. Il colonnello Georges Picquart (interpratato da Jean Dujardin), che era stato suo maestro senza averlo particolarmente in simpatia, assiste alla sua umiliazione. Quando Picquart viene promosso a capo dell’unità di controspionaggio che ha accusato Dreyfus, scopre però che l'informatore dei tedeschi è ancora in circolazione e che le prove e le indagini contro Dreyfus sono state superficiali e farraginose: Dreyfus è davvero innocente. Da allora Picquart si batte contro tutti i suoi superiori e collaboratori per far emergere la verità, che però l'Esercito francese vuole seppellire per non ammettere i propri errori. A sostenerlo, nella sua battaglia per la verità contro l'Esercito e contro l'opinione pubblica, c'è lo scrittore Émile Zola che pubblicha sul giornale L'Aurore il suo celebre "J'accuse", una lettera indirizzata al presidente della Repubblica in cui accusa diversi alti ufficiali di falsità, corruzione e bugie.

L'affaire Dreyfus secondo Polanski. Nello scandalo Dreyfus si intrecciano l'errore giudiziario, il fallimento della giustizia e l'antisemitismo. Il caso Dreyfus divise la Francia per dodici anni: Polanski oggi lo rievoca, come simbolo delle iniquità di cui sono capaci le autorità politiche, ergendo lo scudo degli interessi nazionali. È impossibile non leggerci anche qualcosa a lui molto vicino. Nel materiale stampa diffuso a Venezia, in un'intervista fattagli dallo scrittore francese Pascal Bruckner, Polanski (assente al Lido) ammette: "In questa storia trovo momenti che ho vissuto anche io: la stessa determinazione nel negare i fatti e nel condannarmi per cose che non ho fatto. La maggior parte delle persone che mi tormenta non mi conosce e non sa nulla del caso". Polanski tratta la vicenda con occhio attento e mano sicura, senza orpelli, sulla musica severa di Alexandre Desplat. C'è sostanza, tanta, ma la tensione emotiva è all'osso.  Al Lido Emmanuelle Seigner, che interpreta l'amante di Picquart, ha definito J'Accuse un "thriller politico e non un film storico". La sensazione, invece, è quella di trovarsi di fronte a un film storico, senza la suspense richiesta ai thriller. Da Garrel, anche lui presente a Venezia insieme a Dujardin e al produttore Luca Barbareschi, trapela un anedotto interessante e triste: durante le riprese del film, sul set si è presentata una delle figlie di Dreyfus. Purtroppo anche lei ha subìto la persecuzione: i figli più giovani di Dreyfus sono stati deportati durante l'Olocausto. Garrel dice con desolazione: "Anche la discendenza ha vissuto l'inferno".

Polanski: «Io come Dreyfus» Applausi al suo film «J’accuse». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Stefania Ulivi su Corriere.it. Al Lido, come era risaputo, non c’è. Ma la presenza più significativa di questa Venezia 76 è certo quella di Roman Polanski, 86 anni, uno degli ultimi grandi maestri del cinema del Novecento che evoca, a distanza, un parallelo diretto tra l’affaire Dreyfus e il suo. Il film con cui torna in concorso, «J’accuse», dedicato al celebre caso giudiziario («L’evento più importante della storia francese contemporanea», secondo Louis Garrel che presta il volto al capitano degradato e condannato all’ergastolo per un tradimento mai compiuto) ha ricevuto un’accoglienza molto calda: applausi alle proiezioni e alla conferenza stampa dove tutti, a cominciare dai produttori, considerano superate le polemiche seguite alle dichiarazioni della presidente di giuria Lucrecia Martel (che, anziché alla proiezione ufficiale, lo ha visto la mattina mescolata ai giornalisti). «Questo non è un tribunale morale ma una mostra del cinema. Il film deve parlare, la giuria giudicare, il pubblico se vuole applaudirà», dice a nome di tutti (il francese Alain Goldman e RaiCinema) Luca Barbareschi. Ma se il caso «J’accuse» è chiuso, la questione Polanski resta aperta. Ci pensa la moglie, l’attrice Emmanuelle Seigner, a evocarla: «È difficile mettermi nei panni di Roman. Oggi festeggiamo 30 anni di matrimonio. Nei suoi film c’è sempre il tema della persecuzione? Mi sembra comprensibile se si guarda alla sua vita». Più esplicito il regista 86enne. Che ha fatto sentire la sua voce, forte e potente, attraverso le parole della dettagliata intervista pubblicata sul pressbook del film (in cui fa capolino, mescolato al pubblico di un concerto di pianoforte), affidata all’amico Pascal Bruckner, saggista e scrittore, critico del movimento #MeToo, autore di «Venere in pelliccia» che Polanski portò sullo schermo. Un altro caso Dreyfus è possibile, gli chiede? «Sì, visto il risorgere di tendenze antisemite. Ci sono tutti gli ingredienti perché accada: accuse false, procedimenti legali discutibili, giudici corrotti, e soprattutto i social media che incolpano e condannano senza un processo regolare». Ogni riferimento alla sua vicenda processuale è, ovviamente, tutt’altro che casuale. I fatti risalgono al 1977, la violenza sessuale ai danni della 13enne Samantha Geimer. Reo confesso, fu condannato: passò 42 giorni in carcere, poi fuggì dagli Usa. Il caso riesplose nel 2009 quando fu arrestato in Svizzera su mandato Usa, e passò dieci mesi agli arresti domiciliari. La giustizia americana ha rifiutato le richieste dei suoi legali di chiudere il caso senza recarsi negli Stati Uniti dove rischia il carcere, mentre la stessa Geimer ha (senza successo) chiesto alla Corte superiore di Los Angeles di chiudere il caso, e l’Academy Award lo ha espulso dalle sue fila. Un vero accanimento, suggerisce Bruckner. «In quanto ebreo perseguitato durante la guerra e come cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, sopravviverai al maccartismo neo-femminista?». Mi ha aiutato il lavoro, risponde Polanski. «Nella storia ho trovato momenti che io stesso ho vissuto, posso riconoscere la determinazione a negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Molti atti dell’apparato persecutorio mostrati nel film mi sono familiari e mi hanno ispirato». Tutto parte da lontanissimo, sostiene, con l’assassinio di Sharon Tate, sua moglie. «Il modo in cui sono visto ha avuto inizio lì. Sebbene stessi vivendo un momento terribile, la stampa trattò la storia nel modo peggiore, lasciando sottintendere che io fossi uno dei responsabili della sua morte, ci misero mesi a arrestare Manson. “Rosemary’s Baby” era la prova che ero in combutta con il diavolo». Cita «le storie assurde di donne che non ho mai visto in vita mia e mi accusano di cose che sarebbero successe più di 50 anni fa». Ha ancora voglia di combattere, gli chiede lo scrittore? «E per cosa? È una lotta contro i mulini a vento». Ma non sembra affatto arreso.

Polanski: «Io perseguitato fin dal caso Sharon Tate». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Corriere.it. Al Lido non è arrivato, come previsto, giacché l’Italia è uno dei paesi in cui rischia l’estradizione negli Usa, ma la presenza di Roman Polanski, in concorso oggi con J’accuse dedicato all’affaire Dreyfus, si fa sentire, attraverso l’intervista che accompagna il pressbook del film interpretato da Louis Garrel e Jean Dujardin (in cui lo stesso regista polacco, 86 anni, fa capolino, mescolato al pubblico di un concerto di pianoforte). Si è fatto intervistare da un amico, lo scrittore Pascal Bruckner (l’autore di Luna di fiele, da ci ha tratto un film): «La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affasciante ma è anche molto attuale, visto il risorgere di tendenze antisemite. Un altro caso è possibile. Ci sono tutti gli ingredienti perché accada: accuse false, pessimi procedimenti legali, giudizi corrotti, e soprattutto i social medi che accusano e condannano senza un processo regolare». Ogni riferimento alla sua vicenda è, ovviamente, tutt’altro che casuale. Bruckner gli domanda: In quanto ebreo perseguitato durante la guerra e come cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, come ha potuto sopravvivere al maccartismo neofemminista che cerca di bloccare le proiezioni dei suoi film e altre ingiustizie come il fatto di essere stato espulso dall’Academy Award?. «Mi ha aiutato il lavoro — risponde Polanski. — Nel film ho riconosciuto momenti che io stesso ho vissuto, posso trovare la stessa determinazione a negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Devo ammettere che molti atti dell’apparato persecutorio mostrati nel film mi sono familiari e mi hanno ispirato». Tutto è cominciato, sostiene, con l’assassino di Sharon Tate, sua moglie. «Il modo in cui sono visto ha avuto inizio lì. Quando successe, sebbene io stessi vivendo un momento terribile, la stampa trattò la storia nel modo peggiore, lasciando sottintendere che io fossi uno dei responsabili della diffusione del satanismo, grazie a Rosemary’s Baby. Ci vollero mesi perchè fossero arrestati i colpevoli, Charles Manson e la sua family». E ora, dice «le storie assurde di donne che non ho mai visto in vita mia e mi accusano di cose che sarebbero successe più di mezzo secolo fa». Ancora voglia di combattere, gli chiede lo scrittore? «E per cosa? È come battersi contro i mulini a vento». Anche se l’intervista stessa è un segno che la voglia di combattere c’è. Intanto il film alla proiezione stampa del mattino - dove tra il pubblico c’era, molto discreta, anche la presidente della giuria Lucrecia Martel - è stato molto applaudito.

·         Umberto Orsini si racconta.

UMBERTO ORSINI SI RACCONTA IN UN LIBRO. Anna Bandettini per la Repubblica il 9 aprile 2019. La sola apparente stonatura è l' età. Come si fa ad avere 85 anni quando si è un attore elegante, levigato, allegro e di dotti pensieri? Umberto Orsini sembra avere una bacchetta magica, e invece - valga come lezione per i giovani - ha semplicemente entusiasmo, passione e la forza di astrarsi dagli ego smisurati degli artisti. Piemontese di Novara, ha saputo scegliere i migliori: Visconti, Fellini, Zeffirelli, Ronconi...capolavori come L' Arialda, Metti una sera a cena, Vecchi tempi, I Masnadieri, Servo di scena a teatro, al cinema La caduta degli dei, Ludwig, indimenticato Ivàn nei Karamazov tv di Sandro Bolchi ancora cliccato sul web. Amico di Judi Dench, Ian McKellen, Rod Steiger, Laurence Olivier, vanta perfino un fugace incontro con Orson Welles. «Sì, la vita è stata molto generosa nei miei confronti». Lo confessa in Sold out, l' autobiografia che il 12 uscirà da Laterza con un intervento affettuoso di Paolo Di Paolo: fitta di incontri e aneddoti attraversati da riflessioni sull' imminente debutto, Il costruttore Solness di Ibsen al Piccolo di Milano il 16 aprile. «Uno spettacolo diverso, particolare, non realistico, quasi magico». Un altro dei suoi lavori coraggiosi con un regista di generazione e poetica distante dalla sua, come fu con Pippo Delbono, Pietro Babina e oggi, appunto, Alessandro Serra. «Solness - dice - lo hanno fatto Ralph Fiennes in Inghilterra e John Turturro in America. È la storia faustiana di un vecchio che si illude di prolungare la vita oltre i limiti del tempo. Una vicenda anche di inganni e passioni proibite per una giovane ragazza, Hilde, che è Lucia Lavia».

Scandaloso?

«Sottilmente vorrei che lo fosse. Si parla di un vecchio signore a cui l' arrivo della ragazza, un bacio di tanti anni prima, provoca un' accelerazione di desiderio, come fosse una pastiglia di Viagra che cancella la paura della differenza d' età A un' anteprima una signora che è venuta a complimentarsi mi ha detto "Scandalo??? Nooo, anzi vorremmo essere tutte la ragazza"».

Le avrà fatto piacere.

«Sì, ma avrei preferito lo scandalo. Ho sempre voluto mettermi in gioco, ma ho dovuto lottare col mio fisico: prima perché ero carino, oggi perché non mi accorgo dell' età. Gioco a tennis e mentre nel mio circolo è pieno di vecchietti che giocano il doppio, io faccio ancora il singolo. Amo la fatica».

Basta per arrivare a essere "Umberto Orsini"?

«Forse sono anche un coraggioso, ma ancorato. Ok le sfide, ma tornando sotto il tetto di casa. E poi credo di aver avuto l' intelligenza di saper scegliere: la Compagnia dei Giovani, Visconti...».

Meglio Visconti o Ronconi?

«Ronconi è l' uomo più intelligente che ho conosciuto ma avere un rapporto umano con lui era impossibile. Con Luchino sì».

Visconti si innamorò di lei?

«No. E nemmeno Franco Zeffirelli che stimo molto, neanche De Lullo, Romolo Valli, lo stesso Luca. Sì, Giuseppe Patroni Griffi mi amava, ma sapeva che l' omosessualità non era una mia tentazione. Forse nell' infanzia, quei due episodi che racconto nel libro...».

Eppure li ricorda perfino con rispetto verso i due uomini.

«Peter, il soldato inglese, e Corrado che giocava a calcio e mi baciò. Rileggendo l'episodio nel libro, mi pare di averlo raccontato quasi da innamorato: l' immagine di lui che parava come un angelo, un po' alla Testori. Chissà, forse in quegli anni ho sfiorato l' omosessualità, amicizie che potevano sfociare in qualcos'altro, ma poi c' era la famiglia: "col lì l' è cupia", un gay, e qualunque sentimento veniva sporcato».

E non ne fu traumatizzato.

«No, anzi, mi hanno reso forte. La mia sfida era frequentare i "cupia", i miei amici Dado e Nello con cui in realtà non c' era niente di gay. Poi andai all' Accademia e la cosa finì lì».

Perché nel libro parla più di Virna Lisi che di Ellen, una delle gemelle Kessler?

«Forse non ho voluto parlare troppo delle donne della mia vita per pudore verso di loro e verso la mia compagna di oggi, più giovane di me. Con Virna Lisi non ci fu niente. Sono invece molto legato a Valentina Sperlì. Quanto a Ellen la scintilla scoccò a Milano; io le confondevo e non capivo mai quale delle due era quella non fidanzata... Fu una storia molto vissuta sui rotocalchi. In amore sono sempre stato precario, poche convivenze. Ho amato molto Rossella Falk, amanti e poi grandi amici. Una diva. Lei, Valentina Cortese, Romy Schneider. Entravano e spostavano l' aria. Gli anni con Rossella all' Eliseo, di cui 18 con la mia direzione, sono stati i più belli».

Come il Solness di Ibsen, lei ha paura dei giovani?

«No, mi piace Elio Germano, anche Accorsi, Favino, Marchioni, bravi al cinema, ma a teatro non vedo che portano la croce. Quanto a me, mi sento sicuro di ciò che ho fatto. Non sono mai caduto. Non è poco. E il motivo è perché ho desiderato ma con parsimonia, in modo da non sentirmi troppo onnipotente, ma nemmeno deluso».

·         Pierfrancesco Favino e le donne.

Favino e il fascino: «Che fatica: mai avuto una faccia da ventenne». Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Corriere.it. La sua passione per gli orologi nasce «dall’interesse per i meccanismi e per le complicazioni che i grandi segnatempo portano con sé, e dall’idea di avere al polso qualcosa che ti rappresenti, che può essere mostrato o nascosto». Sorride Pierfrancesco Favino, mentre racconta di quando, sul set di Saturno Contro di Ferzan Özpetek, ha incontrato il Portoghese di Iwc. La scintilla che lo ha reso ambassador per l’Italia del prestigioso marchio. «Il tempo è sempre più un lusso, ma in questa perenne rincorsa a volte l’orologio permette anche di segnare il tempo che riesci a dedicare a te stesso e alle persone che ami», riflette.«Io ho un rapporto ancora analogico con il tempo, guardo automaticamente più il polso che lo smartphone. L’orologio è un oggetto più personale». Che ci segue in «questo momento di cambiamento, ma anche nel tempo di apprendimento e realizzazione di ognuno di noi: se questo tempo di comprensione viene dettato dall’esterno, come sta accadendo, allora ci mette in difficoltà». Protagonista straordinario de Il Traditore di Marco Bellocchio, che punta all’Oscar, Favino è grato al tempo della gavetta che lo ha reso l’attore solido che è, perché «a un certo punto, tutto il lavoro seminato, ogni singola esperienza, ha preso il corpo del mio lavoro di oggi. Io sono un po’ un diesel: per fare al meglio il mio mestiere ho bisogno di un tempo di maturazione più lento». Così agli allievi della Scuola di formazione dell’attore L’Oltrarno, che dirige a Firenze, Favino insegna quanto valga «essere passato attraverso esperienze graduali di crescita: il successo è una responsabilità importante e bisogna avere le spalle larghe per sostenerla con onestà». Soprattutto quando racconti «l’umanità, in cui credo molto, un libro infinito da investigare senza imporre la nostra visione a chi ci guarda». La sua voce, «primo specchietto della nostra identità», è densa e profonda come la sua personalità. Che Pierfrancesco declina con stile, inteso come «quel tocco che ci distingue, ci racconta, anche in cambiamento. Se poi parliamo di moda, accessori come l’orologio possono dire molto di noi», come l’Iwc Pilot Ceratanium che ha al polso, «sportivo ma anche elegante, un orologio che nasconde il suo valore, non è appariscente ma è unico». Come lui. Discreto sui social, perché «non devi sapere troppo di me, per poter credere che una volta io sia Buscetta, un’altra volta Craxi. Toglierebbe fascino a ciò che faccio». Per il suo 50 esimo compleanno, però, ha postato un aforisma di Coco Chanel: «La natura ti dà la faccia che hai a 20 anni, è compito tuo meritarti quella che avrai a 50». «Un motivo di fatica nella mia vita professionale è stato non avere la faccia che doveva avere un ventenne. Poi questa faccia è diventata più interessante, per esprimere i colori e le vene dei 40enni. Sono soddisfatto della faccia che ho adesso, è più familiare alle persone e mi assomiglia». 

Pierfrancesco Favino e le donne. Da I Lunatici Radio2 il 7 giugno 2019. Pierfrancesco Favino è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Favino è nelle sale con 'Il traditore', film di Marco Bellocchio in cui interpreta Tommaso Buscetta: "E' un film che mette insieme la qualità di un autore molto importante come Bellocchio e la popolarità del tema. E' una storia che ci riguarda, conosciuta, molto popolare. Sono orgogliosissimo di vedere quanti ragazzi stiano andando al cinema, è una cosa molto bella. Bellocchio è un artista, ce ne sono pochi, sono felicissimo di aver avuto questa opportunità, mi auguro ce ne siano altre". L'attore ha parlato un po' di sé: "Da bambino sognavo di diventare attore. Ero un bambino pieno di fantasia, curiosità e vitalità. L'attrazione per questo mestiere ce l'ho avuta fin da piccolissimo, ho sempre inseguito questo sogno, sono riuscito a trasformarlo nel mio mestiere. A casa non mi hanno sempre incoraggiato, quando ho scelto di fare questo mestiere il pezzo di carta, la laurea, sembrava garantirti sempre un futuro. Io questo mestiere l'ho scelto sapendo che avrei abbracciato, e ancora oggi lo so, un'insicurezza. Questo per un genitore è spaventoso, ogni genitore desidera che il proprio figlio possa avere una carriera sicura, che non debba tribolare. Poi negli anni, vedendo che comunque alle difficoltà reagivo con un sorriso, senza abbattermi, sono stato appoggiato. Ma ho fatto tutto da solo, di questo sono molto orgoglioso". Sul momento in cui si è accordo di essere diventato molto popolare: "Mi sono reso conto che le persone mi volevano bene non attraverso il cinema ma attraverso Sanremo. E sono molto felice di questo. Forse per la prima volta ho mostrato chi sono io, non quello che faccio come mestiere. A volte pensiamo al cinema con la forza che aveva un tempo, quando era popolare ed entrava nelle case di tutti. Purtroppo non è più così. L'occasione di Sanremo per me è stata anche un po' uno choc da questo punto di vista. Comunque, ho costruito la mia carriera con molta tranquillità e lentezza. Per cui non c'è un momento in cui ho pensato 'ecco, è fatta'. Anche perché non so cosa voglia dire. Da un paio d'anni a questa parte le persone mi trattano come uno di casa, questo è molto bello, è uno degli aspetti che caratterizzava quelli che ancora oggi consideriamo i grandi attori italiani. Ci appartenevano, al di là delle loro qualità, perché facevano parte della nostra vita. Quando per strada vieni fermato da persone che hanno voglia di dimostrarti questo affetto è uno dei punti più alti che si possa raggiungere in una carriera". Favino non ha escluso la possibilità di tornare a fare il presentatore in futuro: "Per me è stata una lezione e una liberazione. Facendo il mestiere che faccio, l'attore, c'è sempre il filtro del personaggio. Dietro al quale ti sveli e ti nascondi. Accettare quella sfida è stato accettare la sfida di mostrare ciò che sono. Io sono quello. Io sono un po' schizofrenico, quella è la mia identità, sono questa cosa qui. Se c'è in cantiere un'altra esperienza simile? Non c'è in cantiere niente, però non è una cosa a cui guardo con snobismo. Quando dico che sono tutto questo, dico che io sono una persona estremamente popolare, mi piacciono le cose popolari, se dovesse capitare una cosa in grado di essere divertente, una sfida ulteriore, da vivere con le persone con cui mi piace lavorare, perché no? Anche se di concreto non c'è nulla". Sui motivi della sua particolare popolarità con le donne: "Io penso che se non avessi avuto un faro addosso forse non se ne sarebbero accorte. Anche se in realtà non mi è mai andata troppo male con le donne. Sono anche cresciuto in mezzo alle donne, questo è molto importante. C'è qualcosa che ha a che fare con una confidenza di un altro tipo. E poi magari incarno qualche cosa, un misto tra il mio aspetto fisico che è decisamente maschile e una sensibilità che più ampia. Quando questa cosa traspare può essere attraente. Detto questo, se fossi donna io non mi piacerei. Tutti noi abbiamo una faccia ma vorremmo averne un'altra. Comunque, se va bene a loro io sono ben contento. Se sono mai capitate avance esagerate? Su instagram ogni tanto capita, ma rimane tutto abbastanza nella norma e nell'educazione. Qualcuna è abbastanza fissata con le mani. Non ho mai usato i social per acchiappare".

·         Nicolas Vaporidis.

Da “I Lunatici - Radio2” il 21 maggio 2019. Nicolas Vaporidis è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. L'attore romano ha parlato un po' di sé: "Da bambino sognavo di fare l'astronauta, per accontentare il valore di mio nonno, che non so perché mi sognava astronauta. La passione per la recitazione nasce ai tempi del liceo, alla fine della scuola. Nasce parallelamente alla scuola, anche perché non c'erano dei corsi di teatro, cosa che a mio avviso dovrebbe essere obbligatoria quasi. Il teatro è un modo bellissimo per cercare di conoscere meglio sé stessi e gli altri. Un corso di teatro dovrebbero metterlo nelle scuole e nei licei. All'inizio ero molto spaventato, poi tanto più recitavo, tanto più mi piaceva farlo. In famiglia hanno sempre assecondato la mia volontà, qualunque cosa io avessi voluto provare a fare. Non mi hanno mai detto di no, però mi prendevano per i fondelli, mi chiamavano l'attore, non nell'accezione positiva del termine". Poi è arrivata la grande occasione: "E' stata 'Notte prima degli esami'. Lì davvero è intervenuto il destino. Lavoravo già da cinque anni, avevo fatto una comparsata nel film di Pieraccioni, fatto un film da protagonista con Giancarlo Giannini, ma stavo iniziando a pensare di fare l'attore continuando a fare l'università. A un certo punto per seguire il mio percorso universitario sono andato a Torino. Lì arrivò Fausto Brizzi, con il provino di 'Notte prima degli esami' che io all'inizio non volevo nemmeno fare. Non pensavo avesse portato grandi frutti. Onestamente il nostro mestiere è molto bello, ma poterci vivere è molto difficile. All'epoca avevo deciso di concentrarmi di più sull'università. Poi è arrivato Brizzi e mi ha convinto a tornare a Roma. Nessuno sul set si rendeva conto che 'Notte prima degli esami' sarebbe diventato un cult. Nasceva con Laura Chiatti come protagonista, poi lei fece un film con Sorrentino ed arrivò Cristiana Capotondi. Eravamo tutti giovanissimi e praticamente sconosciuti, anche Brizzi era lo sceneggiatore dei film di De Laurentis, non aveva mai girato nulla. Eravamo tutti freschi, inconsapevoli, dedicati totalmente a quel progetto. Siamo rimasti tutti sorpresi da quel film, è stato un tsunami, una cosa che ti arriva addosso e ti stravolge totalmente la vita. Sono passati 12 anni da quel film ma ancora oggi, soprattutto in questo periodo, 'Notte prima degli esami' sembra come "Una poltrona per due" a Natale". Su Fausto Brizzi: "Cosa penso di tutto quello che gli è accaduto? A distanza di quasi due anni non riesco a dare un giudizio oggettivo e distaccato. Qualunque cosa dicessi potrei essere considerato uno stronzo maschilista che fa parte del sistema oppure un giustizialista che non si rende conto delle particolarità dei casi. Conosco Fausto da tanti anni, mi sembra molto difficile conoscendo il sistema e conoscendo lui che tutto ciò possa essere vero, ma non lo so per certo. Quindi mi fido di fonti più autorevoli. Io a Fausto sono affezionato e gli voglio molto bene. Ha una bellissima figlia, quello che gli è stato fatto è una gogna mediatica che a me spaventa perché chiunque potrebbe finirci dentro. La modalità mi terrorizza. E' agghiacciante. Io a Fausto voglio bene come essere umano e come amico, come regista lo stimo molto".

·         Giulio Scarpati, il medico in famiglia.

Giulio Scarpati, il medico in famiglia: «Sono stato il dottore degli italiani». Pubblicato giovedì, 23 maggio 2019 da Corriere.it.

Dottor Giulio Scarpati, ho un dolorino sotto la scapola sinistra, cosa mi prescrive?

«Lei scherza, ma accadeva proprio così, e se cercavo di buttarla sul ridere c’era rischio che la gente si offendesse. Una volta, all’edicola, mi corre incontro una signora piuttosto distinta: “Per fortuna l’ho vista, avevo giusto bisogno di lei”. “Ma, a dire il vero…” “Non facciamo gli spiritosi, io il dolore ce l’ho davvero e lei me lo deve far passare”. Me la sono cavata consigliando una pomata innocua che stavo utilizzando per uno stiramento. C’erano anche ragazzini che chiedevano la mano delle mie figlie. Il successo di Un medico in famiglia è stato così travolgente che ho dovuto spesso staccare, altrimenti la mia carriera di attore finiva per essere solo identificata con quel ruolo».

Quindi la figura del medico gode ancora di grande rispetto?

«Il segreto di quella serie (andata in onda su RaiUno dal 1998 al 2016, ndr) è dovuto alla “normalità”, all’idea che un medico ha gli stessi tuoi problemi e quindi, oltre a curarti, può anche capirti. Gli italiani hanno nostalgia del dottore che veniva a casa con la borsa di pelle con dentro l’aggeggio per misurare la pressione e diverse siringhe, riceveva in ambulatorio mettendo la mano sulla spalla, conosceva i pazienti uno per uno, anche nella loro vita privata, sapeva ascoltare ma anche leggere ciò che diceva il corpo. Un po’ come Alberto Lupo nello sceneggiato televisivo La cittadella, se lo ricorda? Oggi il medico spesso sta seduto dietro a un computer e prescrive analisi».

Per quel ruolo, immagino si sia preparato compulsando tomoni di anatomia…

«Neanche per sogno. Mica dovevo fare diagnosi vere. Dovevo essere dottore nello stesso modo in cui ero padre. Ero interessato agli aspetti umani più che a quelli scientifici. Così ho cercato di capire come comunicare con il paziente, come rassicurarlo. Mi veniva spesso in mente qualche scena della mia infanzia, quando ero malato e il dottore, mentre mi visitava, si interessava a quel che facevo, allo studio, ai giochi, a cosa volevo diventare da grande».

Nel ruolo di medico ha imparato ad ascoltare meglio il suo corpo?

«Lo faccio da sempre. Sono stato addestrato fin da bambino, ad esempio, a riconoscere quando hai qualcosa di rotto: ti prende una strana nausea. Con mio fratello si faceva sempre a cazzotti. Un giorno si fratturò un piede giocando a tennis. Ma il gesso non vietava che continuassimo a pestarci. Per sfuggirmi, andò a sbattere contro una maniglia e fu la volta del gomito. Altro gesso, ma non bastò ancora. Mentre gli stavo assestando una botta in testa, lui alzò il gesso e stavolta mi spaccai io la mano. E così via, per anni».

Sulle scene non fate a cazzotti ma credo sia necessario rimanere in forma. Come si prepara?

«Cerco di tenere a bada i miei punti deboli, faccio abitualmente esercizi per la schiena e di respirazione per la voce. Il corpo ti dice sempre quando stai tirando troppo la corda, se ignori i suoi messaggi poi sono guai».

Adesso che non è più un ragazzino prende qualche precauzione in più?

«Prima mi lavavo i capelli e non li asciugavo, adesso non me lo posso permettere. E non gioco più a calcetto nelle partite scapoli contro ammogliati».

Ha mai interpretato il Malato immaginario?

«Noi attori siamo tutti malati immaginari. “Come stai?”. “Insomma…”. Per l’attore lamentarsi è come fare prevenzione: scaramanzia preventiva. Quando si avvicina la prima, cominci ad avvertire un abbassamento di voce, un dolorino di qua, uno di là, sei un po’ caldo… Io mi sentivo malato a quasi tutte le prime. Allora impari a dirti: “Pazienza”, e te ne dimentichi. Immaginarsi malato, spesso serve: ti carichi di maggiore energia per compensare un’eventuale debolezza. Poi ci sono gli incidenti veri. Sulla scena de La sposa di Messina di Schiller c’era una montagna di sale con i pezzi di cavallo conficcati dentro di Mimmo Paladino. Dovevamo correre su e giù e nelle prove mi stirai una coscia. Lo spettacolo doveva andare avanti e il regista mi fece entrare in scena portato su una sedia, dopo di che cominciavo a muovermi con le stampelle. Un’altra volta accadde nel Lorenzaccio. Nella partita Medici contro Strozzi sentivo che sarebbe finiva male. Decisi di stare in porta, ma avevo il destino segnato e mi fratturai un piede. Recitai con il gesso, sbucando da improbabili botole che mi consentivano di reggermi sulle braccia. Ho recitato anche con la febbre a 39: sudi come un matto e, a fine spettacolo, stai già meglio. Peggio quando vai in scena con un’intossicazione alimentare. Però impari a non fidarti di bettole da quattro soldi».

Veramente, con la mia domanda precedente, intendevo se ha mai interpretato l’opera di Molière…

«No, sono però in tournée con il Misantropo: non ha malattie, in compenso se la prende con il mondo intero. Per interpretarlo devo metterci tutta l’energia possibile. Ogni sera, a teatro, devo uscire dalla mia vita ed entrare in un’altra per raccontarne i sentimenti. Quando noi attori ci vogliamo assolvere dai nostri peccati diciamo: “Oggi il pubblico è cattivo”, ma nella maggioranza dei casi dipende dal fatto che non siamo entrati in scena con l’energia necessaria. Quando morì mio papà, stavo recitando a Chieti in Una giornata particolare di Ettore Scola con Valeria Solarino. Al mattino chiamò mia sorella: “Papà è peggiorato ma non preoccuparti, tanto domani rientri”. Aveva una voce strana, non mi convinceva, così chiesi al mio amico Stefano se mi accompagnava a Roma. Per strada seppi che era morto. Arrivai, lo salutai, poi tornai a Chieti. I colleghi capirono che avevo bisogno di spazio per il mio dolore: nessuno venne in camerino per farmi le condoglianze. Salii sul palcoscenico e profusi tutta l’energia che ero riuscito a incamerare. Finito lo spettacolo, corsi in camerino e piansi. Valeria uscì per gli applausi e chiese al pubblico di perdonarmi: dovevo stare solo con il mio dolore». 

·         Pupi Avati.

Pupi Avati è nato a Bologna, una delle storiche roccaforti di sinistra del nostro Paese e le imminenti elezioni per il rinnovo del consiglio regionale sono state l'assist perfetto per far esprimere il regista in merito alle sue preferenze per il presidente della Regione: “La domanda mi crea imbarazzo, non posso esser sincero. Se dico una cosa so che un dolore ad una parte dei miei cari, e viceversa...” Di certo c'è che Pupi Avati non è interessato alla proposta del Movimento 5 Stelle: “Tutte queste cose dettate solo dalla protesta non mi interessano molto.” Non c'è stata, però, solo la politica nella lunga intervista di Pupi Avati a Un giorno da pecora, dove ha affrontato anche temi inerenti al cinema, il suo campo. Ha raccontato di quella volta che perse il Golden Globe per Il Testimone dello sposo nonostante fosse convinto di averlo vinto: “Andai alla serata in smoking, c'era tutta Hollywood. Mi fecero addirittura scendere i tre gradini come prova per andare a ritirare il premio. Quando annunciarono il "best foreign movie" mi alzai, feci i tre gradini, ma il titolo del film vincitore si riferiva ad una pellicola olandese: rimasi li in piedi come un coglione, davanti a tutti. Tornato a Roma, mio fratello rimase in camera con me tutta la notte, seduto al mio fianco, perché era sicuro che mi sarei buttato di sotto..” Ai microfoni di Un giorno da pecora ha anche raccontato di quando ha provato una fortissima invidia nei confronti di Lucio Dalla, chiamato dallo stesso Avati nella sua Jazz Band come suonatore di clarinetto, lo stesso suo strumento. Durante un concerto Lucio Dalla rivelò il suo talento straordinario, al contrario di quanto Pupi Avati immaginava. “Ho sperato fortemente che morisse, ma non c'è stato niente da fare – ha detto ridendo - Io sono una persona invidiosa, preferisco gli insuccessi altrui che i miei successi.” I conduttori hanno poi cercato di mixare politica e cinema con Pupi Avati e il risultato è stato un colpo di genio da parte del maestro. Giorgio Lauro e Geppi Cucciari gli hanno chiesto di immaginare quali ruoli assegnerebbe ai politici di oggi in un film corale: “Sarebbe perfetto come direttore di ristorante di grande classe, alla Carlo Cracco, sarebbe seducente e attento, Renzi potrebbe fare il cameriere del ristorante di fronte a quello di Conte. Di Maio sarebbe il poliziottino, piccolino, che rimane in macchina, che sta alla guida. Salvini potrebbe fare il cantante di liscio, quello che cucca le spose sull'Adriatico, su quelle barche che fanno piccole crociere. Zingaretti potrebbe fare il ginecologo e la Meloni la postina di un luogo come Castelfidardo. Mattarella forse potrebbe fare il sacerdote.”

"Da sempre nei miei film il fantastico convive con la realtà quotidiana". Dialogo con il regista dopo «Il Signor Diavolo»: «La sacralità è fondamentale nella nostra vita». Andrea Scarabelli, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. È da poco uscito nelle sale cinematografiche Il signor Diavolo, ultimo lavoro di Pupi Avati, il cui successo cinquantennale non è forse dovuto solo a fattori tecnici ma a una precisa «visione del mondo» sottesa alla sua produzione. Il film è stato accompagnato da due pubblicazioni, edite da Bietti: Gotico padano, di Claudio Bartolini e Ruggero Adamovit, e un numero monografico di Inland, che affronta il mondo avatiano a trecentosessanta gradi, soffermandosi in particolare su questa «visione del mondo», tesa tra folklore e immaginario, Medioevo e modernità, le assolate distese emiliane e un Altrove più vicino di quanto si possa pensare. Proprio da qui ha preso le mosse questa chiacchierata.

Qual è la chiave di volta della sua cinematografia «fantastica»?

«È anzitutto l'idea che il fantastico conviva con la realtà. Noi tutti nasciamo con un potenziale fantastico enorme, viviamo in un mondo in cui possibile e impossibile sono contigui, ma poi la ragione fa sì che la parte non verificabile venga rimossa. Le persone creative, che mantengono un rapporto con l'immaginario, continuano a giudicare realtà e irrealtà come dotate della stessa dignità. Ammettono, insomma, che l'improbabile possa subentrare al probabile. Sono convinto esista un mondo parallelo, alternativo, nel quale potersi rifugiare e su cui contare. Spesso tace, abbandonandoci al silenzio e al dubbio, ma si propone sempre. Il rapporto con l'immaginario è una tribolazione continua, ma è l'aspetto più vivace, misterioso e sacrale della nostra vita».

È il «Grande Altrove» che fa spesso capolino nei suoi film.

«Per concepirlo, occorre porsi in una condizione di ascolto, partendo anzitutto dalla convinzione che esso esista. Uno stato di assoluta ricettività, basato su un totale indebolimento della ragione. Ne L'Arcano Incantatore (1996), per accedere a questo Altrove il protagonista si fa salassare. È la stessa condizione descritta da Dante all'inizio del suo viaggio ultraterreno, quando parla di un'estrema sonnolenza, una continua spossatezza è questo stato a renderlo ricettivo. Secondo Robert Frost, il poeta è come una ricetrasmittente; riceve messaggi, e solo nel trascriverli scopre quel che fa. Allo stesso modo, Poe parla della catatonia in cui si trova mentre scrive i suoi racconti, che descrivono sempre qualcosa situato oltre la Realtà. L'ascolto è il pertugio attraverso cui si accede all'Altrove. Lo stesso accade nella preghiera, stato di attesa sacrale nel quale attendiamo l'arrivo di qualcosa di cui non siamo noi gli autori».

Esiste quindi un rapporto tra fantastico e sacro?

«Vede, io credo che la sacralità sia una componente fondamentale della nostra vita. Tutto ciò che sfugge alla ragione, che è misterioso e inesplicabile, mi affascina profondamente. Provo una grande nostalgia per l'educazione preconciliare di quando ero bambino quella difesa da Cristina Campo, una scrittrice che adoro, che si è occupata molto di liturgia. Un'educazione dotata di una profonda e misteriosa componente sacrale, oggi guardata con diffidenza; il Dio a cui ci rivolgevamo era imperscrutabile. A essere indecifrabile era il Sommo Bene ma anche, in qualche misura, il Sommo Male».

A quest'aspetto è dedicato il suo ultimo lavoro, Il signor Diavolo.

«Il tema è proprio il Male, che ha un'importanza da non sottovalutare. Ho la sensazione che, come il Bene, anch'esso giochi un ruolo significativo nella nostra esistenza. Da questo punto di vista, si può dire che la sacralità del Bene e la sacralità del Male abbiano, in qualche modo, pari dignità. Certo, esiste anche un Male per il Male, privo di finalità apparenti, spesso esercitato dagli uomini di potere. Non saprei definirlo. O è legato a disturbi psichiatrici oppure trova una giustificazione in quell'Oltre di cui ho già parlato, grazie a cui passiamo dal Bene al Male. Ed ecco apparire, nel titolo del film, il signor Diavolo».

È, tra l'altro, un male ormai «normalizzato».

«Vede, un tempo, quando ero piccolo, si praticava il cosiddetto esame di coscienza. La sensazione è che, oggi, non solo nessuno ci induca a compiere quest'autoanalisi, ma che vi sia una sorta di autoassoluzione, una morale prêt-à-porter che trova nell'utile la propria giustificazione. Basta andare in chiesa: durante la Messa, la Comunione viene impartita a tutti. Eppure, nessuno più si confessa. Tutti si autoassolvono o, forse, nemmeno si pongono il problema dei loro peccati. Me ne rendo conto e capisco di essere parte di un mondo che sta scomparendo».

Mi ha stupito molto scoprire, in Gotico padano, che uno dei suoi libri preferiti è Il mattino dei maghi, manifesto del realismo fantastico.

«Quando lo lessi per la prima volta, vidi spalancarsi qualcosa che istintivamente intuivo già, connessioni a cui non avevo mai pensato con il nitore e la chiarezza che avrebbero dato loro una verosimiglianza. Avevo la sensazione che Louis Pauwels e Jacques Bergier mi stessero regalando una chiave con cui poter rileggere la storia attraverso un approccio del tutto diverso, una libertà che poi mi avrebbe spinto a scrivere la serie Voci notturne (1995), che rievocava i riti della Roma arcaica, riportandoli nel presente. Una prospettiva fantastica, fantastorica, che per anni e anni mi ha affascinato. Ben prima di Dan Brown e affini».

Nei suoi film si è spesso occupato di Medioevo.

«In Magnificat (1993), ad esempio, con il suo approccio rosselliniano alla storia, ricostruita attraverso gli Annali francesi che si sono occupati seriamente di Alto Medioevo. Studiando questi testi, ero stupefatto vedendo che gli storici italiani non avevano sondato e raccontato adeguatamente quel periodo. Quello di Magnificat è un Medioevo in cui la sacralità è ovunque: nelle persone, nelle cose, nella vita, nella morte. Dentro di me, sento che si trovano proprio lì le nostre radici. Nel corso dei secoli, abbiamo fatto di tutto per nasconderle, per tacitarle. Eppure, proprio in questo approccio sacrale al Tutto che è misterioso ma, al tempo stesso, perfetto e armonico risiede la mia autenticità».

Dagospia 19 dicembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Pupi Avati è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il celebre regista ha parlato del suo prossimo progetto: "Vorrei dedicare più tempo alla lettura, è la cosa che più mi piace. Vorrei leggere tutti i libri che ho comprato in vita mia, me ne mancano molti. Ho la sensazione di aver acquistato nella mia esistenza una infinità di libri, ne ho letto forse il 15%. Vorrei recuperare. Ora mi sto occupando di Dante Alighieri, sto leggendo tutto ciò che c'è di biografico, sto preparando un film su di lui. Ci lavoro dal 2001. Non è facile fare un film su Dante. Dante è la dimostrazione che il dolore produce qualcosa di sublime come l'evento poetico, che è l'espressione dell'essere umano più alta. Mi sento inadeguato rispetto a questo personaggio e capisco perché non si è mai fatto un film su Dante. E' un personaggio che più lo indaghi, più ti rendi conto di quanto sia misterioso". Pupi Avati, poi, è tornato a parlare di Regalo di Natale: "Sono felice che in questo periodo dell'anno molti lo rivedano. Racconta l'amicizia nella sua completezza, anche attraverso il tradimento. Credo che il tradimento sia incluso nel pacchetto, sia nell'amore che nell'amicizia. Il tradimento sublima l'amicizia, se lo si supera. In quel film eravamo solo contro tutti. Fu il film più economico del mondo. L'idea ce la diede un biscazziere, un baro. Nessuno ci faceva più produrre un film. Fu una scommessa, contro tutto e tutti. Abatantuono era un attore che non voleva più nessuno, aveva lasciato il cinema, aveva un night, era anche irreperibile, lo trovammo in modo rocambolesco, fece il film con la sua voce, senza ricorrere allo slang pugliese che prima gli diede successo e che poi gli diede insuccesso. Tutti pensavano che lo avessi chiamato per fargli fare il terroncello, invece quel film lo ha trasformato in un attore drammatico. Haber? E' entrato nel film per forza, lui. Un giorno mi venne a trovare a Roma e mi fece una scenata, si mise ad urlare, mi rimproverò perché non lo facevo lavorare. Era fuori di testa, si era caricato così tanto da solo che me lo sono ritrovato dentro la stanza che urlava e piangeva. Vedendolo così, l'ho messo nel film". Su Delle Piane: "C'è un'istantanea che fotografa la chiesa nel giorno del suo funerale. Del cinema italiano c'eravamo solo io e mio fratello. Il cinema italiano ha voltato le spalle a Delle Piane. C'è un razzismo in questo ambiente, soprattutto nei riguardi di Carlo, che non so davvero perdonare. Dissi quel giorno che il cinema italiano fa schifo. Delle Piane avrebbe meritato un saluto diverso, sapeva che se ne stava andando, si aspettava un grande funerale, invece non è andata così. C'era razzismo contro di lui, perché veniva dal cinemetto. Noi siamo riusciti attraverso una serie di titoli a fargli vincere la Coppa Volpi, ha vinto tutti i primi possibili, ma nessuno gli ha perdonato questo passato nel cinema di Serie B. A parte Olmi, non l'ha chiamato nessuno. E' una storia, quella di Delle Piane, molto dolorosa". Su Lucio Dalla: "Sono una persona profondamente invidiosa, se avessi saputo che Lucio aveva quel talento non l'avrei mai fatto entrare nella nostra orchestra. Ho patito nei suoi confronti un'invidia, una gelosia, una sofferenza, perché lui aveva un estro commovente. Ho conosciuto diverse persone geniali, da Pasolini a Fellini, ma l'estro e la creatività di Lucio non l'ho mai vista da nessuna parte. Siamo diventati amici quando ho smesso di fare musica e mi sono messo a fare cinema. Mi telefonava sempre tardi la notte. Parlavamo della vita, della vecchiaia. Era molto religioso, le persone non lo sanno. Il fatto che se ne sia andato prima di affrontare la vecchiaia credo che sia stato un grande regalo che gli è stato fatto, perché lui nei concerti si spendeva, dava tutto se stesso. Era una macchina da guerra. Suonava, ballava, raccontava storie. Alla fine era stremato. Pensare che a un certo punto non se lo sarebbe più potuto non era facile. Questa parte della sua vita gli è stata risparmiata, quasi non se ne è reso conto. Il suo è stato un modo di scappare via bello".

·         Ferzan Ozpetek.

Estratto dell’intervista di Arianna Finos a Ferzan Ozpetek per “la Repubblica” 19 dicembre 2019. (…) Lei ha sempre detto di non avere il desiderio di bambini. «Avrei voluto un figlio con Simone ma la natura lo impedisce. E non volevo mettere in mezzo nessun altro o far crescere un bambino senza madre. Non è una critica all' utero in affitto: le leggi devono essere per la felicità e la libertà di scelta delle persone. Ma non voglio togliere di mezzo la figura femminile, per me è la colonna portante della vita e della crescita. Poi ho una coppia di amici che hanno avuto una bimba con l' utero in affitto e la fanno crescere in modo meraviglioso». (...)

Francesco Borgonovo per “la Verità” 19 dicembre 2019. Da qualche settimana le pagine dedicate agli spettacoli di riviste patinate e quotidiani danno parecchio spazio al nuovo film di Ferzan Özpetek ora in uscita, intitolato La Dea Fortuna. Non stupisce: il regista di origini turche è tra i più celebrati nel nostro Paese e, soprattutto, di frequente tratta temi molto di moda e molto graditi all' universo Lgbt. Questa pellicola non è da meno. Edoardo Leo e Stefano Accorsi interpretano una coppia gay che si trova a dover accudire i due figli di un' amica (Jasmine Trinca). Come è facile immaginare, cronisti e commentatori hanno subito trasformato il film in una sorta di manifesto delle «famiglie arcobaleno», facendo ampio uso della consueta retorica secondo cui «l' amore non ha sesso». Edoardo Leo, intervistato da Vanity Fair, si è precipitato a dichiarare che La Dea Fortuna porta sullo schermo «l' idea di un amore universale che non fa differenze di genere. Se Arturo e Alessandro si chiamassero Gianna e Francesco per la narrazione sarebbe identico». Idem Stefano Accorsi. Anche per lui «l' unica patente che pretende l' amore è il rischio della sincerità. Il resto, a partire dalle questioni di genere, dal mio punto di vista è inconcepibile». Il punto che tutti fingono di ignorare, come sempre, è che nel caso dei figli delle «coppie arcobaleno» non è l' amore a essere in discussione. Non si contesta la realtà né la legittimità dei sentimenti. Semmai si criticano i metodi con cui le suddette coppie accedono alla genitorialità, ovvero l' utero in affitto e l' acquisto di seme da donatori anonimi. A sollevare tali obiezioni, di solito, altro non si ottiene che la scomunica da parte degli attivisti arcobaleno, con annessa bolla di omofobia. Questa volta, però, a piombare nel discorso è un elemento inaspettato. A interrompere la fiera delle retorica e dei buoni sentimenti è stato - nientemeno - il regista del film, ovvero Ferzan Özpetek in persona. Ieri, intervistato da Repubblica, ha pronunciato una frase sorprendente. A un certo punto la giornalista Arianna Finos dice al cineasta: «Lei ha sempre detto di non avere il desiderio di bambini». La risposta è inaspettata: «Avrei voluto un figlio con Simone ma la natura lo impedisce», spiega Özpetek. «E non volevo mettere in mezzo nessun altro o far crescere un bambino senza madre. Non è una critica all'utero in affitto: le leggi devono essere per la felicità e la libertà di scelta delle persone. Ma non voglio togliere di mezzo la figura femminile, per me è la colonna portante della vita e della crescita. Poi ho una coppia di amici che hanno avuto una bimba con l' utero in affitto e la fanno crescere in modo meraviglioso». Certo, il regista ci tiene a precisare che la sua non è una presa di posizione politica contro la maternità surrogata, sembra che in qualche modo intenda mettersi al riparo da eventuali attacchi, forse memore di quanto successe a Dolce e Gabbana quando - in un'intervista concessa a Panorama - osarono deviare dall' ortodossia Lgbt in materia di famiglia. Resta che la dichiarazione di Özpetek è di grande, grandissima potenza. Omosessuale, da tempo legato a Simone che chiama «il mio "compagno di viaggio" nella vita», il cineasta non ha timore di dire che è «la natura» a «impedirgli» di avere figli. Già soltanto a citare il concetto di «natura», oggi, si rischia di venire linciati, anche se «natura» significa «biologia», cioè scienza e non religione o bigottismo. Ma non basta, perché Özpetek prosegue dicendo di non volere «mettere in mezzo nessun altro o far crescere un bambino senza madre». Secondo lui, infatti, non si può «togliere di mezzo la figura femminile», poiché «è la colonna portante della vita e della crescita». Qui troviamo, forse per la prima volta, uno stimato intellettuale gay che ha il fegato di mettere il dito nella piaga, parlando esplicitamente di attacco alle donne. È un argomento che si tende sempre a trascurare: le istanze degli attivisti Lgbt, oggi, sono in gran parte dannose per il sesso femminile. Lucetta Scaraffia, in un bel saggio uscito qualche tempo fa, ha coniato il concetto di fine della madre. «Ho cominciato a pensarci riflettendo sul fenomeno dell' affitto dell' utero, che è una cosa ripugnante», spiegò la studiosa al nostro giornale. «Molti Paesi la ritengono una cosa possibile e una parte delle femministe pensa che faccia parte del diritto delle donne a usare il proprio corpo. Mi ha molto spaventato capire a che punto di degrado dell' idea di maternità siamo giunti». Pensare che possano esserci «figli di due padri» significa sostanzialmente eliminare la donna. Cancellarla. Derubarla della sua femminilità (come ha sostenuto un' altra femminista, Marina Terragni, in Gli uomini ci rubano tutto). Di questi tempi sentiamo dire che, per essere donna, non serve altro che la volontà o una modifica al documento di identità. Sentiamo ripetere che possono esserci famiglie con figli composte da due maschi. Ed ecco che le parole di Özpetekci riportano sulla Terra, a contatto con la «natura». Ci ricordano che senza la fertilità (in ogni senso) del femminile la vita semplicemente non esiste. Ai figli serve una madre, dice il regista. Magari non è un messaggio politico, ma rimane un concetto di splendente bellezza in un' epoca oscura.

·         Maurizio Ferrini.

Dagospia il 20 novembre 2019.Da radiocusanocampus.it. L’attore comico Maurizio Ferrini è intervenuto ai microfoni della trasmissione “Cosa succede in città” condotta da Emanuela Valente su Radio Cusano Campus. Ferrini pronto a tornare in scena, ma sul web. “Quando chiamo il meccanico per sapere se è pronta la macchina, dall’altra parte sento che dicono: ‘E’ pronta la macchina della signora Coriandoli?’. Adesso però devo tornare con un nuovo personaggio che batta la signora Coriandoli. Si tratta del figlio della signora Coriandoli. E’ un ragazzo con qualche problema mentale, farà sempre ridere spero. I perdenti fanno simpatia, questo qui è un perdentone. Sto pensando di proporre anche un duetto tra mamma e figlio. Sto producendo, spero di non tradire le aspettative del pubblico. Adesso mi tuffo nel web e che Dio me la mandi buona”. Sulla sua carriera. “Ho detto dei no tremendi a tutti, quando dici no passi per uno che se la tira. Ho detto di no a Giuseppe Bertolucci. I no feriscono a fondo le persone, quelle famose soprattutto. Ho detto no perché non mi piacevano i progetti. Purtroppo ho detto di no anche a Sergio Leone per fare la parte di Sordi in ‘Troppo forte’ e mi pento amaramente, è stata una cantonata pazzesca. Era sempre stato il mio sogno essere prodotto da Leone, è stata un’ignorantata e lo dissi anche a Carlo Verdone che poi mi ha richiamato per "Compagni di scuola". Gli ho detto che non ero stato io a dirgli di no, ero posseduto da un fantasma. E’ anche destino, si vede che il mio destino era quello. Ho passato un brutto periodo per colpa di questi no e non mi chiamavano più. Adesso però è tutto resettato, sto alla grande. Il mio vecchio gruppo di quelli della notte, Nino Frassica, mi è sempre stato vicino. Mi sento tirato a lucido, migliorato”. Sulle elezioni in Emilia Romagna. “C’è un rischio enorme che la regione rossa per antonomasia possa passare alla Lega come l’Umbria, siamo in fibrillazione. Qui è traumatica la cosa… più che traumatica diciamo che i tempi cambiano. Secondo me un attore è giusto che non si schieri nel privato, quindi non sono uno di quelli che fanno campagna elettorale a destra o a sinistra. L’attore è già politico, perché nel momento in cui critichi qualcosa intervieni in maniera politica”.

Maurizio Ferrini. Da venditore di pedalò in «Quelli della notte» a regista. «Il comunismo? Malattia esantematica. Oggi recito due rosari al giorno». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Stefano Lorenzetto. Da venditore di pedalò in «Quelli della notte» a regista. «Oggi recito due rosari al giorno». Ecco perché Maurizio Ferrini, venditore di pedalò a «Quelli della notte», disse di no a Sergio Leone: voleva girare un film tutto suo. «A spese mie. Sarò regista e interprete. Non accetto che i produttori m’impongano le loro amanti come attrici». Titolo top secret. «È un cortometraggio per il Web. Come location ho scelto Verona», rivela al Corriere della Sera. Il rappresentante della ditta Cesenautica intende allargare il suo business ai laghi di Garda e d’Iseo. C’è di più. «Sono rimasta vedova», spiega la signora Coriandoli, cambiando tono di voce. «Ho ucciso mio marito con un enorme piatto di lasagne ai quattro formaggi: un medico di Modena mi aveva consigliato di cucinare leggero. Per secondo, coniglio cotto nella sua pelle con le cozze. Quando si aprono le cozze, il coniglio è pronto. Deve fare la lacrima di sangue. Coniglio sussi, eh. In italiano sushi. È giapponesizzato. Non so che dirle». Anni di soliloqui al lume di candela per scrivere il copione. Quando parla si trasfigura, e un po’ fa impressione il flusso di coscienza alla Joyce in puro romagnolo: «La Coriandoli ha preso vita propria. Io mi sintonizzo e lei discorre».

Quando cominceranno le riprese?

«A gennaio. Non andrà nelle sale: solo su Instagram o YouTube, vedremo. Facebook no, è vecchio. Sfido gli influencer con un’opera gratuita destinata ai giovani che citano a memoria i miei film».

Può dirmi qualcosa della trama?

«Farò imparentare la signora Coriandoli con il figlio veterocomunista venditore di pedalò. Le do un’anteprima. Massimo Coriandoli, nickname Massimo Delirio: “Ho consigliato a Zingaretti di non aprire più sezioni del Pd, ma di fare un franchising, perché noi in Romagna siamo commerciali. Non ha risposto”. Coriandoli, se mi consentite, dichiara al Corriere: “Noi nelle politiche del 2018 siamo aumentati come Pd. Hanno telefonato poco prima a tutti i militanti e hanno detto: dovete votare Lega e 5 Stelle perché bisogna infiltrarsi, fare le casematte, come diceva Antonio Gramsci, distruggerli dall’interno, così dopo quattro anni gettiamo la maschera e rifondiamo il Pci. Ho chiesto: chi siete per affermare questo? E loro: meglio se non lo sai. Quindi significa che sono persone serie”».

Dunque farà due parti in commedia.

«Con pochi debuttanti. Una cosa molto neorealistica. “I napoletani sono tutti attori”, sosteneva Vittorio De Sica. Io correggerei: gli italiani sono tutti attori».

Perché ambientare il film a Verona?

«Il sogno della Coriandoli è di assistere all’Aida in Arena. Inoltre ho conosciuto Gianfranco Ballini, il Duca de la Pignata, una maschera del carnevale locale».

Chi ha inventato la signora?

«Fu il mio primo personaggio nel 1980. Parlava solo il romagnolo. Gianni Boncompagni le trovò il nome e mi fece recitare in italiano, travestito da donna».

La passione per il cinema come nasce?

«A 3 anni con Jerry Lewis, all’Astra, sala parrocchiale di Cesena, dove davano ogni giorno un film diverso».

Credevo che fosse cresciuto nel Pci, non all’ombra del campanile.

«Mio padre Domenico, detto Berardo, tornitore meccanico, è sempre stato comunista. Mia madre Rina il voto lo dava al marito per obbligo coniugale».

«Non capisco ma mi adeguo».

«Esatto. Lui faceva campagna elettorale a casa della sorella Elsa, che però scelse sempre la Dc per paura di finire all’inferno. Anch’io lo temo. Infatti recito due rosari al giorno, uno la mattina appena sveglio e uno la sera quando mi corico. Dà risultati pratici. Provare per credere».Mi sta prendendo in giro?«Nient’affatto. Sono molto devoto. Ho capito che arrivi a Gesù solo se passi attraverso la Madonna. Però le devi chiedere di esaudire un sogno molto grande. Se non esageri, non ti ascolta».

Ma lei è ancora veterocomunista?

«No. Il comunismo è una malattia esantematica, come il morbillo e la varicella. Se ce l’hai dopo i 20 anni, devi farti visitare da uno specialista. Molti sverranno leggendo questa mia affermazione».

I militanti del Pci avevano il borsello?

«Sì, dentro c’era il bagaglio culturale».Soffre per il Pd?«Per nessun partito. Nel campo del sapere non ci sono sinistra e destra. Il pollaio lo inventò la rivoluzione francese: è l’anfiteatro del Parlamento. Simone Weil diceva che i partiti in sé sono immorali, perché esistono soltanto il bene e il male. L’italiano è affascinato dalla polemica. “Vuole togliermi il gusto di litigare?”, replicò Fausto Bertinotti a chi gli chiedeva perché non andasse al governo».

Butta dalla torre Zingaretti o Renzi?

«Vorrei che si gettassero entrambi».Renzo Arbore parlò del suo personaggio come di un «leghista ante litteram».

«Lo credo bene. Già nel 1985 voleva costruire il muro di Ancona per non far passare i meridionali».

Però andò a cantare «Bandiera rossa» nella tenuta reale di Stupinigi.

«Lo chiese Gianni Agnelli ad Arbore: “Così potrò depennare dalla lista degli invitati dell’anno prossimo tutti quelli che se ne vanno invece di ridere”. C’era il Gotha dell’imprenditoria nazionale. Smoking e lamé. Dissi: “Che bella questa festa dell’Unità, cantiamo l’inno”, e intonai: “Avanti popolo alla riscossa”. Metà degli ospiti scapparono via».

Che cosa la accomuna ad Arbore?«L’amore per la musica country».

Credevo per la radio.

«Anche. Da bambini ce ne costruimmo una a galena. Il venditore di pedalò si abbeverava a tre fonti: la Scuola Radio Elettra, Rinascita e La Settimana Enigmistica. Le colonne della civiltà».

Come arrivò a «Quelli della notte»?

«Attraverso Nicoletta Braschi, già fidanzata di Roberto Benigni. Ad aprile 1983 infilò nel cappotto di Arbore la videocassetta di un mio spettacolino. Ad agosto 1984 lui telefonò a mia madre, una sorta di signora Coriandoli, che quasi si dimenticava di dirmelo. Lo richiamai. “Ci vediamo tra sei mesi”, promise. Cominciai a comprarmi abiti di scena e a scrivere tormentoni: abbiamo le mani legate; son cose che non si possono dire; in Russia abbiamo silos pieni di tutto».

Giovanni Minoli, capostruttura della Rai, metteva becco nella scaletta?

«Mai, da persona squisita qual è. Venne alle prove una sola volta, ma Arbore, serafico, lo cacciò: “Giovanni, togliti dalle palle, tanto questo programma non lo capirà nessuno. Sarà la nostra tomba”».

Invece aveste un enorme successo.

«Rivedo ancora Romano Prodi che cerca di entrare nello studio 1 di via Teulada e una ressa di curiosi che lo trascina via nel corridoio, con le mani alzate, come un’auto in un fiume esondato».

Dino Risi, Carlo Verdone e i fratelli Vanzina le aprirono le porte del cinema.

«Risi era un aristocratico distaccato che si godeva la vita. Verdone è un idealista, molto malinconico in privato. I Vanzina potevano girare film alla Chabrol».

Nino Frassica sostiene che lei «non ha avuto la fortuna che meritava».

«Ringrazio la sfiga, perché mi ha fatto diventare ciò che sono. Il produttore Aurelio De Laurentiis mandò il suo autista a prendermi con la Mercedes. Il padre Luigi era un fine esoterista, parlammo tutta la sera di filosofia. Alla fine mi propose di girare Yuppies per 150 milioni di lire, che nel 1985 erano dei gran bei soldi».

Ma lei rifiutò. Perché?

«Cercavo una mia via al socialismo. Mi rimbomba in testa la voce di Sergio Leone, quando dissi no al ruolo dell’avvocato in Troppo forte, che non voleva affidare ad Alberto Sordi, ritenendolo superato: “Può ripetere, per favore?”. Anni dopo andai a cena dalla figlia Francesca, bellissima, avrei voluto farle la corte. E lei mi confidò che in casa sua si parlava ancora di me come “quello str... di Ferrini”».

A forza di rifiuti, finì in bolletta.

«Dissi no a Giuseppe Bertolucci: fu considerata lesa maestà. Idem a Fatma Ruffini di Mediaset: equivaleva a snobbare la granduchessa di Toscana. Cominciò a circolare una voce: “Ferrini è fuori di testa, inaffidabile”. Per fortuna non dissero: “Porta iella”. Lì l’unico rimedio sarebbe stato il cappio. Mi venne in soccorso la sorella di Benizzi Ferrini».

Lo intervistai. A Predappio stampava il calendario del Duce e girava con il fez.

«Lele Mora, noto nostalgico, andava nel suo negozio a fare scorta di gadget fascisti. Gli parlò di me. Mi ritrovai all’Isola dei famosi, nella Repubblica dominicana. Senza cibo. Di notte pioveva sempre. Per non bagnarsi, pantegane con 20 centimetri di pelo entravano nelle tende e ti camminavano sulla pancia. Una concorrente, pur di andare in finale, s’inventò che le avevo messo una mano sul seno. Fu sbugiardata. Simona Ventura mi chiese: “Vieni in tv a discolparla? Le donne la prendono a calci per strada”».

Che cosa la fa più ridere?

«La tragedia secondo Mel Brooks: ti radi e ti procuri un taglietto. La commedia: inciampi, cadi e muori. Ah ah ah».E piangere?«La gente che tenta di preservare la propria dignità anche se è povera».

Avrebbe avuto lo stesso successo con una cadenza piemontese?

«No. Ho sotto i piedi un filone d’oro».Quindi che cos’è che renderebbe i romagnoli più simpatici dei piemontesi?«Forse la parlata accondiscendente. I piemontesi non vogliono socializzare. Lo stesso i liguri: sognano che gli fai il bonifico, senza andare in vacanza da loro».

Perdere i capelli è stato un dramma?

«Di più. Peggio che perdere la virilità».

Mi confessi un suo segreto.

«I western di Leone non mi piacciono. Preferisco La carovana dei mormoni».

Un po’ evasiva, come confessione.

«Da ragazzo m’innamoravo solo platonicamente. Al momento di dichiararmi, mi bloccavo. Ebbi il primo rapporto sessuale a 23 anni. Non lo dica a nessuno».

·         Ficarra e Picone.

Ficarra e Picone: “Checco Zalone razzista? Macché è pura satira”. Le Iene il 16 dicembre 2019.  Il duo palermitano, Ficarra e Picone è la nuova “vittima” dell'irriverente intervista doppia de Le Iene. Gli chiediamo di tutto. Partendo dal nuovo film “Il primo Natale” per arrivare alle polemiche su “Immigrato”. Ficarra e Picone si sottopongono alla scarica di domande irriverenti dell’intervista doppia de Le Iene. "Niente di quello che dirò in questa intervista corrisponde al vero e desidero dissociarmi da me stesso” dichiara subito Ficarra. Ci confidano di essere stati spesso scambiati l’uno per l’altro e addirittura anche con altre coppie comiche del cinema italiano: “Ale & Franz o Aldo Giovanni e Giacomo, che però sono tre”. Raccontano di essersi conosciuti tanti anni fa in un villaggio turistico: uno era animatore e l’altro turista. “Cosa ho pensato quando l’ho visto?”, si chiede Ficarra. “Questo è scemo”, è la sua risposta secca. Il loro primo tormentone? “Stanco, stanco, stanco e ancora oggi non ho fatto niente!”. Il duo comico palermitano Ficarra e Picone, in questi giorni è al cinema con il film “Il primo Natale”, storia di un prete e di un ladro in un viaggio nel tempo fino alla nascita di Gesù. Niente rutti e scoregge: “Non chiamatelo cine-panettone, ma cine-caponata!”. Il loro primo lavoro insieme è stato 25 anni fa, in un piccolo locale. Quanti film hanno fatto insieme? “Sette”. E perché dovremmo vedere “Il primo Natale”, l’ottavo film del duo comico siciliano? Picone non ha dubbi: “Perché è un film semplice semplice”. Gli fa eco il suo “socio” di risata Ficarra, che aggiunge: “È comico, epico e avventuroso, per cui mettiamo d’accordo tutti”. Parlando di Natale e Gesù: come sono messi a peccati? Ficarra dalle sue risposte sembrerebbe perfetto. Picone invece, forse più sincero: ha detto falsa testimonianza, ha desiderato la donna di altri e da piccolo ha anche rubato qualcosa. Come tutte le coppie del mondo, nella vita hanno anche litigato tra loro. Ma chi vincerebbe se finissero a botte? “Penso proprio Ficarra”, risponde Picone. Tra i due, Ficarra è quello più pigro, più incazzoso, più sportivo, più paraculo ma non il più ricco. Perché? “eh me lo domando pure io” ci dice ridendo. Prima di diventare dei comici, avete fatto altri lavori? “Io ho lavorato in campagna con mio papà”, dice Picone, “Io ho lavorato in un negozio di abbigliamento e ho fatto l'animatore” chiosa Ficarra. Insieme sono forti, da soli avrebbero lo stesso successo? I comici sono molto sicuri su questo “Siamo nati in due e finiamo in due”. E Ficarra aggiunge pure: “Ma dove va Picone senza di me?”. E i comici più bravi del momento chi sono? “Corrado Guzzanti e Carlo Verdone”. E quelli di sempre invece? “Totò e Troisi”. Checco Zalone è stato accusato di razzismo per il suo video “Immigrato”, cosa ne pensano? “Chiaro che è satira, Troisi diceva: 'Sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci'”. Ma esiste un limite tra la satira e il cattivo gusto? “Assolutamente sì. La satira però deve essere sgradevole!”. E si può scherzare su tutto? “Si deve scherzare su tutto! Noi l'abbiamo fatto sulla religione, sulla mafia... a quello serve la satira!”. Ma è vero che in realtà i comici sono un po' tristi? “No, su di me non si può proprio dire”, ci dice Picone. Mai andati da uno psicologo? “Sì, però poi lui a sua volta è dovuto andare da un altro”, dice Ficarra. Come fanno ad emergere i comici oggi? “Utilizzando i mezzi che ci sono oggi: il web, fanno un video e possono avere migliaia di visualizzazioni”. Ma il duo sui social sembra dividersi: Picone è super sul pezzo mentre Ficarra è un tipo “totalmente asocial!”. In politica? Si schierano entrambi con la sinistra ma sfatano il mito secondo cui il mondo del cinema sarebbe una cricca di comunisti: “Io mica li ho visti tutti sti comunisti, è un luogo comune quello”. Sono entrambi favorevoli a porti aperti (“si accoglie sempre”), matrimonio gay, adozione per le coppie omosessuali, eutanasia, legalizzazione della prostituzione e delle droghe leggere. Doppio no a quella delle droghe pesanti. Li mettiamo poi alla prova con la dizione. Dove va l'accento secondo le regole? Non se la cavano malissimo, più o meno. E tra i due la sfida la vince Picone a mani basse. Ma possiamo dire che nella vita non sempre vincono i migliori? “No, perché spesso la fortuna aiuta chi c'ha culo” ci dice Ficarra. “E noi ne siamo la prova!” aggiunge Picone. Finiamo con un saluto in siciliano e un in bocca al lupo per il loro nuovo film!

·         Lizzo.

Andrea Laffranchi per corriere.it il 15 dicembre 2019. È il personaggio del mondo dello spettacolo dell’anno. Così ha deciso la rivista Time che l’ha eletta «entertainer» del 2019. Così hanno certificato le nomination ai Grammy, gli Oscar della musica, che vedono Lizzo guidare la classifica delle candidature con 8 presenze, comprese quelle nelle tre categorie principali (record, song e album). Almeno in America, dove il suo terzo album «Cuz I Love You» è risultato nella top 20 del 2019 mentre in Europa fa più fatica, ha ribaltato le regole del pop. In un’epoca di esaltazione via social del corpo perfetto, di filtri per rimovere le imperfezioni, di canoni estetici da inseguire con il bisturi, lei ha fatto del corpo fuori misura la killer app del suo progetto artistico. Sulla copertina dell’album è completamente nuda. Esibizione ed esaltazione del «sono come sono e sono felice» proseguono sul suo profilo Instagram dove le pose fanno il verso al soft-porno. «Penso che sia salutare avere un buon rapporto con il proprio corpo nudo, anche se nessuno lo vedrà mai. Ma io ho sempre sentito il bisogno di condividerlo», ha dichiarato in un’intervista a Time. L’idea dell’accettarsi per quello che si è, il suo messaggio di empowerment sono anche nei testi delle canzoni. «Juice», la hit che l’ha svelata lo scorso gennaio, è il manifesto del Lizzo-pensiero: «specchio specchio delle mie brame, non c’è bisogno che tu lo dica perché so di essere bella». Temi che trattava già nel 2015 con «My Skin»: «Imparare ad amare se stessi e il proprio corpo è un viaggio che ogni persona, soprattutto se donna, deve intraprendere». «Faccio musica positiva da tempo, ma ora la cultura è cambiata. C’erano molte cose che non erano popolari ma esistevano già, come la body positivity che all’inizio era una forma di protesta per corpi grassi e donne nere e ora è un trend, una cosa commercializzata», ha detto. Lizzo racconta di aver lavorato (e lavorare ancora) su se stessa e sul tema dell’accettazione. I suoi toni sembrano quelli di un sermone new age. «Vi voglio bene. Siete belli. E potete fare qualsiasi cosa» è il mantra che ripete al suo pubblico ad ogni occasione. Ha iniziato suonando il flauto traverso, poi ha scoperto i suoi contemporanei e la sua musica sta a metà strada fra rap e la black con un occhio al vintage anni Ottanta. Il rischio per lei è che il marketing si mangi la musica, che il messaggio sia più forte delle canzoni, come accaduto con Meghan Trainor o Beth Ditto di cui si è finiti per parlare solo per le forme e non per la sostanza. Lizzo artisticamente non ha i numeri di Brittany Howard degli Alabama Shakes il cui aspetto fisico oversize arriva dopo le canzoni. Lizzo per ora è il suo corpo.

·         Mary Rider.

Mary Rider, prima faceva la giornalista ora è una pornostar: “Pensavo solo al lavoro, ero praticamente asessuata”. Da fattoquotidiano.it il 18 dicembre 2019. “Guarda, i miei c…….i, sono così…”. Uno dei tanti video online con protagonista la pornostar italiana Mary Rider, è una seduta di sesso tra lei e una giovane educanda, filmato girato tutto in lingua italiana e in presa diretta – come nei gloriosi anni Ottanta – che ha totalizzato due milioni di visualizzazioni. Insomma, nel deep porno web la Rider, presentata lunedì sera al grande pubblico a Live – Non è la D’Urso, è conosciuta da tempo e nei particolari. Maria Giovanna Ferrante, salernitana, laureata in lettere moderne, ex giornalista, rossa, bionda o castana a seconda dei momenti, nel 2013 ad una fiera dell’eros in Portogallo ha incontrato (indovinate un po’ chi?) Rocco Siffredi. Da lì la conversione. Via i panni della cronista e addosso tutto l’armamentario kitsch di una certa pornografia nostrana ancora ferma a zatteroni e perizoma tigrati. Questione di gusti, per carità, ma la Rider (si è chiamata così perché sostiene di avere una gran passione per le motociclette) è una pornostar di notevole livello. Con il marito, apparso sempre nel servizio dalla D’Urso, è titolare di una casa di produzione porno. Estetica molto amatoriale, con sovrabbondanza di curve e quel sesso molto casalingo e un po’ milf che secondo le graduatorie di Pornhub in Italia va sempre per la maggiore. “Pensavo solo al lavoro, quindi ero praticamente asessuata”, ha raccontato in tv Mary. Eccola allora intraprendere la carriera di attrice e regista hard, diventando perfino titolare di un sexy shop. Nel suo negozio, infatti, troneggia una bambola gonfiabile a sua immagine e somiglianza richiesta da tutti, dice lei, giovani e vecchi (“i 90enni li aiuto con creme per avere sprint”, ha spiegato). Il marito, Capitano Eric, “amante delle scarpe” (si legga: fetish) dirige spesso sua moglie in scena.

·         Rebecca Volpetti.

Barbara Costa per Dagospia il 14 dicembre 2019. Ha solo 22 anni, e già se li è scopati tutti. Tutti i cazzi migliori su piazza. Rocco Siffredi, James Deen, e vari stalloni della scuderia Dorcel. È da mesi nella top ten delle pornostar più web-cercate, arrivando al numero 1. Ed è roba nostra, ragazzi, made in Italy, o quasi. Basta perdere tempo: a voi, Rebecca Volpetti, porno-fenomeno, e una ragazza minuscola, 45 chili per 165 centimetri di pura, succosa pornosità. Tu che mi leggi lo sai, siamo alla rinascita del porno italiano, e facciamo paura, abbiamo fighe da serie A, zona Champions fissa. Di dovere e in ginocchio, onoriamo Max Felicitas, è merito suo, anche Rebecca è "passata" dalle sue mani. Non nel suo letto, né altrove, perché con Max porno non ne ha fatto (ancora), ma è stato lui tra i primi a "scoprirla", quando Rebecca aveva 18 anni e i capelli rossi: Rebecca ha virato al castano poi al biondo, facendo quello che una testa porno-pensante e ambiziosa deve fare, inviare una mail a Siffredi, superare il provino, entrare nella sua Academy, per essere da lui porno-strigliata: che ti credi, che stare con Rocco sia una passeggiata di facile orgasmo salutare? Lo è, lo può diventare, ma dopo che hai capito come devi pornare. Prima sono cazzi, fisici e metaforici, sono sudate sul set che non ti immagini, è Rocco che te ne dice e te ne fa pornobenevolmente di ogni risma: se ce la fai, se resisti perché lo capisci lo senti e lo sai, che il porno non è unicamente sesso ma è quello che in testa hai, è la tua sana sete di vivere, e riuscire, e sfondare amplificando il sesso nella mente e nel piacere di chi dallo schermo ti vede ti ama ti desidera. E cerca i tuoi video. Solo se fai tuo questo, puoi diventare una star. È quello che insegna Rocco, è quello che lui proietta sulla sua “volpettina”, ed è su Rebecca che punta per la sua serie lesbo di prossima uscita. Per Rebecca sono aperte le porte del porno americano, ovvero del porno più competitivo ma che conta: seguirà le orme di Valentina Nappi? Nel frattempo, ha già lavorato per Dorcel.com, il boss del porno europeo. Per Dorcel pornano le migliori tra le migliori, la crema tra le strafighe meno ritoccate, e Rebecca è naturalissima: perché Dorcel ti sublima sullo schermo, ti rende più dea di quello che già sei. Appena finisci di leggermi guardati "Torrid Night for Rebecca", poi, se ancora te ne rimane, sballati come si è fatta sballare Rebecca da James Deen negli antipasti che assaggi sui siti porno free. Perché Rebecca è tutto fuorché la ragazza timida e introversa che posa nelle interviste, e forse non è una posa, nella realtà è davvero così, e però sui set si trasforma, si invasa di sesso, si sfrena nel rough porn, genere tra i più difficili, e con mister James Deen, ragazza non hai scampo, Deen è firma e garanzia di brutali pornate, orgasmi multipli e gridati che mi par di sentire ancor prima di aprire il video, dove Deen arriva a trascinare Rebecca per tutta la stanza, e la lega e la usa a suo piacimento, la fa piegare, piangere, urlare, godere a farle leccare saliva e liquidi spiaccicati sulla parete (è rough porn, mio caro! Se non ti piace, smamma, gira da un’altra parte! "Will Do Anything for James Deen?", s’intitola questo porno tra Rebecca e Deen: e secondo te, caro lettore, cosa faremmo mai noi donne per James? Te lo spiego con questa esclamazione votiva o blasfema, decidi tu: Dio esiste perché ci ha dato James Deen! E lo ringrazio a nome di tutte le donne, e specie di quelle che si straziano il clitoride coi suoi porno e me lo negano, mi fanno le vaghe!). Il visetto finto innocente di Rebecca funziona a meraviglia coi facial e coi bukkake, performance porno a cui lei si "sottomette" volentieri. La categoria porno dove è più presente è ovvio la teen, la puoi gustare pure in orge lesbo e interracial, ma un suo video che ti voglio segnalare è quello soft-sadomaso che Rebecca, in calda lingerie rossa, ha girato per Babes.com: chi non vorrebbe rotolarsi con lei su quel letto, e non farebbe carte false per un "regalo" così bendato e ammanettato? Attento: Rebecca Volpetti è su Fb e su Tw, ma non su Ig, dove la sua pagina è un fake.

·         Gabriele Paolini.

Dagospia il 15 dicembre 2019. Comunicato stampa. Il più noto disturbatore televisivo Gabriele Paolini chiede a gran voce giustizia per suo padre, il generale dell’esercito Gaetano Paolini deceduto lo scorso 3 dicembre 2017 presso l’ospedale Sandro Pertini di Roma. “Il 3 dicembre del 2017 alle ore 09.00 mio padre è stato ricoverato in codice giallo presso il suddetto ospedale ed è morto il giorno stesso alle ore 22.00 per sospetta mancanza dialisi in seguito ad un arresto cardiaco. Lui le dialisi le faceva con regolarità due volte la settimana da un anno e mezzo a questa parte. Il giorno del ricovero mi chiama il medico che lo ha preso in carico nel momento del ricovero e mi chiede in che condizioni avessi portato mio padre in ospedale aggiungendo che sembrava che non facesse la dialisi da almeno 5 giorni; cosa molto strana dato che la faceva ogni lunedì ed ogni venerdì presso una struttura di Roma, quindi a questo punto chi ha responsabilità? Io ho depositato subito in seguito alla morte di mio padre una denuncia penale (con 6 integrazioni) per omicidio con i miei avvocati Lorenzo La Marca e Massimiliano Kornmüller presso la caserma dei carabinieri Santa Maria del Soccorso in Roma, ma dopo un anno e mezzo la procura l’ha archiviata, perché il medico che mi telefonò la mattina del 03/12/2017 risulta non rintracciabile. Voglio che vengano riaperte le indagini ed esigo giustizia per mio padre che ha servito con onore e serietà lo Stato Italiano ed è stato nominato Cavaliere della Repubblica il 27/12/1968; se avrò giustizia basta contaminazioni tv, questa è una promessa! Voglio solo la verità”.

·         Alex Britti.

Alex Britti: una vita in tournée, ma senza aereo! Le Iene il 16 dicembre 2019. Il cantautore romano Alex Britti è terrorizzato dai viaggi in aereo: Cizco decide una cura d’urto per fargli passare la fobia. Riusciranno le Iene a portare il cantautore su un volo vero per risparmiargli le lunghissime trasferte in auto verso i suoi concerti? È uno dei più amati artisti italiani, chitarrista e cantautore di successo, ma ha un grosso problema: ha una paura fottuta di volare. Cizco incontra Alex Britti, l'artista romano 51enne che ha cantato ovunque in giro per l'Europa, ma sempre dopo un lungo viaggio in auto. L’ultimo volo, quello che ha segnato definitivamente la sua carriera di passeggero d’aereo, Alex non l’ha mai più dimenticato: “Avevo 18 anni, era il 24 dicembre del ’91, l’Olbia-Roma. I primi tempi della carriera volavo tranquillo, ogni settimana prendevo un aereo per andare a Parigi, Barcellona, Amsterdam. Mi sentivo anche figo”. Ma in Alex inizia poi a insinuarsi la paura di volare: “Ho cominciato piano piano a pensare alle paure, non c’è stato un episodio particolare. È stata la paura di cadere, mi fa paura già comprare il biglietto. Poi l'aereo mette in moto e lì inizia un incubo. Non lo so perché, non è una cosa razionale. Vedi l'ala che si muove e pensi le cose peggiori…”. Alex ci racconta uno degli “aiutini” usati per vincere la paura: “Ho preso dei sonniferi fortissimi ma non funzionavano perché l'adrenalina e il panico sono più forti delle bombe, ahimè”. E in Alex la paura è troppo più forte: “Perdo il tatto, l'udito… È veramente una sensazione brutta… e ho detto: magari è meglio smettere e aspettare che mi passi la paura. E ancora non mi è passata”. Gli spieghiamo che siamo lì proprio per fargli passare una volta per tutte questa paura: “Lo so ,lo so è per questo che siamo qui.. Forse maschero bene, ma mi sto anche già un po' cagando sotto”. La paura di Alex lo condiziona anche nella vita familiare, considerato che la sua compagna Nicole viaggia regolarmente in aereo. Cizco lo mette alla prova: “Se ti chiedesse un viaggio romantico alle Maldive?”. “Gli propongo la Sardegna”. E che la paura di Alex sia davvero difficile da sconfiggere, lo testimonia uno dei suoi vecchi concerti, quello di Lisbona: “Sono andato in macchina, non mi pesa guidare. Sono arrivato, ho immerso la faccia in una vaschetta di acqua e ghiaccio, mezz’ora dopo sono andato sul palco e ho fatto il concerto”. Anche Angelo, il suo manager, conferma la paura di Alex, che a volte lo ha penalizzato sul lavoro: “Mi sono arrivate delle offerte fantastiche per date oltre oceano…”. Offerte ovviamente rifiutate per via della paura di volare di Alex. È il momento di fargli superare quella paura irrazionale: ad aspettarci c’è il comandante dell’unico simulatore full motion d’Italia, utilizzato per le persone che vogliono vincere quella fobia. Nonostante la spiegazione tecnica del funzionamento del simulatore, Alex non riesce proprio a rilassarsi: “Quello che adesso tu ci hai spiegato, oltre ad essere molto interessante, non c'entra niente con la paura. Non è che adesso che so che le ali si flettono di 5 metri... ah sto più tranquillo. No! Per niente! Ma manco di tanto così: se tu mi spieghi quello che succede in volo, ma io non ci salgo in aereo perché la paura viene prima di farmi tutte queste domande…”. E infatti, parte integrante del corso al simulatore, è anche il colloquio con una psicologa, che dopo aver sentito la storia del cantante romano, conclude: “Forse l'aereo non c'entra più di tanto…”. La “diagnosi” è certa: Alex è ufficialmente quella di un claustrofobico, che ha una fobia “bella strutturata”. Saliamo a bordo del Boing 737, una riproduzione del velivolo più diffuso al mondo. E visto che ovviamente non c'è mai stato, andiamo negli Stati Uniti, con un “volo” da Philadelphia a New York. Ma appena l'aereo comincia a muoversi, Alex inizia a fremere: “Oh no non non no no no no... ferma ferma.. .no no no ci siamo proprio”. La paura si impadronisce di lui e siamo addirittura costretti a interrompere quel volo simulato. Facciamo un secondo tentativo, e visto che siamo Le Iene decidiamo anche di programmare un fuoriprogramma: una turbolenza e anche un allarme. “Abbiamo perso un motore, stiamo andando con un motore solo. Quindi io con i pedali devo intervenire per mantenerlo dritto”, spiega il capitano. Alex sembra avere iniziato a prendere per le corna la sua paura, finalmente atterriamo. Cizco gli chiede: “Ti è servito allora?” “Madonna, è stato una roba fortissima, mi sono dovuto concentrare un po'”. Il manager è contentissimo, e subito parte la proposta di una tournée mondiale: “Gli faccio recuperare in 3 anni 13 anni di...” Per battere il ferro finché è caldo, gli programmiamo un volo vero. Per l’indomani. “Mi sto cagando sotto”, è la risposta del cantante. E infatti arrivati in aeroporto, la faccia di Alex inizia a cambiare, peggiorando a vista d'occhio. Proviamo a “distrarlo”, facendogli notare le differenze con il passato: “Lo sai che non si può passare con i liquidi, da quando ci sono stati gli attentati?” Alla richiesta dei documenti Alex cede definitivamente e il manager Angelo è costretto a dargli una bustina di zucchero. Alex è pallido, non emette un fiato. È infreddolito, contratto, gli fanno male i muscoli: “Mamma mia, mi fa male tutto. Chi mi ha menato, chi è stato?”. Si è trattato di un vero e proprio attacco di panico. Vabbè ormai l’aereo che volevamo fargli prendere è perso, e questo lo aiuta a rilassarsi e a scherzare: “Bella figura di merda. Ero convinto di... convinto di salire… Arrivando qui avevo la consapevolezza e anche la determinazione, soltanto che poi quando siamo arrivati lì è diventato vero. Ero convinto di essere pronto... non lo sono. Madonna, sono sudato. Quanto mi prenderete per il culo…”

·         Juliette Binoche.

Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” l'11 dicembre 2019.

Juliette Binoche, ne Le verità di Hirokazu Kore-eda, a Natale nelle sale francesi, è la figlia di Catherine Deneuve: com' è andata?

«Io le davo del tu, lei mi dava del lei, tranne che per esigenze di copione. Finito il film, è tornata al lei».

Una relazione a senso unico?

«Sul set, Catherine fumava tantissimo, un giorno le ho chiesto una sigaretta, senza risultato. L' ho implorata: "Te la ridò", lei nulla: "Non si prestano le sigarette". Non mi sono persa d' animo: "Ti ridò un pacchetto". Alla fine, me l' ha tirato lei. È stato il primo passo, siamo state bene».

Che cosa c' è dietro il suo lavoro?

«La curiosità è la base dell' essere umano. La passione che mi prende di imparare, scoprire grandi artisti».

È ospite d' onore al Festival di Macao ( IFFAM ): sensazioni?

«Ho avuto un fidanzato cinese, è un buon modo di conoscere il mondo (ride). Amo la Cina, ho visitato la campagna e sono rimasta colpita dalle tradizioni, la poesia, il modo di pensare. Shengong, agopuntura, che è la mia medicina in Francia, sono affascinata dalla cultura cinese, è così raffinata».

Ha esordito nel 1985 con Jean-Luc Godard: Je vous salue, Marie.

«Ero giovanissima, lavoravo come cassiera, ho fatto il provino, mi hanno preso, un piccolo ruolo. Ho detto al padrone che me ne andavo, che facevo un film con Godard: niente, voleva convincermi a rimanere, "crescerai qui al negozio"».

Invece Godard?

«Ho passato tre, quattro mesi in hotel: lui girava quando gli pareva. A un certo punto mi dà un lungo monologo e insieme gli auricolari: "Ripeti quel che ti dico". Mi oppongo: "Questo non è recitare, è ripetere". Il giorno dopo torna sui suoi passi: via l' auricolare. Ad aprire il film la mia battuta, "Tout ce que je dis c' est de la merde": non male come inizio».

Il primo ruolo da protagonista in Rendez-vous di André Téchiné: Nina, che si divide tra tre amanti.

«Il freddo, un incubo. E nudità, scene di sesso, ma quell' esperienza mi aiutò a stringere un patto dentro di me, a trovare la fiducia e affrontare i miei limiti. Quando sei giovane e donna, le persone ne approfittano, ma è lì che sono diventata capace di dire no».

Oggi c' è il #MeToo.

«Quando leggo copioni in cui le donne sono viste come oggetti del desiderio, ci vado sempre coi piedi di piombo».

Il #MeToo è un movimento importante, ma dovrebbe essere anche You Too, He Too, We Too Che cosa pensa delle nuove accuse di stupro a Roman Polanski? Condivide il boicottaggio di j' accuse ?

«Sa che è brutto quel che ha fatto, ed è stato giudicato per quello. La vittima ha detto di voltare pagina. Credo che l' uomo sia capace di trasformarsi e imparare dai propri errori. La vita è movimento: c' è chi rimane bloccato, io preferisco andare avanti».

E le nuove accuse?

«Mi sono già espressa: voltare pagina! Per chi è il mestiere del cinema? Per gente forte, che però deve mantenere una vulnerabilità, il cuore aperto. Io sapevo di avere il fuoco dentro, ma ignoravo se sarei riuscita a vivere di cinema».

Oggi può dire di essere arrivata.

«No, non puoi dirlo mai: puoi dire di aver dato tutto. La recitazione è una forza che ti attraversa, non ne sei totalmente responsabile».

Lei è passata anche per Kieslowski, Film blu.

«Krzysztof era un genio. Io gli buttavo lì un sacco di idee, lui ribatteva: "Grazie, ma sono interessato solo a questo zucchero e questo caffè sulla tavola"».

Nel 1997 l' Oscar per Il paziente inglese le apre le porte di Hollywood.

«Al contrario, sono scappata: mi sentivo colpevole del mio successo. Ma c' era un' altra ragione: io non volevo essere un' attrice hollywoodiana, ma globale. In America sarei entrata a far parte del sistema, che mi spaventa: sono sempre stata indipendente».

Tra i grandi con cui ha lavorato ci sono Leos Carax ( Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf ) e Abbas Kiarostami ( Copia conforme).

«Sì, ma in mezzo son passati vent' anni e ho fatto due figli Carax era misterioso, ne ero attratta, nondimeno non volevo mi riducesse all' immagine della bellezza: "Sono una persona, capito?"».

Per Gli amanti voleva avessi un' esperienza diretta, e mi sono messa in gioco: ho dormito per strada, non potevo passare la notte in hotel e poi fresca come una rosa presentarmi sul set a interpretare una clochard E Kiarostami?

«Come Kieslowski, racchiudeva un film in una frase. Ma aveva qualche problema a discernere verità e finzione, e non si capacitava che piangessi leggendo il copione: "Sono lacrime false!".

Haneke l' ha diretta per due volte, lo stesso è accaduto con Claire Denis.

«E ogni volta non si è più gli stessi. In High Life, il secondo film con Claire, ho girato le scene di sesso tranquillamente, sebbene fossero folli, perché mi fidavo di lei. Fosse stato il primo, non so se le avrei fatte».

E come va il film con Alain Delon?

«È in sospeso, per i suoi problemi di salute. Nel frattempo, ho girato la seconda regia di Emmanuelle Carrère, Le quai de Ouistreham, un' inchiesta sulle terribili condizioni delle donne delle pulizie, e La bonne épouse, sulle scuole nell' Alsazia degli anni Sessanta per formare la moglie ideale, brava a cucinare, a cucire e pure a letto. Tranquilli, faccio saltare tutto per aria!»

 

Andrea Scanzi per “il Fatto Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Zucchero: artista vulcanico. Anima inquieta. E miniera vivente di aneddoti seriali.

Ha appena suonato a New York.

«C' era anche Springsteen. Un evento di beneficenza organizzato dal mio amico Sting. Conoscevo Bruce, ma non ci avevo mai suonato. È un uomo garbato, di poche parole. Dopo il concerto, mi ha detto: "Great job!". E mi ha abbracciato. Il massimo dello slancio, per lui.

E Clapton?

«Venne a vedermi in incognito nell' 88 ad Agrigento, ce lo portò Lory Del Santo. Entrò a fine concerto e disse: "Il mondo ti deve conoscere, mi segui in tour?". Tra noi è nata così. È un amico vero, spesso se ne sta in Islanda a pescare i salmoni col leader dei Procol Harum.

Nel suo D.O.C. , racconta un' umanità intrisa di apparenza.

«Sognavo un mondo autentico. Sono cresciuto tra il sacro e il profano, studiavo l' organo in Chiesa e frequentavo i bar del Pci. Mio zio era leninista, litigava sempre col prete, ma poi la domenica lo invitava a casa per non farlo stare solo. Don Camillo e Peppone. Un mondo genuino e vero.

E adesso?

«Accettiamo tutto e non scendiamo in piazza per niente. Sì, ora ci sono le Sardine, ma devo capirle: chi sono? Chi c' è dietro? È presto per valutarle. Scenderei in piazza subito per l' ambiente, ma i potenti se ne fregano. Anche con Live8 o "cancella il debito" di Bono non è cambiato un cazzo. E questa impotenza mi fa male».

Si descrive come un cane che torna a casa "a sbranare gli aquiloni".

«Da bambino fui sradicato. Seguii mio padre e da Roncocesi mi trovai a Forte dei Marmi. Non mi sono mai ambientato e ne ho sofferto. Gli aquiloni sono la mia infanzia sbranata».

Lei ha un feeling particolare con Panella.

«Non l' ho mai visto dal vivo. Dice che, se dovesse venire da me, sarebbe costretto a viaggiare in treno e vedere le bruttezze del mondo. Lavoriamo così: io gli mando le musiche con un inglese maccheronico, lui usa quel cantato come componente "pretestuale" e dopo poche ore mi manda cinque versioni di testo per ogni musica. Un genio. Io ci lavoro e qua e là abbasso, perché Pasquale vola sempre alto».

De Gregori, Fossati, Guccini.

«Tre persone dritte, serie, senza falsità. Come piacciono a me. A De Gregori chiesi il testo di Diamante: parlando di mia nonna, mi serviva un poeta "esterno". Io sarei stato retorico: le volevo troppo bene. Ci trovammo a Modena e la scrisse in due ore. Fossati l' ho sempre trovato bravissimo e Guccini è il mio fratellone. Vado spesso da lui a Pavana. Quando sua madre Rina era ancora viva, me la ricordo che mi diceva in dialetto: "Adelmo, fai qualcosa con mio figlio, è uno bravo!". E Francesco che borbottava: "Che due maroni, mamma!". Lui è bravissimo. E lentissimo. I suoi sfoghi sono noti. Ricordo Cala di Volpe. Salgo e mi trovo davanti una tavolata di russi che mangia. Una di loro parlava forte al telefono mentre suonavamo. Dopo un po' le chiedo di spegnere e lei mi fa il gesto del dito medio. La Santanchè mi grida che sono lì per cantare e non per parlare. Accanto mi pare avesse Totò Cuffaro. Qualcuno mi grida "comunista!". Mi è partito il poeta dentro e son partito col "monologo del baraccone". Loro mi tiravano i limoni, io gli lanciavo i Gatorade. Una guerra. Volevo smettere, ma il manager mi ha detto: "Devono ancora pagare!". Così son risalito».

A marzo partirà con un tour mondiale.

«All' inizio era dura. Al Live in Kremlin ebbi un attacco di panico prima di salire. Guardavo la band per nascondermi e il pubblico non applaudiva mai. Gli avevano detto di farlo solo alla fine, ma questo lo scoprii soltanto dopo. Ero convinto di fargli schifo. Per il tributo a Freddie Mercury sudavo freddo. Nel camerino accanto c'erano Annie Lennox e David Bowie. Leggo il cartello: "5 minutes Zucchero". Penso: "Sto andando al patibolo". Dovevo attaccare il brano con la chitarra, ma sul palco la chitarra non c' era: tutta Wembley che mi guarda fallire. Osservo con aria atterrita Brian May: lui per fortuna capisce, parte con la chitarra. E mi salva».

Oggi lei ha tutto. O così sembra.

«Dal '90 al '93 ho visto l' inferno. Il successo mi destabilizzò. Ero a un passo dall' inabissarmi per sempre, mi domandavo perché Miles Davis e Joe Cocker perdessero tempo con me. Non la auguro a nessuno quella depressione lì».

Mai pensato di andare ad abitare all' estero?

«Mai. Non posso non stare a Roncacesi, nel mio mondo e fuori dal mondo. Devo però ammettere che in nessun altro Paese come l' Italia vedo questa rassegnazione e questo spegnimento. Com' è che diceva Gaber? Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono».

·         Marta Flavi.

Gustavo Marco Cipolla per ilmessaggero.it il 13 dicembre 2019. In un'intervista esclusiva pubblicata da Mio Settimanale, magazine diretto da Silvia Santori, Marta Flavi si racconta e parla di sé, del matrimonio con Maurizio Costanzo e della sua nuova esperienza nel mondo della boxe con l'atleta Mattia Faraoni. La conduttrice e opinionista, volto dello spazio “Lui & Lei” nella trasmissione del weekend "Uno mattina in famiglia" di Michele Guardì su Rai 1, confessa di aver sempre desiderato un figlio e di essere ancora innamorata dell'amore. Alla domanda «È stata sposata con Maurizio Costanzo. In che rapporti siete?», Flavi risponde prontamente «È l’uomo con cui sono stata più fotografata sui giornali» e, in merito ai suoi passati sentimenti per il giornalista, aggiunge «se ci si sposa si è innamorati. Però non ricordo, non voglio parlare del marito delle altre e neanche del marito di Maria. Non lo trovo educato». Quindi l'ipotesi (improbabile) di ricevere da Maria De Filippi una proposta per diventare giudice in uno dei suoi talent show: «Non so farlo, non sono capace. Ma ringrazierei sentitamente», sottolinea la bionda presentatrice di "Agenzia matrimoniale", programma cult degli anni '90 per cuori solitari che ha anticipato gli attuali reality show. Marta è sempre bellissima, cura molto il suo aspetto fisico ed è attenta alla sua immagine, tant'è che ha sostituito i noiosi allenamenti in palestra con un corso di boxe nella Capitale e ha deciso di fare a pugni con la vita portando i tacchi. «I tacchi li ho indossati per dimostrare che ogni persona ha diverse sfaccettature. Ho iniziato frequentando al Dabliu Fitness Club qualche lezione con il campione Mattia Faraoni, conosciuto grazie ad un amico giornalista. Uno sport che mi piace tantissimo, mi ero un po’ annoiata della palestra e cercavo un’alternativa. Sono stata madrina della Fiamme Oro di boxe. Negli Stati Uniti c’è la moda di fare kickboxing con i tacchi perché sembra che aiuti la postura e a sviluppare alcuni muscoli. Nelle foto che ho scattato in tuta dimostro di essere ciò che voglio: sono questa, ma anche quest’altra!» dichiara determinata e sulla piaga sociale del femminicidio afferma «Oggi molte vengono uccise dal fidanzato, dal marito, dall’uomo con cui hanno costruito la loro vita. E non se lo aspettano quasi mai. Si pensa di poter ricorrere alla boxe in un’aggressione esterna, contro qualcuno che non conosci. Quindi ancora peggio è la violenza tra le mura domestiche, soprattutto per difendersi da una persona con cui hai condiviso una parte di te. Le donne sono figure che accolgono e l’idea di doversi proteggere da chi hai amato è mostruosa. Purtroppo, di casi del genere ce ne sono sempre di più. Spesso consiglio di non accettare mai l’ultimo appuntamento a chi mi racconta la sua storia difficile, dopo aver lasciato il compagno. Perché la cronaca ci insegna che è in quel momento che emergono l’odio, il rancore, la rabbia e la vendetta». Flavi, inoltre, si definisce «casta, ma non single», perché c'è un uomo nella sua vita, Pierluigi, professione notaio, che l'ha conquistata in modo semplice. Come? Si incontravano spesso in viaggio da Roma a Milano e lui, intraprendente, alla quarta volta l'ha invitata per un caffé. Marta Flavi (maestra di vita) dà dritte e consigli nella sua lunga intervista, parla dell'Amour unilaterale - "one way", che per lei non è altro se non l'ossessione di raggiungere un ideale impossibile, e del dolore che si prova a seguito di una separazione dal proprio partner. «La separazione è dolorosissima, è veramente un lutto, è qualcosa con cui fare i conti ma richiede tempo e pazienza. Nel momento in cui arriva il divorzio ci si libera da un passato scomodo. Sono convinta che i miei prossimi dieci anni saranno i migliori che vivrò». Una donna libera, iperfemminile, che non conosce la parola pregiudizio e non ha mai rincorso il successo poiché non riuscirebbe a stare dietro ai dati d'ascolto e alle guerre dettate dallo share. Icona gay che ama la sobrietà, ed è rimasta "low profile" nel corso della sua lunga carriera, confida «Non direi mai questa sera viene a cena un amico omosessuale, come sento in alcune occasioni, sarebbe come attaccargli un'etichetta addosso. Ognuno di noi va a letto con chi gli pare». E sul suo domani anticipa «Non so se continuerò a vivere in Italia o all’estero. Il mio futuro lo immagino diverso, ma non qui».

·         Le Rodriguez.

Cecilia Rodriguez: "Ho chiuso con Iannone per rispetto della mia famiglia". Cecilia Rodriguez sarà la prima ospite di Rivelo, il programma di Real Time condotto da Lorella Boccia; la modella argentina parlerà del matrimonio con Ignazio Moser ma anche dei rapporti con Giulia De Lellis e Andrea Iannone. Francesca Galici, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. Lorella Boccia, grande scoperta di Real Time della scorsa stagione con il programma Rivelo, è pronta a tornare in onda e a raccontare i volti noti dello spettacolo e dell'attualità da un'altra prospettiva. Rivelo è aperto ai personaggi noti che ancora non hanno svelato tutto di loro, che vogliono raccontare aspetti inediti della loro vita in un ambiente sereno e rilassante come quello del programma di Lorella Boccia. Ospite della prima puntata è Cecilia Rodriguez, la sorella minore di Belen, che con Lorella Boccia si è aperta a un racconto intimo e introspettivo della sua vita, senza filtri e senza remore, lasciandosi andare a confidenze inaspettate. L'appuntamento con la nuova stagione è per domani, 19 dicembre, a partire dalle 21.10 sempre sul Real Time, canale 31 del telecomando. La modella e showgirl argentina è fidanzata da ormai due anni con Ignazio Moser, figlio del grande campione di ciclismo Francesco, conosciuto durante l'esperienza del Grande Fratello Vip. I due sembrano essere inseparabili, nonostante si rincorrano ciclicamente voci su una loro possibile crisi. Altrettanto periodicamente viene annunciata una gravidanza ma anche il matrimonio e su questo punto Cecilia Rodriguez ci tiene a precisare: "Sono un po' frenata su questo al momento, ho sempre paura che si possa rovinare qualcosa del nostro rapporto. Conviviamo da quando ci siamo conosciuti quindi non ho questa fretta, ancora." Cecilia è arrivata in Italia in un momento successivo rispetto alla sorella, che già era famosa nel nostro Paese per alcune partecipazioni televisive e per gli amori con personaggi noti. Per Cecilia in tutti questi anni, e ancora oggi, è stato normale scontrarsi con gli inevitabili paragoni con la sorella maggiore, con i quali ha imparato a convivere col tempo. "Sono arrivata in Italia dopo mia sorella, ho capito che c’era la possibilità di lavorare e ne ho approfittato. Chi non lo avrebbe fatto? Questi paragoni con lei non mi sono mai piaciuti", ha ammesso la modella, che oggi vanta un ampio seguito su Instagram. Negli ultimi mesi ci sono spesso state voci su una presunta rivalità tra lei e Giulia De Lellis, probabilmente nate dagli intricati intrecci familiari dei Rodriguez degli ultimi anni. Cecilia ha voluto smentire questi gossip ma ha confermato di non avere rapporti con l'influencer e attuale compagna di Andrea Iannone: "Giulia De Lellis l’ho conosciuta andando oltre il pregiudizio che avevo nei suoi confronti e mi sono ricreduta, ma non siamo mai state amiche, l’amicizia è altro!" Anche su Iannone fa un'importante rivelazione: "Ho chiuso i rapporti con Andrea Iannone per rispetto della mia famiglia."

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2019. Belen Rodriguez è bella, sprizza sensualità da ogni poro, ha un corpo statuario e la sua farfallina è la più amata dagli italiani. Non c' è da stupirsi se la sua ultima foto nella quale appare seminuda e assai provocante riceve 250mila like. I suoi ammiratori (novemila followers su Instagram) non aspettano altro. Stavolta la showgirl argentina torna a infiammare la rete con una immagine in bianco e nero, opera di Vincent Peters, mostrando di nuovo il suo tatuaggio inguinale, entrato prepotentemente nella storia del Festival di Sanremo. La farfallina della Rodriguez, sposata con Stefano De Martino, non passa mai di moda. Uscita allo scoperto in mondovisione per la prima volta nel lontano 2012 sul palcoscenico dell' Ariston - tra i numerosi «oh mio Dio» della gente in platea - dallo spacco mozzafiato dell' abito bicolore, abilmente mosso attraverso le sapienti falcate, ogni tanto fa capolino, spinta da un irrefrenabile desiderio di far parlare di sé. Felice probabilmente di aver lasciato in tutti noi quel dubbio amletico sulla biancheria intima: Belen lo indossava oppure no il perizoma? Di sicuro nello scatto artistico del fotografo Peters - attualmente tra i più apprezzati dalle star di Hollywood e della moda - che ama utilizzare quasi esclusivamente la monocromia - le mutande non ci sono. Come si può notare nell' immagine messa in pagina, Belen è completamente nuda, il suo corpo è coperto parzialmente da un telo bianco, tanto che sui social qualcuno fa qualche azzardo di troppo associando la posa dell' ex modella a quella della Venere. E precisa: è una moderna reinterpretazione.

LE CONFESSIONI. Tuttavia la Rodriguez non è solo bella è pure spiritosa. E sa «baciare benissimo». Lo ha appena rivelato in un video pubblicato su Witty Tv. I fan in visibilio hanno gradito. Si descrive nell' intervista come un' ottima cuoca, amante del tango e incapace di fare le imitazioni. «Me la cavo molto bene ai fornelli. Mia nonna era chef e pasticcera. Credo di avere ereditato le sue abilità in modo del tutto inconsapevole. Il mio piatto migliore? Il ragù». Oltre al tango, che sostiene di saper ballare, dice: «Mi piace anche la bachata», genere latino-americano molto sensuale in coppia sulla pista. Non a caso qualche giorno fa aveva postato su Instagram un video nel quale si allenava ballando con un professionista. L' argentina in televisione in questo periodo con Tu Si Que Vales, format di successo su Canale 5 con Maria De Filippi, Rudy Zerbi, Teo Mammucari, Gerry Scotti e Sabrina Ferilli, ogni sabato sera incanta il pubblico con le sue mise mozzafiato (e qualche battuta ironica). Non si può proprio dire che ami lo stile castigato. Lo dimostra ogni giorno ai suoi fan che hanno la possibilità di ricevere on line una foto e un pensiero. I social sono per lei una vetrina irrinunciabile, con loro condivide un po' tutto, i momenti trascorsi insieme al marito Stefano e al piccolo Santiago, oppure come ha fatto ieri l' immagine che la ritrae con la sua famiglia d' origine. Dopo aver postato la foto un po' vintage dei Rodriguez al completo, ha scritto: «Grazie alla vita per questa incredibile famiglia che mi ha regalato». È una donna che oltre alla bellezza dirompente ed esplosiva ai suoi ammiratori desidera regalare perfino le sue emozioni più intime.

·         Mario Lavezzi.

Massimo Cotto per “il Messaggero” il 28 ottobre 2019. L'ho sempre visto con quel sorriso che non è stampato in volto per abitudine, ma per la felicità del vivere. Mario Lavezzi compie 50 anni. Di musica, ovviamente. Per festeggiare, esce un cofanetto bellissimo formato 33 giri (che sarà presentato oggi alle 18 alla Feltrinelli di via Appia Nuova a Roma), con tre cd corrispondenti ai tre percorsi (autore, produttore, cantautore) e un 45 giri in vinile con alcune rarità. Titolo perfetto: E la vita bussò.

Come ha bussato la vita?

«Presentandosi sotto forma di chitarra. Una folgorazione. La prima volta che ne vidi una, apparteneva a mio cugino, era appesa a un muro. Rimasi a guardarla senza il coraggio nemmeno di toccarla. Mi sembrava enorme, come sono enormi i sogni a otto anni. Due anni dopo, mia sorella Annabella tornò a casa con una chitarra e mi disse: Guai a te se osi toccarla. Non la suonava mai, così un giorno le dissi: Senti, se non la usi, dalla a me. E cominciai a suonare».

Quali canzoni?

«Beatles, Stones. Nel cofanetto c'è una versione di Yesterday che zoppica tanto, ma che ho voluto mettere perché racconta l'ingenuità di quegli anni».

Che anni erano?

«Bellissimi. Un Nuovo Illuminismo. Si produceva in tutti i settori. C'erano valori, creatività e ideali in tutti i campi, dalla politica all'economia all'arte. Il nostro sogno era spezzare con il passato e guardare avanti. Oggi è il presente che si spezza, tutto è decadenza. Lo dico senza paura di sembrare vecchio. Una volta si inventava, oggi abbiamo smesso persino di sognare».

A chi deve di più?

«Alla mia famiglia, che mi ha permesso di non seguire le orme di mio nonno, pretore, e di mio padre, avvocato. A Franco Bastoni, che mi ha insegnato a suonare la chitarra e che mi consentiva di accompagnarlo nei festival studenteschi. Al Giambellino, quello di Gaber, che è stato il mio quartiere. Vivevamo tutti lì, io, Lucio Battisti e i Camaelonti. Su una panchina di piazza Napoli ho suonato le mie prime canzoni. Nella mia Milano».

La sua prima canzone è Il primo giorno di primavera.

«Ero stato costretto ad abbandonare i Camaleonti per il militare. Ero disperato. Il tormento aiuta la creatività. Se vuoi fare l'artista, mai avere il culo al caldo. La scrivo a casa dei miei, a Valganna. Stupidamente, la intitolo Giovedì 19. La faccio ascoltare a Mogol, che mi dice: Ma sei scemo? È appena uscita 29 settembre. Cosa facciamo, canzoni o calendari?. Così cambia il primo verso e cambia la mia vita. Primo posto in classifica grazie ai Dik Dik e via».

Bella amicizia, quella con Mogol e Battisti.

«Pensi che abbiamo fatto persino una battuta di caccia a Titograd, la capitale del Montenegro che oggi si chiama Podgorica. C'erano anche Mariano Rapetti e Alberto Radius. In 5 con 2 sole licenze, da pazzi. E poi siamo diventati tutti nemici della caccia».

Parliamo di donne.

«Ne ho solo una, Mimosa».

Con quel nome, impossibile sostituirla. Parlavo di artiste. Loredana Bertè.

«Mi ha forgiato. Una palestra, un vulcano. Un'intuizione dopo l'altra. Una volta tornò dalla Giamaica con una valanga di dischi reggae, un genere sconosciuto in Italia. Li ascoltai, poi, dopo aver tratto ispirazione anche dai Ten C.C., scrissi E la luna bussò. In alto mare, invece, nacque una sera al Divina, un locale di Milano, dopo aver sentito la Love Unlimited Orchestra. Sbagliano i ragazzi di oggi che ascoltano poca musica. Se lo fai, l'ispirazione arriva».

Con Loredana ha avuto anche una bella storia d'amore.

«Cinque anni. Due di idillio, tre di massacro».

Ornella Vanoni.

«Ornella è Ornella. Che cosa si può aggiungere? Curiosa, intelligente, non molla mai. Sempre informata su tutto. Oggi che ha perso tutti i freni inibitori è irresistibile».

Fiorella Mannoia.

«Ho sempre scelto di lavorare con artiste di personalità vocale. Non basta saper cantare, bisogna anche aver voglia di comunicare. Arrivare al cuore. Fiorella è tutto questo. Jovanotti e Vasco cantano bene? No, per niente. Ma sono grandi comunicatori».

Una delle canzoni a cui è più legato è Vita.

«L'ho scritta con Mogol. In origine si intitolava Angeli sporchi. È dedicata a una ragazza di cui si era innamorato Mogol. Giulio dovrebbe ammettere che tutte le canzoni che ha scritto per Battisti parlano di sue donne. Di donne che ha avuto o anche solo conosciuto. Lei gli aveva raccontato per filo e per segno il suo passato. Ne aveva fatte di tutti i colori, non si era fatta mancare niente. Ma proprio niente. Poi, Lucio Dalla la sentì e cambiò storia e prospettiva. E la intitolò Vita. Lucio, in questo, era geniale. Prendeva canzoni di altri e le portava altrove».

Se si guarda alle spalle cosa vede?

«Il domani».

Lavezzi: «Entrò Loredana... ci fidanzammo». Bertè: «Le chitarre che gli ho spaccato in testa...» Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Paolo Baldini. Tutto cominciò quando «mi chiamarono i Camaleonti». Con un Maggiolino usato, «guidai fino a Roma». Le notti milanesi con Radius e Mogol. Chiede: «Prendo la chitarra?». Prendila, Mario: « In questo mondo che pare proprio ormai una palude / spunti fuori come un’anatra, sull’acqua scivoli ». Si ferma e sorride: «Questa è Varietà. Mogol e io la pensammo a Portorotondo, in Sardegna, per Gianni Morandi. Era un’estate caldissima. Una mattina, Mogol mi tirò giù dal letto: dai, scriviamo. Aveva fretta. Lui fa così: coglie l’attimo, ascolta il giro musicale e costruisce il testo. Un’oretta e la canzone è finita. Scrive osservando quello che gli succede intorno. Dici: l’ispirazione. Ecco: davanti a noi una piccola anatra scivolava sull’acqua». Fu il successo che sappiamo. Eccolo qui, Mario Lavezzi. Cinquant’anni dopo Il primo giorno di primavera, la canzone del debutto, non sa più come sistemare l’album stracolmo dei ricordi. «Vengo dagli Anni Sessanta. Pochi soldi e creatività supersonica. Quell’energia, io non l’ho mai perduta». ...

E la vita bussò, il cofanetto che celebra le sue nozze d’argento con la musica comprende 58 successi divisi in tre cd e un vinile a 45 giri.

«Con un inedito: Canti di sirene, scritto con Franco Califano. L’avevo nel cassetto da anni. Era grande, il Califfo».

Autore, interprete, produttore, arrangiatore. Presidente del Consiglio di Sorveglianza della Siae. La musica nel Dna.

«Tutto iniziò a metà anni Sessanta. Abitavamo a Milano, nei pressi di piazza Napoli. Nei giardini del quartiere si riunivano i ragazzi che amavano i Beatles e i Rolling Stones. Il mio amico Franco Bastoni, che poi divenne un dentista, mi insegnava a suonare la chitarra».

La famiglia eccepiva sulla sua passione musicale?

«Papà era avvocato, il nonno pretore. Si può capire come la vedessero... Mia madre invece era con me. Scriveva novelle. Amava la musica e seguiva Sanremo. Contestava Nilla Pizzi. Adorava 24mila baci. Era l’epoca dell’esistenzialismo francese. Celentano cantava all’Alcione. Milano era il posto ideale per gli artisti. Le sedi delle case discografiche e i locali stavano tutti nel Quadrilatero, intorno alla Galleria: Santa Tecla, Bar del Domm, Charlie Max, Tricheco, Ciao Ciao, Copacabana. Una trentina di ritrovi in un fazzoletto».

Il ragazzo con la chitarra crea i Trappers con Tonino Cripezzi, Bruno Longhi, Mimmo Seccia e Gianfranco Longo.

«Incidemmo un solo singolo, una temeraria cover di Yesterday intitolata Ieri a lei. Poi incontrammo Teo Teocoli, già famoso: lui fece il cantante solista per noi. Condividemmo una memorabile stagione a Finale Ligure. Tre mesi. Fu uno spasso. Noi scaldavamo il pubblico, a mezzanotte arrivava lui, con le ragazze, e raccoglieva gli applausi. Era l’unico ad avere l’auto. Mi è rimasto il dubbio se avesse anche la patente... Poi taac, il gruppo si sciolse».

E allora?

«Passai un’estate malinconica nella casa di famiglia in Valganna, tra Varese e Lugano. C’era uno spaccio che vendeva di tutto e aveva un telefono fisso al muro. Un giorno arriva uno e si mette a urlare: uè, cercano il Mario. Era il manager dei Camaleonti. Ricky Maiocchi se n’era andato, volevano me. Avevo appena comprato un Maggiolino usato. Mi misi al volante con 20 mila lire in tasca prestate da mia sorella e corsi a Roma».

Il primo impatto quale fu?

«Tremendo. Mi sistemai alla pensione Julia, in via Rasella, un punto di riferimento per gli artisti. Trovai i Giganti, l’Equipe 84 e altri musicisti. Si mangiava anche dopo mezzanotte. Talvolta si dormiva sul divano, ma nessuno ci faceva caso. Però fui preso da mille dubbi: era davvero quello che volevo?».

Che cosa si rispose?

«La mattina dopo, appena sveglio, sentii da una stanza vicina il rumore, potrei dire il frastuono, di un amplesso. Mi dissi: ma dove sono capitato? Dovevamo esibirci la sera stessa e le gambe tremavano. Il repertorio dei Camaleonti lo conoscevo bene: ero un fan. Ma andai dal manager e mi sfogai: non ce la faccio, prendete un altro. Panico, a fatica mi convinsero. Comprammo in un mercatino un giubbotto all’americana. Uscii che ero un perfetto beat. Era l’epoca del Cantagiro. Bastava una canzone da jukebox ed eri arrivato. Potevo dire di aver realizzato il mio sogno».

Invece?

«Carriera spezzata sul nascere. Dovetti fare il servizio militare. In realtà ero stato dichiarato rivedibile. Ma nel Belice ci fu il terremoto e scattò la chiamata. Passai mesi a Messina. Poiché insegnavo la chitarra al furiere, finii negli uffici».

Però?

«Mentre facevo il Car composi Il primo giorno di primavera ispirandomi ai Procol Harum. Proposi la canzone a Popi Minellono che scrisse il testo e lo intitolò Giovedì 19. Come interpreti pensammo ai Dik Dik, che avevano già fatto Senza luce. Parlammo con Mogol. E subito contestò il titolo: ma come, abbiamo appena lanciato 29 settembre? Cambiò e la canzone divenne il successo che sappiamo: 850 mila dischi venduti, primo posto (e a lungo) nella hit parade».

Poi l’incontro con Lucio Battisti e il passaggio alla casa discografica Numero Uno.

«Mogol mi disse: “Non firmare con nessuno, Mario. Devi venire alla Numero Uno”. Non mi feci pregare. Tornato sulla cresta dell’onda, ascoltavo Jimi Hendrix e attraversavo da pascià l’epoca degli hippy, dell’amore libero, del peace and love. Ero un capellone felice. Lucio Battisti volle che creassi un nuovo gruppo e scelse il nome: Flora Fauna e Cemento. C’era da realizzare un jingle per la Coca Cola con una revisione di Jesus Christ Superstar scritta da Herbert Pagani. Diceva: Lei non c’è lei non c’è / esce con tutti ma non con te. Nessuno voleva cantarla. La facemmo noi. Fu un successo e Lucio scrisse altri due brani: Mondo blu e Un Papavero».

Ma si avvicinava la rivoluzione.

«Già: i cantautori, l’impegno politico. Nel 1972 con Alberto Radius fondai Il Volo. Più tardi lanciammo un’idea: facciamo un Supergruppo, una nazionale delle band. Gabriele Lorenzi della Formula 3, io di Flora Fauna e Cemento, Gianni Dall’Aglio dei Ribelli e Bob Callero. Con Gli Area facemmo il tour di Re Nudo. Spettacolo sperimentale, difficile. Audiovisivi contro l’imperialismo Usa e la guerra in Vietnam. C’era il biglietto proletario: il pubblico sfondava ed entrava. Non si faceva una lira. Subimmo anche un processo per i tafferugli alla Statale. Ai concerti gridavano: Sanremo !».

Poi incontrò Loredana Bertè.

«Con Alberto Radius e Mogol creammo un locale, nella cantina di un ristorante in viale Fulvio Testi. Incrociavamo la cultura alternativa milanese, i creativi, i ragazzi del Derby. Una sera entrò Loredana con Marcella Bella, che conoscevo già. Colpo di fulmine. In men che non si dica, ci fidanzammo. Loredana aveva appena inciso Sei bellissima. Ed era davvero bellissima. La rividi qualche giorno dopo. Piangeva. L’avevano silurata al Disco per l’estate. La censura non ammetteva quel testo: “A letto mi dicevi sempre... “».

Come la conquistò?

«Facendole ascoltare una canzone, Forse domani. Sintetizzai così: Ma quando arriva sto’ domani / ti voglio adesso e non domani. Doveva partire il giorno dopo per un servizio fotografico in Marocco. Era un vulcano. Seguirono due anni di idillio e tre di massacro. Ci lasciavamo di continuo. Mai abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto. Il crac fu naturale. In termini professionali invece sono rimasti una sintonia e un affetto che durano tuttora. L’album Bandabertè è stato il nostro prodotto migliore. Pensi che...».

Che cosa?

«Era il 1983. Loredana tornava da Ponza e mi confidò: ho incontrato una mia amica, se la conoscessi la sposeresti subito. Passa qualche anno, arrivo al Nephenta con la top model Isa Stoppi e lei mi fa notare una ragazza in compagnia di amici. Mi presento. Dal 1988 è mia moglie, Mimosa. Il colmo: era la ragazza che m’aveva indicato Loredana».

La collaborazione con Dalla?

«Insieme a Mogol, che era innamorato di un’amica di mia moglie, scrissi Angeli sporchi. L’avevo inviata a molti amici. Non funzionava. Faceva: Cara, in te ci credo ... Lucio dimostrò subito interesse. Ma, obiettò, così io e Morandi non possiamo cantarla. Diventò: Vita, in te ci credo... Il tocco del genio».

L’amicizia con Ornella Vanoni?

«Iniziammo a collaborare nel 1991. Un’amica comune, Anna Maria Bernardini de Pace, mi disse: “Mario, vedo Ornella un po’ giù, non hai una bella canzone da proporle?”. Le consegnai Insieme a te. Da allora ci sentiamo quasi tutti i giorni. Ci scambiamo le chiavi di casa e i consigli per la salute. E io adoro la sua cagnetta, Ondina».

Mario, si dia un obiettivo.

«Aiutare i giovani musicisti che cercano con fatica un’occasione».

La vita — È nato a Milano l’8 maggio del 1948. Da sempre appassionato di musica, inizia a studiare chitarra da ragazzo, prima da autodidatta, e poi alla Scuola Civica di Milano. È sposato e ha un figlio, Giulio.

La musica — Debutta nel 1965 con il gruppo dei Trappers, di cui, per un breve periodo fa parte anche Teo Teocoli, nel 1966 entra ne I camaleonti. Alla fine del 1968 incontra Mogol e inizia la sua attività di compositore, scrivendo Il primo giorno di primavera, brano portato poi al successo dai Dik Dik. Ha scritto e prodotto brani per i più grandi artisti italiani. Tra questi Lucio Dalla, Gianni Morandi, Ornella Vanoni, Loredana Bertè, Alexia. Il suo album più recente è la raccolta-cofanetto ...E la vita bussò realizzato per celebrare i cinquant’anni dal suo primo disco.

COSA DICONO DI LUI 3 INTERPRETI.

BERTÈ: UN PARTNER INFEDELE — «Lavezzi ha rappresentato molto per la mia carriera, mentre come fidanzato si è rivelato una totale frana... Le chitarre che gli ho spaccato in testa non si contano. Aspettarsi fedeltà da lui era una partita persa. Quando lavoravamo, a volte, prendeva la cornetta del telefono e la tirava sotto al bancone per chiamare di nascosto le altre fidanzate. Pregai Pino Daniele di mettersi alle chitarre per finire un album perché Mario era latitante. Ci siamo lasciati litigando come pazzi ma siamo rimasti grandi amici, come lo sono di sua moglie».

VANONI: PRODUCE SOLO DONNE — «Eccellente music maker , grande creativo. Soave nella vita, severo in sala: abituato a rifare (e far rifare) fino allo sfinimento. Tutto deve essere perfetto, dice. Un amico, a cui voglio un bene infinito. Lui produce solo donne. Il suo lavoro si adatta meravigliosamente alla sensibilità femminile. Anche perché le donne gli piacciono molto. Il disco di inediti più seducente che abbiamo realizzato è Sheherazade. Alla morte del mio produttore storico Sergio Bardotti, mi guardai intorno e scelsi Mario. Era il migliore».

ALEXIA: LE NOTE COME CRETA — «Una persona speciale: come un artista che lavora la creta. Sotto le sue mani le canzoni prendono forme sorprendenti. Dettagli, a volte: che però vede solo lui. Il tocco magico. È un produttore con la P maiuscola. Ha un’esperienza eccezionale. Ed è un uomo multitasking, capace di fare mille cose nello stesso momento: una qualità che gli invidio. Mi ha insegnato a essere una vera interprete. Mi ripeteva: mettici il cuore, mettici la tua storia. Siamo stati a Sanremo insieme e siamo legati da un profondo affetto».

·         Saverio Raimondo.

Gianmaria Tammaro per “la Stampa” il 20 dicembre 2019. Questo libro è nato il 12 giugno a Cagliari, mentre mangiavo una frittura di pesce. Quindi la mia, più che un' ispirazione, è stata un picco glicemico». Saverio Raimondo, scrittore e stand-up comedian, scherza ma il suo Io esisto - Babbo Natale vuota il sacco, edito da DeA Planeta, è un insieme di ironia feroce e appassionante, di battute intelligenti e di una prosa sottile e insinuante. Tutto parte da una premessa, e cioè: che cosa succederebbe se Babbo Natale decidesse di rispondere alle lettere che gli vengono inviate? «Ultimamente abbiamo visto, e non solo in Italia, uno svilimento della cattiveria: persone pronte a cavalcarla per il proprio tornaconto. E invece, secondo me, la cattiveria è una cosa molto sana».

Sana? Addirittura?

«Serve per spurgare le tossine e il marcio che abbiamo dentro di noi. Il mio non è un libro di pancia, ma di testa: mi sono affidato a un Babbo Natale cattivo ma, spero, saggio».

Insomma, viva la cattiveria.

«È una cosa inevitabile. Tutti noi proviamo sentimenti contrastanti, molti dei quali socialmente poco inclusivi. Certe pulsioni, secondo me, non vanno censurate. Ma incanalate. E talvolta anche espresse. La cattiveria, intesa come politicamente scorretto, potrebbe essere un ottimo strumento».

E invece?

«Abbiamo tolto il politicamente scorretto alla comicità, le abbiamo detto che non poteva usarlo, e lo abbiamo dato alla politica con i risultati che, ahinoi, vediamo».

Ovvero?

«Quella dei politici è una cattiveria che chiede di essere presa sul serio. La cattiveria dei comici, invece, non fa male a nessuno. Perché è ironica».

Ma nel suo libro non parla solo di questo.

«Nel voler rivalutare la cattiveria, ho voluto dare anche una stoccata alla bontà. Uscendo dalle solite polemiche sul buonismo e sul cattivismo, che alla fine, diciamocelo, non sono altro che le due facce della stessa medaglia, questo essere buoni, ecco, ci fa sentire innocenti: e non lo siamo».

Il troppo stroppia...

«Si diventa stucchevoli. Zuccherosi. E a proposito di dolci: purtroppo, in questo libro non viene citata la Nutella, e questo lo rende meno contemporaneo di quanto in realtà sia».

Nel dibattito pubblico, non si discute d' altro.

«È assurdo, ma dobbiamo interrogarci sul perché. Siamo noi che dobbiamo alzare il livello. Se lo facciamo, i politici ci verranno dietro: l' hanno sempre fatto. La cosa, però, funziona anche al contrario».

Ultimamente la vediamo spesso a «Porta a porta».

«Non me lo sarei mai aspettato. Devo dirle, però, che è una sfida interessante».

Perché?

«Ho accettato per senso dell' umorismo: mi fa ridere molto essere a Porta a Porta. E poi, via, è facile fare battute da Floris, meno da Vespa. In questo momento in cui i comici nei talk vengono o esclusi o reclusi in angoli angusti, Porta a Porta è in controtendenza».

Ha finalmente incontrato Luigi Di Maio.

«È stato un confronto all' americana, in cui abbiamo chiarito una cosa fondamentale: non siamo la stessa persona».

Si rimetta per un momento nei panni di Babbo Natale.

«Sono pronto a ingrassare per calarmi nella parte!».

Che cosa regalerebbe ai nostri politici? Cominciamo da Matteo Salvini.

«Facciamo finta che siano stati buoni, ecco. A Salvini, porterei 49 milioni. Così risolve ogni problema».

Al presidente Conte?

«Un altro lavoro. Qualcosa di più adeguato, ecco. Un ruolo da ricoprire con più autorità e autorevolezza».

E a Matteo Renzi?

«Il suo ultimo libro. Credo che ne sarebbe anche contento: a lui piace leggersi, vedersi e risentirsi in continuazione».

·         Gianna Nannini.

Da Il Messaggero l'1 ottobre 2019. Un nuovo album, La Differenza, una nuova consapevolezza e il bisogno di raccontarsi. Non solo nei testi delle nuove canzoni, partorite a casa, a Londra, e incise a Nashville, ma anche a Vanity Fair. E questa volta per Gianna Nannini nessun argomento è tabù. La sessualità, le droghe, la povertà e la salute mentale. La rockstar senese, 63 anni, non l'avevamo mai sentita parlare di sè così candidamente. «Ami gli uomini? Ami le donne? Sempre le stesse domande, davanti alle quali uno vorrebbe dire soltanto: “Ma te li fai i cazzi tuoi?». Solo due anni fa arrivava un coming out tardivo, dopo anni di speculazioni. Oggi va più a fondo: «Ho sempre amato uomini e donne e soprattutto non ho mai avuto freni nel sentire e seguire quello che volevo. Le ho sempre rifiutate, le definizioni. Al termine “coming out”, che ghettizza, ho sempre preferito la parola libertà». «Alla parola gay, che ti pretenderebbe felice e ormai non usano più neanche in America quando indicono un pride, preferisco frocio. Chi è libero nel linguaggio è libero dentro», racconta al settimanale Gianna, specificando, come se ce ne fosse bisogno, che a lei «le divisioni, a partire da quelle di genere, non mi hanno mai interessato granché». Sepolta per sempre nel passato è la dipendenza dalle droghe, che Gianna ha provato tutte, «tranne l'eroina». Racconta del suo abuso costante di cocaina, dalla quale è stata dipendente «per un po’ di tempo, quasi quarant’anni fa». «Ero a Londra e ce la portavano in studio con la stessa semplicità con cui oggi ti consegnerebbero un panino», rivela la Nannini, «non stavo mai senza, ci viaggiavo, ero del tutto incosciente». E poi, il momento in cui ha detto basta. Un giorno le cade «il sasso rosa, nel cesso». Si china per metterci le mani dentro e arriva la gelida consapevolezza. «Mi dico: “Non posso fare questa cosa, non posso ridurmi così”. Ho smesso lì. Il giorno dopo». Ancora una ricaduta, prima di un concerto e l'esperienza che la convince a lasciar perdere definitivamente: mischiando la sostanza a uno shot di tequila, la cantante collassò nel backstage del suo show. Da lì, non ha mai più toccato cocaina. Al di là delle droghe, di momenti bui Gianna ne ha vissuti molti, oggi tutti alle spalle. «Tutti mi dicono che so’ pazza, ma credo semplicemente che quando uno è sé stesso sembra matto. La follia è un’altra cosa. Io l’ho sperimentata e ho sperimentato anche la schizofrenia. So cosa sono», racconta a Vanity, «mi è capitato di morire e poi rinascere. All'inizio degli anni ’80 sono stata molto male». Anche il suo arrivo a Milano, agli albori della carriera dorata che ormai dagli anni '70 la vede in testa alle classifiche, non fu esente da difficoltà. «Mantenersi, all’inizio, non fu facile», ricorda, «mio padre mi aveva promesso una macchina se avessi conseguito il diploma prima del previsto. Feci due anni in uno e a 18 anni, con la Lancia regalata da papà, scorrazzavo in questa città tutta nuova facendomi rubare l’autoradio per incassare i soldi dell’assicurazione. La lasciavo in bella vista sul sedile del passeggero, ogni tre mesi qualcuno regolarmente spaccava il vetro e io incassavo felice i soldi dell’assicurazione».

Massimo Cotto per “il Messaggero” 13 novembre 2019. «Bel disco, io lo comprerei». Ride, Gianna Nannini, prima di parlare del nuovo disco (La differenza, venerdì nei negozi) e del prossimo tour europeo (si parte a maggio 2020, il 30 si plana all'Artemio Franchi di Firenze). Il disco è un concentrato di blues, folk e rock alla vecchia maniera, a cui hanno collaborato Dave Stewart, Mauro Paoluzzi, Davide Tagliapietra, Fabio Pianigiani e il collaudatissimo Pacifico: «Io e lui siamo come basso e batteria. Stavolta, però, abbiamo cambiato metodo. Negli altri dischi scriveva i testi e li mandava per mail, stavolta mi raggiungeva per fare in modo che le parole si adattassero e fondessero subito con il suono della mia voce».

Sono passati due anni da Amore gigante.

«Il disco è nato per colpa di Penelope. Dico proprio colpa, perché è difficile vivere con una figlia che ti interrompe in continuazione e chiede: Mamma, quando smetti di cantare?. Così mi sono detta che avevo bisogno di un posto dove stare da sola, lontano da tutti. Ho trovato un piccolo appartamento a Londra, a Gloucester Road, una stanza tutta per me, come diceva Virginia Wolf. Lì sono nate le canzoni».

Poi va a registrarlo a Nashville.

«C'è un mondo nuovo, laggiù. Mica solo country, come in passato. Molti si trasferiscono da Los Angeles, perché c'è più umanità e apertura mentale. Sono partita al buio. Avevo solo il numero di telefono e l'indirizzo di Tom Bukovac, il produttore che mi aveva consigliato Dave Stewart. L'ho raggiunto, mi sono presentata. Non mi conosceva. Però, poi mi ha ascoltata cantare».

E quando canta la Nannini.

«Modestamente, credo di saperlo fare. Persino in Nepal, mentre facevo trekking, a un certo punto mi sono messa a cantare Janis Joplin e la gente si è fermata, rapita».

Così è entrata in studio.

«Abbiamo registrato in presa diretta, come si faceva una volta. Una o due take, al massimo. Nemmeno i Foo Fighters, oggi, fanno dischi così».

Il disco è blues nell'attitudine, più che nel suono.

«Ognuno ha il suo blues. Io ho il mio, che nasce dalla cultura popolare. Per me blues è tirare fuori l'anima, attraversare le emozioni. Devo anche ringraziare l'incidente al ginocchio, che mi ha costretta a stare seduta a lungo. Non potevo muovermi, cantavo da ferma e spingevo con l'utero. E ho capito che questo è blues».

Perché ha intitolato il disco La differenza?

«Perché i miei dischi fanno la differenza. A parte gli scherzi, le differenze sono il bene e il male di questa società. Nel bene, perché ognuno di noi, con la propria unicità e bellezza, può fare la differenza; nel male, perché non accettiamo la diversità. Il diverso ci fa paura. È caduto il Muro di Berlino, ma sono stati eretti altri muri, che separano gli esseri umani. Il razzismo nasce in famiglia e nelle istituzioni. Va estirpato sul nascere».

A proposito di famiglia, Penelope ha ormai nove anni. Che mamma è?

«Difficile fare il genitore. Cerco di insegnarle poco. Le lascio vivere la sua libertà. Per diventare grandi non hai bisogno di qualcuno vicino che ti spieghi tutto».

Canterà per la prima volta allo stadio di Firenze. Come la vive, lei che è senese?

«Da ghibellina. A Firenze mi sento a casa. È una città che mi ha dato molto. Non vedo l'ora di salire sul palco e parlare toscano».

Nel disco c'è un duetto con Coez.

«Mi piace tantissimo. Come mi piacciono Salmo e Massimo Pericolo. Anche Achille Lauro. C'è buona roba, tra i rapper, anche se a volte dimenticano la melodia. Il problema è che in Italia mancano produttori e ingegneri del suono bravi».

Con questo disco si torna in qualche modo ad America, un disco diretto, forte e chiaro.

«Sono stata la prima a fare il rock in Italia, vorrei che questo fosse chiaro. Sono arrivata così in anticipo sui tempi che ho avuto successo prima in Germania, dove erano più pronti, e poi in Italia. Aprivo i concerti di Guccini e la gente mi urlava: Scema! Scema!. E mi tirava i pomodori. E dire che Guccini è il più rock dei nostri cantautori. Dio è morto è rock a bestia. Nel secondo disco tributo a Francesco ci sarò anch'io, con Quelli che non».

Cos'è il rock, oggi?

«Spaccare. Io ho imparato a cantare così perché non avevo gli auricolari sul palco. Sforzavo la voce per farmi sentire. E ho creato uno stile. Che, dai, diciamolo, fa ancora la differenza».

Andrea Scanzi per il Fatto Quotidiano il 20 dicembre 2019. Gianna Nannini è pazza. Da sempre e per fortuna. Lo dimostra anche nell' ultimo disco, La differenza. Nell' era dell' iper-tecnologia, si è presa "una stanza a Gloucester, come mi ha involontariamente ispirato Virginia Woolf nel suo Una stanza tutta per sé". Lì ha scritto "un disco nato in nove mesi,  come una bambina". E poi è volata, su consiglio dell' amico Dave Stewart (ex Eurythmics), a Nashville. Dove non conosceva nessuno e aveva un' idea fissa: "Trovare una killer band che suonasse tutto live: buona la prima, senza overdubs e trucchetti.

«Come si faceva una volta. Così è stato. Quando hanno sentito la mia voce, mi hanno detto che era una voce da nera e che dentro ci sentivano l' America. Ripetevano "awesome", e io non sapevo cosa volesse dire. Poi l' ho capito: per loro, la mia voce era 'impressionante'". La differenza è un disco ispirato e diretto, con una parte centrale (Gloucester Road, L' aria sta finendo, Canzoni buttate, Per oggi non si muore) di particolare pregio».

"La differenza" sembra come un modo di tornare ai suoi dischi di 35-40 anni fa.

«Non a caso a supervisionare c' è Mauro Paoluzzi, con me in Latin Lover (1982). Sognavo un disco dove tutto suonasse come se provenisse da uno strumento solo. In Italia non facciamo mai gruppo, infatti non esiste una band seria o quasi. Qua dentro invece siamo stati band. Anche nei testi, col mio amico di sempre Pacifico. E i luoghi mi hanno ispirato».

Londra, Nashville.

«A Londra, sotto la mia stanzetta, abitava uno scrittore inglese di 91 anni. Parlando con lui mi sentivo quasi Virginia Woolf sul serio. Nashville, oltre al country, sin dagli anni Quaranta è sempre stata la "music city" del Mid-South: blues, r&b, jazz, gospel. Credo che mi abbia permeato».

"Siamo stati stupidi a invecchiare". È quel che canta nella splendida "L' aria sta svanendo".

«Il mio mentore Conny Plank mi diceva sempre: "Stay young". Resta giovane. Come si fa? Si invecchia non con l' età, ma quando si smette di aver voglia di cercare e scoprire. È lì che i sentimenti diventano tossici. Che la vita stessa diventa tossica. E si muore. La ripetitività ci rassicura, ma al tempo stesso ci uccide».

Zucchero ci ha detto che avverte un paese depresso e incapace di arrabbiarsi.

«Abito a Milano e lei sta rinascendo. L' Italia intera no, è piena di problemi, ma preferisco sottolineare le cose belle. Certo non ci vogliamo bene per niente: ero a Barcellona e lì sono giustamente orgogliosi del flamenco. Noi invece ci vergogniamo delle nostre tradizioni, e per far suonare come si deve - cioè a modo mio - un cazzo di mandolino sono dovuta andare a Nashville».

Spopolano le Sardine, ma pochi ricordano che nel '95 lei si arrampicò sul balcone dell' ambasciata francese per protestare contro i test nucleari di Chirac a Mururoa.

«Ogni protesta democratica mi piace, ma sulle Sardine per ora non mi esprimo. Chi sono, chi c' è dietro? Quando mi arrampicai, ero molto dentro Greenpeace. La mia band aveva paura di essere arrestata e mi lasciò sola. Ne trovai un' altra, i Settore Out.

La polizia staccò il generatore della corrente, così mi arrampicai - al tempo facevo roccia - e cantai col megafono Boris Vian. Nel frattempo i compagni bloccavano la polizia, io stavo sul balcone e tecnicamente non era "invasione". Sono andata avanti due ore col megafono».

Che c' entra una ribelle come lei con Massimo Ranieri? Era una sua "groupie".

«(Ride) Venivo da una cultura contadina, in casa si guardava la tivù con Modugno.Per un po' ho pensato che il bel cantato fosse incarnato da Massimo Ranieri. Così ero sua fan. Di lui e di Nada».

L' ha scoperta Mara Maionchi.

«Al mio provino si mise a piangere».

Poi spaccò un tavolo dalla rabbia perché volevo cercare un altro manager.

«E quel tavolo me lo mise pure in conto, detraendolo dalle royalties. Un problema, perché in quel periodo non vendevo nulla».

Gabriele Salvatores.

«Recitai nel suo Sogno di una notte d' estate (1983). Registrammo tutto di notte e la cosa mi sballò parecchio. È un film azzardato, teatrale e molto innovativo. Da riscoprire».

Michelangelo Antonioni. Girò il video di Fotoromanza, anche se lui avrebbe preferito la più monocorde L' urlo.

«Anno 1984. Stavo con un ragazzo che si rubò tutta la scenografia: povero Michelangelo, aveva una sceneggiatura pazzesca e girò senza niente! Era il mio mito, ma all' epoca non c' ero tutta con la testa e non me la sono goduta appieno. Prima di quel video non c' eravamo mai visti. Antonioni sapeva creare emozioni ancestrali: nella scena chiave, ha aspettato tre ore prima di darci il ciak. Voleva che mi battesse davvero il cuore. E solo quando mi ha battuto davvero, e non so come lo abbia capito, ha dato il ciak. È venuto tutto alla prima. Un genio».

·         Creedence Clearwater Revival.

Antonio Lodetti per “il Giornale” il 12 dicembre 2019. Creedence Clearwater Revival, ovvero la band che a San Francisco, in piena era hippie, sostituisce le tuniche colorate con camicioni a quadri e stivali da cowboy e riporta il rock alle radici blues e rockabilly. Risultato? Classifiche strapazzate in tutto il mondo e 20 milioni di dischi venduti. Dietro al megasuccesso dei Creedence quattro volti ma un solo nome: John Cameron Fogerty. Fogerty festeggia in questi giorni i 50 anni dei suoi tre album più significativi (Bayou Country, Green River, Willy and the Poorboys) e di Proud Mary, il superclassico definito da Bob Dylan «la più bella canzone del decennio». Per celebrare Fogerty parte in tournée (sarà in Italia a primavera) e pubblica l' album dal vivo. 50 Year Trip: Live at Red Rocks, frutto di un concerto dello scorso giugno. Fogerty, 74 anni, ha sciolto i Creedence nel '72 e per oltre 25 anni si è rifiutato di eseguire le loro canzoni. Nel frattempo ha rimpinguato il suo repertorio con classici come Rockin' All Over the World, Centerfield, Hot Road Heart e ha inciso numerosi dischi solisti di successo. Poi ha ripreso in mano il suo repertorio spiegandone le ragioni. «Un giorno sono andato in Mississippi in cerca delle radici del blues. Ho sempre amato Son House e Muddy Waters. Ho visto i campi di cotone e la tomba di Robert Johnson. Lì c' è una piccola chiesa dove ho avuto una folgorazione. Ho pensato che i suoi blues sono stati sfruttati in mille modi ma non hanno mai perso la loro integrità. Così mi sono detto: anche le mie canzoni hanno un loro spirito e una storia che non può essere rovinata dall' industria». Così ora ai suoi concerti si ascoltano roboanti versioni di Who' ll Stop the Rain («scritta durante la guerra in Vietnam per sfogare la mia frustrazione»), Green River («ispirata dal Pewter Creek, dove ho imparato a pescare da bambino da un anziano discendente di Buffalo Bill»), la granitica Keep on Chooglin (che dal vivo dura decine di minuti)e la mitica Proud Mary. Il grande merito di Fogerty è stato quello di inventare il «swamp rock», una musica che prende spunto dal bayou, ovvero dalle paludi della Louisiana. «Ho inventato un territorio musicale fatto di paludi, alligatori, voodoo. Per scrivere un brano swamp ci vuole una chitarra con il tremolo, una voce potente dal timbro gospel, testi che parlino di fantasmi, licantropi, luna piena». Nascono così pezzi come Born On the Bayou e Bad Moon Rising. «Gli hippies volevano una nuova America - replicò Fogerty - senza capire che la vera America è il Grand Canyon, il Montana, le cascate del Niagara, Elvis, il blues di Chicago. L' America non è una piccola élite, è la gente comune, e io vedo con gli occhi del proletariato». Alla fine, come si vede, l' ha avuta vinta lui ancora una volta.

·         Red Hot Chili Peppers.

Da ansa.it il 16 dicembre 2019. John Frusciante, storico chitarrista dei Red Hot Chili Peppers, torna nella band californiana dieci anni dopo il suo addio. Ad annunciarlo sui social è stato lo stesso gruppo, comunicando l'addio al chitarrista che li ha accompagnati nell'ultimo decennio, Josh Klinghoffer. "Josh è un grande musicista che rispettiamo e a cui vogliamo bene - si legge nel posto -. Siamo molto grati per il tempo trascorso insieme. Annunciamo inoltre, con grande entusiasmo e di cuore, che John Frusciante rientra nel gruppo". Frusciante entrò nella band a 18 anni, nel 1988 per poi lasciarla una prima volta nel 1992 per problemi di dipendenza dall'eroina ed altri problemi personali. Newyorkese, con famiglia di origine campana, fu la chitarra di Blood Sugar Sex Magik, uno dei capolavori della band californiana, uscito nel 1991. Dopo una carriera da solista tornò nuovamente nel gruppo nel 1998 per poi lasciarla ancora una volta nel 2009. Inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, Frusciante nel 2010 è stato riconosciuto dalla Bbc come miglior chitarrista degli ultimi 30 anni, mentre la rivista Rolling Stones lo ha riconosciuto come uno dei 100 migliori chitarristi di sempre. Nel 1994 Enrico Brizzi si ispirò a lui per il titolo del suo romanzo Jack Frusciante è uscito dal gruppo, divenuto poi anche un film.

·         Andrea Scanzi.

Dagonews il 16 dicembre 2019. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Andrea Scanzi, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha raccontato alcuni aspetti della sua vita lontano dai riflettori. A partire dalla sua attuale relazione: oggi è fidanzato o single? “Sono fidanzato da un anno e mezzo con Sara, che è di sei o sette anni più piccola di me”. Passerà il giorno di natale con lei? “Faremo il pranzo del 25 insieme: cucinerò io a casa e mangeremo del pesce”. Le ha già comprato il regalo di natale? “Si, gliene ho preso uno solo, sono sicuro che le piacerà”. E non farà una cena natalizia anche coi colleghi del suo giornale, il Fatto Quotidiano, a partire da Marco Travaglio? “Purtroppo non potrò esserci certo: sarò in teatro con Cristiano De Andrè”. Pare che in queste occasioni il direttore del Fatto ami cantare i pezzi di Renato Zero... “Quando c'è una festa e non può fare il karaoke Marco si arrabbia molto. E' molto bravo peraltro”. Lei è un grande appassionato di moto. Quante ne ha? “Ho appena preso una seconda Triumph, ora in tutto ne ho tre. E ad ognuna di loro ho dato un nome”. Un nome? “Si, le ho chiamate Abigail, Randy e Lucy”. Lucy? “Si, come l'ho vista mi è venuto in mente questo nome, ero con la mia ragazza, e anche lei ha concordato”. E' vero che molte donne ci provano con lei alla fine dei suoi spettacoli teatrali? “Si, soprattutto dopo il teatro ma anche sui social”. Cosa le propongono? “Mi lasciano il numero, anche su Instagram o Facebook. Ma io ora sono fidanzato”. Pare che anche con Mattia Santori, leader delle Sardine, alla fine dei comizi molte donne, soprattutto 50enni, ci provano...”Quando ero single e avevo sui 40 anni anche ho avuto storie con delle 50enni...”

·         Arturo Brachetti.

La magia più bella di Brachetti? Il suo teatro sociale. Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it. Il Laurence Olivier Award conquistato in Inghilterra nel 2010 o il Premio Molière, vinto in Francia nel 2000, si dissolvono di fronte a un bambino. Quel bambino di sei anni che una sera, dopo lo spettacolo, raggiunse Arturo Brachetti in camerino e gli chiese: «Ma tu stasera come torni a casa? Vai in taxi o voli?». Per un artista che ha dedicato la vita a rincorrere lo stupore negli occhi degli altri questo è il riconoscimento supremo. E ancora oggi, a 62 anni e dopo quattro decenni di carriera internazionale, l’attore-trasformista torinese non rinuncia al piacere di vedere un lampo di meraviglia nello sguardo altrui: «sposta» le pareti mobili della sua casa, appare all’improvviso da una finestra-cornice, apre i rubinetti del bagno lasciando uscire acqua colorata. Come se fosse in uno dei suoi spettacoli, quando passa dalla corpulenza di Pavarotti al fisico esile di Elvis in meno di due secondi (come ha registrato il Guinness World Records). E anche quando parla, a tratti, sembra ora più alto ora più grasso o più giovane: sta solo vestendo i panni di una delle sue trecentocinquanta vite — tanti sono i personaggi del suo repertorio.

Lo spettacolo non finisce mai, nemmeno in casa?

«Ma nemmeno quando esco per fare la spesa: a volte vado al supermercato travestito da rocker o da anziano barbuto. Così, solo per il gusto di impersonare qualcun altro».

Una vita «per gli altri» e nei panni degli altri, dunque.

«È il senso di tutto. Sono nato in una famiglia semplice, zona operaia, case di ringhiera, la Torino piena di smog degli anni Sessanta. Dal balcone vedevo l’insegna del cinema Splendor, che mi pareva quella di Hollywood. Sono grato alla mia città che, coprendomi di grigio, mi ha insegnato a vedere i colori, a immaginarmi qualcun altro».

E oggi, dopo tanti successi, che cosa sono «gli altri» per lei?

«Prima di tutto, una parte integrante del mio lavoro: se davanti a me non ho persone disposte a credere che quello che faccio è reale, il mio spettacolo è finito. Ogni magia che compio ha bisogno della fede degli altri. E della loro energia. E poi, be’, io sono uno che ha lavorato duro ed ha avuto molto. Ora sento il bisogno di fare qualcosa per i giovani attori».

Per esempio con Le Musichall, il teatro di varietà nato dall’ex teatro degli Artigianelli che lei, assieme all’Opera Torinese del Murialdo, ha rimesso in piedi?

«Non voglio prendermi meriti che non ho: per un anno mi sono divertito a fare l’architetto in teatro e ad aiutare i Padri Giuseppini ad avviare quest’avventura che oggi permette a tanti giovani di farsi conoscere (e che Brachetti dirige e promuove senza percepire compenso, ndr). Ci rivolgiamo a diverse compagnie per reclutare gli attori. Non solo: qui tanti imparano a fare i macchinisti o i tecnici delle luci, cioè mestieri legati al teatro per i quali non ci sono vere e proprie scuole professionali»

(la Brachetti Arte è coinvolta in Art9, impresa sociale e culturale, ndr). Quello di Artigianelli150, che ha visto lei e la sua società in prima linea, è un progetto di rigenerazione urbana che sta recuperando una parte importante della città, incluso il teatro, un luogo del 1913.

«Qui sono nati Littizzetto, Chiambretti e anch’io ci ho lavorato a 15 anni perché il teatro era del collegio degli Artigianelli che ospitavano lo spettacolino dei salesiani. Torino è capofila nelle scuole di arte varia: cito solo la Scuola di Cirko Vertigo, la Flic, l’atelier di teatro fisico di Philip Radice. Se posso dare visibilità e sostegno a attori e a professionisti dello spettacolo sono felice, ma mi sembra di non far mai abbastanza».

E perché?

«Perché non mi basto mai».

Eppure lei arriva a fare anche tre spettacoli al giorno, con cento cambi d’abito in cento minuti.

«Se mi fermo, si ferma tutta la compagnia. Una volta, in scena, mi sono spezzato un braccio. Avevo due alternative: una lunga riabilitazione o un costoso impianto di titanio e via. Ho scelto la seconda soluzione. Occuparmi degli altri è anche questo».

Si è mai fermato Arturo Brachetti?

«Nel 2004 stavo vivendo una stagione incredibile, con il tutto esaurito nei teatri di Parigi, richieste da palcoscenici internazionali. Ma cominciai a perdere il sonno. Il medico mi diagnosticò uno stato ansioso: mi sembrava impossibile visto il successo che riscuotevo. Poi ho capito che quello era il momento di fermarmi. Per rigenerarmi. Solo quando ho capito che nella vita tutto procede per alti e bassi e che i “bassi” sono importanti e necessari quanto gli “alti”, ho ripreso a dormire». Scuole dai Salesiani, primi spettacoli in parrocchia: oggi Brachetti conserva una forma di fede?«Credo che ci sia un motore occulto dal quale scaturisce tutto. Però la dinamica rigorosa della fede la conosco: è la stessa che porta un bambino di sei anni a credere che io possa volare davvero. Se credo in Dio? Sono “in aspettativa”: resto convinto che fare del bene agli altri sia l’unico antidoto ad una vecchiaia fatta di solitudine, ma questo non basta».

C’è stata una volta, nella sua vita di «uomo magico», in cui è accaduto qualcosa di veramente inspiegabile, quasi di miracoloso?

«Be’, ho fatto due testacoda con l’automobile e sono qui a parlarne. Per non parlare di quella volta in cui, al Teatro Parioli di Roma, sono caduto da due metri d’altezza letteralmente in braccio al pubblico della prima fila. Oppure, in Puglia, ho fatto un volo dal palco fino ad un punto in cui giacevano pianoforti e altri strumenti abbandonati. Se mi sono fermato mai dopo questi incidenti? No, ho continuato lo spettacolo, infiammato dall’adrenalina: una volta sono rientrato in scena con una scarpa di un numero superiore, perché il dito del piede era come un salame».

Piange qualche volta?

«Mi commuovo».

E quando?

«Ogni volta che rivedo Mary Poppins, il primo film che vidi da bambino, quando si andava al cinema una volta al mese e la televisione si andava a guardarla a casa della signora Borgialli: lei stava al piano sopra al nostro e quando arrivava il “tum tum” della scopa sbattuta sul pavimento, correvamo nel suo tinello per vedere Gian Burrasca».

Che cosa le è rimasto degli anni trascorsi con i Salesiani?

«Tante cose. Per esempio ancora oggi non riesco a spendere soldi con disinvoltura, ma mi dico sempre che se la prossima stagione andrà bene allora mi comprerò un nuovo telefono. Potrei comprarlo anche adesso come insiste mio fratello - che tiene i conti della società - ma ogni volta per me è come se il successo non fosse mai realmente meritato, bensì piovuto dall’alto».

Di che cosa ha paura?

«Sono ipocondriaco: una volta sul palco mi si sono bloccate due dita e ho subito gridato alla paralisi. Faccio controlli continui e poi, be’, insomma, per me il corpo è tutto: se dovesse rovinarsi perderei ogni cosa».

Autodisciplina rigorosa?

«Sì. Ho un trucco per eliminare la differenza tra notte e giorno, specie quando devo fare più di uno spettacolo in 24 ore: imbroglio il bioritmo, giocando con le luci e l’oscurità e dormendo a orari improbabili».

Però la giovinezza del fisico sembra una questione genetica: sua madre, ultraottantenne, voleva provare il deltaplano assistito...

«Sì ma io e i miei fratelli l’abbiamo bloccata in tempo».

Mai fatto sedute spiritiche?«Certo. Mi sono auto-ipnotizzato per il solo gusto di dire finalmente quello che mi passava per la testa».E se potesse parlare con qualcuno che non c’è più?

«Parlerei con Fregoli. Ma in fondo non saprei che cosa chiedergli. Dunque meglio non farlo».

·         Roberto D’Agostino.

Stella Dibenedetto per ilsussidiario.net il 13 dicembre 2019. Roberto D’Agostino comincia il racconto della sua vita aprendo la cassettiera di Vieni da me con la bacchetta con cui entrò a far parte del mondo di Renzo Arbore nel 1985. Il discorso entra nel vivo quando Caterina Balivo tira fuori dal cassetto una serie di tazze sulle quali troneggiano i nomi Pamela, Mark, Sebastian e Rebecca. Il riferimento è alla vicenda di Pamela Prati e Mark Caltagirone sulla quale “Io so che prima di internet, ogni 10 anni, Pamela Prati ha annunciato un marito. Con internet, certi giochini vengono subito sgamati e quando ho parlato con qualcuno mi ha raccontato tutta la faccenda e non era solo la voglia di avere un po’ di pubblicità, ma era una semplice truffa per abbindolare le varie trasmissioni”, spiega D’Agostino. “Lei, però, si definisce vittima”, commenta Caterina Balivo. “Lei può dire quello che vuole“, replica D’Agostino. L’intervista a Vieni da me è l’occasione per Roberto D’Agostino di parlare della sua vita e del suo passato. Cresciuto con una mamma che faceva un lavoro che oggi non esiste più ovvero la “bustaia” e con un papà saldatore, D’Agostino svela un retroscena della sua adolescenza che in pochi conoscono. “Sono stato balbuziente fino a 15 anni e questa cosa mi ha portato ad essere un po’ violento. Con le parole non avevo la prontezza di rispondere a chi mi prendeva in giro e quindi picchiavo“, ricorda Roberto D’Agostino. Resosi conto di avere un problema che non gli permetteva di avere una vita come quella dei suoi coetanei, D’Agostino decide di chiedere aiuto alla mamma. L’incontro con un logopedista gli permette così di risolvere quello che, fino a quel momento, era stato per lui un problema serio. Nonostante tutto, però, nell’essere balbuziente, D’Agostino ha trovato anche un lato positivo. “Essere balbuziente ha un lato positivo perchè mi ha permesso di stare a casa a leggere tanti libri che hanno fatto bene al cervello”, conclude.

·         Mandy Jean Prince in arte Prince.

Dagospia il 12 dicembre 2019. Comunicato stampa. Mandy Jean Prince in arte Prince è un personal trainer e fotomodello senegalese che abbiamo avuto modo di vedere più volte in televisione a Forum, Ciao Darwin, Pomeriggio 5 e Live-non è la d’Urso e che quest’anno si è guadagnato la cover di “Male Models”, il calendario maschile più venduto acquistabile in tutte le edicole di Italia. Lo statuario africano non ha dubbi sulle preferenze delle donne italiane per i ragazzi di colore: “Noi neri abbiamo una dotazione importante? È una leggenda. Io non mi posso lamentare, ho 25 centimetri da donare ma tanti altri miei fratelli africani non sono stati aiutati da madre natura come me. Le donne in Italia preferiscono noi è perché siamo dolci, ci dedichiamo a pieno alle esigenze della nostra amata e non le facciamo mancare nulla!” “Quando ho confessato a Ciao Darwin che il mio pene in erezione era lungo 25 centimetri - prosegue Prince - mi sono arrivate un sacco di richieste per diventare pornoattore, ma io non accetterei mai, nemmeno per cifre enormi! Io sono cristiano-cattolico e l’amore lo faccio con la mia donna a casa, non con donne che mi vengono imposte e davanti alle telecamere; sono cresciuto in Africa con dei valori ben saldi e non transigo”. “Ma allo stesso tempo pur non essendo gay amo follemente il mondo LGBT e volentieri mi esibisco come ragazzo immagine e cubista in questa tipologia di locali. A quelli che mi chiedono se potrei mai perdere la testa per un uomo rispondo ‘mai dire mai nella vita’, ma per ora amo troppo le donne, anzi adoro la mia dolce Erminia, donna semplice, simpatica, solare, piena di vita e di voglia di vivere. Ci frequentiamo da circa un mese ma tutto va bene, la differenza d’età non mi spaventa affatto, lei nell’animo è una ragazzina, e questo mi basta”. Il giovane ragazzo originario del Senegal spera in un posto al sole in televisione e non risparmia una stoccata a Patrizia Groppelli con cui ha discusso qualche giorno fa in diretta da Barbara d’Urso a Pomeriggio 5: “Penso che la “signora” Sallusti si commenti da sola, a lei voglio dire solo di non giudicare la gente prima di conoscerla e che un albero che cade fa più rumore di una foresta chi cresce, stop!”.

·         Luana Borgia.

agospia il 13 dicembre 2019. Comunicato stampa. La duchessa dell’hard Luana Borgia: “Sono una pornostar e lo sarò per sempre, ma al contrario di quanto si possa pensare conduco una vita normale, senza eccessi e rigorosa, vado a letto presto e mi sveglio presto, la mia alimentazione è sana e faccio molto sport, palestra e cavallo, sono campionessa di dressage.” L’eterea bellezza ed il fascino misterioso della pornostar più elegante della storia del porno italiano non sono stati scalfiti con il tempo, anzi si sono accentuati. Luana Borgia, oggi splendida cougar cinquantenne tutt’ora in attività, originaria di Padova ma residente a Parma da qualche anno, ha circa cento film hard all’attivo, quattro Oscar europei del porno vinti e migliaia di spettacoli hard calcando i più importanti palchi dei locali a luci rosse più importanti d’Italia. La pornodiva lombarda ama il sesso in tutte le sue forme, e confessa di essere molto trasgressiva a letto, ad esempio ama molto il sesso anale, spesso ingiustamente disdegnato dalle donne, e dice la sua sulla masturbazione femminile: “Diffidate dalle donne che dicono di non toccarsi, lo fanno tutte, solo che si vergognano di dirlo, ma è una cosa naturale e fisiologica...lo faccio anch’io quando ho voglia, non capisco perché i maschi lo ammettano senza problemi mentre per molte donne è un ancora tabù. Io sono una delle poche eterosessuali rimaste, io amo l’uomo e mi fa sangue solo l’uomo, il lesbo l’ho fatto solo nei film e negli spettacoli ma nella vita privata non mi eccita per niente...il mio compagno sta settimane lontano da casa per lavoro quindi ci capita quando non possiamo fare sesso live di fare delle videochiamate e di fare sesso virtuale, e devo ammettere che è molto intrigante e divertente, quando invece è a casa lo porto spesso in locali per scambisti a giocare, sono stata io a trascinarlo lì ed è stata la sua prima volta in un club privè, era curioso ma rigido, l’ho convinto e da quella volta è una nostra tappa fissa ed immancabile!”. “Una delle cose che mi dato più soddisfazione nella vita è stata quella di ospitare Padre Fedele Bisceglia (all’epoca anche mio confessore) all’interno del mio stand attorno al 94/95 alla fiera erotica di Bologna; con i proventi della vendita del mio calendario siamo riusciti a comprare un ambulanza da spedire in Africa per aiutare le persone povere. Nella vita ho avuto tutto: salute, fama, successo ma ho ancora tre sogni da realizzare:

1) naufragare sull’Isola dei Famosi

2) essere la prima playmate in copertina su Playbloy a cinquant’anni

3) passare una notte infuocata con Paolo Del Debbio, un uomo che mi fa bagnare solo al pensiero...”

·         Angela Gritti.

Dagospia l'11 dicembre 2019. Comunicato stampa. La mitologica pornostar Angela Gritti negli ultimi anni non ha bazzicato i set hard, ma i suoi numerosi fan l’hanno potuta ammirare solo nelle varie tappe del suo sexy tour nei lap dance, club privè e night club della penisola con il suo spettacolo hard. In questi giorni I suoi adoratori, tramite la sua pagina ufficiale di facebook, hanno scoperto che la Gritti è tornata in pompa magna: ha pubblicato la cover del suo nuovo film scritto e diretto da Andy Casanova dal titolo “A letto con zia”, con i pornoattori Manuel Ics e Lelegarbo nel ruolo dei nipotini. Angela Gritti, attrice hard dal 2005, è originaria di Asiago in provincia di Vicenza, dove prima di diventare attrice porno era insegnante di sci. Oggi, tra uno spettacolo hard ed un set porno, nel tempo libero aiuta il marito nel negozio di articoli idraulici in paese. La Gritti dichiara: “La maggior parte dei ragazzi giovani mi corteggiano e vorrebbero venire a letto con me; ho notato in 14 anni di onorata carriera che i giovanotti preferiscono noi donne mature rispetto alle coetanee, penso per l’esperienza sessuale che abbiamo, siamo una nave scuola d’altronde per loro e sappiamo come farli godere al meglio! A letto mi piacciono tutte le posizioni, non ho una posizione del kamasutra preferita ma tra il sesso anale ed il sesso orale non ho dubbi: sesso orale tutta la vita, saper far un pompino fatto bene dovrebbe essere l’arte che ogni donna dovrebbe saper fare al proprio uomo”.

·         Francesca Conti Cortecchia.

Dagospia il 14 dicembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Francesca Conti Cortecchia: Gentilissimo Roberto, credo che per raccontare certe storie ti devi rivolgere a grandi personalità della cultura contemporanea, altrimenti una transessuale non sa a che Santo votarsi. A volte la televisione è spietata, l’informazione virtuale ci offre troppi cattivi esempi. Qualcuno ci definisce “mostri chirurgici”, o parlano di noi se tiri cocaina con personaggi famosi, oppure vedi Sgarbi che tratta una trans dignitosa con parole vergognose. Ma noi siamo delle persone normali, nate senza i diritti civili e morali che tutelano i cittadini italiani. Il pregiudizio incomincia quando sei indifeso, durante le scuole medie, la lapidazione c’impedisce di studiare. Mi scusi lo sfogo, che schifo i favolosi anni Ottanta e Novanta, i ragazzini transessuali - dieci su dieci - erano costretti dalla società a prostituirsi nei primi vent’anni di vita. Oggi non mi sembra che le cose sono migliorate, è colpa della cultura sbagliata e per colpa nostra: è un’autocritica, ci servirebbe una scuola per inserirci nel contesto sociale. Lei mi sembra una persona garbata, con il chakra giusto per raccontare la mia storia. Sono una transessuale del 1960, nata in Somalia, cittadina italiana, donna in nome del popolo italiano dal 1983 (ma sempre definita al maschile dai mass media), una delle più belle e famose di Bologna. Le invio fotografie e articoli di giornali per dimostrare la mia sincerità, non mi considero una pazza con il cervello bruciato dalla perversione. Le svelo un segreto, sono la prima transessuale-testimonial sulla violenza contro le donne in tutto il mondo. Ispirai la nascita di “Zero Tolerance”, una grande campagna sociale del Comune di Bologna per sensibilizzare l’opinione pubblica. Nel 1996 ho progettato il simbolo grafico (una bimba che chiede aiuto) e per anni i manifesti dell’otto marzo. Nel frattempo ho affrontato cinque interventi chirurgici, nel 1995 mi avevano massacrata, con l’aiuto di Repubblica (nel 1994) lottai contro la malavita organizzata che importava in Italia le ragazzine da avviare alla prostituzione. Andavo in televisione per raccontare con orgoglio la nascita di Zero Tolerance, a volte anche senza denti in bocca. Il Comune di Bologna non si vergognava della donna-trans con la faccia distrutta, tanti documenti cartacei e video lo testimoniano, organizzò una ricca mostra d’arte su Francesca Conti a Palazzo Re Enzo. Poi scappai in Australia per tre anni, l’anima era piena di ferite, con l’aggressione avevo perso la salute, la bellezza e l’affetto di mia madre. Ritornai a Bologna per aprire un negozio d’antiquariato, ero una sprovveduta che credeva nelle favole, nei “lavori normali” una trans è sempre sospetta, tanta gente non entrava per la mia presenza. Non mi crede? Il pregiudizio è sempre in agguato, l’ho imparato a mie spese, nel 2016 volevo cambiare casa, l’agente immobiliare mi disse che il padrone non affittava a negri e travestiti. Nel 2018 ho smesso di lottare, rischiavo il fallimento e mi sentivo con i piedi nella tomba. Oggi vivo in Romagna, con Anima (la mia cagnolina), sul baratro economico (una trans-anziana ha problemi per trovare un “lavoro normale”), ormai distante dalla vita del bambino che conobbe il sesso a 12 anni con un uomo grande. Ma con l’ultimo sogno nel cassetto: riscrivere e pubblicare il mio romanzo sulla poesia della diversità. L’ho finito a dicembre, mi sono iscritta in un noto premio letterario, da pochi giorni ho incominciato a spedire “La signora di Penang” alle case editrici. Ma temo il pregiudizio sociale, è sempre in agguato, l’argomento si presta a tagli e censure. Le spedisco una seconda email con il romanzo, un riassunto della trama e le note sull’autrice che invio per cercare di pubblicarlo: così può approfondire l’argomento con il garbo della gente senza diritti civili. Oggi per il Comune di Bologna non esisto più, sono morta, ha cancellato il mio nome dal sito ufficiale. La chiama civiltà? Grazie per l’attenzione, io lotterò fino all’ultimo respiro per raccontare il genocidio del pregiudizio morale. Mi piacerebbe se lei parlasse di noi per quello che siamo. Buon Natale Francesca Conti Cortecchia

NOTE PERSONALI SUL PASSATO DI FRANCESCA CONTI CORTECCHIA:

1993 – Bologna, scandalo dei manifesti “ItalianTravestit”, in sottoveste e numero telefonico.Fu la pubblicità del libro “Ma...Donne”,un reportage fotografico sulla bellezza transessuale, di Nicola Casamassima, Granata Press - Metrolibri, testi di Francesca Conti. Nello stesso anno l’editore ci offrì un secondo libro fotografico sul mio successo personale, raccontai il fascino delle donne-trans senza diritti sociali. Il libro fotografico “Italian Travestit” fu pubblicizzato con il manifesto “Italian trans-artist”.

1994 – L’impegnosociale era naturale per una donna-trans, progettai una campagna stampa con la complicità di Repubblica per aiutare le ragazze straniere in mano alla malavita organizzata. Fu un successo, sensibilizzai l’opinione pubblica, ma pochi mesi dopo, nel febbraio del 1995, affrontai due delinquenti armati di pistola. Il massacro fu punitivo, rubò la salute, la gioventù, la bellezza e il senso dell’esistenza.

Nel 1996 si concretizzò un altro progetto sociale. Dopo cinque operazioni (e tanta disperazione) diventai testimonial del Comune di Bologna contro la violenza sulle donne. Ispirai la nascitadi “Zero Tolerance”, disegnai il simbolo, progettai dei manifesti per l’otto marzo.

Nel 1997 fu inaugurata “The last strip-tease” a PalazzoRe Enzo, una mostra antologica sull’arte di Francesca Conti: dipinti, sculture di ferro, bronzi e fotografie.

Partecipai a molti programmi televisivi:

“L’approfondimento” (di Gene Gnocchi, Rai 1994),

Moka Choc” (Video Music 1994),

“Italia in diretta” (Rai 1995),

“Chi l’ha visto” (Rai 1996),

“No comment” (di Danila Bonito - Rai 1997),

“Film vero” (“La doppia vita di Francesca”, di Cesare Noia. Rai 1998)

e tanti telegiornali.

Nel 2000 sono fuggita dal clamore della vita pubblica. Ormai ero un’altra persona, andai in Australia, cercavo una lunga riflessione sulle ceneri del mio passato, ritornai a Bologna dopo tre anni. Ero contenta del soggiorno all’estero, avevo un progetto di lavoro, m’impegnai per aprire un negozio d’antiquariato sotto le due torri. Nel 2018 mi sono arresa, toglieva troppo tempo al mio romanzo, ho chiuso l’attività senza rimpianti. La Romagna la conoscevo bene, ho affittato una casa in campagna e mi sono rinchiusa in clausura per completare “La signora di Penang”. Ho raccontato con le parole la favola-romanzata sulle persone senza diritti civili.

·         Costantino Vitagliano.

Costantino Vitagliano: lo sfogo per la morte della madre. Alice il 19/12/2019 su Notizie.it. Sono stati 3 anni molto difficile per Costantino Vitagliano: l'ex tronista si è sfogato per la scomparsa della madre. Costantino Vitagliano si è aperto per la prima volta riguardo al suo dolore per la scomparsa della madre Rosina, che a sua volta era stato spesso ospite dei salotti TV. Costantino Vitagliano ha parlato della scomparsa di sua madre Rosina e in particolare di quanto siano stati difficili gli anni della malattia della donna e quelli seguiti alla sua scomparsa. “Quando si perde una persona così importante – ha raccontato Costantino –… fino a quando non lo provi non lo capisci…”, ha detto Costantino, profondamente legato alla madre e che le è rimasto accanto fino all’ultimo minuto. L’ex tronista ha sempre riferito di avere una rapporto speciale con la donna e che sarebbe stata lei a volerlo più di tutto. “Sei stato un mio capriccio”, gli diceva. L’ex tronista ha riferito che si starebbe riprendendo da questo periodo molto difficile, e che probabilmente il merito sarebbe anche di sua figlia Ayla, avuta dall’ex compagna Elisa Mariani. Il modello ha rivelato anche che la sua storia d’amore con Elisa iniziò quando lui era fidanzato con un’altra, e che pertanto la donna sarebbe stata la sua amante. Nonostante le cose non andassero bene già durante il rapporto e per questo i due abbiano deciso di separarsi, Costantino ha mantenuto uno splendido rapporto con Ayla, che lui definisce la luce dei suoi occhi. “Quando è con me, per me non esiste altro. Io non ho mai avuto un padre così presente, non avrei mai pensato di essere così: la bacio dalla testa ai piedi, faccio di tutto”, ha rivelato Costantino a proposito del suo legame con la figlia.

·         Giuliano Fildigrano in arte Julius.

Dagospia il 14 dicembre 2019.  Comunicato stampa. Giuliano Fildigrano in arte Julius ha 36 anni ed è originario di Napoli, anche se da anni vive a Torino. Esordisce nel mondo dell’hard nel 2014, prima lavorava in vari locali della penisola come stripman e cubista, ha partecipato come boy nel 2005 per un intera stagione a Domenica In, trasmissione condotta da Mara Venier e partecipato a vari film e fiction. Da quando ha iniziato ad oggi ha girato centinaia di scene e calcato i palchi delle più importanti fiere erotiche del settore sia in Italia, sia all’estero, ricevendo diversi prestigiosi premi a luci rosse. Il bel Julius dichiara: “Dopo 5 anni in cui giro per conto terzi sto pensando in futuro di autoprodurmi e guadagnare direttamente per il mio lavoro, lavorare per produzioni non è così conveniente, si viene sfruttati e sottopagati. Adoro i preliminari fatti e ricevuti, i footjob, i giochini di ruolo. Ogni giorno ricevo centinaia di messaggi sui social con foto di membri da ragazzini, vecchi e travestiti che sarebbero disposti a pagare qualsiasi cosa per avermi una notte nel loro letto, ma non sono portato per queste cose, non sono un mercenario…” Poi parla del suo cambio di lavoro e spiega: “Quando giravo film porno ero io il dominante, la donna nelle scene che facevo solitamente era identificata come donna-oggetto sbattuta e girata e rigirata come un calzino, invece nelle canzoni che canto come neomelodico sono sempre io quello lasciato e che soffre per amore, che paradosso! Le donne delle spettacolo che mi eccitano ed intrigano di più? la bionda Taylor Mega e la mora Antonella Mosetti senza alcun dubbio”.

·         Maria Giovanna Ferrante diventata Mary Rider.

Dagospia il 18 dicembre 2019. Da “Radio Cusano Campus”. Maria Giovanna Ferrante è una donna con una lunga carriera da giornalista alle spalle: una laurea in letteratura moderna comparata, un master in giornalismo e poi la lunga gavetta per diventare giornalista, passando dai giornali locali piemontesi fino a scrivere per l’Ansa di Torino. Tutto questo però non le bastava più e così, un po’ per gioco ha iniziato con suo marito a girare film hard indossando delle maschere e oggi è diventata Mary Rider, nome scelto per il suo grande amore per le motociclette. Pornostar e produttrice di film hard, Maria Giovanna si confida ai microfoni di Radio Cusano Campus durante la trasmissione “Un giorno da ascoltare” con Misa Urbano e Arianna Caramanti. “La mia decisione di passare dalla professione di giornalista a quella di porno attrice è stata molto riflettuta e non repentina –ha affermato Mary-. Ho pensato molto alle conseguenze di questa mia scelta perché ti cambia totalmente la vita soprattutto in Italia. Per fare la pornostar bisogna essere predisposti, infatti io sono molto esibizionista e mi sono accorta che mi piace essere guardata mentre faccio sesso. Occorre anche una grande fiducia in se stessi, bisogna piacersi e stare bene col proprio corpo: ho iniziato a volermi più bene, a fare attività fisica e modellare il mio fisico e questa è stata già una grande conquista. Se rivedo le mie foto di dieci anni fa penso: oddio quant’ero vecchia! Posso dire di stare molto meglio adesso, soprattutto da un punto di vista psicologico perché affronto le cose con maggiore leggerezza e consapevolezza. I miei familiari non l’hanno presa benissimo anche perché qui in Italia l’industria del porno è spesso confusa con la prostituzione quindi loro pensavano facessi la prostituta quando in realtà è un lavoro totalmente diverso, ma si sa, qui nel nostro Paese ancora dobbiamo sdoganare il porno: da una parte c’è gente che è d’accordo con me e che magari fruisce anche dei film hard, dall’altra ci sono quelli che pensano che io sia una prostituta e che debba andarmi a far curare perché pensano io non stia bene con me stessa, sbagliandosi alla grande però! “Non tornerei mai indietro perché mi piace la mia vita! E’ bellissimo essere una giornalista pornostar: ho ripreso da poco a scrivere per un blog e faccio anche l’opinionista per una trasmissione locale. Se sei giornalista, lo rimani per sempre!” ha concluso Mary Rider.

·         Viviana Bazzani.

Viviana Bazzani. Dagospia il 20 dicembre 2019. Comunicato stampa. L’ex agente di polizia ed ex concorrente della quinta edizione dell’Isola si confessa e si sfoga come non ha mai fatto prima d’ora, ricordando l’episodio che l’ha tristemente segnata di più: “Ricordo come se fosse ieri quella tragica e fredda notte d’inverno a Pescara di fine anni 90 che mi ha rovinato la vita perdendo per sempre è completamente la vista del mio occhio sinistro in seguito ad una colluttazione con un migrante albanese clandestino mentre ero con la volante per i controlli” affranta ma lucida l’ex isolana continua: “Perdonare questo giovane delinquente no, ma comprenderlo si perché il problema immigrazione fuori controllo c’è sempre stata, negli anni 90 con gli sbarchi dall’Albania, ed oggi con gli sbarchi in sud Italia dall’Africa, ma su questo fenomeno ho le mie idee molto chiare e decise...”. L’ex agente di polizia emozionata ricorda i sei anni in cui fece da scorta al grande Giovanni Falcone a Roma: “Noi agenti di scorta non avevano un vero e proprio rapporto con lui, ma ricorderò sempre la sua gentilezza, umanità e quella calda carezza che mi ha dato che non dimenticherò mai....”

·         La confessione di Ivana Spagna.

Ivana Spagna choc a Io e te: "Ho tentato il suicidio, mi ha salvata la gatta". La cantante di Gente come noi ha confidato di essere giunta al punto di tentare il suicidio. Serena Granato, Giovedì 01/08/2019 su Il Giornale. Nel corso della nuova diretta di Io e te, il programma condotto da Pierluigi Diaco in collaborazione con Sandra Milo e Valeria Graci, non sono mancati colpi di scena e momenti di commozione. In qualità di ospite, nel salottino del talk-show di Rai 1, si è presentata Ivana Spagna, che si è concessa ad un'intervista esclusiva. "Quando è morta mia madre ho tentato il suicidio", è la confessione choc rilasciata dall'artista Spagna in tv. La cantante di Gente come noi ha palesato di non aver avuto tempo né modo di metabolizzare bene il momento della perdita della sua mamma e di aver fatto i conti con un profondo senso di smarrimento e solitudine. "Quando sto male mi nascondo perché non voglio che la mia sofferenza pesi sugli altri", ha aggiunto la cantante.

Ivana Spagna: a salvarla è stata la sua gatta. Il 20 luglio del 1997 è il giorno in cui sua madre è venuta a mancare: "Sono andata a cantare la sera stessa per non far perdere il lavoro alle persone che erano con me. Alla fine del concerto, in camera, ho urlato. Sono andata avanti così fino alla fine del tour e alla fine ero distrutta". L'ospite della nuova diretta di Io e te, andata in onda lo scorso 31 luglio su Rai 1, ha rivelato che aveva premeditato il suo suicidio e che a salvarla, alla fine, è stato l'incontro provvidenziale con la sua gatta: "Avevo organizzato tutto quanto... ad un certo punto, mi spunta la gattina davanti miagolando e ho detto ‘E tu a chi resti?’ Allora ho capito subito che stavo punendo chi mi voleva bene. Sono andata davanti alle foto dei miei genitori a piangere, perché mi sono resa conto dell’errore che stavo facendo, loro avevano lottato per secondi in più di vita e io me ne volevo togliere così?". La cantante ha concluso il suo intervento televisivo invitando chi soffre a non isolarsi e a lottare per la propria vita.

La confessione di Ivana Spagna: «Dopo la morte di mia madre ho pensato al suicidio». Pubblicato giovedì, 23 maggio 2019 da Corriere.it. Racconta del suo momento buio, di quello in cui pensava che la sua vita non avesse più senso. Ivana Spagna, 64 anni, ospite di Caterina Balivo a «Vieni da me», racconta di quando dopo la morte di sua madre, nel 1997, pensò di togliersi la vita. Gemma, così si chiamava la mamma della cantante, fu stroncata da un tumore: «Il 20 luglio perdo mia madre - spiega ricordando quel giorno - Ho dormito con lei all’ospedale, il giorno dopo ho fatto tutte le cose che son da sbrigare e la sera sono andata a cantare. Finita la serata mi sono chiusa in camerino, ho urlato». «Sono arrivata alla fine del tour che ero rovinata nel fisico e nell’anima e ho detto ‘adesso penso a me stessa’. Ero stufa di lottare, avevo il cuore a pezzi, avevo deciso di chiudere - dice rivelando di aver pensato di farla finita - Si è calmi quando si decide quello, è quella la cosa strana. Io mi ero chiusa in me stessa, cosa che non bisogna fare, bisogna aggrapparsi alle persone che ti vogliono bene». Ivana è davvero arrivata a un passo dal suicidio, racconta: «Avevo organizzato tutto quanto e a un certo punto mi arriva la gattina davanti, io ero in bagno e questa che si chiamava Bimba mi è venuta davanti a miagolarmi e ho detto ‘E tu a chi resti?’ Allora ho capito subito che stavo facendo l’unica cosa che non dovevo fare: punivo chi mi voleva bene, sono andata davanti alle foto dei miei genitori a piangere perché mi sono resa conto dell’errore che stavo facendo, loro avevano lottato per secondi in più di vita e io me ne volevo togliere così? Bisogna lottare, bisogna andare avanti. E da allora tirerò avanti finché ce la faccio». 

·         Monica Bellucci: «Non mi spaventa il corpo che cambia».

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 13 dicembre 2019. Un giorno, appena un mese fa, si è palesato a casa di Monica Bellucci, verso Montparnasse. «Si chiama Tom Volf, ha appena 33 anni: non lo conoscevo. È un grande appassionato di Maria Callas. Ha scritto libri su di lei e girato un documentario. Mi ha proposto di leggere, anzi interpretare alcune lettere dell' artista e stralci delle sue memorie. E mi ha mostrato una lettera d'amore inviata ad Aristotele Onassis». Monica l' ha letta e «il mio sì è uscito prima ancora che potessi bloccarlo». Una quindicina di giorni per preparare lo spettacolo e poi il debutto, il primo in assoluto in teatro per la Bellucci. Al Marigny, lei la sera è Maria, con un' emozione palpabile che traduce la vulnerabilità del personaggio. Adesso, a poche ore dalla rappresentazione, nel bar di un piccolo albergo defilato («Qui risiedeva Marcello Mastroianni, quando veniva a Parigi»), parla della sua ultima sfida. Sulla carta, lei e la Callas non sembrate così simili «In scena indosso uno dei suoi vestiti, prestato da un atelier di Milano. Mi va perfettamente, non abbiamo fatto nessuna modifica. Credo che già quell'abito trasmetta qualcosa al pubblico».

Ogni sera cosa sente della Callas in lei?

«La mediterraneità. Quando guardo gli occhi di Maria, ci vedo le donne che ho sempre amato: la Magnani, la Loren, Monica Vitti, il loro sguardo melanconico. Una mediterranea guarda in modo diverso rispetto alla Bardot o Jeanne Moreau: la loro era una femminilità più sbarazzina. Le donne del Mediterraneo si portano dietro un peso che viene dalla terra. Penso a un film in particolare».

Quale?

«L'avventura, di Antonioni. La Vitti e Lea Massari erano giovanissime, ma sembravano più grandi della loro età. Avevano una femminilità arcaica, proprio come Maria».

Anche nelle determinazione a emergere avete avuto percorsi simili?

«Dico sempre che sono il prodotto del mio sogno, perché volevo fare l'attrice già da piccola. Ma c' è una bella differenza tra me e Maria. Lei è stata preparata alla sua carriera fin da bambina, con una madre che le faceva pressione e poi l' ha sfruttata, anche finanziariamente. Io ho iniziato a lavorare nella moda molto giovane, ma poi sono andata pianissimo. Ho fatto il primo film a 25 anni. La prima figlia a quarant' anni. Il mio primo spettacolo in teatro ora a 55. Il mio ritmo è questo, lento».

Sul palcoscenico c' è solo lei e un divano giallo.

«Era uno dei colori preferiti di Maria. Con le sue lettere ripercorro la vita di questa donna. In quella inviata a Onassis, lei si dà in un modo totale. Eppure già sente che lui se ne sta andando».

Lei potrebbe scriverla una lettera così?

«Oggi si mandano solo sms. In ogni caso, essere capaci di provare sensazioni forti, che fanno pure male, è una grande fortuna. Ho molta più pena delle persone che non sentono niente o che si chiudono neutralizzando i propri sentimenti. Alla fine soffrono di più di chi sa amare».

In cosa lei e la Callas siete chiaramente diverse?

«I tempi sono cambiati e meno male. Io a 48 anni ho potuto dire a mio marito (ndr, Vincent Cassel): ciao, me ne vado, è finita. A quell' età non avevo paura per il mio futuro. La Callas lasciò Giovanni Battista Meneghini e venne fatta a pezzi. Io ho più di 50 anni e ho tantissimi progetti. All' epoca di Maria avevi 40 anni ed eri finita».

Quali progetti ha?

«Ho appena finito di girare un film con una giovane regista tunisina, Kaouther Ben Hania. E a Natale vado a Roma per le riprese del primo film di Antongiulio Panizzi, The Girl in the Fountain. È la storia di un' attrice cui propongono di diventarne un' altra, che ha fatto un bagno in una fontana. Forse avete capito».

Le sue figlie sono venute a vederla in teatro?

«Un giorno sono andata a prendere a scuola Léonie, che ha nove anni, e l' ho portata con me alle prove. L' ho vista molto incuriosita. Deva, che ha 15 anni, è venuta a vedermi, senza che io lo sapessi. Dopo non mi ha detto nulla, ma credo le sia piaciuto. L' ho sentito».

La pièce è stata prolungata fino al 18 dicembre. E poi?

«Tom, il regista, vuole organizzare una tournée mondiale, anche in Italia».

Andrà al festival di Sanremo?

«Mi hanno fatto una proposta molto carina, ma bisogna vedere i tempi: ci sono gli impegni di lavoro e soprattutto le mie bambine».

Ha visto il video musicale che ha girato Cristiano Malgioglio? Cammina vestito come lei in «Malena» di Tornatore, in un paesino siciliano, nella famosa scena con i ragazzi che la guardavano passare. L' ha presa come un affronto?

«Per niente. È semplicemente stupendo. Vuol dire che quel film ha toccato qualcosa di profondo, che è entrato nella cultura popolare. Cristiano, grazie di cuore».

Monica Bellucci: “Quelle fate addormentate dentro di me..” Sacha Lunatici il 14 settembre 2019 su Il Giornale Off.  Quando Irréversibledi Gaspar Noé uscì nelle sale cinematografiche divenne fin da subito uno dei film più discussi di inizio Duemila. Durante l’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la protagonista Monica Bellucci, una delle più grandi dive del cinema italiano, ha presentato fuori concorso una riedizione senza tagli del film scandalo in cui interpreta una vittima di stupro, recitando accanto all’ex marito Vincent Cassel.

Monica, cosa rende viva la tua passione per la recitazione?

«Penso che il segreto sia mettersi sempre in gioco, un film dopo l’altro, esplorando ogni volta territori nuovi. Isabelle Huppert racconta che dentro ogni attrice ci sono tante fate addormentate: ogni volta che un’attrice interpreta un ruolo, una fata si risveglia e prende vita. Recitare risveglia le mie fate ».

Se Amadeus ti chiedesse di affiancarlo sul palco del Festival di Sanremo accetteresti?

«Non credo di essere brava: è giusto che sul palco dell’Ariston salga chi sa fare veramente la conduttrice. Il mio lavoro è un altro, faccio l’attrice».

A Venezia 76 hai presentato la riedizione del film scandalo Irréversible: cosa dobbiamo aspettarci?

«Il nuovo montaggio racconta questa storia di violenza e poesia in ordine cronologico e non più attraverso una serie di flashback. E’ decisamente una versione più forte che sottolinea il contrasto tra la bellezza e la mostruosità dell’essere umano».

Cosa ha significato per te interpretare il ruolo di Alex?

«Ho scelto di recitare in questo film perché mi permetteva di raccontare una storia di violenza senza subirla. Prima di girare la scena dello stupro, che provammo tante volte, mi isolai per un’intera giornata per trovare la concentrazione e avere il controllo assoluto del mio corpo».

Lo rifaresti?

«Alcune donne mi hanno chiesto perché avessi fatto un film come questo. Non so se oggi lo rifarei, magari ne parlerei prima con le mie due figlie: avrei paura dell’impatto che la mia scelta potrebbe avere sugli ambienti che frequentano, come la scuola per esempio».

Che emozioni ti ha suscitato rivedere questo film?

«Ho pensato a quanto siano cambiate le cose. Ho girato Irréversible diciassette anni fa, prima di diventare madre, e oggi noto quanto le nuove generazioni siano diverse: hanno un’apertura maggiore nel parlare di certi argomenti. Ben vengano allora film come Irréversible, che permettono di aprire discussioni sul tema della violenza sessuale».

Che futuro ti auguri per le tue due figlie?

«Spero che Deva e Léonie vivano in un mondo sempre più libero, dove non ci sia paura di parlare».

Un episodio off della tua carriera?

«Non si direbbe ma con il mio mestiere spesso si fanno delle esperienze, anche fisiche, che ti mettono davvero alla prova. Quando nel 2016 ho recitato nel film On the Milky Road -Sulla Via Lattea di Emir Kusturika abbiamo girato in alcuni posti davvero difficili da raggiungere: ci spostavamo spesso in elicottero e la mia truccatrice e il mio parrucchiere erano in panico totale!»

Da Il Messaggero il 25 agosto 2019.  «La donna madre, forse, non è più desiderabile? Ah boh... Ci lasciate fare le mamme e poi ve ne andate con altre donne. Così ci perdiamo..». Monica Bellucci in un'intervista su Vanity Fair parla di donne e uomini (pochissimi accenni a quelli della sua vita) del tempo che passa e non le fa paura, «lo trovo interessante», e di spiritualità. «Siamo nel pieno di un cambiamento enorme», dice l'attrice di 55 anni. «Le donne escono allo scoperto, parlano di più, vedi molte più donne regista, donne pilota, donne arbitro. Diventa sempre più sottile il confine tra il bisogno di essere amate e però anche rispettate...».

Cambiano anche gli uomini, «il macho di un tempo non esiste più, sarebbe una macchietta, ma gli uomini di oggi hanno paura di guardare le donne per strada e questo non va bene. Mi piace l’uomo che non teme di mostrare la sua parte femminile».

«Da giovani pensiamo in bianco e nero - continua - siamo conformisti e vittime delle lezioni ricevute. Finché non impariamo a darci le nostre». 

L'attrice racconta di essere cresciuta in una famiglia ricca di spiritualità, confessa di credere di «una forza vitale di cui facciamo parte, che ci appartiene e ci sovrasta. Una legge cosmica che in qualche modo regoli una giustizia universale. Parlare di Dio è troppo. Da umana non mi sento autorizzata a volare così alto».

Qualche parola anche sulle sue figlie, Deva e Leonie, nate dal lungo matrimonio con Vincent Cassel («sono divorziata da lui da sette anni, un'eternità»). «Le mie bambine assomigliano al padre, sono due vichinghe elegantissime. Ma parlano italiano, sono delle romanacce».

Città di Castello, Monica Bellucci (da giovane) testimonial del tartufo bianco. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Una giovanissima Monica Bellucci è stata scelta come immagine della storia della Mostra del Tartufo bianco di Città di Castello (nel Perugino) nell’edizione del quarantesimo, in programma dal 1° al 3 novembre 2019. La foto, che la ritrae mentre rende omaggio alla trifola di Città di Castello, risale al 1994 ed è stata scattata nel ristorante di uno storico chef del Tartufo, Pierluigi Manfroni, per l’occasione insieme a Carlo Fuscagni, patron della Mostra e allora direttore della prima rete Rai. Naturalmente la popolare attrice (qui un’intervista che le fece il Corriere), della quale, nonostante l’allure internazionale, sono note le incursioni nella sua terra di origine — è nata infatti a Città di Castello — alla ricerca degli amici di un tempo e dei piatti tipici al tartufo, è stata invitata ufficialmente dall’organizzazione che confida in una sua presenza, a sorpresa, nei giorni della mostra. «Abbiamo scelto una delle numerose foto di repertorio con Monica Bellucci per laMonica Bellucci copertina perché è una retrospettiva pocket, tascabile, in grado di dare immediatamente un’idea della mostra per il visitatore che non la consoce e allo stesso tempo faccia dire al tifernati Io c’ero. Abbiamo privilegiato le sedi, gli ospiti illustri, tartufai e tartufi, perché Città di Castello diventa terra di tartufi grazie alla Mostra». Intanto un’ importante catena di ristoranti, Assunta Maria, ha scelto il tartufo di Città di Castello per una campagna pubblicitaria sulla stampa nazionale. Per il sindaco Luciano Bacchetta e il presidente dell’Associazione Mostra del Tartufo tale scelta va colta come un segnale della riconoscibilità che il brand tartufo di Città di Castello sta acquisendo nel mercato nazionale e un primo risultato delle iniziative tese collegare la trifola al territorio in cui nasce. La mostra pocket “40 anni di Tartufo” è stata curata da Elio Vagnoni, che per decenni ne è stato organizzatore.

Monica Bellucci: «Non mi spaventa il corpo che cambia». Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. «Con il tempo tutto cambia. Cambia il corpo, soprattutto se hai partorito. E’ un corpo che ha dato, per questo è diverso. Le imperfezioni non ci devono spaventare». Parola di Monica Bellucci, protagonista della copertina di 7 in edicola da venerdì (e per tutta la settimana) con il Corriere della Sera. Nella lunga intervista-confessione con Aldo Cazzullo, l’attrice parla delle figlie Deva e Léonie, avute dall’ex marito Vincent Cassel, del nuovo amore («Nicolas è un artista. Scultore. Assembla le cose fino a creare qualcosa che non c’era») e delle differenze tra Francia («un Paese di rivoluzionari») e Italia («aveva ragione Umberto Eco: siamo campioni di auto denigrazione»). Dal cinema alla politica, nella sezione rossa del giornale si parla di Tav: sono passati ormai trent’anni dalla nascita del primo nucleo di protesta guidato dal verde Alex Langer. Marco Imarisio è andato nei luoghi della protesta per capire com’è cambiata la situazione e cosa succederà dopo le elezioni in Piemonte. Quindi, sempre a proposito di politica, Vittorio Zincone ha incontrato Antonio Di Pietro che, lasciata prima la toga poi la politica, da cinque anni fa l’avvocato, alleva animali e sta «piantando un mandorleto» a Montenero di Bisaccia, in Molise. Dei suoi anni nella Capitale ricorda: «C’è stato un momento in cui sul mio carro sono zompati tutti. Si appiccicavano al mio nome come mosche. Poi quando il carro ha cominciato a incepparsi sono scesi. E’ normale. I Cinque Stelle? Sono un po’ i miei figliocci, tra me e Grillo c’è stima». Dall’Italia all’Europa, sono tre gli articoli che raccontano storie oltre i nostri confini. Si parte da Lourdes, dove Giusi Fasano ha incontrato i laici, anche non credenti, che ogni anno si recano nella città «per solidarietà umana», «per ricordarmi di essere grata alla vita», «per aiutare chi ha bisogno di aiuto, semplicemente». A seguire, Parigi per raccontare la morte, nel 2011, di Laetitia Perrias, uccisa a soli 18 anni da Tony Meillon. Dietro l’omicidio una lunga storia di violenze: Laetitia era stata prima allontanata dai genitori, insieme alla gemella Jessica, perché il padre aveva picchiato e violentato la madre; quindi, dopo la morte della ragazza, il marito della coppia cui era stata affidata insieme alla sorella è stato condannato per molestie proprio nei confronti delle due gemelle. La terza tappa, infine, attraversa i 28 Paesi della Comunità Europea e narra la storia di altrettanti ragazzi, tutti nati nel 2000 incontrati dai giornalisti del Corriere durante il progetto «100 giorni in Europa», il viaggio che ha presentato la vigilia del voto europeo, il primo cui parteciperanno anche questi giovani che, su 7, hanno risposto a dieci domande molto personali. Ad aprire la sezione blu è un ampio ritratto di Anna Wintour, direttrice da 31 anni di Vogue America (ricordate la Meryl Streep del film Il diavolo veste Prada?). A Matteo Persivale, che l’ha incontrata nel suo ufficio al venticinquesimo piano del World Trade Center, una delle donne più potenti del mondo, inglese di nascita e americana di adozione, svela la sua passione per la politica («Brexit? L’ultimo anno è stata una barzelletta») e l’amicizia che la lega a Hilary Clinton e di Lady Gaga («Il suo successo dimostra che anche chi si sente escluso dalla società ha un posto e un ruolo»). Infine, dopo l’incontro con Giovanni Allevi, che su 7 presenta un programma di composizioni classiche «ispirate alle piante e per le piante», e l’analisi sul Trono di spade che continua ad essere un fenomeno sociale anche se la saga è conclusa, si arriva alla coppia d’oro del tennis italiano, Flavia Pennetta e Fabio Fognini, protagonisti dell’inchiesta sullo stato delle unioni.  

·         Giovanni Allevi.

Giovanni Allevi ha la sindrome di Asperger?: "Mi fa piacere avere colleghi illustri come la Thunberg". Secondo alcuni, Giovanni Allevi potrebbe avere la sindrome di Asperger: lui replica e rivela che sarebbe felice di "avere colleghi illustri come Greta Thunberg". Luana Rosato, Giovedì 21/11/2019, su Il Giornale. Cosa hanno in comune il pianista Giovanni Allevi e Greta Thunberg? L’artista e la 16enne svedese paladina della lotto contro i cambiamenti climatici condividono gli stessi pensieri, ma secondo qualcuno sarebbero anche affetti dalla stessa malattia. La Thunberg, com’è noto, ha la sindrome di Asperger che, come scientificamente spiegato, fa parte dei “disordini pervasivi dello sviluppo”, cioè di quel gruppo di malattie che riguardano il comportamento e la socialità. La sindrome, che prende il nome dal pediatra viennese che la identificò, Hans Asperger, si manifesta in bambini che hanno determinate caratteristiche: sono solitari e goffi nei movimenti, si isolano spesso dai loro coetanei, hanno difficoltà a comunicare e a relazionarsi con gli altri e, al tempo stesso, coltivavano i loro interessi con una dedizione e attenzione tale da diventare dei veri e propri esperti. Tale problema, dunque, pur essendo una forma di autismo lieve, permette a chi ne è affetto di condurre una vita normale e di successo. Questa sindrome, da cui è affetta Greta Thunberg, secondo qualcuno potrebbe appartenere anche al musicista Giovanni Allevi che, in una intervista al settimanale Chi, si è espresso in merito. “Sa che dicono che anch’io, come Greta, sia un Asperger – ha raccontato Allevi, che approfondito in maniera superficiale l'argomento senza confermare o smentire le voci esterne - . Se ho approfondito? Da quello che ho letto sulle caratteristiche di questa sindrome mi sembra già chiarissimo senza bisogno di approfondire (ride, ndr). Se così è mi fa piacere avere colleghi illustri come Greta”. Se sulla sua presunta sindrome di Asperger Giovanni Allevi si è espresso quasi in maniera ironica, nei confronti della 16enne svedese che combatte i cambiamenti climatici, ha dimostrato grande stima e ammirazione, sposandone appieno visioni e cause. “Greta? Si è fatta interprete di un’energia mondiale pronta ad esplodere e ci ha costretti a rivedere completamente la percezione nei confronti delle nuove generazioni – ha spiegato lui, elogiando tutti i giovani che si sono accostati alle sue idee - . I ragazzi si sono dimostrati molto più intelligenti, profondi, lungimiranti e veloci di noi”.

Da liberoquotidiano.it il 21 novembre 2019. Se ho approfondito? Da quello che ho letto sulle caratteristiche di questa sindrome mi sembra già chiarissimo senza bisogno di approfondire (ride, ndr). Se così è mi fa piacere avere colleghi illustri come Greta”. A Se così è mi fa piacere avere colleghi illustri come Greta Giovanni Allevi: "Ho la sua stessa sindrome. E..." Giovanni Allevi si sente esattamente come Greta Thunberg. Il pianista, in una intervista al settimanale Chi, sostiene infatti do avere gli stessi sintomi della baby attivista svedese, diventata la paladina mondiale della lotta contro i cambiamenti climatici: "Greta? Si è fatta interprete di un'energia mondiale pronta ad esplodere e ci ha costretti a rivedere completamente la percezione nei confronti delle nuove generazioni: i ragazzi si sono dimostrati molto più intelligenti, profondi, lungimiranti e veloci di noi", ha detto Allevi. Eppure, oltre le idee legate all'ambiente e all'attivismo, c’è qualcos'altro che lega il pianista alla giovane Greta...Non solo le idee legate all’ambiente e all’attivismo, c’è qualcos’altro che lega il pianista alla giovane Greta. "Sa che dicono che anch’io, come Greta, sia un Asperger. Se ho approfondito? Da quello che ho letto sulle caratteristiche di questa sindrome mi sembra già chiarissimo senza bisogno di approfondire (ride, ndr). Se così è mi fa piacere avere colleghi illustri come Greta". Allevi, insomma, dice di sentire suoi alcuni connotati della sindrome classificata come una forma lieve di autismo, anche se (da quel che dice) non ha mai approfondito per comprovarne l’appartenenza.

Giovanni Allevi e il distacco della retina: «Quando ho scoperto che la fragilità è la nostra forza». Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 da Alessandra De Tommasi su Corriere.it. Per esorcizzare la paura, il compositore e pianista Giovanni Allevi vi s’immerge totalmente. Chiunque altro al posto suo avrebbe probabilmente evitato di tornare in Giappone, il luogo dove due anni fa ha rischiato di perdere la vista a causa del distacco della retina. E invece no: ogni anno, compresa quest’estate, ci fa ritorno per esibirsi in un «grazie» in musica verso un popolo che lo ha sostenuto in alcuni dei giorni più bui della sua vita, nel 2017. E così, alla vigilia del Piano solo tour – Summer 2019, ripercorre quei momenti che lo hanno cambiato nel profondo. 

Ricorda il primo concerto in Giappone dopo l’operazione? 

«Nel 2018 ho fatto un tour che è passato proprio per Miyazaki, la città dove sono stato operato: in prima fila in teatro c’era tutto lo staff medico, assieme al giovane e bravissimo dottor Nakahara, che ha eseguito l’intervento. La notte prima dell’operazione - mi ha confessato poi - era talmente preoccupato che si è preparato facendo meditazione e realizzando grossi dipinti colorati, con l’occhio e le fasi dell’intervento per soggetti. Quest’estate torno al Teatro di Kagoshima, dove ho avuto il distacco di retina, dove il coro polifonico della città ha preparato per me una sorpresa da brividi: eseguirà in prima assoluta una mia composizione dal titolo Vocalise. Quel palco per me è sacro, il luogo in cui ho scoperto che la fragilità è la nostra forza». 

Che cosa ricorda del momento in cui si è accorto di avere un problema all’occhio? 

«Sin dal momento del distacco di retina, in pieno concerto, mi sono sentito un eroe: ho continuato a suonare sapendo di compromettere la mia situazione e l’ho fatto per amore della musica. Poi però quella notte, alla vigilia dell’operazione, con il campo visivo che si restringeva fino a zero, ho avuto un momento di terrore. Mi sono alzato per andare nella hall dell’hotel a guardare, più intensamente possibile, un’antica ceramica giapponese, temendo che sarebbe stata l’ultima immagine percepita dal mio occhio sinistro (con il destro ho seri problemi da anni). Intanto i social sono diventati un tripudio di speranza e auguri. La notizia dell’operazione ha fatto il giro del mondo ed ho ricevuto un’incredibile ondata di affetto. Un’infermiera dell’ospedale mi ha fatto dono di una ghirlanda di gru origami come auspicio per una pronta guarigione, la conservo ancora gelosamente». 

Al sorgere di un sintomo prenota un controllo o ignora il fatto? 

«Sono ansioso a livelli impossibili. Vado subito su internet e mi soffermo sempre sulle cause più nefaste, cosa che sconsiglio vivamente di fare. Per fortuna in quell’occasione ho avuto vicino l’oftalmologo che da anni mi segue in Italia, il dottor Luca Vigo, la cui genialità è pari all’umanità. Durante quella notte angosciante mi ha spiegato quello che mi stava succedendo e cosa mi sarei dovuto aspettare l’indomani in sala operatoria, il tutto attraverso una serie molto pacata di sms. 

Sentirsi vulnerabile e malato è già di per sé doloroso, ma quando succede lontano da casa e in un altro Paese dev’essere molto peggio. Come lo ha vissuto? 

«Quando ho deciso di continuare il concerto fino alla fine e incontrare anche il pubblico, al posto di farmi ricoverare, ho toccato la sensibilità dei giapponesi, che hanno poi fatto di tutto per mettermi a mio agio. Il mio agente, il signor Naoki, è entrato addirittura con me in sala operatoria vestito da chirurgo, per starmi vicino, anche se il suo lavoro era ormai finito. Questi gesti nobili creano un legame umano indissolubile». 

Che cosa avrebbe significato per lei come artista perdere la vista? 

«Quando sono al pianoforte ora non vedo più bene la mano sinistra, quindi sto cercando di abituarmi a suonare tenendo gli occhi chiusi. Lo spartito non è un ostacolo, perché ho sempre suonato o diretto l’orchestra a memoria. Il problema è che potrei avere un altro distacco di retina in qualunque momento, soprattutto in concerto, dove ci sono forti sollecitazioni fisiche, quindi vivo sotto una sorta di spada di Damocle. Ma la musica è tutta la mia vita ed ho deciso di andare fino in fondo, recuperando una buona dose di incoscienza». 

Quali scenari le sono venuti in mente? 

«Mi si è aperto un mondo. L’incontro con i fan è diventato un abbraccio fisico, un ascolto uditivo. Sento, percepisco l’anima delle persone. Beethoven, con l’arrivo della sordità, ha smesso di fare il pianista e ha trovato la sua dimensione nella composizione. Lungi dal paragonarmi a lui, credo che un problema agli occhi non farebbe altro che acuire la mia sensibilità. Aristotele apre la Metafisica con un elogio della vista, il senso più vicino alla conoscenza razionale, ma a pensarci bene, nella mia vita, di razionale non c’è niente!». 

Ha subito delle conseguenze in seguito a quell’episodio del 2017 in Giappone? 

«Sono stato operato di nuovo per via di una inaspettata e troppo repentina opacizzazione del cristallino. Al di là delle ragioni mediche e di una mia particolare vulnerabilità del sistema visivo, comincio a pensare che, in qualche modo, forse inconsciamente, io non voglia più vedere, per rifugiarmi in un mondo interiore fatto di immaginazione, di sensazioni e di musica». 

Lei si occupa di molte iniziative charity, qualcuna le sta particolarmente a cuore? 

«Come Ambassador di Save the Children sono stato più volte coinvolto in opere di sensibilizzazione nei confronti di malattie rare, che purtroppo non attirano i fondi necessari per la ricerca. Ma, come diceva Hegel, le istituzioni devono sostenere queste azioni per il bene e non lasciare che vengano essere portate avanti solo da singole iniziative». 

Ha un consiglio per chi si dovesse trovare a vivere un episodio simile al suo? 

«L’esortazione è quella di bere molta acqua e di non sottovalutare i fosfeni, i lampetti di luce che anticipano di diverse ore un possibile distacco. Il consiglio filosofico, invece, è quello di accettare le difficoltà, perché possono aprirci a prospettive più vaste. In fondo un vero innovatore, per guardare lontano, non deve vedere troppo bene da vicino».

·         Ronn Moss: il Ridge di “Beautiful”.

Ronn Moss: «Sono più felice lontano da Ridge e da Beautiful». Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Chiara Maffioletti su Corriere.it. Dalle ville sfarzose di Bel Air ai palchi allestiti nelle piazze il salto non è per niente breve. Ma chi lo farebbe altre mille volte è Ronn Moss. Nel 2012 la sua scelta era sembrava una follia: lasciare dopo 25 anni un ruolo — quello di Ridge, in «Beautiful» — che l’ha trasformato in una icona in tutto il mondo per seguire le sue passioni. Oggi, racconta con quel suo vocione profondo che i fan conoscono, sta «veramente bene. Sto facendo il mio promo tour mondiale: ho suonato in Australia, Belgio, Estonia e ora tocca all’Italia, che amo: questo è il periodo più lungo che ho mai trascorso qui, sei mesi».

Che effetto le fa questa sua nuova vita?

«Sto facendo cose che prima non avevo l’opportunità di fare perché dovevo sempre tornare sul set. Non avevo mai tempo. Oggi sono molto più felice di quanto lo fossi prima». 

Non le manca proprio «Beautiful»?

«È stato bellissimo lavorarci e mi sono divertito nei 25 anni che mi ci sono dedicato. Ma alla fine, a livello creativo e artistico, non trovavo più soddisfazione. Ora posso portare avanti cose più impegni: fare musica, fare dei film... fare le musiche per i film. Il risultato è che mi sento meglio». 

Cosa ama di più dell’essere musicista?

«La musica è la più intangibile delle arti, la puoi solo “sentire”. È qualcosa che hai dentro oppure no no e io l’ho dentro da quando ero un ragazzino, è sempre stata parte di me. In questo senso non è niente di nuovo per me, la cosa nuova è avere la possibilità di esprimermi di nuovo, come agli inizi della mia carriera che era partita proprio come cantante: è la mia prima e più antica forma d’espressione artistica». 

È stato triste metterla da parte per tanti anni?

«In un certo senso non avevo nemmeno il tempo di pensarci. Ma appena ho chiuso con Beautiful sapevo che mi ci dovevo dedicare. Mi sono esibito davanti a pubblici piuttosto grandi... nelle piazze italiane il pubblico arrivava ovunque: sono davvero emozionato, per me è sempre quasi una rinascita. Amo la sensazione di fare qualcosa di così diverso rispetto al passato».

Ha cantato anche davanti a poche persone, mentre mangiavano. Non le fa effetto?

«Mi piace suonare ovunque, davanti alla folla o al ristorante di un amico che mi chiede di improvvisare due canzoni. La musica non ha occhi e io quando posso cantare sono sempre contento».

Molti tra il pubblico vengono per vedere Ridge?

«Certo, tanti vengono per curiosità e so anche che non è un passaggio facile quello che ho fatto. Tutti vogliono vedere cosa è cambiato per me ma io sono felicissimo di mostrare questo altro lato. È la mia sfida... insieme con quella di imparare a cantare le canzoni italiane che ho incluso nel mio repertorio: non è per niente facile per me la vostra lingua, ma sto cercando di imparare perché amo le reazioni della gente quando provo a cantare brani che per loro sono familiari». 

Quali, ad esempio?

«“‘O sole mio”, “Un’avventura”, “Quando, quando, quando”. Alcune le ho incise nella mia personale versione country». 

Quindi non c’è nulla che rimpiange dei suoi anni nella soap?

«Mi mancano le persone con cui passavo tutti i miei giorni, siamo stati una famiglia per 25 anni. Loro mi mancano ma non mi manca il lavoro o la fatica di quella professione».

È ancora in contatto con il resto del cast?

«Sì, ma ci sentiamo soprattutto via chat o email. Ognuno, in fondo, ha la propria vita». 

Tornerebbe mai a recitare in «Beautiful»?

«Non c’è davvero nessuna ragione per farlo, non succederà. Se invece potessi tornare indietro nel tempo, so che avrei continuato a fare musica più di quanto ho fatto e avrei portato avanti più progetti al di fuori della soap». 

I suoi prossimi quali sono?

«Sto per girare un film, proprio in Italia, in Puglia. Si chiamerà Viaggio a sorpresa e sarà girato in inglese e pugliese. Sarà una commedia tenera e romantica e penso che la gente la amerà. Sarà il primo film che girerò da quando ho chiuso con Beautiful».

Ha mai più guardato la soap?

«Mai, da quando me ne sono andato ho perso ogni interesso, è come se fosse tutto evaporato: è cambiato e sono cambiato troppo, non mi interessa più». 

Se in molti l’apprezzano per il suo aspetto, qualcuno l’ha criticata per il suo look...

«Non mi interessano le etichette che le persone ti appicciano, non le prendo mai seriamente. Di certo non sono un persona che si guarda così spesso allo specchio, o che pensa: “Ehi, come sono bello oggi”. Quanto al look, non ci faccio così tanto caso... Ridge era una stilista e quindi molto appassionato di moda, di sicuro lui si vestirebbe meglio, ma questo sono io: rispetto a lui Ronn è più con i piedi per terra, anche in materia di vestiti».

Ma, alla fine, cosa prova per Ridge? Lo ama o lo odia?

«Gli voglio ancora bene perché gli ho dedicato grande parte della mia vita, anzi, per anni è come se ne avessi vissute due. Anche quando mi chiamo Ridge, per strada, mi fa piacere, perché so che, semplicemente, è quello che quello che sanno di me. Spero che d’ora in avanti, si conosca sempre più Ronn».

Valerio Palmieri per “Spy”il 2 agosto 2019. Era il 1976 quando un gruppo di giovanissimi, i Player, raggiunse il successo con il brano Baby come back, che scalò le classifiche di mezzo mondo e arrivò al primo posto della Billboard Hot 100. Era l’epoca in cui andavano di moda gruppi come i Bee Gees, gli Eagles, gli America e il sound di questa boy band ante litteram intercettò le tendenze dell’epoca. Il bassista si chiamava Ronn Moss, aveva 24 anni e la faccia da attore.  Tanto che, dopo circa una decina d’anni in cui il gruppo incise un paio d’album e accompagnò in tour artisti come Eric Clapton, il manager lo mandò a fare un provino per una serie che stava per partire, Beautiful. Ronn venne scelto per interpretare Ridge, il protagonista, ruolo che gli valse 7 nomination ai Soap Opera Digest Awards e altri numerosi premi internazionali. Ma nel 2012, dopo 25 anni e 6407 puntate, Ronn scende dal carrozzone, smette di essere Ridge e decide di seguire il proprio cuore e le proprie passioni, prima fra tutte la musica. Per uno degli strani percorsi che intraprendono le star dopo che la loro carriera ha raggiunto vette inarrivabili, lo scorso 24 maggio gli avventori dell’Elnòs Shopping, centro commerciale di Brescia, non credevano ai loro occhi quando hanno visto cantare Ronn Moss con l’inconfondibile mascella squadrata, un fisico da martellista che sfida i suoi 67 anni e una folta chioma che solo la crudeltà del tempo  vorrebbe canuta. Era un assaggio dell’Usa meets Italy - Ronn Moss world tour, il tour mondiale in cui Ridge sta girando l’Italia (e zone limitrofe). Fra le tappe che abbiamo intercettato ricordiamo l’1 giugno a Grottazzolina (Fermo) in piazza Umberto 1, l’8 giugno al centro commerciale Megalò di Chieti (minilive), il 16 giugno alla festa patronale di Fasano, per passare al trittico di luglio con Monopoli (il 18), Loano (il 24) e Nova Gorica, in Slovenia (il 26). Per chi volesse ancora vederlo segnaliamo che il 13 agosto Ronn Moss sarà a Forte dei Marmi alla Capannina, mentre l’1 settembre sarà a Lecce al Convento dei Teatini con un’orchestra sinfonica, mentre il 7 non dovrebbe essere a Gonzaga (Mantova) alla Fiera Millenaria perché in cartellone c’era già un omaggio a Mina. Per la cronaca vi riveliamo che, per avere Ronn Moss con la sua band in concerto, occorre sborsare 18 mila euro (tutto compreso); per avere lui da solo in versione acustica, meno di 10 mila. A Loano, riporta la stampa locale, Ronn ha eseguito la storica Baby come back e ha reso omaggio all’Italia intonando O sole mio. Prima ha assaporato con la moglie Devin una fresca fantasia di mare, ravioli di capesante al burro con germogli di grano e un delizioso guazzetto di seppie e pomme de terre. Vuoi mettere con il catering di san Siro o dell’Arena di Verona?

Giuseppe Fantasia marieclaire.com il 29 luglio 2019. Ci sono attori e attrici che per tutta la vita sono rimasti o rimangono a tal punto intrappolati nel ruolo che hanno interpretato in una serie tv di successo, che potranno interpretare centinaia ruoli ancora, ma resteranno per sempre “quel” personaggio. Ne sono state vittime, tra gli altri, Raymond Burr aka Perry Mason: lo ha interpretato per moltissimi anni, fino alla sua morte, e tutto quello che ha cercato di fare, cinematograficamente parlando, non è stato mai credibile, perché lui, in qualsiasi film fosse, veniva sempre visto come Perry Mason. Unica eccezione, ne “La finestra sul cortile” (Rear Window) di Alfred Hitchcock, ma quel film venne girato ben cinque anni prima della fortunata serie tv, quindi non vale. Lo stesso dicasi di Angela Lansbury, anima de La signora in giallo: in Assassino sul Nilo o ne Il mistero della signora scomparsa si pensa sempre che sia Jessica Fletcher, anche perché ha sempre la stessa e inconfondibile voce (è di Alina Moradei). Che dire poi del “nostro” Commissario Montalbano creato dall’inventiva e dalla penna di Andrea Camilleri? Luca Zingaretti, che lo interpreta, ha provato e prova a fare altro, dal cinema al teatro e la tv, senza però arrivare allo stesso successo. Quel personaggio oramai gli appartiene, come quegli altri personaggi sono associati agli altri suoi colleghi, e da quel personaggio non riesce più ad uscirne. Anche nel caso di Ronn Moss vale la stessa “regola”. Quando lo incontriamo a Taormina, ospite della tredicesima edizione del Premio Cinematografico delle Nazioni, non pensiamo che a una cosa: abbiamo davanti a noi Ridge Forrester (biologicamente Marone). Ci parla delle sue passioni, dell’Italia, di attualità come di politica, ma per tutta la durata del nostro incontro, non pensiamo altro che a quel personaggio, il bellimbusto con l’eterna capigliatura 80s che in “Beautiful” - “The Bold and the Beautiful” nel suo titolo originario, la serie più longeva della tv (va in onda sulla CBS dal marzo del 1987) - si è sposato un numero imprecisato di volte con la stessa donna (Brooke Logan), ha fatto innamorare molte altre, non solo lì tra quegli interni di una villa ricreati in uno studio con la cartapesta, ma in tutto il mondo. Anche quando partecipò al programma tv “Ballando con le stelle”, tutti – dal pubblico ai concorrenti e più di una volta persino la conduttrice (Milly Carlucci), lo hanno chiamato Ridge e non Ronn. Questo per far capire che negli anni, “ben venticinque”, ci ricorda lui, look da teenager/rapper, pantaloncini corti fin sotto il ginocchio (quasi a pinocchietto, quel horreur!), sneakers e calzini bianchi in bellavista - ogni giorno si recava sul set a Los Angeles - “come un impiegato qualunque” – la puntata veniva registrata, montata e poi trasmessa e, in maniera martellante, sempre ogni giorno, sabato e domenica esclusi, proposta al grande pubblico che così facendo finiva con il ritrovarsi la sua faccia (spesso anche il suo corpo nudo) sul piccolo schermo. “Beautiful” era per molti, almeno in quegli anni, una presenza fissa ad ora di pranzo. Nelle case delle famiglie italiane dotate di televisione, Ridge and Co. erano “di famiglia”, probabilmente molto più presenti, visto l’orario, di molti genitori impegnati con il lavoro. Come scindere, dunque, il personaggio dall’uomo e viceversa? È praticamente impossibile, ma ci proviamo. Ridge Forrester, pardon, Ronn Moss è in Italia, un posto che ama molto, per tutta l’estate, ma basta recitazione. Ha lasciato la serie sei anni fa, sarà in una nuova serie tv, The Bay in onda sulla piattaforma Amazon Prime in autunno, ma adesso per lui c’è soltanto l’amore verso una donna – la sua seconda moglie, Devin Devasquez, ex modella ed ex playmate di Playboy che lo segue ovunque, gli dice cosa rispondere, interviene quando si dimentica qualcosa, insomma, c’è – e verso la musica. “In realtà suono da quando avevo undici anni – tiene a precisare – da quando vidi per la prima volta i Beatles all’Ed Sullivan Show”. “Mi piacquero così tanto che convinsi i miei genitori a comprarmi una chitarra, perché volevo provarci ed avere anche io una band”, aggiunge. “Poi però col tempo decisi di fare altro, di mettere da parte quella passione e di fare l’attore, un lavoro che mi ha tenuto impegnato per tantissimi anni, togliendomi il tempo di fare altro”. Ron Moss oggi di anni ne ha 67 e quella passione è tornata più viva che mai e ne ha fatto un nuovo mestiere. Ha inciso tre album (My baby’s back, Uncovered e I’m your man) e ora è in giro per l’Italia, isole comprese, a suonare pezzi originali o super noti, in centri commerciali come in piazze e teatri storici. Al Teatro Antico di Taormina ha cantato “Angel” e la sua dedica è stata tutta per il suo idolo, Gina Lollobrigida, che a un certo punto si è anche commossa. Col suo tour ‘Usa Meets Italy’ sarà nelle Marche e in Puglia, poi alla Capannina di Forte dei Marmi (il 13 agosto), a Lecce e a Mantova (il primo e il 7 settembre), facendo conoscere ai più questa sua “dote” finora inespressa e iniziata nel 1976 con il gruppo Player. L’Italia, ça va sans dire, è sempre nel suo cuore. “Con Beautiful ci trasferimmo sei mesi con tutta la troupe nel vostro Paese e fu un’esperienza unica e indimenticabile, ricorda, ma io ci avevo già passato diverso tempo quando girai il film “I Paladini, storia d’armi e d’amori”, di Giacomo Battiato. Fu anche quella una bellissima esperienza, girammo anche sull’Etna, ma quel film non mi ha reso famoso”, dice ridendo. Il successo vero e proprio arrivò, come noto, con Beautiful. “Mi ha dato tantissimo, è una grande serie, ma stare tutti i giorni sul set per 25 anni era diventato per me troppo pesante. Dopo aver fatto un incidente in auto con mia moglie, decisi di smettere, anche perché il trauma alla testa che avevo subito non mi faceva ricordare i dialoghi”. Per uno come lui, buddista praticante, la cosa è stata vista “come un segno”, e non è stata l’unica: “Nel mio ultimo giorno di set, nell’agosto del 2012 – spiega - l’orologio era fermo e segnava le 9.42, che è l’ora della mia nascita, stessa data del primo giorno di messa in onda di Beautiful”. “Lasciare quella serie, continua, ha rappresentato per me una rinascita, mi ha dato una grande energia”. Pregi di questa new life? Non ha dubbi: “Finalmente posso girare tutto il tempo che voglio, visitare il mondo e dedicarmi alla musica e ad altri progetti senza avere la preoccupazione di dover scappare poco dopo per tornare sul set. Sono un uomo felice”. Ron Moss sarà anche in tour a Roma, “una città ideale in cui vivere”, si azzarda a dire, e dicendo questo ci rendiamo conto che non la conosce affatto. Gli spieghiamo che ci sono molte cose che non funzionano, dalla “monnezza” ai trasporti pubblici, e lui: “è vero, ora che ci penso me lo hanno già fatto notare in molti. La gente purtroppo non ne ha cura, c’è troppa spazzatura e troppo traffico e questo mi rattrista, ma è così anche a Los Angeles, la mia città, che conosco molto bene”. Uno come Salvini sa chi è, ma non a tal punto da dire la sua. Prima di salutarci, però, la spara grossa su Trump, “un presidente che sta facendo grandi cose, peccato però che non si leggano sui giornali”. Ecco, in certi casi più che mai, preferiremmo che restasse il bello e innocuo ragazzo fisicato dai capelli lisci, insomma, il Ridge che tutti amiamo.

·         Keanu Reeves. Quello che non sapevate di lui.

Stefania Saltalamacchia per vanityfair.it il 5 Novembre 2019. Keanu Reeves in oltre 35 anni di carriera non ha mai mostrato i suoi sentimenti su red carpet, premiere o eventi internazionali. Stavolta, però, l’attore di Matrix ha fatto un’eccezione. Sul tappeto rosso del LACMA Art + Film Gala, il 55enne è arrivato mano nella mano. Lei è Alexandra Grant, artista 46enne e sua amica da tantissimi anni. I due sono arrivati insieme e sono rimasti uno al fianco dell’altra per tutta la sera, spesso tenendosi per mano, anche davanti ai fotografi. Secondo i ben informati, da qualche mese la loro amicizia sarebbe diventata qualcosa di più. Mancano le conferme, ma questa serata in coppia sembra voler dire molto. «I suoi amici sono convinti che l’amicizia tra Keanu e Alexandra sia diventata romantica», ha rivelato di recente una fonte, «E sono tutti entusiasti per lui, finalmente ha trovato la felicità con una donna meravigliosa». Del resto, il suo passato affettivo non è per niente facile. A 23 anni, ha affrontato la scomparsa di uno dei suoi amici più cari, River Phoenix, morto per un’overdose di droga. I due avevano recitato insieme in due film: I Love You to Death (1990) e My Own Private Idaho (1991). Nel 1999 poi ha vissuto uno dei lutti più dolorosi: lui e l’ex fidanzata Jennifer Syme aspettavano una figlia, persa all’ottavo mese di gravidanza. E nel 2001, Keanu perderà anche la compagna, suo grande amore, morta in un’incidente stradale. Jennifer perse, al rientro a casa, il controllo della sua auto, in cui furono trovati antidepressivi e stupefacenti. Lui e Alexandra si conoscono almeno dal 2011, quando hanno collaborato insieme al libro Ode to Happiness, che l’attore ha scritto e illustrato. Nel 2016, hanno poi pubblicato Ombre. Il loro lavoro insieme così si è trasformato in una casa editrice indipendente, X Artists’ Books, fondata nel 2017. E il 2019 per l’attore è stato un anno d’oro, quello della rinascita: dai film di successo (John Wick: Chapter 3, Parabellum, Toy Story 4 e la commedia Always Be My Maybe per Netflix), all’essere diventato «eroe di Internet». I fan, infatti, sono soliti condividere in Rete aneddoti e racconti piacevoli che lo riguardano. Racconti che immediatamente diventano virali, mostrando come nei suoi confronti ci sia un grande affetto. Per la vita non facile che ha avuto, in primis, e per il modo in cui ha reagito. «Non ce lo meritiamo, Keanu Reeves», è solo il titolo di un articolo, pubblicato lo scorso giugno dal New York Times. Lui, intanto, non ha nemmeno un profilo social ma ha dichiarato di apprezzare le attenzioni nei suoi confronti: «La positività è sempre una cosa fantastica».

LUCIA ESPOSITO per Libero Quotidiano il 10 novembre 2019. In un mondo normale la notizia dovrebbe essere che l'attore Keanu Reeves, dopo più di trent' anni, si è presentato sul red carpet con una donna. Ma siccome la signora in questione ha 46 anni - solamente nove meno di lui - sfoggia orgogliosa la sua zazzera grigia, non ha sepolto le rughe sotto colate di botulino, ha labbra che non sono sul punto di esplodere, la pancia rilassata invece degli addominali d' acciaio e ha perfino il bicipite collassato. Ecco, siccome è una donna normale, la notizia è diventata lei che sembra sua nonna, che è una bruttina stagionata e che non è abbastanza giovane e figa per un sex symbol come l' attore di Matrix. «Spero trovi una più giovane così potrà avere dei figli», e ancora: «Gli uomini invecchiano come il vino, le donne come il latte», cioè male. C'è addirittura chi ha paragonato Alexandra Grant, questo il suo nome, a Helen Mirren, che però di anni ne ha 74. Interpellata sulla somiglianza, l'attrice ha messo tutti a tacere così: «È una cosa molto lusinghiera. Conosco Keanu ed è adorabile, quindi lei lo dev' essere altrettanto». La cattiveria si è concentrata su questa signora che porta con eleganza e leggerezza i suoi anni, che si è arresa al tempo lasciando che le palpebre, obbedienti come il seno, cedessero alla forza di gravità. Risalendo lungo il fiume di veleno che scorre su twitter, si scopre che a monte ci sono tantissime donne, magari le stesse che si sono scagliate come Erinni contro Flavio Briatore, chiamandolo «vecchio bavoso» perché a settant' anni ha scelto una fidanzata di venti che potrebbe essere sua figlia. O quelle che, invece, si sono avventate come avvoltoie sulla giovane, accusandola di aver ceduto al super manager affascinata dal consistente conto in banca più che dal fisico appesantito. Ora che le donne dovrebbero benedire il single di ferro Keanu che è capitolato davanti all' intelligenza e alla classe di una donna esteticamente normale, lanciano invece frecce appuntite che neanche Cavallo Pazzo contro i soldati americani. Per fortuna c' è anche chi difende Alexandra che ha avuto il merito di regalare a tutte noi, donne normali, il sogno di potercela fare. E ha dimostrato che esistono uomini a cui interessa più una testa piena di idee che un reggiseno imbottito di plastica. Keanu ha trovato la felicità con lei che era una sua amica da dieci anni.

UNA VITA DIFFICILE. La signora è un'artista, cofondatrice della casa editrice XArtist' s Book: a legarla all' attore oltre alla passione per i libri, c' è anche la filantropia, entrambi infatti spendono soldi ed energie per aiutare i più bisognosi. Insieme hanno scritto il libro Ode to Happiness pubblicato nel 2011 e poi Shadow per cui lui ha scritto delle poesie e lei ha realizzato la parte artistica. Non è stato un colpo di fulmine e neanche una storia nata in una festa vip tra una coppa di champagne e un bagno in piscina, ma un' unione nata da un' amicizia che è cresciuta fino a trasformarsi in amore. L'attore è finalmente sereno dopo una vita che gli ha regalato un successo planetario e schiere di donne ai suoi piedi, ma che gli si è incaponita contro con una tigna bastarda. A tre anni suo padre abbandona lui e sua madre. A scuola scopre di essere dislessico, cambia diversi istituti fino a lasciare gli studi a 17 anni senza prendere il diploma. Diventato attore, nel 1993, Keanu vede morire il suo amico e collega River Phoenix. Passano sei anni e Jennifer Syme, la ragazza di 26 anni di cui l' attore è innamorato, rimane incinta. I due aspettano una bimba, decidono anche il nome: Ava Archer Reeves. La piccola, però, nasce morta pochi giorni prima della data presunta del parto. Un dolore che strazia e incrina la coppia. Diciotto mesi più tardi, la stessa Jennifer Syme, sotto gli effetti di antidepressivi, perde il controllo della sua auto e muore. Un vuoto che finora nessun' altra donna era riuscita a riempire. Alexandra sì. A dispetto delle invidiose e delle maligne, la coppia si gode la felicità degli innamorati ed è stato proprio lui, Keanu, a zittire tutte su twitter: «Io posso scegliere con chi fidanzarmi, a differenza vostra». Lui ama Alexandra, con i suoi capelli grigi, le sue rughe e il fisico di una donna di 46 anni che non ha paura di invecchiare.

Maria Serena Natale per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2019. Lui è accompagnato da un'aura di perfezione che ne fa di volta in volta il più sexy, il più sensibile, il più versatile, il più misterioso degli antidivi hollywoodiani. Lei è un' artista visiva che evita l' inutile rumore. Da amici hanno collaborato a un progetto fotografico intitolato «Shadows», Ombre, dove lui prestava corpo e versi poetici, lei manipolava l' immagine per fermare l' elusività della forma. Ora stanno insieme, sono apparsi mano nella mano su un red carpet a Los Angeles ed è cominciato l' inferno. Perché Keanu Reeves resta quello di sempre, mentre Alexandra Grant nei commenti social più compiacenti è diventata «la compagna con solo nove anni in meno, alta, spirituale e coraggiosa» che mostra le rughe e non tinge i capelli (grigi). Senza più nome né storia, un insieme impersonale di definizioni standard e cliché al contrario. Chi ha provato a difenderla ha fatto anche peggio, riducendo la sua eleganza libera dagli schemi a specchio della grandezza di lui: Keanu Reeves, l'uomo che non meritiamo, sta con una che assomiglia alla 74enne Helen Mirren (da regina, Mirren si è detta lusingata). «Troppo buono per questo mondo», titolava a giugno il New Yorker. Per The Cut Alexandra era semplicemente Lady Friend, l'Amica. In tempi di #MeToo , battaglie salariali e femminismo tradotto in nuovo politicamente corretto, il meglio che un sistema vecchio nel midollo riesca a produrre è l' ennesima ode al maschio. Keanu Reeves non è solo l' ex ragazzo fragile che ha combattuto la dislessia e l' assenza di un padre condannato al carcere per spaccio di eroina, l' uomo che perse tragicamente la figlia Ava e l' ex compagna Jennifer Syme (alla quale David Lynch dedicò il film «Mulholland Drive»), il fratello affezionato che oggi sostiene la sorella malata Kim. Non è solo l' anti-DiCaprio umile e schivo, il gentiluomo che si ferma per strada a dare una mano a una sconosciuta in difficoltà e non sfiora il corpo delle fan nei selfie. È anche femminista. Perché resiste al desiderio universale di avere una partner almeno vent' anni più giovane e impegnata più a sorridere che a incidere. Perché neanche si accorse delle avances di Sandra Bullock sul set di «Speed» nel 1994 e ora dopo decenni di «incomprensibile» singletudine rassicura le donne fuori scala, quelle che non si piegano ai codici dello star system. Parità, per tutte c' è speranza: io vi sceglierò. E se riscrivessimo la storia? Alexandra Grant mescola linguaggi e in un percorso artistico che incrocia Sofocle e Jacques Derrida indaga il confine tra parola scritta, immagine, nuovi media. Nata 46 anni fa in Ohio, è cresciuta tra Stati Uniti, Messico, Europa, Africa e Medio Oriente. Ha studiato in California, esposto a Parigi e New York, dal 2008 sostiene attraverso un progetto filantropico giovani artisti e gruppi non profit. Crede nel potere civile della bellezza e ha denunciato il sessismo nel mondo nell' arte. Non si sa molto della sua vita privata perché è soprattutto il lavoro a parlare per lei, ma da qualche tempo pare che Alex sia sentimentalmente legata a un attore canadese 55enne nato a Beirut, appassionato di moto e musica, che dopo aver recitato in film come «Matrix», «Point Break», «Piccolo Buddha», «Dracula di Bram Stoker», «L' avvocato del diavolo», «Le relazioni pericolose»... è passato a interpretare il sicario John Wick nell' omonima saga. Senza bisogno di arrivare all' opposto annullamento del maschio, basterebbe rivedere le aspettative per tutti. Per le donne, ancora chiamate da una voce che si perde nei secoli a lasciarsi legittimare dall' esterno, a non eccedere ma stare in una forma fissa e innaturale, già decisa e delimitata da altri. Per gli uomini, costretti dalle stesse tenaci convenzioni a interpretare un ruolo dominante al quale non c' è alternativa, se non il peso della libertà portato in due, nel riconoscimento e nel rispetto per l' irriducibile individualità dell' altro. Uno dei lavori realizzati in passato dalla coppia Grant-Reeves è un' opera poetica, «Ode alla felicità».

Keanu Reeves: «Ho sofferto ma ora sono felice. E quando vado in moto mi sento libero». Pubblicato martedì, 28 maggio 2019 da Giovanna Grassi su Corriere.it. «Sono depresso solo quando leggo chi mi descrive come un individuo infelice, che deve fare i conti con la morte di persone a lui care e con una malinconia perenne. Ho una vita serena, in verità, e tendo all’isolamento, ma non sempre. Quando, a esempio, organizzo con gli amici scorribande in moto sulle strade della California mi sento pieno di energia e prospettive». Sorride. In barba all’abbigliamento «all black», scarpe, camicia, jeans, occhiali da sole con lenti nere compresi. Keanu Reeves scende in moto dalla sua casa sulle colline di Hollywood, va nelle librerie che predilige, non frequenta night o tappeti rossi se non per le prime dei suoi film. Smentisce la sua partecipazione a un nuovo Fast & Furious, conferma che girerà il quarto round del thriller d’azione John Wicke dichiara di essersi molto divertito a doppiare il giocattolo Duke Caboom, basato sulla figura di uno stuntman canadese, in Toy Story 4. Dice: «No, non ho smesso di scrivere poesie e di tradurre in liriche parole i miei pensieri. Ho collaborato alla nuova edizione del mio piccolo libro Ode to Happiness con i disegni della mia amica Alexandra Grant, ma questa volta tutti potranno mettere i colori che vogliono nelle immagini e figure». Osserva, comunicando una delle rare confidenze sul suo carattere e sulle sue scelte: «Questa è una cosa che nei momenti liberi mi rilassa molto: è divertente scegliere i pastelli che vuoi per dare una certa vita alle figure e illustrazioni dei libri. Sì, vivo molto di immagini o paesaggi e anche in campo musicale mi piace la musica che in qualche modo riesco a vedere». No, non ha musicisti o pittori e disegnatori grafici predilette. «Le mie preferenze dipendono dai miei stati d’animo e in questo atteggiamento non sono cambiato, anche se ho superato, me ne stupisco sempre, i 50 anni e, anzi, tra cinque ne avrò sessanta e non credo di voler continuare a essere un attore in primis di storie d’azione né ho accantonato l’idea di passare dietro la cinepresa in un film indipendente. Hollywood è dominata dai blockbuster super spettacolari e il mio non è un giudizio negativo, ma con i milioni e milioni di dollari guadagnati, gli studios potrebbero offrire occasioni diverse ai giovani talenti nel campo della regia». Da Point Break («Punto di rottura») alla serie di Matrix, i suoi ricordi sono di gratitudine per un mestiere che gli ha dato molto. «Prima ancora ricordo il piacere di aver recitato diretto da Ron Howard in Parenti, nemici e tanti guai e da Lawrence Kasdan in Ti amerò... sino ad ammazzarti. Questo mio mestiere mi ha dato molto, rammento i sentimenti di La casa sul lago con Sandra Bullock, alla quale sono legato da sincera amicizia anche perché Sandra, come me, predilige l’isolamento e il privato alle esibizioni, e altri film diretti da donne alla cinepresa. Anche il mio ultimo impegno, Always Be My May Beè diretto da una donna. Mi interessano molto gli scambi con le donne che stanno dietro la cinepresa e spesso sono anche direttrici della fotografia». È legato all’Italia, dove vive sua sorella, che qui si è curata per una complessa forma di leucemia. «Tornare in Italia è sempre una iniezione di energia e di senso della bellezza per me e sono davvero contento se un mio film va bene sul vostro mercato. In quanto a mia sorella sarei più tranquillo nell’averla accanto, ma deve fare solo ciò che la rasserena. L’Italia per me significa anche Bertolucci, in qualche modo il Siddharta che Bernardo mi ha dato in Piccolo Buddha perché il viaggio interiore che ho compiuto in quell’occasione è dentro di me”. Cosa si aspetta ancora dal cinema, cosa davvero vorrebbe fare negli anni a venire? «Dal cinema mi aspetto storie coinvolgenti, cosa che la televisione negli ultimi tempi offre in alternativa ai super eroi e anche ai miei uomini d’azione. Prenderò parte a due diverse serie, che mi interessano molto. In quanto al mio futuro sarà, come è sempre stato, il frutto anche del mio passato di attore e di uomo e, inoltre, sono coinvolto in un club di motociclisti che molto lavorano nel settore su due ruote perché anche le biciclette mi piacciono. Solo per questo aspetto e coinvolgimento ho anche una vita da imprenditore! Quando hai un casco in testa sei protetto in tutti i modi anche dalla curiosità della gente, i tuoi pensieri sono più liberi e distesi e non hai computer e hacker programmatori di computer intorno, ma sei dentro la realtà, non di fronte a un monitor. In quanto al privato, da ragazzo ho sofferto separazioni e distacchi in famiglia e vorrei un figlio solo se le circostanze mi offrissero un rapporto stabile e complice in ogni aspetto dell’esistenza quotidiana”.

Keanu Reeves: la dislessia, la morte della fidanzata, la malattia della sorella. Quello che non sapevate di lui. Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. Lo conosciamo tutti, c’è da scommettere che quasi tutti hanno visto un film che ha lui come protagonista. Ma non molti forse sanno che la storia di Keanu Reeves, 54 anni, lontano dai riflettori e dal mondo del cinema, è la storia di una vita per niente semplice. A cominciare dall’abbandono del padre. In Rete circola un filmato con alcune dichiarazioni attribuite proprio a Reeves, e che riguardano la sua vita. Il filmato non ha nulla a che fare con lui, ma quello che si racconta è vero. Keanu nasce nel 1964 a Beirut, Libano, da madre inglese e padre metà cinese e metà hawaiano. Un papà che però lo abbandonerà quando ha appena tre anni: lo rivedrà, racconta lo stesso attore, qualche volta, l’ultima quando ha 13 anni, in vacanza, poi per dieci anni nessun contatto, né una lettera, né una visita. Nel mentre, la madre si è trasferita con i figli a Toronto, Canada. Lì colleziona mariti e compagni di vita. Intanto a scuola le cose per Keanu non vanno bene: alle superiori cambia quattro istituti, lo bollano come poco intelligente, in realtà è dislessico. Per questo è costretto ad abbandonare gli studi a 17 anni senza mai conseguire il diploma. Appassionato di hockey su ghiaccio, diventa una piccola star ma abbandona a un certo punto la carriera sportiva per dedicarsi alla recitazione. A 23 anni, il primo grande lutto della sua vita: il suo migliore amico, River Phoenix, conosciuto sul set di «Belli e dannati» di Gus Van Sant, muore nel 1993 a soli 23 anni per overdose. Sono per Keanu gli anni del grande amore con Jennifer Syme, che nel 1999 aspetta un figlio da lui quando viene coinvolta in un incidente stradale. È lo stesso anno dell’uscita al cinema e del grande successo di «Matrix». Lei sopravvive, la bambina (era all’ottavo mese di gravidanza) no. «People» racconta che la seppelliranno insieme, nel gennaio 2000. L’avrebbero chiamata Ava. La morte della bambina per Jennifer rappresenta l’inizio di un periodo difficile. Passano appena 18 mesi e nell’aprile del 2001 la donna perde il controllo della sua Jeep e si schianta con la sua auto, dove verranno trovati antidepressivi e stupefacenti. Jennifer muore sul colpo. Ancora, quello che forse in molti non sanno è che la sorella di Keanu Kim (di due anni più giovane di lui), a cui il divo è legatissimo, è malata di leucemia. La malattia gli è stata diagnosticata nel 1991, nel 1999 era considerata in remissione. Da anni Kim vive in Italia: nel 2018 l’attore venne fotografato a Roma, insieme a lei, in lacrime in strada. E in precedenza, nel 2017, dopo essere stato ospite al Festival di Sanremo, era corso nella capitale per andare a trovare sempre Kim, allora ricoverata al Policlinico Gemelli.

Annalisa Grandi per Il Corriere il 12 giugno 2019. Keanu non tocca le donne con cui fa le foto. La mano lontana dalla schiena delle ragazze, così in quasi tutte le foto. Fino ad ora in pochi ci avevano fatto caso, adesso invece improvvisamente i riflettori si sono riaccesi su Keanu Reeves. Un divo “atipico”, come scritto nei giorni scorsi sul «New Yorker» che pochi giorni fa titolava: «È troppo buono per questo mondo». Ed ecco le prove: una è nelle foto pubblicate sulla pagina Facebook «Unprofessional Madman», che dimostrano come, quando gli viene chiesto di fare una foto, l’attore 54enne non tocca le donne con cui si fa immortalare. «È un vero gentiluomo», commentano i fan su Facebook, «É troppo puro per questo mondo» si legge ancora. Altri sostengono che il suo atteggiamento sia una risposta agli scandali sessuali che nei mesi scorsi hanno coinvolto diversi divi americani.

Lontano dalle copertine. Altra caratteristica «atipica» di Keanu Reeves è che di base si è sempre tenuto ben lontano dal mondo del gossip, degli scandali e delle copertine delle riviste patinate. Così ha evitato, tra l’altro, anche di finire al centro delle critiche: praticamente mai sopra le righe, difficile trovare in Rete qualcuno che dice cose negative di lui.

E lontano dai social. Stesso discorso, per i social: Keanu Reeves non ha un profilo ufficiale e ha più volte ripetuto di non essere interessato a ciò che la gente dice di lui sul web. Insomma, sotto i riflettori per lavoro, lontano dai riflettori per scelta a telecamere spente.

La storia. E non tutti forse conoscono la storia personale del divo 54enne: abbandonato dal padre quando era bambino, la sua infanzia è stata tutt’altro che semplice. Dislessico, con parecchie difficoltà a scuola, abbandona gli studi a 17 anni. Nella sua storia anche una figlia persa e una compagna morta in un incidente, e poi la sorella malata di leucemia.

Quelle risposte in tv. «Keanu Reeves is too good for this world» si intitola l’articolo che il «New Yorker» ha dedicato proprio nei giorni scorsi all’attore. Si racconta tra l’altro come, in una recente intervista televisiva, alla domanda «Cosa pensi accada dopo la morte?», abbia risposto, assolutamente serio: «Non lo so, ma so che mancheremo alle persone che ci vogliono bene». Una risposta «genuina e onesta», per una clip ritwittata oltre 100 mila volte in poche ore.

La donna in metropolitana, il ragazzo. E a raccontare chi sia il divo, è anche un video, in cui l’attore è seduto in metropolitana, accanto a lui una donna è in piedi, e Keanu si alza per farla sedere al suo posto. Cosa che praticamente non succede quasi mai neanche con le persone “normali”, figuriamoci se a farla è un divo. E tra gli altri aneddoti che vengono raccontati nel pezzo del «New Yorker» c’è quello che rivela come una volta, Reeves firmò un autografo a un ragazzo di 16 anni che vendeva biglietti al cinema, e che era troppo timido per chiederglielo.

·         Renzo Arbore.

Marco Lombardi per “il Messaggero” il 14 Novembre 2019. Il mondo della comunicazione sembrerebbe non poter più fare a meno delle immagini, ma sono numerosi gli artisti che, pur esprimendosi su altri media, credono ancora e fortemente nel mezzo radiofonico. Renzo Arbore è certamente il primo fra questi, tant'è che oggi ha deciso di festeggiare un importante compleanno denominato Radio Day: il 14 novembre di 93 anni fa, infatti, Roma si collegò per la prima volta con Milano e Napoli, via etere. Furono solo delle prove tecniche che però andarono a buon fine e permisero i successivi collegamenti, in diretta.

Quale fu la portata di quel collegamento?

«Si trattò di un esperimento che consentì alla radio di farsi strumento per un'importante crescita culturale: l'Italia del 1926 era ancora poco scolarizzata, le dirette permisero alle varie regioni di ascoltarsi reciprocamente, cercando di conoscersi».

Una specie di nuova unità d'Italia?

«In un certo senso sì: la radio aiutò la penisola a compattarsi, a sentirsi parte di un tutto. In più svolse una fondamentale funzione linguistica: aiutò gli analfabeti a imparare un po' d'italiano, e gli altri a conoscerlo meglio, ascoltando un parlato più accurato e ricco di nuovi termini. È da quella esperienza che nacque la Eiar, il 17 novembre del 1927».

Un secondo anniversario a distanza di pochi giorni.

«Sì. Ne ho parlato nel mio programma televisivo Cari amici vicini e lontani, andato in onda nel 1984 per celebrare gli allora 60 anni della radio italiana. Il titolo della trasmissione prendeva origine dal celebre saluto di Nunzio Filogamo, che apriva così la sua trasmissione: l'idea era quella dello stare insieme».

Qual è il valore aggiunto della radio, oggi?

«Quello di sempre: l'agilità, cioè la trasportabilità. La radio puoi ascoltarla ovunque, anche guidando, anche quando vai a correre. Annuncia, comunica, ci fa pensare: ci dice quello che succede nel mondo. In diretta, ovunque noi siamo».

Oggi però la radio è ascoltabile sui cellulari.

«Certo, anche quegli apparecchi sono diventati radio: l'importante è il modo di comunicare, non tanto il mezzo. In fondo svolgono la stessa funzione delle radio a galena: erano uno strumento che non aveva bisogno di batterie e, grazie a un cristallo posto all'interno, riuscivano a captare dei segnali bassissimi, da tutto il mondo. Furono molto in voga negli Anni '50: potevi sentire delle radio impensabili, americane e arabe».

Dove si utilizzavano le radio a galena?

«Ogni città aveva i suoi appassionati: li riconoscevi perché stavano fermi vicino a dei reticolati, tipo dei recinti, che fungevano da antenna. Dei dilettanti, i fratelli Judica Cordiglia, sostennero pure di essere riusciti a captare le ultime parole di un astronauta russo perso nello spazio, prima di morire».

In cosa è diversa, quindi, la radio di oggi?

«In tutto, a livello di contenuti. La prima radio, quella degli Anni '30, era totalmente scritta: per poter andare in onda bisognava recarsi dal funzionario di turno al fine di avere l'approvazione dei testi. Poi ci fummo noi della generazione di Bandiera gialla: negli Anni '60 eravamo riusciti, anche grazie alla musica, a trasformare un media utilizzato dai soli adulti in qualcosa di amato dai giovani. La terza rivoluzione avvenne alla fine degli Anni '70, con le radio libere».

In quegli anni però c'era ancora lei con Alto gradimento. «Sì, è un programma ancora ineguagliato: tutto veniva improvvisato, facevamo lavorare la fantasia degli ascoltatori, c'inventavamo dei collegamenti fittizi, e poi prendevamo in giro gli stessi ascoltatori. Purtroppo molte puntate sono andate perse: venivano registrate su delle musicassette che spesso, il giorno dopo, venivano reincise. È grazie alle registrazioni degli appassionati se oggi molte puntate sono state recuperate».

Chi sono gli eredi di quel tipo di radio?

«Il contesto della comunicazione è profondamente diverso: oggi ci troviamo nella quarta fase della storia della radio, quella di Internet. Tuttavia ci sono Lillo e Greg, e lo stesso Fiorello, ad aver proseguito in parte quell'esperienza».

Perché non rifare un nuovo Alto gradimento? Magari per la Rete...

«Sarebbe bello, ma oggi la radio comporta una presenza costante, con l'attualità che cambia di momento in momento. E poi ho la mia Orchestra Italiana, che mi dà sempre moltissime soddisfazioni».

Oggi però lei si presenta al Radio Day sotto altra veste.

«Sì: alle 12,30, presso Radio Novelli, lo storico e iconico showroom romano, incontrerò amici e appassionati radiofonici nell'insolito ruolo di collezionista. Della radio, infatti, amo anche il design: per questo ho una collezione di oltre 60 apparecchi, dagli Anni '30 a oggi, di tutti i colori. Comprese quelle radioline di plastica che una volta venivano poste sopra i frigoriferi americani, come molti film documentano».

Ha mai costruito un apparecchio radiofonico?

«Si, da piccolo mi ero costruito una radio a galena: è da lì che ho iniziato ad ascoltare il mio amato Jazz. L'episodio è in qualche modo evocato dal programma Quelli della notte: Maurizio Ferrini ne aveva costruita una grazie ai corsi della Scuola Radio Elettra. Oggi, poi, presenterò una nuova radio, Jonathan, disegnata da Cappellini Licheri e realizzata da Gianni Braidot di Export Manager: ricordando la sinuosità del volo di un gabbiano, s'ispira al Jonathan letterario, che ha trasformato la fantasia e la libertà in una sua ragione di vita».

Arbore: «Da Abbronzatissima a Sole, cuore, amore.  Così nascono i tormentoni». Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Antonio Polito su Corriere.it. Ci fu un tempo in cui Renzo Arbore costruì una neo-lingua, e se non la conoscevi non potevi comunicare. Ricordo una mattina dell’estate del 1985, con altri tre amici napoletani; eravamo andati a prendere alla stazione un compagno che tornava da un soggiorno di studi in California, allora lontana come la Luna. In treno si chiacchierava, della sua esperienza e delle nostre vicende, e ci sfottevamo l’un l’altro. «Hai detto una Catalanata», quando uno se ne usciva con un’ovvietà; oppure «non capisco ma mi adeguo», per contraddirci l’un l’altro; oppure ancora tiravamo fuori il «brodo primordiale» ogni due e tre. Il nostro amico, si chiamava Procolo e non è uno scherzo, non seguiva, non rideva, chiaramente non capiva. E dopo un po’ ci chiese: «Ma come parlate?». Era stato via appena tre mesi, ma si era perso «Quelli della notte», il programma rivelazione firmato da Renzo Arbore e Ugo Porcelli di cui noi giovani ripetevamo ormai quotidianamente le gag di un umorismo non-sense, che poi è una metafora elegante per dire «cazzeggio». Ci aveva tenuto a casa la sera per tutta la primavera, una delle rare stagioni in cui per i ragazzi era diventato più trendy restarsene davanti alla tv che uscire, e una volta superò il 50% di share. Quel piccolo «buco» di tre mesi di tv aveva trasformato il nostro amico in un escluso, impossibilitato a condividere il nostro senso dell’umorismo, le metafore, il modo di esprimersi dei suoi coetanei. La radio trasmetteva «L’estate sta finendo e un anno se ne va/ sto diventando grande lo sai che non mi va», dei Righeira. Roberto D’Agostino ci aveva appena informato che era arrivato il tempo dell’«edonismo reaganiano». Gli anni ‘80 si erano portati via l’impegno politico. Era avvenuto un salto antropologico. Dopo quell’estate i giovani non sarebbero mai stati come prima. La potenza dei tormentoni, le frasi, le canzoni, le battute che si ripetono ossessivamente fino a diventare qualcosa d’altro, è dunque culturale. Sono un’espressione dello Zeitgeist, lo spirito del tempo. È perciò giusto chiedersi perché oggi, come le mezze stagioni, sembrano non esserci più. Anzi, è giusto chiederlo ad Arbore, massima auctoritas vivente nel genere.

«Non esageriamo con i significati. Innanzitutto il tormentone è fatto di pura e semplice ripetizione. Gianni Boncompagni sosteneva che qualsiasi frase con una buona assonanza, se ripetuta all’infinito, si può trasformare in un tormentone. In un certo senso aveva ragione. Io ho ancora nelle orecchie la pubblicità radiofonica della mia infanzia: “Più bril del bril, non c’è che il Bril”, diceva quella del lucido da scarpe, e noi ripetevamo. “Al primo accenno di raffreddore, non c’è che Rinoleina”, e noi ripetevamo. I bambini sono cruciali per il successo di un tormentone. Va forte appena diventa un lessico famigliare, per giocare coi piccoli. Pure il fascismo lo sapeva: tutto sommato Eia Eia Alalà era un tormentone. Così lo cominciammo a fare anche noi alla radio, con Gianni fummo antesignani, prima con Bandiera Gialla e poi con Per voi giovani: “Tutto sotto controllo” diventò la frase cult della generazione beat. E poi, più semplice, “l’antenna che non tentenna”. Ma se mi chiedi che cosa è un tormentone, io ti rispondo: prima di tutto è ripetizione». 

Si potrebbe dunque dire, con Walter Benjamin, che è figlio dell’epoca della «riproducibilità tecnica dell’opera d’arte». O, con Basilio Petruzza, che tormentoni non si nasce, si diventa. Ma davvero basta ripetere qualsiasi cosa enne volte per sfondare?

«Beh, io non ero così d’accordo con Gianni. Tra di noi c’era anzi una discussione su questo. Io facevo un po’ più l’intellettuale. Lo slogan pubblicitario, la battuta comica, il verso di una canzone, per farsi davvero tormentone deve secondo me evocare qualcosa, o almeno alludere a qualcosa, a uno stile, a un atteggiamento. Ti faccio l’esempio di “Fatti più un là”, la sigla dell’Altra Domenica delle sorelle Bandiera ("Fatti più in là... a... a.../ Così vicino mi fai turbar”). Andò così forte che la trasformammo in uno sketch politico con Andreotti, Berlinguer e Craxi che si contendevano uno scranno. Ben più sofisticato fu Maurizio Ferrini, il romagnolo comunista con il borsello, leghista ante litteram, che già nel 1985 voleva costruire il muro di Ancona per non far passare i meridionali. Lui si inventò quel “Non capisco ma mi adeguo” che diceva in una sola fase il travaglio dei militanti del Pci degli anni ‘80, sottoposti a stress di linea continui. Non che la gente pensasse a questo mentre ripeteva quella frase nelle conversazioni scherzose, ma il sottotesto era pur sempre nella mente di tutti, e dava profondità al tormentone». 

Tra l’altro è impressionante l’attualità profetica di quel personaggio, capace di cogliere che cosa c’era nella forma mentis di un comunista emiliano che avrebbe potuto sfociare nel leghismo. A me il Savoini di questi giorni, il salviniano filo-russo innamorato di Putin, mi ricorda da morire Ferrini, gli assomiglia pure fisicamente. 

«Con Ferrini ancora adesso qualche volta nei miei show facciamo uno sketch, lui dice che vuole costruire una corsia preferenziale in terra battuta per meridionali da Taranto a Milano, senza uscite così non possono fermarsi, e al posto degli autogrill mettiamo le capanne di paglia che vendono salsicce e friarielli». 

E le canzoni? Quali sono i tormentoni top secondo te?

«È l’epopea del disco per l’estate. “Per quest’anno non cambiare/ stessa spiaggia stesso mare”, di Piero Focaccia; “Sei diventata nera, nera, nera/ sei diventata nera come un carbon”, dei Los Marcellos Ferial. Ovviamente il grande Eduardo Vianello: “A-A-A, abbronzatissima/ sotto i raggi del sole, a due passi dal mare”; “Con le pinne, fucili ed occhiali/ dove il mare è una tavola blu”. Però, guarda, secondo me il primo grande tormentone fu suo malgrado, quasi inconsapevolmente, una canzone d’autore come Sapore di sale di Gino Paoli, nel ‘64. A conferma del fatto che non è solo l’orecchiabilità, la facilità di ascolto, a fare il successo». 

Quand’è che un tormentone diventa ufficialmente tale ed entra nella Hall of fame?

«Secondo me quando finisce nei titoli dei giornali, viene usato sulla stampa o in televisione, magari in contesti che non c’entrano nulla. Allora vuol dire che ha spiccato il volo, e vive di vita propria. Per esempio, ce n’è uno che ho fatto per la pubblicità, “Meditate gente, meditate”, che voi giornalisti usate spesso. Su Dagospia Roberto ha rilanciato “Ah, saperlo...”, un tormentone di Pazzaglia, il professore che faceva l’intellettuale a Quelli della notte, noto anche per aver inventato i “separati in casa”. A Mogol dobbiamo un verso diventato molto comune nel linguaggio parlato e scritto, quasi una massima filosofica: “Lo scopriremo solo vivendo”. Dal cinema ne sono venuti molti: ti ricordi il “boni, state boni”, di Alberto Sordi ne “La grande guerra”? Lo stesso è accaduto con la pubblicità, industria nella quale si cerca la frase-tormentone come se fosse il Santo Gral. Io ne ho fatte tante, qualcuna di successo come “meditate gente”, qualcun’altra che secondo me poteva esserlo ma l’azienda non ha speso abbastanza per rendere il messaggio ossessivo, e, come ti ho detto, la ripetizione è indispensabile. Pensa a frasi come “contro il logorio della vita moderna”». 

Me lo ricordo. C’era questo Carosello con un attore calvo, allora si poteva, Ernesto Calindri, tranquillamente seduto in mezzo al traffico cittadino mentre leggeva il giornale e sorseggiava un aperitivo a base di carciofo. E come dimenticarlo? È una delle immagini della mia infanzia. Ma oggi non mi pare di vederne più di tormentoni così, né nella musica leggera né nella pubblicità. È solo perché invecchiando il passato ci sembra sempre migliore o davvero non ci sono più i tormentoni di una volta?

«Non mi pare che ci siano. Guardiamo le canzoni di questa estate. Di aspiranti tormentoni ce ne saranno una decina, hanno anche successo, ma temo che nessuno passerà alla storia, legandosi per sempre al nome di un cantante o di un gruppo che magari ha fatto solo quello nella vita, come accadeva un tempo». 

Perché?

«Secondo me la prima ragione è l’abbondanza. Sai come dicono a Napoli: sparti ricchezza, diventa povertà. Vuol dire che se ce ne sono tanti di pezzi costruiti per avere quel tipo di diffusione, facile da ricordare, orecchiabile, estiva, allora è più difficile che uno solo diventi l’unico, memorabile tormentone. La rete, con la sua incredibile disponibilità on demand, ha polverizzato il pubblico e il mercato, così è più difficile che tutti insieme canticchino per una estate lo stesso motivo perché ognuno ha il suo mezzo e il pezzo». 

Si potrebbe allora quasi dire che, in mezzo a tanti difetti, il monopolio era per lo meno l’habitat ideale per il tormentone. Quando c’era una sola emittente, la Rai, due canali tv e tre radio, era più facile imporlo. Un po’ come gli eventi: davanti a uno show in diretta sulla Rete Uno in prima serata si raccoglievano dieci milioni di italiani.

«Certo, io e Gianni siamo stato fortunati da questo punto di vista. Quando cominciammo non esistevano nemmeno le radio private. Non avevamo concorrenza. Però anche adesso ne escono di tormentoni. Quello della pubblicità sui sofà mi piace, ha preso, è entrato anche nelle barzellette. Pure Salvini se ne è fatto uno col “cuore immacolato di Maria”. E poi non dimentichiamo l’onda spagnola, da La Bamba, alla Lambada, alla Macarena, fino a Despacito. Ora ti devo lasciare, ho un esame a Napoli». Per esame Arbore intende un concerto. Quelli nella città partenopea lo mettono ancora in ansia, dice che a Napoli è sempre un esame. L’intervista è stata fatta alla vigilia, per la cronaca l’esame è andato benissimo. 

Ps: ho voluto fare un test generazionale per capire se questa nostalgia dei tormentoni di una volta fosse solo figlia della laudatio temporis acti di chi non ha più l’età, e tutto quello che ha vissuto gli sembra migliore di ciò che fanno i figli o i nipoti. Ho dunque interrogato la mia figlia grande ventiquattrenne, e i miei due piccoli, di dieci anni. Tutti sostengono di aver avuto o di avere un tormentone. La prima ricorda, e lo ricordo anch’io, «Dammi tre parole/ sole cuore amore», di Valeria Rossi, e l’estate del 2001, tra le più spensierate per la sua età. I piccoli citano il presente: Calipso di Dardust, feat., Sfera Ebbasta, Mahmood & Fabri Fibra, «Io non so più dove ho messo il cuore/ forse l’ho scordato dentro una ventiquattro ore», e aggiungono che Rovazzi, il loro idolo di appena un anno fa, non va più bene, perché è da bambini. Poi penso a Despacito, di Luis Fonsi, cinque miliardi di visualizzazioni, il video musicale più visto della storia, e mi dico che forse il tormentone c’è ancora ma noi non lo vediamo più, perché sta su YouTube, che è la nuova tv dei nostri figli. Forse il tormentone richiede uno stato d’animo che sia disposto a farsi tormentare perché senza pensieri, nell’età dell’innocenza. Forse nella vita possiamo avere solo un numero limitato di «nostri» tormentoni, e quegli degli altri per noi non sono mai davvero tali. Forse tra vent’anni il «Corriere» scriverà un pezzo per lamentare la fine del tormentone, e rimpiangerà quelli di oggi come oggi rimpiangiamo quelli di vent’anni fa.

Valerio Palmieri per “CHI” il 26 settembre 2019. Renzo Arbore ama giocare, forse come antidoto alla drammaticità della vita, ai pensieri bui, al dolore per le persone che non ci sono più. E il suo più grande compagno di scorribande è stato Gianni Boncompagni. Avevano un umorismo diverso, ma erano “sintonizzati”. Sulla musica, le donne, la voglia di vivere una sconfinata giovinezza. A due anni dalla morte dell’amico, Arbore ha deciso di ricordarlo con un programma che non vuole essere nostalgico, ma con 4 ore di divertimento, testimonianze, aneddotti. Lo si capisce già dal titolo No, non è la BBC, in onda il 26 settembre in prima serata su Raidue, dove lo ricorderanno gli amici più cari, da Raffaella Carrà a Piero Chiambretti, da Giancarlo Magalli a Fabio Fazio, da Ambra a Claudia Gerini.

Domanda. Partiamo dalla vostra amicizia, nata nel 1964 all’esame Rai per programmatori musicali. Gianni era comunista, lei era filoamericano, come facevate ad andare d’accordo?

Risposta. «Vede, Gianni era portato a fare discorsi leggeri e a non polemizzare, era rarissimo che lo facesse ed era il suo bello perché era positivo e pragmatico. “A che cosa serve perdere tempo in discussioni”, diceva, “se possiamo prendere la vita con allegria?”. Si è divertito moltissimo, con il suo sorriso e le sue battute conquistava le donne».

D. Non avete mai litigato per una donna?

R. «Sì, certo».

D. E chi era?

R. «Era la “Sgarambona”, un personaggio radiofonico inventato da Mario Marenco che sosteneva di uscire con me all’insaputa di Gianni e viceversa. La gag era che lei telefonava e si lamentava del fatto che volessimo arrivare sempre al sodo, su una vecchia Fiat 500, senza farle alcuna promessa».

D. Quando ha capito che fra di voi sarebbe nata un’amicizia?

R. «L’ha capito prima lui, quando ha visto che ero stato il più bravo al concorso Rai. Ma la cosa che ci unì fu la passione per la musica moderna, che portammo in radio. La radio era un mezzo antico, noi lo rivoluzionammo».

D. Qual era il vostro segreto?

R. «Il segreto era che, se qualcuno ci diceva “non si può fare”, la nostra risposta era “perché no?”. Siamo stati i primi deejay radiofonici, portavamo i nostri dischi comprati all’estero e li presentavamo, inventammo la categoria dei “giovani”, che prima non erano considerati».

D. Dopo Bandiera gialla arrivò Alto gradimento, un varietà radiofonico che ha dato origine alla radio moderna, quella alla Fiorello per intenderci.

R. «Gianni faceva un programma di servizio, Chiamate Roma 3131, dove si parlava solo di cose tristi, mentre io ero stritolato dal ‘68, non vedevo l’ora che finisse e, infatti, è finito con quello che venne chiamato “l’edonismo reaganiano”. Prima il sorriso era una cosa negativa, bisognava essere seri e impegnati, allora i  ragazzi andavano di nascosto a vedere i film di Totò e ci ascoltavano alla radio».

D. Poi, però, le vostre strade si sono divise: lei ha fatto L’altra domenica, lui è andato a lavorare con Raffaella Carrà: è stata la vostra Yoko Ono?

R. «No (ride, ndr) ci siamo divisi perché io sono stato chiamato da Raidue, mentre Gianni è andato a Raiuno: io facevo L’altra domenica, lui Discoring. Ci scambiavamo idee sui programmi, cosa che oggi sarebbe impensabile».

D. Lei abolì le vallette mute, fu il primo a far parlare le donne in tv; Gianni, invece, sosteneva che le donne in tv non dovessero parlare, è il caso di Non è la Rai.

R. «Io ho inventato le “donne parlanti”, è vero, perché allora le vallette dovevano solo portare le buste, poi c’erano due giornaliste, ma il resto erano uomini. Gianni, però, ha avuto un’intuizione che ho capito proprio nei giorni scorsi, mentre preparavo il programma su di lui. A Non è la Rai celebrava la bellezza della fanciullezza mostrando queste ragazzine piene di vitalità e di voglia di vivere. Erano bellissime, poetiche, senza trucco, tatuaggi, cellulari».

D. Ha amato molto le donne.

R. «Guardi, in questo programma Raffaella Carrà parla per la prima volta della loro storia d’amore raccontando con grande umanità il primo incontro, quando Gianni le fece una finta intervista. Poi ci sono le donne con le quali ha lavorato come Ambra Angiolini, Claudia Gerini, Sabrina Impacciatore, Lucia Ocone, che raccontano la sua genialità sul lavoro».

D. Eravate due giocherelloni, ci racconta un vostro scherzo?

R. «Lui era molto tecnologico, mentre io non avevo dimestichezza con l’elettronica. Una volta mi invitò a casa sua e infilò una cassetta con un film “osè” in un uno dei primi videoregistratori, dicendomi che si era sintonizzato su un nuovo canale tv. “Ma come, non lo vedi da casa tua? Vai a farti sistemare l’antenna, ogni sera danno un film diverso”. Ci cascai in pieno e cercai in ogni modo di trovare quel canale».

D. Alcune delle persone che ha amato di più se ne sono andate, eppure lei è sempre ottimista.

R. «Il segreto è pensare positivo senza mai arrendersi. Ho perso amici come Gianni, come Luciano De Crescenzo, come Mario Marenco, ma i ricordi sono talmente belli che mi tengono vivo, è come se fossero ancora tutti con me. Non accetto che se ne siano andati, penso che siano in un’altra casa e un giorno li andrò a trovare. Gianni ci ha fatto sorridere fino all’ultimo, fino a quando, fuori dalla camera ardente, ha voluto che fosse messa una sua foto vestito da suora».

D. Qual è l’ultimo ricordo che ha di lui?

R: «Noi due sul suo letto, poco prima della sua morte, che mangiamo il gelato e ascoltiamo Alto Gradimento».

Boncompagni,  il paladino della tv  di consumo  celebrato da Arbore. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. Renzo Arbore ha ripercorso la carriera artistica del suo amico Gianni Boncompagni: «No, non è la BBC» (Rai2, giovedì, 21.15). Una serata divertente, ricca di repertorio, di testimonianze, di reduci, di familiari; a tratti anche un po’ funerea. Una ventina d’anni fa, sul «Corriere» avevo scritto un dialogo immaginario fra Arbore e Boncompagni, l’uno paladino della tv d’autore, l’altro della tv di consumo. A Boncompagni facevo dire: «Nata da un pensiero anemico, è una tv che non merita la ricompensa di una ricerca o il coronamento di un’inquietudine. È solo vuoto, anche se vuoto impuro. Ma questa, caro mio, è la realtà in cui viviamo… Fra vent’anni le parti si invertiranno, “Non è la Rai” sarà considerato uno stracult e “Quelli della notte” una recita di poveri guitti, una goliardata». Ripensando alla serata, non sono proprio sicuro che le cose siano andate così. Certo, il Boncompagni che abbiamo imparato ad amare era quello impresentabile, il mascalzone, il cinico. Quello che diceva che il suo metodo di lavoro era fare tv «presto e male», quello che teorizzava la tv come spazzatura, quello che ci ha aiutato a capire la natura ultima della tv generalista. Se in radio, in coppia con il sodale Arbore, era stato un grande innovatore («Alto gradimento» ha cambiato la storia della radio), in tv preferiva il disincanto, si accontentava di offrire le migliori soluzioni per impedire le peggiori. Che cosa hanno in comune trasmissioni come «Pronto, Raffaella?», «Pronto, chi gioca?», «Non è la Rai» o «Macao», tanto per citarne alcune? Forse ben poco dal punto di vista linguistico, il minimo sindacale, ma esibiscono una forza rara: l’audacia di rappresentare la realtà in cui siamo immersi. Nella sua banalità, nella sua vacuità. Nessuno come lui ha saputo dare dignitosa veste estetica al vuoto. Ad arricchirlo con fantasia ed estro. Ma sempre di vuoto si tratta.

Giampiero Mughini per Dagospia il 27 settembre 2019. Caro Dago, ti confesso che ieri sera e mentre assistevo alla tornata televisiva su RaiDue in onore di Gianni Boncompagni ero senza fiato. In particolare nei momenti in cui scorrevano le immagini di una mirabolante serata al Piper romano di via Tagliamento. E c’erano Gianni e Renzo Arbore che facevano gli onori di casa e in prima fila sedeva “la ragazza del Piper” per eccellenza, ossia Patty Pravo, e tutt’attorno il giovane Pippo Baudo, Walter Chiari, due irradianti Raimondo Vianello/Sandra Mondaini, quel grandissimo giornalista che è stato Ruggero Orlando, Mike Bongiorno, una Loredana Bertè che sembrava si volesse mangiare la vita, il Sandro Ciotti che come le raccontava lui le partite, l’architetto  (chiamiamolo così) Marius Marenco, e ne sto dimenticando molti. Non so se ci fossi tu quella sera, tu che appena mollavi il lavoro da cassiere in banca eccome se ti davi da fare. Incredibile la concentrazione di tanto talento, di tanta gioia di vivere, di tanti maestri tra quelli che hanno fondato la comunicazione moderna, da Gianni/Renzo a Orlando a Ciotti e senza dimenticare Walter Chiari, uno verso cui l’Italia è come se resti in debito. Incredibile era innanzitutto il locale, nato nel 1965, dove a fare da sfondo era un bellissimo collage di Claudio Cintoli, altro grandissimo morto ahimè troppo presto (nel 1978). Il pittore romano Pablo Echaurren (il futuro illustratore de ”I porci con le ali”) racconta che aveva una base segreta dove andava a cambiarsi d’abito e agghindarsi per poi andare al Piper munito di un paio di stivaletti che si era comprati usati da un capellone della prima ora, nome di battaglia “Ciclamino”. Quando nel 2008 Echaurren ha fatto una mostra della sua opera trentennale e talmente polivalente, c’era anche una foto del 1967 di Ciclamino seduto al Piper con accanto una ragazza che ha l’aria adorante. In quella foto Ciclamino indossa un paio di jeans decorati a mano. Quei jeans che Pablo Echaurren reputa la prima in ordine cronologico delle sue opere d’arte. Quanto alle ragazze del Piper, la loro trasformazione vestimentaria avveniva a metà delle scale di casa loro. Giunte a metà, e se stavano andando al Piper, arrotolavano la loro gonna che appena uscite di casa arrivava al ginocchio e la portavano su di quattro dita buone. La mia ragazza dei vent’anni lo faceva a Catania, non a Roma. Sì, io tutto questo ben di Dio non l’ho vissuto in prima persona perché abitavo in provincia, a Catania. Semmai l’ho vissuto con la mia immaginazione che è fervida. Al Piper arrivai (la prima di cinque o sei volte) credo nel 1966. Mi faceva da cicerone un mio amico siciliano che viveva a Roma. Io non ballavo perché non so ballare bene, e le cose che non so fare bene preferisco non farle (e difatti non faccio altro se non scrivere). Guardavo, eccome se al Piper c’era da guardare. Sulla pedana in quel momento c’erano non più di due coppie, e anche se è inesatto definire coppia quella formata da un ragazzo che aveva l’aria qualsiasi e da una ragazza inaudita e non perché fosse bella da vertigine, anche se bella lo era di certo. Era inaudita da quanto fosse inedita ai miei occhi, mai vista né immaginata prima, una razza femminile di cui sino a quel momento non avevo visto alcun esemplare. Più ancora che bella era sorprendente, a usare le parole dello scrittore triestino Renzo Rosso (oggi dimenticatissimo) che nei Sessanta aveva scritto tre o quattro romanzi molto belli. E a non dire che nel mio ricordo quella ragazza di oltre 50 anni fa era abbigliata quanto di più tranquillamente, una gonna qualsiasi e un maglione qualsiasi. Inaudita era la sua danza solitaria e struggente, i suoi movimenti a metà strada tra una marcia trionfale e un ancheggiare diabolico, un percorso dell’anima che lei scandiva  inondando noi maschi tutt’attorno di sguardi terrificanti che volevano dire “Vi rendete conto che voi siete nulla rispetto a me, al mio corpo, alla mia libertà di fare quello che voglio e come voglio?”. E difatti quel suo corpo lei lo muoveva e lo ondulava come voleva, percorrendo la pedana in una direzione per poi tornare indietro e cambiare ritmo, e le braccia e i fianchi e le gambe e i capelli che si fondevano in un’armonia totale, e gli scatti e le pause e i sussulti. Quell’erotismo che ti arriva al cervello e ne fa un rogo. Era il 1966, era un’Italia che guardava al futuro con gioia, e di canali radiofonici ce n’erano solo due, solo che su uno dei due troneggiavano Gianni e Renzo nonché la loro banda guerrigliera. Dio che fortuna abbiamo avuto ad avere vent’anni in quel decennio, illustrato da tali e tanti maestri. Dio quanto sono stati importanti Gianni e Renzo nella storia nostra culturale.

Arbore: «Ho nostalgia di Mariangela Melato, è la parte mancante del mio successo». Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 su Corriere.it. L’immagine del Cavallo di Troia gli sembra esagerata, preferisce quella più modesta di un grimaldello. «Perché in fondo il mio è un ritorno alla chetichella», si schermisce Renzo Arbore alla vigilia del suo debutto su Rai5 («una rete meno importante che però adoro») con l’arte d’ ‘o sole, un programma in tre puntate (12, 19 e 26 giugno in prima serata) che racconterà sinteticamente di quei 1500 concerti tenuti in giro per il mondo con l’Orchestra italiana. «Un viaggio a tappe — riprende Arbore — che darà un assaggio dei nostri show allestiti in ogni angolo del pianeta, da Shanghai a New York, dalla Piazza Rossa di Mosca a Chicago, dalla Royal Albert Hall di Londra all’Olympia di Parigi». Tanta musica, dunque, esclusivamente napoletana, «interrotta» di tanto in tanto dagli interventi dell’attore Maurizio Casagrande che leggerà e commenterà i testi di alcuni brani in scaletta, il tutto arricchito da ricordi e aneddoti di Arbore. Che in questo mese di giugno di fatto monopolizzerà il palinsesto di Rai2: il 17 lancerà L’alfabeto di Guarda… stupisci, un dietro le quinte (che procederà di lettera in lettera) della trasmissione con Nino Frassica e Andrea Delogu dello scorso anno. Mentre il 24 — giorno del suo compleanno —, con I’ faccio ‘o show, Arbore si riaffaccerà dagli schermi del secondo canale per far ascoltare al pubblico un concerto dalle atmosfere swing registrato al teatro Regio di Parma. Per gli Arborigeni, come lo showman definisce i suoi fan, una vera e propria abbuffata di gag e musica in salsa renziana (e qui l’aggettivo si riferisce al nome del musicista e non al cognome di un famoso politico) che però manca di un ingrediente a cui il comandante di Indietro tutta ci ha abituato da tempo: un progetto originale e visionario. «Ma io ce l’ho, ne avevo parlato anni fa con uno dei vertici della Rai, Giancarlo Leone. Al quale l’idea piaceva. Poi è andato via e la mia proposta è finita nel dimenticatoio». Nel frattempo che i nuovi dirigenti di viale Mazzini la ripeschino, avere un anticipo dal diretto interessato sarebbe stuzzicante: «Dieci anni fa ho realizzato una personale tv via web. All’indirizzo renzoarborechannel.tv si possono trovare spezzoni del meglio della televisione, e non solo». E quale sarebbe il legame tra il suo canale e la tv di Stato? «Semplice: il web è ricco di idee e da lì pesco cose del passato, ma anche del presente, e su Raiplay le somministrerei e le spiegherei al pubblico della tv generalista. Ecco, il mio sogno è quello di celebrare questo matrimonio diventando un video-jockey». Arbore ha già pronto anche il titolo di questo eventuale programma del futuro: «De Gustibus. Destinato perlopiù ai millennial attraverso il quale potrebbero imparare cos’è la tv d’autore». In fondo qualcosa del genere Arbore l’aveva anticipata con Indietro tutta! 30 e l’ode del 2017, show di Rai2 tra celebrazione e lezione universitaria. «I ragazzi in studio erano interessati a quel patrimonio che ha fatto grande la Rai. Purtroppo i giovani non sanno chi era Walter Chiari, Corrado, Enzo Tortora, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. Io vorrei insegnarglielo attraverso De Gustibus. Aspetto che la Rai mi chiami». Insomma, l’inventore di quindici format di successo è dell’opinione che l’innovazione debba puntare sulle bellezze del passato da recuperare. «Lo posso ben dire io che sono stato un avanguardista, però non nel senso fascista del termine», sorride. E lo è stato senza mai voltare le spalle all’azienda nella quale ha mosso i primi passi di una carriera inarrestabile: «Sono stato corteggiato da Mediaset e all’epoca mi incontrai anche con Berlusconi. Amabile chiacchierata ma rifiutai l’invito». Una vita di soddisfazioni professionali che alimentano ancora il buon umore di Arbore. Che però un po’ si spegne quando si tocca l’argomento amore: «Quello per Mariangela Melato resta nel mio cuore. Più passa il tempo e più si rafforza la nostalgia che ho di lei: è la parte gravemente mancante del mio successo».

·         Marisa Laurito ed i falli.

''ANCHE IO MI SPOSAI PER FINTA''. Da ''Oggi'' il 7 giugno 2019.  «Onestamente della vicenda di Pamela Prati non ci ho capito niente. Però devo anche dire che non ho interesse al privato di Pamela Prati. Una volta, da ragazza, mi sposai anch’io per finta, ma è una cosa che nulla aveva a che vedere con questa storia di agenti, soldi, ospitate, spettacolo. Lo feci per mio padre: convivevo con un ragazzo e lui questo non lo sopportava. Era molto severo. Allora in famiglia inscenammo per gioco un finto matrimonio per metterlo tranquillo. Venne a saperlo dopo anni». Lo confessa Marisa Laurito in un’intervista a OGGI. Aggiunge l’artista, oggi impegnata a Napoli con la sua mostra di fotografie impegnate «Transavantgarbage - Terre dei Fuochi e di Nessuno»: «Poi con il calciatore Ciccio Cordova mi sposai davvero. Durò tre mesi. Gelosissimo, voleva segregarmi ai fornelli. Il fatto è che io da sempre non credo nel matrimonio… Ormai sto da quasi vent’anni con un ex imprenditore bresciano, Giampiero Pedrini. Io vivo a Roma, lui a Brescia, e in futuro forse staremo insieme. È una persona speciale, solida, piacevole, ma soprattutto seria». Nell’intervista a OGGI la Laurito racconta un «sì» e un «no» di cui si è pentita: «Avere smesso di condurre “Domenica in” nonostante le insistenze; ma allora dai successi si scappava. E di avere accettato di condurre “Caro bebè”, sempre causa insistenze. Si rivelò un flop e poi la Rai non mi supportò». Quindi ammette che «molto volentieri» tornerebbe alla Rai: «Rai 1 è un po’ adagiata nella routine. Proverei a svecchiarla. Si possono fare cose belle anche spendendo pochissimo, come feci in “Marisa La Nuit”.

 “VIVIAMO IN UNA SOCIETÀ FALLOCRATICA”. Alessio Poeta per gay.it il 14 maggio 2019. Con Marisa Laurito succede sempre la stessa cosa: ci si perde. «Dove eravamo rimasti?» Chiede dall’altro lato della cornetta. Non rispondo, perché la risposta, Marisa, la trova da sola. La voce, dal vivo, è avvolgente, contagiosa e colorata. Un po’ come i suoi capelli che vanno dal nero al blu. Due colori che, assieme al rosso e al grigio, torneranno più volte nella mostra fotografica di forte denuncia sociale che l’artista esporrà, dal 16 maggio, nella sua Napoli presso il Complesso monumentale di San Domenico Maggiore. «Ho fatto un viaggio nelle terre degli orrori. Un lungo viaggio attraverso un’Italia devastata dai rifiuti. Il mio obiettivo? Quello di smuovere le coscienze.» Mica facile. I cittadini devono essere informati e i politici devono iniziare a fare il loro lavoro perché qui, la gente, muore. Su venti regioni, diciannove sono sconvolte e coinvolte da rifiuti tossici, nucleari, chimici e industriali, e non possiamo più far finta di nulla.

Lei vive a Roma. La sua città è notoriamente sommersa dai rifiuti.

«Mai vista la capitale in queste condizioni. Sarebbe troppo semplicistico dare la colpa solo a Virginia Raggi perché, mai come stavolta, le colpe sono variegate. I rifiuti sono un business dove la Camorra e la Mafia hanno sempre messo le mani».

Ha mai pensato di scendere in politica, Marisa?

«Mi è capitato di pensarci, anche più volte se vogliamo dirla tutta, ma solo perché ciclicamente mi è stato chiesto di candidarmi. La politica non è un gioco dove ci si può improvvisare, e io non potrei mai giocare con la vita degli altri. E poi, senza retorica, sono dell’idea che la politica si possa fare anche lontana dai Palazzi. Negli anni ho sposato tante battaglie e quando mi appassiono sono la prima a scendere in campo».

C’è stato un momento in cui la davano per certa con i 5 Stelle.

«È capitato più volte e con più partiti. Niente di più falso. L’unica cosa vera è che, a ridosso della nascita del Movimento, ebbi una certa simpatia per tutte quelle persone che trovarono il coraggio di unirsi per cambiare alcune parti malsane della nostra società. A onor del vero qualcosa è stato smosso, ma reclamare, ahimè, non è sufficiente. Soprattutto quando sei in politica».

Domenica 26 maggio si voterà per le europee.

«Il risultato è già sotto gli occhi di tutti e la situazione, a mio avviso, è piuttosto grave. Queste campagne piene d’odio sono a dir poco terribili. Proprio l’altro giorno, su un quotidiano, leggevo che un immigrato su tre muore in mare e a me, questa cosa, non fa male, fa malissimo. A cosa servono le giornate della Memoria se poi oggi, quando stanno accadendo guerre e torture a destra e manca, noi non tentiamo di fare qualcosa?»

Alleggeriamo. Lei è un’icona gay.

«Me lo dicono in molti».

Si è mai chiesta il perché?

«La verità? No. Ridurre tutto a gay e non, mi sembra un qualcosa di poco carino. Io amo le persone intelligenti e credo da sempre nella libertà sessuale. Qualche anno fa sono stata ospite al Gay Village di Roma. Una serata piena di gente, ma soprattutto piena di bella gente. Ricordo che ci divertimmo molto a parlare del tanto agognato matrimonio gay. Senza banalizzare i diritti, importantissimi, doverosi e sacrosanti, ho sempre fatto fatica a capire perché questo desiderio di ripercorrere gli stessi errori delle coppie eterosessuali».

E fu capita?

«Si, anche perché c’era un’ironia di fondo. Io odio il matrimonio. Pensi che il mio durò solamente tre mesi».

Ironia a parte?

«L’eterosessualità ha compiuto dei percorsi ammalati, come quello dello stare assieme anche se non ci si ama più, e non mi capacito di come le coppie omoaffettive vogliano reiterare, a tutti i costi, gli stessi errori».

Sarebbe favorevole alle adozioni per le coppie dello stesso sesso?

«Sì, purché ci siano continui controlli, ma questo per tutti e non solo per le coppie dello stesso sesso. Un figlio non è un capriccio! Una giovane vita umana deve essere trattata come un fiore che deve sbocciare e non come un ostacolo. Vedo in giro così tanti genitori incapaci che sempre più spesso resto sbigottita».

E alla GPA?

«Come pratica, onestamente, faccio fatica a capirla. Mi sembra un atto di grande egoismo».

Voltando pagina, negli anni ha mai avuto la sensazione che la sua ironia, possa aver in qualche modo inquinato la sua credibilità artistica?

«Sì, ma su questo non ho mai potuto farci molto: l’ironia fa parte del mio DNA. Lo spirito e questa fisicità prorompente mi avranno sicuramente svantaggiato in qualche occasione, ma fortunatamente il pubblico riesce sempre a leggere tra le righe. Oggi, poi, rispetto a qualche anno fa, mi è venuta una strana voglia».

Quale?

«Quella di mettere in mostra anche la mia interiorità. Un’interiorità che ho cercato di preservare per molto tempo. Sarà l’età?

Ha 68 anni. Il tempo che passa le fa paura?

«Le dirò: non è divertente, ma nemmeno così terribile».

La chirurgia non l’ha mai affascinata?

«Non sia mai! Mi fa schifo».

La sua immagine non conosce mode. Passano gli anni, ma è sempre uguale.

«Fa riferimento all’acconciatura? Ho provato a cambiarla, ma non mi trovo. La porto da quando avevo otto anni. Mi piace pensare che in un’altra vita ero una sciantosa».

Mi spiega perché quelle punte nero blu?

«Perché il nero assoluto è un colore molto forte per una donna della mia età, e il blu arriva da una grande passione che ebbi per l’attrice del film China Blue».

Lei oggi è molto più concentrata con il teatro. Le manca la tv?

«Sì, ma non riesco ad accettare le ‘monnezze’ che mi vengono proposte».

Parla dei reality?

«Soprattutto. Me li hanno proposti come conduttrice, opinionista e concorrente, ma non mi piacciono. In quei contesti si chiacchiera a vanvera di persone banali e con persone che raccontano cose banali. Un chiacchiericcio inutile e persino dannoso».

E il cinema?

«Al contrario della tv, non mi manca. Ci sono dei film carini in giro, è vero, ma non c’è più nulla di così interessante. Le basti pensare che una volta si producevano circa cinquecento film l’anno, mentre oggi si e no quaranta».

Lei ha fatto di tutto. C’è qualcosa che proprio non rifarebbe?

«Forse ‘Caro Bebè’. Un programma di Raiuno non particolarmente fortunato».

E io che pensavo mi rispondesse: “la pubblicità di Slim Fast”.

«Scherza? La rifarei subito. Dimagrire, essendo pagati, fu il massimo».

Non me ne voglia, ma è vero che a casa sua c’è un’installazione con 34 falli eretti?

«C’era. Ora la potrà trovare, e ammirare, a casa di Roberto D’Agostino. L’ha voluta a tutti i costi. L’istallazione si chiama “L’unico vero è assente”. Attraverso quell’opera volevo evidenziare la mancanza di responsabilità degli uomini».

Viviamo in una società fallocratica, Marisa?

«Un po’ sì e nel modo sbagliato. Una volta era anche più fallocratica, se vogliamo, ma gli uomini, almeno ai tempi, accettavano le grandi responsabilità che avevano. Oggi, invece, mi sembrano poco pronti al potere».

Marisa Laurito: «Mi sento un’artista in resistenza». L’attrice napoletana presenta le sue fotografie nella mostra “Terre dei fuochi e di nessuno”. «Il mio è un viaggio nel degrado e nell’inquinamento ambientale che ledono il diritto dalla salute e alla vita. Un grido di denuncia, ma soprattutto un invito a riscoprire la bellezza» Eugenio Murrali il 24 Maggio 2019 su Il Dubbio. Marisa Laurito, attrice con Eduardo De Filippo, artista popolare e amatissima, tornata di recente in televisione con l’amico fraterno Renzo Arbore – celebre, tra gli altri, il loro programma Quelli della notte – ha un talento poliedrico che si esprime nello spettacolo come nelle arti figurative. A Napoli, fino al 30 giugno, si potrà visitare la sua mostra fotografica Transavantgarbage. Terre dei fuochi e di nessuno, in occasione della manifestazione “Maggio dei monumenti”, uno dei principali appuntamenti del capoluogo campano. La mostra è organizzata in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli. Questo allestimento, i cui scatti sono stati premiati e apprezzati dalla critica, è un viaggio nel degrado e nell’inquinamento ambientale che ledono il diritto dei cittadini alla salute e alla vita. È un percorso in 20 scatti fotografici e 3 installazioni, un grido di denuncia, ma anche un invito alla bellezza.

Marisa Laurito, lei si definisce “artista in resistenza”…

«Parlo di “resistenza” perché oggi è molto difficile fare le cose bene, con la qualità di una volta. Inoltre è necessario che le persone il cui nome ha una forza si mettano a combattere al fianco di chi non può tirare fuori la voce.

La mostra è parte di quest’impegno?

«Questa mostra nasce da un docufilm sulla terra dei fuochi, Il segreto di Pulcinella, a cui ho partecipato, prodotto da Social Movie. Un lavoro che mi ha aperto lo sguardo. Sono andata molto in giro, ho conosciuto attivisti che mi hanno portato in mondi orribili, pieni di sangue, morte e dolore. Per me, che sono una persona sensibile, è stato stravolgente.

Questo le ha dato un impulso, delle idee?

«Ho pensato che fosse mio dovere fare qualcosa. Non ho trovato mezzo migliore della fotografia per portare alla luce questi fatti devastanti che coinvolgono e sconvolgono tutta l’Italia. Perché su 20 regioni 19 sono afflitte da inquinamenti nucleari o chimico- industriali. Ho creato dei set quasi cinematografici in cui ho ripreso il luogo devastato, ma ponendoci sopra anche una nota di bellezza, un’idea, una speranza.

In questo l’hanno aiutata anche degli amici…

«Sì. Renzo Arbore, Dacia Maraini e Piera Degli Esposti, Rosalinda Celentano. Quella di Rosalinda è una delle fotografie che amo di più. Lei è stata generosissima, perché si è fatta fotografare su una croce, e dato che ha avuto un tumore al seno, si è voluta denudare e ha mostrato i tagli.

E quella con le due amiche geniali?

«Sì. Amo moltissimo anche quella con Dacia Maraini e Piera Degli Esposti che volano su un tappeto di libri sopra la terra di Malagrotta. L’ho intitolata: “Con la cultura non si mangia però si può volare”. La prima parte di questa frase, “Con la cultura non si mangia”, è una delle affermazioni più imbecilli che abbia mai sentito nella mia vita. La cultura porta lavoro, evoluzione, invece purtroppo questo Paese lo stanno facendo diventare un luogo di ignoranza. Cerco di mettere la bellezza nell’orrore. Ad esempio questa foto parla di libri, di storie, di amicizia, quella tra Dacia e Piera.

Il tema della giustizia ambientale è un tema di giustizia sociale?

«In queste aree colpite c’è gente che muore, l’inquinamento lede il diritto alla vita. È un tema sociale fortissimo. Non va dimenticato, inoltre, che dietro tutto questo ci sono business del malaffare. Non si costruiscono impianti ben fatti come in Germania, dove vi sono aziende che riescono a ottenere energia elettrica buona dalle immondizie. C’è un business dell’esportazione e dell’importazione di rifiuti in Italia.

Lei ha fatto tanta televisione. Oggi il piccolo schermo quanto è attento a queste tematiche?

«Io ho iniziato a parlarne quattro anni fa. Adesso c’è molta attenzione anche perché questa bambina, Greta, ha smosso un po’ gli animi. Oggi la gente è più attenta, ma non quanto dovrebbe. Bisogna parlare molto di questi temi, perché si continua a morire. Ho fatto una fotografia in una fattoria di Taranto dove sono stati abbattuti 500 capi di bestiame, perché producevano latte alla diossina. È diventata una fattoria fantasma, così come la cittadina di Augusta in Sicilia. Bisogna interrompere questo disastro e anche impedire che le aziende lavorino in nero, perché poi non sanno come smaltire i rifiuti e quindi li sotterrano.

Come ha lavorato sulle foto?

«Alcune immagini sono così come le ho scattate. Altre sono state rielaborate. Per esempio, in quella con Dacia Maraini e Piera Degli Esposti a me serviva che queste due splendide signore, regine della nostra cultura, volassero su di un tappeto di libri, avulse da questa schifezza, intoccate. A mio avviso la cultura e la bellezza possono salvare l’umanità.

Lei è un’artista che usa tutti e cinque i sensi…

«Un artista è un esploratore che cerca di mettere a disposizione della gente e di se stesso le proprie capacità ed è libero di fare quel che vuole con i suoi talenti. Poi il pubblico decide se sono talenti validi o no. Non credo che un artista debba essere etichettato e circoscritto in un ambito. Se si ha la capacità di poter accedere a vari campi e sperimentare la propria sensibilità, il proprio sapere, la propria creatività, perché non farlo?

Cosa lega la Marisa Laurito di ieri e quella di oggi?

«Sicuramente la fantasia e la creatività, ma anche l’entusiasmo e la voglia di fare che non passano nonostante il tempo. Anche la voglia di dare non passa. Certamente c’è stata un’evoluzione. All’inizio della mia carriera ero più superficiale e appassionata al solo intrattenimento. Oggi invece mi sono legata a temi che ho toccato, anche senza dirlo molto. A Napoli, negli anni Novanta, ho aperto una scuola per ragazzi a rischio, che adesso è stata rilevata dal Comune. Mi sono sempre occupata di ambiente, di cibo sano, ho fatto delle mie battaglie, per esempio lo spot per l’affidamento familiare. Quella che sto affrontando ora è un’impresa che voglio portare avanti per molto tempo, perché credo fortemente che, se il nostro Paese e tutti i Paesi sconvolti da questa immondizia e dal malaffare non trovano una soluzione, lasceremo un mondo terribile agli altri.

·         Sandra Milo ed il Fisco.

Sandra e Alex, l’amore non ha età. Roberto Alessi per "Novella 2000" il 26 agosto 2019. Si conoscono già da qualche anno, poi un incontro a Venezia, a una cena al Casinò, dove per caso lei era seduta allo stesso tavolo, c’era anche il presidente della regione Veneto Luca Zaia, amico di lui. Quindi l’incontro de fuego, a marzo, per gli 86 anni di lei, e lì è successo qualcosa di diverso, che ha cambiato il loro rapporto da semplice conoscenza a qualcosa che merita un nome di maggior spessore. «Eravamo a casa della marchesa Maria Alberta Viviani per festeggiare lei, e lei, come sempre ci ha travolti con la sua intelligenza, con la sua ironia travolgente. Eravamo tutti presi da lei, stregati». Certamente lui più di altri. Chi parla è Alessandro Rorato, ha 49 anni, 37 in meno di lei, e lei è Sandra Milo. Alessandro, mi dicono che lei ha già regalato a Sandra un brillante di una certa importanza.

«È vero, è un presente e rappresenta un cuore, il grande cuore di Sandra Milo»

Ma lei si considera il fidanzato di Sandra?

«A questo forse dovrebbe rispondere anche lei».

Lei del resto è un personaggio pubblico, una signora del cinema, però anche lei, Alessandro, è un personaggio pubblico, ha un ristorante notissimo, Le Marcandole, a Salgareda, vicino a Treviso, ed è anche a capo, credo con sua sorella Roberta, di una linea di catering.

«È vero, ma, tornando a Sandra, il nostro è un rapporto che deve ancora crescere. Diciamo che tra noi sta iniziando qualcosa, che cosa lo sapremo nel tempo».

Anche Sandra, mi dice che siete solo all’inizio. Anche se lei è una donna che vola alto sui pregiudizi, non conosce la meschinità di certe “promettenti” ragazze di oggi.

«Non a caso mi piace da pazzi, e mi affascina. La Milo è una donna che ha fatto della libertà il suo credo, ma è anche una donna molto rispettosa della famiglia, dei suoi figli».

Lei è stato sposato, ha figli?

«No, sono single, non ho figli».

La domanda spinosa. Lei ha 49 anni, Sandra 86, 37 anni di meno.

«Sandra Milo ha la freschezza di una giovane donna».

Una volta ho incrociato Sandra Milo e mi ha detto: «Roberto, se solo avessi trent’anni di meno...». Ed io, cavaliere, le ho risposto: «Sandra, se non fossi sposato, tu mi andresti bene così». E lei: «Non hai capito: se TU avessi trent’anni di meno».

«Ecco, questo è Sandra: il piacere di una risata, ironica e divertente, come si può non amarla».SANDRA MILO: “PER PAGARE I MIEI DEBITI, Dagospia il 27 novembre 2019. Da I Lunatici Rai Radio2. Sandra Milo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La Milo ha parlato un po'di se: "In questo periodo sono molto serena. Ho un nuovo amore, una amicizia amorosa direi, siamo nella fase del corteggiamento, come quando si è ragazzi. Ci si corteggia, ma per il sesso si aspetta. Si riscoprono molte cose. Come il gusto di sentirsi belli. Si è belli solo quando qualcuno che ci piace ce lo fa notare. Certe volte quando faccio teatro mi arrivano fotografie di ragazzi seminudi che mi si propongono. Anche giovanissimi. Mi fanno un po' di paura, magari più che a me sono interessati alla mia borsa. Non penso all'idea di sposarmi, ho dormito in compagnia per tutta la vita, non è tanto che dormo da sola e devo dire che mi piace".

Sulla sua giovinezza: "Sono sempre corteggiatissima. Da ragazzina quando uscivo da scuola i ragazzini facevano a gara per aiutarmi a mettere il cappotto. Mi sono sposata a 15 anni. Ero felice di farlo perché non avevo mai conosciuto mio padre, vivevo con mia madre e mia nonna, pensavo di compensare col matrimonio la mancanza di un uomo in casa. Le ragazze venivano educate al fatto che il matrimonio era il loro massimo momento. L'uomo veniva considerato una sicurezza, una protezione. Le ragazze avevano questo credo. Pensavo anche io che l'uomo fosse la soluzione di tutto. Era la mentalità dell'epoca. Ma il matrimonio durò solo venti giorni. Rimasi incinta, ebbi un incidente, mio marito era violento, io ero una ragazzina. Sono voluta tornare da mia madre. Ho perso il bambino quando ero incinta da sei mesi, non sono mai più tornata con quell'uomo. Sono stata molto male. Poi sono guarita all'improvviso, piena di forza e di voglia. E nella mia vita è arrivato il cinema".

Sul cinema: "Ho lavorato con registi come Fellini, Rossellini, Riso. Quello che considero come il miglior lavoro fatto da me è 'La visita' di Antonio Pietrangeli. La considero la mia opera migliore".

Sul momento storico per le donne: "Secondo me le donne rivendicano giustamente dei diritti che per secoli gli sono stati negati, però lo fanno nella maniera sbagliata. Sono rancorose, piene di rabbia, vogliono sopraffare il maschio e lui non è abituato a questo genere di donna, non la ama. E' infelice lui ma è infelice anche lei perché non ottiene l'amore. E per le donne l'amore è importantissimo. E' una generazione molto infelice, molto sola, che si autocelebra inneggiando alla propria libertà, che però non è la cosa che realmente desidera".

Sul #metoo: "Certe dinamiche ci sono ancora, anche se più nascoste. Ormai c'è questa moda di accusare, di additare subito l'uomo. Io ho subito tantissime pressioni da ragazza. Era il tempo delle pressioni. L'uomo aveva il potere, la donna aveva solo il potere della bellezza e della seduzione, ma è un potere stressante, non un potere assoluto".

Sul celebre scherzo di cui fu vittima in diretta televisiva: "Fu scoperto che a fare quella telefonata era una donna che lavorava in Via del Corso. La telefonata arrivò da un ufficio dove lavoravano ventisei donne. Tutte negarono. Ho pensato che quello scherzo fu fatto da una donna che viveva all'oscuro, che mai è riuscita ad affacciarsi alle luci della ribalta e per una volta ha pensato di sentirsi potente, di scombinare l'ordine delle cose. Non sono mai riuscita ad odiarla, ho cercato di capire la sua voglia di essere protagonista per una volta...".

MI SONO DATA A UN UOMO". Matilde Andolfo per il 15 maggio 2019. «Per pagare i miei debiti, mi sono data a un uomo. Una persona gentile che ha saldato tutto». È la rivelazione choc di Sandra Milo a Storie italiane, il programma daytime di Eleonora Daniele su Rai1. Quasi in chiusura di trasmissione la Milo ha deciso di rivelare questo segreto di cui nessuno era a conoscenza. La situazione debitoria di Sandra Milo ha tenuto banco per mesi. L'attrice musa di Federico Fellini ha confessato davanti alle telecamere le sue difficoltà economiche, l'impossibilità ad affrontare i suoi debiti. Gli aiuti degli amici come Maurizio Costanzo che l'hanno aiutata ad andare avanti soprattutto dopo il blocco dei conti. Adesso grazie a un accordo con l'Agenzia delle Entrate possibile con l'introduzione della nuova legge, la situazione sembra migliorata. Tra gli ospiti di Storie Italiane Leopoldo Mastelloni e Floriana Secondi anche loro hanno vissuto momenti di difficoltà economiche.  Sandra Milo, dal canto suo, ha risposto in merito alla propria situazione debitoria: «ho sempre pagato le tasse». Poi le difficoltà degli ultimi mesi che l'hanno fatta precipitare in uno stato di profonda ansia e depressione: «ho anche pensato di togliermi la vita». Quindi la rivelazione «adesso la dico, non l'ho mai detto nessuno. Mi sono data a un uomo per saldare i debiti». In studio è calato il silenzio. La Daniele ha commentato: «ti sei pentita della scelta». «No, mai - è stata la risposta -  non mi sono mai pentita delle mie scelte. Ogni scelta è migliore dell'alternativa». «Ti senti giudicata?», ha chiesto la conduttrice infine. «No - ha detto Sandra Milo -, perché fino ad ora non  l'ho mai detto a nessuno». Domani la seconda parte del racconto a Storie italiane.

Verissimo, Sandra Milo schiacciata dal fisco: "In questo periodo ho pensato seriamente al suicidio", scrive il 06 aprile 2019 la di Redazione Tvzap. Nella puntata in onda il 6 aprile l’attrice racconta il suo dramma, la volontà di ritirarsi dalle scene e annuncia: “Magari questa è l’ultima intervista televisiva che rilascio”. “Potrei fare un gesto estremo. In questo periodo ho pensato seriamente al suicidio“. È la rivelazione shock che Sandra Milo fa a Verissimo nella puntata in onda sabato 6 aprile alle 16.00 su Canale 5, salvo poi dire, per amore del suo nipotino Flavio: “Sto scrivendo un libro che si intitola lettere a mio nipote. La vita è bellissima anche quando vuoi farla finita”. Una delle icone del nostro cinema italiano racconta tra le lacrime la sua situazione drammatica con il fisco: “Magari questa è l’ultima intervista televisiva che rilascio, voglio ritirarmi dalle scene, non ce la faccio più. Lo Stato mi ha chiesto 3 milioni di euro, poi, accorgendosi dell’errore è sceso a 850.000 euro, che sono comunque moltissimi soldi. Lavoro, lavoro ma non guadagno niente perché va tutto all’Agenzia delle Entrate. Mi hanno confiscato tutto”. Sandra Milo: “Mi sento vittima di un’ingiustizia”. Una situazione difficile che l’attrice ha tentato di tenere nascosta il più possibile: “Ho retto fino adesso perché non volevo che i miei figli sapessero di questa situazione, ma ora non ce la faccio più, non posso più lottare. Mi sento vittima di un’ingiustizia. Perché – aggiunge – il mio paese mi tratta così? Io non sono una criminale”. Sul come riesca a tirare avanti Sandra Milo confessa: “Mi hanno aiutato molti amici, come Costanzo, ma non possono continuare a farmi della beneficenza. Il suicidio potrebbe essere una scossa, un modo per cambiare le cose. C’è un sacco di gente che si è suicidata per una situazione come la mia”. A Silvia Toffanin, che cerca di persuaderla a non compiere un gesto così terribile, la musa di Fellini risponde con un filo di speranza: “La vita è bellissima anche quando desideri di morire, perché vuol dire che hai ancora un desiderio. Comunque, assolverò tutti gli impegni che ho preso e poi basta stare sulla ribalta. Voglio essere una donna qualsiasi, voglio fare un lavoro diverso“.

Il pubblico di Verissimo si alza in piedi per salutarla. E Sandra con un sorriso dice: “Viva la vita, arrivederci”.

·         Claudia Gerini: ho detto tanti no.

Claudia Gerini: ho detto tanti no. Sbagliato ripetere i ruoli. Pubblicato sabato, 22 giugno 2019 da Barbara Visentin su Corriere.it. Aveva solo 15 anni Claudia Gerini quando ha preso forma il suo amore, ricambiato, per il cinema: «È stato un innamoramento che si è costruito un pezzettino per volta e il set è stato la mia scuola. Ho imparato sbagliando, vivendo e recitando». Fra le tante lezioni da tenere in mente, ha raccontato ieri l’attrice romana, 47 anni, ospite della seconda giornata di «Fuoricinema Fuoriserie» a Milano, c’è l’importanza di non ripetersi: «Ho detto tanti no. Quando tendono a ripresentarti un ruolo che è andato bene bisogna da soli evitare di riproporsi. Bisogna imparare a dribblare. Io cerco di uscire dalla mia comfort zone ogni volta, anche perché altrimenti mi annoierei. Il bello è vivere tante vite e mettersi dentro a tante pelli diverse».  In conversazione con la giornalista del «Corriere della Sera» Candida Morvillo, Gerini ha passato in rassegna i tanti personaggi che l’hanno resa celebre e quelli a cui più è affezionata: «Porto nel cuore i tre film che ho fatto con Carlo Verdone. Ed è una soddisfazione quando mi dicono “‘o famo strano”, citando Viaggi di nozze, perché prima ero io che citavo Verdone». Un momento di svolta nella sua carriera, ha confessato, è stato il ruolo in Non ti muovere di Sergio Castellitto «dove ho potuto dimostrare che sapevo cimentarmi con un dramma, oltre che con ruoli brillanti». Decine di film e serie all’attivo, passando fra commedie, drammi e le sfide del cinema civile, Claudia Gerini è reduce dalle riprese di Hammamet di Gianni Amelio, sugli ultimi mesi di Bettino Craxi: «Un film necessario a questo Paese, che racconta uno degli ultimi grandi uomini politici. Lo tratta con delicatezza e profondità», ha anticipato. Se lavorare con Amelio è stato un sogno realizzato, la sua carriera passa imprescindibilmente anche dalle sue esperienze con Premi Oscar come Giuseppe Tornatore (in La sconosciuta) o Mel Gibson, nella Passione di Cristo. Al provino con il regista americano, ha raccontato, «mi ha chiesto se parlassi il latino. Io ho risposto “certo!” e finalmente ho capito a cosa mi era servito il liceo classico». Menzione speciale per Lina Wertmüller, prossimo Oscar alla Carriera, con cui Gerini ha recitato in Francesca e Nunziata: «È una regista che ha rappresentato la nostra storia e precorso i tempi. Meno male che c’è l’Academy perché il nostro Paese dimentica troppo. Andrebbero fatti tanti omaggi ai nostri Manfredi, Gassman, Magnani, Melato…». Madre di due figlie, Claudia Gerini sembra aver già trasmesso la sua passione alla maggiore, Rosa, di 15 anni, che ha iniziato a recitare in film e serie tv: «L’avevo iscritta a una scuola di teatro perché era molto timida, ma evidentemente c’è qualcosa nel Dna. È un’attrice molto diversa da me e scrive anche benissimo. Magari scriverà qualche ruolo per me». Guardando molto avanti, però, non esclude che un giorno vorrà dire basta: «Non credo continuerò a recitare per sempre. A un certo punto magari finirà la benzina e deciderò di smettere».

·         Stefani Sandrelli apre il cuore.

Stefania Sandrelli: «Ai miei nipoti scrivo ogni giorno su WhatsApp». Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Elvira Serra su Corriere.it.

Rocco? 

«È il mio compagno ideale». 

Francisco? 

«Un delinquente!». 

Elena? 

«È profonda». 

Diletta? 

«Ride sempre!». 

Nicole? 

«Una bambina dolcissima, un po’ viziatella, ma d’altra parte ha più bisogno di attenzioni». 

E poi c’è anche «Pablito», il primo figlio di Blas Roca-Rey, ex marito della sua primogenita Amanda. 

«L’ho visto il mese scorso, quando mia figlia è andata a Pistoia con Francisco per fare volontariato. Manteniamo ottimi rapporti: la madre da poco gli ha arredato casa, è molto generosa con lui: come me, è felice quando può piazzare qualcosa. Pensi che ho ancora in casa il letto dove sono nata... Mi spiace buttare via le cose e sono felice quando possono servire a qualcuno a cui voglio bene».

I suoi nipoti si approfittano di lei? 

«Tutti, tutti! È il ruolo di noi nonni. Che vuole, sono la mia vita...». Stefania Sandrelli, 73 anni, due figli (Amanda, frutto nel 1964 dell’amore con Gino Paoli, e Vito, nato nel 1974 dall’imprenditore romano Nicky Pende), 3 David di Donatello, 6 Nastri d’argento, Leone d’oro alla carriera, sul set ha ricoperto più volte il ruolo della nonna e un certo allenamento lo ha fatto in casa, con i suoi nipoti: Rocco, 21 anni, e Francisco, 15, che sono i due maschi di Amanda, ed Elena, 18, Diletta, 16, e Nicole, 5, le «ragazze» di Vito.

Che nonna è?

«Non sono “sbaciucchiona” o “smanacciona”. A me piace molto farli mangiare, farli dormire, dare il biberon quando erano piccoli. Li abbraccio, ma solo quando capisco che lo posso fare. E li sento tutti i giorni: se so che sono impegnati, magari con la scuola, mando solo dei messaggi su WhatsApp, anzi, in realtà mi aiuta Giovanni (Soldati, ndr) perché io non lo so fare».

Li ama allo stesso modo?

«Sto molto attenta a dare a tutti le stesse attenzioni e opportunità». 

Davvero nessuna preferenza?

«Mi emoziona ricordare quando è nato Rocco, perché era prematuro, è arrivato con un mese di anticipo. Ed eravamo molto preoccupati perché la precedente gravidanza di Amanda era andata male. Quando abbiamo sentito il suo pianto, abbiamo cominciato a piangere tutti». 

Rocco suona il pianoforte, come suo fratello Sergio, che ora non c’è più.

«Loro due trafficavano spesso insieme, mi sembra di vederli ancora... Mio nipote studia al Conservatorio di Siena per diventare direttore d’orchestra. Mi porta fuori, ai concerti jazz, è il compagno ideale».

Esce anche con Francisco?

«Ah, lui è un delinquente! È nel pieno dell’età del malessere. Ma è una meraviglia: tutto quello che fa, lo fa bene. Fa teatro e lo fa bene, disegna e lo fa bene, fa il prestigiatore e incanta tutti». 

Chi le somiglia di più?

«Le femmine, in particolare Elena, la più grande, ma forse è solo una questione di età. Con lei parliamo molto, ama andare in profondità. Quando ho girato A casa tutti bene c’era bisogno di una nipote che aveva la sua età, allora l’ho proposta a Gabriele Muccino, il regista. Lui però non se l’è sentita di prenderla, aveva paura...».

E Diletta ha ambizioni artistiche?

«Intanto ha la mia stessa ironia. Una volta, a Capodanno, andammo sul terrazzo condominiale a vedere le lanterne cinesi e i botti. Ce ne fu uno tremendo e mi arrivarono dei sassolini nell’orecchio. Allora mi portarono all’ospedale, mi fecero la Tac, infine bastò una manovra per liberare l’orecchio. Insomma, lo racconto perché quando Diletta entrò nella stanza si mise a ridere come una pazza, e io con lei».

Dove tiene le foto dei suoi nipoti?

«I loro disegni sono ovunque. Ma sul comodino della mia camera da letto c’è la foto di Vito, in camice e mascherina, che tiene tra le braccia Elena, dopo averla fatta nascere al Gemelli. È un medico molto coscienzioso».

Quando vi siete visti tutti insieme l’ultima volta?

«Il 5 giugno per il mio compleanno. Avevo detto che non volevo niente e mi hanno portato un fiorellino ciascuno. Non voglio che spendano dei soldi per me, sono l’ultima ruota del carro!».

Stefania Sandrelli: “Ho fatto un cinema davvero irripetibile”. Tommaso Martinelli il 23/11/2019 su Il Giornale Off. Con la sua intensa recitazione ha scritto tantissime pagine della storia del cinema italiano. Stefania Sandrelli, musa di registi del calibro di Monicelli, Scola, Bertolucci e molti altri, nonostante sia sulla cresta dell’onda da più di cinquant’anni, di recente non ha esitato a “staccare la spina”, sia pur momentaneamente: il perché lo svela a Off.

Stefania, ultimamente ha deciso di prendersi una pausa dai suoi numerosi impegni professionali…

«Effettivamente, ho deciso di prendermi un anno sabbatico per dedicarmi maggiormente a me stessa, alla mia famiglia, in particolare ai mei nipoti».

Ai giovani, in generale, cosa consiglia?

«Io continuo a rendermi conto che, oggi come oggi, i risultati più importanti provengono proprio dai giovani. Al finale della prima edizione del CineFuturaFest, per esempio, ho visto bellissimi cortometraggi interamente realizzati da studenti universitari e delle scuole superiori. Un consiglio? Continuare a studiare, perché è un privilegio».

Un bilancio della sua lunga carriera?

«Oggi sento di poter dire di aver fatto un cinema davvero irripetibile, collaborando con registi e colleghi davvero straordinari. Non lo dico per vantarmi, sia chiaro, non è un modo di fare che mi appartiene».

Nel corso della sua carriera c’è spazio per un episodio OFF?

«Ce ne sono stati tanti e ogni tanto me ne riaffiora uno in mente. Qualche giorno fa, per esempio, ero in pieno centro a Roma e ho fatto notare a mio marito che poco distanti dal punto in cui eravamo, tanti anni prima avevo girato una scena di quello che considero uno dei film più belli della storia del cinema italiano: C’eravamo tanto amati. Ricordo ancora me, che indossavo uno strano cappellino all’uscita di un cinema accompagnata da Nino Manfredi, dopo che i nostri personaggi avevano assistito alla visione di Strano interludio. E Manfredi che mi ripeteva: “Vorrei tanto offrire una pizza a una certa Luciana”, che era il nome del mio personaggio. Ed era come se entrambi fossimo entrati totalmente nei nostri personaggi».

Nel suo curriculum c’è anche molta televisione…

«In realtà, non ho più lavorato per il piccolo schermo da quando facevo parte del cast di Una grande famiglia, una serie formata da tre stagioni trasmesse da Rai Uno fino a qualche anno fa. E aggiungo che non mi dispiacerebbe tornare in televisione proprio con quella serie, visto che si tratta di un progetto in cui ogni attore aveva cercato di dare il proprio meglio. Lo farei anche per le tante persone che, ancora oggi, mi fermano per strada per chiedermi se e quando quella fiction tornerà in onda, visto che alla base della trama ci sarebbe un mistero da svelare. E francamente, non capisco perché non sia ancora stato svelato».

Dal futuro cosa si aspetta?

«Mi aspetto che, una volta per tutte, umanamente si riesca a cambiare. Ho sempre amato le persone semplici, così come ho sempre detestato l’ignoranza, che mi sembra infinita. E quest’ultima cosa non mi fa stare serena. Nonostante questo, però, continuo ad amare la mia vita e una delle più recenti conquiste è legata alla consapevolezza di essere una donna coraggiosa. Prima non lo ero, ma adesso ho scoperto di esserlo, grazie alla forza che ho saputo mettere nell’affrontare determinate situazioni».

Sandrelli, tre generazioni: storie di donne felici in una famiglia allargata. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 su Corriere.it da Teresa Ciabatti. Amanti, figli, mariti. Da Stefania ad Amanda e alla nipote Elena: 50 anni fa, inventò la famiglia allargata. Che ha funzionato benissimo. Amanda Sandrelli, la madre Stefania e la nipote Elena, 19 anni, figlia del secondogenito Vito Pende, nell’abitazione romana dell’attrice (foto Ada Masella)Tema: Descrivi la tua famiglia, svolgimento: «Ho sette nonni perché uno è morto» scrive Amanda. Le maestre chiamano la madre per dire che la bambina ha qualcosa che non va. In realtà la bambina è sincera, davvero ha sette nonni. Fine Anni Sessanta, Stefania Sandrelli realizza, o meglio inventa la famiglia allargata. Una famiglia che - sebbene amori finiti, e lontananze - ha funzionato benissimo. Talmente bene che è ancora punto di riferimento per l’intero nucleo: per Stefania, Amanda, Vito, per i figli di Amanda, Rocco e Fransisco, per le figlie di Vito, Elena, Diletta e Nicole. Oggi insieme, Stefania (73 anni, al cinema a ottobre con Brave ragazze di Michela Andreozzi), Amanda (54), Elena (19), raffigurano tre generazioni a confronto, nonché il passaggio di un patrimonio morale che include coraggio, prima di tutto coraggio, quello con cui ha vissuto Stefania: saranno intervistate a Il Tempo delle donne da Elvira Serra sabato 13 alla Triennale di Milano. Attraverso film come Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata, Io la conoscevo bene, per citarne alcuni, lei ha raccontato le battaglie civili dell’epoca. Raccontate e parallelamente vissute sulla sua pelle senza mai nascondersi. Stefania Sandrelli dunque non rappresenta solo il grande cinema, ma anche l’avanzamento della donna nella società. L’epoca moderna che con lei ha avuto inizio.

Consapevole di quanto le sue scelte siano state significative?

Stefania: «So che rifarei ogni cosa, con relative responsabilità».

Ha avuto Amanda da un uomo sposato, fuori dal matrimonio.

S: «E le ho voluto dare il mio cognome, una conquista anche quella».

Come incontra Gino Paoli?

S: «Avevo quindici anni, l’ho conosciuto a La Bussola, subito amore. Non sapevo che era sposato, lui non me l’aveva detto. A un certo punto andiamo a vivere insieme, e niente: nessuna telefonata di altre donne, nessuna cosa poco chiara. Impossibile sospettare».

Poi?

S: «Rimango incinta. Un giorno lui mi dice: “vado a votare”. Va a Genova, e nasce Giovanni (figlio di Gino Paoli e della moglie Anna, ndr), cosa che avrei saputo dopo. Giovanni e Amanda sono nati nello stesso anno».

Il momento in cui scopre che Gino è sposato?

S: «Me lo dice mia zia».

Reazione?

S: «Nessuna. Il nostro era un grande amore, mi sarei comportata nello stesso modo sapendo che era sposato».

Amanda: «Dal canto mio io ho sempre avuto la sensazione di essere frutto di un grande amore. Una sensazione bellissima».

Quell’amore poi finisce.

S: «Mi chiama mio fratello per dirmi che nostra madre sta male. Decido di tornare a Roma. Gino mi avvisa: “se vai, è finita”. Io vado, in verità non credendo che sarebbe finita. Finisce».

Rapporti tra Gino e la sua famiglia?

S: «Gino ce l’aveva un po’ con mia madre che non mi passava le sue telefonate. Per lei rimaneva un uomo sposato».

Molto dopo, dagli otto ai tredici anni, Amanda andrà a vivere dal padre, perché?

S: «Al tempo io ero sposata con Nicky ( Pende, marito della Sandrelli dopo la relazione con Gino Paoli, ndr). Vito, nostro figlio, era appena nato. Purtroppo io e Nicky litigavamo di continuo, volavano piatti. Capito che la situazione andava peggiorando, ho pensato ad Amanda. Aveva otto anni e i litigi avvenivano sotto i suoi occhi. Parlo con Gino, e insieme decidiamo di mandarla a Milano. Mi è costato parecchio. I miei figli li ho fatti per averli con me».

A: «Eppure io non mi sono mai sentita abbandonata. Questo perché mia madre è stata sincera, mi ha detto che c’era un problema, e che dovevamo trovare una soluzione. Ecco, la stessa sincerità che io cerco di avere oggi coi miei figli».

Stefania Sandrelli divorzia da Nicky Pende.

S: «Ho sposato Nicky per amore, e l’ho lasciato amandolo. Volevo il divorzio, ma all’epoca non c’era, e soprattutto Nicky non lo voleva. Gli ho dato tempo, altri due anni e mezzo, perché fosse pronto anche lui».

Come sono gli anni di Amanda a Milano?

A: «Ho vissuto con papà, sua moglie Anna, e mio fratello Giovanni con cui dividevo la camera: un letto a castello, lui sotto, io sopra, sempre avuto bisogno di aria e di cielo io».

La vita nella nuova famiglia?

A: «Non ero di certo una bambina facile, Anna è stata straordinaria. Per esempio: aveva creato un ripostiglio tutto mio con un mobiletto a tre cassetti dove tenere diari, pupazzi, braccialetti, tutti i miei segreti. Avere quei cassetti è stata parte della salvezza».

Un regalo di quel periodo di Stefania a Amanda?

S: «Un bambolottino capellone. Un portafortuna che avevo anch’io. Il mio coi capelli verdi, quello di Amanda coi capelli rossi».

A: «La foca di peluche con cui ho dormito per anni. Fino a quando non è arrivato un uomo. Sono passata dalla foca all’uomo in carne e ossa senza soluzione di continuità».

Al di là del distacco, possiamo comunque definire gli anni di Milano sereni?

S: «Un giorno mi telefona Anna: “Corri, è successo”, dice».

Successo cosa?

A: «Avevo un fidanzatino da otto mesi, e siccome non so dire bugie, a una domanda diretta di Anna, ero arrossita, iniziando a balbettare. Insomma, io e il mio fidanzato l’avevamo fatto. Va bene, forse era un po’ presto. Anna scoppia a piangere, e disperata mi fa: “adesso come lo dico a tua madre?” ».

Anche lei impaurita della reazione di sua madre?

A: «Sapevo che l’avrebbe presa bene. Abbiamo fatto un summit a Milano, presente il mio fidanzato. E sì, la più tranquilla era mamma. La più agitata Anna».

S: «Il fidanzato era così carino e gentile».

A: «Quel ragazzo che a distanza di trent’anni ho rincontrato per caso, e oggi è il mio compagno».

Stefania Sandrelli attrice. Lavora coi più grandi registi, recita nei film che faranno la storia del cinema, e a un certo punto decide di fare La chiave , perché?

S: «Il mio avvocato agente mi nascondeva la sceneggiatura. Diceva: “Stefania non fa queste cose”. Io quindi non sapevo nemmeno che esistesse. Dopo due anni il produttore, Giovanni Bertolucci, scavalca l’avvocato e mi dà direttamente il copione che leggo, e trovo bellissimo».

Lei ha 37 anni.

S: «Se fosse stato prima non l’avrei fatto. Prima sarebbe stata semplice esibizione, cosa che nella vita ho sempre evitato. A 37 anni aveva un significato diverso. La stessa regia con le inquadrature insisteva su un certo cedimento del corpo, un corpo non più giovane. Questo per me rispondeva a un disegno femminista».

Ovvero?

S: «Nel film la protagonista fa sfigurare gli uomini. Al tempo poi Frank Finlay era stato appena nominato baronetto. Era un gran divertimento umiliarlo. Inoltre grazie al film ho capito meglio la differenza tra uomo e donna».

Sarebbe?

S: «Gli uomini vogliono vedere, le donne immaginano».

Se le donne immaginano, valgono anche gli amori non corrisposti?

S: «A me è sempre piaciuto concludere».

La prima volta che figli e nipoti scoprono che Stefania Sandrelli è una star?

Elena: «A quattro anni, al cinema con mamma e papà. Prima del film, Avatar, c’è il trailer di un altro film, e compare sullo schermo nonna. Allora io, nel silenzio del cinema, urlo: “nonna!”».

A: «Nel mio caso è stato più faticoso gestire la fama di papà. Per strada fermavano molto più lui di lei. Ma essendo lui un timido, qualche volta risultava scorbutico. E io mi vergognavo, mi dispiaceva per quelle persone affettuose, avevo voglia di dire: “ci sono io, te lo faccio io il suo autografo, che lo so fare”».

La persona che oggi, alla vostra famiglia allargata, manca di più?

S: «Fin da bambina ho avuto un rapporto di allegra vicinanza ai morti. Andavo con mia madre al cimitero, portavo i fiori, cambiavo l’acqua. Non dimenticavo nessuno. Per me ci sono ancora tutti, a cominciare da mio padre. Da subito ho avuto un forte senso di lui. Il ricordo preciso della sua voce, il ricordo di lui che mi aspettava in fondo alle scale, e di me che scendevo veloce per spiccare un salto sugli ultimi gradini, e volare nelle sue braccia. Per questo ricordo tanto esatto, non ho mai cercato un padre nei miei compagni. Mai chiesto a un uomo di farmi da padre, almeno credo. Poi magari uno ha delle convinzioni, e invece».

A: «In realtà oggi, per tutti noi, l’assenza più grande è quella di Gari».

Chi è?

S: «Orfano di guerra, era il ragazzo di bottega della rosticceria di mio nonno. Viveva con noi».

A: «Poi con noi».

S: «Mio padre prima di morire ha voluto parlare con lui: “te li affido”, gli ha detto. Era la persona di cui più si fidava, e aveva ragione. Gari si è occupato di noi, di me, dei miei figli, dei miei nipoti. Dopo la morte di mio padre, prese talmente alla lettera quell’investitura che sposò mia madre. Ci trasferimmo nella zona Nord di Viareggio, via Lepanto, all’epoca era un trasferimento, e loro misero su un tavola calda. Sono stati insieme qualche anno, poi lei è morta».

A: «Gari stava per Garibaldi, da bambino faceva l’imitazione di Garibaldi. In realtà si chiamava Afelio, all’anagrafe avevano sbagliato a scrivere Ofelio. Ha vissuto a casa nostra fino alla fine. Quando stavo a Milano mi mancava mamma, ma di più Gari. Non ero abituata a vivere senza di lui».

Lo chiamava ogni giorno.

E: «Per me e mia sorella Diletta è stato un nonno vero».

Stefania Sandrelli nonna, invece?

S: «Ai miei nipoti, in particolare a Elena, ritaglio articoli di giornale, quelli di Michele Serra. In genere su un tema su cui abbiamo discusso, magari litigato. Il sottotesto è: “lo vedi? avevo ragione io, e se lo dice anche Serra”».

A: «Mamma è così, manda in continuazione articoli e cibo».

E: «All’uscita di scuola, a parte urlare “amore”, con tutti che si giravano, mi portava il pranzo. Polpette e spinaci nei vari contenitori, che ci mettevamo a mangiare in macchina».

A: «Diciamo che è una mamma e una nonna molto presente».

E: «Se a scuola mi squillava il telefono, sapevo che era lei. Rispondevo, e dall’altra parte: “dove sei?” E io: “nonna, dove vuoi che sia?”».

A: «La presenza di mia madre è stata fondamentale nel periodo della separazione da mio marito ( Blas Roca Rey, ndr). Mi è stata vicina, anche se a volte ho dovuto fermarla. L’ho presa, e le ho detto: “mamma, ti ricordi quello che hai fatto tu per noi?”. Ho dovuto ricordarle: “questo è il padre dei miei figli”. Insomma, tanto è stata lucida per se stessa, quanto non lo è stata con me, troppo schierata».

Il messaggio, l’eredità più importante trasmessa da Stefania Sandrelli?

A: «L’esempio. Non è quello che dici ai figli, ma quello che fai vedere».

E: «Io e nonna facciamo delle cose insieme, per esempio guardiamo la luna. Se siamo lontane e c’è la luna piena, lei mi chiama per dirmi che mi pensa. D’estate cerchiamo gli occhi di Santa Lucia, le conchiglie, lei è fissata, dice che portano fortuna. Stiamo le ore a cercare sotto il sole, lei col suo cappello. Qualche anno fa mi ha fatto una collanina di conchiglie, forse è questo l’oggetto che più mi fa pensare a lei, il regalo che più rappresenta nonna».

STEFANIA SANDRELLI APRE IL CUORE. Enrico Caiano per ''Liberi Tutti - Corriere della Sera'' il 7 aprile 2019. Ragazza sognante e maliziosa: quel suo piedino in bianco e nero che in Divorzio all’italiana già stuzzica il marinaio della barca, mentre la bocca ancora bacia il cugino barone Fefé che per averla si è macchiato di uxoricidio, è già entrato nella storia del cinema e del costume italiani. Poi, donna sofferente e consapevole. Madre esuberante. Infine moglie innamorata e tenera nonna. È stata tutto questo, Stefania Sandrelli, sul grande e piccolo schermo. Ed è stata tutto questo anche nella vita. In momenti diversi e nello stesso istante: è ragazzina, donna, madre, moglie e nonna.

Stefania, a 72 anni, può dire che la sua vita è il cinema e il cinema è la sua vita?

«Non credo smetterò mai con il cinema. Quando sarà succederà per forza maggiore. Un giornalista geniale mi definì il termometro del cinema italiano. È così! Ho sempre fatto di necessità virtù: mi sono accontentata dell’intuito nella lettura delle sceneggiature. Ma alla fine il cinema è venuto come lo volevo io. Mi sono fidata del mio istinto e i conti tornavano. Poi ho avuto la fortuna di imbattermi in eventi sociali davvero rari tutti insieme: divorzio, delitto d’onore, femminismo...».

L’istinto per i ruoli lo ha avuto da subito: era minorenne quando ha fatto «Divorzio all’italiana». 

«Non sono presuntuosa e se lo dico è perché mi sono guardata indietro e l’ho verificato: ero pronta. Certo, non avevo la tecnica e gli strilli del regista, il grande Pietro Germi, ancora me li ricordo: ogni tanto me ne andavo in quei bellissimi vicoletti siciliani a mangiare il gelato o a comprare catenine e anellini. Non avevo ancora il senso del lavoro. Però ero estremamente preparata come spettatrice e poi grazie al mio fratellone Sergio, maggiore di 7 anni, sapevo tutto del cinema: il montaggio, il doppiaggio...».

A proposito: nei primi film lei è stata doppiata. 

«Purtroppo è vero. Ma per i film di Germi non poteva essere altrimenti: a fare la sicula non ero pronta, in altri invece ero io a non volermi doppiare perché ero una mascalzona... Io, finito il film, dovevo andare da Gino Paoli, oppure... Insomma c’avevo da fa’ e anche il doppiaggio, beh no!».

Con suo fratello facevate veri e propri film in 8 millimetri. Li ha ancora? 

«Ho giusto un Dracula il vampiro tutto mezzo smangiucchiato. Facevamo sul serio, veri film con la troupe dei nostri amici. Io ero sempre una delle interpreti. Sergio era proprio un malato di cinema. Mi ha fatto da papà, assolutamente (il padre di Stefania morì quando lei aveva 8 anni; ndr). Lui era il mio babbo ed io la sua mamma. C’era un rapporto davvero molto affettuoso e forte. È mancato da 5 anni ma non passa mica mai. Abbiamo vissuto una bellissima vita a Viareggio. Finché Sergio andò a Firenze a studiare come concertista, con molti sacrifici di mamma, che era vedova e doveva lavorare».

Ma sua madre di quei sacrifici è stata ripagata. 

«A denti stretti ma era molto orgogliosa di me. Nel suo dialetto pistoiese mi diceva O’ Stefanina ma tu se’ proprio sicura che tu vo’ fare l’attrice? Perché non è che ci guadagnassi a fare i primi film. Poverina. Era molto vivace e volitiva. Piena di amiche, giocava a carte... scala 40 e ramino, non certo poker. Molti dei miei amici venivano da me ma per trovare lei, perché era molto piacevole e ridanciana».

Il film più importante di Stefania Sandrelli? 

«Partiamo da un presupposto: la cosa fondamentale è partecipare a un bel film, tanto amo il cinema. Sono disposta a tutto sul set, anche a battere il ciak. Tolgo i fili dai vestiti, spolvero, faccio, brigo, cerco di rendermi utile. Però devo dire che Io la conoscevo bene è un film irripetibile, uno di quelli che capitano una volta nella vita. Sì, è forse il film più rappresentativo mio: questo ritratto così bello e dolente di Adriana, giovane donna disarmata e candida».

E l’ultimo in ordine di tempo come sarà? In questi giorni sta girando a Napoli un’opera prima tratta dal romanzo di Lorenzo Marone La tristezza ha il sonno leggero, regia di Marco Mario De Notaris. 

«Sono molto contenta di dare il mio contributo a una prima regia, a una persona che stimo e che credo abbia scritto un’ottima sceneggiatura. Il mio personaggio è particolare: Renata Ferrara, che ha fatto politica nella Dc. Siamo a fine anni 80. La chiamano tutti “il dittatore”. Anche i figli e i figli acquisiti. Non è certo un personaggio molto positivo. Una madre che pensa più a sé che agli altri».

Un ritorno al set che arriva subito dopo un grande dolore personale, la morte improvvisa del suo ex marito Nicky Pende, da cui ha avuto Vito, suo secondo figlio. Un’unione burrascosa durata appena 4 anni. 

«Lo sposai per amore, sapeva che mi fidavo di lui in tutto, certo che sarebbe stato un bravo medico, un bravo marito e un bravo padre. Ma la vita non va mai tutta dritta...».

Cosa andò storto? 

«Nicky era estremamente corretto ma un po’ Dottor Jekyll e Mister Hyde. Aveva probabilmente dei problemi caratteriali che non potevo conoscere prima delle nozze. Quando ci siamo lasciati però mi sono sentita come nuda in una foresta, sola e di notte. Ero veramente disperata».

Sente di aver avuto delle colpe? 

«No. Ho cercato di fare il possibile. Nel momento in cui mi sono accorta che non poteva andare avanti, d’accordo con Gino Paoli decisi di mandare a studiare la nostra Amanda a Milano. È stata una rinuncia terribile, perché i figli li ho fatti per averli con me. Nel momento in cui Amanda se n’è andata — giustamente perché litigavamo un giorno sì e l’altro pure — io sapevo che avrei divorziato. Anche se all’epoca il divorzio ancora non c’era ed è stato molto tosto per me. Nicky non voleva e quindi gli ho dato tempo, molto più del necessario. Almeno due anni e mezzo. Perché fosse pronto anche lui. Ma la situazione era al limite».

Le pesa di non essersi riconciliata in tempo con lui?

«La riconciliazione non c’è stata ma le motivazioni lui le conosceva bene. Non è che io gli ho tolto il saluto: è lui che ha fatto in modo di rimanere solo. Mi dispiace molto perché è davvero morto solo, solo, solo. E questa è la cosa che più mi fa male e il dolore lo sentirò ancora per molto tempo. D’altronde abbiamo avuto anche una bellissima vita insieme e cerco di ricordarmi questa. Comunque sia, è importante che suo figlio si sia riappacificato con lui».

Racconti... 

«Vito è una bella persona, non perché sia mio figlio. Essendo di natura molto buona andava in crisi per come lo trattava Nicky. A un certo punto ha deciso di allontanarsi da lui: “Se per mio padre non conto nulla, allora ciao e ci vedremo quando sarà”. Il giorno del funerale guardavo quella bara e non potevo pensare che una persona così vitale, che ho amato così tanto e con cui ho riso da pazzi potesse essere improvvisamente lì. Ma poi ho sentito il meraviglioso discorso a braccio di mio figlio, che proprio non mi aspettavo. Ed è stato come una magia che ha chiuso il cerchio. Non dico che fossi felice, ma serena, pacificata, sì».

La morte improvvisa vi ha scossi? 

«Nessuno ci ha avvertito, sa? L’ospedale ha preteso l’autopsia perché anche loro non si capacitavano... È morto per un problema al sangue. Gli hanno chiesto: “Chiamiamo suo figlio che è medico?”. E lui: “No, non abbiamo buoni rapporti”. Le pare che per una questione di privacy il medico non ha potuto avvertire Vito, il figlio del paziente che poi il giorno dopo è morto? Una follia. Altre persone potevano chiamare e non l’hanno fatto. Non ho parole».

Suo figlio è medico come il padre. 

«È chirurgo laparoscopico, molto stimato e bravo. Ha tre figlie femmine, adora il suo lavoro, non si tira mai indietro e fa guardie su guardie».

Sua figlia Amanda, attrice, l’ha avuta con Gino Paoli a 18 anni: è più figlia o sorella minore? 

«Amanda è una persona che... se io ho un problema di qualsiasi tipo chiamo lei. È più di una sorella. Ma se l’è guadagnato sul campo questo. È bello il rapporto che c’è tra lei e Vito. È molto forte e mi dà sostegno».

Le manca un terzo figlio, quello che avrebbe suggellato l’unione di oltre 35 anni col suo compagno Giovanni Soldati? 

«Mi è mancato per un periodo. Ma mi dispiaceva più per lui che per me. Poi invece mi sono consolata perché ho capito che Giovanni è più idoneo con i figli degli altri. È stato bravissimo con i miei ma... io mi sento un pochino anche la sua mamma. Un genitore deve cercare di non perdere la parte infantile però deve essere anche adulto. E lui questo non ce l’ha tanto... Però mi piace talmente così com’è! Mia cugina, che a volte chiamo un po’ disperata mi interrompe e dice “Stefania, te lo sei scelto così, lo ami per come è e te lo tieni così”. Giovanni è una bella persona, ha dedicato tutta la vita a me e gliene sono molto grata. Abbiamo una grande confidenza, forse la cosa più importante».

Invece del sesso ha detto che dopo i 70 ci si può anche rinunciare. Vero? 

«L’importante dopo i 70 è poterlo fare quando voglio. Anche facendo passare un bel po’ di tempo. Però è bene sapere che se vogliamo c’è. E comunque quando uno ha la possibilità di darsi un bacio d’amore... ma che vuoi di più da Dio!».

Non le mancano certo nipoti e nipotini: ne ha 5! 

«Sono uno diverso dall’altro, cinque creature meravigliose. Ho passato con loro un Natale favoloso: mio figlio il 25 ha lavorato e io mi sono pappata tutti i nipoti nel mio grande appartamento romano. Quando posso cerco di coinvolgere i due di mia figlia portandoli alle mostre. Sono riuscita a portarci anche Francisco, il 14enne. Sulla cultura fa un po’ il superiore. Io gli dico sempre che ho fatto la terza commerciale perché ai miei tempi se eri una femmina quando eri stenografa o dattilografa era grasso che colava. Però per me poi è stato tremendo non continuare a studiare. Ho capito che la cultura, l’arte, sono tutto».

Da tempo si sta dedicando all’arte del vino: con il suo compagno Giovanni Soldati e l’imprenditore Sandro Bottega ha firmato il Chianti Acino d’Oro — Gallo Nero che ha vinto premi internazionali e si vende da Stoccolma a Singapore. 

«Vero e mi piace. Adoro la campagna, i miei sensi si accendono, diventano molto alleprati. Ma ritirarmi lì no. Amo Roma, un vero colpo di fulmine. Sa, io soffro di colpi di fulmine... Mi spiace sia ridotta così. Però c’è sempre la speranza di vedere uno spettacolo teatrale, un concerto. E le mostre: Pollock, Zerocalcare».

C’è chi ha detto che Morandi sta alla musica leggera come Sandrelli sta al cinema. È così? 

«Gianni ne ha fatta di strada. È molto caro, una bella figura di italiano generoso e talentuoso che... ancora gliela scrocca! Come me? Beh, grazie».

·         Max Pezzali e gli 8-8-3.

Max Pezzali: il mio lungo incredibile viaggio dagli 883 a San Siro. In attesa del concerto evento della prossima estate, Max parla del nuovo singolo dedicato al caos e alla grande bellezza di Roma. Gianni Poglio il 12 dicembre 2019 su Panorama. Lo scherzo dell’anno gliel’ha fatto Fiorello spoilerando su Twitter la locandina del suo primo concerto nella Scala del calcio. San Siro canta Max andrà in scena il 10 luglio 2020 e sarà la celebrazione di note e strofe che sono impresse nella memoria collettiva, cronache di vita reale in formato canzone. “Se penso agli inizi con gli 883…” racconta Max a Panorama, “mi vengono i brividi. Il primo contratto lo firmammo con una società che si occupava solo di edizioni. Avevamo recuperato l’indirizzo sulle Pagine Gialle, ma non avevano capito che non si trattava di una casa discografica. Così alla nostra domanda: ‘quando incidiamo un album?’ ci risposero che loro non si occupavano di dischi. Eravamo degli absolute beginners straordinariamente naif, facevamo i fattorini per comprare i sintetizzatori di nuova generazione…”. Intrise da sempre di storie di gente comune, le canzoni di Max sono nel corso dei decenni diventate un genere musicale, qualcosa di peculiare che prima di lui non esisteva: “Quando ho iniziato a comporre non andava più di moda l’impegno cantautorale e i testi delle canzoni pop parlavano di amori eterei, quasi astratti. In mezzo c’ero io con la mia attitudine ad andare dritto al punto, a scrivere testi che sono immagini. Allora, era considerato un azzardo, qualcosa di poco poetico ed ispirato” ricorda. Tra i tanti personaggi che popolano i suoi brani ce n’è uno che non se n’è mai andato, che è sempre presente anche quando non viene espressamente citato. “Si chiama Cisco, lo conosco da quarant’anni ed è un’amico estremamente prezioso perché vede la vita dal punto di vista di uno che lavora in fabbrica da quando è ragazzino. Non è un caso che l’abbia menzionato in tre dei miei pezzi più noti: La dura legge del gol, Rotta per casa di Dio e Sempre noi. Cisco è il mio personale reality check, una sorta di alter ego, di coscienza critica. Ci scambiamo i messaggi quasi tutti i giorni… Sa sempre come come farmi tornare con i piedi per terra”. Lo stile Pezzali nel corso degli anni ha fatto scuola e, a voler ben vedere, qualcosa della sua attitudine si trova persino nella trap, il genere dei riferimento degli adolescenti di oggi. “Tenuto conto del gap generazionale e del fatto che  ho cominciato trent’anni fa, è assolutamente vero che anche la trap parla in maniera diretta di vita reale e lo fa utilizzando basi musicali che esaltano la voce e i testi. In questo vedo similitudini con gli 883, che se fossero nati oggi, non sarebbero una band ma una start up. Nel music business moderno non basta scrivere canzoni, devi essere un videomaker o avere un amico che lo è, devi saper gestire la comunicazione sui social come se fosse un asset industriale, tenere conto delle caratteristiche e dei tempi delle piattaforme streaming… Insomma, la logica è quella del ‘do it yourself’, dell’essere imprenditori di se stessi”. Nel suo personale viaggio dentro i confini della realtà, Max ha avuto di recente un incontro ravvicinato con le strade, gli scorci magici e le tangenziali della Capitale. Lo ha fatto con uno dei pezzi meglio riusciti della sua carriera, In questa città, fotografia nitida e senza fronzoli di quell’inestricabile mix di caos, degrado, umanità e bellezza che è Roma. Una canzone che si muove nella stessa scia dei grandi affreschi dedicati alla città eterna, come Porta Portese di Claudio Baglioni, Roma Capoccia di Antonello Venditti o Roma di notte dei Tiromancino con Frankie Hi Nrg. “Ho scritto un testo fatto di flash ed istantanee per raccontare l’universo romano visto con gli occhi di uno che viene da Pavia. Ci vado spesso a Roma perché lì abita mio figlio e, anche io, come tutti, pago il prezzo della disorganizzazione, di una rete metropolitana quasi inesistente, della viabilità selvaggia. In alcuni incroci rispettare alla lettera la segnaletica e i semafori significa rimanere immobili per una settimana…” spiega. “Ma Roma ha una caratteristica unica al mondo: quando stai per esplodere e non ne puoi più, ti premia con un tramonto indimenticabile o con l’umanità di una battuta fulminante, fatta da un tizio incontrato casualmente per strada o nel mezzo di un ingorgo. Ecco, Roma ti può fare impazzire, mai poi riesce sempre e comunque a farsi perdonare”. 

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. Ci sono i cantanti. E poi ci sono i cantanti che diventano la voce di una generazione. Quelli di cui parte una canzone e, se hai una certa età, ti ritrovi matematicamente a cantarla. Max Pezzali è l' incarnazione di questo teorema, vedi alla voce anni Novanta. Il 10 luglio suonerà a San Siro e il primo a non aspettarselo era lui. «Questa vicenda mi ha colto impreparato. Sono sotto choc».

In che senso?

«Accarezzavo questo sogno ma senza crederci. San Siro per me rappresenta il punto di arrivo: prima pensavo che i tempi non fossero maturi, poi che non lo fossero più».

Poi, cosa è successo?

«Che mi han detto: ci proviamo? E ancora non ci credevo. È partita la prevendita e sono stato scioccato. Un' adesione di massa impensabile».

Non si rendeva conto di avere questo seguito?

«Eh, 30 anni sembrano volati. Non hai sempre un riscontro immediato, ma ora realizzo che qualcosa di buono con le canzoni l' ho fatto. Tendo a minimizzare. Mia madre ha origini contadine e mi ha insegnato quando c' è un' annata buona che magari quella dopo viene la carestia».

La sua cautela c' entra poi col fatto che un certo pop non era considerato nobile?

«Senza dubbio. Sono cresciuto con l' idea della costruzione canzone, il ritornello che deve tirare dentro. Anche quando era considerato deteriore, non di serie A. Oggi le carte si sono rimescolate. Prima c' era del pregiudizio».

E come lo ha vissuto?

«Ho accettato le critiche, spesso capendole. Ma la conclusione era sempre che quella era la mia natura. Non saprei fare diversamente. Comunque si giudichi quello che faccio, è autentico».

Perché c' è questa ondata di nostalgia per gli anni '90?

«Per giudicare un periodo musicale bisogna sempre aspettare. C' era un consumo meno compulsivo: una hit era una hit anche per sei mesi».

Le è capitato spesso, no?

«Sì. Mi fa piacere quando oggi giovani artisti si avvicinano a me con un rispetto immenso che contraccambio. Chi inizia a fare musica adesso deve avere capacità amplificate rispetto alla mia epoca. Ma loro avvertono che quelle canzoni, magari poco raffinate o scintillanti, erano vere».

Eppure credeva che fosse troppo tardi per San Siro.

«È il punto più alto di una carriera: lo devi raggiungere nel momento di maggiore contemporaneità. Per riempirlo devi convincere tanta gente: è più facile lo faccia un artista all' apice di uno esploso 25 anni fa. Invece...».

Alcuni momenti decisivi della sua carriera?

«Uno legato ad Hanno ucciso l' uomo ragno: con Mauro Repetto avevamo scritto la musica ma il testo non veniva. Dopo giorni ci siamo detti basta: ci sono canzoni destinate a non nascere. E siamo usciti a mangiare un panino piccante, pancetta e tabasco. Per me è stato quel panino, ore dopo, a portarmi al testo. Serviva uno choc emotivo per uscire dall' ovvio, me l' ha dato il tabasco.Mi ero detto: o è la peggiore canzone mai scritta o è lei.Senza il peso della digestione non sarebbe venuta».

Repetto sarà a San Siro?

«Vorrei tanto. Da giorni non riesco a non pensare a noi, 30 anni fa. La prima volta siamo andati a San Siro assieme: nel '90, per il Mondiale. Eravamo due studenti squattrinati in cerca di una identità: ritrovarsi lì 30 anni dopo sarebbe il coronamento di un sogno».

Ernesto Assante per roma.repubblica.it l'11 novembre 2019. La copertina l’ha disegnata Zerocalcare e c’è Pezzali con il suo cappello in mezzo a una folla di romani di ogni tipo, età e stile. La canzone “In questa città” è dedicata a Roma, una grande dichiarazione d’amore in cui Pezzali mette insieme cinghiali e Pariolini, il tappo sulla tangenziale e il derby, il meglio e il peggio di una Capitale «che riesce sempre a farsi perdonare con la sua umanità e la sua magnificenza». La nuova canzone è un altro pezzo del mosaico che Pezzali sta componendo in direzione della realizzazione di un album.

 Pezzali, cosa l’ha spinta a scriverla?

"In una delle infinite, innumerevoli volte in cui ho vestito i panni del pendolare tra Roma e una piccola realtà di provincia, perché ho mio figlio nella Capitale, mi sono scoperto a chiedermi quale fosse il motivo per cui amo questa città, perché ci ritorno sempre al di là della necessità del rapporto con mio figlio. E da questa domanda è nata tutta una serie di pensieri, un brainstorming con me stesso, una di quelle situazioni in cui risparmi i soldi dell’analista e ti autoanalizzi scrivendo una canzone. E questa autoanalisi mi ha aiutato a capire che c’è una sorta di sotto-testo in tutto quello che accade nella città, che ti permette di non abbandonarla mai".

Cioè?

"Cioè, quando arrivi al punto di saturazione, al “cacchio non ce la faccio più”, Roma ha la capacità in un attimo di mostrarsi in tutta la sua grandezza, che non è solo la “grande bellezza” estetica, ma è una vicinanza umana, una sorta di rete dei sentimenti condivisi con le persone che sono vicine a te. Voglio dire che quell’attimo arriva con una persona che sta prendendo il caffè vicino a te, o con uno sconosciuto che è bloccato con te nel traffico del Lungotevere, in un tessuto umano che quando pensi che sia sfilacciato, in realtà, si ricollega. Semplicemente mi sono reso conto che quando non sono a Roma tutto questo mi manca".

“In questa città” è un modo di celebrare la grandezza della musica pop, parlare di cose serie, importanti, vere, con leggerezza e sentimento, tutto concentrato in tre minuti…

"Mettere tutto insieme in tre minuti era difficile, vista la vastità dei temi e degli argomenti, emozioni e sentimenti. Allora ho organizzato tutto in una serie di immagini flash, per raccontare la città in tempo reale, sulla base della mia esperienza, immagini che descrivessero la gioia ma anche la fatica di vivere a Roma. I romani lo sanno, quanto è difficile fare più di una cosa in mezza giornata, tra imprevisti che bloccano tutta la città e la normalità del caos".

Certo è curioso che a celebrare Roma oggi sia uno di Pavia…

"Ma credo che questa cosa sia più evidente a noi che veniamo da fuori. I romani hanno la tendenza a difendere la propria città per appartenenza, senza capirne la forza, o a denigrarla senza se e senza ma. Non riescono a trovare un sintesi, Roma non si tocca o Roma è una merda. Per uno che viene da fuori è più facile vedere la verità, senza pregiudizi positivi o negativi".

È una grande dichiarazione d’amore, comunque.

"È una sorta di operazione a cuore aperto. Ed è una dichiarazione di amore maturo: passati tanti anni in una relazione, quando riesci a trovare ancora dentro al tuo cuore delle parole che non sono estreme e iperboliche, ebbene sono più sincere. Io mi sono reso conto di non potere fare a meno dell’emozione che mi dà questa città. Se siamo riusciti ad andare avanti insieme io e lei senza che nessuno dei due sia morto nel percorso, vuol dire che quello che provo per lei è vero. E che è destinato a durare perché è passato attraverso vicissitudini umane, personali, collettive, difficoltà oggettive, lavori in corso, cambiamenti di giunte… Se dopo tutto rimane questa cosa, allora è amore vero".

TESTO

Era meglio se scendevo prima a Tiburtina

siamo in mille e i taxi forse solo una decina

però poi trovato il tappo sulla tangenziale

a Prati fiscali ci si può pure invecchiare

e invece qui ci si taglia dentro da Villa Borghese

il taxista che mi chiede “Lei è milanese?”

certo che anche voi dell’Inter state messi male

a noi ci resta solo il Derby della capitale

però Tomba di Nerone sta proprio in culandia

“come ci è finito là, mi scusi la domanda”

gli rispondo solamente mi ci porta il cuore

sceglie tutto gioie, lacrime e pure il quartiere

chissà se stasera incontro il mio amico Cinghiale

che non è un soprannome, è proprio l’animale

che mi sta simpatico perché ha lo sguardo triste

ma mi fa le feste

In questa città

c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo

anche quando vorrei dare un calcio a tutto

sa farsi bella e presentarsi col vestito buono

e sussurrarmi nell’orecchio che si aggiusterà

se no anche Sticazzi che se non passerà

che se non passerà

Roma nord, Roma sud, Roma ovest est

qui si vive in macchina come a Los Angeles

si capisce sei del nord che guidi da sfigato

mentre il fiume scorre lento tra i campi di paddle

gli SH fanno a gara con le macchinetta

Suv di cinque metri in strade sempre troppo strette

meglio starsene rinchiusi nel proprio quartiere

tranne il sabato che andiamo tutti a pranzo al mare

c’ho un amico che sta all’EUR però arrivarci è un viaggio

c’ho un amico ha un bar in centro ma non c’è parcheggio

e ne ho pure uno a Trastevere ma è il varco attivo

ma mi capisce e quando arrivo, arrivo 

Pariolini alternativi, coatti ripuliti

gente che lavora duro e sola ben vestiti

tre milioni di persone in questo frullatore

che non puoi lasciare

In questa città

c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo

anche quando vorrei dare un calcio a tutto

sa farsi bella e presentarsi col vestito buono

e sussurrarmi nell’orecchio che si aggiusterà

se no anche Sticazzi che se non passerà

tu vieni su al Gianicolo a guardare la città

Quando uccisero la Prima Repubblica (senza manette). Il Giornale, Mercoledì 24/07/2019. Massì, dai, sarà il solito brano da idioti che dura tre mesi e poi ciao. Quando è uscito Hanno ucciso l'Uomo Ragno, le aspettative della critica erano pari a zero. In compenso quelle del pubblico erano sottozero perché nessuno li conosceva, questi 883, mentre le folate del grunge alla Nirvana stavano demolendo gli anni Ottanta e i paninari sembravano già reperti storici. Poi, ovvio, il brano è diventato un tormentone e oggi lo conoscono a memoria anche quelli che allora per carità, ma che cos'è sta robina qua. Gli 883 erano due ragazzi pavesi che in realtà amavano il rock e il rap e immaginavano di finire dietro una scrivania dal lunedì al venerdì. Già, così si immaginavano Max Pezzali e Mauro Repetto. E invece, guarda il gioco delle coincidenze, Hanno ucciso l'Uomo Ragno è diventata l'involontaria colonna sonora di una delle nostre fasi più turbolente del Dopoguerra, incastrandosi quasi alla perfezione nel marasma istituzionale e sociale dei primi anni Novanta. «Solita notte da lupi nel Bronx, nel locale stanno suonando un blues degli Stones». E vai con un suono di sirene. Hanno ucciso l'Uomo Ragno è stato pubblicato il 10 febbraio 1992, un giorno qualunque di un mese qualunque in concomitanza del Festival di Sanremo. Però - e qui la malizia del caso è perfida - sette giorni dopo, ossia il 17 febbraio, la polizia arresta Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio a Milano, la casa di riposo dei cosiddetti «meno abbienti». In tasca aveva una bustarella da sette milioni di lire e la maledizione di diventare il primo politico a battezzare Tangentopoli. Mario Chiesa non è altro che «un mariuolo» per Bettino Craxi ma diventa subito il bersaglio di quelli che, se ci fossero stati i social, sarebbero stati chiamati «haters». È il tappo che salta dalla magnum della corruzione. Antonio Di Pietro diventa il Robespierre della rivoluzione di Mani Pulite, mentre Francesco Saverio Borrelli gestiva il «club dei Giacobini» che per qualcuno stava realizzando un colpo di Stato destinato a stravolgere completamente i vertici istituzionali e il tessuto politico italiano. «Il guercio entra di corsa con una novità, dritta sicura si mormora che i cannoni hanno fatto bang». Per carità, il tormentone degli 883 non c'entra nulla con Tangentopoli, è stato scritto prima di qualsiasi manetta, così come non c'entra nulla con i lutti disastrosi e indimenticabili di quell'anno, gli assassinii di Falcone e Borsellino e delle loro scorte, tra maggio e luglio. «Il brano è stato scritto molto tempo prima delle stragi di mafia» ha confermato Max Pezzali sganciandosi per l'ennesima volta da qualsiasi coinvolgimento «impegnato». Non a caso, anche per questo gli 883 sono diventati in tempo quasi reale il bersaglio preferito dei puristi del pop, dei soliti tromboni per i quali una canzone non ha senso a meno che non sia impegnata. La leggerezza, si sa, subisce sempre giudizi pesanti. Però i brani che resistono per decenni sono spesso quelli che, anche involontariamente, intercettano lo zeitgeist, lo spirito del tempo, la sensazione spesso ancora impercettibile di essere alla vigilia di un cambiamento. «L'Uomo Ragno rappresentava la purezza adolescenziale ammazzata dal mondo degli adulti» ha spiegato Pezzali, uno che, molto prima di Twitter, ha avuto il dono della sintesi. «Hanno ucciso l'Uomo Ragno chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità». Nel 1992 senza dubbio è stata ammazzata anche la Prima Repubblica, o magari è morta di morte naturale, e mentre il brano iniziava lentamente a farsi luce in classifica, le manette iniziavano a tintinnare. Tanto per capirci, Max Pezzali ha raccontato che Hanno ucciso l'Uomo Ragno è nato quasi per caso dopo «un panino piccante pancetta e tabasco». «Il testo non veniva e allora uscimmo a caccia di ispirazione. Poi la sera, di rientro a casa, mia madre, aveva preparato il minestrone che, unito al tabasco e alla pancetta non vi dico la sensazione. All'improvviso mi è venuta una frase Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. A quel punto sono corso in cameretta e la canzone è nata da sola». Spontaneità e provincia. Buoni sentimenti ed epica da fumetto. In fondo qui ci sono alcuni degli ingredienti di uno dei più grandi successi commerciali degli ultimi decenni, senza dubbio il più bombardato dalla critica perché non impegnato, non schierato a sinistra, non referenziale ma nemmeno autoreferenziale. Semplicemente Max Pezzali raccontava la vita al di là della metropoli, nei piccoli centri dove c'erano ancora le «compagnie» di amici, dove il «deca» era l'unità di misura del sabato sera, dove «non me la menare» era il claim preferito del (post) adolescente ancora in cerca d'autore. Gli 883 hanno intercettato questo pubblico, con un successo straordinario. Il disco ha venduto seicentomila copie e il brano è andato al numero uno in classifica per settimane. Mentre i telegiornali raccontavano lo sfacelo di uno Stato e la terrificante prova di forza della mafia, c'erano due ragazzi pavesi che smontavano i luoghi comuni dei scintillanti anni Ottanta.

Gli 883 erano gli anti yuppies ma non erano neanche grunge. Non sognavano Wall Street ma neppure vestivano camicie a quadretti e si facevano crescere i basettoni. Erano figli della provincia nei quali non vedevano l'ora di riconoscersi anche i figli della metropoli. In ogni caso questo tormentone, che partecipò al Festivalbar e vinse Vota la voce, è diventato uno dei simboli di un'epoca e basta vedere il videoclip per capirlo (tratto dal film Jolly Blu). C'è Max Pezzali giovane e spaurito che viene presentato dal suo manager (Saturnino) al capo della casa discografica (Jovanotti). Dopo scene di ordinaria managerialità (telefonate, caos, pose da megadirettore), Pezzali riceve il via libera per pubblicare il disco e Saturnino gli conferma di essere «un ragazzo fortunato» (come il brano che Jovanotti aveva appena pubblicato). Un'ingenua sequenza da musicarello. Però il testo era inconsapevolmente perfetto: «Il crimine non vincerà ma nelle strade c'è il panico ormai, nessuno esce di casa, nessuno vuole guai e agli appelli alla calma in tv adesso chi ci crede più». È un tormentone pop, potrebbe sembrare la cronaca di un'epoca.

·         Enrico Ruggeri.

Enrico Ruggeri canta Battisti, vergogna in diretta a Una storia da cantare: "Fascista" e "Strappategliele". Libero Quotidiano l'1 Dicembre 2019. Dopo le accuse di simpatie fasciste, Enrico Ruggeri torna di nuovo nel mirino dei telespettatori su Twitter per l'ultima puntata di Una storia da cantare. Le tre serate speciali del sabato sera di Raiuno, premiate da ottimi ascolti, dopo Fabrizio De Andrè e Lucio Dalla affronta il difficilissimo ricordo di Lucio Battisti. E Ruggeri, artista al di sopra di ogni sospetto, si cimenta nella cover de I giardini di marzo, indimenticabile brano della premiata ditta Mogol-Battisti uscito nel 1972 ma, di fatto, immortale. Qualche utente rispolvera per l'occasione la storiella del Battisti "di destra", anzi "fascista" e la affianca ovviamente alle presunte opinioni politiche del conduttore. Altri, invece, si concentrano sulla performance canora di Ruggeri, non risparmiando critiche severissime (si va dal "Povero Lucio… qualcuno lì fermi!" a "Strazio" o addirittura "Qualcuno strappi definitivamente le corde vocali a Ruggeri". Piccola nota a margine: Mogol, in studio, ha invece apprezzato l'esibizione.

Enrico Ruggeri: “La vita premia quelli che non hanno un piano B”. Edoardo Sylos Labini su culturaidentita.it l'8 aprile 2019. Erano gli anni di piombo quando, nauseato dalla violenza dei “compagni” del Liceo Berchet di Milano, cominciò a suonare la chitarra diventando “Ruggeri, quello della Seconda H che suona”. Da quel momento la sua vita è stata guidata dalla musica, “anche perché non avevo un piano B“, confida. Classe 1957, il più eclettico, il più coraggioso dei cantautori italiani, appena partito con il tour del suo nuovo album Alma: è sempre un piacere ascoltare Enrico Ruggeri, perché la vita premia sempre quelli che non hanno un piano B».

Bellissima la copertina del tuo nuovo album...

«L’ha fatta Dario Ballantini, conosciuto per essere un imitatore di Striscia La Notizia, ma in realtà è uno dei più quotati pittori italiani, mi onoro di essergli amico. E’ il mio trentacinquesimo album: 35 copertine non sono poche e non sapevo se usare la mia faccia, così gli ho chiesto di dipingermi per come mi vedeva e lui mi ha risolto il problema in maniera eccellente».

In che anno è uscito il tuo primo album?

«Uscì nel 1978 con la prima band: i Decibel. Avevo vent’anni appena compiuti e una folta capigliatura tinta di biondo».

La copertina di questo mese del nostro mensile raffigura un barcone di grandi italiani pronti a sbarcare sulle nostre coste, cosa ne pensi?

«Sarebbe uno sbarco molto bello. Io, in Alma, ho scritto una canzone che si chiama Supereroi, che parla per l’appunto del fatto che in questo momento i supereroi non ci sono. Quando io ero ragazzino gli “influencer” erano Flaiano, Pasolini…oggi i supereroi sono una che ti dice che scarpe comprare e uno che spiega come impiattare gli asparagi».

Con D’Annunzio abbiamo entrambi un rapporto speciale: tu hai dedicato al Vate una bellissima canzone, Il volo su Vienna.

«Mi piace ricordarlo come colui che lanciò un progetto di città-Stato, città d’arte, con la cosiddetta “avventura fiumana”: una delle più belle pagine d’Italia. Lì D’Annunzio creò una piccola repubblica basata su una vivacità intellettuale che non si è più ripetuta».

Crei spesso sinergie con tanti artisti, non solo del mondo della musica.

«Si, sinergie, che però devono nascere in modo naturale. Oggi ci sono molte collaborazioni studiate a tavolino, persone che vengono messe insieme più dai rispettivi manager che da una reale affinità elettiva».

Come con gli Ianva?

«Pensa che li ho cercati io. Gli Anva sono troppo vivaci e troppo intelligenti per avere successo in quest’Italia. Secondo me sono la band più interessante che abbiamo. Hanno una grande cultura, arguzia, un modo di raccontare particolare, sono controcorrente».

E tu di controcorrente ne sai qualche cosa…

«L’omologazione è da sempre la cosa che più mi spaventa. Io ho iniziato la mia carriera in tempi in cui l’omologazione intellettuale era obbligatoria, quindi avere combattuto e vinto una battaglia personale partendo e remando controcorrente è una soddisfazione doppia».

Entri sulla scena musicale in modo futurista con il mitico concerto dei Decibel.

«Era la fine del 1977, in Inghilterra era arrivato il Punk, mentre in Italia con l’ottusità tipica di quegli anni i punk venivano giudicati pericolosamente fascisti per il loro look. Così pensai di organizzare un concerto in una discoteca, all’insaputa della discoteca stessa, mettendo dei manifesti con su scritto “Concerto punk con i Decibel”. Arrivarono circa 300 punk da tutta la Lombardia, era la prima volta che veniva pronunciata la parola punk in Italia. Naturalmente arrivarono i comitati antifascisti, Avanguardia operaia, i comitati di quartiere e ci furono degli scontri. Il giorno dopo tutti i quotidiani parlavano dei Decibel: era esattamente ciò che io speravo avvenisse. Due mesi dopo realizzammo il primo album».

E poi nel 1980 decidete di partecipare al festival di Sanremo con il brano “Contessa” e giù contestazioni: ma che volevano?

«Già prima, quando con una seconda formazione dei Decibel ci avvicinammo molto di più al cabaret tedesco a Kurt Weill che al punk ortodosso, si parlò di “tradimento”. Poi decidemmo di andare a Sanremo e iniziammo a trovare scritte sotto casa come “servi del potere”. Avevamo visto bene, perché due anni dopo ci sarebbero andati Vasco Rossi, Zucchero…Avevamo semplicemente capito per primi che il sistema va sfruttato e non combattuto per il gusto di farlo».

Il un altro brano di Alma canti: “il costo della vita sul finale di partita è la somma esponenziale di ogni sbaglio”: quale sbaglio non rifaresti nella vita fino ad oggi?

«Sono più di mille gli sbagli che non rifarei, però purtroppo non è una strada percorribile, non si può cambiare quello che è stato. Non sappiamo come sarebbero andate le cose se avessimo fatto scelte diverse. Affezionandomi alle persone, spesso ho sbagliato. Ci sono cambiamenti che avrei dovuto fare dieci anni prima».

E come padre, come sei?

«Prediligo la qualità alla quantità, dal momento che per via dei miei tour non sto molto in casa».

Qualche giorno fa hai fatto un tweet su tua figlia di 9 anni.

«Ho pubblicato un suo tema, del quale sono molto orgoglioso. In questo scritto lei mi definisce “anche un bravo cantante”, come a volermi premiare prima come padre e poi in seconda battuta come artista, che è la cosa che mi dà più soddisfazione».

E se qualcuno ti entra in casa mentre sei con i tuoi figli, visto che sta passando la legge sulla Legittima difesa, cosa fai?

«Il fatto è che in 99 casi su 100 un ladro che entra in una casa è un pregiudicato, quindi io andrei a chiedere spiegazioni al magistrato che lo ha fatto uscire anziché tenerlo in galera. Spesso alcuni magistrati sono figli dello slogan del ’68 “la proprietà privata è un furto”, ma chi entra in casa d’altri commette una violenza che dovrebbe essere punita molto duramente».

La Mannoia con Quello che le donne non dicono e la Bertè con Il mare d’inverno ti devono molto. Come fa un uomo a capire così profondamente l’universo femminile?

«Mi capita spesso di parlare con le donne e di scoprire che uno dei loro problemi maggiori sono le speranze disattese. Noi uomini in amore siamo un po’ come i politici in campagna elettorale: quando le corteggiamo diciamo loro “se starai con me avrai davanti un universo meraviglioso”, poi una volta ottenuto l’”incarico” non siamo quasi mai all’altezza delle nostre promesse…e la donna se ne accorge».

Che follia hai fatto per una donna?

«Avevo 16 anni e ai tempi c’erano personaggi culto come Alice Cooper o Alex di Arancia meccanica, così mi comprai un pitone per farmi notare di più dalle ragazze».

Enrico Ruggeri: "Ho fatto pace con le donne". Tra musica e tv il cantautore racconta del suo passato al liceo milanese, delle femministe contro e delle ferite d'amore. Terry Marocco il 29 novembre 2019 su Panorama. Enrico Ruggeri si siede, accende una sigaretta e sembra tuffarsi perplesso in momenti vissuti di già. Con Bianca Guaccero è il narratore del nuovo programma del sabato sera su Rai 1 Una storia da cantare. La vita, le canzoni, le parole di tre divinità della musica italiana: Fabrizio De André, Lucio Dalla e Lucio Battisti. «La canzone dell’amore perduto mi commuove ogni volta», racconta. «Di Battisti invece la mia preferita è Non è Francesca. C’è dentro tutto, come in Delitto e castigo di Dostoevskij. È riuscito ad andare oltre».

E lei è mai riuscito ad andare oltre?

«Ho sempre risalito la corrente come un salmone. Con orgoglio, fierezza,  determinazione e autonomia. Cercando di tenermi lontano dalle leggi del mercato».

Qual è stato il rapporto col mercato?

«Ho inciso 35 album e fin dall’inizio ho avuto la fortuna di capire che non avrei mai fatto un concerto a San Siro, ma non sarei mai scomparso».

Come le sembrano i giovani che partecipano ai talent?

«Ho fatto anche il giudice anni fa. Il vizio di forma è che viene scelto quello che canta meglio. Eppure la gente non va a vedere Vasco perché è un portatore del bel canto. Ma perché nelle sue canzoni si riconosce».

E allora cosa vale oggi?

«Il tempo stabilisce la differenza tra la trovata e l’idea. La seconda puntata è dedicata a Dalla. È sempre stato spiazzante. Adoro La casa in riva al mare. Fotografica, suggestiva, l’apoteosi della fantasia. Non è una trovata, è l’esplosione del genio».

I rapper li ascolta?

«Il mio primo concerto è stato Emerson Lake & Palmer. Ero a Londra al Marquee a camminare sul vomito sotto il palco dei Clash. È difficile che arrivi a casa e abbia voglia di sentire il disco di un nuovo rapper».

Forse perché proviene da un milieu borghese come De André.

«Vengo da due famiglie nobili e ricchissime che hanno perso tutto quando sono nato io. Ho l’aristocratico disprezzo del denaro e la rabbia dei poveri. Se parti ricco sei svantaggiato. Hai meno Garra Charrúa, termine calcistico uruguayano per definire la voglia di vincere degli ultimi».

Sua madre com’era?

«Un’insegnante, come molte donne della sua generazione una vittima designata, votata al sacrificio. E pronta a rinfacciarlo».

Anche ai figli?

«Sono figlio e nipote unico di una serie di zie senza figli. Uno dei ricordi della mia infanzia sono io sul vasino che urlo: «Ho finito» e loro che corrono e quasi si picchiano per pulirmi».

Il primo nome con cui si è presentato al pubblico nel 1974 è stato Champagne Molotov, cosa significava?

«Barricaderi, ma raffinati. Erano gli «anni di piombo». Frequentavo il liceo Berchet a Milano, nella classe a fianco alla mia c’erano Marco Barbone e Paolo Morandini, gli assassini di Walter Tobagi. Il giornalista era amico del padre di Morandini, critico cinematografico. Il figlio si informò dal padre dei suoi orari e lo andò ad ammazzare. Questi erano i ragazzi che frequentavano il Berchet. Il più perbene era Gad Lerner».

Quanto la politica ha influenzato la musica di quegli anni?

«Le femministe interruppero un mio concerto. Dicevano che il modo di tenere l’asta del microfono simulava un gesto fallocratico. Mi ricordo che portavo i Ray-Ban graduati perché ero miope. Erano considerati occhiali di destra. Quando mi fermavano per menarmi, gridavo: «Non sono fascio, non ci vedo». Come se la miopia fosse di sinistra e la fotofobia di destra».

Eppure lei è sempre stato considerato uomo di destra.

«Non essere di sinistra non vuol dire essere di destra. Temo che il mondo sia retto da una decina di persone che decidono il presidente degli Stati Uniti o dove scoppierà la prossima bolla finanziaria. Penso che i flussi migratori siano uno stratagemma per abbassare il costo del lavoro. E creare una guerra tra poveri a vantaggio del padrone. Come avrebbero detto al Berchet».

Dopo il periodo punk portò Contessa al Festival di Sanremo.

«La solita canzone permeata dal rancore, non mi ricordo più verso chi. Erano gli anni in cui avevo un rapporto conflittuale con le donne».

Come mai con tutte quelle zie?

«Sono passato dall’infanzia, dove pensavo che la donna fosse un angelo mandato da Dio per fare felice l’uomo, all’adolescenza quando ho iniziato a capire che invece era stata inviata al mondo solo per metterti alla prova. La pax arrivò a 30 anni con Quello che le donne non dicono».

L’amore com’è stato?

«Dipende da quanto sei bravo ad affrontare le sue varie fasi. Quello vero, che strappa i capelli, dura due anni, tre anni. Poi ci sono i progetti comuni, la complicità, i lavori condivisi. Non sempre ce l’ho fatta. Ma i bilanci si fanno alla fine».

I conti con la droga li ha fatti?

«Nella Milano anni Ottanta era difficile non caderci. Pippavano tutti, anche gli operai che mi ristrutturavano la casa. Quello che ancora mi dà fastidio è che si creava una complicità con gente che non avrei mai neanche salutato».

Oggi?

«Sono diverso io. Forse Milano è uguale».

È felice?

«È una parola grossa. Come dissi una volta, parlando dei Decibel: «Sono in guerra e mi piace»».  Barbara Visentin per il Corriere della Sera il 27 agosto 2019. Nonostante l' indole punk, nonostante dica di non andare mai in vacanza, anche Enrico Ruggeri scavando nel passato ritrova una canzone solare, calda e spensierata che lo accompagnava nelle sue estati.

«Il primo brano che mi viene in mente - racconta il cantautore milanese - è senz' altro "Vamos a la playa" dei Righeira, prima di tutto perché li ho visti nascere e sono miei amici e poi perché era una canzone divertente, dal successo più che meritato, e loro erano molto più di quel brano».

Che cosa ricorda di quel periodo?

«Vamos a la playa arrivò nel mezzo degli anni Ottanta, a suggellare una stagione particolare del nostro Paese: fu una sorta di inno liberatorio dopo che ci eravamo lasciati alle spalle i fantasmi degli anni di Piombo. Una canzone leggera che però rispetto ai tormentoni di oggi sembra Proust».

Non gliene piace nemmeno uno?

«Oggi, le canzoni estive, uno le fa e tutti le ricalcano. Non è che non mi piacciono, ma le confondo. Va molto quella specie di reggae che si sente da tutte le parti e le scelte sono dettate da motivi di mercato, non dalla creatività. Probabilmente io potrei essere un parametro al contrario: se una canzone non piace a me, è segno che funzionerà».

Che colonna sonora fu per lei «Vamos a la playa»?

«Io cominciavo la mia carriera, facevo i primi concerti. Non andavo in vacanza perché non ci sono mai andato da quando faccio questo mestiere. Ho orrore per espressioni come "staccare la spina" che mi fanno venire in mente un malato terminale. Per me sarebbe una sconfitta.

La definizione di vacanza è fare una cosa divertente, ma tutte le cose che faccio sono divertenti e quindi in questo senso sono vacanze. Anche ora che sono in tour (sta portando live il suo ultimo album "Alma", ndr ) mi sveglio spesso guardando il mare».

Da bambino, invece, come passava le estati?

«Nasco come bambino milanese che veniva portato al mare. Negli anni Sessanta si facevano le classiche vacanze in albergo o in pensione, a pranzo c' era la bottiglia d' acqua col numero della camera. Chi è della mia generazione se lo ricorda. Andavo a Pescara, con mamma e zie. Poi è arrivata Marotta».

Diventata ufficialmente la «Città del Mare d' inverno»...

«È un posto suggestivo e particolare che mi ha ispirato "Mare d' inverno" e ora ne sono anche cittadino onorario. Ma prima ancora, era lì che andavo in vacanza d' estate, da ragazzino. È il luogo delle prime fidanzatine, dei baci sulla spiaggia, delle "immense compagnie" come direbbe Max Pezzali».

A quei tempi immaginava già di diventare un cantautore?

«Nella mia totale incoscienza avevo già in mente il mio futuro. A sedici anni ero certo che ce l' avrei fatta, anche se suonavo solo per piacere, per invitare la ragazzina in sala prove. Ero "quello della terza H che suona"».

Poi arrivò il punk?

«Ascoltavo progressive e poi arrivò il punk, da "London Calling" dei Clash ai Sex Pistols: dico sempre che sono qui grazie al punk. Era la musica più abbordabile, fatta da gente che suona peggio di te, ma ha un sacco di cose da dire».

E visto che Londra chiamava: andava a Londra?

«Certo, si andava a Londra, erano meravigliose avventure. Andavo in macchina a comprare gli amplificatori Marshall che là costavano meno. Tornavo vestito come loro, con i capelli tinti di biondo: là ero normalissimo, qua ero molto strano. Per nostra fortuna a quei tempi non c' era Internet ed era tutto da scoprire».

Non ascolta musica online?

«Non ho l' esigenza di ascoltarla sul cellulare e uso un vecchio Nokia. Ho invece l' iPad, ma sono io che vado sul web quando voglio andarci, non è il web che viene da me».

A novembre invece andrà in televisione con «Una vita da cantare» su Rai1...

«Sarà un programma dedicato alle monografie di alcuni cantautori legati a una città. Fare ascolti con la musica in televisione è sempre una sfida, ma è pieno di belle canzoni da valorizzare. I cantautori sono quello per cui noi italiani verremo ricordati, più qualche Mondiale vinto, magari».

Da Linkiesta il 2 luglio 2019.  La buona musica la può fare solo chi ha soldi da spendere. Non è l’intemerata di un cantante escluso da un talent show o un leader di una band indipendente abituato a fare concerti nei circoli Arci. A lanciare l’accusa su mondo della musica digitale «dove guadagnano solo le case discografiche e non gli artisti» è Enrico Ruggeri The Shooter, il programma del canale Pop Economy condotto dal critico musicale e collaboratore de Linkiesta Michele Monina. E se lo dice uno dei cantanti più importanti della musica italiana bisogna ascoltare. «Le cose interessanti, le cose innovative e rivoluzionarie, le faranno i ricchi. L’economia e la musica hanno sempre viaggiato su percorsi assolutamente divergenti. Se arriva un ragazzino dal Sud o dal paesino e che vince il talent, non puoi chiedergli di fare la rivoluzione. Quello a mala pena deve sperare che la radio gli passi il pezzo e di rimanere un po’ lì, mantenere la famiglia, avere il riscatto sociale; se invece hai una solidità economica, puoi permetterti di fare le cose che ti piacciono». Secondo Ruggeri il successo nelle piattaforme di streaming non si traduce per forza in un guadagno cospicuo: «Un artista di vertice, se gli fai i conti in tasca sugli utili di Spotify, guadagna molto meno di quella che viene a casa a tenermi i bambini». Durante l’intervista a The Shooter, Ruggeri ha parlato anche del suo rapporto con Gianni Morandi con cui ha vinto Sanremo nel 1987 grazie alla canzone “Si può dare di più”, cantata sul palco dell’Ariston assieme a Umberto Tozzi. «Una volta presi in giro Morandi, gli dissi: – quando tu alla fine degli anni Sessanta vendevi un sacco di dischi, l’RCA usava i tuoi soldi per finanziare il primo album di De Gregori, di Venditti, di questi che all’inizio non vendevano. Ti scavavi la fossa da solo, finanziando i tuoi curatori fallimentari».

Piero Negri per “la Stampa” il 20 luglio 2019. Dal 2017 a oggi, Enrico Ruggeri ha compiuto 60 anni, scritto un'autobiografia (Sono stato più cattivo, Mondadori), riaperto il «laboratorio dei Decibel» (parole sue), con cui non faceva dischi dal 1980, pubblicato un album tutto suo, Alma. Alma si apre con una canzone scritta con suo figlio Pierenrico (in arte Pico Rama), una sorta di bilancio di vita «Pico aveva la musica, quasi tutta, e una sola frase: "La paura che mi prende parte dal profondo di me". Il resto è mio. Sì, è curioso scrivere un pezzo con un figlio che ha 33 anni meno di te e parlare della fase avanzata della vita».

Ha cominciato a pensarci?

«Forma 21, sull' album, parla di quello, della morte. Quando morì suo marito Lou Reed, Laurie Anderson scrisse su Twitter: "È morto mentre faceva la forma 21 del tai chi, le sue mani andavano verso il cielo e ho letto in lui un' espressione di stupore". Anche a me è capitato di assistere una persona negli ultimi attimi e vedere stupore».

Nel libro per parlare di morte usa l' espressione «andare altrove». Quindi un altrove c' è?

«Sì, nulla avrebbe senso se non ci fosse il pensiero di un altrove. Perché tutti cercano di lasciare qualcosa di sé? In un mondo così ingiusto, peraltro, in cui uno muore a tre anni, l' altro a 90, uno nasce miliardario e l' altro senza nulla da mangiare Qualcosa dopo succede».

Lou Reed è stato importante per lei?

«Sì, lui e David Bowie. Bowie premiato dal mercato, però capace di cambiare sempre. Lou Reed refrattario al mercato. Due lezioni di vita, al di là delle canzoni meravigliose».

A proposito di mercato, ha detto di essere stato in passato troppo accomodante. Davvero?

«Nei rapporti di lavoro mi sono fidato eccessivamente. Ma è la storia del 90% dei cantanti: se hai la sensibilità per scrivere canzoni è difficile che tu sia un uomo d' affari. C' erano anni in cui sarebbe stato meglio fare venti palasport e poi sparire. Quando ho vinto Sanremo con Mistero ho fatto 180 concerti. Il fatto è che sul palco mi diverto, ho un entusiasmo perfino eccessivo. Ci sono salito su 3500 volte. Tante, anche in 40 e più anni di carriera».

Le annota ancora sul diario?

«L'ho fatto finora, perché smettere? Niente di speciale: torno a casa e mi segno i pezzi fatti».

Lo fa anche Gianni Morandi.

«Sì, lui tiene il diario e anche la contabilità, io quella no».

Rocker o cantautore, lei si muove sempre in gruppo.

«Un tempo era la norma, oggi nessuno sa chi è il chitarrista di Mengoni o il bassista di Tiziano Ferro. Un tempo se ti piaceva suonare cercavi altri con cui farlo. Oggi suoni per diventare famoso. Non c'è urgenza di esprimersi. È rivalsa sociale».

Per lei la musica cos'era?

«Trovare una dimensione mia. Sono Ruggeri della III H, quello che suona. Suono, quindi non c' entro niente con voi. Così pensavo a 15 anni».

È ciò che intende per «punk»?

«Prima del punk c'era il prog, musica meravigliosa che potevi suonare solo se avevi fatto il Conservatorio. Poi arriva il punk, vai a Londra e trovi ragazzi che suonano peggio di te, però sono i Clash, i Sex Pistols, i Damned. Hanno rabbia, forza, identità di suono. Capisci che anche senza Conservatorio puoi dire la tua».

Più che musicale, approccio.

«Ideologico. La prima volta che in Italia si usa la parola punk fu per i Decibel. È inoppugnabile».

Racconta la storia della sua famiglia. È stato liberatorio?

«Discendo da famiglie che erano state ricche e di elevata classe sociale: mia nonna paterna aveva una cappella in casa per non abbassarsi ad andare in chiesa. Ho ereditato il disprezzo, la nonchalance per il denaro dei ricchi, ma ho anche la rabbia dei poveri, perché quando sono arrivato io era crollato tutto. Non ho ereditato niente. Una situazione ideale».

Dal punto di vista culturale e musicale cosa ha ereditato?

«Mia madre era una pianista classica, mio padre ascoltava molta musica, solo classica. I miei avevano quarant' anni più di me, erano veramente un' altra generazione. La classica era la musica delle élite. È ciò che oggi è il rock».

Il rock è d'élite o per anziani?

«Un 65enne di oggi aveva 11 anni quando Keith Richards scriveva il riff di Satisfaction, ha il diritto di essere più rocker di un sedicenne. Poi ai concerti vedo tanti ragazzini. Ma è un' élite, a ogni età».

Della musica di oggi non c' è niente che le piace?

«Non è che non c' è niente, è che io non la ascolto. Il primo concerto della mia vita a 15 anni è stato Emerson Lake & Palmer, a vent' anni andavo al Marquee per i Damned, ho visto dal vivo Paul McCartney, Bowie, Lou Reed, Yes, Genesis, King Crimson Non ho voglia di sentire i dischi di questi qua. Non è snobismo, semplicemente se vado a casa e metto su Selling England by the Pound sono più contento».

Altri tempi L' era social ci condanna alla superficialità?

«Gli ottimisti dicono che ci condanna alla sintesi, ma la sintesi spesso è superficialità».

·         Cesare Cremonini.

Sul nuovo 7 Cesare Cremonini: «Cerco la voce della mia generazione, oltre i social». Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it. Questa è un’anticipazione dell’intervista che Walter Veltroni ha fatto per 7 al cantautore ed ex co-fondatrore dei Lùnapop Cesare Cremonini. Nel lungo colloquio pubblicato sul magazine del Corriere in edicola da oggi (e fino a giovedì 1 agosto), Cremonini parla del suo rapporto con la musica: la vede «come possibilità di dare voce a idee positive, che possano fare il bene comune». Eppoi con la voce: «La voce è la cosa più importante: ci lega a chi amiamo». Ma la voce è anche un patrimonio da tutelare: oggi troppe voci — dice — si perdono nei social network. E la grande partecipazione ai live, ai concerti, di questi ultimi anni, appare come — sostiene Cremonini — la risposta ad una vita ormai chiusa dentro al telefonino. «L’esperienza diretta oggi è ridotta all’osso, perché passiamo molto tempo davanti allo specchio», e lo specchio «va inteso come il rapporto morboso con i social». Potete leggere l’intervista completa sul numero di 7 in edicola; oppure in Pdf sulla Digital Edition del Corriere della Sera.

Cesare Cremonini, lei ha raccontato che il suo incontro con la musica è avvenuto grazie a Suor Ignazia, una monaca irsuta che le dava lezioni di piano...

«Nasco, per influenza dei genitori, dalla musica classica quindi ho avuto un approccio alla musica che prevedeva metodo, studio, pratica sullo strumento. L’arrivo alla musica cantata, alla scrittura delle canzoni è stato forse il giusto contrasto per ribellarmi ad una traiettoria prestabilita. La mia prima lezione di pianoforte la ricordo come una rivoluzione, ma anche come l’inizio di un percorso di studi. Ho imparato ad avvicinarmi alla musica non con presunzione, ma con la coscienza di doverla imparare. La musica è una cosa seria. Quando tu incontri un universo così profondo, così largo, così difficile da attraversare totalmente, devi sentirti sempre in viaggio, sempre alla ricerca. Ancora oggi la sensazione che ho, quando scrivo canzoni, è di non essere ancora veramente capace di farlo. Forse il fatto che io dopo vent’anni sia ancora qua e che ancora abbia l’entusiasmo, la voglia, lo stimolo e la paura di non riuscirci, è dovuto al fatto che il primo approccio con la musica per me sono stati Beethoven, Mozart, Chopin». 

Sono due universi così lontani?

«Quando ho incontrato la musica rock o pop ho visto che le sensibilità che uniscono la musica classica alla scrittura di canzoni non sono così dissimili: le grandi melodie dell’epoca romantica della musica sono ancora oggi applicabili ai sentimenti umani. Quando ho capito che la musica classica conteneva la tristezza, la gioia, l’umiliazione, la paura, l’amore, il lutto, conteneva l’ intero universo delle emozioni, mi è stato abbastanza naturale, quasi facile, provare ad aggiungerci parole. Alla fine è il linguaggio che fa vivere la musica, generazione dopo generazione. Ed è il linguaggio che la modernizza, la rende attuale».

Com’ erano gli Anni 90, quelli della sua formazione musicale? 

«Sono stati un periodo molto particolare perché si è ritornati ad ascoltare la musica di una volta, dopo gli Anni 80 che l’avevano in parte rifiutata, alla ricerca di nuove tecnologie. I Beatles e tutto quel mondo degli Anni 60 che in qualche maniera era stato così centrale per il Novecento della musica pop, era stato messo in discussione alla ricerca di sonorità più elettroniche, di un approccio alla musica che rifiutava il passato, più analogico. Negli Anni 90 invece tutto questo tornò fortemente, di colpo i ragazzini andavano in giro in Vespa e con i pantaloni a zampa di elefante. Gli Anni 90 sono stati i miei Anni 60. Sono tornati Paul McCartney e i Beatles, è tornato l’approccio alla musica suonata, che prevedeva la nascita di band. In Inghilterra, in quel periodo, nacque il Britpop che era un’evidente rivisitazione degli Anni 60. Lo stesso si può dire anche per la musica italiana. Negli Anni 90, per noi ragazzi che andavamo a scuola, il cantautorato che aveva segnato gli Anni 70, tornava ad essere centrale. E così io mi sono trovato ad essere, come tanti della mia generazione, perfettamente a cavallo fra due periodi storici. Tra il telefono a gettoni e quello che fa le fotografie e i film. Le mie influenze sono sempre state abbastanza chiare, la musica dei cantautori fa esplicitamente parte della mia cultura musicale. E allo stesso tempo però cerco di essere attento, con i piedi molto bene piantati su questo nuovo millennio, su ciò che sta avvenendo oggi. Siamo nel 2019 e per me è un grande orgoglio poter essere ancora qua a scrivere, a raccontare e a musicare la mia vita». 

I Lùnapop: in primo piano Cesare Cremonini, dietro, da sinistra a destra, Nicola Balestri -«Ballo», Alessandro De Simone, Michele Giuliani e Gabriele Gallassi

C’è un oggetto di quegli anni, uno solo che porterebbe su un’isola deserta? 

«La mia vita è ruotata intorno ad un pianoforte. Il pianoforte mi ha insegnato in primo luogo a far stare insieme le cose: il metodo e la creatività. La possibilità che viene data ad un ragazzino così giovane di studiare un pianoforte insegna molte cose. Innanzitutto che la musica non è un’esperienza del tutto solitaria, non lo è mai. Il suonare insieme agli altri, o anche far stare insieme le note, ti spinge a cercare l’armonia delle cose attraverso l’incontro e il compromesso...» 

·         I Morandi.

Da liberoquotidiano.it il 14 novembre 2019. L'attrice Serena Grandi rivela a Pomeriggio 5 davanti ad una allibita Barbara d'Urso: "Gianni Morandi mi ha lasciata. Siamo stati insieme...". Il riferimento è a tanti anni fa ma fa comunque scalpore. L'attrice di La grande bellezza ha rivelato di una sua storia d'amore inedita. "Sono stata fidanzata con Gianni Morandi, è stata una grande storia d'amore. Lui però era più grande di me, aveva già 38 anni e io ero più piccola. Alla fine ci siamo lasciati e lui ha fatto perdere le sue tracce, forse per i figli. Ma io sono stata molto male". “Nei primi anni Ottanta, io muovevo i primi passi come attrice (…), andai a vedere un concerto di Gianni”, ha raccontao Serena al settimanale DiPiù. “Negli anni avevo seguito la sua carriera, lo ammiravo e andai dietro le quinte a salutarlo”. Lei aveva 24 anni ed era libera e bella, lui ne aveva 38 e il matrimonio con Laura Efrikian era alle spalle. “Scattò qualcosa”. Si scambiarono i numeri di telefono e presto, molto presto, lui la chiamò. “Ero stregata dai suoi occhi azzurri…”. 

Il post di Gianni e la Morandina ritrovata 53 anni dopo. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. Il cantautore ha postato una foto del 1966 scrivendo: «Non ho più visto questa ragazza». Lei, oggi pensionata, è stata rintracciata. Gianni Morandi, sul suo seguitissimo profilo — oltre due milioni e mezzo di follower — mercoledì a mezzogiorno ha postato una foto accompagnata da queste parole. «23 ottobre. Siamo nel 1966 in un locale, o meglio in un dancing: è la “Lucciola” di Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena. Questa bella ragazza si chiama Gabriella e credo di non averla mai più vista da allora». L’immagine ritrae Morandi — sorridente, giacca e camicia con un colletto «extra large» — accanto a una giovane di circa vent’anni, sobrio tailleur e i capelli cotonati, raccolti in uno chignon, tipici di quei tempi. Il «clic» è diventato subito virale e in tanti — negli oltre 2.000 commenti — lo hanno condiviso cercando di dare un contributo all’identificazione della «morandina», la definizione che all’epoca veniva data a quelle fan del cantante che non si perdevano un suo concerto e che avevano stanzetta e diari tappezzati con le sue immagini. Rintracciare 53 anni dopo Gabriella, che di cognome fa Luzzi e che oggi è una pensionata di 72 anni — non è risultato troppo complicato. A riuscirci è stata la Gazzetta di Modena che ha ricostruito anche i passaggi con i quali quella foto in bianco e nero è finita tra le mani di Morandi. A mostrargliela è stato il suo storico chitarrista Elia Garutti. Che è anche uno dei più cari amici di Luca Zaniboni, figlio della signora Gabriella, «impiegato come primo lavoro e musicista per passione». Spesso Zaniboni — fondatore della «Luca & the wedding band», complesso che si esibisce in feste e matrimoni — suona con Garutti e qualche sera fa gli ha inviato l’istantanea della «morandina» assieme all’«eterno ragazzo». «Guarda mia mamma — gli ha scritto su WhatsApp — fan di Gianni!». All’indomani la foto è comparsa su Facebook. Dal mattino il campanello della casa in cui Gabriella vive a Concordia sulla Secchia — borgo nel Modenese che, con tanti cantieri aperti nel centro seicentesco, si sta risollevando dalle ferite del sisma del 2012 — ha suonato di continuo. «Devo dire che ritrovarmi nella pagina Facebook di Morandi è stato emozionante — racconta la signora per bocca del figlio — però a fine giornata è risultato anche stancante. Mi considero una persona qualunque e non sono abituata alla celebrità. Mi hanno invitato anche alcune trasmissioni televisive e a tutte ho detto no». Gabriella è in pensione dal 2010, aveva una piccola azienda che produceva maglie, attività assai diffusa da queste parti nella Bassa. Di quella foto — custodita in un album di famiglia assieme all’altra che, sempre in quel periodo, ritrae il marito Roberto con Rita Pavone — la magliaia di Concordia ha un ricordo nitido. «Fu scattata da uno di quei fotografi— ha raccontato a Luca — che sostavano fuori dai dancing con un furgoncino: ritraevano i ragazzi assieme alle star della serata e poi stampavano velocemente le immagini, rivendendole». Semmai c’è incertezza sull’anno. Gabriella è convinta che fosse il 1962 «ed ero già fidanzata con Roberto». Ma Morandi — che subito dopo il post ha chiamato Luca per salutarlo — ha ricollocato lo scatto, controllando le sue agende di lavoro, al 1966. Un dubbio riguarda il locale, forse «La lucciola» di Concordia o forse un altro nel Mantovano, a Suzzara. «Poco cambia, però, dato che entrambi i dancing non esistono più» è stata la riflessione conclusiva del cantante che ha chiesto a Luca di salutargli la mamma. Al figlio, Gabriella — vedova da 10 anni — ha poi confessato che «da bambina mi piaceva Claudio Villa». Ma crescendo «ho apprezzato sempre più Morandi e la sua spontaneità. E poi pensa che fenomeno: Gianni piaceva a mia madre e piaceva a me, oggi piace a te e piace a tua figlia Anna che ha sette anni...».

Morandi show: suonavo con un’orchestra per 500 lire. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Renato Franco. Da venerdì al Teatro Duse di Bologna con «Stasera gioco in casa», tra i suoi brani boccia «Chissà però»: «La politica? Canto per tutti». «C’è sempre un momento della vita in cui si sente il forte desiderio di tornare nel luogo da dove si è partiti: è un ritorno in famiglia». Gianni Morandi riparte dalla sua Bologna e venerdì sera debutta al Teatro Duse con il suo nuovo spettacolo: Stasera gioco in casa - Una vita di canzoni. Attraverso il concerto in forma acustica Morandi ripercorre tutte le emozioni della sua musica, in uno spettacolo intessuto anche di parole, ricordi intimi e personali, la sua carica umana, la sua immagine inaspettata. Del resto Forbes lo ha messo tra i 50 profili italiani di Facebook che sono riusciti ad avere un impatto reale attraverso il volano virtuale dei social. Tanti i racconti: «Mio papà che non voleva che cantassi perché non era mica un mestiere; io che prendevo la corriera da Monghidoro per suonare con l’orchestra Scaglioni e mi davano 500 lire; io che proprio al Duse mi sono esibito per la prima volta 55 anni fa e mi tremavano le gambe». L’ossatura dello show ( «ma lo voglio diverso ogni sera») prevede le 15 canzoni fondamentali del suo repertorio da C’era un ragazzo... a Fatti mandare dalla mamma; la seconda parte è aperta agli ospiti («un cantante, un calciatore, un bolognese doc...») e anche alle richieste del pubblico: «Ho pubblicato 600 canzoni, spero di ricordarmi tutte le parole...». Bilancio ovviamente positivo, ma ammette: «Ce ne sono alcune poco significative, altre proprio brutte». Non si tira indietro: «Chissà però è sparita subito, meno male». I brani che sente più suoi invece sono tre: «Andavo a 100 all’ora perché è stata la mia prima canzone, la prima ascoltata in un jukebox, ha dentro i ricordi della mia adolescenza. Per C’era un ragazzo ho dovuto lottare, non rientrava nel mio repertorio melodico e nessuno me la voleva far fare; ma io la volevo a tutti i costi anche perché dentro c’erano gli ideali per cui ha combattuto mio padre. Uno su mille ce la fa invece racconta una rinascita e io sono rinato tante volte, ho avuto momenti brutti, ma anche se sei a terra non devi strisciare mai; è uno sprone, ha una suggestione particolare, tocca il mio cuore e tocca il cuore di tanti». Due temi d’obbligo con lui. La politica (con le regionali in Emilia-Romagna), il Festival di Sanremo che ha condotto due volte. La prima domanda la stoppa: «Non voglio parlare di politica, i cantanti devono intrattenere, farti andare a casa con il sorriso. Io canto per tutti». Per Amadeus non un consiglio, ma una constatazione: «Sanremo è un esame, la tensione a un certo punto arriva, per gli ascolti, per la pressione dei giornalisti. Ma Amadeus conosce bene la musica, merita il Festival e la gente lo ama». Stasera gioco in casa non è solo il titolo dello show, è anche quello della nuova canzone scritta da Paolo Antonacci, suo nipote (è figlio di Marianna e Biagio Antonacci): «Mi metto nei panni di mia figlia che ha un figlio che scrive per suo nonno, fa uno strano effetto; e nemmeno io pensavo fosse una cosa che mi sarebbe capitata nella vita, a cantarla provo brividi di emozione». Già 21 le date in programma fino al 26 gennaio, nello spettacolo Morandi avrà modo di ricordare Lucio Dalla: «Abbiamo passato una vita insieme, abbiamo fatto 130 concerti, per me lui ha scritto diverse canzoni. A Bologna il profumo di Lucio lo senti ancora».

"Non avrei mai creduto di cantare dal vivo un brano di mio nipote". Domani il primo dei 21 concerti al Teatro Duse di Bologna: "Intervisterò il pubblico sul palco". Paolo Giordano, Giovedì 31/10/2019, su Il Giornale. Ormai è Morandi & Co. E lasciate perdere Tredici Pietro, il figlio ventiduenne che si è fatto conoscere come trapper senza (giustamente) sfruttare il cognome del padre. Ora nella meravigliosa carriera di Gianni Morandi entra anche il nipote Paolo Antonacci, che è figlio di Biagio e di Marianna Morandi ed è già un autore di brani molto ricercato. «Mai avrei detto che avrei cantato una canzone scritta da mio nipote» ha spiegato il nonno poco prima di fare la prova generale del suo nuovo spettacolo, che si intitola Stasera gioco in casa, proprio come il titolo della nuova canzone. Teatro Duse a Bologna. Da domani Gianni Morandi terrà ventun concerti fino al 26 gennaio in una sorta di «residency» che ricorda quella delle popstar a Las Vegas ma ha anche un sapore d'altri tempi: «Qui a Bologna negli anni Sessanta si tenevano concerti nei teatri per una settimana, anche dieci giorni», dice lui che ha sempre la fascinosa capacità di mescolare presente e passato quasi raccontando la storia del nostro costume. È Morandi, dopotutto, mica una meteora qualsiasi.

Ma scusi perché proprio al Teatro Duse?

«Perché qui ho debuttato 55 anni fa».

E come mai ha scelto di dare ai concerti il titolo della canzone inedita?

«Credo sia rarissimo che un nipote scriva una canzone per il nonno, forse non è mai accaduto».

Com'è nata?

«Stavo cercando un brano inedito ma non riuscivo a trovarlo. Un giorno ho incontrato mio nipote e gli ho chiesto una canzone quasi per scherzo. Pensavo mi mandasse via ridendo».

È un autore già conosciuto, perché non avrebbe dovuto scriverla?

«Ha già firmato per Nek, Amoroso e altri, ma sono suo nonno, insomma...».

E invece?

«E invece dopo qualche giorno si è presentato con la canzone pronta».

E lei che cosa ha provato?

«Quando l'ho cantata ho sentito un brivido, quasi mi sono commosso. Poi però mi metto anche nei panni di mia figlia che si ritrova con il proprio figlio che scrive una canzone per il proprio padre...». (ride - ndr)

Il concerto avrà anche un omaggio a Lucio Dalla.

«Eh sì, Lucio ed io venivamo al Duse anche come spettatori. Poi abbiamo fatto 130 concerti insieme e trascorso tanta vita nel corso degli anni, ha scritto per me brani meravigliosi come Occhi di ragazza. Come potrei dimenticarlo?».

Però il concerto sarà anche un omaggio di Morandi alla vita di Morandi.

«Sì, racconterò qualcosa di questi miei 50 o 60 anni in scena. Gli inizi con la maestra Scaglioni, mio papà che mi diceva vai pure a cantare ma poi torna qui a lavorare perché cantare che mestiere è? e altri episodi della mia storia. E poi, la seconda parte del concerto vorrei che diventasse più libera e che il pubblico scegliesse le canzoni. Farò anche salire il pubblico a raccontarsi in scena. Certo, non potranno mancare i miei classici, ma ci saranno anche altri brani».

I migliori li conosciamo tutti. Ma qual è il peggior brano di Gianni Morandi?

«Mah, ce ne sono alcuni. Adesso mi viene in mente Chissà però con un testo che faceva Non cercare una mela sul pero/ perché non c'è/ ci credi o no, chissà però/ Se un somaro si mette il pigiama/ una zebra non è. Una roba...». (ride - ndr)

E i suoi preferiti?

«Sono tre. Andavo a cento all'ora, la mia prima, il mio debutto. Uno su mille, che è il brano della mia rinascita. Poi C'era un ragazzo, che è un brano impegnato, nessuno voleva farmelo cantare ma ho insistito. Sa, ero figlio di un attivista...».

A proposito, le elezioni in Emilia Romagna si avvicinano.

«No, non mi faccia parlare di politica, io canto per tutti».

Allora parliamo di tv. Tornerà sull'Isola di Pietro, la fiction di Canale 5?

«In vacanza magari sì, per girare un'altra stagione non so ancora...».

Infine c'è Sanremo. Amadeus?

«Il pubblico non lo accetta, lo ama. Sanremo fa sempre preoccupare ma lui si merita questa grandissima esperienza».

Morandi: «Il mio ‘68 e gli anni cupi dei fischi, sepolto dai Led Zeppelin». Pubblicato venerdì, 11 ottobre 2019 su Corriere.it da Walter Veltroni. Gianni Morandi giovanissimo fuori dalla casa di Monghidoro, suo paese d’origine. Il cantante sta concludendo in Sardegna le riprese sull’isola de «L’Isola di Pietro», fiction diretta da Alexis Sweet e Luca Brignone (foto Mondadori/Pitre)Conobbi personalmente Gianni Morandi, che da ragazzo era il mio beniamino, un giorno del 1981. Stavo raccogliendo contributi per un libro che si chiamava Il sogno degli Anni 60. E mi sembrava che quel racconto non avesse senso, senza di lui. Lo incontrai in un bar, poco lontano dal Conservatorio dove studiava contrabbasso. Il risultato di quella conversazione è nel libro. Tornai con una sensazione mesta. Mi sembrava che, tra il divo che all’improvviso aveva cambiato la musica italiana e il ragazzo dimesso e un po’ malinconico che avevo conosciuto, in mezzo ci fosse un dolore. Ma non è così. Oggi tutto è parametrato al successo, specie, si crede, la felicità di chi lo raggiunge. Morandi, in questa intervista, racconta i pochi anni in cui è stato lontano dalla ribalta come, invece, un tempo di rinascita, di rigenerazione.

Partiamo da quel giorno al Conservatorio, che giorni erano, per te?

«Erano i giorni in cui pensavo che non avrei più fatto questo lavoro. Volevo diventare un musicista, un produttore, addirittura mi immaginavo direttore d’orchestra. Sì, la verità è che avevo le giornate abbastanza vuote. Non c’era molta possibilità di lavorare. La musica era cambiata, erano arrivati gli americani, i gruppi, i cantautori impegnati. E poi era un tempo cupo, il tempo del terrorismo. Io avevo rappresentato gli Anni Sessanta, la loro leggerezza. L’Italia delle copertine di Sorrisi e Canzoni Tv, di Sogno, Grand Hotel ... Io e la mogliettina, il successo, insomma ero un simbolo da cancellare. Tutti noi, di quella generazione, abbiamo patito questa specie di damnatio memoriae. Come se il Sessantotto avesse tagliato in due la storia. C’era un prima e un dopo. Noi eravamo il prima».

Ricordi il momento in cui percepisti che le cose stavano cambiando?

«Nel ‘71 la follia di Radaelli aveva portato i Led Zeppelin a Milano, insieme al Cantagiro. Lì ci fu uno scossone drammatico, capii improvvisamente tutto. Mi davano del vecchio, urlavano che ero finito. Avevo solo ventisette anni, ma sembrava, dopo quegli anni fantastici, che avessi già fatto tutto. Io non capivo quello che stava succedendo. Ma anche i miei produttori erano smarriti. Tutto era tremendamente veloce, tremendamente radicale. Negli studi Rca, dove Rita Pavone, Paoli e tanti altri erano trattati come degli dei, arrivarono i cantautori. Per me, per noi, sembrava non ci fosse più spazio. Mario Gangi, che era stato un grande chitarrista, mi disse: “Ma studia musica, vai al Conservatorio! Fai qualcosa”. E io mi ritrovai lì, al Conservatorio di Roma, a studiare il contrabbasso. Riempivo le giornate con la musica, però convivevo con la speranza di rimanere nell’ambiente e di fare il produttore discografico, oppure di arrivare a fare il direttore d’orchestra. Mi leggevo la biografia di Georges Prêtre, che prima faceva il pugile, un altro invece era stato medico. Poi, come una improvvisa vocazione che disvela il talento, erano diventati direttori d’orchestra. Facevo lo studente. Ma non era un periodo triste. Tutte le mattine ero motivato, andavo, riempivo le giornate, sentivo di non buttare via il tempo».

Quanti anni è durata questa situazione?

«È durata dal ‘75-’76 fino all’ ‘81-’82 quando incontrai Mogol che, in realtà , mi cercò perché era appassionato di calcio e voleva fare una squadra. Ma poi scrisse una canzone per me e tutto ripartì».

Tu eri in Italia, in termini di popolarità, ciò che i Beatles erano in Inghilterra. Cosa fu vedere precipitare tutto questo all’improvviso? C’erano stati segnali?

«Sì, prima nel ‘69-’70, quando andavo a fare le serate trovavo già fuori dei gruppi di ragazzi che dicevano “Vai a cantare per i borghesi! Tu sei un compagno, ma canti per i ricchi, noi invece non abbiamo i biglietti”. Una volta feci un concerto ad Aulla, c’erano fuori trecento ragazzi, sono dovuto uscire da un tetto. Erano anni difficili. Furono i primi segnali. Poi andai al Cantagiro. Era l’edizione in cui Radaelli, ogni sera, aveva un artista importante: Tina Turner, Donovan, Sam & Dave, una volta addirittura Aretha Franklin. Poi arrivarono i Led Zeppelin e successe l’inferno. Quando arrivammo a Milano ero molto spaventato, perché sentivo che c’era qualcosa nell’aria. Era il 5 luglio, si vedevano fuori già da giorni dei ragazzi con il sacco a pelo che mi sembrarono improvvisamente sconosciuti, inediti. Io conoscevo la generazione beat, che comprava i miei dischi, conoscevo i ragazzi che avevano fatto il militare con me, tutta un’altra cosa. Ma questi erano i nuovi giovani, parlavano lingue nuove, volevano nuova musica, avevano voglia di cambiare il mondo. Ero terrorizzato, al momento di salire sul palco. C’erano Milva, Lucio Dalla, persino i Vianella. Radaelli era stato un pazzo a pensare che potessero convivere i Vianella e i Led Zeppelin... Fischiarono tutti, anche Lucio. Quando arrivai sul palco esplose un boato, mai sentita una cosa del genere. Radaelli mi guardò sorridendo: “Vedi che accoglienza ? E tu avevi paura”. Non aveva capito. Era un boato al contrario: un gigantesco, stentoreo, definitivo, collettivo “ No”».

Cosa cantavi lì?

«Ti facevano fare un piccolo medley. Io avevo C’era un ragazzo, Here’s to you, pezzi che immaginavo in sintonia, anche politica, con quei ragazzi. Ma non bastò. Pensai di iniziare con C’era un ragazzo. Da sotto mi urlavano solo “ Vai via!”. Cominciarono ad arrivare pomodori, di tutto. Distrussero il palco. Quaranta milioni di danni. Lì si capì che era cambiato tutto. Uno spartiacque. Dopo tentai di fare delle cose, ma non funzionavano. Migliacci, il mio produttore, aveva scritto delle grandi canzoni, ma ora era smarrito, indeciso. La stessa Rca si sentiva che non aveva più un grande progetto che mi riguardasse. Quando entravo negli studi sulla Tiburtina, prima, era come se entrasse una divinità. Ora mi guardavano come imbarazzati. Poi, dalle sale di registrazione, si sentivano note e parole nuove. Battisti, che in quegli anni alla Rca cominciava ad esplodere. E poi tutti gli altri: erano i primi anni di Renato Zero, di Cocciante e dei nuovi cantautori, Lucio, De Gregori, Venditti, Baglioni... Tutti lì, alla Rca. Celebrati come noi solo qualche anno prima».

Sono stati anni amari...

«Tentammo di fare un musical che si intitolava Jacopone da Todi, pensando che così avrei mostrato una mia nuova immagine. Peggio che peggio, ci rimisi anche un sacco di soldi. Intorno al ‘74-’75 ero già in crisi con mia moglie, le cose non andavano. Sembrava ci fosse solo buio. Mi chiedevo: “Io adesso cosa faccio?”. Perché non sapevo fare niente, sapevo fare il ciabattino. Ma potevo rimettermi a fare il ciabattino? Quattro soldi ce li avevo perché mio padre mi aveva insegnato a metterli da parte. Sia per pagare le tasse, sia per il futuro, “perché tanto questa cosa finisce”. Queste parole un po’ mi aiutarono, mi avevano fatto comunque stare con i piedi per terra, quando tutto sembrava in rosa. Aveva ragione mio padre, doveva arrivare quel momento. Ma, quando sembravo immerso in un gorgo, arrivò il Conservatorio. Mi ricordo l’esame di ammissione. Avevo solo la quinta elementare, così sostenni l’esame serale per prendere la terza media. Scrissi un tema su Beethoven, che mi ero studiato bene. Quegli anni difficili io li ho presi sul serio. Era un momento delicato per me, perché mio padre era morto, proprio nel ‘71».

Morì durante una tua tournée...

«Quell’estate, a Ferragosto, Aragozzini mi chiese di andare a fare uno spettacolo a Caracas. Aragozzini ci aveva già accompagnato in Giappone nel ‘64 insieme a Gianni Boncompagni, che faceva il fotografo. Eravamo un gruppo di italiani: Nico Fidenco, Jimmy Fontana, io, Michele, Jenny Luna, Gino Paoli, Gianni Meccia. Una tournée trionfale. Musica italiana con i giapponesi che cantavano i nostri testi. Aragozzini mi chiese di volare in Venezuela a fare un mio spettacolo. Andammo. Io però avevo una serata il 21 agosto in Sicilia, a una festa di patrono. Avevo due biglietti a disposizione. Decisi di portare mio padre. Lui non era mai andato in aereo, mai andato in America. Per lui era una curiosità. Voleva vedere com’era la culla del capitalismo. Prima di partire, l’11 agosto, venne Stefano Bonaga. Lui, tra l’altro, era nipote di Enzo Biagi. Venne a Monghidoro a parlare con mio padre. Discutevano fitto di politica, Bonaga era più giovane, fresco, frizzante, mio padre invece era un conservatore, ortodosso, addirittura era stato stalinista. Questo mi viene in mente adesso, parlando con te. Partiamo, mio padre emozionato. Facciamo la serata, ma lui non era molto contento di come mi avevano accolto. Era stata una serata strana, c’erano un po’ di italiani, un po’ di venezuelani, ma freddini. Papà non era contento. Aragozzini gli dice “Io vado a New York, perché non vieni con me ?”. Rassicurai mio padre: “Vai, io devo tornare perché ho questa serata a San Salvatore di Fitalia”. Così lui rimase e io tornai in Italia. Adriano e mio padre dovevano salire su un aereo il 17 mattina. Mio padre non lo prese. Morì di infarto nella notte. Cazzo, sono a casa mia a Tor Lupara con i musicisti a provare il concerto e arriva questa telefonata. Mi è crollato il mondo. Aragozzini lo ha riportato, fu molto gentile. Quando ho visto il volto di mio padre, la bara si apriva all’altezza del viso, ho ripensato ai suoi sacrifici e ai suoi sogni. Tutti e due grandi e belli».

Quindi nello stesso periodo muore tuo padre, ti separi da tua moglie e conosci una crisi professionale. C’era motivo di sbandare...

«Niente alcol, niente droghe. Magari giocavo a carte, in quel periodo difficile».

Per cercare di vincere, almeno al tavolo verde?

«Probabilmente sì. C’era un gruppo, a Roma. Un ristoratore, uno della Lazio e giocavamo. E mi ero fissato, pensavo davvero di fare il giocatore. Sai, quei momenti di sbandamento. Perché era troppo. Era stata una cosa così netta, così violenta, improvvisa che, pur avendo le spalle da contadino piantato coi piedi per terra, anche io vacillavo...».

Però avevi anche 27 anni...

«Ma era da quando avevo tredici anni che giravo e avevo cominciato ad essere autonomo. Non dovevo sbagliare. Per fortuna quel momento durò poco, perché poi mi capitò una disavventura sul gioco: mi misero in mezzo, persi una cifra notevole, mi spaventai e riuscii a smettere. Forse il Conservatorio mi ha aiutato, anche in questo».

Abituato a fare tutti i giorni delle serate, cosa facevi quando finivi di studiare ?

«Dovevo studiare: lezioni di teoria, di contrabbasso, di storia della musica, di solfeggio... E, minimo, dovevo stare due ore sul contrabbasso. Il contrabbasso, se tu lo senti nella grande orchestra è fondamentale, ma da solo... Mi facevano fare questi esercizi, poi le scale, infinite volte, e non veniva mai, non sembravi mai intonato. Io lì mi sono affinato proprio nell’intonazione. Grazie anche a Quinzio Petrocchi, un professore di canto corale appassionato di Bach che poi morì assurdamente in India, schiacciato da un elefante. Quando cantavamo insieme Lucio mi diceva “Ci hai rotto i coglioni, sei troppo intonato”. Lucio ha eseguito Vita insieme a me. Gli dissi: “Lucio, ma così è stonato!”. Lui mi rispose: “La gente vuole anche le cose sporche. Non gliene frega nulla dell’intonazione”. Io ero preciso, persino troppo. L’ho cantata dieci volte, ma non avevo il feeling. Ero intonato, ma lui le dava anima. Anche nella tournée con Baglioni ho pensato: questo me lo mangio. Invece siamo arrivati sul palco. Micidiale. Ha una potenza vocale invidiabile. Ogni volta che facevamo una nota acuta io lo sfidavo tenendola al massimo della lunghezza. Lui mi guardava per dire: dove vai? E se io smettevo, allora dopo due secondi smetteva anche lui. Claudio mi diceva: io ti invidio l’intonazione. Anche lui. Il merito era del contrabbasso...».

Ricordi il primo concerto che hai fatto nella nuova vita?

«Era al teatro Aurora a Roma. Fausto Paddeu, un impresario, un giorno mi disse: “Facciamo questi spettacoli, invitiamo un po’ di gente, poi d’estate le feste de l’Unità“. Mi dispiaceva lasciare il Conservatorio, avevo acquisito conoscenza, sicurezza e anche i professori ora mi salutavano col sorriso. I soldi erano sufficienti, non sono uno che spende tanto, la casa l’avevo già pagata. Insomma, resistevo. Ma cantare era la mia passione. Al teatro Aurora facciamo questa serata che si chiamava Cantare. Paganti ottanta. Allora io chiamo tutti i miei amici di Tor Lupara, loro vengono in massa. Avevo un mio amico che mise un banchetto con le cassette degli Anni ‘70 e ‘80. Le vendeva a cinquemila lire. Ne smerciò due. Dovevamo stare due settimane, la seconda serata avevamo cinquanta paganti. Facevamo molta fatica, però fu una bella esperienza. Facevo questi concerti, vedevo la gente per strada che mi riconosceva, però avevo la sensazione che mi guardassero non dico con commiserazione, ma quasi. Come a dire “ma questo, che fine ha fatto?”. Avevo questa sensazione, ma forse ero io, ero io dentro. Però mi sentivo vivo».

Poi arriva «Canzoni stonate»...

«Tra una partita e l’altra Mogol scrive questo testo. Aldo Donati aveva una melodia e andammo da Melis, il geniale patron della Rca, con la canzone. Per dirti com’era feroce Melis... Ascolta, dice che è bellissima, e poi, guardando solo Mogol “allora: la passo alla Ferri, ti faccio sentire io come viene”. Melis era brutale, ma lo apprezzavo. E spesso aveva ragione. Rimasi molto male e Mogol disse “ma è un bravo ragazzo... rifacciamo l’arrangiamento, proviamo”. Chiamò Shel dei Rokes a lavorarci. Lui l’ha ammorbidita e l’ha fatta diventare una bella canzone. Però non succedeva niente, dal punto di vista delle vendite. Mogol poi scrisse qualche altro pezzo e cercammo di mettere insieme un album. Mimma Gaspari, allora capo ufficio stampa, tifava per noi e caldeggiò la promozione del disco. Melis disse: “ Va bene, ci lavori, se vende ventimila copie le diamo un premio”. Diciassettemila, ne facemmo. Renato vendeva un milione di copie, Lucio lo stesso, Baglioni non ti dico, io diciassettemila copie. Però fu un piccolo segno. Cantavo alle feste de l’Unità, ma quando cominciavo Canzoni stonate, la gente restava incerta perché era delicata, diversa da quello per cui ero conosciuto. Mi urlavano sempre “Facci La fisarmonica !”».

In quel periodo inizia la prima serie televisiva...

«Era la storia di un uomo separato dalla moglie con i figli che rimangono a vivere con lui. Il regista, Murgia, cercava il protagonista e una segretaria della Rai disse “prendete Morandi: è separato, i figli sono con lui. È la sua storia”. Il regista insistette. Ma io volevo ancora diplomarmi, anche se poi sono arrivato a un centimetro ma non ce l’ho fatta, e stavo ricominciando a cantare. Alla fine mi convinse e firmai un accordo per farlo in due mesi. Voglia di volare andò in onda ed ebbe un grande successo. La gente, a casa, probabilmente mi ha rivisto lì e ha pensato fossi tornato, come Ulisse. Poi girammo il secondo, Voglia di cantare. Era la storia di un cantante in crisi che ritornava. Usammo Uno su mille. Musica e televisione, intrecciati, mi fecero ritrovare un pubblico largo».

Quanto vendette ?

«Vendite enormi, no. Tre, quattrocentomila. Non un milione di copie, ma neanche le diciassettemila dell’album precedente o le due cassette del teatro Aurora...».

Nella prima fase quanti dischi hai venduto?

«Penso tra i ventotto e i trenta milioni, ma anche di più. Poi c’è tutto l’estero che sfugge al controllo. Io ero fortissimo in Sudamerica. Una volta io e Jimmy Fontana, lui con Il mondo e io con Non son degno di te, arrivammo in Argentina. Ci accolsero come due star. E così in Brasile, Perù, Venezuela. Poi tutti i Paesi dell’Est, come la Russia, la Bulgaria. Anche lì stampavano milioni di dischi, ma non pagavano nessuno».

Torniamo agli inizi. Quando hai capito che potevi farcela?

«Mah, intanto io non ho mai avuto la fiamma della musica. Un po’ cantavo con mio padre, mio padre era un canterino».

Cosa cantava?

«Gli piaceva moltissimo Solo me ne vo per la città. Poi un po’ di Fred Buscaglione, Natalino Otto che cominciava a fare lo swing. Lui batteva sempre il cuoio, perché prima di risuolare le scarpe la pezza di cuoio va indurita, e quindi, mentre batteva, cantava. Avevamo un libretto con i pezzi di Sanremo e li cantavamo insieme».

Com’era Monghidoro allora ?

«Era uno dei quattro comuni emiliani amministrati dalla Dc. In piazza c’era sempre conflitto, specie con il macellaio fascista. Erano quegli anni... Il prete una volta mi mandò via dalla processione, il venerdì santo. Non andavo a messa, mio padre non mi mandava. Mentre la nonna era supercattolica. Mi portava sempre la dottrina e mio padre la nascondeva. E lei me ne portava un’altra. È andata avanti così, per anni».

Tuo padre com’era?

«Un uomo rigoroso e generoso. Mi mandava a fare la spesa e mi dava i soldi contati. Centosettantacinque lire per sette etti di pasta, venticinque lire l’etto. E cento lire per il macinato. Erano le monetine da cinque lire, quelle con il pesce sopra. Papà era il responsabile della diffusione de l’Unità. E di nove testate del partito. Aveva sempre tutto scritto, su un quadernetto. Serissimo, era fantastico. Mentre andavo a fare la spesa fischiettavo per strada e c’era il barbiere, Lino Lanzoni, che mi ascoltava. Ogni tanto mi metteva sul seggiolino e mi faceva fischiare. Cominciai così».

Quale è stata la prima canzone?

«Fu sempre dal barbiere. Se c’erano due o tre clienti Lino mi metteva davanti a loro a cantare. Il mio pezzo forte era di Claudio Villa: Romanina del Bajon. Devi sapere che una volta passò Claudio Villa da Monghidoro, aveva una Cadillac splendente, i guanti traforati. Un sogno. Mia madre era una sua grande fan. Monghidoro, prima dell’autostrada era un passaggio obbligato. Nel paese si narrava della volta in cui era transitata Linda Christian con Tyrone Power, o il passaggio del presidente della Repubblica. Un giorno un attivista del partito, tale Oliviero Alvoni che era il capo provinciale di mio padre, disse “Perché non venite alla festa dell’Unità a Bologna?” Siamo nel ‘56. Parlava Pajetta, mi sembra. Facemmo un pullman e, quando arrivammo, qualcuno del paese mi buttò su un palco dove c’era una specie di concorso. Cantai la mia solita Romanina del Bajon. Alvoni aveva una cugina che studiava con la maestra Scaglioni, considerata un’autorità della musica a Bologna. Mio padre pensò, “Facciamolo sentire dalla Scaglioni, non si sa mai, nella vita”».

Raccontami il primo provino.

«Siamo nel ‘58, primi di febbraio. Ho tredici anni, non posso andare da solo in corriera. Il barbiere si offre di accompagnarmi con la moto. Una Parilla. Mia madre mi fa un maglioncino a mano, un paio di calzoncini corti, faceva un freddo... Però poi mi dà un giubbetto. Mamma lavorava con la moglie del barbiere. Prendevano gli stracci America che arrivavano dalle barche a Livorno, li ripulivano e li vendevano al mercato. Ogni tanto avanzava un pezzetto di stoffa e lei la rammendava. Arrivo dalla Scaglioni. Lei stava facendo lezione. Lina Bizzarri, la cugina di Alvoni, mentre attendo mi dice: “Allora come va? Cosa canti?”. “La Romanina del Bajon”. Lei sobbalza. “Claudio Villa? La Scaglioni lo odia”. In quel momento entra la maestra, “Come si chiama il bambino da sentire? Cosa canti?” Io risposi di un fiato “A me piace molto Modugno”. “Allora fammi sentire Volare”. Aveva vinto da poco Sanremo e la sapevo bene. “Sei intonato, bravo, torna la prossima settimana”».

La prima canzone che hai cantato in pubblico?

«Lazzarella fu la prima canzone in pubblico. Indovina dove? Ad Alfonsine di Ravenna, alla Casa del Popolo. Credo fosse il pomeriggio o la sera della domenica 20 aprile, io sono fissato con le date. Arrivo dentro la Casa del Popolo e vedo delle gigantografie di Marx, Engels, Gramsci e Togliatti. Questi quattro, ma giganti. Canto Lazzarella, nell’intervallo ci davano un po’ di soldini e la cena. Torno ad Alfonsine, anni dopo, avevo già fatto qualche disco. Sul muro erano rimasti Marx ed Engels, avevano già tolto Gramsci e Togliatti. Sono tornato un’altra volta e non c’era più nessuno, di questi quattro. Pian piano i ritratti sparivano. La trasformazione a sinistra arrivava. Dopo Lazzarella andai avanti due o tre anni con la Scaglioni. Avevo imparato qualche pezzo di Paul Anka e di Neil Sedaka. La maestra aveva anche fatto stampare un volantino in cui venivo definito il Pol Anka italiano. Pol, con la “o”».

Stavi crescendo...

«La Scaglioni mi portò in tournée nella provincia e si accorse che piacevo, prendevo cinquecento lire e la sera mille. Tornai a casa con millecinquecento lire e mio padre disse: “Adesso apriamo il libretto al portatore”. Arrivai ad avere anche dodici, tredicimila lire, che erano soldi. La maestra verso maggio disse: “Quest’anno faccio quattro mesi a Riccione, ti prenderei ma non ci sono soldi, però ti diamo da mangiare e da dormire”. Io non vedevo l’ora, al mare poi. Sai che più parlo e più mi vengono in mente le cose? È così. A casa dissi al babbo: “La Scaglioni m’ha detto se vado a esibirmi al mare”. Lui mi aveva mandato una sola volta al mare, con la colonia dei pionieri. “Forse mi fa bene alla salute” dico io, perché ero magrolino. La mamma assentì: “Perché no?”. “Non ci sono soldi, però mi danno da mangiare e da bere”. Mio padre concluse: “Allora va bene”. Prima di partire mi dà 500 lire: “Questi devono bastare”. Cinquecento lire per quattro mesi, e aggiunge : “Però mi fai la lista di come li spendi”. Io arrivo là con le cinquecento lire, avevo paura di perderle. C’erano due cose che mi facevano impazzire, un cocomeraio che vendeva una fetta di anguria a venticinque lire e poi un flipper, che era stupendo. Ci volevano cinquanta lire. Ma noi bambini trovammo il sistema, col filo di ferro. Cuccioli di ladri. Un giorno non ce la feci più: comprai la fetta di cocomero e scrissi “venticinque lire”. Una volta presi persino un gelato. Insomma, portai a casa centoventicinque lire, con il resoconto. Mio padre fu molto contento. È stata stupenda quell’estate, l’estate del ‘58».

Poi arrivò il tuo primo autunno...

«Dopo due o tre anni finisco di essere bambino prodigio. Mogio mogio riprendo la corriera e torno a Monghidoro. Un certo Bruno Taschini, che abitava vicino a Reggio Emilia, viene a sapere che ho smesso di cantare. Ci chiama al centralino del paese: “Ma Gianni non si esibisce più?” e mio padre: “Boh, è tornato a casa e adesso lavora con me”. “Gli dica bene che se vuole lo faccio lavorare io, gli dica di venirmi a trovare”. Presi la corriera, poi un treno che faceva tutte le fermate. Per arrivare a Reggio Emilia ci mise un sacco di tempo. Taschini mi venne a prendere alla stazione e mi chiese: “Eri bravo, perché hai smesso?”. Gli raccontai che nel frattempo la maestra Scaglioni mi aveva mandato a scuola di chitarra... Mi squadrò: “Mettiamo su un gruppo: Gianni Morandi e il suo complesso, ti faccio lavorare”».

E fu così.

«Suonammo in un piccolo dancing sulla spiaggia a San Mauro Mare. Era l’anno di Legata ad un granello di sabbia. Io la imparai subito. Prendemmo una cantante, una certa Irene, e ci spostammo a Bellaria. A Bellaria c’era la vita, una sala giochi stupenda, c’era movimento. E un caffè concerto. Sopra al quale abitava la nonna della Carrà. Raffaella è nata a Bologna però stava sempre a Bellaria, era bellissima. Noi la guardavamo da lontano, ma lei non ci vedeva neanche. In quel caffè concerto cantavamo Una fetta di limone, te la ricordi? Una sera venne il famoso Paolo Lionetti, arbitro di pugilato, padrone della sala Cristallo dove c’erano flipper, ping pong, biliardo. Mi vede, mi sente cantare questa cosa. Rimane colpito e mi dice: “Potresti fare il pugile”, perché avevo delle manone enormi. Gli rispondo che non ci pensavo neanche, di prendere o dare pugni. Lui era un tipo: commerciante di olio per automobili, il Sinclair Oil, aveva una cinquantina di jukebox sparsi nei vari bar della zona. Come arbitro di pugilato aveva arbitrato la finale di Ray Sugar Robinson a Torino. Dopo un concerto mi dice, da romagnolo esuberante e un po’ spaccone: “Ti porto a Roma, lì ho degli amici che contano”. In verità era solo conoscente di un negoziante di Bologna della Casa del disco, si riforniva lì per avere le cinquanta copie per i suoi jukebox. Quello forse ha fatto una telefonata a Roma: “Qui facciamo dei provini il giovedì, se il ragazzo vuol venire..”».

Così arrivi in Rca, il tuo Santo Graal...

«Andiamo a Roma, bellissimo. Il viaggio in treno fu fantastico. Era tutto inedito, per me. Siamo nel ‘61, avevo compiuto da poco sedici anni. Arrivo agli studi Rca sulla Tiburtina. Ai provini c’era la fila. Rca stava cercando artisti nuovi e il capo era Lilli Greco, grandissimo pianista. Io mi ero preparato tre pezzi: Non arrossire di Giorgio Gaber, Il cane di stoffa di Pino Donaggio e Non esiste l’amore di Celentano. Tre generi diversi. Fanno questo provino e mi dicono che mi faranno sapere. Torno a Bologna e nessuno mi chiama. Passa un po’ di tempo e dico: “Lionetti, allora non sa niente?”. Migliacci aveva l’abitudine di andare a sentire i provini. Nel frattempo gli era arrivata una canzone da un emigrante del Belgio, un italiano. Diceva Andavo a cento all’ora per trovar la bimba mia. Solo così, solo l’inizio. La canzone arrivava fino a lì, poi la finirono Migliacci e Cantini. Migliacci raccontava questa storia: i provini venivano registrati sui nastrini della Geloso e lui quel giorno mise il mio nastrino per sentire, ma cadde per terra e gli si attorcigliò attorno alla caviglia. Per me è una balla, ma diamola per buona. Allora lui si incuriosì, sentì il provino e disse: “Questo ragazzino di Bologna, questa vocina...”. Gli viene in mente di far cantare Andavo a cento all’ora a questo ragazzino. Mi chiamano. Lionetti esulta: “Abbiamo sfondato”. Arrivo a Roma, con la mia andatura dinoccolata, Migliacci mi guarda un po’ perplesso. Mi fanno incidere. Lionetti la spara: “Vi compro già io duecento copie perché ho i jukebox. Lo lancio io, vi aiuto io, dovete farlo”. E così esce Andavo a cento all’ora ».

Intanto arriva la Pavone. E cambia tutto...

«Lei era esplosa con La partita di pallone. Cominciano a farci delle foto insieme, i minorenni della canzone, la musica si rinnova e tutto il resto. Endrigo che aveva trent’anni, noi ne avevamo diciotto, diceva: “Fortunati voi! Voi siete giovani e io ormai...”. Io vedevo Morricone che sembrava un vecchio tremendo, aveva trentadue anni. Incido Go kart twist, colonna sonora di un film di Salce. Va benino, rispetto ad Andavo a cento all’ora. Crescevo, lentamente. Migliacci aveva un progetto, su di me. Allora non ti abbandonavano, non ti facevano fare un disco e poi ti mollavano. Tira fuori Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte firmata da Luis Bacalov la musica, Franco Migliacci il testo, Ennio Morricone l’arrangiamento. Un dream team. Io ero nel mezzo, non mi rendevo neanche conto che stavo lavorando con il meglio della musica italiana. Il bello è che neanche loro ne erano coscienti. Lilli Greco spesso diceva a Ennio, anche imperiosamente, di correggere l’arrangiamento. Il grandissimo successo arrivò con In ginocchio da te. Bene, devi sapere che Migliacci fece fare tre volte l’arrangiamento a Morricone. Lui era molto sinfonico, odiava la batteria... Porta l’arrangiamento con questa grande introduzione, con l’ orchestra, molto bella, aulica. Migliacci dall’altra parte gli urla: “Ennio ma che arrangiamento è?”. “Ma come?”. “Ma dai, senti questi arrangiamenti americani alla Don Costa, o alla You are my destiny. Ispirati a quei pezzi!”. Ennio: “Devo andare a casa a riscrivere” .”Ma subito, lo devi fare”. Andavamo incontro all’estate, doveva uscire perché, contro il parere di Melis, Migliacci aveva detto: “Basta con le canzoni da adolescenti, adesso facciamo un pezzo un po’ più serio, per questo ragazzo”. Arriva il secondo arrangiamento, poi il terzo nel quale Morricone mette il famoso attacco. Dice a Migliacci, furioso: “Tieni ‘sta stronzata”. Lo aveva fatto quasi per sfregio. A noi pare subito perfetto. Facciamo il pezzo in due ore, arrangiamento, canzone, missaggio, tutto. In un pomeriggio, oggi ci metti un mese».

Quanto vendette?

«Nel ‘64 tre dischi superano il milione di copie. È la prima volta, in Italia. Sono Ogni volta di Paul Anka, Una lacrima sul viso di Bobby Solo e In ginocchio da te».

E poi cominciano i film.

«La Titanus con Sodoma e Gomorra e Il Gattopardo, era finita in grande difficoltà. Goffredo Lombardo, genio del cinema, chiama due napoletani, Gilberto Carbone e Sergio Bonotti, e cominciano a fare i musicarelli. Il primo è Una lacrima sul viso, che andò fortissimo. Poi Carbone mi vede nella finale del Cantagiro a Fiuggi. In ginocchio da te vince, anzi stravince. Decidono di fare il film. Come protagonista femminile scelgono Laura Efrikian, che aveva fatto Una lacrima sul viso. In televisione era emersa con La cittadella. Io torno dal Giappone, da quella famosa tournée con Gino Paoli e gli altri, e all’aeroporto trovo Balestrazzi della Titanus che mi dice: “Dobbiamo fare le foto del film”. E io: “Ma che film?”. Non sapevo niente. Lionetti aveva già firmato per me. Mi portano a casa di Laura a fare le foto, mi mettono una divisa da militare e tutto comincia».

E Fizzarotti, il regista?

«Era un mestierante, simpatico, una persona molto concreta. Al quinto musicarello Carbone e Bonotti mi dissero: “Stavolta prendiamo una regista seria, Lina Wertmüller”. Chimera, il primo a colori. Lina Wertmüller faceva cinema d’autore e consumava così un sacco di pellicola. Allora non c’era mica il digitale. Fecero i conti, dopo le prime giornate, e le dissero: “Ha finito signora? Domani torna Fizzarotti”».

E poi “Le castagne sono buone”, con Germi.

«Era meraviglioso, maniaco, sapeva fare tutto, nel cinema. La mattina alle sei era già lì e la sera non andava a casa, perché era in un momento di crisi con la moglie. Si occupava di ogni cosa. Un giorno, siccome tutti andavano da lui per sottoporgli qualsiasi scelta, si fece fare un cartello con scritto “Non disturbatemi, sto pensando”. A ripensarci ho vissuto cose meravigliose. Ho dei flash della mia vita incredibili».

Il “Cantagiro” com’ era?

«Ezio Radaelli, nel tempo in cui si affermava la televisione, faceva sfilare per le strade d’ Italia, da Nord a Sud, una carovana di auto scoperte con i cantanti sopra, esposti. C’era una grande fisicità, una esperienza incredibile. Migliaia di persone lungo le strade. Non hai idea. A Palermo calcolarono che, sul percorso, c’erano più di centomila persone».

Perché in quegli anni non andasti a “Sanremo”?

«Perché facevo sempre Canzonissima che finiva il 6 gennaio e Sanremo era subito dopo. Sbagliammo molte cose, con Franco. Io, per esempio, non volli fare Che sarà. Poi Mogol mandò una canzone, La prima cosa bella. Migliacci era un po’ contrario, disse no. Un anno io trovai Zingara, che aveva scritto un mio musicista, e la portai a Bobby Solo, che vinse. Quando fai gli errori, poi è difficile smettere. Ricordo quando al festival cantai Vado a lavorare. La canzone non era un granché, per usare un eufemismo. Poco dopo ricevetti un telegramma da Cochi e Renato che mi scrissero solo: “Era ora”. Allora no, ma adesso ci rido».

Qual è la tua canzone a cui sei più affezionato?

«Forse Andavo a cento all’ora perché è la prima, è così ingenua. Sai che quando suonava la canzone in un jukebox, sulle spiagge, io mi vergognavo? Eravamo a Bellaria, la sento per la prima volta e penso “ma sono io!”. Mi sono nascosto. Avevo paura mi riconoscessero».

«C’era un ragazzo» come ti arriva da Mauro Lusini?

«Venivamo da successi enormi. In ginocchio da te vendette un milione e quattrocentomila copie, Non son degno di te più di un milione, Se non avessi più te settecentocinquantamila. Riunione: “Dove abbiamo sbagliato?”. Pensa oggi se uno vendesse settecentocinquantamila copie di un disco, fiumi di champagne... Era troppo raffinata. E quindi avevo fatto Ma quando si fa sera grande successo anche quello, Notte di Ferragosto. Arriva Migliacci: “Sai che oggi ho sentito una canzone fantastica? Ho scritto i testi in cinque minuti”. L’autore era Mauro Lusini, da Siena, e la cantava in inglese maccheronico. Le parole non avevano senso, ma Rolling Stones ce l’aveva già messa lui. Migliacci scrive il testo di getto: “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, girava il mondo veniva da”. Mogol dice sempre che, quando la musica è giusta, le parole sono già dentro. Mi vengono i brividi ad ascoltare questa canzone: “La devo cantare io”. Ma Franco mi ricorda che io cantavo In ginocchio da te e La fisarmonica. “Non puoi parlare di un morto nel Vietnam! Stiamo scherzando?”. Io mi impunto: “La devo fare a tutti i costi”. Mauro Lusini, giustamente, voleva inciderla. Decidiamo di farlo tutti e due. Arriviamo a questo compromesso. È stata la prima volta che mi sono impuntato, prima avevano fatto tutto loro. Poi ci sono state le censure, dovevamo dire ta-ta-ta invece di Vietnam...».

Qual è il giorno della tua vita che vorresti rivivere ?

«Ne ho vissuti talmente tanti... È difficile sceglierne uno. Quando prendevo la corriera da Monghidoro per andare a Bologna, anche se mi faceva male allo stomaco, con tutte quelle curve. Il giorno che è nata Marianna o quello in cui ho conosciuto mia moglie Anna. O la maratona di New York. Ti sembrerà strano, ma, quando sono arrivato, ho avuto un attimo di esaltazione».

E qual è il giorno che invece non vorresti rivivere?

«Il giorno della morte di mio padre, sicuramente. Il primo choc grande della mia vita. Anche, professionalmente, la serata dei Led Zeppelin mi ha ferito. Però ho capito che nella vita serve anche il dolore».

Tu, in questo tempo livido, dai l’impressione di essere una persona felice, anche nell’uso dei social.

«Sono sempre stato abbastanza ottimista, positivo, ho sempre trovato del buono, anche nei momenti meno felici. Adesso con i social non ho fatto altro che essere me stesso. Quando ho messo la prima foto, in cui sbucciavo i fagioli, è successo un casino. Ne ha parlato persino il telegiornale. Allora mi sono accorto che la gente ha talmente voglia di sorridere... Quando io in teatro non voglio cantare Fatti mandare dalla mamma, le persone ci rimangono malissimo. Tu la canti e loro sorridono. Se puoi dare allegria, perché non farlo? La gente ha bisogno di leggerezza. Forse perché è appesantita da tanti problemi. Vivere oggi è difficile, la vita di ognuno è impegnativa. Io mi ritengo un fortunato. Il treno è passato molte volte per me. Se anche ho perso il primo, poi è passato il secondo e il terzo. Rimango diciotto anni senza essere sposato, poi incontro Anna, che mi dà un entusiasmo enorme. Di cosa posso essere invidioso o deluso?».

Che cosa non ti piace del tempo che stiamo vivendo?

«La maleducazione. Il non rispetto dell’uno con l’altro. Cristo diceva ama il prossimo tuo come te stesso. Basterebbe, ma non ce la facciamo. Mio padre mi diceva sempre che io dovevo lavorare, perché il lavoro nobilita, e dovevo lottare, essere una persona onesta e soprattutto rispettare il prossimo. La maleducazione lui non la sopportava. Oggi vedi troppa gente egoista, capace solo di pensare al proprio giardino. È così bello aiutarsi, sentirsi squadra. Invece non sappiamo ascoltarci. Mentre io parlo con te non ti ascolto, sto già pensando a quello che ti voglio dire io, è tremendo. Invece se ti abitui ad ascoltare, è molto più bello. Io ho sempre fiducia che i nuovi ragazzi ci salvino. La speranza arriva sempre da loro».

Qual è la canzone che ti sarebbe piaciuto scrivere?

«Canterò Futura, nello spettacolo a Bologna. Mi sembra enorme, quella canzone. Mi commuove, ogni volta».

Tredici Pietro, il figlio di Gianni Morandi si dà alla musica rap. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Corriere.it. «Figlio d’arte? Non più di tanto. Mio padre canta, io rappo». Se di cognome fai Morandi e tuo padre si chiama Gianni, il destino sembra segnato. Invece, Pietro Morandi, figlio dell’eterno ragazzo della canzone italiana e della sua seconda moglie, Anna Dan, il suo destino se l’è scelto da solo, con il nome d’arte Tredici Pietro, «uno pseudonimo - spiega - che deriva dalla mia “ballotta”, la cerchia stretta di amici, o meglio, la “crew”, di San Lazzaro di Savena, nell’hinterland di Bologna». Classe 1997, occhialini rotondi da nerd, il giovane rapper ha debuttato con «Pizza e Fichi», brano che ha superato 4milioni di visualizzazioni su YouTube. «Nel mondo dell’hip hop non basta avere un cognome importante - dice -. Spacchi solo se funziona il tuo pezzo. Io ho cercato di muovermi sempre con le mie forze. Essere figlio di una celebrità è un’arma a doppio taglio. Può essere un peso psicologico e un motivo di pregiudizio artistico, però può essere anche un vantaggio perché hai una visibilità che altri non hanno. Ho sempre cercato di cavarmela da solo, facendo anche il porta pizze e il cameriere a Londra, città che mi ha dato gli stimoli giusti».

I suoi nuovi pezzi, realizzati con la produzione di Mr.Monkey, si chiamano, «Biassanot», «Leggenda», «Farabutto», «Non ci fotti», «Tredici», «Tu non sei con noi, bro», e «Assurdo», il brano che dà il titolo al primo ep e al tour che approda stasera al Gate (via Valtellina 21, ore 22; ing. 18 euro) . «Ho scelto l’hip hop per una questione di linguaggio - spiega Tredici -. Per me rappare è una terapia, un modo per parlare alla gente,”mettere la testa fuori dal buco”, citando l’uomo della caverna di Platone. Le mie rime arrivano da un flusso di coscienza». Il sound è difficile da inquadrare, tra sonorità trap, elettroniche e melodie vocali. «Le mie influenze arrivano dalla golden age della west coast californiana. Su tutti Dr. Dre e Snoop Dogg».

Pietro Tredici Morandi: "Figlio di papà? Sono andato dallo psicologo per anni". Pietro Tredici, cantante emergente, parla a Vanity Fair del rapporto con il padre Gianni Morandi. Lui, che non si considera figlio d’arte, cerca di emergere con le sue forze, provando a tenere lontano il suo cognome ingombrante. Novella Toloni, Mercoledì 05/06/2019, su Il Giornale. Pietro Morandi, in arte Pietro Tredici, 22 anni bolognese, è un volto emergente della scena musicale rap. Una voce giovane che, tanto per fare un esempio, ha raggiunto quasi quattro milioni di visualizzazioni su Youtube per il suo singolo "Pizza e Fichi". Non molti sanno, però, che Pietro è figlio d’arte (anche se lui non ama definirsi così), visto che suo padre è il cantante italiano Gianni Morandi. Una figura, quella del padre Gianni, che per anni è stata ingombrante per lui tanto da portarlo ad affrontare il problema con uno psicologo: "Ho sempre vissuto la dimensione musicale di mio padre come qualcosa da cui discostarmi. Essere figlio d’arte porta più vantaggi che problemi non sono una vittima, ma la continua presenza del padre nella tua vita, emotivamente, è un peso. Da adolescente sono stato da uno psicologo per un paio di anni, ero in confusione. Grazie alla terapia stavo meglio, avevo trovato qualche certezza. Dovrei tornarci. Molti figli di…scappano dai padri ingombranti, vivono con la voglia di sconfiggerli, io invece con il mio ci ho fatto i conti". Pietro Tredici, che il 7 giugno esce con il suo disco "Assurdo", è tenace e tra le righe della sua intervista si legge la determinazione di chi vuole farcela solo con le sue forze, come è stato sino a oggi: "Vivo con i miei in una villa ma non voglio soldi. Per il primo video ho speso 200 euro di tasca mia. Divido una Fiat con mia madre e non voglio regali. Così riesco a stare in pace con me stesso. Da ragazzino non gli ho mai parlato della mia passione per il web, perché mi disincentivava, poi ha ascoltato un mio pezzo e ha detto che era bello e ora tiene il conto delle visualizzazioni si Youtube". Poi, consapevole del suo cognome ingombrante, lancia l’affondo alla giornalista Lorenza Sebastiani: "So che in questa intervista nel titolo o nel sottotitolo ci sarà scritto Gianni Morandi e questo non mi fa felice. Ma mi sono scelto questo mestiere e sono pronto ad accettare il pregiudizio".

Pietro: "Sono figlio di Morandi e nel rap non ero il benvenuto". La prima canzone a 11 anni, la voglia di indipendenza, i genitori tenuti lontani all'inizio del progetto discografico ma che ora supportano il giovane rapper in tutto e per tutto. C'è un nuovo “figlio di” pronto a lasciare il segno della scena rap italiana. Andrea Conti, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. A soli 22 anni ha le idee chiare e di certo vuole lasciare il segno, nel mondo della musica. Proprio come il padre. Abbiamo incontrato per la nostra rubrica "Figli d'arte" Tredici Pietro, ossia Pietro Morandi uno dei tre figli di Gianni, che ha pubblicato il primo album “Assurdo”, interamente prodotto da Mr Monkey. Sveglio, dalla battuta pronta, ha sempre capito le potenzialità del Web e della piattaforma Youtube. Infatti si è subito fatto notare proprio su Internet con brani come “Pizza e fichi” “Piccolo Pietro”, “Rick e Morty” e “Passaporto”. In realtà Pietro ha anche aiutato il padre nei primi passi dell'uso dei social. In alcune delle prime dirette del grande artista compariva anche Pietro che con ironia dava qualche dritta al grande "Gianni Nazionale". Pietro non ha voluto, con tutta onestà, sin da subito usare il cognome famoso. “Mi chiamo "Tredici" – ci racconta – perché è in onore del mio storico gruppo di amici, quelli del mio paese (San Lazzaro, vicino Bologna, ndr). Eravamo e siamo in 13, è un modo per portarmeli dietro ovunque vada”. I genitori hanno supportato le velleità artistiche di Pietro. “Però devo dire che non li ho inclusi molto all'inizio nei miei progetti - afferma -. Invece da quando ho iniziato a farmi notare all’interno della scena e hanno sentito le prime canzoni mi prendono più sul serio”. Dunque anche papà Gianni approva: “L’ha ascoltato tutto il mio disco, riconosce la mia dimensione artistica e rispetta la mia scelta”. Tanto che vorrebbe un duetto ma i tempi ancora sono troppo prematuri. Nonostante sia un “figlio d'arte”, Pietro non ha mai fatto perno sul suo cognome. Anzi ha sempre fatto qualsiasi lavoretto per impegnare il tempo e con il denaro ha un rapporto distaccato. “Non sono mai stato abituato a spendere, - confessa - non sono solito portare vestiti e gioielli costosi, ma è anche vero che per ora i soldi guadagnati non sono molti. Vivo ancora coi miei, ai quali chiedo il minimo indispensabile, e sto cercando di rendermi completamente indipendente attraverso la mia musica”. Un progetto discografico fortemente voluto. “Assurdo descrive il mio ultimo anno, - dichiara Pietro - un ciclo di eventi che non erano previsti. Diciamo che un 'figlio di' all’interno della scena rap non sta tanto bene, deve farsi spazio in un ambiente da cui non è particolarmente ben accetto, non sempre il benvenuto. Ma è assurdo come invece io stia trovando il modo di farmi sentire e la musica stia ricevendo ciò che merita, secondo me”. Era inevitabile sin dal primo momento che Pietro si innamorasse della musica, dal momento che il padre è un instancabile lavoratore. “Ho iniziato a scrivere a 11/12 anni. - spiega - Non erano canzoni, ero più vicino alla poesia. Dopo avere comprato il mio primo disco rap però ho iniziato subito a cimentarmi e piano piano sono uscite le prime canzoni. Nel 2014 ho iniziato a pubblicare musica, ma pochi mi seguivano... Ci è voluto un po’ per pubblicare poi video musicali, il primo è di giugno 2018”. Ora è il momento di fare sul serio. Tredici Pietro ha già fatto qualche piccola esibizione, dall’inizio dell’estate canterà tra un festival e l’altro, ma da settembre ci saranno diverse date in giro per tutta Italia. E non è escluso che sul palco a sorpresa spunti papà Gianni.

Il rapper Tredici Pietro è Morandi jr.: "Mio padre ha scoperto la mia musica quando è uscita". Arriva domani 'Assurdo' il primo EP di un giovane e talentuoso rapper che, contrariamente a quanto si possa pensare, non ha assorbito a casa la passione per la musica. Ernesto Assante il 6 giugno 2019 su La Repubblica. Il comunicato stampa è semplice, come tanti altri comunicati stampa: "Il 7 giugno sarà disponibile su Spotify, ITunes e su tutte le principali piattaforme digitali Assurdo il progetto di debutto di Tredici Pietro, uno dei più talentuosi e giovanissimi rapper della nuova generazione". Tutto normale, se non fosse che dietro alla sigla di Tredici Pietro si nasconde il figlio più piccolo di Gianni Morandi, Pietro, che dopo qualche esperimento che ha riscosso qualche interesse, arriva a pubblicare il suo primo EP. Bravo, appassionato, divertente ma anche intenzionato a trattare temi più profondi e impegnati, Tredici Pietro è cresciuto in una famiglia dove oltre al padre anche il fratello vive e lavora nel mondo della musica. Sì, ma perché diventare rapper? "Per passione", risponde lui, "È successo così, semplicemente, per interesse, in maniera naturale, non saprei spiegarlo in altro modo. Ero piccolo, guardavo le immagini dei video su Mtv, ho cominciato a interessarmi del genere, degli artisti, dei vari aspetti della cultura hip hop. E pian piano ho iniziato a scrivere, non saprei nemmeno dire bene perché".

Sarà stata l’atmosfera in casa…

"Penso sia impossibile, per uno che è cresciuto nella mia famiglia, allontanarsi dalla musica, visto che la fanno tutti in casa. Però no, al di la del fatto che sono cresciuto in mezzo alla musica e che se fossi stato figlio di un postino avrei avuto altre possibilità, non saprei dire davvero perché ho iniziato".

Quali sono stati gli artisti che l’hanno influenzata?

"Sono molto legato ai californiani degli anni Novanta, Dr. Dre, Snoop. Il primo disco di rap che ho comprato era Doggy style di Snoop Doggy Dog. Sono stati la mia base di partenza, molto lontano dalle mie origini casalinghe, e ancora oggi continuo ad ascoltare molto i californiani".  

Quindi a chi faceva ascoltare le sue prime cose?

"Agli amici, che sulle prime dicevano che assomigliavo a questo, o che copiavo quest’altro, schiettamente mi dicevano che non avevo nulla di originale e questo mi ha spinto a cercare di fare di meglio. Fino a quando qualcuno di loro ha cominciato a dire che qualche pezzo spaccava".

E a casa? Nessuno?

"Dentro casa mai. Oltretutto l’atteggiamento generale era quello di disincentivare ogni velleità musicale, non in maniera diretta, ma diciamo che non c’era una spinta a fare musica. Quindi non la facevo sentire a nessuno di loro. Nemmeno a mio fratello. I miei genitori lo hanno saputo il giorno che è uscita la prima canzone".

E come manteneva il segreto? Nascondeva le prove in cameretta? Il computer, il microfono, il campionatore?

"Ho sempre lavorato fuori casa. Le prove, se le vuoi nascondere, si tengono lontano, quindi in cameretta niente computer, campionatori, microfono. Ho lavorato da solo, cercato studi e persone fuori dal circuito familiare, mi sembrava un buon metodo".

E ora con queste canzoni che pensa di farci?

"Che penso di farci? Non ho una risposta facile, spero di farci qualcosa. Spero di fare altra musica, di poterci vivere, di lavorare nella musica, avere un po’ di successo. Non è facile, ma è un'ambizione interessante, comprensiva degli ostacoli della mia famiglia".

Chiamarsi Morandi è, dunque, un vantaggio o uno svantaggio?

"Lo svantaggio è ovvio, l’interesse attorno a me è dovuto a qualcos’altro, nessuno si concentra su quello che faccio, arrivare alla completa liberazione dal pregiudizio perché sono il figlio di Morandi sarà dura. Il vantaggio è dentro lo svantaggio, ho un’attenzione che altri all’inizio non hanno, devo cercare di farla arrivare alla sostanza scavalcando il cognome, devo proporre qualcosa di interessante che possa rimanere in piedi senza la croce e la delizia del nome che porto".

Quello dell’hip hop è un territorio in grande fermento e molto ampio. Lei da che parte vuole andare, in un universo che va dalla Dark Polo Gang agli Assalti Frontali?

"Mi interessa poco il dibattito che c'è stato attorno ai testi del rap, se mi sta chiedendo se mi devo collocare, per semplificare, pro o contro Sfera Ebbasta io mi colloco pro. Tutti dovrebbero esserlo, chi non lo è è un baggiano che pensa che lui istighi a comportamenti sbagliati, cosa che non è. Sfera ha aperto un mercato che prima non esisteva…"

No, le chiedo in senso artistico e musicale, da che parte le piacerebbe andare?

"Il rap è arte in movimento, non ha una regola fissa o un solo suono ed è per questo che mi piace. Adesso è il genere dominante, ma ha la stessa funzione che la musica ha sempre avuto, quella di descrivere il mondo e di essere guida per un mondo migliore. La scelta è tra accettare l'esistente o immaginare un progresso, accettare è fare la mera descrizione di quello che si vede, la deriva che parte del rap ha preso è quella dell’accettazione del capitale, del modo in cui il mondo oggi funziona, molti rapper scelgono di gettarsi comodamente in questo mondo cercando di essere dei vincenti e accettandone le regole. Altri, invece, e sono quelli che mi piacciono di più, le regole del mondo le vogliono cambiare. E per farlo cambiano anche la musica. Spero di far parte di questi. La linea progressista mi piace di più, mi interessa, ha una moralità, ma non pensa di dare un insegnamento ma solo uno sguardo diverso sul mondo. Certo, è molto difficile combinare le cose, parlare, raccontare qualcosa di alternativo che non appartenga alle solite quattro cinque regole canoniche del rap e cercare di essere fresco, musicalmente. Il mio ep, secondo me, si direziona verso questo, sonorità da ballare ma anche qualcosa per stare fermi e pensare, si parla di tutto, attualità, autobiografia, ho cercato di fare del mio meglio, non so se ci sono riuscito, non sta a me dirlo".

·         Francesco Facchinetti: “Io, Jim Carrey e quel folle weekend…”. 

Francesco Facchinetti: “Io, Jim Carrey e quel folle weekend…”. Marco Lomonaco il 21/06/2019 su Il Giornale Off. L’estate sta arrivando e si sa, si tende ad andare per le strade sempre meno vestiti. Questo vale per tutti, ma anche e soprattutto per le icone sexy come Wilma Fassiol in Facchinetti, moglie del celeberrimo figlio d’arte e conduttore radiotivù Francesco Facchinetti. Quest’ultima, ha recentemente postato una sua foto “decisamente” svestita… insomma: una foto veramente hot, proprio come le temperature di questi giorni. Il marito, nel vedere la foto della bella compagna e fashion blogger non ha resistito e ha commentato piccato lo scatto minacciando una “vendetta” altrettanto provocante… Date un occhiata allo scatto che ha generato il caso sui social qui sotto, dove per l’occasione vi riproponiamo anche il divertente scambio di battute tra l’ex Dj Francesco e il nostro Marco Lomonaco.  Oggi si racconta ad OFF Francesco Facchinetti: 38 anni, conduttore tv, cantante, dj, padre e figlio d’arte…

Francesco, come stai?

«Sto facendo un miliardo di cose insieme, ma devo dire che sto alla grande!»

Che progetti stai portando avanti in questo periodo?

«Sono appena uscito dalla diretta in radio, ora sto andando a finire di doppiare un film. Devo dire però che la cosa che mi sta assorbendo più tempo ed energie in questo periodo è una società che ho fondato e che negli ultimi due anni è esplosa e mi sta dando tanto da fare. Mi definisco uno startupper, mi piace far nascere le cose e vederle crescere, e soprattutto fare tante cose in contemporanea».

Quanto è rimasto del Dj Francesco dei primi 2000 nell’uomo che sei oggi?

«Sono esattamente com’ero a quei tempi. Quando avevo vent’anni ero un amabile cazzaro e lo sono ancora. Magari oggi, soprattutto grazie alla mia famiglia, mi sono un attimo tranquillizzato».

Quanto hanno influito dunque i tuoi figli nel tuo percorso lavorativo?

«Tantissimo. Quello che faccio spesso tende verso di loro, i progetti e le idee nascono per loro o pensando a loro. E’ tutto rivolto ai figli nella vita di un genitore, per dar loro un futuro. Grazie ai figli ho avuto l’evoluzione che dicevo prima: da dj cazzaro a persona che si alza tutti i giorni alle sei e lavora fino a mezzanotte passata».

Qual è stata l’influenza di Roby su di te?

«Potrei elencare mille cose che mio padre mi ha trasmesso come persona e come artista. Su tutte: se vuoi riuscire in qualcosa non usare mezze misure e non accettare compromessi. Così ho trasformato le mie passioni nel mio lavoro, proprio come ha fatto Roby».

Sui social ti sei scagliato contro i violenti e contro i buonisti. Vuoi spiegarci dunque cos’è il buonismo per te?

«Il buonismo è la strada più semplice per risolvere le cose; il porgere l’altra guancia a una situazione spiacevole e il far finta di non vedere i problemi. Sono dell’idea invece che l’incazzatura per una data situazione sia l’anticamera della soluzione del problema».

Hai scritto anche che sei favorevole alla pena di morte per chi commette crimini atroci…

«Sì, ma in un tweet non si può andare in profondità su un argomento del genere. Io ho ricevuto un’educazione cattolica e conosco bene il valore della vita; mai vorrei essere preso per quello che dice che bisogna togliere la vita altrui. Quello che voglio dire a riguardo è che chi commette crimini di questo tipo debba ricevere una punizione esemplare (e non uscire di galera dopo qualche anno). Parlo da padre: se qualcuno dovesse fare del male alla mia famiglia, io credo, a ragion veduta, che non risponderei più delle mie azioni. Se uno entra in casa mia io mi difendo!»

Sei in linea con il lavoro contro l’immigrazione clandestina che sta portando avanti il ministro dell’interno?

«Premetto che io sono apartitico, cioè non mi rispecchio in nessuna formazione politica odierna. Considerando però quanti migranti abbiamo accolto, e quanti ne hanno accolti altri paesi, è evidente che le cose vadano cambiate e che l’Europa debba venire in nostro soccorso per consentirci di fare una buona accoglienza (e integrazione)».

Ci racconti un episodio OFF della tua carriera?

«Ero giovanissimo e lavoravo all’Hollywood di Milano. Facevo il “PR di lusso” e – dato che sapevo l’inglese – mi occupavo di accompagnare le guest star internazionali al locale. Un giorno mi affiancarono a Jim Carrey, il quale all’epoca era al top della fama. Al nostro incontro, la prima cosa che mi disse fu che non gli piaceva com’ero vestito. Mi diede dunque i suoi vestiti per cambiarmi e passammo la serata insieme. Dopodiché, siccome gli stavo simpatico, mi comunicò che mi avrebbe portato con lui nel suo tour di alcune città europee. Io ovviamente non potei rifiutare e salii sul suo jet privato. Fu un esperienza pazzesca che mi insegnò che anche se sei la più grande star di Hollywood devi avere balance (equilibrio), devi essere te stesso e non irrigidirti nei confronti del mondo. Se non hai equilibrio, nel mondo dello spettacolo sei finito ancora prima di iniziare».

Facchinetti in lacrime: "Il mio amico se n'è andato in sei mesi". Ospite di Vieni da me, ricordando un concerto di Jovanotti a cui andarono insieme, Francesco Facchinetti scoppia a piangere per la morte del suo amico Andrea: "Se n’è andato in sei mesi a causa di una malattia bastarda". Gianni Nencini, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Ospite di Vieni Da Me, Francesco Facchinetti è scoppiato a piangere ricordando il suo amico Andrea, scomparso dopo una breve malattia: "Se n’è andato in sei mesi a causa di una malattia bastarda". Nel salotto di Caterina Balivo, Francesco Facchinetti parla del suo mito, Jovanotti: "Il nostro rapporto passa anche da momenti in cui lui era la mia colonna sonora e ne voglio ricordare uno. Avevo tredici anni e per la prima volta andavo in un concerto diverso da quello dei Pooh". Questo concerto ha profondamente segnato la vita dell'uomo, sia dal punto di vista professionale, che da quello più strettamente personale e intimo. A quel concerto, infatti, Francesco Facchinetti andò insieme al suo migliore amico, Andrea: "Questo mio amico non c'è più, l'ho perso sei mesi dopo per una malattia bastarda, un tumore che me l'ha portato via". Dopo queste parole, l'emozione si fa sempre più forte, l'ex cantante si interrompe e scoppia a piangere portandosi una mano sugli occhi, come a coprire le lacrime. Rivolgendosi al pubblico, con la voce rotta dal pianto, esclama: "Scusatemi". Caterina Balivo si alza per confortarlo ma la disperazione di Francesco Facchinetti cresce e si libera in un triste singhiozzare: "Non ne ho mai parlato ma mi manca ogni giorno". La padrona di casa è in visibile difficoltà e spiega: "In questo momento ti vorrei abbracciare, vorrei che non ci fossero le telecamere, ci conosciamo da venti anni e non riesco a vederti così". Facchinetti si scusa ancora e precisa di non essere solito piangere in televisione: "Ogni giorno penso alle cose che abbiamo vissuto insieme e questo concerto è stata la cosa più bella". Francesco rivela di scriversi ogni tanto con la mamma dell'amico, ma aggiunge anche di non vederla da molti anni: "Penso sia dura per lei incontrare il miglior amico di suo figlio". "Non so dove tu sia Andrea, ma ti penso ogni giorno", aggiunge l'uomo tra le lacrime. Riacquistata un po' di serenità, l'uomo ammette: "Sono andato in blackout coi ricordi di Jovanotti e del mio amico". "Mi ricordo tutto di quel concerto, il profumo del palazzetto, la maglietta che avevo io, quella che aveva lui. Era maggio; a settembre sono andato al suo funerale", spiega commosso. Dopo questa esperienza drammatica, Francesco Facchinetti racconta di provare a vivere intensamente ogni momento, proprio per cercare di scongiurare la provvisorietà della vita.

Francesco Facchinetti a Vieni da Me: “Non piango mai in tv, scusate”. Alice su Notizie.it. 27 Novembre 2019 . Durante la sua intervista al salotto di Caterina Balivo Francesco Facchinetti non è riuscito a trattenere il suo pianto disperato nel ricordare un suo carissimo amico, scomparso a causa di una grave malattia in appena sei mesi. Francesco Facchinetti a Vieni da Me: le lacrime e il dramma. Anche Caterina Balivo è riuscita a stento a trattenere la sua commozione nel vedere Francesco Facchinetti tanto disperato: il celebre conduttore stava parlando della sua passione per la musica di Jovanotti, quando all’improvviso si è dovuto interrompere per via del pianto che ha iniziato a strozzare le sue parole. Facchinetti ha infatti ricordato che proprio ad un concerto di Jovanotti si sarebbe recato con un suo carissimo amico, Andrea, scomparso in appena 6 mesi a causa di una gravissima malattia. “Chiedo scusa, non sono solito piangere in tv”, ha dichiarato Facchinetti, per poi aggiungere: “Scusate se sono andato in black out. Penso a lui, Andrea, ogni giorno. Una brutta malattia lo ha portato via in sei mesi. Saluto la sua mamma”, ha detto il conduttore, sempre più commosso. Il pubblico ha cercato d’incoraggiarlo ad andare avanti con un applauso di solidarietà, ma più volte Facchinetti ha dovuto interrompersi per il suo dispiacere per la vicenda. Lo stesso è accaduto a Caterina Balivo, che si è trovata impreparata a dover gestire un momento tanto delicato e che, alla fine, si è commossa per il dramma del suo ospite. Una volta conclusa la trasmissione la conduttrice ha salutato con tenerezza Facchinetti, e ha chiesto scusa al pubblico per le lacrime da lei versate durante la trasmissione.

Francesco Facchinetti: "Io e papà Roby, calamite di simpatiche sfighe". Roby Facchinetti dei Pooh e suo figlio Francesco insieme sono esplosivi, divertenti e sempre imprevedibili. “Mio papà mi ha insegnato a combattere per raggiungere gli obiettivi nella vita”, ci racconta Francesco.Andrea Conti, Lunedì 01/07/2019, su Il Giornale. Imprenditore, social media manager, conduttore, cantante, manager e tanto altro. Queste sono le mille anime del vulcanico Francesco Facchinetti, figlio di Roby Facchinetti dei Pooh e Rosaria Longoni. Abbiamo incontrato per la nostra rubrica “Figli d'arte”, Francesco e durante la chiacchierata è emerso subito che il legame con il padre è sempre stato strettissimo. Tanto che insieme hanno anche girato due anni fa per Rai Due “50 modi di far fuori papà”, un viaggio divertente insieme tra imprevidibilità e colpi di scena. Il viaggio è una costante di Francesco, tanto che è tornato in televisione sul Canale Nove e ogni martedì conduce in prima serata “La vacanza perfetta”. Tre proprietari di location cercheranno di convincere una coppia di vacanzieri a trascorrere la propria "vacanza perfetta" da loro. “Secondo me ogni vacanza è a sé un viaggio mistico - ci racconta -. Mi è sempre piaciuto, prima di avere una famiglia, fare tanti viaggi da solo in Sudamerica, Oriente e in Africa. Ho passato mesi in giro per il mondo da solo, alla giornata. Il mio motto era "ogni giorno è un nuovo giorno". Cercavo di arrivare alla sera, conoscendo più persone possibili. Insomma le vacanze erano imprevedibili. Ora che ho figli e famiglia devo fare cose programmate”.

Qual è la vacanza perfetta con tuo papà Roby Facchinetti?

“La vacanza perfetta con mio padre deve essere imperfetta! Perché io e mio padre siamo un po' come i cartoni animati: in vacanza possiamo perdere l'aereo davanti al check in, perché ci perdiamo nei nostri discorsi, possiamo sbagliare hotel, rimanere senza benzina in macchina. Insomma io e lui insieme siamo una calamita per le sfighe simpatiche, perché ce ne sono successe di tutti i colori! Io ho preso l'aereo sbagliato, una volta mi sono addormentato sul treno e mi sono svegliato da tutta un'altra parte più di tre ore più avanti. Ma anche mio padre è così. Ad esempio, lui durante una vacanza stava attaccando una cosa con l'Attak e gli si è incollato con l'occhio. Insomma siamo davvero a livelli I-N-C-R-E-D-I-B-I-L-I! (scoppia ridere, ndr)”

Cosa ti ha insegnato tuo padre?

“Se vuoi qualcosa e se vuoi ottenerlo, devi lottare con tutto te stesso. Mio padre è così, ha fatto della sua passione il suo lavoro ed è riuscito ad entrare nella vita di tante persone, grazie alla musica”.

E tu che papà sei?

“Io spero di essere un papà presente, affettuoso, cerco di insegnare tante cose ai miei figli. Cerco di essere buono, ma anche un po' severo. Voglio che loro vadano avanti a piccoli passi e che l'amore sia centrale nella loro vita”.

·         Daniele Bossari.

Lagerback «ospite» da Fazio: «Non ho capito quanto stava male Daniele». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. Domenica sera a «Che tempo che fa» è stata quasi una seduta di psicoanalisi collettiva. Ma autentica. Fabio Fazio che di solito non ama parlare di questioni private questa volta ha fatto una eccezione in virtù del fatto che Filippa Lagerbäck è collaboratrice del programma e ormai amica del conduttore. Filippa ha da poco sposato Daniele Bossari, anche lui conduttore, ma soprattutto reduce da anni di grande sofferenza dovuta a una lunga depressione che lo ha costretto a casa. Una esperienza che ha messo a dura prova la coppia e la loro figlia Stella , ma dalla quale sono usciti più uniti e più forti. Sembra retorico dirlo, ma ne sono usciti insieme grazie all’amore. Anche se la medicina ha aiutato eccome. Perchè la depressione è una malattia vera (non un mal de vivre) e Bossari è stato ben curato da medici esperti. Daniele, nonostante il suo carattere riservato, ha deciso di scrivere un libro, «La faccia nascosta della luce», in cui ripercorre le varie fasi della malattia e la successiva rinascita» che ha presentato ieri da Fazio. A parlare è stata soprattutto Lagerbäck (anche lei è molto riservata, tanto che Fabio Fazio e tutti i collaboratori di “Che tempo che fa” per anni non hanno saputo del grande dolore che stava attraversando Filippa e il suo compagno e la figlia) ha raccontato: «È molto difficile stare accanto a una persona che sta male, quando non realizzi quanto grande sia il suo malessere. Mi sono sentita in colpa per non aver capito fino in fondo mio marito. È stato un percorso faticoso». Accade spesso che stare accanto a una persona depressa sia davvero difficile: all’inizio perchè non te ne rendi conto, poi perchè non capisci fino a che punto soffre, infine perchè ti senti impotente e non riesci ad aiutare la persona che ami e ti sta accanto. Continua Filippa: «Io allora ero piena di energia e vitalità, lo guardavo e pensavo di potergli indicare la chiave per raggiungere insieme la nostra felicità. Invece mi sono resa conto che ognuno deve trovare il suo percorso». E conclude raggiante - un caso di bellezza la sua che è esteriore ed interiore all’unisono — «È servita tantissima pazienza e amore e oggi sono felice che lui con coraggio racconti questa storia». Bossari dopo la malattia è rinato sia a livello professionale - ha vinto il Grande fratello Vip e ha condotto House of eSports— ; che a livello personale: lui e Filippa si sono sposati il 4 giugno 2018. E ora ha sentito il bisogno di raccontare la sua vicenda: «Tutto è nato quando a livello professionale sono arrivate le prime critiche. La mia spensieratezza di ragazzo, che mi ha portato a raggiungere il lavoro che sognavo da bambino, ha lasciato spazio alle insicurezze e alle fragilità. Che sommandosi, una dopo l’altra, ti portano in una situazione drammatica, dove rifiuti l’aiuto di tutti». Persino della donna che ami: «Non vuoi far vedere il tuo malessere, allora ti chiudi a riccio e non permetti a nessuno di allungare una mano e provare a tirarti su». Le cure, la pazienza, le medicine, l’amore, il tempo. Infine la guarigione. Il «tentativo» dell’esperienza televisiva del GF, la vittoria, il ritrovarsi guarito e forte. «Uscendo dal Grande fratello sono stato inondato da un affetto incredibile». Ma soprattutto la gente ha cominciato a chiedergli aiuto: come si fa a uscire dalla depressione? E così la decisione di raccontarlo in un libro. Concludono all’’unisono «Se questo libro riesci ad aiutare, anche solo una persona, è bellissimo. Sapete quanto siamo stati sempre riservati ma tantissime persone che vivono le stesse condizioni di Daniele ci hanno scritto. Se aiuti anche soltanto una persona, hai fatto benissimo».

Daniele Bossari: “Il suicidio sembrava una soluzione”.  Veronica Caliandro su Notizie.it il 28/11/2019.  Daniele Bossari, vincitore del Grande Fratello Vip 2, non ha mai fatto mistero del suo difficile passato da alcolista. Un periodo della vita di cui ha voluto raccogliere tutti i pensieri nel suo secondo libro, dal titolo La faccia nascosta della luce.

Il passato di Daniele Bossari. Dopo aver scritto un libro interamente dedicato a una lunga intervista a Franco Battiato, Daniele Bossari ha scritto un nuovo libro dal titolo La faccia nascosta della luce. Proprio attraverso questo libro, l’ex gieffino ha descritto uno dei periodi più bui della sua vita, legato ai problemi causati in passato dall’alcol. Come dichiarato nel corso di una intervista al settimanale Chi, infatti “Al Grande Fratello ho accettato queste mie fragilità, ho capito che non solo mi faceva bene parlarne […] ma che se anche solo una persona ci si identifica, allora ho fatto bene a scriverla”.

In particolare il conduttore ha spiegato in che modo è caduto in questo tunnel. “Tutto è iniziato con il giudizio negativo di un critico tv: lì ho cominciato ad avere delle insicurezze, mi sono sentito esposto e questa vulnerabilità mi ha causato profonde ferite. Quando ti rendi conto che c’è qualcosa che si è rotto dentro di te, è lì che si entra nella dinamica malata, lo fai ancora di più proprio perché vorresti smettere”. Mai nessuno, però, si era accorto del difficile momento vissuto dal conduttore. “Continuavo a fare tv con una bella maschera”, ha infatti affermato lo stesso Daniele Bossari. Per poi aggiungere come dentro di sé avesse anche maturato il terribile pensiero di suicidarsi. “Me ne vergogno molto, ma sembrava una soluzione, il modo di uscire da quella condizione senza far soffrire gli altri.

È assurdo ma è cosi”. Solo dopo aver trovato la volontà di uscire da questo tunnel distruttivo è riuscito ad allontanarsi dall’alcol. “Ho cercato di ricordarmi delle esperienze belle della mia vita, di quelle che oggi chiamo schegge di luce, perché io avevo rotto tutto. Ho provato a rimettere insieme quelle più luminose, mia moglie Filippa e mia figlia Stella. […] Non è facile come sembra, ma quando inizi vedi subito i benefici e non hai più voglia di tornare indietro”.

Bossari: "Mi arrampicai su una trave a 10 metri d'altezza. Lì ho visto la morte". L'intervista di Daniele Bossari a Verissimo è stata sincera e senza filtri e ha portato alla luce il periodo buio del conduttore, che un giorno si arrampicò in bilico su una trave. Francesca Galici, Venerdì 29/11/2019 su Il Giornale.  Solo pochi giorni fa, in un'intervista al settimanale Chi, Daniele Bossari ha raccontato del periodo nero in cui è caduto qualche anno fa e di come è riuscito a rivedere la luce. Nelle sue parole anche un accenno ai pensieri suicidi che pervadevano la sua mente e di cui ha parlato con maggiore ampiezza durante l'intervista a Verissimo, con Silvia Toffanin, in onda domani su Canale5. La depressione e l'abuso di alcol sono stati compagni di Daniele Bossari per un ristretto arco temporale. Nonostante l'affetto della sua famiglia, il conduttore a un certo punto si è trovato risucchiato da un vortice di autodistruzione, che lo stava portando a compiere un gesto estremo. “Ero a casa da solo. Di fronte a casa c’era un cantiere aperto, così, in uno stato di totale confusione, ho deciso di scavalcare la recinzione. Mi sono arrampicato e mi sono ritrovato in bilico su una trave a 10 metri di altezza. Lì ho capito che l’ipotesi della morte stava per diventare reale”, ha detto Daniele Bossari a Silvia Toffanin. Un episodio sconosciuto della vita di Daniele Bossari, che il conduttore ha trovato il coraggio di raccontare solo ora nel suo libro La faccia nascosta della Luce. Si dice che la vita, a volte, sia solo questione di secondi e così è stato per Daniele Bossari, che dopo essere scivolato su quella trave ha deciso di fermarsi e di tornare a casa. “Lì c’è stato il risveglio. Mi sono guardato allo specchio e ho sentito un urlo fortissimo uscire dalla mia anima che mi ha fatto scattare qualcosa”, ha rivelato il conduttore a Verissimo. Non è stato un periodo facile per lui, che per ritrovare la sua strada e rinascere decise di partecipare al Grande Fratello Vip. Fu per lui un'esperienza travolgente che lo portò alla vittoria ma è stata anche l'occasione per chiedere in moglie la sua compagna di una vita, Filippa Lagerback. Una presenza fondamentale nella sua vita, insieme a quella di sua figlia Stella, senza le quali forse non sarebbe riuscito a riemergere per vedere la luce: “C’è stato l’aiuto prezioso delle persone care, di Filippa, della mia famiglia e anche di uno psicologo. Ma se non scatta qualcosa dentro di te non c’è scampo, sei tu che decidi di salvarti.” L'episodio in quel cantiere ha fatto rinsavire Daniele Bossari, che in quel momento si è reso conto di dover reagire, di dover ritrovare il capo di un filo che si era ingarbugliato e di cui non trovava più il senso. Durante l'intervista il conduttore si è scusato anche con Silvia Toffanin, con la quale ha lavorato in passato: “Quando stavo qui ero già caduto nel baratro e avevo già i miei fantasmi. Non stavo bene e ti devo chiedere scusa Silvia. Facevo molta fatica e sprecavo moltissime energie per mantenere una facciata decente: la sera arrivavo a casa distrutto.”

·         Cristina Chiabotto.

Cristina Chiabotto rovinata dai debiti, deve pagare due milioni e mezzo: si vende tutto. Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Oltre due milioni e mezzo di debito. Per questo Cristina Chiabotto ha presentato l'avvio di una procedura di liquidazione, prevista dalla legge 3 del 2012 (la cosiddetta "salva-suicidi"), istanza accolta dal giudice Matteo Buffoni del Tribunale di Ivrea. La ex Miss Italia, ha una "posizione debitoria", scrive il giudice nel decreto, che si è manifestata "in modo prorompente" già nel 2014, quando a seguito di verifiche effettuate dalla guardia di finanza di Torino in relazione al periodo 2008-2013, era stato "accertato un comportamento elusivo (non fraudolento) e di conseguenza ripreso a tassazione un reddito superiore rispetto a quello dichiarato". Le cartelle di pagamento emesse dall'Agenzia delle entrate, che si sono sommate a quelle relative al mancato versamento delle imposte degli anni 2014 e 2015, ha fatto quindi lievitare il debito oltre i 2,5 milioni di euro. La Chiabotto ha potuto avvalersi della salva-suicidi in quanto "non ha posto in essere atti in frode ai creditori" e in qualità di "lavoratrice autonoma nel campo dello spettacolo" che ha incassato dalla sua attività un reddito netto "quantificabile per l'anno 2019 di euro 253mila, in ragione della media dei redditi percepiti nei quattro anni precedenti e dei contratti in essere". Per sanare la propria posizione la conduttrice venderà i negozi di cui è proprietaria insieme alla sorella e verserà ogni anno una quota di liquidità.  

Cristina Chiabotto, debiti col fisco? Su Instagram è gogna mediatica “Che delusione”. Il Sussidiario il Jacopo D'Antuono il 28.11.2019. Cristina Chiabotto, debiti col fisco? Il popolo dei social ha reagito in malo modo alla notizia del debito contratto dalla showgirl. Ha fatto in breve tempo il giro del web la notizia circa i debiti che Cristina Chiabotto avrebbe con il fisco (si parla di una cartella da circa 2.5 milioni di euro). Anche su Instagram se ne parla, ed in particolare sul profilo della stessa ex Miss Italia, fresca di matrimonio. Non mancano i commenti acidi, con numerosi follower che hanno appunto fatto presente alle bella conduttrice di saldare la propria posizione debitoria, ergendosi quindi a giudici senza nemmeno conoscere nel dettaglio l’intera vicenda, e soprattutto, attendere che la stessa si esponga per fare un po’ di chiarezza. C’è chi fa notare che la Chiabotto abbia guadagnato un bel po’ di soldi negli ultimi anni (come fanno a saperlo loro non si sa bene), e un follower quindi replica: “A parte la pubblicità dell’acqua io non la ricordo a fare grandi cose in tv o cinema…”. C’è chi poi ripropone il clichè del “più si è ricchi e più non si vuole pagare le tasse”, mentre un altro scrive: “Ti piace vincere facile eh? Che delusione…”. Non mancano poi gli insulti che ovviamente non possiamo e non vogliamo pubblicare. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

CRISTINA CHIABOTTO, DEBITI COL FISCO? SILENZIO SOCIAL. Silenzio sui social da parte di Cristina Chiabotto, in merito alla presunta vicenda giudiziaria riportata nelle ultime ore da parte dei Repubblica, secondo cui la stessa ex Miss Italia si sarebbe indebitata con il fischio per una cifra pari a 2.5 milioni di euro. Sulle pagine web della stessa showgirl, a cominciare da Instagram, non si fa menzione di questa vicenda, con l’ultimo post pubblicato circa 23 ore fa, una fotografia pubblicitaria per una ditta di gioielli, in cui la stessa Chiabotto ha scritto: “L’atto più coraggioso rimane quello di pensare a se stessi. Ad alta voce. C.C”. Nessuna notizia anche sulle Instagram stories, di conseguenza l’ex conduttrice de Le Iene preferisce per il momento non esporsi, ne tanto meno fare chiarezza sulla questione dei debiti, smentendo o confermando le notizie circolanti dalla tarda serata di ieri. La cosa certa è che sulla pagina Instagram di Cristina non traspare alcun eventuale malumore, con uno splendido scatto natalizio pubblicato tre giorni fa, e la foto di un bacio con il marito Marco Roscio, risalente al 16 novembre scorso. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

CRISTINA CHIABOTTO, DEBITI COL FISCO PER 2.5 MLN DI EURO. Momento molto delicato per Cristina Chiabotto, alle prese con alcuni problemi finanziari. La modella sarebbe indebitata col fisco per circa 2,5 milioni di euro; una questione che secondo TorinoToday l’ex Miss Italia, potrebbe risolvere attraverso la procedura di liquidazione prevista dalla legge 3/2012, ovvero la famosa legge “salva-suicidi”. Stando alle ricostruzioni di siti e giornali online, il giudice di Ivrea Matteo Buffoni avrebbe aperto la procedura richiesta dalla stessa Chiabotto con un’istanza presentata lo scorso 3 giugno, quindi poco prima del matrimonio con Marco Roscio. A quanto pare la Chiabotto aveva incaricato Massimo Savio come suo liquidatore. Per la modella ci sarebbero debiti da 2,1 milioni di euro verso l’Agenzia delle Entrate Riscossione, senza contare altri 252mila euro con l’Agenzia delle Entrate, più di 90 mila euro nei confronti di Banca Sella, ed una cifra minore per presunte spese non pagate ad un condominio torinese. Insomma un momento non semplice per Cristina Chiabotto, che a questo punto rischia di essere coinvolta in un tritacarne mediatico.

Cristina Chiabotto, i guai col fisco fanno parlare i social. Inevitabilmente gli appassionati di gossip si domandano come Cristina Chiabotto abbia fatto ad accumulare una cifra di debiti tale. Secondo quanto riporta Fanpage, la situazione economica della modella si sarebbe aggravata circa cinque anni fa, in riferimento ad alcune verifiche della guardia di finanza di Torino che accertava un comportamento elusivo (non fraudolento) da parte della showgirl. Al momento, quindi, Cristina Chiabotto non sarebbe in grado di onorare il debito, anche perché – come sottolinea il noto portale online – la modella disporrebbe appnea di un paio di negozio dal valore inferiore ai 250.000 euro. Inoltre non risulterebbero beni di lusso intestati o liquidità sufficiente per porre rimedio ad una situazione intricata. Con la legge salva suicidi, tuttavia, la Chiabotto vedrebbe ridurre i propri debiti a fronte di un pagamento parziale degli stessi. La sensazione è che dei suoi guai col fisco ne sentiremo parlare finchè non verrà decretata la parola fine.

Chiabotto, 2,5 milioni di debiti con il Fisco «Io consigliata male». Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Massimo Massenzio. Concessa alla showgirl la procedura «salva suicidi», la domanda è stata accolta dal Tribunale di Ivrea. Debiti con banche e Agenzia delle Entrate per oltre 2 milioni e mezzo di euro, crediti pignorati e cartelle esattoriali che aumentano ogni anno. A poco più di due mesi dallo sfarzoso matrimonio con l’imprenditore Marco Roscio, con tanto di ricevimento per 400 invitati nella reggia di Venaria, la showgirl torinese Cristina Chiabotto è stata ammessa alla procedura di liquidazione del patrimonio prevista dalla legge «salva suicidi». Secondo il Tribunale di Ivrea la domanda depositata lo scorso 3 giugno è meritevole di accoglimento e per questo l’ex Miss Italia sarà costretta a vendere tre negozi di sua proprietà per un valore di 241 mila euro e a mettere a disposizione del Fisco una liquidità annua di poco superiore a nove mila euro. Un accordo che sembra vantaggioso per Cristina Chiabotto considerando che negli ultimi anni il suo reddito netto è stato in media di circa 250 mila euro e nel 2019, al momento della presentazione dell’istanza, aveva già perfezionato due contratti da 114 mila euro. La legge, però, non fa distinzioni e ai benefici previsti dalla normativa possono accedere tutti in cittadini in crisi da sovraindebitamento. È necessario quindi che ci sia un’enorme sproporzione fra il debito accumulato e i mezzi a disposizione. Per il giudice Matteo Buffoni è proprio il caso della modella di Borgaro, che nel piano di liquidazione presentato in cancelleria ha dichiarato di essere ancora residente nel piccolo paese dell’hinterland torinese assieme alla mamma casalinga, alla nonna pensionata e non autosufficiente e alla sorella studentessa. Un nucleo familiare che viene definito dalla stessa Chiabotto bisognoso di un aiuto di 50 mila euro all’anno «per la gestione quotidiana quali utenze domestiche, spese per personale addetto agli anziani e tasse scolastiche». Anche se dopo il matrimonio sembra che la showgirl si sia trasferita con lo sposo in una lussuosa residenza all’interno del parco della Mandria. L’ex Miss Italia ha spiegato di non volersi sottrarre ai suoi doveri e che i suoi debiti sono stati il frutto di cattivi consigli: «Purtroppo, in totale buona fede, mi sono affidata ai professionisti sbagliati. Sono stata mal consigliata sotto il profilo fiscale quando, ancora giovanissima, a 19 anni ho iniziato la mia attività». Infatti i guai della soubrette sono iniziati nel 2014, dopo le verifiche di Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate. Sotto la lente di ingrandimento sono finite le imposte versate dal 2008 al 2013 e gli ispettori hanno accertato un «comportamento elusivo non fraudolento» che ha prodotto un debito col Fisco — tra interessi e sanzioni — di oltre due milioni di euro. Nel 2018 Chiabotto ha chiesto la massima rateizzazione possibile, ma non ha rispettato neppure le nuove scadenze e i pignoramenti per circa 200 mila euro hanno peggiorato la situazione. Adesso potrà estinguere le sue pendenze vendendo gli unici beni a lei intestati: due negozi a Borgaro e un terzo a Torino. Ma la pubblicazione di tutta la documentazione sul sito del Tribunale di Ivrea ha provocato infuocate polemiche sul web e provocazioni ironiche alle quali l’interessata ha risposto sostenendo di essere ricorsa alla legge «salvasuicidi» per «pagare, come tutti, le somme affettivamente dovute». E ha concluso: «Non mi resta che attendere l’esito della procedura con la serenità di chi ha la coscienza a posto».

Cristina Chiabotto, non solo 2,5 milioni di debito col fisco: che guaio con il condominio. Daniela Mastromattei su Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. A poche ore dalle voci che la davano in dolce attesa, per una rotondità un po' sospetta dopo il matrimonio con l' imprenditore Marco Roscio celebrato appena due mesi fa, arriva una notizia certificata (questa volta) che rende Cristina Chiabotto assai meno simpatica e amabile. L' ex Miss Italia, classe 1986, nata a Moncalieri - alta un metro e 82 centimetri, occhi color verde smeraldo, bellezza palpabile e sorriso travolgente - ha maturato debiti col fisco per 2,5 milioni di euro. Più precisamente: 2,1 milioni riguardano cartelle esattoriali dell' ex Equitalia, 252mila euro un debito con l' Agenzia delle Entrate, 93mila con la Banca Sella. E come se non bastasse, la soubrette che ha condotto "Scherzi a parte" non si è fatta mancare nulla: ha un conto in sospeso pure con il condominio di una casa in provincia di Torino. "Iena", su Italia1 nel 2006, dopo un' intensa relazione durata 12 anni con l' attore napoletano Fabio Fulco (un amore esploso sulla pista di "Ballando con le stelle", sotto gli occhi attenti della padrona di casa Milly Carlucci), ha preferito sposare lo scorso 21 settembre il general manager di una grande cartiera piemontese (mogli, buoi... e mariti dei paesi tuoi, dice un proverbio antico) con un lussuoso ricevimento, al quale hanno partecipato 400 invitati, nella reggia di Venaria. Nozze da mille e una notte e dolce attesa erano la conclusione perfetta della favola del principe e della principessa che vissero felici e contenti. Invece la Chiabotto deve affrontare il suo maxi-debito, che già da un po' la perseguita. I conti al Tribunale di Ivrea li ha presentati qualche tempo fa, con un' istanza di ammissione alla procedura di liquidazione del debito. Il cosiddetto «fallimento del lavoratore autonomo» che non riesce a ripianare i guai con l' Agenzia delle Entrate. E ha chiesto il provvedimento "salva-suicidi", della legge varata nel 2012 per tutelare piccoli imprenditori e liberi professionisti in difficoltà. In serata, la versione della Chiabotto: «Purtroppo, in totale buona fede, mi sono affidata ai professionisti sbagliati. Sono stata mal consigliata sotto il profilo fiscale quando, ancora giovanissima, a 19 anni ho iniziato la mia attività. Ritengo giusto e doveroso pagare, come tutti, le somme effettivamente dovute. Non mi resta che attendere l' esito della procedura con la serenità di chi ha la coscienza a posto». ACCOLTA L' ISTANZA Dopo le verifiche della Guardia di Finanza che hanno accertato «un comportamento elusivo non fraudolento», il giudice Matteo Buffoni del tribunale di Ivrea ha accolto l' istanza della showgirl. Nel decreto si legge che la posizione debitoria della Chiabotto si è manifestata «in modo prorompente» già nel 2014, in conseguenza di verifiche effettuate dai finanzieri di Torino in relazione al periodo 2008-2013. E di conseguenza «ripreso a tassazione un reddito superiore rispetto a quello dichiarato». In qualità di «lavoratrice autonoma nel campo dello spettacolo» ha incassato dalla sua attività un reddito netto «quantificabile per l' anno 2019 di euro 253mila, in ragione della media dei redditi percepiti nei quattro anni precedenti e dei contratti in essere». Ora alla Chiabotto non resta che pagare. Per farlo, si è detta disposta a mettere in vendita i negozi di Torino e di Borgaro Torinese di cui è proprietaria con la sorella, la quale sembrerebbe aver già dato il consenso. Peccato però che il loro valore sia di circa 250mila euro, cifra ben lontana da quella dovuta. Non vi sarebbero inoltre altre proprietà di pregio, né vetture a lei intestate. Nella dichiarazione del 3 giugno la fidanzatina di Alessandro del Piero nello spot dell' acqua minerale aveva dichiarato di vivere con la madre casalinga, la nonna pensionata non autosufficiente e la sorella, studentessa. Aveva chiesto pertanto che le venissero riconosciuti 50mila euro annui di spese per il mantenimento di quattro persone. Ora, l' ex Miss non ci sta a passare per una furbetta e assicura che verserà le somme mancanti al fisco: «Non voglio sottrarmi al mio dovere, anzi. Vorrei solo fosse rispettato un principio valido per chiunque, cioè che l' ammontare dovuto di tasse si basi su quanto effettivamente guadagnato». Daniela Mastromattei

·         Parla Gino Paoli.

Oggi in edicola il nuovo 7 Veltroni intervista Gino Paoli: «Perché mi sparai». Pubblicato venerdì, 10 maggio 2019 da Corriere.it.

Gino, per prima cosa, mi racconti di tuo nonno? Il primo Gino Paoli....«Mio nonno era un socialista ante litteram, quando i socialisti li chiamavano anarchici, a Piombino. Aveva cominciato a lavorare a cinque anni. Il padre era un carrettiere, il corrispondente di oggi del camionista, e lo picchiava con la frusta dei cavalli. Fino a quando, un giorno, la nonna andò in cucina a prendere un coltello, glielo puntò alla gola e gli disse “Se lo tocchi ancora una volta ti sgozzo”. Non lo ha più toccato. Nonno Gino è entrato giovanissimo a lavorare alla Magona. Era il piegatore degli alti forni, quello che prende il magma fuso, lo passa nei rulli e fa la latta. Quando ha cominciato il lavoro era a cottimo, quindi se ne faceva tanto guadagnava tanto, se ne faceva poco guadagnava poco. Analfabeta naturalmente....» 

Cosa ti raccontava? 

«Lui aveva un senso dell’umorismo strepitoso. Quando gli chiedevano “Come hai conosciuto tua moglie?”. Lui rispondeva: “Noi operai una volta uscimmo…e ci portarono in giro con le maestre. C’era una maestrina e ad un certo punto traversammo un rio e lei per scavalcare si tirò su le gonne. Vidi la caviglia e fu fatta”. Una volta ci fu una rissa pazzesca perché alcuni della legione straniera fecero un torto ad uno della famiglia e allora tutti i fratelli Paoli tornarono a casa a mettersi gli abiti da lavoro perché, essendo domenica, non potevano andare mica a menarli con gli abiti della domenica... Successe un casino a Piombino, botte da orbi. Il maresciallo della polizia arrivò e disse “Oh, Paoli, è una cosa politica?” “No, è una cosa di famiglia” “Allora fate pure”»....

Comincia così l’intervista che Walter Veltroni ha fatto a Gino Paoli per il primo numero del nuovo 7, in edicola da venerdì 10 maggio. Un lungo colloquio con l’icona della canzone italiana, che spazia dall’infanzia ai primi amori e alle tre mogli, dalla guerra allo sbarco degli americani, dalla scoperta del jazz agli esordi con la Ricordi: «Avevamo un gruppo: io suonavo la batteria, Luigi Tenco il sax». Fino ad affrontare — nonostante il successo delle sue canzoni — il buco nero del luglio 1963, quando il cantautore tentò il suicidio: 

E tu in quegli anni ad un certo punto decidi di spararti. Perché? 

«Per andare a vedere cosa c’era dall’altra parte. Non ho una ragione specifica. Avevo avuto tutto dalla vita. Almeno credevo di aver avuto tutto...». Potete leggere l’intervista integrale sul nuovo 7, in edicola con il Corriere da oggi fino a giovedì 16. Insieme a tanti altri servizi e rubriche, curati dalle grandi firme del Corriere e da scrittori e collaboratori famosi: da Claudio Magris a Silvia Avallone.

Dagospia il 26 novembre 2019. Da Un Giorno da Pecora. “La Gronda? Non esiste ancora e questo è da ascrivere a chi di dovere. So che c'è gente che è contraria e che sono soltanto degli stronzi”. Non usa mezzi termini Gino Paoli, che ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha commentato l'attuale situazione delle infrastrutture nella sua amata Liguria. La sua regione sta vivendo un momento drammatico. “Sembra che il padreterno e l'abbia con noi, finisce una cosa e ne inizia un'altra, siamo nell'occhio del ciclone da un bel po'”. Ci sono stati anche molti problemi alle infrastrutture. Di chi è la responsabilità? “Secondo me la responsabilità è dello Stato. C'è un articolo della Costituzione dove si dice che lo Stato deve pensare al benessere dei cittadini. Il controllo quindi non può esser demandato ad altri, dipende dallo Stato, o almeno dovrebbe dipenderne”. Come valuta l'amministrazione attuale di Genova? “Loro fanno, si sono mossi molto bene, mi va benissimo che ci siano persone così, che si muovono”. Toti ha parlato di una Liguria totalmente isolata. “Ha ragione. In effetti è isolata: per andare da est a ovest ci vuole non so quanto tempo”. “Se il governo reggerà? Ci sono dei dilettanti allo sbaraglio, è difficile capire cosa abbiano in testa”. Lo dice Gino Paoli, ospite di Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Potrebbe esser Luigi Di Maio a dare una scossa positiva all'esecutivo? “Di Maio? Le disgrazie non vengono mai sole...” In che senso? “Secondo me la disgrazia è generale. Quindi...” Il suo amico Beppe Grillo sembra sia ancora saldamente il leader dei 5S. “Beppe è una gran brava persona. E' partito per far qualcosa per cambiare il mondo, per i suoi figli. L'unico rimprovero che gli faccio è che queste cose si fanno a 18 anni, non a 70. La sua buona fede però è assolutamente chiara”. A Un Giorno da Pecora Gino Paoli ha poi raccontato un retroscena sul Grillo pre-Cinquestelle. “Facemmo una riunione per convincere Grillo a non creare il Movimento: eravamo io, Renzo Piano, Arnaldo Bagnasco e mia moglie. Quello più cazzuto era sempre Renzo Piano, il quale diceva che la politica si fa col proprio mestiere”. A che periodo si riferisce? “A prima che Beppe scendesse in campo”. Cosa gli diceva per convincerlo a non dar vita ai 5S? “Gli dicevo qualcosa delle mie esperienze, quando ho fatto politica. In politica ti devi adeguare, ma se affronti la politica con la mentalità mia e di Grillo è difficile...”

·         Shel Shapiro.

VITA, SUCCESSI E DEPRESSIONI DI SHEL SHAPIRO. Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica” il 2 agosto 2019. "Un artista si muove come dentro un palazzo di venti piani. Quando arriva in cima ha la sensazione di vedere l' intero mondo attorno a sé. E pensa ce l' ho fatta. Ma per quanto? «Più in alto sei e più cresce la possibilità di perdersi. Non è vero che il successo sia una medicina. Più spesso è una droga»". Mentre guardo la faccia da pirata di Shel Shapiro, immagino che i molti piani della sua vita se li è fatti tutti, ma proprio tutti: con rapidità, tenacia, a volte arrancando, in gruppo e da solo: «Sono ancora lì, mi piace esserci, senza la frenesia di una volta. Anche adesso che sono in tour con Maurizio Vandelli, un tempo rivali oggi insieme, ho la sensazione che l' età sia solo un fatto anagrafico e non di testa».

Sei nato durante la guerra.

«Sotto le bombe di Paddington, in una Londra allo stremo. Però mai nessuna città ha saputo rivelare lo stesso grande orgoglio che contraddistinse Londra in quel periodo».

Il tuo nome Shapiro che origini ha?

«Le radici sono ebree sefardite. Il nome è portoghese, penisola iberica. Mi hanno raccontato di pogrom che l' Inquisizione spagnola allestì contro gli ebrei. Molti fuggirono verso l' Europa centrale. La mia famiglia finì tra l' Ucraina e la Georgia».

Come arrivò in Inghilterra?

«Mio nonno suonava il corno nella banda dello Zar Nicola II. E aveva un parente in Inghilterra. Era quasi impossibile emigrare. Ma la zarina in persona firmò il lasciapassare provvisorio. Partirono tutti e non fecero mai più ritorno».

Sei un inglese anomalo.

«Vivo da più di mezzo secolo in Italia, con dei lunghi intervalli durante i quali ho soggiornato negli Stati Uniti e in Messico».

La tua cultura musicale si è formata in Inghilterra.

«A sei anni presi le prime lezioni di piano. Lo strumento era in casa. Poi un giorno mio padre si presentò con una chitarra che era costata, mi disse, cinque sterline. Allora erano molti soldi. Cominciai a strimpellarla. Erano i primi anni Cinquanta. Il mondo musicale stava conoscendo una delle più radicali trasformazioni».

Ti riferisci al rock?

«In larga parte sì. Le voci di Elvis Presley, di Bill Haley e Jerry Lee Lewis ma anche quelle di Chuck Berry e Ray Charles si diffusero in Inghilterra. Ne imitavo lo stile davanti allo specchio e capivo che la loro forza era tutta semplicità e immediatezza».

Poi è arrivato Bob Dylan?

«Rispetto al rock, Dylan ha rappresentato un altro tipo di ascolto, più attento al messaggio. Cambiò i testi della musica servendosi dei poeti della beat generation. All' inizio non mi emozionò. Non capii l' impatto che avrebbe avuto su tutta la musica successiva».

Te ne sei pentito?

«No, ogni cosa deve avere i tempi della maturazione personale. Per me in quegli anni c' erano i Beach Boys, e l' esperienza conturbante dei Beatles e dei Rolling Stones».

Chi preferivi?

«I Beatles sono stati la storia, i Rolling furono la fuga nel domani. I Beatles cambiarono il mondo nelle regole; i Rolling lo trasformarono contro le regole: "Baby", diceva una loro canzone, "lo so quello che vuoi ed è la stessa cosa che voglio io"».

Su questo inquieto sfondo musicale tu che fai?

«Mi organizzo. Metto su un gruppo musicale. A tredici anni avevo già una piccola band fatta con gli amici della sinagoga. Suonavamo nei vari bar mitzvah e alle feste studentesche. Era ancora il periodo dei crooners. Le musiche di Bing Crosby e Perry Como accompagnavano il taglio delle torte nuziali. Cominciammo a sparare il rock' n'roll. A raffica. Fu l' esordio. Indimenticabile».

E dopo?

«Cominciò un vago professionismo. Allestii un gruppo che chiamammo "Shel Carson Combo" e ci invitarono a suonare ad Amburgo. Avevo 17 anni. Era il 1960. Pochi mesi prima in quella tristissima città si erano esibiti i Beatles. Suonarono in un localino poco distante dal quartiere a luci rosse. Nessuno poteva allora immaginare che sarebbero diventati leggenda».

Quali pensieri ti induce?

«Ogni riflessione su questo non può che essere successiva. Di quell' esperienza ricordo il freddo, la nebbia, una cazzo di umidità che si infilava nei nostri indumenti leggeri. La città era terribile. La Germania ancora non decollava e noi suonavamo per pochi marchi. Tornammo altre volte. Poi nel 1963 ricevemmo una proposta per un tour in Italia.

Dovevamo accompagnare un certo Colin Hicks. Arrivammo a Milano. Rispetto a Londra, era davvero un altro mondo. Sembravamo esotici. Capelli lunghi. Sguardo perso e abiti attillati. Eravamo la sola cosa colorata in una città fondamentalmente grigia. Fu la nostra fortuna. Stava arrivando il nostro momento».

L' Italia come terra di conquista?

«Come terra da esplorare. Cambiammo nome e decidemmo di stabilirci a Roma. Diventammo "The Rokes". Riempivamo le sale e i discografici cominciavano a guardarci con occhi diversi. Il successo vero arrivò con l' apertura del Piper nel 1964. Era un enorme seminterrato al quartiere Trieste. La scenografia dietro il palco fu allestita con opere di Warhol, Schifano, Rotella. Mi ricordo perfino di un Rauschenberg. Le luci erano all' avanguardia. Tutto l' ambiente straripante. Ci spartimmo il successo con l' Equipe 84».

Il vostro successo, quanto durò?

«Fino al 1970. Eravamo costantemente nelle hit parade, in televisione, perfino al festival di Sanremo. Canzoni come Ma che colpa abbiamo noi, La pioggia che va o Bisogna saper perdere erano ascoltate dai nostri fan come messaggi per capire il mondo che stava cambiando».

Tu ci credevi?

«Pensavo che fosse il vento giusto. Non importa se erano canzonette. Le parole erano semplici, dicevano: non ci piace questa società».

Però vi ci trovavate bene.

«È la contraddizione della star. I Beatles giravano con la Rolls Royce. Io giravo con la Rolls Royce: ci davo dentro con il bere, fumavo marijuana e scopavo sul sedile posteriore della Rolls. Volevamo la rivoluzione senza rinunciare ai privilegi. Diciamo la verità: non poteva durare».

Poi nel 1970 che cosa accade?

«Sciolsi il gruppo. Mi tolsi i panni della rockstar e ricominciai da capo. Ho scritto canzoni e fatto il produttore per artisti come Mina, Cocciante, Patty Pravo e soprattutto Mia Martini, la più grande voce femminile che l' Italia abbia mai avuto».

Tu perché avevi deciso di smettere di cantare?

«Non c' è mai una sola ragione. Pensavo che sarebbe stata dura conservare il successo di quegli anni e poi non è gradevole pensare che qualcuno ti volta le spalle. Meglio precederli. Mi ero, oltretutto, sposato. Aspiravo a una vita più quieta».

Come hai vissuto la morte di Mia Martini?

«Come un torto, una grande ingiustizia. Un giorno mi disse: Shel tu non sai cosa provo ogni volta che entro in una sala e vedo con la coda dell' occhio la gente che si tocca e fa gli scongiuri. Seppi solo molti giorni dopo della sua morte. Ero in Francia, irrintracciabile. La stupidità e la cattiveria purtroppo non hanno limiti».

Di ferite tu ne hai avute anche personali.

«Se alludi a mia moglie e al fatto che si sia tolta la vita, sì. Per me è stato come essere investito da un treno».

Ti sei dato una spiegazione?

«Tutte le spiegazioni del mondo non sono sufficienti per comprendere un gesto così estremo. Era dentro un dolore più grande di lei. Così invasivo da divorarla giorno per giorno. Era come se gli anni della felicità, di una donna bella e intelligente, fossero spariti.

Lasciandola sola e inerme».

Può aver influito la vostra separazione?

«Migliaia di coppie si separano, non per questo la gente si suicida. No. Penso che qualcosa di maledettamente profondo abbia agito su quella decisione. Ne parlai a lungo con nostra figlia Malindi, allora quattordicenne. Elaborai con lei la tragedia, sapendo che sarebbe stato un peso che avrebbe cambiato la mia vita».

Che cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto?

«Per un lungo periodo ho vissuto con il bisogno impellente di vomitare tutto quello che avevo dentro. È stato il modo per purificarmi. Forse di crescere. Lontano dai mitici anni Sessanta».

Quegli anni tu li hai per così dire rielaborati in una collaborazione con Edmondo Berselli che, tra le altre cose, fu anche firma importante di "Repubblica".

«A Eddy piaceva occuparsi non solo di politica ma anche di musica e amava farlo in modo originale. Penso sia stato uno degli uomini più intelligenti che abbia conosciuto. Era un intellettuale raffinato che non faceva pesare minimamente il suo ruolo. Poteva stare un paio di miglia davanti a te e farti credere che tu gli eri accanto. Questo è stato Eddy. E la nostra amicizia, nata per caso, fu per me una benedizione».

Perché?

«Mise la sua intelligenza a mia disposizione. Mi convinse a disseppellire gli anni Sessanta. Non volevo saperne. Colse la bontà del progetto e realizzammo Sarà una bella società. Niente di nostalgico, ma un attraversamento culturale di un periodo che effettivamente ha cambiato l' Occidente».

Che anno era?

«Era già il 2007. Mi fu proposto da Mario Corvino come una memoria sul Sessantotto. La prima reazione fu: cazzo, ancora con 'sti anni Sessanta! Non se ne può più. Poi ne parlai a Eddy e lui, a sorpresa, disse che a certe condizioni si poteva fare. Aveva ragione. Venne fuori una specie di commedia musicale. Girammo l' Italia con lo spettacolo. Per me fu una rinascita».

Dov'eri morto?

«In tante situazioni. Dopo gli anni Ottanta passati tra la Spagna, il Messico e Miami arrivarono i duri anni Novanta. Dopo la scomparsa di Mariolina, dopo la fine del rapporto con Cristina, da cui avevo avuto altri due figli, mi sentivo nella classica situazione del che ci faccio io qui? Nel 1998 arrivò la depressione. Passavo intere giornate a non far niente, a piangere o seduto davanti a uno schermo spento».

Come l' hai superata?

«C' è una componente vittimistica nella depressione. Pensi che il mondo ti sia crollato addosso e invece è lì che se ne frega di te. Reagisci facendo cose. Ho cantato, ho prodotto, ho scritto, ho perfino recitato. Mi sono aggrappato a ogni forma d' arte, sapendo che non sarebbe stato più come la prima volta».

Che cosa intendi?

«La macchina dello spettacolo prevede pochi posti in cima. Un giorno sei su poi scendi. A volte risali, ma è più difficile. Ti interroghi. Ti chiedi dove hai sbagliato. Non hai sbagliato un cazzo. Sei solo passato di moda. E non c' entra la legge dei numeri. C' entra che sei tagliato fuori, più o meno da tutto. Improvvisamente ti rendi conto di non essere più sul libro paga della fortuna. Se lo metti in conto ti puoi ancora salvare».

Non ho capito se in tutto questo ti accetti.

«Mi chiamo Norman David, ma tutti mi chiamano Shel. E l' ho accettato. Per amore della musica e di un mestiere che continua a piacermi. A volte però vengo preso dal dubbio di non aver realizzato molto nella vita. Da giovane volevo diventare medico. Forse sarei stato un dottore migliore di quanto sia stato un musicista. Ma questa continua a essere la mia vita. Amo la musica, amo i miei figli e la mia compagna. Non mi sento vecchio. Ma non faccio niente per togliermi gli anni che ho. Cerco un equilibrio che non scada nel patetico. Certe volte mi dico: non sei mai stato una leggenda. Ma quasi una leggenda».

·         Francis Ford Coppola: l’ultimo Re di Hollywood.

Francis Ford Coppola l’ultimo Re di Hollywood ne fa 80 e torna in sala. Francis Ford Coppola ha compiuto 80 anni e sta preparando Megalopolis, un kolossal visionario sulla ricostruzione di una New York, scrive Paolo Delgado il 7 Aprile 2019 su Il Dubbio. A metà anni ‘80 Steven Spielberg arrivò a Roma per presentare il nuovo film della serie Indiana Jones, prodotto con George Lucas. I due registi- produttori, in quel momento, non temevano rivali. Da soli occupavano tutti i primi posti nelle classifiche dei risultati al botteghino. «Siete i re di Hollywood?», chiesero all’enfant prodige che con Lucas non sbagliava un colpo. «C’è un solo re – rispose – ed è Francis Ford Coppola». Nella nidiata degli “Hollywood Brats”, i cuccioli di Hollywood, quei registi nati fra il 1939 e il 1946 che negli anni ‘60 e ‘70 rovesciarono le regole ferree della fabbrica dei sogni come un calzino vecchio di cui i due facevano parte con Scorsese, De Palma e John Milius, Coppola, che domani compirà 80 anni, è il fratello maggiore e il capobranco. Quello che ha aperto la pista e che più di ogni altro pensa in grande. Il più visionario, il più pronto a correre ogni rischio pur di riuscire a portare sullo schermo le sue visioni. A Roma Coppola, sangue lucano nelle vene, cittadino onorario di Bernalda, da dove salpò per gli States il nonno Agostino, vacanze passate speso e volentieri a Metaponto, era arrivato in pompa magna qualche anno prima, nel 1981, per presentare uno dei suoi più faraonici progetti: il restauro del Napoleon di Abel Gance, a conclusione della edizione di quell’anno della leggendaria estate romana di Renato Nicolini. La proiezione notturna al Colosseo, con il presidente Mitterrand in tribuna, fu spettacolare, degna delle ciclopiche ambizioni del kolossal del 1927 restaurato dal discepolo italo- americano. A comporre la musica e a dirigere di persona l’orchestra c’era il padre del regista, Carmine Coppola, falutista, direttore d’orchestra e musicista jazz noto negli anni ‘30 e ‘40. Dirigeva l’orchestra in un programma radiofonico di Detroit sponsorizzato dalla Ford: il secondo nome del secondogenito viene proprio di lì. La musica era di casa in famiglia: la madre di Francis Ford, Italia, era figlia di Francesco Pennino, un musicista e compositore emigrato da Napoli e a sua volta molto noto nei primi decenni del secolo scorso. In occasione del genetliaco il regista ha annunciato ieri l’imminente ritorno dietro la macchina da presa dopo 8 anni. Sarebbe già una notizia, ma lo è molto di più perché Coppola non ha deciso di girare un film qualsiasi ma di realizzare un progetto che insegue da quasi quarant’anni: Megalopolis, un kolossal visionario sulla ricostruzione di una New York mitica dopo l’apocalittica distruzione della città. Nel 2001 Coppola era arrivato quasi a iniziare le riprese, poi l’11 settembre gli suggerì di soprassedere. Ora il momento sembra essere arrivato e l’autore del Padrino e di Apocalypse Now promette che il prossimo sarà il film della sua vita: «Una grossa produzione con un cast numeroso. Utilizzerà tutti gli anni in cui ho provato a fare film con stili e generi diversi per culminare in quella che penso sia la mia voce e la mia aspirazione». Capostipite di quella che è ormai una dinastia di cineasti, forse la più potente che ci sia a Hollywood, Coppola viene da una tradizione di musicisti e ha anche lui studiato musica e pensato per un po’ di seguire le orme del padre e del nonno. Scelse invece il cinema. Dicono, e chissà se è verità o leggenda, che decisivo fu il lungo periodo in cui fu costretto a casa da bambino, quando si ammalò di poliomielite dopo il trasferimento della famiglia da Motor City a New York. Pare che ammazzasse le ore interminabili con i burattini e un teatrino: forse la passione per lo schermo è davvero nata in quei pomeriggi. Di certo, una volta deciso quale strada imboccare, il futuro autore di Apocalypse Now si è imbattuto nel miglior maestro sulla piazza. Si è fatto le ossa con Roger Corman, uno che sapeva tirare fuori miracoli con quattro soldi a disposizione. Da lui Coppola ha imparato molto e nonostante Corman lavori spesso seguendo il registro opposto, con una vocazione precisa per l’epico e per il kolossal, neppure quella lezione è stata inutile. Alcuni dei suoi film migliori, come La conversazione, sono un modello di come si può fare grande cinema e grande spettacolo senza dover ricorrere agli elicotteri di Apocalypse now o alla moltitudine di interpreti della saga di don Vito Corleone. In realtà ogni film di Francis Ford Coppola, poco importa se poveri o ricchissimi, se epici o intimisti, ha rappresentato una sfida. L’uomo adora il rischio, e non esita a mettere sul tavolo veri e propri capitali. Qualche volta ha fatto centro moltiplicando con gli incassi l’esborso. Qualche volta ha mancato il colpo. I suoi trionfi, a partire dal Padrino, sono epici. I fallimenti anche. Quando nel 1971 la Paramount lo chiamò per dirigere il progetto più ambizioso del decennio, la versione cinematografica del libro con cui Mario Puzo aveva sbancato nelle librerie di tutto il mondo, Coppola aveva alle spalle quattro film, parecchie sceneggiature di successo ed era fresco di oscar 1970 per la sceneggiatura di Patton generale d’acciaio. Era un giovane regista molto lodato, con un successone intimista di critica, Non torno a casa stasera. Ma di cosa fosse davvero capace e quanto fosse deciso a combattere per fare a modo suo lo dimostrò col Padrino, anche a costo di ingaggiare un braccio di ferro permanente con la Paramount. Per il ruolo chiave di Michael Corleone scelse uno sconosciuto: Al Pacino. Quando Marlon Brando si offerse per la parte del don, chiuse le audizioni e lo mise sotto contratto anche se la major considerava il divo una stella morta. Pretese di girare in Sicilia invece che negli studios la parte siciliana della storia, e poco male se così i costi di produzione arrivavano alle stelle. Se il film non avesse superato d’impeto ogni record d’incassi sarebbe stata la fine del regista. Invece decollò. Prima con La conversazione, un film che in realtà era stato scritto prima del Watergate ma che inevitabilmente apparve come il commento corrosivo allo scandalo che squassava l’America di Nixon e il film fece impazzire la critica colta e impegnata. Poi con Il padrino – Parte II un film che lasciò davvero tutti sbalorditi. Anche per il sequel, su sceneggiatura sempre di Puzo, Coppola si era impuntato su un nome sconosciuto per il ruolo di Vito Corleone giovane, Robert De Niro, e per la parte di Hyman Roth, personaggio modellato sul genio della finanza di Cosa nostra e “gemello di Lucky Luciano” Meyer Lansky, scritturò il mitico direttore dell’Actor’s Studio, Lee Strasberg. Funzionarono entrambi alla perfezione ma la vera sorpresa fu la capacità del regista di capovolgere il senso del film precedente: Il Padrino aveva offerto un’immagine epica e leggendaria, di fatto encomiastica, della mafia italo- americana. Il sequel la capovolgeva, metteva in scena il versante oscuro, trasformava la saga famigliare in tragedia shakespeariana. Fece il pieno di pubblico e di oscar. Rivelò l’altra faccia di un autore che ha sempre oscillato tra un versante magniloquente, sfarzoso, con un gusto per la grandiosità quali non se ne vedevano dai tempi di De Mille, e una tendenza riflessiva, contenuta, ai confini del minimalismo o a volte oltre quel limite. Il Padrino- Parte II, caso quasi unico nella filmografia di Coppola, riusciva a coniugarle mentre di solito Francis Ford slitta da un lato all’altro della sua ispirazione a seconda del film di turno. Se Il Padrino era stato una sfida per il sistema degli studios, Apocalypse Now portò il duello alle estreme conseguenze. Le riprese durarono tre anni, i costi rischiarono di costare l’infarto ai produttori, le difficoltà nella realizzazione varrebbero una sceneggiatura in sé. Il risultato è un capolavoro al quale, al momento dell’uscita nel 1979, mancava comunque una parte essenziale, ripristinata nella versione del 2001, Apocalypse Now Redux: 50 minuti di girato in più che ricostruiscono i legami profondi tra il disastro americano del Vietnam e quello francese dell’Indocina. Una terza versione del film, Apocalypse Now: Final Cut, verrà presentata il prossimo 28 aprile al Festival di Tribeca a New York. Ma quali cambiamenti o aggiunte o tagli siano stati apportati per questa “versione finale” Coppola lo terrà segreto sino all’ultimo.

Francis Ford Coppola ha firmato immensi successi come quelli sin qui citati, o come il bellissimo Dracula di Bram Stoker, versione definitiva del romanzo che ha regalato al mondo il vampiro per eccellenza o Il Padrino- Parte III, nel quale il regista riporta la saga mafiosa alle sue origini siciliane, al melodramma e al teatro dei pupi. Ha al passivo disastri commerciali che hanno quasi fatto naufragare la sua casa di produzione, la Zoetrope come il costosissimo flop di Cotton Club o come One from the Heart, musical con musiche dell’amico Tom Waits, il primo film che metteva al lavoro le nuove tecnologie computerizzate, un azzardo geniale con esiti finanziari da pistola alla tempia. Ha prodotto capolavori come Kagemusha- L’ombra del guerriero, il film che ha segnato la resurrezione di Kurosawa e ha avviato l’ultima magnifica fase della sua carriera, o come il Frankestein di Mary Shelley, una specie di gemello del suo Dracula, diretto da Kenneth Branagh. La famiglia regna a Hollywood. La sorella Talia Rose, in arte Shire, la conosciamo come tutti come l’ Adriana della saga di Rocky. Il nipote Nicolas Kim, figlio del fratello August, si è cambiato il nome in Cage e ha fatto strada. La figlia Sophia ha debuttato come attrice in un ruolo da protagonista nel terzoPadrino ma le critiche la hanno scorticata viva con virulenza un tantinello esagerata. Non si è persa d’animo, è passata dall’altro lato della macchina da presa: oggi è una delle principali registe americane. È regista e attrice anche la nipote Gia, figlia di Gian Carlo, morto in un incidente nautico nel 1986. Al momento della tragedia, il padre si apprestava a girare Giardini di pietra, film sulle reclute in procinto di partire per il Vietnam. È diventato di fatto un film sulla morte del figlio, forse il suo lavoro più maturo, di certo il più commosso. I Coppola vivono di cinema ma non solo di cinema. Sono una holding con vinerie, resort di lusso in diversi Paesi, uno dei quali nel palazzo Margherita di Bernalda, un caffè- ristorante rinomato e una libreria a San Francisco, una rivista di letteratura e naturalmente la Zoetrope. Straripante come Orson Welles, grandioso come De Mille, artigiano come Corman, epico e intimista allo stesso tempo vale per Coppola quel che lui stesso disse presentando nel 1979 Apocalypse now: «Non è un film sul Vietnam. E’ il Vietnam». Mezzo secolo dopo l’irruzione degli allora cuccioli di Hollywood, il capobranco è Hollywood.

FRANCIS FORD COPPOLA“APOCALYPSE NOW”, UN CAPOLAVORO TORMENTATO. Filippo Brunamonti per “la Repubblica” il 5 maggio 2019. Cinque del pomeriggio, Beacon Theatre, New York. Cravatta del colore di un grillo, il sorriso quando i fotografi lo chiamano per nome, "Francis! Francis!". Al Tribeca Film Festival è il giorno di Francis Ford Coppola. Un incontro per raccontare i retroscena di Apocalypse Now in compagnia dell' amico regista Steven Soderbergh, e un match con la stampa e i distributori a cui non fa sconti: «Avete affossato il film quando lo proiettarono, ancora incompleto, a Cannes nel '79», ricorda. Al Festival avrebbe poi vinto la Palma d' oro, ex aequo con Il tamburo di latta di Volker Schlöndorff. «Ero spaventato, depresso. Mi sembrava di non riuscire a combinare nulla se non fallire. I giornalisti definirono il mio lavoro "disastroso", certi che non avrebbe mai visto la luce». All' epoca i distributori, scontenti, gli imposero tagli su tagli, Coppola consolò la troupe improvvisando una cantilena: "Una buona sceneggiatura, non l'abbiamo avuta / un buon film, non l'abbiamo avuto / un buon regista, non l' abbiamo avuto / Che cosa abbiamo? / Abbiamo un cuore!". A quarant' anni dall'uscita in sala il regista all' epoca quarantenne considera il successo del film pellicola «una strana combinazione di eventi» perché «alla fine degli anni Settanta nessuno aveva ancora girato un film sulla guerra in Vietnam e dato che non riuscivo a trovare soldi, avevo deciso di auto-finanziarlo con i ricavi de Il padrino. Ma volevo fare qualcosa di completamente diverso rispetto all'epopea di Don Vito Corleone. Nulla di classico o formale. Rincorrevo il surrealismo». Nessuno, ricorda, voleva prendere parte all'operazione, «non riuscivo nemmeno a trovare un attore disposto a girare nelle Filippine». L'accordo sul budget da 12 milioni di dollari con Paramount si gonfiò fino a toccare quota 30. «Le critiche e il flop annunciato mi avevano portato alla disperazione. Avevo tre figli, una famiglia, ero sicuro che non sarei più stato in grado di rialzarmi». Oggi, dopo 5 Oscar (come regista e sceneggiatore), bastano un fotogramma, le eliche di un elicottero o i nomi di Marlon Brando (colonnello Kurtz), Martin Sheen (capitano Willard) e Robert Duvall (tenente colonnello Kilgore) per lanciarsi in un applauso a scena aperta ma «durante la lavorazione il clima era diverso. Ho dovuto licenziare uno dei protagonisti, Harvey Keitel, e ricostruire interi set abbattuti da un tifone. Senza contare l' attacco di cuore che colpì Martin Sheen. Accanto aveva una moglie che lo amava moltissimo ma questo non giovò: lo tenne lontano dal set per mesi». La parola "supplizio" è uno dei ritornelli di Coppola, il primo riferimento è a Marlon Brando: «Si comportava come un ragazzino, abbiamo dovuto allontanarlo dal set. Un giorno si ripresentò sovrappeso quando gli avevo espressamente chiesto di dimagrire. Rifiutò di radersi il cranio. La sua enorme intelligenza, però, lo assolveva da ogni peccato. Un uomo straordinario. Nella mia carriera ho incontrato una decina di persone geniali, dentro ci metto Kurosawa, Fellini e Brando». Qualche rimpianto ce l'ha: «Non faccio praticamente più film. Che c'è di meraviglioso nel successo, mi chiedo, se non puoi girare i film che vorresti? Ad ogni modo sono orgoglioso di rimanere un cineasta indipendente. La tenuta nella Napa Valley e i miei vigneti sono uno svago. Il rischio conta in questo mestiere: non si fa arte senza rischio. Così come non si mettono al mondo figli senza sesso». Il 15 agosto, una nuova versione restaurata in 4K di Apocalypse Now sarà nelle sale Usa, seguita da un' edizione in Blu-Ray. Nel 1979 Coppola scelse di portare il film a 2 ore e 33 minuti, senza spaventare troppo il pubblico, «avevo bisogno di recuperare tutti i miei soldi al botteghino». Nel 2001, per Apocalypse Now: Redux, inserì 49 minuti che erano rimasti in sala di montaggio. «La versione definitiva recupera vecchi tagli preservati su Betamax e ha venti minuti in meno, dura tre ore e due minuti. Il suono di Walter Murch non è mai stato così profondo». Al Beacon Theatre, Apocalypse Now: Final Cut si è guadagnato una standing ovation. «Se il pubblico ama ancora il film dopo quarant' anni, se il disastro annunciato s' è trasformato in qualcosa di rivoluzionario, lo devo soltanto alla passione della troupe. La più grande lezione di cinema? Usate il vostro cuore».

·         Essere Martin Scorsese.

ESSERE MARTIN SCORSESE. Antonio Monda per “la Stampa” il 20 maggio 2019. La prima cosa che ti colpisce è la velocità con cui parla, e credo sia dovuto all' infanzia a Little Italy: un modo di conquistare subito il campo dell' interlocutore, potenzialmente ostile. Di travolgerlo con un approccio torrenziale, e nello stesso tempo ammaliarlo mettendosi a nudo. Conosco poche persone seducenti come Martin, ma è un talento che nasce dalla sincerità con cui ama condividere. Non si tratta mai di un modo di imporre la propria verità, ma il contrario: la necessità di rivelarsi sino in fondo, per poi ascoltare con analoga passione. Oggi racconta che in quei tempi di Elizabeth Street l' unica alternativa al diventare un criminale era farsi prete, e questi due poli opposti sono perennemente presenti nel suo cinema: da un lato l' eterna e misteriosa presenza del male, dall' altro la possibilità di redenzione. Una volta abbiamo parlato del concetto di peccato e gli ho chiesto se credeva in Dio: lui mi disse «non lo so, ma sono cattolico». Non era del tutto soddisfatto, però, della risposta, e mi richiamò per approfondire: «Credo che Dio esista. Ma proprio perché sono cattolico so che ci ama: non può essere un torturatore». In questi ultimi anni, la presenza della fede nei suoi film è diventata ancora più evidente: all' epoca di Silence ha avviato un intenso dialogo con Padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, e, attraverso lui, anche con Papa Francesco. Si tratta di elementi centrali nella sua esistenza che tuttavia tiene per sé, come se parlarne corrompesse un percorso sofferto e sincero. È sorprendente come oggi sia attento all' eleganza: basta vedere le foto dell' epoca di New York New York per scoprire un uomo del tutto indifferente al proprio aspetto. Non si tratta di semplice imborghesimento, ma la scelta di sottolineare anche con la forma un percorso nel quale non sono mai scomparsi né i tormenti né le speranze: Martin sa bene che ogni esistenza è segnata da slanci e cadute, ma oggi rifiuta un finale senza redenzione, e non scherza quando racconta che Hollywood lo ha aiutato moltissimo con i suoi happy ending. Come Travis Bickle in Taxi Driver o Jake La Motta in Toro Scatenato , Martin è un uomo dalle passioni vulcaniche, che a differenza dei suoi eroi è riuscito a trasformare un' energia rabbiosa in potenza espressiva e arte pura. Molto si deve anche a un talento inimitabile, ma tutti i suoi protagonisti tormentati ne rispecchiano i travagli, e questo è valido sia per gli eroi fragili di Silence che per l' umanissimo Gesù delle Ultime tentazioni di Cristo . Una volta parlammo di Toro Scatenato , ed era turbato quando spiegava che era la storia di «un uomo che aveva solo un talento: quello di far male. Ciò lo porta alla gloria dentro il ring, ma alla disgrazia appena esce dal quadrato». Il suo genio registico gli ha consentito di esprimere questo concetto già dai titoli di testa, senza tuttavia alleviare il tormento sull' esistenza del male e l' incontrollabilità delle passioni. Non conosco persona al mondo che abbia eguale competenza di cinema, e nessuno che ne sappia parlare in maniera così coinvolgente: una volta mi spiegò che per preparare Good Fellas aveva studiato Divorzio all' italiana , e di fronte al mio sguardo incredulo mi chiarì tutte le assonanze tra i due film, a cominciare dall' uso della voce off, il montaggio rapidissimo e perfino l' arco morale del protagonista. Nel cinema Martin sa vedere cose che altri non vedono, e, come sottolineò in quella occasione, la sua scelta estetica non prescinde mai da quella etica, anzi, l' elemento formale è un modo per riflettere su quello morale. Ha un profondo rispetto del pubblico al punto da considerare non riusciti i suoi film che non hanno avuto successo al botteghino. «Qualcosa non funziona» dice, soffrendo ancora, «e la responsabilità è del regista, non dello spettatore». Fino ai quarant' anni conosceva in profondità soltanto il cinema e il rock, ma da allora si è costruito con umiltà una cultura letteraria e storica, e alcune scelte di questi anni nascono da queste scoperte, come il progetto di un film su Teddy Roosevelt e quello sul massacro degli indiani Osage, parallelo alla nascita dell' Fbi. Ma forse nulla lo appassiona come l' idea di adattare Home , il romanzo della più spirituale delle scrittrici americane: Marilynne Robinson. È un uomo ansioso, a volte umorale, ma estremamente generoso: l' ho visto impegnarsi in prima persona per aiutare esordienti e colleghi in difficoltà, e chiunque abbia a cuore il cinema deve essergli riconoscente per il lavoro impagabile che svolge per il restauro dei film. Vive come se fosse un dolore personale il fatto che le pellicole si deteriorino, e questa passione è evidente anche nei poster che arredano la bella casa dell' Upper East Side: sono poche le opere d' arte rispetto ai manifesti, in cui compaiono i film di Hitchcock, infinite versioni della Grande Illusione , e, soprattutto, i classici italiani. La generosità diventa dedizione assoluta nei confronti della moglie Helen, una raffinata donna del New England discendente di Edith Warton. È lui a ricordare la parentela, con un pizzico di vanità, ma quello che colpisce, a vederli insieme, è come l' assista da quando la salute di Helen si è profondamente deteriorata. C' è qualcosa di molto commovente nella manifestazione di questo amore, sbocciato in età matura, e si intuisce che l' atteggiamento di tenerezza e dedizione che Martin mostra oggi per proteggerne il fisico è lo stesso che ha avuto in passato Helen nei confronti del suo spirito. Parla raramente delle prime quattro mogli, ma è rimasto legato a Isabella Rossellini, e stravede per le figlie Catherine, Domenica e Francesca, che sembra intenzionata a seguire le orme paterne. Una volta ipotizzò scherzosamente di tornare a insegnare per lei alla New York University, dove ha lasciato un ricordo leggendario, ma per il momento si limita a proiettarle almeno un film ogni weekend, ascoltandone le reazioni: la scelta di realizzare Hugo Cabret nasce proprio da un suggerimento di Francesca. L' attaccamento alla terra d' origine ha qualcosa di viscerale: la sua casa di produzione si è chiamata per anni Cappa, cognome della madre, e ora è diventato Sikelia, nome greco della Sicilia. Una volta mi ha raccontato che quando andò a Salina a trovare Paolo e Vittorio Taviani si commosse profondamente per le chiacchiere degli isolani che sentì nel dormiveglia: «Mi sembrava di essere a Elizabeth Street». Considera i Taviani maestri e fratelli, e l' amore per il cinema italiano continua anche con le nuove generazioni: si è speso in prima persona per Matteo Garrone e Alice Rohrwacher, ma il rapporto più intimo lo ha con Paolo Sorrentino, del quale ammira profondamente il grandissimo talento naturale. L' amicizia si è poi cementata anche grazie alla prelibata cucina di Daniela, moglie di Paolo: Martin ama mangiare bene, e ama ancor più il rito meridionale della tavola. Antepone l' amicizia a ogni altro valore: quando non si occupa di cinema è felice di uscire con pochi amici, a cominciare da Robert De Niro, Jay Cocks e in passato Elia Kazan, a cui ha dedicato uno splendido documentario. C' è stato un momento, alla fine degli settanta, in cui eccessi di ogni tipo ne hanno messo a repentaglio la salute, già provata da una grave forma d' asma. Fu proprio De Niro a salvarlo da dipendenze pericolose, trascinandolo a realizzare Toro Scatenato . Martin evita di parlare di provvidenza, ma quando glielo dici sorride.

Intervista a Martin Scorsese: «Cinque anni per girare The Irishman, Al Pacino temeva  di morire prima della fine...» Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Mereghetti. «Negli anni 70 avevo voglia di credere in una società ideale. Amore, mafia, tradimenti e morte. The Irishman racconta la storia del killer di Filadelfia Frank Sheeran (interpretato da Robert De Niro) e del suo rapporto con Jimmy Hoffa (Al Pacino), il potente e discusso leader del sindacato degli autotrasportatori, sparito misteriosamente nel 1975 e il cui corpo non è mai stato trovato. In esclusiva per il Corriere ecco l’intervista che ha concesso Martin Scorsese su un film che ricapitola molti temi della sua più che cinquantennale carriera. Un «film testamento» è stato detto, da domani nelle sale e dal 27 novembre su Netflix.

In «The Irishman» i personaggi non sfidano la morte, ci convivono: è lei la vera protagonista.

«Quando Bob (De Niro) e io abbiamo deciso di raccontare questa storia, ho pensato che avremmo potuto imparare qualcosa anche alla nostra età — abbiamo tutti e due 76 anni — e accettare l’idea della mortalità, ammesso che sia possibile farlo. Imparare a vivere con questa consapevolezza. Io glielo ho anche detto esplicitamente: lui mi guardava e annuiva. A un certo punto Al Pacino, che ha due anni più di noi, mi ha detto: “Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere il film finito” per via del tempo lunghissimo, cinque anni, che c’è voluto per sviluppare la tecnologia digitale di ringiovanimento. Ma ce l’ha fatta, grazie a Dio».

Il film abbraccia quarant’anni di vita americana.

«The Irishman ci ha permesso di guardare indietro alla nostra vita. Sia io che Bob abbiamo potuto fare i film che abbiamo voluto, siamo diventati famosi. E adesso? Cosa altro ci aspetta? Abbiamo imparato qualcosa? Certamente siamo stati testimoni di un periodo molto stimolante. Io quegli anni li ho vissuti fino in fondo senza fidarmi delle ideologie. Avevo voglia di credere in una società ideale, in un’utopia. Lo volevo veramente anche se ho scoperto che non esiste. Ho fatto del mio meglio, credo, imparando il rispetto reciproco, come sono fatte le persone. Con molta curiosità nei confronti della vita».

Per la prima volta in un suo film ha un posto importante la politica.

«Io mi sono tenuto sempre lontano dalla Storia contemporanea, dai grandi eventi. Ci sono stati grandi autori capaci di farlo, come il vostro Francesco Rosi con Salvatore Giuliano o Il caso Mattei. Io non sono capace. A casa mia non si è mai parlato di politica, se non di Roosevelt e della Grande Depressione. Nel mio film seguo quello che ha scritto Charles Brandt a proposito della fine di Jimmy Hoffa ma non voglio spacciarla per verità. E poi: è così importante sapere chi ha ucciso John Kennedy? Chi c’era dietro gli assassini di Robert Kennedy o di Martin Luther King? Saperlo, ci aiuterebbe a sentirci meglio? Renderebbe la nostra vita più facile?».

Ma nel film si parla della famiglia Kennedy, di Castro, della Baia dei Porci, di Nixon...

«Però restano sullo sfondo. Ci spiegano dove andava l’America allora e ci ricordano che Frank Sheeran giocava su una scacchiera dove altri comandano. Ma a me non interessavano le idee di Frank sulla politica americana: io volevo raccontare solo le sue emozioni di uomo. Quello che mi interessa di una persona come lui è l’amore, il rimorso, il tradimento, la necessità del tradimento. Alla fine, la politica non c’entra: tutto si restringe al fatto che deve tradire la persona cui vuole più bene. Tutto resta focalizzato sull’individuo, sul dilemma umano, sul conflitto morale».

Una tragedia della vita quotidiana.

«Sono cresciuto in quartieri devastati dall’alcol, dove mettevano le bombe nei locali e la gente moriva per strada. Ogni giorno c’era una tragedia ma la gente si sforzava di vivere. La cosa sconvolgente è che queste tragedie facevano parte della nostra vita. Non c’è mai nulla di drammatico nelle uccisioni che vediamo fare a Frank. E non dimentichiamo che Sheeran aveva fatto la guerra: 411 giorni di battaglie in Italia, Anzio, Salerno, Montecassino. Chi sei quando torni a casa? Pensiamo ai soldati che oggi tornano dall’Afghanistan e in tantissimi si suicidano. Non sto giustificando quello che fece Frank, sto cercando di capire».

Nel film c’è una scena molto divertente, quella sulla puzza di pesce in auto. Qualcuno ha scritto che è una scena alla Tarantino.

«È una scena vera, presente nel libro. Frank, Sally e Chukie stanno andando a uccidere Hoffa e Frank non si fida dei suoi due compari: ognuno potrebbe uccidere gli altri. Ma a differenza di altri film, qui la violenza è vera, ha delle conseguenze. Non è ad effetto, non vuole essere una punteggiatura artistica. È reale, anche se fa ridere. E comunque nei miei film c’era molto umorismo ben prima di Tarantino: penso a Mean Street, un po’ a Taxi Driver, molto a Toro scatenato e molto di più a Quei bravi ragazzi».

C’è molta musica nel suo film.

«Quando ero piccolo, la musica era la principale forma di comunicazione artistica. I miei genitori appartenevano alla classe operaia, non c’era l’abitudine di leggere libri. C’era il cinema, la radio, i juke box. Da ogni finestra usciva della musica e quella più famosa veniva dalle colonne sonore: il tema di Mario Nascimbene per La contessa scalza, quello di Ruby fiore selvaggio, quello di Grisbì, che ho messo nel film perché adoro Jean Gabin e volevo che De Niro si ispirasse un po’ a lui. E poi La ballata di Mackie Messer, Al di là di Luciano Tajoli che avevo imparato a conoscere in Gli amanti devono imparare di Delmer Daves...».

Anche la fotografia ha una patina antica.

«Definirei la luce di The Irishman una luce barocca, caravaggesca. L’ho chiesta a Rodrigo Prieto, il direttore della fotografia, perché l’illuminazione di quei posti era proprio così, coi séparé e i divanetti di pelle rossa che sembravano più scuri. Avevano un fascino misterioso. New York non era molto illuminata in quegli anni, c’erano poche luci per le strade. Io sono cresciuto nell’oscurità».

Per ringiovanire i suoi attori ha dovuto girare in digitale?

«Il film è girato per il 70 per cento in digitale e per il 30 in 35mm. Per il mio film precedente, Silenzio, le proporzioni erano invertite. Ho sempre cercato di usare la pellicola quando ho potuto, ma per la sperimentazione digitale sul ringiovanimento ho dovuto utilizzare una macchina da presa speciale e naturalmente digitale».

Lei ha dichiarato che i film di super-eroi si avvicinano più ai parchi di divertimento che al cinema.

«L’ho detto e lo confermo. I parchi di divertimento sono luoghi fantastici quando si è bambini, ma poi si cresce. Non sto dicendo di non fare i film della Marvel, dico solo: lasciate un po’ di posto anche ai nostri film. Lo dico perché sono preoccupato del fatto che tutto ruoti sempre intorno al concetto di super uomo, di Übermensch: se ci sono solo quei film, i ragazzi penseranno solo in quel modo, dimenticando che un essere umano a volte deve prendere delle decisioni che non vorrebbe prendere, che esistono le contraddizioni, che il mondo non si divide solo in buoni o cattivi. Voglio che i giovani sappiano che quei film non sono vero cinema, sono un’altra cosa. Ma se non possono vedere gli altri film, come possono capirlo?».

La sua scelta di far produrre «The Irishman» da Netflix ha suscitato qualche polemica.

«Negli ultimi trent’anni ho sempre lavorato con produttori indipendenti ma non ho trovato nessuno per questo film (il costo si è aggirato intorno ai 160 milioni di dollari, circa 144 milioni di euro, ndr). Solo Netflix ha accettato di finanziare interamente il progetto lasciandomi totale libertà creativa. In cambio ha voluto la possibilità di programmarlo in streaming in contemporanea con la distribuzione nelle sale. Mi è sembrato uno scambio equo. Soprattutto se penso che alcuni miei film, come Re per una notte, sono stati al cinema due settimane e poi sono spariti. Certo, l’ideale è vedere i film al cinema, ma prima bisogna farli per poterli vedere».

Cosa è orgoglioso di aver lasciato con la sua opera.

«Le racconto cosa mi è capitato mentre stavo facendo dei sopralluoghi nel Midwest, in Oklahoma. Stavo guidando da ore, intorno a me c’erano solo distese di campi e una mucca ogni tanto. Poi, in mezzo a quel nulla mi è apparso un ranch, circondato da erba a perdita d’occhio. Io ero stanco morto, faceva un gran caldo, era agosto: ho deciso di fermarmi. Mi hanno accolto una madre col figlio, gentilissimi. Ricordo che avevano anche un cane. Ci siamo stretti la mano e il ragazzo, molto gentile, mi ha chiesto di fare una foto. Poi mi guarda e mi chiede se può farmi una domanda. Io immagino già che sia la solita: “Quale dei suoi film preferisce?”. E invece lui mi chiede: “Ha contribuito lei a distribuire La clessidra di Wojciech Has?”. Sono rimasto senza parole. Un ragazzo che viveva in mezzo al nulla aveva visto quel film che io avevo fatto restaurare e distribuire e lo aveva trovato meraviglioso. “Mio fratello e io poi abbiamo recuperato tutti gli altri film di Has e anche altri titoli polacchi” ha aggiunto. Una persona in mezzo al nulla... Ecco, forse una cosa buona l’ho fatta».

·         Clint Eastwood.

Giornaliste, sesso e notizie: bufera su Clint Eastwood. Una scena fa scatenare i legali. A. Baldini il 14 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Bufera su Clint Eastwood per il nuovo film sull’attentato alle Olimpiadi di Atlanta: in Richard Jewell, uscito ieri nelle sale Usa, il regista americano premio Oscar per Million Dollar Baby insinua che Kathy Scruggs, una cronista di «nera» del giornale locale Atlanta Journal-Constitution, offrì sesso all’agente dell’Fbi incaricato delle indagini in cambio di informazioni per uno scoop sul colpevole. Il film si presenta come una storia vera, sullo stile di The 15:17 to Paris, Sully o American Sniper: stavolta lo spunto di Eastwood sono l’attentato del luglio 1996 al Centennial Park di Atlanta e la tempesta mediatica che cambiò la vita di Jewell, una guardia giurata che risultò poi innocente. Jewell, che è morto nel 2007, fu effettivamente il principale sospetto, come l’Atlanta Journal-Constitution riferì in un articolo di prima pagina. Ripresa dalla Cnn, la storia rimbalzò immediatamente su tutti i media e l’uomo, che non fu mai incriminato, passò settimane asserragliato in casa, circondato da giornalisti e telecamere fino a quando non fu scagionato tre mesi dopo la bomba che provocò due morti e 111 feriti. Nel film la Scruggs (Olivia Wilde) incontra l’agente dell’Fbi (Jon Hamm) in un bar giorni dopo l’esplosione. «Dammi qualcosa che posso stampare», chiede la donna. Lui all’inizio si nega («Neanche se vieni a letto con me»), ma poi cede quando la mano della giornalista gli risale sulla coscia e rivela che l’inchiesta sta puntando su Jewell, inizialmente salutato come eroe per aver scoperto la bomba, avvertito la polizia con venti minuti di anticipo sull’esplosione e limitato così il numero delle vittime. «Vuoi prendere una stanza o andiamo nella mia macchina?», chiede a quel punto la Scruggs, in una battuta contestata da chi la conosceva bene. La giornalista è morta a 42 anni nel 2001 per overdose di farmaci. Come in molti docudrammi, anche l’ultimo Eastwood si prende licenze con la verità storica, usando tra l’altro il vero nome della giornalista e un nome inventato per l’agente dell’Fbi. L’Atlanta-Constitution, con l’aiuto di un avvocato, Martin Singer noto come «il cane da guardia delle star», ha scritto a Eastwood, allo sceneggiatore Billy Ray e a Warner Bros minacciando una causa per diffamazione se la reputazione della Scruggs non sarà restaurata nei titoli di testa. Quanto alla scena del bar nel film, per molti è l’ultimo esempio di un approccio sessista di Hollywood alle giornaliste: reporter donne che vanno a letto con le loro fonti per ottenere notizie sono apparse anche nelle serie House of Cards di Netflix. (a. baldini)

Da lastampa.it il 14 dicembre 2019. Bufera su Clint Eastwood per il nuovo film sull'attentato alle Olimpiadi di Atlanta: in «Richard Jewell», che esce oggi nelle sale Usa, il regista americano premio Oscar per Million Dollar Baby insinua che Kathy Scruggs, una cronista di nera del giornale locale Atlanta Journal-Constitution, offrì sesso all'agente dell'Fbi incaricato delle indagini in cambio di informazioni per uno scoop sul colpevole. Il film si presenta come una storia vera, sullo stile di The 15:17 to Paris, Sully o American Sniper: stavolta lo spunto di Eastwood sono l'attentato del luglio 1996 al Centennial Park di Atlanta e la tempesta mediatica che cambiò la vita di Jewell, una guardia giurata che risultò poi innocente. Jewell, che è morto nel 2007, fu effettivamente il principale sospetto, come l'Atlanta Journal-Constitution riferì in un articolo di prima pagina. Ripresa dalla Cnn, la storia rimbalzò immediatamente su tutti i media e l'uomo, che non fu mai incriminato, passò settimane asserragliato in casa, circondato da giornalisti e telecamere fino a quando non fu scagionato tre mesi dopo la bomba che provocò due morti e 111 feriti. Nel film la Scruggs (Olivia Wilde) incontra l'agente dell'Fbi (Jon Hamm) in un bar giorni dopo l'esplosione. «Dammi qualcosa che posso stampare», chiede la donna. Lui all'inizio si nega («Neanche se vieni a letto con me»), ma poi cede quando la mano della giornalista gli risale sulla coscia e rivela che l'inchiesta sta puntando su Jewell, inizialmente salutato come eroe per aver scoperto la bomba, avvertito la polizia con venti minuti di anticipo sull'esplosione e limitato così il numero delle vittime. «Vuoi prendere una stanza o andiamo nella mia macchina?», chiede a quel punto la Scruggs, in una battuta contestata da chi la conosceva bene. La giornalista è morta a 42 anni nel 2001 per overdose di farmaci. Come in molti docudrammi, anche l'ultimo Eastwood si prende licenze con la verità storica, usando tra l'altro il vero nome della giornalista e un nome inventato per l'agente dell'Fbi. Questa settimana l'Atlanta-Constitution, con l'aiuto di un avvocato, Martin Singer noto come «il cane da guardia delle star», ha scritto a Eastwood, allo sceneggiatore Billy Ray e a Warner Bros minacciando una causa per diffamazione se la reputazione della Scruggs non sarà restaurata nei titoli di testa. Quanto alla scena del bar nel film, per molti è l'ultimo esempio di un approccio sessista di Hollywood alle giornaliste: reporter donne che vanno a letto con le loro fonti per ottenere notizie sono apparse tra l'altro nelle serie House of Cards di Netflix (in Italia su Sky Atlantic), Sharp Objects di Hbo (da noi Sky Atlantic) e nel film Thank You for Smoking.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 18 dicembre 2019. Giornaliste americane in rivolta contro l' ultimo film di Clint Eastwood. Richard Jewell , che poi è il nome della guardia giurata accusato ingiustamente di essere il terrorista dell' attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996. Colpa della stampa, suggerisce l'ex attore amatissimo da Sergio Leone diventato regista di successo, vicinissimo al partito repubblicano e grande fan di Trump. Cioè colpa della giornalista Kathy Scruggs: che all' epoca fu la prima a rivelare dalle pagine dell' Atlanta Journal-Constitution per cui lavorava che l' Fbi indagava proprio l' uomo che solo dopo si capì aveva invece sventato un attentato che poteva essere molto peggiore, salvando molte vite. Jewell fu indagato per 88 giorni. Salvo poi essere completamente esonerato dalle accuse. Nella ricostruzione fatta da Eastwood, Scruggs, una bella donna bionda spesso vestita in minigonna e considerata dai colleghi competitiva e aggressiva, avrebbe ottenuto la soffiata seducendo un agente dell' Fbi. Peccato che non ci siano prove. Solo dicerie che la famiglia e il suo giornale definiscono «maligne». Anche perché Kathy nel frattempo è morta e non può difendersi. Deceduta nel 2001, a 42 anni, per un' overdose di pillole. La rapida conclusione del film fa infuriare le colleghe: «Nessuna va a letto con un uomo per ottenere una notizia. Semmai veniamo continuamente molestate», racconta Akita Rao, ex caporedattore di Vice , in un lungo editoriale sulla versione americana del Guardian. Dove cita pure uno studio dell' International Women' s Media Foundation, secondo cui il 58% delle reporter è stato minacciato o molestato, il 28% ha subito un assalto. Alle critiche contro il film si sono unite eminenti firme. Come la premio Pulitzer Ann Marie Lipinski che su Twitter ha scritto: «Una mia collega è stata stuprata durante un servizio. Molte hanno subito molestie, insulti, palpeggiamenti. Non conosco nessuno che ha fatto sesso in cambio di notizie. Diffamare Scruggs è un atto codardo ». Le fa eco Margaret Sullivan del Washington Post : «Per certi uomini la vera colpa di Scruggs è non aver mai rivelato la sua fonte, fedele alla sua etica». La polemica è tale che perfino l'attrice Olivia Wilde, che nel film interpreta la reporter è stata costretta a intervenire in difesa del suo personaggio: «Sono figlia di un giornalista e ammiro molto il lavoro di Kathy: lavorò in un contesto misogino e difficile. Non ho mai pensato avesse scambiato sesso per notizie. Semmai aveva una relazione amorosa con l' agente che la mise su una falsa pista ed è in questo spirito che l' ho interpretata».

Lorenzo Soria per ''la Stampa'' il 5 dicembre 2019. A dicembre, è un passaggio quasi obbligato: dopo che gli Oscarologi e tutta la folta comunità che vive attorno al cinema e ai premi cinematografici ha passato mesi ad aggiungere favoriti e scartare le produzioni più deludenti, arriva quasi inaspettato il nuovo film di Clint. Semplicemente Clint, perché a sei mesi dal compiere i 90 anni Clint Eastwood - il cavaliere solitario e senza nome dei western di Sergio Leone, diventato gigante di Hollywood riverito e rispettato per i suoi film - continua a dirigere e a produrre film indipendenti e non convenzionali. Come Richard Jewell, storia della guardia di sicurezza che alle Olimpiadi di Atlanta, nel 1996, scoprì uno zaino contenente esplosivo nascosto sotto una panchina. Un eroe che salvò molte vite, ma tre giorni dopo divenne il principale sospettato, accusato dall' Fbi, dalla stampa, dall' opinione pubblica, per poi scoprire dopo tre mesi che il colpevole era stato un altro e che la vita di Jewell era stata distrutta e messa sottosopra senza ragione. «La vicenda di Richard Jewell mi ha colpito perché è una grande tragedia americana - spiega Eastwood -. La storia di una persona che compie un atto eroico e si ritrova accusata di avere commesso quel crimine mi è sembrata la base per un grande film. Spero di ristabilire l' onore di Jewell e spero soprattutto che la nostra società riesca a fare un po' meglio». Nel film Jewell è interpretato dall' ottimo Paul Walter Hauser. Tra gli altri interpreti, John Hamm, Sam Rockwell, Olivia Wilde e Kathy Bates, oltre allo stesso Clint. Indossa camicia azzurra, cravatta a fiori e un vestito grigio di ottimo taglio. A volte fa fatica a sentire le domande o perde il filo delle risposte ma la sua mente è ben presente. E così il suo senso dell' umorismo.

Perché una tragedia americana?

«Quando qualcuno lavora onestamente e si trova per errore tutta la società contro è un grande dramma da raccontare. Bisogna pensare che il signor Jewell è morto a 44 anni, piuttosto giovane, e tutti gli altri individui coinvolti sono morti prematuramente. Ti chiedi perché, ma poi, alla fine, proprio quando pensi di sapere tutto ti accorgi di non sapere nulla. Più a lungo vivi, più esperienze hai accumulato, più realizzi che hai ancora un sacco da imparare».

E lei, Eastwood, ha vissuto un bel po', tra un paio di mesi compie 90 anni Come vede la prossima decade? Ha ancora dei sogni non realizzati?

«Intanto, non sai mai se ci arriverai. Sessanta anni fa, quando ho iniziato a recitare, speravo che la mia carriera sarebbe andata da qualche parte. Ora mi guardo indietro e mi chiedo: perché sono ancora qui? E perché non sto ad osservare altri vecchi da dentro una casa di riposo o qualcosa del genere? Sono stato abbastanza fortunato, forse ho avuto buoni geni da mio nonno. Ma non c' è una risposta nemmeno per questo. Se ci pensi bene, non c' è risposta a nulla».

Sta già lavorando al suo prossimo film?

«Stiamo guardando un paio di cose ma non so bene a che punto siamo. Nel frattempo, mi piace questo film e mi piacciono Paul, Sam, Olivia e Kathy. Sono stati tutti semplicemente fantastici ed è per questo che sono diventato un regista, così non ho bisogno di continuare a guardare me stesso su uno schermo. E sono in una fase in cui sono decisamente stanco di guardare me stesso!».

E' stato a lungo associato coi repubblicani. Come vede la presidenza Trump?

«Mi fa venire in mente Il buono, il Brutto e il Cattivo. Ogni giorno è una sorpresa ed è interessante. Succede a qualsiasi politico, che si tratti di George W. Bush o di Barak Obama. Tutti fanno cose buone e tutti fanno cose stupide e a volte ti stupisci per quanto possano essere stupide. Io non sono nelle tasche di nessuno e non ho una filosofia particolare. Penso solo di saper riconoscere la stupidità quando la vedo. E di questi tempi ne vedo tanta».

Ci sono molti cambiamenti in corso nel settore dello spettacolo, a partire dalla rivoluzione dello streaming. Qual è il suo atteggiamento?

«Se volessi raggiungere un pubblico più ampio, cercherei di entrare nelle case delle persone. Ma voglio fare film per i quali le persone escono da casa per andarli a vedere. Cosa posso aggiungere? Che sono qui e che è stata una bella vita e che continuerò a cavalcare il mio cavallo immaginario. Fare cinema è un po' come andare a Las Vegas e scommettere, perché ogni nuovo progetto è una scommessa».

Qual è il segreto del successo?

«A volte sei a metà strada e ti chiedi: ma ci sarà qualcuno che vuole vedere questa roba? Penso che molto sia dovuto alla fortuna, perché se sei fortunato hai scelto il materiale giusto da trattare. Ma ci sono così tante altre cose in ballo: la produzione, la regia, l' impostazione. Ogni volta è come un gioco diverso e proprio quando pensi di averlo afferrato può mollarti come una patata bollente. O come una donna arrabbiata».

Dago News il 2 novembre 2019. Anticipiamo una delle interviste a Clint Eastwood (del 1976) dalla raccolta "Fedele a me stesso", in libreria con Minimum Fax dal 7 novembre. Testo di Richard Thompson e Tim Hunter per il “Fatto quotidiano”.

Com' è approdato alla regia?

«Ho cominciato a interessarmi alla macchina da presa mentre recitavo negli Uomini della prateria. Stavamo girando la scena di una mandria di bovini lanciati in una corsa impazzita: io cavalcavo in mezzo a tremila mucche, la polvere volava ovunque e l' effetto era davvero straordinario. Sono andato dal regista e gli ho detto: "Dammi una macchina da presa. Là in mezzo c' è roba stupenda che tu non riesci a vedere". Se ne sono usciti con tutta una serie di problemi sindacali Alla fine mi hanno dato un contentino: ho diretto alcuni trailer».

Perché la regia era così importante per lei?

«È un percorso naturale se si è interessati ai film. Il concetto di film in generale per me era più importante della semplice recitazione. Lei ha un' incredibile percezione del materiale, molto più oggettiva dei colleghi».

Intende nel saper scegliere i film da interpretare? E quelli da dirigere.

«Semplice istinto. Se ci stessi troppo a pensare, cambierei idea e farei qualcosa di sbagliato Se ho un pregio, è la risolutezza: prendo in fretta tutte le decisioni, giuste o sbagliate che siano».

Ha un difetto principale come regista?

«Ne ho a bizzeffe, probabilmente. A volte, quando recito in una scena, mi distacco troppo. È difficile passare dalla regia all' interpretazione».

Lei ha avuto un ruolo chiave nella messa in discussione del concetto di eroe: cosa pensa degli eroi?

«Sono fra coloro che hanno portato gli eroi ancora più lontano dal classico personaggio sul cavallo bianco. In Per un pugno di dollari non si scopre chi è l' eroe fino a un quarto del film, e neanche allora se ne ha la certezza; si presume che sia il protagonista, ma solo perché tutti gli altri sono peggio di lui. Mi piacciono i nuovi eroi. Mi piace che abbiano punti di forza, lati deboli, mancanza di virtù».

E il senso dell'umorismo?

«Esatto. E anche una punta di cinismo ogni tanto. Ai vecchi tempi, con le regole di ingaggio del Codice Hays, non potevi tirare fuori l'arma se non te ne puntavano una contro».

Ma se un tizio cerca di uccidere il personaggio che interpreto, io gli sparo alle spalle.

«Pauline Kael (critica cinematografica, ndr ) le ha lanciato diverse frecciate antimachismo».

Be', erano fuori luogo Continua a parlare della necessità di mostrare il lato debole degli uomini, e quello va bene, c' è spazio per farlo. Ma perché allora non dovrebbe esserci spazio per personaggi immaginari di cui vorremmo avere l' astuzia?

«La Kael è ossessionata da qualcos' altro; lo si vede nei film che le piacciono. Si è costruita un' immagine di schiettezza, perciò deve trovarsi qualcosa su cui esercitarla. Ha scelto il machismo perché è la questione del momento. Negli anni Sessanta era il razzismo; chissà di cosa si tratterà in futuro. Non mi crea problemi, perché quello che dice lei non ha effetto sul successo dei miei film. Il texano dagli occhi di ghiaccio incasserà più di Nashville».

John Milius sosteneva che Pauline Kael fosse innamorata di lui perché non faceva altro che parlarne.

«Oh, l' ho detto anch' io. Giusto per farmi due risate, ho chiamato uno psichiatra e gli ho letto l' articolo. Mi ha detto: "È ciò che si definisce 'formazione reattiva'. La signora vuole farsi una scopata con lei". E io ho risposto: "Non penso proprio". E lui allora: "Be', forse non è così, ma è comunque divertente pensarlo"».

Il machismo è sotto tiro in questo periodo.

«Oh, sì. Il modo in cui Jack Nicholson interpreta il tizio del Nido del cuculo è estremamente macho Fra un anno o due tutti ripenseranno a questa pellicola e diranno: "Dio, magari si facessero ancora film del genere". Ovviamente io non sono come quei personaggi. Non sparo alla gente per strada».

Cosa rimane oggi all' eroe?

«Non lo so. Prenda Josey (protagonista del Texano dagli occhi di ghiaccio, ndr): al contrario degli altri personaggi che vanno e vengono, trovando qualcosa di cui vendicarsi, nel suo caso si vede cosa lo rende così com' è, cosa lo fa crescere gradualmente. Ma non lo considero un eroe, bensì una persona. Diventa eroico, tanto eroico quanto l' ho voluto io».

Quando uscì Breezy , in una sede della Universal erano furiosi perché la casa madre non l' aveva promosso.

«Lo sapevo, si capiva. È uno dei motivi per cui non faccio tutti i film con la Universal. Non hanno promosso neanche Brivido nella notte I manager mi chiamavano e mi dicevano: "Maledizione, il film sta andando bene". E io: "Perché non dovrebbe?". Al che loro rispondevano: "Be', non so, non è un western e tu non fai il poliziotto"».

Sondra Locke, che ha recitato nel Texano , ha raccontato: "Non avevo battute nel film e il direttore della fotografia ha risposto: 'È molto meglio così. Se non parli, staranno tutti in trepidazione aspettando che parli!'".

«L' ho fatto anch' io per 14 film, poi alla fine ho aperto la bocca e ho rovinato tutto».

·         Giorgio Tirabassi.

Chiara Maffioletti per corriere.it il 2 novembre 2019. È stato operato d’urgenza e ora non è in pericolo di vita, Giorgio Tirabassi, l’attore 59enne che ieri sera durante la presentazione del suo primo film da regista, «Il grande salto», ha avuto un infarto. Soccorso dai medici presenti all’evento, a Civitella Alfedena (l’Aquila), e poi trasportato d’urgenza all’ospedale d Avezzano, è stato sottoposto ad un’angioplastica e ora le sue condizioni sono stazionarie. Fonti sanitarie definiscono la situazione sotto controllo: l’attore non corre pericolo di vita. Ed è lui stesso a rassicurare amici e fan, con un post pubblicato su Facebook alle 10.30: «Sto bene e in buone mani», scrive.

Il volto di «Distretto di polizia». Lui, 59 anni, che ha iniziato la sua carriera al fianco di Gigi Proietti, è diventato per molti un volto famigliare, quasi di casa grazie alla televisione. Una popolarità arrivata «tardi», quando aveva 40 anni e una carriera già avviata, frutto di una gavetta lunga, non frettolosa e fatta di tanto teatro. Il grande successo però, lo deve appunto alla fiction. «Distretto di polizia», in particolare, di cui entra a far parte nel 2000, nel ruolo dell’ispettore capo Roberto Ardenzi che poi, nel corso delle stagioni diventa vice commissario e infine Commissario. Tirabassi, di fatto, è cresciuto e ha fatto carriera assieme al suo personaggio. Da allora, non si è mai fermato. Tra i suoi personaggi più celebri e riusciti, Paolo Borsellino nel film tv omonimo e quello del professore Antonio Cicerino nella serie «I liceali». Ma anche se alla fiction deve l’affetto del suo pubblico più largo, il cinema è sempre stato il grande amore per l’attore. Ricambiato.

La carriera. Tirabassi ha recitato, tra gli altri, per Dino Risi («Scemo di guerra»), Francesca Archibugi («Verso sera», del 1990) e Carlo Mazzacurati («Un’altra vita»), Ettore Scola («La cena»). «Il grande salto» è il suo primo film da regista, un sogno realizzato. Al suo fianco ha voluto quello che negli anni è diventato anche un amico, Ricky Memphis, con cui ha recitato a lungo in «Distretto di polizia». Anche nel suo film interpretano due amici di lungo corso, ma anche una sfortunata coppia di ladri che si arrabatta nella speranza di fare il grande colpo che risolve loro la vita. Un omaggio involontario alla commedia all’italiana, come aveva spiegato Tirabassi, dicendo: «Siamo cresciuti ridendo con Alberto Sordi, Monicelli, Risi... era inevitabile, penso, ritrovarli in qualche modo ora che sono regista». Memphis, nel descrivere il suo amico dietro la macchina da presa, ha detto: «Mi ha dato la sicurezza degli altri registi con cui ho lavorato. Solo che lui mi è più simpatico».

·         Quentin Tarantino.

Testo di Quentin Tarantino pubblicato da “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. Testo raccolto nel 2018 da Christopher Frayling nel cinema privato della casa di Los Angeles del regista, contenuto nel catalogo La rivoluzione Sergio Leone , ed. Cineteca di Bologna, a cura di Frayling e del direttore della Cineteca Gian Luca Farinelli). Quando uscirono i miei primi due film, in cui mi feci conoscere come regista, mi fu spesso chiesto quali fossero i miei registi preferiti. Io citavo sempre Sergio Leone, ma non lo mettevo mai tra i primi tre. Dicevo Howard Hawks per Rio Bravo (1959), Martin Scorsese per Taxi Driver (1976) e Brian De Palma per Blow Out (1981). Quei tre titoli erano entrati a far parte della mia mitologia, o quasi. All' epoca mi dicevano qualcosa di speciale. Poi, una decina di anni dopo, più o meno agli inizi degli anni Duemila, ho cominciato a pensarci su e mi sono detto: "questi non sono veramente i miei tre film preferiti in assoluto". In realtà il mio regista preferito è Sergio Leone. Non c' è un altro regista da cui abbia preso così tanto. Il film che mi ha spinto verso la regia, il film che mi ha mostrato come un regista fa quel che fa, come un regista può assumere il controllo di un film per mezzo della macchina da presa, è C' era una volta il West . Mi spiego. All' epoca in cui stavo rivedendo la mia scelta di fare l' attore e meditavo di passare alla regia - perché non volevo più limitarmi ad apparire nei film, volevo che i film fossero miei - diedero alla tv C' era una volta il West, molto prima che cominciasse a circolare nei cinema d' essai, e mi misi a riguardarlo. Quel film è una specie di scuola di cinema, se si presta attenzione a quello che fa il regista. Non appena si inizia a guardare C' era una volta il West dal punto di vista di un regista, ci si accorge che la regia è visibile in ogni scena. Si vede come i personaggi entrano ed escono dall' inquadratura e come la macchina da presa fa questo e quello. Il modo in cui Charles Bronson entra in campo in primo piano da sinistra, poi qualcun altro entra in campo da destra. È la perfetta illustrazione di quel che un regista può fare con lo strumento che ha a disposizione. Non insegna come si fa un film, ma come si fa un film di Sergio Leone, come lasciare un segno nel cinema. Come rendere inconfondibile la propria opera. Se si riflette sul ruolo del regista in quanto star o in quanto artista, lì c' è letteralmente tutto. E io ne sono stato folgorato, ho pensato: "ecco come si fa", "ecco come fa". Insomma, più o meno nel periodo in cui sceglievo di fare il regista è arrivato quel film e ha finito, diciamo, per creare nella mia mente un' estetica. Per circa dodici anni C' era una volta il West non è mai stato proiettato nelle sale: passava solo alla televisione e non si sapeva mai in quale versione lo avrebbero trasmesso. Era diventato una specie di gioco di società: che versione vedremo? Vedremo Bronson che fa quella cosa con la giacca quando viene colpito al braccio? Si vedrà la morte di Cheyenne? L' avranno tagliata? Cose così. Quando ho cominciato a considerare il mestiere di regista avevo sotto gli occhi quel film in particolare, che è così diretto da permetterti di studiare il modo in cui funziona l' inquadratura, in cui un attore entra ed esce di scena, il contrasto tra primo piano e sfondo. Leone questa cosa la fa dall' inizio alla fine del film. Il suo è uno stile esplicito, sfacciato. Non devi sapere troppe cose sul cinema per entrare in sintonia. Lo vedi. (...) Quando parliamo dei registi degli anni Sessanta che sono stati più significativi non tanto per i registi degli anni Settanta e Ottanta, ma per i registi degli anni Novanta e Duemila, io sono convinto che Leone indichi la strada al cinema moderno, alla maniera di fare cinema dagli anni Novanta in poi. Innanzitutto c' è lo stile fumettistico, di cui Leone era consapevole e Corbucci anche, e in entrambi le scene d' azione sono contraddistinte da un' eccitazione che verrà sviluppata in seguito, per esempio, in film come Terminator. C' è qualcosa di effervescente nelle loro scene d' azione. Elvis Mitchell (il critico, studioso e conduttore radiofonico che ha presentato la lettura dal vivo della prima stesura di The Hateful Eight nell' aprile 2014, ndr ] tiene un corso sul cinema durante il quale è solito mostrare ai suoi giovani studenti questo o quel film, un film degli anni Cinquanta, un film degli anni Sessanta, un film degli anni Quaranta. Ma è quando mostra loro un Sergio Leone che, se non l' hanno mai visto, reagiscono. È a quel punto che iniziano a riconoscere gli elementi. È a quel punto che smettono di pensare "sto vedendo un vecchio film". (...) Apprezzano il surrealismo, la follia, la musica, gli stacchi sottolineati dalla musica, tutto questo lo riconoscono. È il vero inizio dell' evoluzione del modo di fare cinema maturata intorno agli anni Novanta. Leone non si supera, da Leone si parte.

Stralci da Dga.org il 2 ottobre 2019. Martin Scorsese e Quentin Tarantino nascono storyteller, non solo nei loro film - che portano l'inconfondibile timbro di ogni regista - ma nel loro profondo apprezzamento per il mezzo. Anche se provengono da generazioni diverse - Scorsese è stata tra le prime ondate di diplomati della scuola di cinema a metà degli anni '60 e l'ascesa di Tarantino ha coinciso con la rivoluzione del cinema indipendente dei primi anni '90 - la loro passione e conoscenza del cinema li mettono su un piano di parità. Nessun genere sfugge alla loro comprensione, che si tratti di uscite di film di alto livello o di film di serie B, musical o noir o spaghetti western. Hanno attinto da questo grande buffet per tutta la vita, e si vede nel loro lavoro, nei personaggi che hanno creato e nel modo attraverso cui guardano il mondo. Questo è un anno particolarmente importante per entrambi i registi: "Once Upon a Time…a Hollywood" di Tarantino  ha galvanizzato sia la critica che il pubblico dal suo debutto a Cannes, mentre l'aspettativa è alta per “The Irishman” di Scorsese, per il quale il regista ha dovuto lavorare moltissimo tempo più nella post produzione  che nelle riprese per l’invecchiamentio digitale degli attori. I due hanno avuto una lunga conversazione, pubblicata da DGA Quarterly, durante la quale hanno parlato di registi, influenze e film. Questo è un estratto della loro conversazione.

Martin Scorsese: ho appena perfezionato l'ultimo taglio di “The Irishman”.

QT: Bene, lascia che ti faccia una domanda sul film che stai girando adesso perché hai a che fare con la pellicola più lunga della tua carriera. Dura alcune ore, vero?

MS: Sì.

QT: In che modo ciò ti ha influenzato per quanto riguarda il ritmo?

MS: È interessante notare che questa volta ho capito il ritmo sulla sceneggiatura che Steven Zaillian ha scritto. In altre parole, non sono sicuro che debba essere, ad esempio, un film di due ore e 10 minuti. O avrebbe potuto essere di quattro ore? E quando arrivi alla mia età, Quentin — e diventi un po' più lento, un po' più contemplativo e meditativo — si tratta solo di pensare al passato e alla percezione del personaggio del passato soprattutto nella terza parte.

MS: Ha un ritmo più tranquillo. C’è ancora violenza, c’è ancora umorismo. Ma avviene in diversi modi. È la vecchia storia: più immagini giri, più c'è da imparare.

QT: Sai, Marty, ti racconterò una storia interessante che sto vivendo proprio ora. In questo momento, sto lavorando a un libro. E ho questo personaggio che aveva vissuto la seconda guerra mondiale e aveva visto molti spargimenti di sangue. E ora è tornato a casa, ed è negli anni '50, e non si ritrova più nel cinema di Hollywood e nei suoi film. Li trova ingenui dopo tutto quello che ha passato. Per quanto gli riguarda, i film di Hollywood sono film. E così, all'improvviso, inizia a sentire parlare di questi film stranieri di Kurosawa e Fellini. E così dice "Beh, forse potrebbero avere qualcosa in più di questa roba di Hollywood."

MS: Giusto.

QT: Quindi si ritrova attratto da queste cose e alcune di quelle gli piacciono e alcune non gli piacciono e alcune le capisce, ma sa che sta vedendo qualcosa. Quindi ora mi ritrovo ad avere una meravigliosa opportunità, in alcuni casi, di rivedere e, in alcuni casi, di guardare per la prima volta, film di cui ho sentito parlare da sempre, ma dal punto di vista del mio personaggio. Quindi questo mi porta a chiederti: quando è stato che hai iniziato a essere attirato da ciò che era lontano da Hollywood?

MS: Beh, è un'ottima domanda perché i miei primi sette, otto anni circa della mia vita eravamo a Corona, nel Queens. E poi mio padre dovette tornare a Elizabeth Street (nella Little Italy di Lower Manhattan), la strada in cui lui e mia madre erano nati, a causa di alcuni problemi con il padrone di casa. E così sono stato scaraventato in quello che sembrava “Dead On Kids” o “On the Bowery”. Ma prima, probabilmente a causa dell'asma, i miei genitori mi portavano sempre al cinema. Così ho visto “Duel in the Sun”, è stato il primo. E poi "The Wizard of Oz", "The Secret Garden", noir come "The Threat" di Felix Feist. L'hai mai visto?

QT: Sì, sì. Ho amato “The Threat”.

MS: E ancora “Blood on the Moon”. “One Touch of Venus”. Avevamo un piccolo televisore, un RCA Victor da 16 pollici, e i miei nonni vennero un venerdì sera perché davano film italiani per la comunità italiana. E i film erano” Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica; “Roma città aperta” e “Paisà” di Roberto Rossellini. E così a 5 anni ho visto la reazione dei miei nonni piangere guardando "Paisà" e ho sentito la lingua che era la stessa di quella che stavano parlando. E così sapevo che c'era un altro tipo di cinema, ma non erano i film. Il primo film che ho visto su Hollywood è stato “Sunset boulevard” di Billy Wilder.

QT: Giusto, sì. Visione molto oscura di Hollywood.

MS: E così, in un certo senso, sono riuscito a codificarli: la verità  arrivava attraverso un codice diverso e una cultura diversa in un certo senso. E non li ha resi meno importanti dai film europei che ho visto. Ma c'è stato qualcosa che mi ha colpito quando ho visto quei film italiani su quel piccolo schermo che non ho mai superato, e quindi ha cambiato tutto. Questo mi ha davvero dato una visione del mondo, dei film stranieri. Mi ha incuriosito il resto del mondo, a parte la comunità italo-americana-siciliana in cui vivevo.

QT: Quindi ti ha persino aperto a New York, in un certo senso: raggiungere quegli altri cinema, uscire dal tuo quartiere, cercare quei posti?

MS: Era più di questo. Perché stavo davvero andando in America, fuori dal piccolo villaggio in cui sono cresciuto. È stato spaventoso.

QT: Quando penso ai cineasti di New York, penso a te, Marty. Penso a Sidney Lumet. Penso a Woody Allen. Ma fai anche parte della New York New Wave degli anni '60. C’erano ragazzi come te, Jim McBride e Shirley Clarke e Brian De Palma. Sono interessato a tutto il concetto della New Wave di New York e voi ragazzi siete più o meno ispirati dallo spirito della New Wave francese.

MS: Le cose a New York si sono mosse dal dopoguerra. A New York c'erano ancora pochissimi film. In studio avevi tutto quindi perché dovevi andare a New York? Quindi quello che penso sia cambiato è stato, ovviamente, ancora una volta, il Neorealismo, che girava in luoghi reali. Si iniziarono a portare le telecamere in strada. E New York non era una destinazione per girare in quel momento. Avevi il traffico, c’erano persone che lavoravano e camminavano davanti alla telecamera e non volevano venisse detto loro nulla. Era l'avanguardia americana, i film Jonas Mekas curati a metà degli anni '50. Amos Vogel, Jonas Mekas, Shirley Clarke con The Connection. L'uomo che l'ha veramente rotto gli schemi, ovviamente, fu Cassavetes con ''Shadows''. Una volta che ho visto ''Shadows'', ho guardato i miei amici e ho detto: "Beh, non ci sono più scuse". Finché hai qualcosa da dire, possiamo farlo. Stavano usando una 16mm Éclair che era più piccola e leggera. E quella era la mossa giusta perché eri in grado di girare e non avevi bisogno della macchina  della costa occidentale.

QT: Ma la cosa interessante della New York New Wave, specialmente se paragonata al Neorealismo o alla New Wave francese è, direi, nei film della New Wave francese, si svolgono tutti negli stessi posti della stessa città. In qualsiasi momento, il personaggio di Anna Karina di Godard  in “Vivre sa vie” poteva imbattersi nel pianista di Truffaut in "Shoot the Piano Player". Voglio dire, poteva assolutamente succedere.

MS: Esatto. Si.

QT: Mentre la New York New Wave, d'altra parte, era attaccata ai propri quartieri. E ci ha mostrato una versione molto sfaccettata di New York. Non immagineresti che i personaggi di "The Cool World" si poteva incontrare con i personaggi di "Who's That Knocking at My Door" o degli hippy del Greenwich Village. Non esistevano nella stessa cornice.

MS: No, no, no, quelli erano paesi diversi. Non saremo mai andati sulla 110th Street. Non so cosa facciano lassù. Non mi interessa. È un mondo diverso.

QT: Ho rivisto, abbastanza recentemente, "Who's That Knocking at My Door". E in effetti, della New York New Wave, il tuo film è stato il più centrato. Sembrava un po' come i film francesi della New Wave.

MS: Sì, il bianco e nero ... Ma sì, in realtà hai ragione. Senza dubbio vi fu un'influenza della New Wave francese, e di Bertolucci; “Prima della rivoluzione” fu spiazzante. E Pasolini; per me, "Accattone" è il migliore di tutti. Ho adorato quello che hanno fatto nei film.

Da La Stampa il 2 ottobre 2019. Il regista Quentin Tarantino sta scrivendo un libro su un ex-militare che ha combattuto nella seconda guerra mondiale (1939-1945) ed è stanco della superficialità dei film, soprattutto hollywoodiani. Il regista di Kill Bill ha svelato questo progetto in una conversazione con il collega regista Martin Scorsese - il cui The Irish è appena uscito negli Usa -, pubblicata oggi su DGA Quarterly, la rivista della US Directors Guild. Tarantino ha parlato per la prima volta della sua nuova avventura come scrittore: «In questo momento sto lavorando a un libro. C’è un personaggio che ha combattuto nella seconda guerra mondiale e ha visto un sacco di sangue. Ora è tornato a casa, siamo negli Anni 50, e non gli piace più il cinema. Trova i film troppo puerili dopo tutto quello che ha vissuto. Per quanto lo riguarda, i film hollywoodiani per lui sono semplici film». Poi la svolta: «E poi all'improvviso inizia a sentire parlare di quei film stranieri di Kurosawa e FellinI: “Beh, – pensa –  forse queste pellicole hanno qualcosa in più di quei falsi hollywoodiani”. Alcune di esse gli piacciono, altre no, ma capisce che sta vedendo qualcosa. Ne è attratto». È evidente come il romanzo prosegua la riflessione sulle differenze tra il cinema della potente industria hollywoodiana e le produzioni straniere aperta con il suo ultimo progetto cinematografica. Non è la prima volta che Tarantino parla della sua intenzione di pubblicare un romanzo, quella di scrittore – anche di opere teatrali - vorrebbe che fosse la sua attività dopo il ritiro dal cinema. Già "C'era una volta a Hollywood" era stato originariamente concepito come un romanzo e solo successivamente trasformato in sceneggiatura cinematografica. 

Quentin Tarantino: «Prima non volevo fidanzate sul set, ora divido tutto con mia moglie». Pubblicato martedì, 21 maggio 2019 da Corriere.it. «C’è una donna straordinaria, che ho sposato. Si chiama Daniela. Ci siamo conosciuti in Israele quando sono andato a promuovere Inglourious Basterds, e abbiamo iniziato a uscire seriamente due anni fa. Non sono mai stato sposato prima quindi non posso fare paragoni, ma penso di essere la persona più felice al mondo». Lo dice il regista Quentin Tarantino, attualmente a Cannes per presentare il suo atteso «Once upon a time… in Hollywood» in un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da giovedì. «Sto vivendo una vita davvero benedetta», dice il regista. «Prima, quando giravo un film, non volevo fidanzate intorno perché avevo bisogno di totale concentrazione. Scappavo sempre da qualche parte. Ero pronto anche a scalare l’Everest, ma dovevo essere da solo. Questa volta l’ho fatto in compagnia. Ed è stato bellissimo. Lei ha creato una meraviglioso nido, una casa dove tornavo da un duro giorno di riprese e potevo ricaricarmi immediatamente. Non so cosa mi mancava in passato, ma sono felice che mi sia mancato e di aver aspettato per la donna giusta». A OGGI confida particolari della sua infanzia: «Quando avevo tre anni mia madre mi ha portato a Los Angeles. Si è risposata qui con un brav’uomo, un musicista che era un appassionato di cinema e mi ha trasmesso subito questo amore. Con lui vedevo tanti film che non erano cartoni animati. Mi fece vedere Conoscenza carnale (ride, perché il film del 1971 con Jack Nicholson e Candice Bergen è drammatico e impegnativo, ndr). Da bambino non avevo amici della mia età: quasi tutti erano più grandi. Insomma fui presto libero di fare quello ciò che volevo. Forse per questo ancora oggi penso che dire a qualcuno: “Non puoi fare questo e quello” sia inumano, ingiusto e alquanto miope».

Nicolas Schaller per L'Obs, pubblicato da il Corriere della Sera il 15 agosto 2019. È il primo film di Tarantino a fare a meno del produttore Harvey Weinstein. È il suo film più bello e malinconico dopo Jackie Brown . Tre giorni nella vita di due attori in declino nella Hollywood del 1969, incarnati dalle due uniche star del momento: Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), ex divo del cinema che si guadagna da vivere girando western per la televisione, e il suo doppio, la controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), un eroe di guerra sospettato di aver ucciso sua moglie. La coppia, fittizia, trae ispirazione da due vere: Burt Reynolds e Hal Needham, Steve McQueen e Bud Ekins. Sopra le loro teste, un angelo, Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), stellina in ascesa e sposa incinta di Roman Polanski, trucidata con alcuni amici, il 9 agosto del 1969, dalla follia assassina di un branco di hippy, la Famiglia Manson...

Nel 1969, lei aveva 6 anni.

«È stato l' anno in cui mia madre e il mio patrigno mi hanno portato per la prima volta a visitare Hollywood...».

Lei è stato cresciuto da sua madre. In «Kill Bill», sognava forse per lei un destino eroico attraverso il personaggio di Uma Thurman.

«In un certo qual modo, sì».

Dov' è sua madre in «C'era una volta»?

«La coppia che parte in escursione a cavallo allo Spahn Ranch, il covo della Famiglia Manson, è una proiezione di mia madre, Connie, e del mio patrigno Curt. Ricordo che nel 1969 mi portavano a cavalcare...».

Le scene girate allo Spahn Ranch, vecchio set cinematografico dove la Famiglia Manson si era rifugiata, sono horror puro...

«Non ne avevo parlato al tecnico del montaggio da diversi giorni, e a un certo punto mi è venuto a cercare sul set, e mi ha detto: "Quentin, non lo sapevo che stavamo girando un film horror! La scena allo Spahn Ranch fa quasi più paura di Non aprite quella porta !"».

In questa scena Bruce Dern incarna il personaggio che doveva recitare Burt Reynolds, se non fosse morto...

«È stato un vero shock! Era così felice all' idea di recitare nel film. Burt, che viveva in Florida, è venuto una prima volta in California per la lettura del copione con tutti gli attori, e una seconda volta per ripetere la sua scena con Brad Pitt e Dakota Fanning. Poi è tornato a casa ed è morto. Stava ripetendo le battute con l' assistente e si è alzato per andare in bagno. Lì ha avuto una crisi cardiaca. Io non ci volevo credere, ma ben tre persone mi hanno confermato che le ultime parole di Burt Reynolds sono state quelle che io avevo scritto per lui!...Mia madre mi ha chiamato Quentin proprio per il personaggio che lui interpretava, Quint Asper, nella serie Gunsmoke . E Burt lo sapeva. La prima volta che ci siamo incontrati, all' anteprima del film Hazzard , mi è piombato addosso all' improvviso, accompagnato dal figlio quattordicenne. "Quentin, vorrei presentarti Quinton", mi ha detto. Quel nome gli piaceva talmente tanto che l' ha dato anche a suo figlio!».

Il suo film celebra le cadute reali e gli effetti speciali anteriori all' utilizzo delle immagini computerizzate. Come ha fatto a ricreare gli edifici e gli ambienti reali della Los Angeles del 1969?

«È stato un lavoro complicato... Poi ci sono voluti anche i permessi del comune per girare al Westwood Village, su Hollywood Boulevard e Riverside Drive. Abbiamo spiegato che il film era una lettera d' amore rivolta a Los Angeles e sia i residenti che i turisti l' avrebbero apprezzato. E così è stato. C' era tanta gente che affollava il set per vedere com' era una volta l' Hollywood Boulevard. Sono sicuro che fra tre anni non sarà più possibile girare film in questi luoghi. Los Angeles sta cambiando a velocità impressionante...».

Il suo film è un mausoleo alla Hollywood del 1969. Si può dire altrettanto per quello che Hollywood è diventata da allora?

«Esattamente! Non ho provato a raccontare tutta la storia di Hollywood né della controcultura, mi interessa innanzitutto il percorso umano dei personaggi che nel 1969 vivono ai margini della società. Mi piaceva il lato "un giorno nella vita" di Rick, Cliff e Sharon. Tutto il resto è un semplice sfondo».

In fin dei conti, se da un lato ci sono le storie dei buoni e dei cattivi che Hollywood ci propina, dall' altro c' è la vita, molto più ambigua. Come si sente lei nella Hollywood post #Metoo?

«Che vuole che le dica, io faccio i miei film. Poi al pubblico possono piacere oppure no».

Ha fatto leggere la sceneggiatura a Roman Polanski?

«No, il copione è rimasto segreto».

Vorrà fargli vedere il film?

«Penso che prima o poi sarà curioso di vederlo. Spero che gli piacerà».

Il suo film narra la fine di un' era, sia per Los Angeles che per il cinema. Oggi siamo entrati in quella successiva, con la nascita delle piattaforme di streaming. Accetterebbe di lavorare per Netflix?

«Non farò film per Netflix. Una serie, perché no, ma sarei più propenso ad andare verso Hbo. A dire il vero, quando ho terminato la sceneggiatura di C' era una volta non ho cominciato subito le riprese. Stavo attraversando un momento di grande ispirazione e l' ho sfruttato per buttar giù altri due progetti. Un' opera di teatro, ugualmente ispirata alla Hollywood di quell' epoca... Ho scritto inoltre cinque episodi di Bounty Law , la serie fittizia in cui recita Rick Dalton (Leonardo DiCaprio). Non so ancora se li adatterò a telefilm o mini serie da 30 minuti ciascuno, in bianco e nero. Adesso che mi sono rituffato nelle serie televisive degli anni Cinquanta, ho riscoperto il fascino della loro narrazione e mi sono lasciato coinvolgere fino a dirmi: "E se provassi a scriverne una anch' io?"».

All' uscita di «The Hateful Eight», lei diceva di voler girare ancora due film prima di andare in pensione. Ne ha appena terminato uno. Il prossimo sarà forse «Star Trek»?

«Non lo so ancora. Ho proposto un' idea, è stata approntata una sceneggiatura. Ne riparleremo ». E sarà il suo ultimo film?

«Si vedrà».

L' Obs (Traduzione di Rita Baldassarre)

La Hollywood di Tarantino decadente e bellissima. Paolo Delgado il 22 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nelle sale, l’atteso film di Tarantino: C’era una volta Hollywood. Una pellicola che non tollera mezze misure, la si può solo amare o detestare. C’era una volta una Hollywood di cui quasi nessuno si ricorda più. Non era più la città dei sogni dei grandi Tycoon e dello star system, non era ancora la città del cinema rovesciata come un guanto dagli Hollywood Brats, Scorsese, Spielberg, De Palma… Era la Hollywood pop, coloratissima e un po’ tramortita, incalzata dalle televisione, costretta a imitare e a rigenerarsi con l’Italia degli spaghetti western, con il Regno Unito di James Bond, con l’oriente di Bruce Lee. Era una Hollywood che flirtava con gli hippies, festeggiava da Hugh Heffner, prendeva lezioni dalla Swinging London, pescava i divi di domani dal bacino del piccolo schermo Quentin Tarantino non ha mai nascosto di essere cresciuto cinematograficamente con quella Hollywood: war movies iperbolici, imitatori di 007 come il Matt Helm interpretato da Dean Martin, che lanciò la grande e sfortunata Sharon Tate, western di serie b ispirati a Sergio Leone, tette e genialità pop nei film corsari di Russ Meyer. Quella Hollywood un po’ decaduta ma brillante chiuse i battenti nel sangue l’ 8 agosto 1969, quando la Family Hippie e sanguinaria di Charles Manson irrupe nella villa di Roman Polanski e uccise tutti quelli che la occupavano inclusa la moglie del regista Sharon Tate. Tarantino la ricorda, la rievoca, la ricostruisce nei dettagli, la rimette in scena set per set e serie tv per serie. Allo stesso tempo ne racconta il tramonto nel suo film per certi versi più personale. Uno di quei film che non tollerano mezze misure: C’era una volta Hollywood lo si può solo amare molto o detestare. Ma sugli interpreti non ci possono essere invece dubbi. Brad Pitt è perfetto nel ruolo di Cliff Booth, un attempato stuntman fedelissimo al suo capo, Rick Dalton, uno di quegli attori che imboccano il viale del tramonto avndo visto solo da lontano qualche bagliore dell’alba. E’ Leo Di Caprio, forse mai così bravo e versatile, capace di regalare al suo personaggio tante facce quanti erano i generi di quella Hollywood scintillante più quelle di un protagonista alle prese con la consapevolezza del proprio fallimento. Tarantino sovrabbonda in citazioni e omaggi, costringe Di Caprio a una performance in cui passa in rassegna tutti gli aspetti dello showbiz anni ‘ 60, ironizza sulle star cult dell’epoca, mitraglia apparizioni, come nel suo stile: Al Pacino, Bruce Dern, Kurt Russell, Michael Madsen, ma dietro la facciata sgargiante C’era una volta a Hollywood è la storia di un’amicizia, parzialmente ispirata a quella tra Burt Reynolds e il suo stuntman fisso Hal Needham, e della sua fine, che accompagna e riflette il brusco inabissarsi della Hollywood di transizione degli anni ‘ 60. Il killer di quella Hollywood, forse il criminale più famoso della storia d’America, certamente il più singolare essendo diventato il serial killer più noto della storia pur non avendo mai ucciso nessuno con le sue mani, Charles Manson, compare solo in una scena. La sua vittima, Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie, vicina di villa di Dalton, è invece protagonista a pieno titolo. Ma con lei, a differenza che con l’ambiente circostante, il regista non ha cercato alcun realismo e la famiglia pare che non l’abbia presa bene. Sognante, sempre sorridente e felice, la Sharon di Tarantino è il riassunto di quell’epoca, anche nella sua ingenuità e persino nella sua superficialità. La Manson Family, accampata tanto nel film quanto nella realtà in un vecchio ranch un tempo usato come un set, è a modo suo un sottoprodotto della stessa cultura della Hollywood anni ‘ 60, una “variabile impazzita” partorita dalla tv più che dalle degenerazione degli hippies della Haight- Asbury e della Frisco Bay. Attaccano le ville della Hollywood scintillante nel film di Tarantino come fecero davvero nell’agosto del 1969. Ma il regista di Bastardi senza gloria non ha mai prestato troppa attenzione alla realtà storica. La loro folle impresa finisce nel migliore dei modi. Come sarebbe finita in un b movie della Hollywood anni ‘ 60.

"C'era una volta a… Hollywood", la svolta intimista (ma divertita) di Tarantino. Tra riferimenti e omaggi, la realtà si mischia con il set in un film che è espressione di un Tarantino in pieno afflato nostalgico e preda di un'inedita tenerezza. Serena Nannelli, Sabato 21/09/2019, su Il Giornale. "C'era una volta….a Hollywood", il nono film di Quentin Tarantino, è un'opera destinata a dividere il pubblico in termini di gradimento. Lo spettatore che si accosti alla visione convinto di assistere a un titolo ‘tarantiniano’ nel senso stretto del termine, resterà deluso nel non trovare gli eccessi né la rappresentazione estrema della violenza cui il regista ha abituato i suoi fan, (fatta eccezione per un quarto d'ora di catartica carneficina verso il finale). In questo personale "c'era una volta" di 'leoniana' memoria, Quentin Tarantino si concentra invece sull'aspetto più crepuscolare della sua composita personalità, creando qualcosa che affabula con sfumature nostalgiche e romantica delicatezza. Il cambio tonale, rispetto ai film precedenti, è fulminante ma funzionale allo scopo di scrivere un'elegiaca e affascinante lettera d'amore a un cinema d'altri tempi. Siamo a Hollywood nel 1969. Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), attore di film di serie B, rimbalza da un set all’altro e inizia a rendersi conto di essere nella fase calante della propria carriera. Depresso, deve valutare quanto suggeritogli dal suo agente (Al Pacino), ossia di trasferirsi in Italia a girare spaghetti western. Al suo fianco, da sempre, ha per fortuna il fidato Cliff Booth (Brad Pitt), sua controfigura sui set e factotum nel privato, sempre pronto ad accogliere i suoi malumori, a occuparsi dei problemi pratici e a fargli da autista. Dalton vive in una villa con piscina accanto a quella di Sharon Tate (Margot Robbie) e per questo motivo si troverà coinvolto, assieme al suo assistente, nella notte più sconvolgente delle cronache dell'epoca. Nei 161 minuti di durata, "C'era una volta a…Hollywood" si diverte ad addentrarsi nelle meccaniche dello star system hollywoodiano di fine Anni 60, a riflettere sul mestiere d'attore e a immortalare sul grande schermo un potente elogio dell'amicizia. Digressivo e scanzonato, il film pullula di dialoghi ironici ma deborda nell'enfasi dei riferimenti ad altri titoli e nella dilatazione temporale di molte scene, rendendo le prime due ore a tratti estenuanti, come se stessimo guardando materiale ancora da sottoporre alla fase di montaggio. Se, da un lato, la sensazione d'immersione nella realtà dipinta sul grande schermo in questo modo è indubbia, dall'altro è inevitabile che il ritmo arranchi. Non c'è vera trama, quanto la ricostruzione di un mondo che permetta il trionfo divertito della cinefilia citazionista tanto cara a Tarantino e veda il meta-cinema arrivare al parossismo in un gioco di film-nel-film.

Fiore all'occhiello del girato sono senz'altro le prove attoriali di Pitt e Di Caprio, per la prima volta insieme. Il primo è perfetto nei panni di un sornione uomo di mondo, capace di vivere secondo principi impermeabili alle lusinghe fasulle che sfilano attorno, così come di rimettere al proprio posto sbruffoni e violenti. Il secondo, in versione attore in crisi esistenziale e dal talento altalenante, supera se stesso regalando scene memorabili come quella che lo vede interagire con una bambina “collega” di set. Piacevole anche la versione fragile e sognatrice che Margot Robbie dà di Sharon Tate, propedeutica alla nascita sia dell'empatia nei confronti del personaggio sia del senso di minaccia diffuso per tutto il film (percepito dagli spettatori cui è noto come la Tate fu trucidata all'ottavo mese dai seguaci del satanista Manson). Il finale in crescendo, paradossale e liberatorio, riunisce in una sintesi degli opposti le due anime di Tarantino: una pulp, che "festeggia" la vita per ossimoro con un caricaturale spargimento di sangue, e una sentimentale, secondo cui il cinema è una bacchetta magica che dà la possibilità di riscrivere il reale.

Paola Zanuttini per “Il Venerdì di Repubblica” il 21 settembre 2019. Visti i tempi ridotti, preferisce che le dia poche risposte lunghe o tante risposte brevi?». Faccia lei, Mr. Tarantino. Basta che siano buone. Avvolto in una camicia esotica quanto il mogano dei suoi capelli - neanche uno bianco, a 56 anni - Quentin Tarantino affronta impavido e pragmatico il tritacarne delle interviste per il lancio europeo di C' era una volta a... Hollywood (in Italia dal 18 settembre): un' esclusiva brevissima per ogni Paese. Il suo nono film racconta tre giorni del 1969 - l' 8 e il 9 febbraio e poi la notte fra l' 8 e il 9 agosto - di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), attore di serie televisive western che negli anni Cinquanta se la passava meglio, e della sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt, ottimo) amico fedele e factotum. In una Hollywood che cambia faccia e valori, Rick si sente alla deriva, il suo agente (Al Pacino) gli consiglia di andare a girare spaghetti western in Italia e la cosa non gli tira su il morale. Lo rallegra molto di più scoprire che i suoi nuovi vicini a Cielo Drive, su a Bel Air, sono la coppia del momento, Polanski-Tate: magari un po' di glamour e fama ricadranno anche su di lui, basterebbe l' invito a un party in piscina. Roman non c'è quasi mai, ma Sharon (Margot Robbie) sì. E anche deliziosamente incinta. La critica angloamericana sostiene che questo sia il film più personale di Tarantino e lui ha dichiarato che è il più vicino a Pulp Fiction perché racconta di due protagonisti che incrociano moltissimi altri personaggi fra le mille luci di Los Angeles. Naturalmente aleggia la strage di Cielo Drive: Tate, tre amici e un passante sterminati dalla Manson Family Ma cominciamo dalla fine. Che è l' argomento tabù, quindi fondamentale. Qui si sfiora lo spoiler, ma evitando la collisione. E Tarantino, con le dovute cautele, ne parla volentieri.

Da alcuni anni lei flirta, a modo suo, con l'happy ending: una conversione ai buoni sentimenti?

«Non esageriamo, però è vero. Sono sempre stato e continuo a essere allergico al lieto fine, ma non se è trasgressivo. E questo, poi, è davvero un lieto fine? Per certi versi sì, ma per altri è tristissimo».

Stavolta, e già in Bastardi senza gloria e in Django Unchained, lei ha dato una salutare raddrizzata alla Storia, sviluppando l' irresistibile equazione cattivi=scemi. Ma, oltre lo schermo, quanto può il cinema modificare, se non il passato, almeno il presente?

«Sì, c' è questo elemento in comune, infatti li considero una trilogia. Naturalmente un film non può cambiare la realtà, ma può influenzarla».

Quest' inversione di rotta è connessa a una tardiva rielaborazione del suo trauma infantile con Bambi, l'unico film nella storia del cinema che l' ha veramente spaventata?

«Oddio, non credo. Ma devo ammettere che Bambi è stato la mia esperienza mediatica più terrificante: le pubblicità mostravano un cerbiatto con gli amichetti e non potevi avere idea della tragedia cui stavi andando incontro».

L'incendio della foresta, la morte della madre, il rito di passaggio...

«Non potevo immaginare quella sequela di disgrazie: santo cielo! cosa stavo guardando?».

Negli States C' era una volta a...Hollywood ha avuto il miglior debutto tra tutti i film di Tarantino. La critica anglosassone, salvo rare eccezioni, lo ha molto apprezzato, quella francese perfino adorato. In molti hanno gridato al capolavoro. Ma gli italiani no. A gran parte dei recensori nostrani quest'ode a un cinema e a un tempo perduto, ambientata in quella linea d'ombra fra lo star system e la New Hollywood, fra il sogno americano e il brusco risveglio, non è piaciuta tanto E quella impeccabile, ossessiva, amorosissima ricerca di dettagli per ricostruire un'epoca ha suscitato più insofferenza che tenerezza e nostalgia.

È stata tirata in ballo la necrofilia della cinefilia.

«E che cosa vuol dire?»

Forse che lei ama tutta la roba che non c' è più.

«O forse è la solita accusa: tutto quello che faccio è pastiche. Ma la necrofilia non ha una sua vita, né un battito cardiaco, mentre i miei film quel battito ce l' hanno eccome».

È già partita la gara a scovare ed elencare le citazioni, gli easter eggs, cioè le sorprese nascoste, i riferimenti, insomma tutta quella messe di preziosità, cianfrusaglie e detriti sedimentati nella sterminata memoria cinematografica e televisiva di Tarantino. Film e serie ormai dimenticati, piccole star che hanno smesso di brillare da oltre mezzo secolo, mode e suoni che nessuno ha nobilitato come vinta insomma, quel cumulo di conoscenze e ricordi che per alcuni non produce nient' altro che pastiche e per altri invece irresistibili e sontuose meraviglie.

Secondo lei, quanto è connessa la memoria al talento e all' intelligenza?

«Tenendo conto del fatto che una grande e buona memoria può trarre in inganno ed essere scambiata per intelligenza, credo che sia comunque un prerequisito per essere uno scrittore di qualità. Ne hai bisogno per ricordare persone della tua vita, i loro modi di dire. Magari a 15 anni avevi un professore con un suo intercalare che risaliva al Midwest e da quello sviluppi un personaggio: un tipo con cui non hai parlato per anni adesso ti parla e ti aiuta a maneggiare quel personaggio. Molte cose riversate nel film io le ho viste negli anni Sessanta e Settanta quando i film restavano in sala per un anno. The Wrecking Crew, il film che Sharon/Margot va a vedere chiedendo l'ingresso gratis alla bigliettaia del cinema perché lei è una delle interpreti, l' avrò visto a 8 anni, non l' ho mica cercato in rete. L'ho visto perché sapevo chi era Dean Martin, che mi piaceva tantissimo, soprattutto nelle commedie con Jerry Lewis. Da The Wrecking Crew, tradotto in italiano in modo assurdo, Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, ho preso ispirazione per scrivere la parte di Margot: c' erano assonanze, rimandi, possibilità di sviluppare situazioni».

È legata a un ricordo personale di Tarantino quella scena quasi commovente con Margot Robbie che, in stivali plasticosi bianchi, mini in tinta e dolcevita nero già diventati icona, guarda il film, ma soprattutto le reazioni del pubblico alle sue gag (cioè quelle vere di Sharon Tate). Agli esordi, il giovane Quentin chiese di entrare gratis nel cinema che proiettava il suo film. Perché era il regista, lui. Robbie e DiCaprio non erano ancora nati nel 1969, ma dicono che Tarantino ce li ha fatti entrare, definitivamente. Questo dell' entrare, dello stare dentro è il leitmotiv di una scena importante: sul set Rick aspetta di girare una comparsata da cattivo del West insieme a una ragazzina serissima che, anche fuori scena, non vuole essere chiamata col suo nome, ma con quello del suo personaggio per calarsi più a fondo nella parte. Una lezione di professionismo e dedizione che lascia basito il cialtronissimo Rick.

«La piccola attrice viene da un luogo di completa purezza, recita nel modo più puro per una quantità di buone ragioni: non si preoccupa di diventare una star o della carriera o dei soldi, vuole solo interpretare altre persone, dare e prendere bene la battuta, essere l' attrice più pura che può. Se ne frega del successo, quel che conta è far bene quello che deve fare, affronta la recitazione come un sacerdote».

E che cosa rappresenta?

«Rick è nei casini, ha un sacco d' ansia e di stress e la cosa comica è che se li crea tutti da solo: ha una buona carriera, in effetti l' ha avuta, e molto migliore di tanti altri, ma non l' apprezza. È geloso di gente come Steve McQueen non perché vuole fare gli stessi film o lavorare con i registi di serie A che lo ingaggiano, ma perché vuole essere ricco e famoso come lui, con la villa sulla spiaggia di Acapulco. Questa bambina gli indica un modo puro di esistere, un modo di apprezzare quello che ha».

Domanda di rigore: la sua definizione personale di genere cinematografico.

«Posso ricondurre quasi ogni film a un genere cinematografico, perché ognuno per qualche grado aderisce a un genere. La cosa divertente è che un film di Éric Rohmer è indiscutibilmente di genere rohmeriano e se fai un film alla Rohmer rientri in questo genere, ma se lo guardi non te ne accorgi, a meno che non ne veda due o tre di seguito, altrimenti sembra sempre senza genere: al Sundance festival è pieno di film così. Un genere non nasce con l' etichetta predeterminata: temi, scelta degli attori, linguaggio, scene, costumi, musiche, recitazione lo definiscono gradualmente. Poi, quel genere può piacerti o non dirti un bel niente».

C' era una volta a... Hollywood va classificato come buddy movie? Una storia di amicizia maschile?

«No, come un film sul fare i film. Ce ne sono scaffali pieni: da Singin' in the Rain a Effetto notte a Stuntman. Ma in effetti è anche un film sull' amicizia. Dopo aver lavorato un po' sui personaggi mi sono chiesto che storia volevo raccontare: ho costruito una situazione più melodrammatica per i due amici, ma poi mi sono reso conto che non c' era bisogno di storia. Questi due sono la storia: l' ambiente, il periodo e il sapere cosa sarebbe successo erano più che sufficienti. Mi sono sbarazzato di un plot melodrammatico per andare in giro qualche giorno con Rick e Cliff».

Questo è il suo nono film: in passato ha annunciato che dopo il decimo si sarebbe fermato.

«E rimane la mia intenzione. Voglio scrivere e dirigere lavori teatrali».

Il teatro riuscirà a soddisfare la sua visionarietà?

«Io non volevo essere tanto visionario, poi è andata così, ma col tempo sono diventato molto più letterario. Scrivere libri e testi teatrali mi sembra un' attività molto più adeguata a un uomo anziano».

I MONOLOGHI SENZA VAGINA. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 2 settembre 2019. Il problema, molto probabilmente, sta tutto nel fatto che in giro c' è un sacco di gente con troppo tempo libero. Costoro sono costretti a inventarsi stravaganti attività per consumare le giornate, ed è così che nascono alcune assurde rivendicazioni. Prendiamo il caso di queste firme della prestigiosa rivista Time, Anna Purna Kambhampaty e Elijah Wolfson. Costoro si sono messi a esaminare tutti i film di Quentin Tarantino, allo scopo di calcolare quante battute siano state affidate alle donne e quante agli uomini in ogni sceneggiatura. Scena dopo scena, riga dopo riga, hanno contato le battute di ogni singolo personaggio, compresi quelli minori e quelli che appaiono solo per pronunciare tre parole. Ed ecco che cosa hanno concluso: «I dati mostrano chiaramente che gli uomini hanno ottenuto la maggior parte dei dialoghi nei film di Tarantino. In parte questo è dovuto», spiegano gli autori di Time, «al fatto che nella maggior parte dei film del regista hanno cast a maggioranza maschile. Ma anche i film di Tarantino in cui i protagonisti sono donne tendono ad avere più dialoghi affidati agli uomini. In Kill Bill volume 2, ad esempio, la parte di battute affidate agli uomini all' interno dei dialoghi supera del 17.5% la parte affidata alle donne. In Jackie Brown la percentuale di battute affidate ai maschi supera di addirittura il 39.8% quella di battute delle donne». A dirla tutta, ci sono anche un paio di film tarantiniani in cui le donne parlano più degli uomini. Si tratta di Kill Bill volume 1 e Death Proof. Del resto, entrambi i film hanno protagoniste femmine. Ma solo in Death Proof (in italiano Grindhouse - A Prova di Morte) i dialoghi al femminile sono molto molto superiori a quelli maschili (quasi del 60%). Insomma, il succo è che Quentin Tarantino, nonostante le sue dichiarazioni pubbliche sul Me too e le battaglie femministe, sarebbe alla fine dei conti un misogino. Perché, dopo tutto, ciò che conta è lo spazio concesso ai due sessi: se non ci sono battute uguali, significa che siamo in piena discriminazione. Ora, tutto questo può sembrare una follia, ma tale genere di ragionamenti è piuttosto comune Oltreoceano. Calcoli di questo tipo sono stati fatti anche in altre occasioni. Lo studio più completo è quello realizzato, nel 2016, da Hanah Anderson e Matt Daniels, i quali hanno esaminato la bellezza di 2.000 sceneggiature, vagliandole sulla base dell' età e del sesso dei protagonisti. Che cosa hanno concluso i due? Ovvio: che il cinema hollywoodiano è orribilmente misogino. Nei cartoni Disney come nei blockbuster di maggior successo. «Anche le commedie romantiche hanno dialoghi che sono, in media, al 58% maschili. Ad esempio, Pretty Woman e Dieci cose che odio di te hanno delle donne come protagoniste (ovvero personaggi a cui è assegnato il maggior numero di dialoghi). Ma a livello complessivo per entrambi i film i dialoghi sono al 52% maschili, a causa del numero di personaggi di supporto maschi». Un' altra ricerca, realizzata nel 2017 dalla Usc Viterbi e ripresa sempre da Time, spiegava che i «personaggi femminili ottengono le peggiori battute nei film». Le righe affidate ai maschi erano 37.000 contro le 15.000 affidate alle donne. Non solo. Le battute delle donne risultavano più incentrate su valori e famiglia, mentre quelle dei maschi riguardavano maggiormente sesso e morte. Questo genere di ricerche mostra a che punto sia arrivata la psicopatologia chiamata politicamente corretto. L' idea che le donne debbano avere nei film le stesse battute degli uomini è una follia burocratica che ignora il peso di ogni singola parola e trascura il fatto che si possa cambiare un film con un solo sguardo, anche senza parlare. Mostra però anche un tratto distintivo delle battaglie per i diritti contemporanee.  Chi ne beneficia? Dietro le rivendicazioni delle vestali della Mecca del Cinema, dietro le sparate pro donne di alcune celebrità o intellettuali impegnate (vedere per credere la sterile polemica sulla presenza di Roman Polanski alla mostra del cinema di Venezia) si cela in realtà un interesse piuttosto bieco. Lo notano persino femministe più che radicali come Nancy Fraser: certe campagne egualitarie Vip servono a promuovere le carriere di pochissime donne, l' 1% che vive sulle spalle del restante 99%. Nel caso dei film, se i dialoghi maschili e femminili fossero pareggiati, a guadagnarne sarebbero soltanto alcune attrici strapagate, non certo le donne normali o le spettatrici. Soprattutto, a perderci sarebbe il cinema. Burocratizzare l' arte o imbrigliarla in ridicoli discorsi sulle minoranze serve solo ad ucciderla.

VIENI AVANTI, TARANTINO! Nicolas Schaller per L'Obs pubblicato da il Corriere della Sera il 15 agosto 2019. È il primo film di Tarantino a fare a meno del produttore Harvey Weinstein. È il suo film più bello e malinconico dopo Jackie Brown . Tre giorni nella vita di due attori in declino nella Hollywood del 1969, incarnati dalle due uniche star del momento: Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), ex divo del cinema che si guadagna da vivere girando western per la televisione, e il suo doppio, la controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), un eroe di guerra sospettato di aver ucciso sua moglie. La coppia, fittizia, trae ispirazione da due vere: Burt Reynolds e Hal Needham, Steve McQueen e Bud Ekins. Sopra le loro teste, un angelo, Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), stellina in ascesa e sposa incinta di Roman Polanski, trucidata con alcuni amici, il 9 agosto del 1969, dalla follia assassina di un branco di hippy, la Famiglia Manson...

Nel 1969, lei aveva 6 anni.

«È stato l' anno in cui mia madre e il mio patrigno mi hanno portato per la prima volta a visitare Hollywood...».

Lei è stato cresciuto da sua madre. In «Kill Bill», sognava forse per lei un destino eroico attraverso il personaggio di Uma Thurman.

«In un certo qual modo, sì».

Dov' è sua madre in «C' era una volta»?

 «La coppia che parte in escursione a cavallo allo Spahn Ranch, il covo della Famiglia Manson, è una proiezione di mia madre, Connie, e del mio patrigno Curt. Ricordo che nel 1969 mi portavano a cavalcare...».

Le scene girate allo Spahn Ranch, vecchio set cinematografico dove la Famiglia Manson si era rifugiata, sono horror puro...

«Non ne avevo parlato al tecnico del montaggio da diversi giorni, e a un certo punto mi è venuto a cercare sul set, e mi ha detto: "Quentin, non lo sapevo che stavamo girando un film horror! La scena allo Spahn Ranch fa quasi più paura di Non aprite quella porta !"».

In questa scena Bruce Dern incarna il personaggio che doveva recitare Burt Reynolds, se non fosse morto...

«È stato un vero shock! Era così felice all' idea di recitare nel film. Burt, che viveva in Florida, è venuto una prima volta in California per la lettura del copione con tutti gli attori, e una seconda volta per ripetere la sua scena con Brad Pitt e Dakota Fanning. Poi è tornato a casa ed è morto. Stava ripetendo le battute con l' assistente e si è alzato per andare in bagno. Lì ha avuto una crisi cardiaca. Io non ci volevo credere, ma ben tre persone mi hanno confermato che le ultime parole di Burt Reynolds sono state quelle che io avevo scritto per lui!...Mia madre mi ha chiamato Quentin proprio per il personaggio che lui interpretava, Quint Asper, nella serie Gunsmoke . E Burt lo sapeva. La prima volta che ci siamo incontrati, all' anteprima del film Hazzard , mi è piombato addosso all' improvviso, accompagnato dal figlio quattordicenne. "Quentin, vorrei presentarti Quinton", mi ha detto. Quel nome gli piaceva talmente tanto che l' ha dato anche a suo figlio!».

Il suo film celebra le cadute reali e gli effetti speciali anteriori all' utilizzo delle immagini computerizzate. Come ha fatto a ricreare gli edifici e gli ambienti reali della Los Angeles del 1969?

«È stato un lavoro complicato... Poi ci sono voluti anche i permessi del comune per girare al Westwood Village, su Hollywood Boulevard e Riverside Drive. Abbiamo spiegato che il film era una lettera d' amore rivolta a Los Angeles e sia i residenti che i turisti l' avrebbero apprezzato. E così è stato. C' era tanta gente che affollava il set per vedere com' era una volta l' Hollywood Boulevard. Sono sicuro che fra tre anni non sarà più possibile girare film in questi luoghi. Los Angeles sta cambiando a velocità impressionante...».

Il suo film è un mausoleo alla Hollywood del 1969. Si può dire altrettanto per quello che Hollywood è diventata da allora?

«Esattamente! Non ho provato a raccontare tutta la storia di Hollywood né della controcultura, mi interessa innanzitutto il percorso umano dei personaggi che nel 1969 vivono ai margini della società. Mi piaceva il lato "un giorno nella vita" di Rick, Cliff e Sharon. Tutto il resto è un semplice sfondo».

In fin dei conti, se da un lato ci sono le storie dei buoni e dei cattivi che Hollywood ci propina, dall'altro c'è la vita, molto più ambigua.

Come si sente lei nella Hollywood post #Metoo?

«Che vuole che le dica, io faccio i miei film. Poi al pubblico possono piacere oppure no».

Ha fatto leggere la sceneggiatura a Roman Polanski?

«No, il copione è rimasto segreto».

Vorrà fargli vedere il film?

«Penso che prima o poi sarà curioso di vederlo. Spero che gli piacerà».

Il suo film narra la fine di un' era, sia per Los Angeles che per il cinema. Oggi siamo entrati in quella successiva, con la nascita delle piattaforme di streaming. Accetterebbe di lavorare per Netflix?

«Non farò film per Netflix.Una serie, perché no, ma sarei più propenso ad andare verso Hbo. A dire il vero, quando ho terminato la sceneggiatura di C' era una volta non ho cominciato subito le riprese. Stavo attraversando un momento di grande ispirazione e l' ho sfruttato per buttar giù altri due progetti. Un' opera di teatro, ugualmente ispirata alla Hollywood di quell' epoca... Ho scritto inoltre cinque episodi di Bounty Law , la serie fittizia in cui recita Rick Dalton (Leonardo DiCaprio). Non so ancora se li adatterò a telefilm o mini serie da 30 minuti ciascuno, in bianco e nero. Adesso che mi sono rituffato nelle serie televisive degli anni Cinquanta, ho riscoperto il fascino della loro narrazione e mi sono lasciato coinvolgere fino a dirmi: "E se provassi a scriverne una anch' io?"».

All' uscita di «The Hateful Eight», lei diceva di voler girare ancora due film prima di andare in pensione. Ne ha appena terminato uno. Il prossimo sarà forse «Star Trek»?

«Non lo so ancora. Ho proposto un' idea, è stata approntata una sceneggiatura. Ne riparleremo ». E sarà il suo ultimo film?

«Si vedrà».

L' Obs (Traduzione di Rita Baldassarre)

Tarantino difende la sua versione di Bruce Lee: Shannon Lee e Kareem Abdul-Jabbar lo criticano. Francesco Ursino il 19/08/2019 su Mondo Fox. Tarantino contro tutti: il regista americano difende la sua personale rappresentazione di Bruce Lee, ma Shannon Lee e Kareem Abdul-Jabbar sono di altra opinione. La rappresentazione di Bruce Lee in C’era una volta a… Hollywood continua a far discutere. Dopo gli attacchi di Shannon Lee, figlia dell’artista marziale, Quentin Tarantino si è sentito in dovere di difendere le sue scelte artistiche, non prima di essere stato criticato anche dal campione di basket Kareem Abdul-Jabbar. Secondo il regista, in ogni caso, la rappresentazione di Bruce Lee contenuta nel suo ultimo film non si discosta molto dalla realtà. L’attore visto anche in Il Calabrone Verde, infatti, sarebbe stato “un tipo arrogante”.

La versione di Tarantino. Intervistato da Deadline, Tarantino ha approfondito alcuni aspetti legati alla sua rappresentazione di Bruce Lee. Secondo il regista, la sua trasposizione ricalca in maniera abbastanza realistica la figura dell’artista marziale: Ho sentito dirgli cose [si riferisce a Bruce Lee, n.d.r.] come quelle che dice nel film. Se la gente dice: 'Beh, non ha mai detto che potrebbe battere Muhammad Alì' io dico sì, l’ha detto. E non solo l’ha detto lui ma anche sua moglie, Linda Lee, lo ha scritto nella sua prima biografia… lo ha assolutamente detto. Arrogante o meno, resta il fatto che in C’era una volta a… Hollywood Bruce Lee va a sfidare Cliff Booth, personaggio portato in scena da Brad Pitt. Secondo molti, la sfida non avrebbe ragione di esistere, vista la grande padronanza delle arti marziali di Lee. Tarantino, però, è di idee diverse: Cliff potrebbe battere Bruce Lee? Brad Pitt non sarebbe in grado di farlo, ma forse Cliff sì. È come chiedermi: 'Chi vincerebbe in una sfida tra Bruce Lee e Dracula?' È la stessa domanda. Parliamo di un personaggio immaginario. Se io dico che Cliff può battere Bruce Lee, si tratta di un personaggio immaginario, quindi sì, potrebbe anche battere Bruce Lee. D’altra parte, nel film Cliff Booth è un ex soldato dell’esercito americano con alle spalle un passato fatto di violenza e morte. Tarantino tiene a sottolineare questo aspetto: Quello di cui Bruce Lee parla nel film è che lui ammira i guerrieri. Ammira il combattimento, e la boxe è la più vicina approssimazione sportiva del combattimento. Cliff non è parte di uno sport che somiglia a un combattimento, lui è un guerriero. È una persona che combatte. Tarantino ha una sua idea precisa anche sull’esito del combattimento tra Lee e Booth. Secondo il regista, se i due si sfidassero al Madison Square Garden, in un torneo di arti marziali, Lee avrebbe la meglio. Ma se lo scontro si tenesse nella giungla delle Filippine, il risultato sarebbe diverso: Cliff lo ucciderebbe.

Shannon Lee non ci sta e va all’attacco. Le dichiarazioni di Tarantino non devono essere andate molto a genio a Shannon Lee, la vulcanica figlia di Bruce Lee che è apparsa particolarmente stizzita dopo le ultime esternazioni del regista americano. Intervistata da Variety, infatti, Shannon ha risposto colpo su colpo: Tarantino potrebbe stare zitto. Sarebbe veramente carino da parte sua. O potrebbe scusarsi e dire: "Non so bene come fosse davvero Bruce Lee. Ho solo scritto la sua parte per il mio film. Ma tutto questo non dovrebbe essere preso come una rappresentazione verosimile". E sulla presunta veridicità della rappresentazione di Tarantino, Shannon ha commentato: Una delle cose che mi infastidisce delle sue dichiarazioni è che da una parte lui vuole far passare tutta la faccenda come vera, mentre dall’altra vuole rimanere nell’ambito della finzione. La donna, inoltre, ha spiegato che quella che il regista americano chiama arroganza era semplicemente sicurezza nei propri mezzi. Shannon osserva che questo tipo di critiche verso suo padre è stata già mossa in passato, specialmente da altri "uomini bianchi" legati all’ambiente delle arti marziali di Hollywood. D’altra parte, Variety sottolinea che quando Tarantino associa Bruce Lee a Muhammad Alì, e al fatto che tra i due potesse esserci un qualche scontro, non si riferisce alla biografia di Linda Lee, quanto a una affermazione di un critico cinematografico dell’epoca, che scriveva: Quelli che guardano Bruce Lee scommetterebbero sul fatto che Lee avrebbe potuto malmenare Cassius Clay [il nome di Muhammad Alì prima della sua conversione all’Islam, n.d.r.] fino a fargli perdere i sensi. Shannon Lee, in ogni caso, sottolinea nuovamente che Tarantino aveva tutto il diritto di proporre la sua versione di Bruce Lee. Il problema, però, risiederebbe nell’atteggiamento del regista americano: Tarantino può proporre Bruce Lee nella maniera a lui più opportuna, e così ha fatto. Ma si dimostra poco sincero quando dice: "Beh, lui era così, ma tanto questo è un film romanzato, quindi non vi preoccupate troppo della cosa".

E Kareem Abdul-Jabbar rincara la dose. La versione tarantiniana di Bruce Lee non sembra essere andata molto a genio neanche a Kareem Abdul-Jabbar, campione di basket a stelle e strisce che ha recitato a fianco di Lee nel suo ultimo film, L'ultimo combattimento di Chen, datato 1978. Intervistato da The Hollywood Reporter, la star NBA è apparsa sulla stessa lunghezza d’onda di Shannon Lee: Tarantino ha il diritto artistico di ritrarre Bruce nel modo da lui preferito. Ma farlo in una maniera così imprecisa e un po' razzista è un fallimento, sia come artista che come essere umano. Questa faccenda mi ha segnato. Tarantino è uno dei miei registi preferiti perché è così audace, imprevedibile e senza compromessi. I suoi film hanno una energia tipica di chi ama il cinema e vuole fartelo amare anche a te. Assisto a ogni nuovo film di Tarantino come se fosse un evento, sapendo bene che la sua versione del cinema action degli anni ’60 e ’70 è molto di più intrigante di un semplice omaggio. È questo che rende le scene di Bruce Lee così deludenti, non tanto perché non si basano su fatti concreti, ma per la mancanza di consapevolezza culturale. Abdul-Jabbar ha da ridire anche sulla presunta arroganza di Bruce Lee, che trasparirebbe in maniera chiara in C’era una volta a… Hollywood. L’ex giocatore di Milwaukee Bucks e Los Angeles Lakers ha spiegato: Sono stato a fianco di Bruce diverse volte quando qualche idiota lo sfidava apertamente a duello. Lui ha sempre declinato educatamente. La prima regola del fight club di Bruce era non combattere – a meno che non ci fosse altra opzione. Non aveva bisogno di provare niente a nessuno. Sapeva chi era e che la vera lotta non era sul ring, ma sullo schermo, al fine di creare opportunità per gli attori asiatici e farli andare oltre i soliti stereotipi. Sfortunatamente, C’era una volta a… Hollywood preferisce questi vecchi metodi.

C’era una volta... a Hollywood (2019) Data uscita in Italia: 19 settembre 2019

Genere: Drammatico. Nazione: Regno Unito, Stati Uniti d'America. Regista: Quentin Tarantino

Cast: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Margaret Qualley, Scoot McNairy, Dakota Fanning, Al Pacino, Timothy Olyphant, Kurt Russell, Emile Hirsch, ...

IL GIORNO IN CUI VENNE UCCISO IL SOGNO HIPPIE. Barbara Tomasino per “Libero quotidiano” il 16 agosto 2019. Non solo Woodstock. L'estate del '69 ha anche segnato la fine del sogno hippie facendo piombare un' intera generazione in un incubo atroce, con cui ancora oggi l' America fa i conti. Il 9 agosto di quell'anno, a Los Angeles, l'attrice Sharon Tate e alcuni amici che erano con lei nella villa di Cielo Drive - presa in affitto con il marito Roman Polanski - vengono barbaramente uccisi dai membri della Famiglia Manson, una setta di hippie degenerati e violenti che vivevano come fuggiaschi in un ranch abbandonato sotto la guida del famigerato Charles Manson. La strage scosse profondamente il Paese e soprattutto il pigro mondo di Hollywood che aveva toccato con mano il male assoluto professato da quel folle lucido che si credeva il nuovo messia. Ci sono voluti mesi prima che le autorità riuscissero ad inchiodare Charlie e i suoi seguaci, scoperchiando il vaso apparentemente dorato dei figli dei fiori: Manson era un cantautore mancato, pieno di livore perché rifiutato da quel mondo che tanto desiderava, e il suo innegabile carisma (unito alla straordinaria capacità di procurarsi donne e droghe) gli permise di entrare nelle grazie persino dei Beach Boys che furono convinti ad incidere un suo brano, Never Learn Not To Love. Il voluminoso La famiglia di Ed Sanders (Feltrinelli, pp. 664, euro 25) descrive accuratamente l' ascesa e la caduta di Manson, mettendo in luce gli innumerevoli flirt che la controcultura dell' epoca aveva instaurato con il più feroce assassino che l'America abbia conosciuto (pensiamo a Bobby Beausoleil, altro psicopatico membro della setta, attore feticcio di Kenneth Anger, regista maledetto e autore di Hollywood Babilonia alla cui corte in quegli anni bazzicavano i Rolling Stones, Marianne Faithfull e Jimmy Page). Emma Cline, classe 1989, ha pubblicato Le ragazze, un affresco morboso e affascinante delle giovani donne assoggettate a Manson, tra depravazioni, amore libero e vessazioni d' ogni tipo. Una delle protagoniste di quei giorni, la terribile Susan Atkins - meglio nota come Sexy Sadie in omaggio ai Beatles - ha scritto in carcere nel '77 Child of Satan, Child of God, un' agghiacciante racconto della discesa agli inferi e della "rinascita" tra le braccia di Dio, di una ragazza sbandata e sadica che si era macchiata di un delitto orrendo (fu lei a pugnalare a morte l' attrice incinta di otto mesi). Infine uscirà negli Stati Uniti (da noi in settembre) l' ultima fatica di Quentin Tarantino, presentato a Cannes nei giorni scorsi, C' era una volta a Hollywood. Il film - interpretato da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt - racconta la fine del sogno hollywoodiano attraverso la figura di un attore di western caduto in disgrazia. Nella filigrana del racconto s'intreccia anche la brutta storia di Sharon Tate, interpretata da Margot Robbie. Anche Tarantino, quindi, vede nella strage di Bel Air il segno della fine di un' epoca naif e ovattata, che considerava la città degli angeli il luogo perfetto dove far proliferare l' idea insensata e terribilmente seducente di pace & amore (e soldi), almeno fino a quando un uomo venuto dall' Ohio, privo di qualsiasi talento (se non quello della persuasione) e con una svastica tatuata in fronte, non ha deciso di far crollare il castello di carta.

Giampiero De Chiara per “Libero quotidiano” il 20 Agosto 2019. «Ho avuto una serie di discussioni con Vin Diesel, fra cui un serio faccia a faccia nella mia roulotte... Alla fine ho capito che abbiamo delle idee totalmente diverse sul modo di fare un film e di collaborare. C' è voluto tempo prima di riuscire a capirlo, ma sono comunque contento di esserci arrivato e di aver chiarito come stanno le cose, sia nel caso in cui tornassimo a lavorare insieme che nell' ipotesi contraria». Parole chiare quelle di Dwayne "The Rock" Johnson dette dopo aver girato l' ottavo film della saga Fast and Furious. Con Vin Diesel il nerboruto attore è l' anima di una saga (otto film e uno spin -off) che è diventato un blockbuster mondiale (più di cinque miliardi di dollari incassati dal 2001 fino al 2017). Pellicole che hanno fatto la ricchezza di Hollywood nel 21° secolo, assieme alle storie dei supereroi della Marvel (The Avengers). Interpretati da attori che prendono più di 20 milioni di dollari per ogni ruolo che interpretano. Star che sono vere e proprie industrie internazionali. E come tutte le multinazionali, sia Vin Diesel che The Rock, hanno i loro obiettivi, le loro strategie che, spesso, non collimano tra loro. Anzi. E allora è facile che oltre ad essere rivali sul set, lo siano anche quando il regista dà lo stop alle riprese. Acerrimi nemici E, secondo voi, dopo quelle parole così dirette di The Rock sul collega Diesel, entrambi torneranno a lavorare insieme per la quinta volta? Visto che la loro sfida cinematografica a colpi di gas aveva già prodotto quattro film. Molto difficile, nonostante le dichiarazioni diplomatiche che i due ogni tanto, tra un battibecco e l' altro, rilasciano. A conferma di ciò la scorsa settimana, due anni dopo quelle dichiarazioni The Rock è uscito sul grande schermo uno spin-off, sempre sulle corse clandestine Usa, (Fast & Furious - Hobbs & Shaw) con lo stesso The Rock e Jason Statham (altro attore legato alla saga ufficiale), ma guarda caso senza Vin Diesel. Si tratta della conferma che i due nemici sul set sono entrati molto bene nella parte e, probabilmente, non hanno più nessuna intenzione di uscirne. Diesel, che è anche produttore del franchising cinematografico, sta intanto lavorando al nono e del decimo capitolo. E, per ora, la presenza di The Rock non è prevista. Questa rivalità, come molte altre a Hollywood, potrebbe nascere anche per motivi promozionali, ma a detta di chi ha lavorato con loro, l' antipatia tra i due divi ha radici reali. Tutto è nato da un post pubblicato e poi rimosso da Dwayne Johnson su Instagram nell' agosto del 2016, dove annunciava l' inizio della sua ultima settimana di riprese sul set. L' attore se la prendeva con i suoi colleghi uomini, definiti «non professionali» e «rammolliti». Nella storia Ma senza andare troppo indietro negli anni e senza scomodare rivalità storiche e conosciute - tanto da meritare anche una serie tv (Feud: Bette and Joan) come l' odio che nacque sul set di Che fine ha fatto Baby Jane? tra Joan Crawford e Bette Davis - spifferi ed indiscrezioni, dai set sempre più blindati di Hollywood, rivelano curiosi aneddoti su alcune coppie "scoppiate". Non solo tra antagonisti nella storia, ma anche tra chi per esigenze di copione deve amarsi e baciarsi per far sognare il pubblico. Come per esempio l' antipatia nata sul set di The Tourist (2010) tra Johnny Depp e Angelina Jolie. Lui la considerava troppo snob e lei lo accusava di scarso impegno. Innamorati nel film, non si rivolgevano la parola dopo lo stop del regista. O la freddezza che c' era sul "caldissimo" set di Cinquanta sfumature di grigio tra i due amanti della storia: Jamie Dorman e Dakota Johnson, nipote di quella Tippi Hedren martorizzata sul set di Gli Uccelli da Alfred Hitchcock. O come le liti e le incomprensioni dietro un' altra mitica love story di Dirty Dancing, reale solo nella finzione cinematografica: il protagonista Patrick Swayze non sopportava Jennyfer Grey (Baby): «È capricciosa, sciocca e non professionale».

Sara Sirtori per Amica.it il 20 Agosto 2019. Condividere bagno e cucina mette a dura prova qualsiasi convivenza. E dice molto su quali saranno i rapporti tra due persone nel lungo periodo. Parola di Justin Timberlake. Che l’ha provato sulla sua pelle da bambino quando viveva sotto lo stesso tetto di Ryan Gosling mentre lavoravano al Club di Topolino su Disney Channel. Due predestinati. Perché loro sono la prova che, sia per caso, per scelta o per risparmiare, coabitare può portare grandi benefici. O, perché no, il successo a entrambi. Ne sanno qualcosa alcuni coinquilini diventati molto famosi, che hanno condiviso la casa prima della gloria. Matt Damon e Ben Affleck, Ewan McGregor e Jude Law, Gwyneth Paltrow e Winona Ryder. In comune hanno il talento e, per un po’, anche l’indirizzo. A volte sono nate splendide amicizie, ma non sempre è finita bene. Ah, se quelle mura potessero parlare! Racconterebbero, per esempio, di quella volta che Gwyneth Paltrow è “inciampata” nel copione di Shakespeare in Lovelasciato in giro per casa dalla sua coinquilina. Ovvero Winona Ryder. Le due abitavano insieme a Los Angeles negli anni 90 e sembravano pure amiche. Fino a quel fatidico giorno. Il finale è certamente triste. Gwyneth ha ottenuto il ruolo da protagonista e si è portata a casa un Oscar. Winona è finita sotto processo per taccheggio. La loro amicizia non è sopravvissuta. Più allegra e felice la convivenza di due sex symbol come Ewan McGregor e Jude Law. Amici da decenni e coinquilini per diversi anni a Londra mentre muovevano i primi passi nel mondo dello spettacolo. Il loro appartamento era il crocevia di nomi che oggi sono conosciuti in ogni angolo del mondo. Tipo Johnny Lee Miller con l’allora moglie Angelina Jolie e Sadie Frost, in seguito moglie di Law. Il coinquilino conosce cose di te che nessun altro immagina. Per esempio adesso anche noi sappiamo che, almeno in gioventù, Brad Pitt non fosse un grande amante dell’igiene personale. Ce lo ha raccontato Jason Priestley nella sua autobiografia. La sua è una testimonianza diretta: i due vivevano insieme in un appartamento a New York. Alla fine degli anni 40, Marilyn Monroe e Shelley Winters hanno vissuto insieme per un breve periodo prima di diventare famose. «Ci divertivamo un sacco insieme», ha ricordato la Winters. «Una domenica facemmo una lista degli uomini con i quali volevamo andare a letto e non ce n’era nemmeno uno sotto i 50 anni nella sua. Non ho mai avuto l’occasione di chiederle prima che morisse quanti ne avesse spuntati da quella lista. Ricordo che tra quei nomi c’era Albert Einstein e che dopo la sua morte ho notato che sul suo pianoforte c’era una foto del fisico autografata dentro una cornice d’argento». Non per forza bisogna fare lo stesso lavoro per avere entrambi successo. Quando negli anni 60 condividevano la stanza ad Harvard, forse Tommy Lee Jones e Al Gore non immaginavano che un giorno uno avrebbe vinto un Premio Oscar e l’altro il Premio Nobel per la Pace. Quattro anni insieme a giocare a biliardo e guardare Star Trek «quando invece, forse, dovevamo studiare per gli esami. Ho sempre saputo che aveva il cervello e il cuore per cambiare il mondo», ha detto l’attore dell’ex vice presidente degli Stati Uniti.

Francesca Galici per Il Giornale il 2 ottobre 2019. Ormai i social sono diventati come un diario solo a che, a differenza di quest'ultimo, i social non sono un luogo in cui sfogare privatamente i propri pensieri, perché questi vengono letti da un pubblico potenzialmente sterminato. Vale soprattutto per i personaggi noti, i cui sfoghi diventano spesso oggetto di notizia. Clara McGregor ha voluto raccontare su Instagram, dove è seguita da oltre 40 mila persone, una vicenda molto personale, delicata e inedita della sua vita. La figlia di Ewan ha affidato a un lungo post il racconto di ripetuti abusi sessuali subiti nel periodo durante il quale la ragazza era in lotta contro la tossicodipendenza da farmaci, causata da stati d'ansia paralizzanti. Nel lungo flusso di coscienza affidato ai social, Clara McGregor racconta che questa malattia la accompagna da quasi 20 anni. Aveva 4 anni quando le venne diagnosticata per la prima volta e fin da piccola i genitori hanno fatto in modo che potesse seguire un percorso terapico valido per stare meglio. Gli stati d'ansia rappresentano un limite grandissimo per chi ne soffre, perché condizionano le scelte e impediscono di vivere la vita che si desidera. È quello che è successo a Clara, che stando alle sue parole si sentiva “sempre di più chiusa in una gabbia.” È così che ha iniziato a usare e abusare dei farmaci, che inizialmente sembravano essere la soluzione al suo problema. “Mi è stato detto da un medico che non potevo vivere in questo modo e aveva ragione. Ho lottato con l'abuso di sostanze, come lo Xanax, oggi sono orgogliosa di poter dire di essere pulita da 110 giorni. Sono stata al Cirque Lodge, ho incontrato persone meravigliose che mi hanno cambiato la vita”, ha scritto la ragazza, oggi 23enne. Se da un lato c'è il racconto positivo di una vittoria contro le dipendenze, dall'altra c'è quello dello stupro, subito proprio nel periodo durante il quale era in cura. “Mi vergognavo degli abusi che lasciavo avvenissero. Mi incolpavo per i lividi, per gli occhi neri, gli stupri e gli attacchi ripetuti da parte di un uomo, e non ho mai detto niente. Ora però sto recuperando il potere di dire e fare. Ho avuto un anno difficile, ma adesso ho capito chi sono. Adesso mi sento amata e benedetta”, dice Clara McGregor senza svelare l'identità dell'uomo. Poi conclude con un invito ai follower: “È stato difficile per me aprirmi, quindi andateci piano con me adesso.”

Tarantino gioca con il cinema e cancella il dolore della Storia. Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. A questo punto rischia di essere un vizio. Dopo «Bastardi senza gloria» e «Django Unchained», anche in «C’era una volta a… Hollywood» Tarantino stravolge completamente i fatti reali per restituirci una personalissima e «salvifica» visione del cinema. Ieri aveva eliminato Hitler mettendo una fine anticipata alla Seconda guerra mondiale e trasformato in un «pranzo di gala» il razzismo e i suoi paladini; oggi cambia le carte in tavola con il massacro di Sharon Tate. La spiegazione dovrebbe essere tutta nella forza del cinema e nella sua capacità di rendere credibili anche le fantasie più scatenate dei suoi registi. Ricordate la citazione che Godard metteva all’inizio del Disprezzo attribuendo a Bazin una frase di Michel Mourlet? «Il cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo» e Tarantino ribadisce con questo film di voler riconoscere come unica sua logica quella della coerenza cinematografica: forse la storia del cinema tende a dimenticare i campioni dei film di serie B (come sono Rick Dalton e Cliff Booth, i protagonisti di C’era una volta a… Hollywood), ma per lui sono dei miti. E quindi è giusto che nei suoi film si comportino da eroi. Con un problema, però: che questa specie di santificazione finisce per trasformare ogni cosa in un gioco. La conseguenza su cui varrebbe la pena di riflettere è che Tarantino non modifica solo la realtà ma cancella anche il Tragico che la Storia si porta dietro. Il Male, il Dolore, la Sofferenza. Capace solo di giocare con il cinema, Tarantino non sa uscire da una visione del mondo fanciullesca, divertente ed esagerata, dove ogni dramma si può risolvere con una battuta, una strizzatina d’occhio. Non è un caso che per quasi due ore il film cerchi di annegarci dentro il suo mare di citazioni, così alla fine siamo disposti a scherzare su tutto, anche sui massacri della setta Manson. Ben contenti di giustificare con l’entusiasmo cinefilo la nostra paura di guardare in faccia le tragedie del mondo.

C'era una volta... a Hollywood: Quentin Tarantino giustiziere nostalgico - Recensione. Cinema anni '60, set, copioni da imparare e una radiosa Sharon Tate. Con Brad Pitt e Leonardo DiCaprio c'è da divertirsi e da rimestare. Simona Santoni il 18 settembre 2019 su Panorama. Burlone, sentimentale e, solo quando è arrivato il momento di ribaltare la crudele verità della cronaca, eccolo, veracemente pulp. Bentornato Quentin Tarantino! Dopo l'anteprima al Festival di Cannes, finalmente arriva al cinema, dal 18 settembre, C’era una volta... a Hollywood. Ci sono voluti quattro anni di vuoto, dopo il suo ultimo film The Hateful Eight, ma l'attesa è ripagata. Meno corrosivo e impetuoso di Django Unchained, meno feroce e liberatorio di Bastardi senza gloria, di queste due chicche del suo repertorio il regista americano mantiene l'elemento che stringe il cuore e, almeno per un attimo, nell'intimo fa gridare alla riscossa contro il male. La realtà storica è stata violenta e ingiusta? Allora ecco che il cinema fa giustizia, con violenza. L'esplosione tarantiniana che tanto amiamo è rock, strombazzante e infuocata. Arriva dopo lungo indugiare e alcuni minuti di troppo, ma è adrenalina cinematografica. 

La fragilità di un attore. Nella Los Angeles del 1969, tra personaggi realmente esistiti e altri immaginari, tra meta cinema e ricostruzione storica, Leonardo DiCaprio è Rick Dalton, un attore (di finzione) la cui carriera non è decollata come voleva. A metà tra luce e rischio di capitolare nel buio, Rick, famoso come cattivo di una popolare serie tv western, vuole osare il grande salto verso il cinema. Ma ha una paura fottuta. L'ego lo sospinge, il terrore di fallire lo strozza. Accanto ha la sua leale controfigura, lo stuntman Cliff Booth, un Brad Pitt particolarmente ispirato. È lui che ruzzola nella polvere al suo posto, ed è sempre lui che aggiusta l'antenna della tv di Rick o gli fa da chauffeur all'occorrenza: è una sorta di maggiordomo hawaiano ma pure un amico, in un rapporto che, a suo modo, sa essere equilibrato nel dare e nell'avere. Una bromance tra saloon da set e camicie gialle a fiori. Tramite il personaggio di Leonardo DiCaprio, Tarantino dà spazio, con ironia, ad alcune sue passioni, trattandole al contrario. Rick si dispera all'idea di dover andare in Italia a girare spaghetti western, filone notoriamente amato da Quentin. "Qual è il problema", gli chiede Cliff vedendolo sconfortato. "Che devo fare quei cazzo di film italiani", risponde Rick. E chi suggerisce a Rick di riciclarsi a Cinecittà? L'agente di casting Marvin Schwarzs, ovvero niente meno che Al Pacino. Andando su e giù nei dossi emotivi di Rick, tra copioni da imparare ed errori sul set, esploriamo la fragilità di un attore che vuole essere un divo ma si sente "ogni giorno un po' più inutile". La fragilità umana è lì che ci ronza attorno. Il pianto commosso di Rick, dopo una scena recitata bene, è così caldo e vicino.

Brad Pitt, giustiziere senza troppi fronzoli. Cliff è serafico ma non si tira di certo indietro se deve tirar un pugno. E non le manda a dire, se interpellato. Forse ha ucciso la moglie, la galera lo "rincorre da una vita", eppure è il migliore amico che tutti vorrebbero. Pitt gli mette addosso un sorriso sornione e accennato, di chi la sa lunga e lascia andare. Ha movenze felpate: all'occorrenza, ecco che arriva la zampata. È esilarante la scena in cui viene alle mani con Bruce Lee (interpretato da Mike Moh). Il Bruce fittizio si esalta in gridolini e mossette da arti marziali, Cliff lo fissa con il suo mascellone impassibile. È Cliff, nella catarsi dalle malefatte di Charles Manson, il vero giustiziere, senza tanti fronzoli. È lui che fiuta il marcio. È lui che incarna in modo tutto suo il senso di giustizia: quando una minorenne gli sbatte in faccia la voglia di far sesso, lui si tira indietro (impossibile non pensare alla violenza sessuale di cui invece è accusato Roman Polanski). Il binomio Brad Pitt - Leonardo DiCaprio, alla loro prima volta insieme in un film? Funziona davvero bene. 

Polanski e, soprattutto, Sharon Tate. Alle spalle della villa di Rick, c'è la villa di un regista affermato e di sua moglie. Ecco Roman Polanski (Rafał Zawierucha), giovincello e con capelli lunghetti e folti. Ed ecco, soprattutto, sua moglie, l'attrice Sharon Tate (Margot Robbie), che in C’era una volta...a Hollywood è più protagonista del suo celebre compagno. In ascesa, forse frivola, di certo raggiante, Sharon Tate ha in regalo da Tarantino dolcezze bambine. Com'è tenera e intensamente umana quando va al cinema a vedere Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, commedia in cui ha una parte accanto a Dean Martin, e si compiace del pubblico in sala che ride alle sue scene. La storia vera, poi, la conosciamo: il 9 agosto 1969 Sharon Tate fu uccisa nella sua abitazione di Beverly Hills, insieme con quattro amici, dai seguaci di Charles Manson. C’era una volta...a Hollywood è l'omaggio che Tarantino fa a lei e al vorticoso mondo del cinema fragile, frivolo, raggiante, necessario. Tra colori accesi e atmosfere dolciastre anni Sessanta, Tarantino è nostalgico. E la cosa non ci dispiace. A proposito di nostalgici e di "in memoriam", C’era una volta.. .a Hollywood è anche l'occasione per vedere Luke Perry, morto il 4 marzo 2019, nel suo ultimo film. 

Gli sguardi persi e derisi. Negli intrecci di storie che sembrano lontane e che invece tutte si incontrano e scontrano, ci sono anche le ragazzine hippy della tela da ragno di Charles Manson (Damon Herriman). I loro sguardi languidi, a cui fa fronte la franchezza cristallina di Cliff/Pitt, sembrano farne scherno. Lo spaccato ambientato allo Spahn Ranch, dove sorgeva la comune di Manson, è folle e comico, se non fosse che fu davvero realtà e lasciò una scia di morte. 

·         Oliver Stone.

Fulvia Caprara per “la Stampa” il 2 luglio 2019. Sono passati 30 anni, ma le cose, purtroppo, non sono cambiate. Dopodomani al Taormina FilmFest sarà proiettato, in coincidenza con la festa per l' anniversario dell' indipendenza degli Stati Uniti e in onore del presidente di giuria Oliver Stone, il suo film Nato il 4 luglio, protagonista Tom Cruise nei panni di Ron Kovic, il soldato americano che, nel '68, tornò dal Vietnam sulla sedia a rotelle: «Le guerre sono sempre un disastro, il mio Paese non lo capisce e non fa nulla per cercare di evitarle. Al cinema, dopo il Vietnam, sono usciti film come Apocalypse Now e Il cacciatore, volevamo ricordare al pubblico le cose orribili che erano accadute allora, speravamo che il mondo stesse cambiando, c' era una grande eccitazione e invece, poco dopo, il mio Paese ha ricominciato, aprendo con altri conflitti. Il messaggio di Nato il 4 luglio era in contrasto assoluto con le azioni del governo Usa. Vediamo che cosa succederà adesso, magari il prossimo nemico sarà la Cina». Rom Kovic è riuscito a sopravvivere alla tragedia che gli ha cambiato la vita, e Stone ne ammira la tenacia e il coraggio: «Ha vissuto un' esistenza terribile, io non sarei mai riuscito a fare quello che ha fatto, a resistere per tanto tempo. Ron ha perso la sensibilità di metà del corpo, penso sia uno degli uomini più forti che abbia mai conosciuto. Tanti della sua generazione, che hanno attraversato destini simili, sono morti di droga, oppure si sono persi». In tutte le occasioni pubbliche, in ogni parte del mondo, c' è qualcuno che chiede a Oliver Stone se girerà un film su Donald Trump: «Sì, forse lo farò, sento di doverlo realizzare, me lo domandano in tanti, ma non ho intenzione di parlarne ora. Potrebbe anche essere una commedia, in America siamo abituati a personaggi del genere, non dimentichiamo che, prima di Trump, abbiamo avuto Bush. Ricordate il mio film su di lui, W? Era piuttosto divertente». In politica il ruolo dei media è cruciale: «Negli Anni 70 il dibattito sul tema guerra nei mezzi di comunicazione era più attento. Oggi l' unico obiettivo è farsi comprare, tutto dipende dalla necessità di accumulare soldi e così il ruolo dell' informazione è scaduto, si racconta tutto sottolineandone gli aspetti violenti. Basta pensare al processo O. J. Simpson, su cui la stampa si è buttata a pesce, perchè dietro c' erano forti interessi economici. La verità è che non si può fare spettacolo su tutto, dimenticando qualsiasi senso di responsabilità. Oggi mi guardo intorno e mi sembra di essere oltre i tempi di Natural born killer, in cui descrivevo l' escalation della rappresentazione della violenza, la tendenza a farla diventare sempre più sensazionale e scioccante. Mi tornano in mente le parole della canzone di Leonard Coen che chiudeva il film, lui cantava "il futuro è morte e assassinio" e mi sembra che siamo arrivati proprio a quel punto di follia. Una situazione che non riguarda solo l' America, ma anche l' Europa». I social media, prosegue il regista, accompagnato a Taormina dalla moglie Sun jung -Jung («E' lei la mia Giulietta»), «sembrano La Pravda. Quelli americani dicono tutti la stessa cosa, e non credo che questo sia utile. Quando ero giovane era diverso, c' erano molte domande e giornali più obiettivi, in grado di rappresentare opinioni differenti». Anche il sistema cinematografico si sta evolvendo, ma non in modo positivo: «Si creano prodotti in un' ottica solo consumistica, puntando a venderli e basta. Il cinema vecchio stile poteva richiedere attenzione e concentrazione e, in questo modo, aprire nuovi interessi. Oggi è tutto un circolo vizioso, una competizione in cui si decide "a priori" che cosa andrà bene per l' audience. Ma chi è che stabilisce i criteri?». Sul problema immigrazione, Stone ha un parere articolato: «So che in Italia è una questione scottante, e lo è anche in America. Ho visto foto e ho seguito i notiziari, soprattutto sulle tv francesi e russe, che trovo particolarmente attendibili, perchè guardano le cose da punti di vista diversi, cosa che non accade nelle tv Usa. E' una questione complessa, credo profondamente nell' incontro e nel mescolarsi delle culture, ma penso anche che sia difficile gestire flussi così ingenti, in tempi così ravvicinati». Nel 1991 Oliver Stone aveva girato The Doors il biopic con Val Kilmer nei panni di Jim Morrison. Negli ultimi mesi ha assistito al successo di Bohemian Rapsody e poi di Rocketman, ed è inevitabile fare paragoni: «Non ho visto il film su Elton John, ma ho visto quello sui Queen e mi è piaciuto, trovo che Rami Malek sia stato veramente bravissimo. La band di Morrison era unica, straordinaria, non si possono fare paragoni. Tra l' altro le tecniche digitali contemporanee consentono una riproduzione della musica molto più accurata rispetto ai tempi in cui ho girato The Doors». Natural born killer «Oggi mi guardo intorno e mi sembra di essere oltre quel film in cui descrivevo l' escalation della rappresentazione della violenza, la tendenza a farla diventare sempre più sensazionale e scioccante» W «Un film su Trump? Me lo hanno chiesto in molti, ma adesso più che mai sento il bisogno di farlo. In America siamo abituati a personaggi simili. Non dimentichiamo Bush» su cui lui ha girato «W» The Putin Interviews Il documentario realizzato tra il 2015 e il 2017 in cui il presidente della Russia, Vladimir Putin, rispondeva alle domande del regista americano sulla guerra prossima e i segreti del passato «Nato il 4 luglio» il film di Oliver Stone con Tom Cruise compie trent' anni e domani sera in occasione della Festa d' Indipendenza americana sarà proiettato al Taormina FilmFest.

·         Parla Carla Signoris.

LA FORTUNA DI MAURIZIO CROZZA? AVER SPOSATO QUEL GRAN PEZZO DI CARLA SIGNORIS. Federica Lamberti Zanardi per “il Venerdì - la Repubblica” l'8 aprile 2019. Un'intervista con Carla Signoris dovrebbe avere l'audio. La sua risata dice ogni cosa di lei: calda, coinvolgente, autoironica. Parla di tutto: dall'amore ai figli e alla chirurgia estetica, senza mai prendersi sul serio eppure dicendo cose molto serie, con quel sorriso che ti avvolge e che ha fatto la sua fortuna. «Mi riconosco nella leggerezza calviniana» chiosa l'attrice genovese, 30 anni di carriera fra teatro, cinema, tv e tre libri di successo che parlano del matrimonio in modo comico e paradossale (Mio marito è un deficiente, Meglio vedove che male accompagnate e Penelope si arrabbiò). L'abbiamo incontrata a Roma a due passi da via Teulada, dove sta registrando Grande amore, un programma sui sentimenti in onda da domenica 14 aprile, su Rai3. Cinque puntate che trattano ogni volta un aspetto particolare del rapporto di coppia, partendo da storie celebri, come quelle tra Liz Taylor e Richard Burton o tra Dalida e Luigi Tenco, per confrontarle con quelle di persone comuni. Il filo rosso che lega le coppie normali a quelle famose è l'ostacolo che hanno dovuto affrontare per amarsi: l'alcolismo, la depressione, la mancanza di libertà, l'infedeltà, l'opposizione familiare. Nel programma, gli amori delle star finiscono quasi sempre male mentre quelli dei comuni mortali hanno un lieto fine. Secondo lei perché?

«Vivere una vita così esibita può rendere fragili. Devi essere corazzato per sopportare bene il successo. Comunque ci sono molte coppie del mondo dello spettacolo che sono riuscite ad andare avanti nel tempo».

Un esempio siete lei e Maurizio Crozza, sposati da 27 anni.

«Tocchiamo ferro... Finora continua felicemente».

Stia tranquilla non le faccio la domanda idiota: qual è la ricetta per far durare un amore...

«Guardi, le risponderei: culo».

Non litigate mai?

«Noi litighiamo moltissimo».

Su cosa?

«Sulle stupidaggini, quelle cose che poi passano. Sui temi importanti si discute e ci si confronta. Parlare è una cosa importantissima in una coppia. Non siamo uguali, non ragioniamo nello stesso modo ed è giusto che ognuno rispetti il sentire dell'altro. Bisogna trovare un equilibrio in un movimento costante. E poi discutere è bellissimo. Quando parlo di politica con Maurizio mi diverto come una pazza».

Fa le imitazioni?

«No, a casa non le fa. Di solito le scopro in televisione».

Non c'è competizione fra voi due?

«Non mi sembra. Quando parto per lavoro Maurizio con aria mogia mi chiede: "Ma quando torni?". E pensa: i ragazzi sono da soli a Genova, io sono a Milano, come faccio se mi succede qualcosa? È un grande ipocondriaco. La sua è pigrizia, non competizione».

In una storia d'amore quali cose creano ferite incurabili?

«Credo che si possa superare un po' tutto. Non si può accettare solo la violenza.

Se ci arrivi chiudi subito».

Fino a che punto vale la pena restare con l'altro?

«Nel programma raccontiamo la storia di una coppia dove lei prima era un' alcolista, poi, dopo la morte del figlio, ha perduto al gioco il milione di euro avuto come risarcimento.

Eppure suo marito le è rimasto accanto, l'ha aiutata a venirne fuori. Per quest' uomo salvare la sua donna voleva dire salvare sé stesso».

Della storia d'amore fra Onassis e Maria Callas raccontate passione e scappatelle.

Quanto conta in una relazione d'amore la lealtà?

«Quasi tutto. Io devo avere fiducia nella persona che amo, sapendo che questa persona può anche mentirmi ma prima o poi mi dirà la verità. Non credo nella ricetta "meglio non raccontarsi tutto". Dirsi la verità può essere molto doloroso ma è anche un momento di crescita. Bisogna accettare che non siamo infallibili. Del resto, ragazze, guardiamoci attorno: a me a volte sembra di essere una volpe in un pollaio, in giro ci sono degli uomini bellissimi».

Il tradimento ha lo stesso valore per uomini e donne?

«Gli uomini fanno più fatica ad accettare il tradimento. Le donne, invece, pensano che possa accadere, ma solo se c'è un momento di crisi, se qualcosa non va».

Ed è così?

«Assolutamente no, a volte gli uomini tradiscono anche quando sembra andare tutto bene. Se lui è molto gentile, ti devi fermare a pensare: oddio, cosa sta succedendo?».

Lei ha due figli, Giovanni e Pietro. Se avesse avuto una femmina che cosa le avrebbe insegnato?

«Mi sono così pentita di non aver continuato ad avere figli, mi piace tantissimo fare la mamma. A una ragazza avrei insegnato a dare molta importanza alla sua identità, a fare azioni in cui si potesse riconoscere, a rispettarsi sempre. A volte, quando sei giovane, puoi fare una serie di cazzate, ma poi tutto torna: la famiglia che hai avuto, le scuole che hai frequentato, gli amori che hai scelto».

Che tipo di ragazza è stata?

«Molto agitata. Non mi sono mai drogata né fatto cose strane. Ma litigavo sempre con mia madre. Che ho riscoperto col tempo. La pensavo a rimorchio di mio padre, invece era molto più moderna di quanto immaginassi».

Moderna come la mamma che interpreta nel nuovo film di Riccardo Milani, Ma cosa ci dice il cervello, che uscirà il 18 aprile?

«Quella è totalmente matta. Nel film sono la madre di Paola Cortellesi, che è una donna triste e fa un mestiere noiosissimo ma nasconde un segreto pazzesco. Io invece sono esuberante, vado alle feste mascherata da Jessica Rabbit e sono tutta rifatta. Ho girato il film con le labbra a canotto, l'occhio botulinato. Non lavorerò più, lo so...».

Cosa pensa della chirurgia estetica?

«È giusto fare un po' di manutenzione. La facciamo alla carrozzeria dell' auto, perché non farla al nostro corpo? Per noi attrici l'aspetto fisico è importante».

Se non avesse fatto l'attrice che lavoro avrebbe fatto?

«La psicoanalista. Mi piace moltissimo ascoltare le persone, le loro storie. Per esempio, adesso vorrei essere io a fare le domande a lei. Fare l' attore è un lavoro così doloroso. Sei sempre in discussione, e la stabilità non esiste. Se non lavori non sei in vacanza, sei disoccupato. Però, in fondo, noi attori stiamo sempre solo giocando. Vuole sapere l' ultimo gioco?».

Sentiamo.

«A novembre mi chiama Giua, una cantautrice ligure molto brava, e mi dice: "Carla ci verresti con me a Sanremo?" E io: "Ma sì, certo". Non avevo nemmeno messo giù il telefono che ho chiamato il mio analista e gli ho detto: "Attenzione qui c' è il rischio di andare in gara a Sanremo". Ma non ci hanno preso. Però il 29 marzo esce il disco: si chiama Feng Shui e mi sono tanto divertita a inciderlo».

·         Parla Vasco.

Vasco e la medaglia al papà che disse no al fascismo «Mi ha insegnato tutto». La vedova 90enne di Carlo Rossi ha fatto richiesta. È stato il figlio a convincerla. «Mi dispiace solo che mio papà non ha visto niente di quello che ho combinato». Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Alfio Sciacca su Corriere.it. A dire alla madre della possibilità di poter ottenere una medaglia alla memoria del papà è stato lo stesso Vasco Rossi. Un giorno dello scorso luglio è andato a trovarla a Zocca e le ha spiegato di cosa si trattava. E lei, chiaramente, ne è stata felicissima. Nonostante i suoi novant’anni Novella Corsi, vedova di Giovanni Carlo, «Carlino», Rossi, è ancora lucidissima. Di recente ha brillantemente superato anche una frattura al femore e tra qualche mese vorrebbe personalmente presenziare al conferimento della «Medaglia d’Onore» assegnata agli Internati Militari Italiani. Carlino è infatti uno dei 650 mila militari italiani che, dopo l’8 settembre ‘43, preferirono la prigione piuttosto che aderire alle truppe nazifasciste. Militare di leva in forza al 17° reggimento fanteria di Modena fu catturato mentre era all’Isola d’Elba, il 17 settembre del ‘43, e deportato nel campo di prigionia a Dortmund fino all’ottobre del ‘45. Si racconta che in quei due anni divenne fraterno amico di un compagno di lavoro che si chiamava Vasco il quale gli salvò anche la vita durante un bombardamento. Fu proprio in ricordo del vecchio compagno di prigionia che, anni dopo, decise di dare quel nome al suo primo e unico figlio. Dal 2006 ai militari che fecero la stessa scelta di coraggio di Carlino Rossi, noti appunto come Internati Militari Italiani, viene riconosciuta la «Medaglia d’Onore». Che può essere assegnata, alla memoria, agli eredi. Occorre presentare un’istanza e la relativa documentazione che vengono poi vagliate da una commissione presso la presidenza del Consiglio. Quindi il capo dello Stato assegna l’onorificenza, un po’ come per cavalieri e commendatori della Repubblica. Dopo l’incontro con il figlio la signora Novella ha ricevuto anche la visita del sindaco di Zocca, Gianfranco Tanari, che le ha portato tutti i moduli da firmare. E qualche giorno fa la vedova di Carlino ha ufficialmente avanzato la richiesta per ottenere il riconoscimento alla memoria del marito. In contemporanea è stato recuperato il foglio matricolare e ricostruita la carriera militare del papà della rockstar. Che da parte sua ha confermato con dei post tutto l’orgoglio per quella pagina di eroismo scritta dal padre. Come aveva giò fatto qualche mese fa scrivendo «era mio padre» per poi ricordare: «“Carlino” è morto di lunedì, un malore improvviso nel camion. La mattina mi ha chiamato l’Ivana (la tata, ndr): svegliati perché papà è morto. Poi sono andato a prenderlo a Trieste. Era il 31 ottobre 1979. Mi dispiace solo che mio papà non ha visto niente di quello che ho combinato. È mancato proprio quando ho cominciato. Ne sarebbe stato fiero. Lui era orgoglioso di me, anche quando non facevo un ca... La sua assenza è diventata un momento chiave della mia vita... l’ultimo suo insegnamento: “Sparisco, così ti svegli”. E io mi sono svegliato». A convincere Vasco a presentare la richiesta per l’onorificienza è stata la presidente dell’associazione «Un ricordo per la pace» Elisa Bonacini, (che da anni si batte per non dimenticare gli Internati Militari) con una serie di post. «Anche mio papà aveva 20 anni come il tuo. Nel nostro Dna c’è un po’ della loro forza e del loro coraggio. Entrambi dissero no al fascismo». In genere le Medaglie d’Onore vengono conferite, nelle varie prefetture, il 27 gennaio, per la Giornata della Memoria o il 2 giugno. «Non so quando verrà data al papà di Vasco — dice il sindaco di Zocca —, ma chiederò al prefetto che in questo caso si possa fare un’eccezione per consegnarla qui a Zocca, assieme a Vasco e alla signora Novella».

Vasco Rossi, re degli anni Dieci: «Sono sopravvissuto a tutto. Sempre contro». Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it da Andrea Laffranchi e Matteo Cruccu. Il rocker vince il sondaggio del Corriere sul brano più bello del decennio: «Ho battuto i problemi di salute e sono più forte». «Il rock è un modo di essere. Non morirà mai». Vasco Rossi, simbolo del rock in Italia dagli anni Ottanta, commenta da Los Angeles la vittoria del sondaggio di Corriere sulla canzone degli anni Dieci. Sono tempi in cui le chitarre elettriche fanno fatica, ma con la sua «Eh… già» il rock ha battuto tutti gli altri generi con il 17,7% degli oltre 25 mila voti. Vasco però va oltre le definizioni. Il decennio per lui si era aperto proprio con quella canzone in cui raccontava la meraviglia (o l’autocompiacimento?) di essere «ancora qua». C’era poi stata la clamorosa dichiarazione delle dimissioni da rockstar. Le ha poi ritirate, ma è stato a lungo in bilico sull’abisso di una malattia che gli era costata preoccupazioni personali da non poco e l’annullamento di un pezzo del tour 2011. Sistemata la salute è tornato. Con «L’uomo più semplice» (2013) presentava un nuovo modo guardare la vita: «siamo vivi/ domani chi lo sa». Atteggiamento confermato da quella «Cambia-menti» in cui c’era la consapevolezza che per «vivere bene o cercare di vivere» bisogna partire da se stessi. Le «Dannate nuvole» del 2014 portavano domande e dubbi ispirate dalla lettura di Nietzsche. In «Sono Innocente» si proclamava tale nonostante «qualche incidente di gioventù». Nel 2017 aveva celebrato i 40 anni di carriera con il mega-show di ModenaPark e il record mondiale di biglietti venduti (220 mila). L’anno scorso ancora domande con «La libertà» e le risposte dei fan gli avevano regalato un altro record: i 6 S. Siro di quest’estate.

Era il 2011 e in quella canzone diceva: «Io sono ancora qua». Siamo a fine decennio e Vasco c’è ancora… Cosa voleva dire allora?

«Esattamente quello: stupore, sberleffo, provocazione e la grande soddisfazione di essere ancora qua… sempre contro tutto».

Sondaggio a parte, cosa resterà della musica dei Dieci?

«L’ultima che mi ha davvero entusiasmato è stata “Sei nell’anima” della Nannini. Vero capolavoro. Ma credo sia del 2006…»

Il decennio per l’artista Vasco?

«Basterebbe solo ModenaPark, il più grande raduno rock della storia della musica italiana, a dare un senso a questi ultimi dieci anni. Sono stati anni formidabili, con un ritorno di entusiasmo artistico da parte mia decisamente inaspettato. Considera che sono ormai quattro i decenni che mi vedono impegnato a scrivere canzoni che arrivino direttamente al cuore della gente».

In privato ha attraversato un momento complicato…

«Se guardo indietro vedo l’incontro traumatico col Reale della sofferenza e il lento e duro lavoro su me stesso per tornare sul palco. Il cambio di prospettiva dello sguardo su tutto quello che mi sono ritrovato intorno. Adesso le consapevolezze, che non consolano, sono decisamente aumentate».

Dieci anni di storia. Quale evento rappresenta meglio questo momento? Il passaggio da Obama a Trump? Il fenomeno migratorio? La diffusione dei social network?

«Direi che da Obama a Trump è stata una bella caduta di… tutto: stile, tono e sostanza. Una esplosione di ignoranza, egoismo e qualunquismo che non mi aspettavo. Un preoccupante ritorno al passato. Forse è questa la vera faccia dell’America. Credo che Trump rappresenti bene il lato oscuro, oscurantista, egoista, bigotto e arrogante degli Stati Uniti. L’epocale fenomeno migratorio dal terzo mondo verso i paesi ricchi sta facendo saltare gli equilibri delle nostre fragili democrazie. L’esplosione dei social network la trovo la cosa meno peggio di tutte le altre. Almeno ci fanno divertire, incontrare e passare il tempo».

E l’Italia di questi anni Dieci? Le è piaciuta?

«Poco. Mi dispiace che il nostro meraviglioso Paese sia cosi preda di rabbie e paure fagocitate da irresponsabili politici in cerca di consenso e potere». Oggi arriva al cinema il docu-film “Non stop live” diretto da Pepsy Romanoff che racconta i tour e le canzoni degli ultimi due anni. Il 6 dicembre esce invece il cd-dvd che documenta i sei show a s. Siro di quest’estate. Che Vasco c’è dentro?

«Quello dei concerti dal vivo. Veri e propri riti laici di comunione e liberazione! Il mio gruppo di musicisti “stellare” e un pubblico fantastico, ancora numerosissimo. dimenticavo… dal vivo sono ancora il numero 1, il numero 2 e il numero 3».

Nel video dell’ultima canzone, “Se ti potessi dire”, è come se si guardasse allo specchio. Col trucco così pesante non la si era mai vista…

«È il Vasco della vita reale nella quale si indossano delle maschere, quindi il trucco, mentre sul palco e nelle canzoni c’è il Vasco vero e sincero, duro e puro. Quello senza rimpianti». A partire dai concerti nei festival della prossima estate (250 mila biglietti venduti in un giorno), cosa ci dobbiamo aspettare nei suoi anni 20?

«Chi vivrà… vedrà».

Vasco Rossi: la SIAE gli dà riconoscimento per 40 anni di Albachiara. La società degli autori e degli editori gli ha voluto rendere omaggio facendo riprodurre il primo bollettino depositato dal cantautore di Zocca. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Giugno 2019. Il 7 agosto del 1979 Vasco Rossi depositava alla Siae «Albachiara» , diventata un cult, ma anche il simbolo di un nuovo modo di raccontare storie in musica. Quarant'anni dopo la società degli autori e degli editori gli ha voluto rendere omaggio facendo riprodurre il primo bollettino depositato dal cantautore di Zocca con la sua firma e le sue note. La consegna ieri sera a San Siro, poco prima dell’inizio del concerto, come sempre sold out: con il Blasco c'erano il dg Siae Gaetano Blandini e l’Ad di Warner Chappell Roberto Razzini: "Un omaggio a nome di tutti i nostri associati che non sono tutti Vasco Rossi, ma vivono di musica.- gli ha detto Blandini- Come dice un tuo collega autorevole, Ennio Morricone, per fare bene il vostro mestiere bisogna avere talento, durata e passione e tu hai tutto questo». Sorridente anche l’ad di Warner che è l'editore di Albachiara: «ci sembrava giusto omaggiarti per questo grande successo che hai regalato a tutti noi». Grandi occhiali da vista e cappelletto come al solito con la visiera al contrario, Vasco Rossi ha accettato non senza un pizzico di sorpresa: «Beh, è splendido», ha commentato, prima di posare per una foto ricordo.

PIANETA VASCO – Franco Angeli edizioni. Pianeta Vasco. Nel panorama del rock e della musica pop italiani, Vasco Rossi rappresenta un vero unicum, un rabdomante dei sentimenti, capace di riflettere e intercettare nel tempo gli stati d'animo di milioni di italiani e italiane. Un autentico specchio intergenerazionale e trasversalissimo di un pezzo di antropologia di questa nostra nazione. Un fenomeno quello del "Komandante" così importante che non poteva certo sfuggire a un altro illustre e famoso modenese, quell'Edmondo Berselli che è stato un brillantissimo narratore dell'Emilia e un conoscitore impareggiabile della cultura popolare e della musica leggera. In questo volume si trovano raccolti gli articoli e i testi che, in momenti diversi del suo lavoro, Berselli ha dedicato al "rocker maledetto" (e, al tempo stesso, genuino e spontaneo come pochi) di Zocca. Un "ribelle filosofo" che ha parlato a tutto il Paese, ma con le radici ben piantate in Emilia e in una certa fase della storia italiana. Nonché il "poeta" di un momento preciso dell'esistenza di ciascuno - l'adolescenza e la giovinezza - che insegue il desiderio di una vita spericolata (e, quindi, a volte, finisce necessariamente anche per venire frustrata). E che fa sì che il suo pubblico si identifichi con lui con una forza travolgente e fusionale. Un cantante che ha inventato la comunità prima delle community e dei fandom. E le parole di Berselli, ancora una volta, lo fanno capire con un acume e una profondità più uniche che rare.

Articolo di Edmondo Berselli pubblicato da L’Espresso il 12 luglio 2007. Veniva da Zocca, sull’Appennino modenese, aveva alle spalle studi di ragioneria non proprio convinti e l’università a Bologna presto abbandonata. Rocker, per modo di dire: dentro la sensibilità musicale del Blasco c’erano echi cantautorali, una passione per Lucio Battisti, la sensibilità commerciale del disc jockey, il gusto moderno di Punto Radio, e in fondo a tutto la voglia di fare musica per raccattare pollastrelle. Era il meglio che Boncompagni potesse aspettarsi per divertirsi, con battute finto-comprensive e vero-cattivelle. D’altronde, come si fa a non divertirsi con il terribile e placido Vasco: perfino quando rispondeva con piccoli movimenti delle labbra agli sfottò del cinico presentatore Boncompagni, in cui si intuiva il suo inevitabile e represso ’vffncl’, c’era nel suo sguardo un aspetto giocoso, quello di uno che si sta giocando la vita e un avvenire, senza troppi scrupoli e senza nessuna illusione, dunque con un divertimento implicito. Partirono le note di pianoforte introduttive della sua canzone, "Respiri piano senza far rumore...", e qualcosa cambiò, nell’atmosfera in studio: come se ci si rendesse conto che quella canzoncina romantica contenesse qualche piccola verità, l’aura che si dispiega misteriosamente intorno ai pezzi destinati a fare epoca. Il tempo tiranno infierì sull’esecuzione (vabbè, era un playback, ma non importa), e mentre partiva la schitarrata cosmica ed elettrica a metà esecuzione, il regista fece sfumare la musica. Vasco addio. O meglio, arrivederci. Più tardi fu Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore reggiano morto così presto, e così malinconicamente, a sdoganarlo, proprio su ’L’espresso’. Perché descrisse la sua voce "da fumatore", i suoi gesti vagamente schizzati, il suo corpo da proletario, intuendo che dentro e dietro l’aspetto del contadino e del montanaro c’era qualcosa di più di un’apparenza. Vasco era già destinato a diventare il re dei giubbotti neri, antitesi perfetta del divo dei pianoforti bianchi, il crepuscolare stornellatore Claudio Baglioni. Sarebbe andato a Sanremo, avrebbe litigato con Nantas Salvalaggio, avrebbe accentuato il suo atteggiarsi da bevitore, avrebbe ripetuto ad libitum "capìtto", come fa ancora adesso nel suo lessico che è esattamente identico a quello dei suoi fan. Sarebbe anche finito in una di quelle storiacce da ragazzo precipitato troppo rapidamente nel successo, in cui la coca fa da contrappunto nasale alle notti da sballato, e a un ritmo di vita che è quello di ’Siamo solo noi’, generazione senza santi né eroi, protagonista di peccati prevedibili e di redenzioni sempre precarie. Una vita estrema, ma anche una vita provinciale, e perciò comprensibile. La vita di uno che è sempre consapevole che il successo in fondo è casuale: poteva andare bene, poteva andare male, è andata benissimo, più che benissimo, è andata alla grandissima. Vasco infatti è diventato un idolo. Idolo per la vita spericolata, perché va o è andato al massimo, perché ha sfidato la notte e la discoteca, si è perso nei parcheggi fuori da un locale fumando Lucky Strike e guardano le cartacce per terra: perché si è identificato fino in fondo con i suoi ammiratori, con le generazioni che l’hanno amato e che lo amano, che affollano i suoi concerti, e si commuovono e si divertono perché condividono qualcosa (molto) di lui. Condividono anche la sua parabola. Era magro, capelluto, poetico, trasognato, cattivo. Adesso è grasso, pelato, tollerante. Quello che ha perso in immagine l’ha guadagnato nella passione del pubblico. Perché lo "sbudellato" Vasco, come lo definì Roberto D’Agostino, è riuscito in un’impresa formidabile: cioè a farsi voler bene da tutti, diconsi tutti, gli italiani. Non è un fenomeno facilmente spiegabile. Nessuno infatti è in grado di spiegare la ragione per cui Vasco Rossi riscuote un successo travolgente e generalissimo. In Svizzera o a Innsbruck, appena fuori dal confine, sarebbe uno sconosciuto. La sua non è musica all’avanguardia, è un suono di mainstream, potente e accattivante ma senza vertici di originalità. Eppure, grazie anche ad autori e collaboratori come Tullio Ferro (ex chitarrista di tendenza che ha firmato i suoi hit più clamorosi), le sue composizioni sono diventate l’accompagnamento più naturale per l’intera società italiana, senza distinzioni d’età o di classe sociale. Che cosa c’è allora nelle canzoni di Vasco? C’è la trasgressione controllata, lo scarto consentito, la rivoluzione comportamentale moderata. Non c’è tanta politica, dato che il suo mondo è una realtà sostanzialmente individualistica. In quanto rocker, ha sempre manifestato simpatie per Marco Pannella, anche in seguito alle campagne antiproibizioniste dei radicali. Ma si tratta di un radicalismo non di destra, almeno nei pronunciamenti ufficiali, che fa da compagno di strada al progressismo implicito dei suoi tifosi sugli spalti e sul prato. Poi c’è la formidabile energia che si trasmette dal palco, quel muro di suono che non cessa di affascinare il pubblico, la potenza delle chitarre, dato che il rocker sa che la musica va fatta con le sei corde elettriche, e con il pulsare di una batteria percossa con giusta violenza, altro che storie. Salvo qualche intervallo lirico, in cui come i grandi guitti spreme lacrime con il cinismo dei poetastri. E infine ci sono le sue parole, così semplici e così efficaci: ancora oggi, a metà dei suoi cinquant’anni, Vasco scrive come scrivono gli adolescenti, con le maiuscole e le sottolineature, i punti esclamativi, i puntini di sospensione, come se si trattasse di un diario da mostrare in pubblico. Con tutto questo, chi può negare l’efficacia degli slogan vascorossiani? "Coca Cola sì, coca casa e chiesa... Con tutte quelle bollicine...". Sembra uno spot pubblicitario, lo stacco perentorio di un messaggio che sottolinea vicende scolastiche e avventure da tribù generazionale, ragazzate pericolose e innocue, sentimento collettivo, ingenuo e mica tanto, tradotto in perfetta formula cantata. Lo si vede agitarsi sul palco, come di recente a San Siro e all’Olimpico di Roma. E ci si chiede come sia possibile la passione di massa per un tipo così. Poco attraente, viziato, ’brutto’: in una parola, irresistibile. Si capisce: Vasco è una polarità semantica che riassume tutto il suo pubblico, le esistenze dei fan, le loro parole, le loro frustrazioni, consentendo a ognuno dei suoi ammiratori e ascoltatori di identificarsi con lui. Anzi, ancora meglio: di pensare che il suo successo clamoroso è tanto incomprensibile da non generare invidie, e quindi capace di generare comunità. Vasco vince, convince, trionfa, urla e magari si commuove, perché anche i rocker hanno un’anima, magari di seconda mano, senza instillare frustrazioni nell’indistinto collettivo che si riunisce festosamente intorno a lui. ricco ma tratta la ricchezza con la nonchalance dell’ex povero, consapevole che tutto questo, i soldi, il fuoristrada, la vita comoda, può andarsene com’è venuto. Al massimo dovrà pensare a come saranno i suoi sessant’anni, se il miracolo della sua leadership morale sulla musica italiana potrà ancora replicarsi. Ma per adesso, a dispetto di tutti gli altri, c’è un solo leader, non vuole comandare nulla, e si chiama Vasco: per sempre.

Da tgcom24 il 19 giugno 2019. "Avevo realizzato un servizio in cui fingevo di essere la figlia illegittima di Vasco Rossi". A parlare è Victoria Cabello che, durante il docu-film, dedicato al concerto a San Siro del cantante emiliano, racconta dello scherzo a Vasco quando ancora era un'inviata delle "Iene". "Ero una matta - spiega la Cabello - riuscii a bloccare le riprese del set di un film in cui c'era proprio lui". Uno scherzo che la rock star italiana, che ha appena concluso il suo tour milanese con 6 sold out a San Siro - prese bene e con ironia. "Alla fine della giornata lo misi a letto - conclude l'ex iena - gli cantai "Una vita spericolata", in versione ninna nanna".

Vasco Rossi: «Anch’io mi sono sentito escluso, la musica libera dalla disperazione». Pubblicato domenica, 9 giugno 2019 da  Chiara Maffioletti su Corriere.it. Quante persone al mondo possono accendere una folla dicendo, semplicemente, «ehh»? Ma Vasco Rossi di comune ha solo il cognome come, senza finte ipocrisie, ha riconosciuto anche lui: «Sono unico, è vero. Nel bene, ma anche nel male però». Ieri, nell’incontro organizzato da ViviMilano in sala Buzzati, al Corriere, ha regalato ai fan un’ora abbondante di racconti senza sovrastrutture, in quell’equilibrio sopra la follia che torna come una costante della sua vita.

Le sue parole vanno prese, come ha ribadito ad Andrea Laffranchi che lo intervistava, non dimenticando mai l’ironia, che è un po’ lo spartito su cui racconta poi le sue verità. E con cui incassa i suoi record. L’ultimo: sei concerti a San Siro, nessuno lo aveva fatto. «Il sindaco è venuto, pensavo mi portasse le chiavi... si vede che ancora non si fidano. Fanno bene». In realtà, la sua è una corsa in cui vuole «alzare sempre un po’ l’asticella: le sfide mi piacciono. San Siro poi è una favola. Spero che lo teniate così come è. Peccato per questo comitato anti rumore... che poi, non è che facciamo rumore, ma musica». E lo si vedrà anche il 18 giugno, in prima serata su Canale 5, con «Siamo Solo Noi», il docuconcerto dedicato a Vasco Rossi e a queste sei serate. Stando in tema di record, la mente va a Modena Park, che vanta quello mondiale di biglietti venduti: «Un evento irrepetibile, infatti non cercherò più di ripeterlo. C’erano tensioni riguardo la sicurezza, ma il mio popolo ha dimostrato una maturità incredibile e l’amore ha vinto sulla paura. Mentre sorvolavo l’area del concerto in elicottero, poche ore prima, mi mancava il fiato per tutta quella gente». Nell’ultimo tour, l’idea è di tendere una mano per portare le persone fuori dalla disperazione «anche solo per due ore, con la musica. La disperazione la sento proprio nell’aria, viviamo in un periodo teso in cui le paure sono risvegliate da politici senza scrupoli. Non sopporto questa strumentalizzazione, con gli anni sempre meno. Chi mi fa più schifo è chi specula su questo per fare degli affari politici. Stanno creando una guerra tra poveri, ma non si può pensare che noi siamo nati in paradiso e se loro sono nati all’inferno la cosa non ci riguarda. Oltre al fatto che vengono dette cose non vere, siamo influenzati dai mezzi di comunicazione di massa che fanno una lettura non reale della situazione». Lui invece, era stato più reale del reale già quando scriveva «Mi si escludeva». All’epoca valeva solo per lui, «oggi per tutta una categoria di individui. Ho vissuto sulla mia pelle la sensazione di venire escluso e ne ho sofferto moltissimo. Ero un montanaro, venivo da Zocca... mi sono scontrato contro un muro di benpensanti. Anche se quasi li capivo quelli che col loro cashmirino ascoltavano me che dicevo “sensazioni, sensazioni, vogliamo godere godere godere” e restavano un po’ così...». La mente torna a quegli anni, in cui «mi dicevano che ero un drogato. Non lo sono mai stato. Mi definisco un tossico indipendente. Le sostanze le ho provate tutte, perché volevo farlo. Tranne l’eroina. E chi dice che sono tutte uguali è un criminale. La marijuana ha anche effetti terapeutici... infatti ne faccio un uso medico», e si mette a ridere. «Mi toccherà chiedere asilo politico in California, dove è legale, come in tutti i Paesi civili». Tornando agli anni del pregiudizio più duro, «mi veniva da ridere quando dicevano che influenzavo i giovani. Io, caso mai, ero espressione dei giovani». Lui, che mai avrebbe potuto portare avanti il lavoro assicurato in banca come ragioniere: «Quando l’ho detto a mia mamma non si capacitava. Per fortuna è andata bene. Devo dire che ci credevo anche tanto, ma pensavo che avrei avuto un pubblico di nicchia». E non l’esercito che lo venera e che chiede ora di coniare una nuova parola: vascologia. «Mi fa piacere», specie pensando «a tutti quegli articoli che parlavano di un personaggio che non esisteva. Non tutti coglievano che le mie canzoni sono sempre state provocatorie e ironiche: scrivevo “vado al massimo” nel periodo più brutto della mia vita». Colleghi che gli sono stati vicini? «De Gregori e De André: lui era il mio mito assoluto e invece mi ha sempre trattato come uno alla pari. Per me questo era sconvolgente. Ricordo che quando l’ho conosciuto mi sono inginocchiato; lui ha rimesso subito le cose a posto, dicendo: “Ma che c... fai?”». In futuro, gli piacerebbe pensare a una serie di concerti intimi, in teatro, in cui godere del contatto con il pubblico: «Negli anni le transenne si sono spostate sempre un po’ di più... per questo quella dimensione di racconto mi piace molto. Poi non so se sarei capace. Anche ogni volta che scrivo una nuova canzone non so mai se riesco ad arrivare alla fine... va beh ormai ho un po’ più fiducia di farcela. Però resto molto critico, perché non sono solo il primo che le sente, ma sono anche un po’ un fan, di quelli severi. Infatti quando leggo qualche critica sorrido perché me l’ero già fatta prima io». La prossima canzone che uscirà, «sarà la mia ultima confessione. Se mi assolvo? Non so. Se esistesse la pillola contro i sensi di colpa la prenderei subito, ma alla fine rifarei tutto: stessi errori, stesse passioni, stesse delusioni». Il rapporto tra quanto ha sofferto e fatto soffrire «è un pareggio». Una fan gli chiede che padre sarebbe stato di una figlia femmina, lui che ha tre maschi: «Avrei avuto finalmente una donna che mi ama». Eppure a occhio ce ne sono parecchie. Donne e uomini che, mentre parla, gli urlano: «Vasco, ci hai salvato la vita».

VASCO ROSSI: “E MI RICORDO CHE MI SI ESCLUDEVA…!” Luca Valtorta per Robinson-la Repubblica l'8 aprile 2019. È polvere. Rossa e gialla. E poi cuori, mezzelune. Stelle. Dentro un piccolo tubo trasparente di plexiglass, dall' alto cadono lentamente verso il basso. Prima i frammenti colorati, che scendono a spirale senza mescolarsi gli uni con gli altri, poi le piccole sagome glitterate. Lui la tiene in mano, se la mette dietro la testa, ci gioca. Vasco, che cos' è questa cosa? «Questa? Beh, è una bacchetta magica!». Siamo a Bologna, nello studio dove Vasco Rossi incontra periodicamente il suo gruppo di lavoro. Tra poco ci sono sei stadi già esauriti a Milano e due a Cagliari che aspettano e le cose a cui pensare sono tante. Lui però è tranquillo. Anzi, sembra davvero felice. È appena rientrato da Los Angeles: «Sono tornato apposta per voi di Repubblica Robinson » , ride, cercando di farci sentire un po' in colpa. Non fumerà mai, neanche una sigaretta. Ma è sempre Vasco.

Perché proprio Los Angeles?

«Sono stato lì quasi un mese e mezzo perché era importante fare un po' di vacanza da Vasco Rossi».

Bello?

«Faceva freddo e ha quasi sempre piovuto. Ci vado perché di solito fa caldo e perché qui in Italia non posso uscire».

Quindi la cosa più bella per te è... andare al supermarket?

«Esatto. Mi piace un casino andare al supermarket: scegliere le cose, toccarle. Per me, oltre a quello, andare al cinema e andare a cena sono dei veri lussi».

Avere gli occhi della gente puntati addosso non è piacevole?

«Magari all' inizio sì, i primi anni. Ma poi ti dà un po' di ansia: ti senti sempre osservato e ogni persona che vedi sai che può dirti qualcosa, che va benissimo, però prova a immaginare  una situazione così a ciclo continuo. Il bello del successo è che ti conferma che quello che fai vale. All’inizio cerchi anche la celebrità, perché quando non la si ha si pensa che sia fantastica, come una giostra. Solo che quando la giostra non si ferma più ti viene la nausea, impazzisci».

C’era un periodo in cui dicevi di voler tornare a essere un artista di nicchia e oggi pare sia un po’ nell’aria: Francesco De Gregori ha fatto venti date in un teatro di 230 persone. A te piacerebbe?

«Guarda, quella cosa lì per un artista è fantastica e anche io lo desidererei. Anche Bruce Springsteen la sta facendo. Sia chiaro, fare gli stadi mi piace ma mi piacerebbe anche poter tornare a quella dimensione».

Sarebbe stato bello vederti cantare “Generale” ospite da De Gregori.

«Sarebbe stato bellissimo. Ecco, questo è uno dei motivi per cui mi piacerebbe abitare a Roma o a Milano: puoi fare cose così e poi torni a casa. Invece io devo prendere la macchina, andare, fermarmi in hotel: io soprattutto odio andare nello stupido hotel perché non posso uscire!».

Sei volte San Siro… Credo non abbia un precedente nella storia: neanche i Beatles hanno riempito sei stadi di fila della stessa città.

«Penso sia dovuto al fatto che io racconto un po’ quello che il mio pubblico ha dentro in maniera sincera, onesta e anche spudorata se vuoi: debolezze, frustrazioni… c’è qualcosa che condividi. Non è “mal comune mezzo gaudio”: è che se una debolezza pensi di averla solo tu soffri moltissimo perché ti senti solo. E anche sbagliato».

“Mi si escludeva”, per citare Vasco.

«Certo. Ho scritto quella canzone perché l’esclusione l’ho provata sulla mia pelle. Io ho sofferto moltissimo questa sensazione, forse anche perché quando sono andato a Modena in collegio a 13 anni ero considerato “il montanaro”, quello di serie B, che “veniva giù con la piena”».

Ma come mai in collegio?

«Perché a Zocca dopo le medie non c’erano più scuole. Addirittura, qualche anno prima di me, per far studiare i bambini li si mandava in seminario. Io invece sono finito dai salesiani, quelli con le camerate gigantesche dove ti svegliavano alle sette con il battito di mani; se non ti svegliavi davano delle botte sulla testata di ferro del letto che ti faceva tremare tutta la testa: un freddo cane, ti alzavi e ti lavavi con l’acqua gelata perché quella calda non c’era, poi la preghierina al mattino, quella alla sera…Cinque ore di studio anche al pomeriggio, davanti al prete, in silenzio, poi mezz’ora di ricreazione in cortile dove mi ricordo che si giocavano tre o quattro partite contemporaneamente, con quattro palloni: un casino d’inferno! Non so neanche come cazzo facessero: io non giocavo. Il calcio non mi piaceva, preferivo il biliardino. Alla fine due fischi: tutti in fila in ordine d’altezza. Un fischio ancora: silenzio totale. Se tu stavi dicendo a qualcuno: “Ehilà!” mentre fischiavano dovevi andare in punizione. Quando mangiavamo invece avevano i campanelli. Il prete, a un certo punto, faceva “ping!” e tutti dovevano stare zitti. Chiaramente c’era sempre qualcuno che stava gridando e così anche lì finivi di nuovo in punizione».

In che cosa consisteva la punizione?

«Bisognava andare davanti all’ufficio del prete-preside e aspettare che venisse a farti la ramanzina. Gli altri, intanto, alle nove di sera erano tutti a letto. Io in quel periodo mi ero totalmente chiuso, non mi sono fatto neanche un amico nuovo. Per fortuna c’era un ragazzo che conoscevo, anche lui di Zocca, e Sergio Silvestri, con cui suonavo la chitarra. Quella è stata la mia salvezza: ci lasciavano due volte la settimana un paio d’ore per esercitarci, a me e Silvestri».

Quindi è così che hai imparato a suonare la chitarra?

«No, andavo già da un maestro. La prima volta che sono arrivato giù in città è stato perché avevo vinto un concorso di voci nuove, si chiamava l’Usignolo d’Oro».

E cosa accadde nella finale?

«Quando ho vinto sono rimasto allibito anche perché c’era stata una ragazzina, prima di me, molto brava, che aveva preso 95 voti su 100, quasi il massimo quindi. La giuria era fatta di bambini che con le palette davano i voti da 0 a 10. Mi dicevo: “È chiaro che ha già vinto lei”. Ho cantato la mia canzone e mentre uscivo di scena, però, sentivo i voti: “10, 10, 10, 10!”’. Alla fine è stato 100 “ “ su 100!».

Luca Valtorta per “la Repubblica - Robinson" il 18 aprile 2019. Vasco dice: « Vedi? Questa sembra la bandiera americana ma se la guardi bene le stelle sono bianche su fondo rosso e le strisce, invece, sono verdi: è la bandiera italiana. Era stata una mia idea, ma non è che ai tempi l' avessero tanto capita sai... » . Sta guardando il retro della copertina dell' album originale in vinile di Non siamo mica gli americani, il suo secondo disco del 1979. Quello di Albachiara. Ma anche quello di Io non so più cosa fare, pezzo sicuramente meno noto ma forse, per alcuni motivi che scopriremo, quasi più importante. Almeno per Vasco.

Non c'è nessuno che non conosca Albachiara, una canzone entrata nell' immaginario italiano. Come sei riuscito, tu che sei un uomo, a cogliere certi aspetti dell' animo femminile?

«Mah, forse perché sono cresciuto in mezzo alle donne: la mamma, la tata, la zia Edwige. E questo ha sicuramente contribuito ad aumentare la mia sensibilità femminile. Ma, a dire il vero, Albachiara è stata la mia prima canzone provocatoria. Per me l'artista deve essere provocatore, deve provocare le coscienze. Se non lo fa non ha quasi senso la sua esistenza. Vedi allora che Albachiara è una provocazione perché in quei tempi parlare di masturbazione femminile era qualcosa di più di un tabù. Tutte le mie amiche degli anni 70, non era una cosa che ammettevano, neanche le più femministe. Non ne parlavano mai. Quindi figurati metterla in una canzone...».

Anche perché parlava di una ragazza qualunque non un' attrice o una modella.

«Esatto: una ragazza pulita, giovane. Bella per quello, no? Chiara. Ma che, giustamente, aveva le sue esigenze dal punto di vista sessuale. Ha fatto scandalo ma era solo l'inizio. Dopo è arrivata Siamo solo noi che ti diceva: "Guarda che c'è un altro mondo di cui non parla proprio nessuno, che si fa finta che non esista e invece c'è: siamo noi". Io, i miei amici, le persone normali che vedevi al bar e che non raccontava nessuno. E comunque, tornando alle donne, credo di saperle raccontare perché io le amo tantissimo le donne!».

Beh, si capisce: hai dedicato tantissime canzoni a loro: Toffee, Gabri, Laura...

«Perché io le amo in tutti i loro aspetti le donne. Innanzitutto le rispetto come persone ma amo anche la " femminilità", quella cosa per cui le sento così diverse da me, questo rapporto tra maschio e femmina che si incontrano e che per me è una cosa bellissima».

C' è una tua canzone, Io non so più cosa fare, che dice: "lei insiste/ mi vuole proprio fare/ magari è femminista/ e non vuole certo farsi violentare/ ma vuole gestire/ allora come devo fare/ dove la bacio, come la devo toccare, eh...".

«È stata la mia prima storia d'amore vera. Avevo diciott'anni e il primo anno in cui siamo stati insieme ero innamoratissimo. Però sono sempre stato molto ingenuo, molto immaturo per cui è chiaro che mi scontravo con la maturità delle donne. Io in confronto ero un bambino. Allora c'erano le rivendicazioni del femminismo e il mito della sincerità, della spontaneità. Io con la spontaneità mi sono sempre salvato: pensa che una volta mi hanno dato un tema che a me mi ha proprio cambiato la vita, la prospettiva...».

Che tema era?

«Questa vale la pena di raccontarla perché spiega bene come sono io. Sai le "sliding doors"? Beh, quello è stato uno dei primi momenti in cui ho preso una porta che ti conduce da una parte piuttosto che da un'altra. Io non ero molto adatto alla scuola perché facevo fatica a sopportare le regole. Finché un giorno arriva questo professore d' italiano molto illuminato che mi ha fatto capire che non si devono sempre accettare le cose che ti vengono imposte, come si fa da piccoli, ma puoi anche decidere se sono giuste o no. Così un giorno arriva a scuola e dice: "Oggi non vi do il titolo: dovete inventarlo voi, questo si chiama Tema Libero". Mi metto a pensare ma non sapevo proprio che titolo mettere: "Le mie vacanze"? Boh. Dopo un' ora tutti scrivevano come matti e io zero. Finché mi viene un' idea: "Io, se non mi date un titolo, non sono capace di scrivere niente". Poi comincio a criticare: "Guardate come mi avete ridotto: dopo 15 anni di scuola, non ho più fantasia. Se non vengo guidato non riesco neanche a pensare!". Avevo paura di aver fatto una stronzata pazzesca: "Adesso chissà che cosa cazzo mi dice!". Il mio tema non arrivava mai. L'aveva tenuto per ultimo e -sorpresa- mi aveva dato dal 9 al 10. Ed era uno che non dava più di 7 eh! Quello per lui era il voto massimo. E dice: "Questo è un tema che mi fa sopportare di essere un professore, di avere una 500 gialla, una moglie". Quel momento fu fondamentale per me: lì ho avuto l'illuminazione: "Se dico sempre quello che penso mi salvo". Da allora in poi ho sempre fatto così».

Quindi però con questo vuoi dire che hai avuto problemi con la ragazza della canzone a causa della tua sincerità?

«Esatto. Perché insomma, mi metto insieme con questa ragazza di cui ero innamorato e dopo un po' di tempo lei mi fa: "Dimmi la verità, quest'anno hai avuto delle altre storie? Guarda che se me lo dici non c'è problema". E io, ingenuo, perché è chiaro che è ingenuità quella lì e basta, se non avessi detto niente non ci sarebbero stati problemi, le racconto che avevo avuto due storie. Ma perché erano storie così, che avevo già e che volevo chiudere, non è che queste ragazze le avevo incontrate mentre stavo già con lei, erano storie di prima. Quando ti innamori non ti sparisce mica tutto quello che hai intorno no? Era capitato che le avevo riviste, ma erano storie finite. Per me davvero contava solo lei».

E a quel punto che succede?

«Che mi ha mandato a cagare e se n'è andata. E mi è crollato tutto il mondo addosso. Anche perché anche in questo caso come era successo per il mio maestro di canto io ho pensato: "Allora non ci si può fidare delle persone". Questa è stata un' altra delle delusioni che mi ha segnato perché io ci credo alle cose che si dicono... Poi se gli altri dicono le cose così tanto per dire, beh io non sono fatto in questo modo, io ci rimango male e però allora se è così che vadano affanculo!».

E lei non è più tornata?

«Sì, dopo una settimana è tornata. Io soffrivo come un cane e lei mi fa: "Guarda, io non riesco a lasciarti, torniamo insieme. Al massimo aspetto che sia tu a lasciarmi».

Un lieto fine?

«Da quel momento lei ha sistematicamente incominciato a distruggermi. Mi voleva uccidere, capito? Io ero quello sbagliato da tutti i punti di vista. Diciamo che tutti i miei difetti fisici, mentali, psicologici ormai li conosco perfettamente grazie a lei. In due anni mi ha massacrato: mi sentivo la merda più merda che calpestava la terra. A un certo punto ho anche cambiato città e per lasciarla ci ho messo sei mesi. Pensa che mi sono addirittura messo a calcolare i tempi giusti per cui le dovevo dire che l'avrei lasciata mentre contemporaneamente partivo per restare tre mesi a Zocca, sai allora tre mesi erano una vita. Quello era l'unico modo, sennò non ci riuscivo. E feci proprio così: ho fatto finta di niente fino a quando è arrivato giugno e l'ultimo giorno le dico: "Guarda, io non voglio più avere niente a che fare con te" e me ne vado. Mi ricordo che ero nel piazzale di Zocca a giocare a pallone e sento mia mamma che mi chiama dalla finestra, una volta si faceva così: "Vascooo! Vasco vieni che c'è la Paola al telefono". E io "Cazzo no, non è possibile". Vado su e lei incomincia a parlare e mi fa tutto l'intorto. Ci stavo ricascando di nuovo. Per fortuna - vedi a volte sono proprio le piccole cose che ti cambiano la vita - si ferma e mi fa: "Sono da un'amica, torno a casa e ti richiamo". Mette giù il telefono e così io vado a prendere una bottiglia di whisky. Me ne sono bevuta metà per essere abbastanza forte, così quando mi ha richiamato riesco a dirle: "Non ne voglio più sapere, smettila, non mi chiamare mai più, lasciami perdere". Tac. Metto giù il telefono e finita la storia».

E non l'hai mai più sentita?

«Oh, ma figurati! Un po' di anni dopo, quando ho avuto l'esperienza del carcere, mi ha scritto, così quando sono uscito l'ho rivista e abbiamo avuto un altro momento in cui ci siamo incontrati. Poi la storia è finita. Diciamo che io l'avevo rincontrata perché volevo dirle: "Guarda che un sacco di canzoni che ho scritto le ho scritte grazie a te, tanto che dovrei darti i diritti d'autore».

Quali sono?

«Tutte quelle in cui sono incazzato con le donne: da “Brava” fino a “Io no”. Ha tirato fuori il poeta che è in me (ride)».

Anche lì però dici: "Io no, io non ti perdonerò" e poi invece "io no, non ti dimenticherò" e persino " io no, non ti lascerò mai": non eri proprio convinto ancora.

«Pensa che quella canzone l'ho scritta nell' 88 e doveva finire nel disco che è del '98. Ho passato vent' anni in cui non volevo innamorarmi più di nessuno: avevo rapporti per cui mi incontravo con una persona non più di tre o quattro volte e poi se diventava troppo importante la lasciavo. Proprio non volevo più avere storie. E non ne avrei più avute, secondo me, se non avessi incontrato la Laura (Laura Schmidt, compagna per decenni e dal 2012 anche moglie di Vasco e madre del figlio Luca)».

E a quel punto la Paola, al contrario di quello che dici nella canzone, l'hai finalmente dimenticata.

«Con la Laura è successo qualcosa per cui mi sono detto: "Ecco, adesso puoi tornare a lasciarti andare". E finalmente, dopo tanto tempo, ci sono riuscito. E così è nata la storia».

Ed è andata bene.

«Beh, è andata bene perché ci abbiamo lavorato. Ci abbiamo lavorato tutti e due, ognuno per la sua parte. Perché noi siamo gente che se fa un patto poi lo rispetta. Rispettare le promesse è fondamentale perché ti fa essere uomo invece che bestia. Io non sono moralista eh, ma per me la promessa è sacra. Quando hai un famiglia cambia tutta la tua vita. Ma io prima ero immaturo, ero in un altro viaggio, non mi rendevo conto di certe cose. Prima non avevo paura di niente, andavo contro tutto. Poi quando ti nasce un figlio e tu nel frattempo sei diventato consapevole, incominci ad aver paura di tutto. Adesso non posso più fare tante cose perché quando nasce un figlio non sei più tu figlio: cominci ad essere padre. E allora capisci che il mondo non gira solo intorno a te, cambia la prospettiva. Per tanti anni andavo in giro a fare musica: che mi fregava della casa, delle cose da fare, da amministrare? Io non mi rendevo neanche conto: andavo in giro, stavo nello "stupido hotel" e mi divertivo e basta. Non pensavo».

Poi invece che cosa è successo?

«È successo che a un certo punto mi sono rotto le palle».

Perché?

«Certe sere mi trovavo a piangere. E non sapevo perché. Allora ho pensato: "Devo fare una cosa per cui almeno se piango c'è un motivo: devo trovare un' ancora, un punto fermo. Insomma, una famiglia". Quando fai una famiglia non ami più solo la donna, ami il progetto. È per il progetto che si fanno i sacrifici. L'amore non dura? È logico che l'amore e soprattutto la passione non durino. Si trasformano. Ma l'amore per il progetto deve durare. E ai figli devi cercare di dargli almeno vent'anni di serenità con un padre e una madre che non litigano davanti a te: non puoi essere così imbecille da far soffrire loro perché tu egoisticamente cambi idea. Io quando vedo quelle smandrappate in televisione che dicono "Eh sai poi a 50 anni mi sono innamorato di quest'altro qua" penso: "Ma stai scherzando? Tu a 50 anni sei lì che ti innamori ancora? Ma se vedi che ti stai innamorando, chiudi subito, perché se no fai soffrire le persone, cazzo!". Non è che io sto difendendo quel modello di famiglia da bacchettoni di cui tanti adesso si riempiono la bocca mentre fanno tutto il contrario, sia chiaro: non esistono nelle realtà quelle famiglie da Mulino Bianco. Però bisogna usare il cervello e affrontare le cose, tutto qui».

Scusa ma per ritornare da dove eravamo partiti, alla Giovanna (la vera ragazza che ha ispirato Albachiara, figlia del barista sotto casa di Vasco a Zocca), glielo hai poi detto che era lei la protagonista della canzone?

«Eh, certo che gliel'ho detto, ma un bel po' dopo. Eravamo in un locale, era diventata grande. Le ho detto: "Guarda che quella canzone lì io l'ho scritta per te"».

E lei come l’ha presa?

«Mi ha guardato come per dire: "Ma vaffanculo". Non ci credeva. E allora dagli e ridagli le ho fatto vedere che non scherzavo mica. Nel 1983 quando ho fatto Bollicine eccola lì: Una canzone per te. "Non ci credevi eh?" le faccio (lo dice come nella canzone, ndr) e invece eccola qua! (ride)». 

Infatti nel testo tu poi dici: "Una canzone per te/ come non è vero? sei te/ ma tu non ti ci riconosci neanche/ lei è troppo chiara/ e tu sei già troppo grande/ e io continuo a parlare di te".

«Esatto. Però attenzione: non sono canzoni " dedicate a", sono canzoni " ispirate da". Non è che io descrivevo la Giovanna come era veramente, infatti il personaggio reale non è esattamente quello di ma l' idea era quella e quando gliel' ho detto ho fatto proprio quel ragionamento lì ma lei non ci credeva anche proprio perché non si riconosceva nella descrizione fisica».

Poi però ci ha creduto…

«Eh ci ha creduto sì (ride)».

Le donne di Vasco.

«Sai nelle canzoni c'è la mia vita, anche se a volte poi nascevano delle leggende. In qualche caso ero io stesso a crearle. Per esempio ritornando a quella volta che sono andato a Sanremo per cantare qualche giorno prima di partire ero finito contro un albero e avevo distrutto la macchina completamente. Io però non mi ero fatto neanche un graffio (ride). Allora me ne vado a casa e il giorno dopo chiamo il mio discografico, Rapallo e lui: "Va beh, va beh, se non ti sei fatto niente allora dai, ci vediamo giovedì a Sanremo". A quel punto ci ripenso un attimo, lo richiamo e gli dico: " Guarda che mi sono sbagliato: la macchina non si è fatta niente, io invece mi sono fatto male per trenta milioni (ride) Se non me li dai non vengo a Sanremo". A quei tempi si viveva così: per vedere qualche soldo dovevi sempre ricattarli. Credevano che scherzassi: invece no. Non partivo. E infatti non sono partito fino a quando non mi ha dato l' assegno. Solo che a quel punto sono arrivato un giorno dopo e a Sanremo avevano già fatto le prove!"».

E quando finalmente sei arrivato che cosa è successo?

«Tutti quelli che incontravo mi guardavano come fossi un marziano. Due amici mi fermano e mi dicono: "Sei matto, ti stavano aspettando tutti, ma dove sei stato?"'. E io: "Ho trovato due ragazze in autostrada, sai ci siamo un po' divertiti". Tutto inventato. Ma ecco, così nascevano le leggende. Io alimentavo. Ci stava, no? Io vivevo in quel viaggio lì. A quei tempi il rischio me lo prendevo per fare una vita così bella: ne valeva la pena. Tra l' altro se morivo in quel periodo morivo giovane. Sarei diventato una leggenda. Invece sono bastian contrario per natura: non li ho accontentati quei moralisti che mi avrebbero visto bene schiantato contro un muro. Quando sei giovane è così. Il periodo duro invece è arrivato dopo, quando quel senso di invincibilità passa».

Certo che scandalizzare ti piaceva molto. Quell' anno lì di Sanremo non c' era solo Vita spericolata: c' era anche un altro pezzo che ha fatto la storia che si intitolava Bollicine. Anche lì non c' erano allusioni?

«Io raccontavo le cose che vedevo. E quello che vedevo in quel periodo era che dopo il " tempo delle mele" era arrivato quello delle pere. Certo, è chiaro che io giocavo sulla Coca Cola! Facevo apposta a ritardare nel dire la parola successiva, " Cola!", ma ancora una volta non era mica un inno: volevo che il benpensante si prendesse paura. Lui si aspettava Coca-ina? Eh, no: Coca-Cola!».

A proposito di Coca-Cola, non hai avuto problemi con la casa produttrice?

«In quel periodo mi voleva fare causa perché avevo danneggiato l' immagine "pura" (ride, della Coca- Cola. Poi, invece, non hanno fatto niente».

Quest' anno, a Sanremo, c' è stata una forte polemica contro Rolls Royce di Achille Lauro che, per alcuni, era un inno alla droga. Lui ti ammira molto. A te piace?

«Sì, a me è piaciuto: anche lui ha fatto la sua provocazione artistica. Anche quelli della trap, come Sfera Ebbasta, sono interessanti: ci puoi vedere il disagio giovanile di oggi. Inneggiano alla scarpa firmata, alla macchina grossa, i soldi. L' idealismo di ieri è stato ucciso, non ci credono più ma invece di condannare dovremmo cercare di capirne il significato».

Questo essere tuo essere " bastian contrario" lo ritroviamo in uno dei pezzi più importanti che hai scritto: Portatemi dio in cui parli di Dio e/o della sua assenza, un tema che ritornerà.

«Ma pensa: questo è proprio un pezzo che voglio riproporre nei nuovi concerti che farò! Come facevi a saperlo?».

Non lo sapevo assolutamente, mi stai dando una notizia.

«Con i nuovi concerti di fatto è come se riprendessi un discorso con la gente che veniva a vedermi da quei tempi. Parlerò dell' inclusione perché è la cosa più ragionevole e lo farò prendendomi la responsabilità del caso perché poi non è che io voglio parlare della situazione politica italiana, parlo dell' inclusione e dell' esclusione, punto. E a quel punto ha senso rifare un pezzo come perché, visto che ce la stiamo prendendo con tutto, prendiamocela anche con lui. Per chi crede dio ha lavorato per sei giorni e il settimo si è riposato ma allora, visto come siamo messi poteva lavorare anche il settimo: così poteva perfezionarlo un po' il mondo, no ( ride)? Io credo che tutte le religioni aiutino a vivere meglio: per me se uno ha la fede è fortunato. Io purtroppo non ce l' ho, vedo le cose come stanno: credo che noi siamo un caso, che la vita è un caso, è una necessità, non è un dono. Io cerco di fare il meglio che posso ma non perché io devo essere buono o perché c' è un dio buono. È chiaro che aspiro a essere meglio di quello che sono ma per la gente che ho vicino, per mio figlio, mia moglie, per i miei amici e anche per me».

Siamo soli?

«Sì. Ma non c' è da preoccuparsi: a volte meglio soli che male accompagnati. Non voglio avere una visione troppo semplice, stupida della felicità».

Grazie Vasco.

“Grazie a te per la seduta di psicanalisi”.

Io e Vasco. Quarant'anni dopo, scrive il 21 aprile 2019 La Repubblica. Ho letto la bella intervista di Luca Valtorta a Vasco Rossi, pubblicata da Robinson su Repubblica, nei giorni scorsi. Con attenzione e interesse, perché tratteggia in modo suggestivo il profilo di una figura che ha segnato il nostro tempo e la nostra cultura. Più e meglio di molti protagonisti della politica, di cui mi sono occupato e mi occupo, da tempo. Perché Vasco, nelle sue canzoni e nelle sue ballate, propone immagini e parole che incrociano la nostra storia. E la nostra biografia. Anche la mia. Ricordo quando, 40 anni fa, all'inizio del 1979, ho trascorso a Napoli alcuni giorni all'ospedale militare. Pochi. Utili e necessari a farmi riconoscere in-abile. Come una persona praticamente cieca di un occhio. Ma io ricorderò sempre quel ricovero, per un'altra ragione. Perché nel letto accanto, alla mia sinistra, era ricoverato un giovane - mio coetaneo - simpatico e ... scanzonato. Generoso. Quando se ne andò, dopo un paio di giorni, distribuì quel che aveva nel portafoglio ad alcuni compagni di camera.  Molto più "sfigati" di lui. Che aveva un'attività redditizia. Faceva il deejay al Picchio Rosso. Una discoteca molto nota, nel modenese. Inoltre, cantava. Aveva già inciso un disco e ne stava preparando un altro. Sul quale scommetteva. E non poteva, non voleva, restare in una caserma, proprio allora. Perché rischiava di "perdere il famoso treno". Quel ragazzo si chiamava e si chiama ancora: Vasco. Sì, proprio lui: Vasco Rossi. Un artista che ha segnato il nostro tempo con la sua musica. Con le sue canzoni. Vasco, naturalmente, non ha memoria di quell'incontro. Non ha memoria di me. Che ho seguito un percorso diverso. Anche se, in verità, i suoi pezzi li so cantare. E li ho cantati, in alcune occasioni. Private. Da solo e in compagnia. "Vita spericolata", per me, è un inno. Alla mia biografia "senza limiti e senza freni"...Quell'incontro, con Vasco all'ospedale: resta "memorabile". Come un altro, avvenuto pochi mesi dopo. A Vicenza. Nel maggio 1979. A Piazza dei Signori. Dove tenne un concerto. Andai ad ascoltarlo, insieme a Paola, in Piazza dei Signori. Eravamo pochi davanti al palco. Qualche decina di persone. Dalle scale del Caffè Garibaldi, lì accanto, un gruppo di ragazzi gli lanciava freccette di carta. Mentre un ubriaco tentava di salire su palco, gridando: "Fammi un tango". Puntualmente respinto, risaliva. Finché Vasco, decise di finirla lì. Cantò una ballata che echeggiava un tango: "La nostra relazione". E chiuse il concerto. In quel momento, mi avvicinai per salutarlo. Ci soffermammo alcuni minuti. Giusto il tempo di scambiare qualche parola, per rammentare i pochi giorni trascorsi insieme. Mesi prima. E vederlo ripartire. Comprensibilmente incazzato. Quel concerto, per lui, fu una svolta. Perché, come affermò in un'intervista a Vanity, "mentre tornavo a casa in macchina mi dissi: non permetterò mai più a nessuno di trattarmi così". E, infatti, non è più avvenuto. In seguito, l'ho ri-visto solo in alcuni grandi concerti.  In mezzo al pubblico. Però, quarant'anni dopo, io ricordo ancora. Quel concerto. E quei giorni trascorsi all'ospedale militare di Napoli. Accanto a Vasco. Vasco. Con le sue canzoni, ha echeggiato le svolte della società. Della politica. Anche se ne è sempre rimasto fuori - lontano. Tuttavia, ha dato voce al sentimento del nostro tempo. Di generazione in generazione. E quando la speranza si eclissa, quando il tempo sembra sospeso, come ai giorni nostri, puoi rammentare e amplificare le sue parole. Quando canta: "C'è chi dice no". 

·         Achille Lauro come l' armatore.

Ilaria Del Prete per leggo.it il 20 ottobre 2019. Premio Tenco 2019 nella polemica. Pietra dello scandalo, la presenza di Achille Lauro alla rassegna. Il trapper, che già divise la critica dopo la partecipazione all'ultimo Festival di Sanremo, ha cantanto sul palco dell'Ariston "Lontano lontano" suscitando ancora una volta reazioni contrastanti. La più recente, quella di Francesco Baccini. Il cantautore, che più di una volta è stato protagonista di critiche accese al mondo discografico, ha pubblicato sul suo profilo Facebook un post inequivocabile:  «Il premio Tenco negli anni 70/80/90/00 era l'università della canzone. Era il Tenco di Amilcare Rambald, gli ospiti si chiamavano Tom Waits, Joni Mitchell, Nick Cave, Paolo Conte, Francesco Guccini...Quel palco faceva paura. I giornalisti non andavano al Festival ma venivano tutti al Tenco. Salire su quel palco aveva un significato enorme, era quasi sacro. Oggi vedere uno che rutta un "lontano lontano" su quel palco rappresenta la fine di un epoca. Ci vuole il rispetto e la conoscenza della musica , BASTA PAGLIACCI TRAVESTITI DA ARTISTI. LUIGI SI RIVOLTA NELLA TOMBA». Parole durissime quelle di Francesco Baccini, che danno risonanza a un sentimento espresso anche sui social durante l'esibizione di Achille Lauro. Già alla vigilia della manifestazione gli eredi di Luigi Tenco si erano dissociati dall'evento in corso dal 17 al 19 ottobre al Teatro Ariston di Sanremo con una presa di posizione durissima: «La distorsione della storia del cantautorato, diffusa addirittura da chi dovrebbe rappresentare il Tenco 2019, evidenzia interessi ben lontani da quelli perseguiti per decenni dal Premio Tenco». Da parte sua, il trapper ha avuto modo di rispondere alla presa di posizione dei familiari di Tenco così: «La famiglia di questa persona non dovrebbe scagliarsi contro un ragazzo che scrive canzoni, dovrebbe magari ascoltarle, provare a capire, informarsi. Può sembrare strano ma io sono un cantautore. Io ho qualcosa in comune con Tenco: essere incompreso».

Rita Vecchio per leggo.it il 21 ottobre 2019. Sipario del premio Tenco chiuso, luci ancora accese. Un’edizione, la 43esima, aperta da Achille Lauro con l’omaggio di Lontano, Lontano e piena di polemiche già prima di cominciare. Il comunicato degli eredi di Luigi Tenco, acqua gelata con cui esprimono disappunto sulla scelta - più commerciale che artistica, a loro dire - di fare esibire il rapper romano. E il post di Francesco Baccini, dopo l’esibizione, che allude con un fuoco e fiamme di parole a una caduta di qualità dell’intera rassegna della musica d’autore. In difesa del rapper romano si sono schierati Cristiano Malgioglio e Fiorello. Ma dai camerini dell’Ariston, risponde Morgan, in arte Marco Castoldi, co-conduttore del Premio Tenco 2019 insieme ad Antonio Silva.

Partiamo da Baccini: al Tenco di oggi ci sono solo «pagliacci vestiti da artisti»?

«No, c’è un direttivo che punta alla qualità. Lui è polemico. È inferocito perché ha sempre avuto a cuore la musica. Importante non si riferisse a me… Si riferiva a me?»

Non credo. L’allusione era ad Achille Lauro.

«Per Lontano, lontano?».

Esatto. E ha sparato a zero sui social.

«Ha fatto bene. La performance di Lauro è andata male. Questo potrebbe servirgli di lezione. Lui aveva studiato, ma è un insicuro schiacciato dalla sua stessa insicurezza. E quando fanno successo, gli insicuri cercano di ovviare all’insicurezza con grandi produzioni, tanti assistenti e mille prove. Ma (per mettersi sul palco) la musica bisogna padroneggiarla».

Gli eredi Tenco, invece, lo avevano già criticato.

«Gli eredi dovrebbero tacere. Stanno gestendo male: sono parenti di un genio e non se ne rendono conto. Ho proposto più volte il restauro dell’opera di Tenco, risorsa per l’Italia. Hanno una grande responsabilità, e invece antepongono motivi personali. La sua musica non è un hobby».

Ci vorrebbe più tutela?

«Assolutamente. Pensi a quello che è successo a me. Strappare un artista dallo studio di registrazione e non essere tutelato nemmeno da organi come SIAE che invece dovrebbero».

Sempre per Baccini, il Tenco non è più “l’università della canzone” di una volta.

«Ha sempre rappresentato da una parte la canzone d’autore, e dall’altra la scoperta della canzone d’autore. Quest’anno più che mai, si è aperto al pop senza pregiudizi. Ci sono realtà che possono avere tratti di mainstream e delle radio ma rimanere dialoganti con la canzone d’autore. Io per primo sono uno di questi».

Cosa manca del Tenco al Festival?

«L’amore per le canzoni. Vincono gli interessi e direttori artistici interessanti come Baglioni o Fazio, ne sono alla fine schiacciati. Cosa che qui manca».

Lei farebbe il direttore artistico?

«Sì. Mi divertirebbe».

Glielo hanno chiesto?

«Lungi da loro».

Perché?

«Non ci sono le condizioni (almeno per ora)».

Si presenterà in gara?

«Se mi vorranno…»

Quindi sulla scrivania di Amadeus c’è già una canzone?

«Più di una».

Morgan da solo o con i Bluvertigo?

Paolo Giordano per “il Giornale” il 6 giugno 2019. Lui esce di corsa, finito lo show, vestito come una rockstar glam anni '70 e Gino Paoli gli fa: «Tu sei Achille Lauro come l' armatore?». L' incontro tra due generazioni distinte e distanti. Achille Lauro, al secolo Lauro De Marinis classe 1990, è stato la rivelazione del Festival di Sanremo e il suo ultimo brano C' est la vie è stato molto alto nelle rotazioni radiofoniche. «Ora c' è 1969 che ci accompagnerà tutta l' estate», spiega uscendo dall' Arena di Verona dopo essere stato premiato ai Seat Music Awards. Sul palco dell' Ariston, la sua Rolls Royce ha convinto tutti e scatenato molte polemiche perché ritenuto un inno alla droga. «Ma no, è tutt' altro», dice lui che poi chiarirà per filo e per segno tutta la polemica. Ora, piaccia o no, è uno dei golden boy della nostra musica e la prima cosa che gli viene da dire è: «Per fortuna sono riuscito a togliermi di dosso l' etichetta di trapper. Nulla contro il genere, sia chiaro, ma io sono diverso». E basta vederlo o ascoltarlo per accorgersene.

Partiamo dal Festival.

«Ci sono entrato in un modo e sono uscito in un altro. Ero ghettizzato in un preciso genere musicale e invece ho dimostrato di essere libero. E dire che Rolls Royce era pronta da un anno e mezzo, aspettavo solo la vetrina giusta».

Ma le conseguenze sono state anche pesanti.

«La campagna contro di me di un programma (Striscia la Notizia) che è andata avanti per oltre venti giorni dopo la fine del Festival. Sapevo che a Sanremo si sarebbe smosso qualcosa, Ma non pensavo di finire sotto la gogna così per caso».

Insomma Rolls Royce è un inno alla droga oppure no?

«Ma no, non c' entra nulla. Anche quando canto Voglio una vita così... mi riferisco al lusso, allo stile di vita, non certo alle droghe. Certi programmi dovrebbero fare informazione vera, non inventarsi i casi».

Ma lei che rapporto ha con la droga?

«Vengo da un quartiere di Roma molto difficile, dove si spaccia alla luce del sole. Se sei intelligente, ti distacchi dalla droga.Altrimenti ne sei vittima».

E lei?

«Ho vissuto per tanto tempo con mio fratello in una specie di comune dove passavano sempre artisti, pittori, musicanti. C' era Coez e c' erano altri artisti. La droga girava, ma come dappertutto. Né più né meno. Però moltissimi ragazzi non conoscono davvero il pericolo della droga. Io che vengo da un quartiere di merda, invece lo conosco bene. La droga è veleno che uno inala o che si inietta, non si può parlarne così superficialmente.

In ogni caso, il problema più grande della mia generazione non sono gli stupefacenti, ma il non sapere cosa fare della nostra vita. Da qui nascono tutti i vizi».

Achille Lauro dimostra di non essere il «solito rapper» invasato che parla solo di lusso e futulità.

«Sono figlio di persone normali che si sono fatte il mazzo. Mio padre è stato un professore universitario, mia mamma mi ha insegnato tanto. Ma, vivendo in quartieri complicati, ho sviluppato una forma di allergia all' ignoranza. Mi sentivo male dentro, non sapevo quale posto avere nel mondo. Così mi sono fatto un' overdose di cultura, ho letto libri, guardato film e sono uscito dai clichè».

Emis Killa e altri speravano lei vincesse il Festival.

«Ma la vittoria di Mahmood è stata giusta, è giovane e ha talento. A Sanremo si premiano altre cose rispetto a quelle che faccio io. Io ad esempio premierei l' imperfezione di talento, non la perfezione a tutti i costi...».

Però.

«Però da lì ne sono uscito con una iniezione di creatività».

Seguirà le mode?

«Se c' è una moda, io non la seguo di certo, vado dall' altra parte. E' un istinto che ho, non riesco a sopprimerlo».

E quindi adesso?

«Adesso scompongo e ricompongo la musica. Dopo il rock' n'roll punk di Rolls Royce, sto scrivendo un album nel quale mescolo swing e blues e altri generi. Diciamo che vorrei andare oltre».

Il suo guardaroba invece punta all' indietro. Agli anni Settanta, si direbbe.

«Ho cambiato look molto spesso e spesso mi hanno criticato. Insomma, ho sempre avuto vestiti strampalati. In questi ultimi tempi sono stato folgorato dallo stile di David Bowie e dal look alla Velvet Goldmine. Dopotutto ho 28 anni, mica mi sono vestire ancora con jeans e scarpette».

Dago Spia il 6 giugno 2019. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO DA STRISCIA LA NOTIZIA. Spettabile direttore, abbiamo letto l’intervista ad Achille Lauro, pubblicata su Il Giornale del 6 giugno 2019, dove il rapper sostiene che, quando canta i versi di Rolls Royce e in particolare il passaggio «Voglio una vita così...», fa riferimento «al lusso, allo stile di vita, non certo alle droghe». Peccato che il verso completo, che dà il senso a tutto il brano, sia «Voglio una vita così, VOGLIO UNA FINE COSÌ». Lauro dunque si augura uno stile di vita e una conseguente morte, come quelle delle celebrità che cita: nella canzone sono presenti, tra gli altri, Amy Winehouse, Jim Morrison, Jimi Hendrix… E tutti (tranne forse Lauro e il vostro giornalista) ricordano quali sono state le vite (e soprattutto le morti) degli artisti citati nel brano. Nel caso di Rolls Royce, Striscia la notizia ha dimostrato più volte che quei versi, ci piace definirli così, acquistano un senso solo se si leggono come un’ossessiva invocazione alla droga, elemento che ha segnato gran parte della vita dell’artista. Lo scrive anche nella sua autobiografia (uscita appena qualche mese fa), nel capitolo «Confessioni di un pusher» (omen nomen), in cui racconta: «Compravo l’erba a 1,5 euro da questa importante famiglia e la rivendevo a 7. In un giorno senza aver fatto niente se non coordinare i ragazzi mi ritrovavo ad aver guadagnato 20 mila euro». Il giornalista evidentemente non ha letto l’autobiografia di Lauro e dimentica che il rapper, alla presentazione del suo primo disco, ammetteva: «Io scrivo solo ed esclusivamente sotto l'effetto di stupefacenti. La droga è assolutamente fondamentale per la nostra creatività, oltre che per la nostra ispirazione musicale». Ma torniamo alla canzone: con una rapida ricerca in rete si «scopre» facilmente che Rolls Royce è una pasticca di ecstasy, con impresso il marchio della nota macchina inglese, cha ha sul radiatore la statuetta chiamata «Spirit of Ecstasy». Striscia, poi, ha più volte fornito l’analisi del testo. Eccola. Partiamo dal primo verso: “Sdraiato a terra come i Doors”. Sia il leader Jim Morrison, morto giovanissimo, sia gli altri componenti della band sono passati alla storia per gli eccessi psichedelici. Andiamo avanti: “Perdo la testa come Kevin”. Kevin è il nome del protagonista del film Mamma ho perso l’aereo. In questo caso perde la testa, non l’aereo, riducendosi, come tutti sanno, a una larva per droga. “A 27 come Amy”. Amy Winehouse, morta a 27 anni dopo un passato da tossicodipendente. “Sì come Marilyn Monroe”. Anche lei morta per un’overdose di pasticche. “Chitarra in perla Billie Joe”. Il leader dei Green Day che ha confessato di aver fatto largo uso di droghe. “Suono per terra come Hendrix”. Il famoso chitarrista, morto anche lui giovanissimo dopo aver abusato a lungo di sostanze. “Viva Las Vegas come Elvis”. Elvis è Presley, dedito allo sballo da stupefacenti. Las Vegas, invece, è un’altra canzone di Lauro dove vengono citate “MD, special K, lisergico in cale”. “È Axl Rose”, leader dei Guns N’ Roses, altro artista che ha abusato a lungo di droghe. Più sotto viene citata un’altra band, i Rolling Stones, gruppo stupefacente da tutti i punti di vista. E ancora: “No, non è un drink, è Paul Gascoigne”. Il calciatore inglese che ha trascorso una vita funestata da alcol e droghe. Non manca neppure un riferimento a Miami Vice (il vizio di Miami), nota serie televisiva sul narcotraffico. Nell’intervista, infine, Lauro insinua: «Certi programmi dovrebbero fare informazione vera, non inventarsi i casi». Striscia la notizia non inventa casi, ma da trent’anni denuncia quello che altri nascondono o non vogliono vedere. Lo sanno tutti, tranne forse chi scrive «solo ed esclusivamente sotto l’effetto di stupefacenti».

·         Salmo e i concerti sulla nave.

Salmo e i concerti sulla nave: «E pensare che la odiavo». Pubblicato sabato, 22 giugno 2019 da Andrea Laffranchi su Corriere.it. Un concerto, anzi un festival, su una nave. In Inghilterra la crociera rock è roba da nostalgici over 40 con artisti ripescati dalla memoria. Il mezzo è lo stesso, ma la generazione coinvolta sono i millenials. Il progetto si chiama Open Sea Republic è l’idea è di Salmo. «Essendo sardo ho fatto anni di viaggi in nave per andare a suonare dove ci chiamavano. Caricavamo il furgone con gli strumenti e noi prendevamo il posto ponte per risparmiare. La odiavo e mi immaginavo un giorno su una nave mia», racconta il rapper. Il giorno è arrivato e dopo un anno di soddisfazioni sia per il disco «Playlist» che per il tour, si è imbarcato. Con la collaborazione di Red Bull e GNV ha preso un traghetto e lo ha riempito di colleghi fra hip hop ed elettronica: Gemitaiz, Franco 126, Crookers, Frenetik e Orang3. E da venerdì 21 a domenica 23 ha fatto la spola fra Genova e Olbia. Dj set e spettacoli in spazi diversi («Non c’è via di fuga dalla musica») e il suo show: «Uno spettacolo pensato ad hoc, una via di mezzo fra dj set e concerto con uno spirito molto roots». Salmo a Olbia c’è nato. «Amore e odio. Mi viene il mal di Sardegna se ci sto lontano, ma appena ci torno mi viene voglia di scappare. Ci vado d’estate e penso che sia il posto dove tornare per invecchiare». «Playlist» è stato certificato triplo platino ed è stato l’album con il maggior numero di stream su Spotify nel giorno d’uscita (circa 10 milioni di tracce) e il tour nei palazzetti ha infilato sold out. «Ci speravo, ma non così tanto. “90 min”, primo singolo, è un pezzo violento con qualcosa di anni 90 e ha fatto il botto». Un pezzo che non faceva sconti all’Italia, che parlava di «disoccupati con ferie pagate», mafia, poteri forti e porti chiusi... «Avevo tante cose da dire ma non volevo fosse un pezzo militante. Non faccio politica, non chiedo il voto», dice. Se l’è presa con chi compra i suoi dischi e vota Salvini. «Ho un pubblico grande e scrivo per loro. I più giovani spero che capiranno crescendo. Anche io certe cose non le capivo a 16 anni e ci sono tornato sopra adesso». Fa l’esempio di Caravaggio. «L’ho ristudiato per motivi di lavoro. Mi sono innamorato: era un genio e un criminale. ha inventato la fotografia. Non per la luce, ma per la geometria delle sue composizioni. Da figlio di un architetto ha portato la geometria nella pittura». Il panorama musicale, non solo l’hip hop, ha perso la voglia di analizzare e criticare la società. «I giovani, anche se fanno gli artisti, hanno perso interesse, non seguono la politica. Ma è sbagliato vivere questi anni caotici senza dire niente. Non sei obbligato a esprimerti, ma le parole ti aiutano a restare nel tempo. Se riesci a toccare la gente diventi immortale». Machete crew, il suo collettivo, non si occupa soltanto di musica. È appena entrato nel mondo del gaming («Mi piacerebbe arrivare a sviluppare un gioco con i nostri personaggi») e da tempo è in quello dei videoclip. «Il video sta perdendo valore. Non conviene investire in qualità se in classifica ti ritrovi un bambino che si scaccola. Stiamo per fronteggiare un periodo in cui le rivoluzioni saranno ravvicinate. Una volta si ragionava in decenni, presto arriveranno le decadi».

·         I Linea 77.

I Linea 77 si «alleano» con Salmo: se il rap incontra il metal. Pubblicato giovedì, 10 ottobre 2019 da Corriere.it. In tempi di collaborazioni anche il metal di lungo corso si fonde con i giovani re Mida della musica italiana: i rapper. Con 26 anni di carriera sulle spalle, i Linea 77 stanno per pubblicare, l'11 ottobre, il loro album più eccentrico, Server Sirena, dove il loro suono metal si fonde alle rime dei re Mida della musica italiana: i rapper. «Siamo vecchietti che si divertono a fare ciò che vogliono senza pressione artistica o economica», raccontano al Corriere della Sera Nitto e Dade, due componenti storici della band nata a Torino nel 1993 che ha suonato accanto a numi tutelari come Korn, Rage Against The Machine, Deftones, Soulfly e che è riuscita a far cantare il metal anche a Tiziano Ferro (In Sogni Risplendono). L'alleanza vede al centro Salmo, lo scalatore di classifiche, con la sua crew, i Machete, che da soli sono riusciti a riempire quasi tutta la chart dei pezzi più ascoltati nel nostro Paese. Ma oltre a Dj Slait, Jack The Smoker ed Hell Raton, i «Linea» hanno invitato anche Ensi («Lo abbiamo visto crescere mentre faceva freestyle sui murazzi»), il decano Caparezza, e, ovviamente, Samuel, «l'amico di sempre» che proprio come i Linea 77 si muoveva nella Torino più viva che mai, quella degli anni a cavallo del Millennio. Album breve, questo Server Sirena, giusto sei tracce, ma in cui la band esplode, non dà un momento di tregua e spedisce un muro sonoro nelle orecchie dell'ascoltatore. L'apertura è ovviamente per Salmo che con AK 77 crea una citazione continua di Full Metal Jacket poi ripresa anche nel video. Altro pezzo da ascoltare è Play & Rewind in cui le voci di Caparezza ed Hell Raton si fondono a un tappeto sonoro drum and bass, genere che sembra del tutto deceduto in Italia. Oltre alla fusione rap-metal (non del tutto inedita: lo faceva già il nu metal negli anni '90) c'è un altro ingrediente di Server Sirena: la produzione di Sir Bob Cornelius Rifo, l'uomo mascherato che con i suoi Bloody Beetroots offre una techno graffiante e potente. «È stato come inserire la nostra musica nel tritacarne e poi far uscire una bomba», dice Nitto, «E lo è proprio», gli fa eco Dade. Creare questa miscela di culture, appartenenze sociali e generazioni non è stato facile, confessano i due. «Con la nostra musica noi lanciamo messaggi, anche sociali, denunciamo e raccontiamo mentre il rapper generalmente parla di se stesso», spiega Dade, «Per Server Sirena abbiamo tentato di dare meno messaggi, ci eravamo imposti di usare un linguaggio più facile, frivolo, anche stupido se vuoi... ma non credo che ci siamo riusciti», dice ridendo. L'appuntamento ora è per il 18 ottobre, quando uscirà il disco, ma soprattutto per il 6 novembre quando i Linea 77 calcheranno il palco dell'Alcatraz accompagnati dai tanti ospiti dell'album. Da una parte sarà interessante vedere la reazione dei ventenni. «Quando abbiamo aperto i concerti di Salmo i ragazzi ci guardavano a bocca aperta: non erano abituati all'energia di una band di sei elementi che si muove sul palco», racconta Nitto. Sarà curioso però vedere la faccia anche dei fan di lungo corso dei Linea 77 che oggi hanno qualche capello bianco. Una curiosità condivisa anche dai due artisti: «Molti ci chiedono di non cambiare mai», chiosa Dade, «ma come può una persona rimanere sempre se stessa?».

·         Una vita da Madonna.

Da gazzetta.it il 20 settembre 2019. Sono stati una delle coppie più chiacchierate d’America solo per qualche mese, nel 1994. Ma Dennis Rodman e Madonna, 25 anni dopo, tornano a fare rumore. La “colpa” è dell’ex star dei Bulls, che in un’intervista con The Breakfast Club ha fatto una rivelazione clamorosa: “Mi ha detto che se l’avessi messa incinta mi avrebbe dato 20 milioni. Se il bambino fosse nato ovviamente”. Rodman, che oggi ha 58 anni e sta facendo il giro media per promuovere un documentario che Espn gli ha dedicato, ha raccontato che Madonna era seria perché voleva a tutti i costi un figlio. The Worm ha anche aggiunto di essere convinto di non essere l’unico a cui la regina del pop ha fatto questa proposta, insinuando che il figlio che Madonna ha avuto da Carlos Leon dopo la loro relazione sia frutto di un accordo simile. “Una volta mi ha chiamato per dirmi che stava ovulando - ha aggiunto durante l’intervista a proposito della loro relazione -. Lei era a New York, a casa sua, io in un casinò di Las Vegas a giocare a dadi. Le ho detto che sarei arrivato: ha mandato un aereo a prendermi all’aeroporto, sono andato a casa sua, ho fatto quello che dovevo e sono tornato a Las Vegas a giocare a dadi”.

LA RELAZIONE—   Rodman e Madonna facevano coppia alla fine della prima stagione del lungo con gli Spurs, nel 1994. “E’ stata una cosa passeggera ma intensa - ha detto il 5 volte campione Nba a Usa Today -. Ci siamo trovati nel momento perfetto: la sua carriera al tempo era in una fase di stallo mentre io ero in ascesa. Ci siamo motivati a vicenda, riuscendo per un po’ ad andare nella stessa direzione”. Rodman ha anche raccontato di quando Madonna fece una comparsata nello spogliatoio degli Spurs dopo una partita coi Lakers a Los Angeles: “Era l’ultima gara della stagione, era seduta in prima fila. Dopo la partita me la sono ritrovata seduta davanti al mio armadietto, ma io non l’avevo invitata. I miei compagni erano tutti sorpresi, ma anche se avevano addosso solo gli asciugamani si sono messi in fila per una foto con lei. E dopo siamo andati a casa sua. Vivevo così a quel tempo, ero un giocatore ma anche una rock star”.

Madonna ai fan che le fanno causa per il concerto posticipato di due ore: «Una regina non è mai in ritardo». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. I fan storici lo sanno. Madonna non è una star puntuale. Da anni i suoi concerti iniziano spesso con ore di ritardo. Per rimediare la 61enne ha deciso da un giorno all'altro di posticipare i concerti del Madame X Tour di due ore, dalle 20.30 alle 22.30. Peccato che alcuni fan non l'abbiano presa bene e stiano pensando a una class action contro la cantante. Chi già si è mosso invece è Nate Hollander, un ammiratore della Florida, che ha citato in tribunale la popstar e Live Nation, la società che gestisce la vendita dei biglietti.

«Troppe ore di ritardo nel suo Madame X Tour»: così i fan fanno causa a Madonna. Mario Manca su  vanityfair.it l11 Novembre 2019. Oltre due ore e mezza di ritardo negli spettacoli già andati in scena e lo slittamento di tutti quelli successivi per evitare che l'inconveniente si ripeta. Così i fan della Regina del Pop reagiscono a una vecchia abitudine che non sembra migliorare. La regina si fa attendere. Nella sua carriera più che trentennale, Madonna di ritardi nei suoi tour ne ha accumulati parecchi, andando spesso incontro alle proteste dei fan. L’ultima in ordine di tempo è quella sollevata da Nate Hollander, che ha presentato causa contro la popstar per via dello spostamento d’orario della tappa del Madame X Tour che andrà in scena al Miami Beach Filmore il prossimo 17 dicembre. Il ragazzo, che avrebbe acquistato tre biglietti per un totale di 1.024,95 dollari, si sarebbe trovato, dall’oggi al domani, di fronte a uno slittamento di orario considerevole: dalle 20.30 alle 22.30. Cosa che non gli permetterebbe di partecipare all’evento per via del coprifuoco che la contea di Miami-Dade applica sugli adolescenti di età inferiore ai 18 anni, che non possono uscire accompagnati da un adulto dopo le 23. A lui si aggiungono, però, moltissimi altri spettatori per niente contenti dei ritardi di Madonna, che sulla scena continua a comparire molto tardi rispetto all’orario stabilito. Sabato 9 novembre, a Las Vegas, la Regina del Pop ha scelto di farsi viva più di due ore e mezza dopo di quanto stabilito sul biglietto: motivo che ha spinto Live Nation a posticipare l’orario di inizio di tutti gli spettacoli successivi proprio per evitare che i fan aspettino così tanto tempo la performance della loro idola. Il discorso è, tuttavia, un po’ più complesso stavolta. Specie se consideriamo non solo il divieto assoluto di riprendere l’evento, ma anche le cifre esorbitanti richieste dalla cantante: un sacrificio economico che potrebbe essere più sereno se lo show cominciasse in orario, garantendo, così, il rispetto per chi quei biglietti li ha acquistati non senza qualche sacrificio. Com’è nel suo stile, però, Madonna non sembra preoccuparsi dell’accaduto. Come quella volta che fu fischiata per essersi fatta vedere in ritardo e lei aveva risposto alla platea «siete voi che siete in anticipo». Al momento la causa contro la popstar non sembrerebbe dare i risultati sperati: Live Nation ha fatto sapere a Hollander che non otterrà il rimborso dei biglietti e il giovane, di tutto punto, spiega che, a causa dell’orario spostato, il prezzo di rivendita sarà molto inferiore rispetto alla cifra pagata da lui. Insoddisfatti per il ritardo degli spettacoli precedenti e innervositi per lo slittamento di quelli successivi, i fan non hanno altra valvola di sfogo se non quella di Twitter, che colleziona migliaia di proteste. Come quella degli spettatori dello show messo in piedi giovedì 7 novembre, al quale Madonna si sarebbe presentata solo a mezzanotte. 

Da ilfattoquotidiano.it. Brigitte Nielsen è stata ospite della trasmissione televisiva The Talk, in onda sulla statunitense Cbs. E la 56enne non ha lesinato aneddoti sul suo passato, soprattutto quelli riguardanti la rivalità con Madonna. Il “gancio” è stato la recente decisione della popstar di posticipare di due ore i suoi concerti: “Una completa mancanza di rispetto dei fan”. A quel punto l’attrice ha raccontato due episodi. Siamo nel 1987, a Los Angeles, e stando al racconto di Brigitte, in un locale c’è stato un clamoroso ceffone: “Nel 1987, ero in un club in centro con Madonna e lei continuava a offendermi. Era molto scortese e ho finito per darle uno schiaffo in faccia”. Lo schiaffo sarebbe stato piuttosto forte, anche perché la stazza dell’attrice è molto più ‘importante’ di quella della cantante. Ma non è finita qui: “Il meglio della storia deve ancora venire – ha proseguito l’attrice – Un paio di mesi dopo sono tornata da lei nel sud Francia e ho passato una notte con suo marito Sean Penn“. Madonna ha poi divorziato dall’attore nel 1989. Al tempo Brigitte era invece sposata con Stallone.

PERCHÉ I TEATRI ITALIANI NON VOGLIONO UNO SHOW DI MADONNA? Paolo Giordano per ''il Giornale'' il 22 giugno 2019. Poi uno si chiede perché sempre più spesso il grande pubblico non va a teatro. L'altro giorno Madonna ha confermato di aver chiesto alla Scala di potersi esibire e di aver ricevuto un secco no: «Non c'è posto lì per gente come me». Attenzione, lei non ha proposto uno spettacolo alla sua maniera, ossia provocatoria, colossale e sfrenata, ma uno show più riservato e comunque unico. Per capirci, un evento one shot, non un'abitudine. Nel resto del mondo, la sua idea è stata quasi sempre accettata e lei farà debuttare il suo tour con quasi un mese di esibizioni al BAM Howard Gilman Opera House di New York dal 12 settembre, mica in un teatrino periferico. Però la Scala ha detto di no e ancora si è in attesa di capire come mai. Va bene i cambi al vertice (Meyer al posto di Pereira), va bene l'aura di sacralità che avvolge la Scala. Ma Madonna è Madonna, un'artista che è un simbolo transeunte e ormai slegato dal semplice pop. E l'Italia è l'unico grande paese al momento escluso dal suo tour. Oltre trent'anni fa la Scala aveva rifiutato anche Frank Zappa, ma il personaggio e i tempi non sono paragonabili a quelli di oggi, neanche un po'. In ogni caso, dopo il gran rifiuto della Scala, soltanto il Teatro San Carlo di Napoli si è fatto avanti con l'invito della lungimirante sovrintendente Rosanna Purchia. Poi stop. Nessun altro teatro ha ritenuto di candidarsi. Zero offerte. Nessuna proposta. I nostri grandi teatri, che peraltro si lamentano sempre per la crisi, hanno ritenuto che un'occasione del genere non facesse al caso loro. Dai, Madonna è troppo popolare per i nostri cartelloni super raffinati. Certo, l'arrivo della più grande delle dive musicali sarebbe un problema logistico per tutti, visto il putiferio che si porta dietro. Ma diventerebbe anche una passerella sulla ribalta mondiale. Non sarebbe un «abbassamento» di profilo, anzi. Dimostrerebbe quella duttilità ormai indispensabile a qualsiasi struttura che voglia restare al centro dell'intrattenimento e della cultura. A fine intervista, Madonna ci ha detto sorridendo: «Ci vediamo al Teatro dell'Opera di Roma». Stava scherzando. Ma perché non potrebbe finire davvero così? Inspiegabile.

Madonna, «Noi abbiamo Trump, non lo scambierei con Salvini». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Andrea Laffranchi, su Corriere.it. Come agente segreto avrebbe potuto trovare una parola d’ordine più blindata. Sul portone in stile georgiano del members club nella zona di Marylebone dove ci aspetta Madame X-Madonna, c’è un cartello che avvisa della chiusura per un evento privato. Basta dire «evento privato» per avere accesso alle sale. L’agente segreto «Madame X», titolo anche del suo ultimo album, è l’ultima reincarnazione della regina del pop. «Era il soprannome che mi diede Martha Graham perché non mi adeguavo all’uniforme della sua scuola di danza. Penso che per lei fosse un insulto, ma io lo prendevo come un complimento. Non è lei l’unica musa... Ho creato una storia basandomi sulle Avventure della ragazza cattiva di Vargas Llosa e sulla storia di Ingrid Betancourt (la militante rapita dalla guerriglia colombiana, ndr)», racconta fasciata in un abito verde a fiori gialli e con una benda piratesca impreziosita da una «x» di brillanti sull’occhio sinistro. Le labbra cucite della foto di copertina raccontano invece qualcosa di intimo e privato: «Alla morte di mia madre mi chinai sulla bara per un bacio. Aveva le labbra cucite, una volta si usava... non ho mai dimenticato lo choc». L’agente segreto si sporca le mani con la politica. Nei testi delle nuove canzoni si schiera contro la diffusione delle armi in America («God Control»), a difesa di Israele, islam, donne stuprate, gay, bambini sfruttati («Killers Who Are Partying»)... Madonna crede ancora che le canzoni possano cambiare il mondo: «Abbiamo bisogno che la musica sia anche politica. Marvin Gaye, John Lennon, Bob Marley... scrivevano brani memorabili ma anche politici: spero tornino quei tempi». In una delle versioni dell’album, un brano si chiama «Ciao bella»: «È il mio omaggio a “Bella ciao”, la canzone dei partigiani. Kimi Djabaté, con cui duetto, canta di essere uno che lotta per la libertà, ecco il legame». Le origini italiane... «Tutto è un tributo alle mie radici. Quando ho adottato le gemelle, non parlavano inglese. La prima cosa che hanno imparato è stata “Mambo italiano” di Dean Martin». Manca però l’Italia dalla mappa del tour mondiale che partirà il 12 settembre e la vedrà esibirsi per la prima volta nei teatri. «Ho chiesto la Scala. Il mio sogno è esibirmi in teatri d’opera, ma non vogliono gente come me». «Madame X» gira il mondo anche nei suoni: collaborazioni latin con Maluma, cori capoverdiani, fado... Merito di Lisbona, dove ha passato gli ultimi anni. «Non sono fuggita per Trump, anche se ho ben accolto l’idea di guardare da un altro punto di vista l’America mentre attraversa questa nuova era. Mi sono trasferita per supportare la passione di mio figlio (David frequenta l’accademia calcio del Benfica, ndr): non pensavo che Lisbona fosse così piena di storia musicale». Pesa le parole, sa dove arrivare e come non essere fraintesa. La sua carriera è un capolavoro di autogestione, ha saputo controllare anche gli eccessi. A differenza di altri, da Michael Jackson a Prince a Amy Winehouse, che non ne hanno avuto la forza. «Quelle erano persone benedette dagli angeli, erano un canale che convogliava qualcosa da un mondo metafisico. Ma per poterti connettere a quella fonte di energia devi avere una vita spirituale, altrimenti è come mettere le dita nella presa elettrica. Michael Jackson ha toccato la luce. Anche Prince. Ma una vita spirituale ti ricorda ogni giorno che sei il manager e non il proprietario del tuo talento, che tutto se ne può andare in un batter di ciglia, che il tuo ego non può incastrare facendoti credere che sei tu. Canzoni, film, il mio essere madre... in tutto ho un partner che è Dio. Se lo dimenticassi sarei persa». Viviamo in un modo ossessionato dalla fama canta in «Dark Ballet». Non era così anche nei favolosi 80, culla della sua celebrità? «Oggi ci sono i social media. La gente non si parla più e tutti guardano il telefono». Ai figli piccoli lo ha vietato. «Devi essere più adulto e saggio per capire come usare uno strumento così potente. Ma anche molti adulti non capiscono quanto siano dipendenti e quanto tempo perdano». I social fanno male anche all’arte: «Tutti sono preoccupati dal giudizio. Non ti è permesso sviluppare la tua personalità in modo puro e naïf. L’arte viene da lì. Picasso sarebbe stato Picasso con i social? Fellini non avrebbe fatto 8 ½, film che capiscono in 10 geni, me inclusa. E anche Visconti, Pasolini, De Sica. A proposito, avete visto Loro, il film su Berlusconi?». In Italia abbiamo vissuto anche la cronaca... «Volete Trump?». Le viene offerto lo scambio con Salvini. «No, grazie». E l’agente segreto se ne va.

 “PUNITA PER AVER COMPIUTO 60 ANNI”. Da Tgcom24 il 6 maggio 2019. Uno sfogo decisamente amaro quello che Madonna ha rilasciato sulle pagine di Vogue Britain. "Le persone hanno sempre cercato di zittirmi per una ragione o per l'altra" ha detto la pop star. "Ora è perché non sono giovane abbastanza. Sono punita per aver compiuto 60 anni". Ostacoli che comunque non sembrano arrestare la marcia di lady Ciccone, che ha annunciato l'imminente uscita del suo 14esimo album in studio, "Madame X". Vogue Britain, l'artista ha raccontato di aver sempre avuto la sensazione di un dito puntato contro di sé: "Le persone hanno sempre cercato di zittirmi per una ragione o per l'altra, che sia che non sono abbastanza carina, che non canto abbastanza bene, che non ho abbastanza talento, che non sono sposata abbastanza, e ora è così. Non sono abbastanza giovane. Quindi continuano a provare a trovare un gancio per impiccare il fatto che io sia viva. Ora sto combattendo l'ageismo, ora sono punita per aver compiuto 60 anni". Nonostante si sia sempre impegnata ad aiutare e sostenere le donne, Madonna racconta di non essersi mai sentita supportata dal mondo femminile, e di non aver trovato modelli viventi. Il motivo? "Non ci sono modelli femminili per me, perché nessuno fa quello che faccio io. Sono mamma single di sei figli e continuo ad essere creativa, ad essere un'artista e ad essere attiva politicamente, ad avere una voce, a fare quello che faccio. Voglio dire, non c'è nessuno nella mia posizione". Sandra Rondini per Il Giornale il 6 maggio 2019.  Intervistata da “Vogue Uk” Madonna si è lasciata andare a confessioni molto personali sui suoi sei figli, di cui quattro adottati e solo due biologici, Lourdes Maria e Rocco. La prima è nata avuta 22 anni dalla sua relazione con dal personal trainer cubano Carlos Leon, il secondo è nato dal matrimonio con il regista Guy Ritchie, naufragato nel 2008. Se di Rocco non ha voluto parlare, dopo le tante liti e polemiche riprese da tutti i giornali, con il figlio disperato all’idea di essere affidato a sua madre e ora felice accanto al padre nella nuova solida famiglia che Richie ha saputo costruirsi, è proprio contro la sua primogenita, Lourdes Maria, che la cantante ha avuto le parole più dure. Negli anni la ragazza ha cercato di smarcarsi inutilmente dall’ombra ingombrante della madre. Di lei Madonna dice: “Lola è piena di talento. Sono verde di invidia perché è incredibile in tutto ciò che fa. È un'incredibile ballerina, è una grande attrice, suona il pianoforte magnificamente, ha molti più talenti di me che però non sa sfruttare perché non ha nessuna determinazione”. Lo scorso settembre l'aspirante modella ha debuttato in passerella alla settimana della moda di New York, ma anche questo non è bastato per evitare a Madonna le solite accuse da parte della figlia per via dei social che continuano a ritenerla solo un’illustre raccomandata. “Ma se io sono contro ogni forma di nepotismo!” ha detto la cantante, spiegando che Lourdes è solo influenzata negativamente dalle critiche sui social media. “Cerco di darle esempi di altri figli di celebrità come Zoe Kravitz, la figlia di Lenny Kravitz, che ha lavorato duramente sullo stesso problema e ora si è guadagnata una grande credibilità come attrice. Ma con Lola è inutile. Per lei è sempre colpa mia: “Attaccano me perché in realtà ce l’hanno te” è la sua frase preferita”. E qui l’affondo più duro nei confronti della figlia. “La verità? Non ha la mia ambizione. Ha la stessa volontà che ho io? No. Ma ha anche una madre, e io non l’ho mai avuta È cresciuta con i soldi, e io no. Quindi è tutto diverso. Posso solo dire di aver fatto del mio meglio con lei” ha aggiunto la cantante, sottolineando di avere la coscienza a posto, anche se il rapporto con i due figli biologici resta turbolento al punto che, nell'intervista, solo parlando invece dei quattro figli adottati ha speso parole stupende, in particolare per il 13enne David, che pare proprio essere il suo pupillo. Madonna e l'ex marito Guy Ritchie hanno adottato insieme il figlio David in Malawi nel 2006 e poi lei da single, dopo il divorzio, ha adottato Mercy, ora 12enne e le gemelle Esther e Stella, 7 anni. Ma è David il solo figlio per cui stravede Madonna: “Quello che David ha è concentrazione e determinazione e sono abbastanza sicura da chi le abbia prese… Lui è il figlio con cui ho più cose in comune. È incredibile, non è vero? Non è mio figlio biologico ma è il solo ad aver ereditato il mio vero Dna”. David Ciccone è un più che promettente calciatore che si sta facendo le ossa crescendo nel vivaio dello Sporting Lisbona, città in cui la postar si è trasferita perché il figlio potesse coltivare al meglio tutto il suo talento.

Gli osservatori internazionali le danno ragione: il ragazzino è un vero fenomeno e mamma Madonna è più fiera che mai.

Da soundblog.it il 6 maggio 2019.  Vi abbiamo parlato, ieri, dell'intervista rilasciata da Madonna per la rivista Vogue, per promuovere il suo ritorno con l'album Madame X, disponibile dal 14 giugno 2019. La cantante ha parlato della sua battaglia contro l'ageismo e delle critiche ricevute apparentemente solo per aver "compiuto" 60 anni. "La gente ha sempre cercato di zittirmi per un motivo o per un altro, che sia che non sono abbastanza carina, non canto abbastanza bene, non ho abbastanza talento, non mi sono sposato abbastanza. E ora è che non sono abbastanza giovane. Ora sto combattendo l'ageismo, vengo punita per aver compiuto 60 anni." Sempre nella stessa intervista, poi, Madonna ha smentito qualsiasi rivalità tra le e Lady Gaga. Nel corso degli anni, non sono mancate frecciatine, riportate anche dai media, tra le due cantanti. Soprattutto, quando miss Germanotta ha pubblicato il suo singolo del 2011 "Born This Way", sono state evidenziate similitudini con il pezzo di Madonna del 1989 "Express yourself" e la stessa Ciccone fece un medley tra i due brani, conclusi con l'accenno di "She's not me", inteso da tutti come una dichiarazione verso la collega. Ma, a quanto pare, ci sbagliavamo tutti. "La gente è sempre stata molto entusiasta del pensiero di me e Lady Gaga come nemiche quando, in realtà, noi non siamo mai state nemiche".

“STUPRATA DAL NEW YORK TIMES”! Da La Repubblica il 7 giugno 2019. Madonna sostiene di essersi sentita "stuprata" nel profilo che le ha dedicato il New York Times bollato come "uno dei padri fondatori del patriarcato". In un lungo post su Instagram, la cantante si scaglia contro il quotidiano per l'articolo intitolato "Madonna a 60 anni", proprio perché focalizzato sulla sua età "cosa che non sarebbe mai stata menzionata - osserva - se fossi stato un uomo". "La giornalista che ha scritto l'articolo, ha passato ore, giorni e mesi con me ed è stata invitata in un mondo al quale molte persone non hanno accesso ma ha scelto di focalizzarsi su aspetti triviali e superficiali come l'etnia della mia controfigura o la stoffa delle mie tende, e con commenti senza fine sulla mia età", afferma Madonna facendo riferimento a Vanessa Grigoriadis che firma l'articolo. "Mi dispiace aver passato anche solo cinque minuti con lei" ha proseguito l'artista. "Mi sono sentita stuprata. E mi permetto di usare questa analogia perché sono stata violentata all'età di 19 anni". Nell'intervista Madonna parla anche di molestie. "Harvey Weinstein era uno che passava sempre il segno. È successo pure quando ha lavorato con me". I due si erano conosciuti nel 1991 sul set di Truth or Dare, docu-film su di lei prodotto da Weinstein. "Harvey aveva un modo di flirtare incredibilmente sessuale, e quando lavoravamo insieme mi stava sempre addosso. Era sposato all'epoca, e tra l'altro io non ero affatto interessata a lui". Ha anche aggiunto: "Sapevo che faceva lo stesso a un sacco di altre donne dell'ambiente che conoscevo. Ma eravamo tutte a dire 'Harvey si comporta in questo modo perché ha così tanto potere, ha così tanto successo e i film che produce vanno così bene'. Tutti volevano lavorare con lui, così dovevi accettare questo aspetto". Licenziato nel 2017 dai vertici della Weinstein Company, che poi l'anno scorso ha dichiarato la bancarotta, Weinstein ha di recente raggiunto un accordo con le donne che lo hanno accusato per un risarcimento complessivo di 44 milioni di dollari.  "Quando è scoppiato lo scandalo non ho esultato perché non gioisco mai delle disgrazie altrui, ma ho avuto un senso di sollievo. È un bene che chi ha abusato del suo potere per così tanto tempo sia stato messo di fronte alle sue responsabilità". Nell'articolo, Madonna spiega a Grigoriadis di essersi sentita stuprata anche nel 2015 quando il suo album, Rebel Heart, è stato fatto trapelare in anticipo. Nel pezzo, la giornalista indica che non le è sembrato giusto sottolineare come le donne oggi cerchino di non usare l'espressione stupro metaforicamente. Il Nyt racconta come era Madonna negli anni Ottanta, "la sua volontà di ferro" e il suo essere diventata "un modello di femminilità". Ai giorni d'oggi la caratterizza invece come l'incarnazione di "una sessantenne che reclama il suo spazio tra gli artisti di due generazioni più giovani".

La rivelazione di Madonna: «Weinstein ci provò con me. Era uno che esagerava». Pubblicato giovedì, 06 giugno 2019 da Andrea Laffranchi su Corriere.it. Madonna è molte cose diverse. Ogni passo della carriera una nuova versione: material girl, dominatrice sadomaso, mora, bionda, mistica, provinciale, globale. In «Madame X», il suo nuovo album che uscirà il 14 giugno, una definizione non basta. È stata lei stessa ad anticiparlo nell’annuncio social di qualche settimana fa. «Madame X è un agente segreto che viaggia nel mondo, cambiando identità, combattendo per la libertà e portando luce nei posti bui». E via una lista di diverse personalità da «suora» a «prostituta», da «capo di Stato» a «casalinga». A un primo ascolto dell’album, prodotto da Mirwais, Diplo e altri, la sensazione del giro del mondo e delle personalità (musicali) multiple è confermata. I bollini sul passaporto di «Madame X» ci portano in Colombia, India, Portogallo, Jamaica. Madonna non ha scelto una linea, un’identità sonora definita e univoca, ma ha mischiato influenze e atmosfere, ispirata forse dal trasloco a Lisbona per seguire la carriera calcistica di uno dei suoi figli. Il disco apre con «Medellín», singolo a trazione latina con Maluma. La star colombiana torna anche in «Bitch I’m Loca», la più azzeccata delle due, anche se la presenza di lui è dominante. «Dark Ballet» è un pezzo frankenstein, un assemblaggio di corpi: voce e piano, dub oscuro e all’improvviso un synth distorto ci porta nello Schiaccianoci di Ciaikovskij per poi tornare indietro. Un passaggio a vuoto che offre a Madonna il palco per lanciare un monito ai potenti che credono di restare impuniti per i loro crimini. E chissà se fra questi c’è anche il presidente americano Donald Trump che, in un’intervista al New York Times Magazine, lei ha definito debole come tutti i maschi alfa che compensano le loro insicurezze «bullizzando gli altri». La canzone, ha detto alla rivista francese Têtu, «è ispirata a Giovanna D’Arco», la santa guerriera pre-femminista, «e al suo non aver paura di morire per ciò in cui crede». Sempre al NYT Magazine ha parlato del caso Weinstein: «Era uno che esagerava: aveva un modo di flirtare molto sessuale e diretto con me quando abbiamo lavorato assieme, e io non ero interessata». Non ha festeggiato la condanna: «Non gioisco delle disgrazie altrui, ma ho avuto un senso di sollievo. È un bene che chi ha abusato del suo potere per così tanto tempo sia stato messo di fronte alle sue responsabilità». «Madame X» è anche politica. «God Control», un ritorno alla disco anni 70 con tocchi di vocoder, è un’accusa alle leggi americane sulle armi da fuoco. Tema che torna in chiusura del disco: «I Rise» è una ballad che funzionerebbe da sola ma il campionamento di un discorso di Emma Gonzales, sopravvissuta alla strage della Parkland school, regala commozione e profondità. «Future» è un riempitivo reggae dancehall con il trapper Quavo dei Migos. La parte viaggiatrice torna in «Batuka» e il botta e risposta fra la diva e un coro di donne di Capo Verde e con le percussioni indiane di «Extreme Occident». In «Killers Who Are Partying», ballad intensa, torna la Madonna di battaglia che si schiera con islam, israeliani, nativi americani, donne violentate, bambini sfruttati e poveri. Ritmi rallentati anche nell’avvolgente «Crave» con il trapper Swae Lee dei Rae Sremmurd. Non lascia il segno invece la melodia teenpop di «Crazy». «Faz Gostoso», cover in duetto con la brasiliana Anitta, fonde Africa e latin e trascina. «I Don’t Search I Find», bassi potenti e distorti, è la Madge da dancefloor, la «Vogue» di questo album. Madonna non anticipa più le mode, già da prima di questo album, ma qui dimostra di saper prendere da tutti senza perdere l’orientamento e riuscendo a mettere la sua firma.

·         Miles Davis.

JAZZ DA MILES E UNA NOTTE. Alberto Riva per “il Venerdì - la Repubblica” il 6 giugno 2019. I dischi che hanno cambiato il destino del jazz si contano sulle dita di una mano. Kind of Blue, che Miles Davis incise nel 1959, è uno di questi. Verso il finale del millennio, lo scrittore americano Ashley Kahn, che sul quel disco avrebbe scritto un libro, rifletteva: «Conoscevo bene quell'album perché lo avevo ascoltato per anni, ma la sua capacità di seduzione non era diminuita. Conservava ancora il potere di far calare il silenzio intorno a sé». Anche oggi, che dalla sua uscita di anni ne sono passati sessanta, il potere di Kind of Blue è intatto, il disco continua a imporre il silenzio. «Il jazz era entrato nella sua alta modernità» sancisce Alex Ross nel suo saggio Il resto è rumore. Kind of Blue fu una pietra miliare per tante ragioni, ma soprattutto perché in sala di incisione con Miles s' incontravano il pianista Bill Evans e il sassofonista John Coltrane, musicisti che ancora oggi sono punti di riferimento di stile, suono, tecnica e capacità di composizione istantanea. Ma non solo: Alex Ross fa notare che «il disprezzo modernista per le convenzioni» di quei personaggi e il fatto che si potesse improvvisare «a ruota libera su un paio di armonie» influenzò anche la musica contemporanea, il minimalismo di musicisti come Steve Reich. Miles Davis, presentandosi in studio con dei foglietti su cui erano segnate scarne annotazioni, assistito dai suoi sodali (oltre ai due citati c' erano Cannonball Adderley, Paul Chambers, Jimmy Cobb e Wynton Kelly), aveva dato vita a un disco che, come aveva fatto Stravinskij al principio del secolo XX, allargava - e allarga ancora - le nostre capacità di ascolto, il nostro sapere uditivo. I brani contenuti nel disco - So What, Freddie Freeloader, Blue in Green, All Blues e Flamenco Sketches - sono tuttora, ognuno a suo modo, sfide aperte per qualsiasi jazzista e rappresentano, nella loro sequenza, L' uccello di fuoco del jazz. Ma Miles non si fermò lì, andò oltre. Passati dieci anni, nell' estate del 1969 registrò un altro disco che, uscito pochi mesi dopo, nel 1970, stravolse di nuovo le regole. Si intitolava Bitches Brew. Se Kind of Blue era stato un punto di arrivo, la canonizzazione ultramoderna di tutto quanto era accaduto prima, Bitches Brew funzionava invece da grimaldello per il suono degli anni Settanta, aprendo le porte al jazz-rock, al jazz-funky e alla fusion. Come è accaduto per Kind of Blue, non trattandosi soltanto di un disco ma di una vera e propria avventura artistica, qualcuno si è incaricato di scrivere un libro per raccontarne la storia. Questa volta si tratta di George Grella Jr, critico e compositore, autore di Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato il jazz, in uscita ora per minimum fax (traduzione di Michele Piumini, pp. 144, euro 13). Una densa e appassionata cronistoria di quel doppio album per il quale Miles chiamò a raccolta il meglio della generazione dei musicisti emergenti, da Chick Corea a Joe Zawinul, da John McLaughlin a Lenny White, da Jack DeJohnette a Dave Holland, fino al sax tenore di Wayne Shorter; di fatto in quel crogiolo di personalità c' era in germe il gruppo dei Weather Report, che sarà un caposaldo della fusion per i due decenni a venire. Il suono era elettrificato: due bassi, tre piani elettrici, due batterie, congas, sassofoni: brani lunghissimi, cavalcate ipnotiche dall' effetto, sugli ascoltatori dell' epoca, affascinante ma anche sconcertante. Lo stesso Grella, racconta, aveva quindici anni e restò basito difronte alla direzione del tutto nuova presa da Miles. Ma poi sintetizza bene: «Bitches Brew è una grande opera di musica astratta che si muove tra suoni, ritmi e riff della musica commerciale». Spiega: «È musica tra le più sperimentali e d' avanguardia mai realizzate nella storia della cultura occidentale, ma allo stesso tempo è uno strepitoso successo discografico, uno degli album di Miles più venduti di sempre». Il trombettista era già il jazzista più famoso in circolazione (forse secondo solo a Louis Armstrong), ma era ancora un bopper, ancorché abbigliato come un' eccentrica rockstar, e quella sterzata divise i recensori. Rolling Stone parlò di «magnificenza», il New York Times salutò la «maestria formale nell' improvvisazione». Ma quel «ribollente» sound a mezza strada tra la discoteca e il rito sciamanico era un salto che alcuni non digerirono, specialmente tra gli esponenti della cultura afroamericana. Stanley Crouch, poeta e critico, ci andò giù durissimo: «Davis è diventato il più straordinario leccapiedi dei paperoni dell' industria musicale». Grella spiega che per i difensori del purismo del jazz il concetto di «fusion» equivaleva a una parolaccia: era vendersi al mercato. Il fatto è che Miles apparteneva al suo tempo, quello della pop art e delle contaminazioni, e intercettava segnali provenienti da ogni dove: stava per fare un disco con Jimi Hendrix, quando il genio della chitarra morì, a ventisette anni. L' importanza di Bitches Brew, scrive Grella, si è vista dopo: «Carlos Santana, Bill Laswell, i Talking Heads, Jon Hassell e persino Thom Yorke hanno tutti riconosciuto l' impronta indelebile dell' album su di loro». E risulta ben chiaro, ascoltandoli oggi, che esiste un filo che unisce Bitches Brew al suo progenitore Kind of Blue: in entrambi si sente vibrare la forza anticipatrice di Miles Davis, ed è sorprendente come il suono della sua tromba continui ad arrivarci dal futuro.

·         Michael Stipe ed i Rem.

Michael Stipe, fotografo a suon di musica: "Ma ormai i Rem sono finiti per sempre". Ha presentato a Roma il suo libro: "C'è un omaggio a Federico Fellini". Paolo Giordano, Mercoledì 09/10/2019 su Il Giornale.  Dopotutto Michael Stipe è una rockstar a modo suo. Dopo aver goduto del successo mondiale, si è stancato e ha sciolto la sua band, I Rem, che nel frattempo avevano venduto 85 milioni di dischi e rifatto i connotati dell'indie rock. Adesso è un artista, anzi un fotografo che fa canzoni e ieri al Maxxi di Roma ha presentato, di fianco a Giovanna Melandri, il suo libro di fotografie Our interference times - a visual record. Quasi sessantenne (li compie a gennaio) è ormai uno che si gode la vita e le proprie passioni come sogna chiunque sia partito dal (quasi) nulla ad Athens in Georgia e abbia diviso palcoscenico e vita con divi, musicisti e intellettuali, mescolando eccessi e fatica, delusioni e cinismo. Ormai non si torna indietro: «Domani sera (oggi per chi legge - ndr) sarò a cena a Londra con il bassista Mike Mills, ma il tempo dei Rem è finito, basta», ha spiegato a chi, ovviamente, non vede l'ora che la band ritorni di nuovo a incidere musica. Qualche tempo fa, Stipe ha pubblicato un brano che si intitola Your capricious soul, il cui ricavo del primo anno, esattamente come quello che deriverà dal libro, andrà agli attiviti di Extinction Rebellion. Ma niente fretta. «Per me la musica è una passione. Non sento la fretta di far uscire dei singoli. Ti chiedo solo di non trattenere il fiato e di goderti il viaggio», ha detto quasi per rassicurare tutti che, sì, farà altra musica, ma soltanto quando ne avrà voglia e tempo. E questo è il suo tempo delle fotografie: «Il libro va ad esplorare quello che è avvenuto negli ultimi dieci anni, ossia l'incontro di due mondi, quello analogico e quello digitale. Due mondi che non sempre riescono a parlarsi con le parole giuste». In fondo ora Michael Stipe è nella posizione privilegiata di chi ha ancora voglia di guardarsi intorno con curiosità e può appoggiarsi su di una esperienza planetaria, su incontri favolosi e su di una integrità confermata anche dalla sua stessa scelta di dimettersi da rockstar. Parla, ad esempio, dei social network: «Amo la tecnologia e quello che porta, ma non l'atteggiamento manipolatorio dei social media. Non sono mai stato su Twitter e non mi piace il modo in cui viene utilizzato, soprattutto da Trump, in particolare due anni fa. Ritengo che, se non lo avesse fatto, magari oggi vivremmo in un mondo diverso». E poi Instagram: «Uno dei miei migliori amici una volta mi ha detto che stare su Instagram è un lavoro a tempo pieno. Io sinceramente ho rinunciato a questo lavoro», ha riassunto. Alla fine, Michael Stipe non ha fatto compromessi con la propria coerenza ed è oggi uno dei «guru del pop» più credibili. Anche quando parla di fotografie: «Nel libro c'è un omaggio a Federico Fellini, uno dei miei registi preferiti. Il film E la nave va è un capolavoro». Parola dell'unico divo del rock che abbia avuto il coraggio di riprendersi la vita nel bel mezzo del successo.

Michal Stipe: «La musica può attendere, ora parlo attraverso le immagini». Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 da Corriere.it. La musica, al momento, può attendere. Per Micheal Stipe, ex frontman dei R.E.M. l’urgneza di comunicare passa attraverso un’altra arte. A Roma, al Maxxi, per presentare il suo secondo libro fotografico Our Interference Times: a visual record, pubblicato da Damiani editore, risponde così a chi gli chiede notizie di un prossimo lavoro discografico oltre al singolo Your capricious soul fresco di uscita. «Non ho fretta, perché per me la musica è una passione. Non sento la fretta di far uscire dei pezzi. Vi chiedo di non trattenere il respiro, e di godervi il viaggio». In quanto alla celebre band, meglio farsene una ragione: nessuna reunion all’orizzonte. « «Domani sera a Londra sarò a cena con Mike, ma il tempo dei R.E.M. è finito. Basta». meglio, dice, guardare avanti. «Non bisogna avere paura del cambiamento. È essenziale, fa parte della natura umana. È quello che ho provato a fare nel mio libro. È quello che stanno provando a fare oggi i giovani di tutto il mondo». Nel libro, realizzato insieme allo scrittore e artista Douglas Coupland, Stipe si interroga su come la cultura analogica, che rappresenta il nostro passato, interagisca con la cultura digitale, che domina il nostro presente. «Due mondi che non sempre riescono a parlarsi con le parole giuste. Molte persone temono il cambiamento digitale che sta avvenendo oggi all’interno della tecnologia, io invece no. Vi dico in totale sincerità che sono ottimista, e sono convinto che questo cambiamento possa apportare delle conseguenze positive. Questo incontro tra l’analogico e il digitale ci aiuta a vedere in modo diverso quello che ci circonda. Il cambiamento digitale ci può far comprendere e apprezzare la natura e il meraviglioso mondo all’interno del quale viviamo. Amo la tecnologia ma non mi piace l’atteggiamento manipolatorio dei social. Ai miei amici dico di stare attenti. Aggiungo: se il presidente Trump non avesse Twitter sarebbe meglio». Le fotografie provengono dal suo archivio. «Ho sempre combattuto per tradurre in parole, in canzoni, le immagini che ho in testa. Le foto sono più dirette, contengono risposte che non vanno descritte. Dicono che esista un filo conduttore che lega tutto ciò che accade nella vita di un artista, e in questo momento mi sento di dire che questo filo sfocia in questo libro». I proventi andranno, racconta, a Extinction Rebellion, movimento ambientalista contro i cambiamenti climatici. «Sono fiero di loro e dell’impegno che stanno mettendo. Non è un’organizzazione, è molto di più: è una comunità, una filosofia, che si muove verso il cambiamento. Siamo alle porte di un cambiamento generazionale, che collega gli adulti ai giovani. Non bisogna avere paura ma impegnarsi per le giuste cause. Questo mio viaggio è cominciato nel 1974 quando ho avuto la possibilità di frequentare un corso di un anno in Scienze ambientali, dove si parlava di combustibili fossili, di ambiente e di inquinamento. Vi lascio immaginare i miei insegnanti: erano tutti hippies in cerca di lavoro, ma che non vedevano l’ora di insegnare ai propri studenti i valori in cui credevano. E penso che al giorno d’oggi noi possiamo testimoniare che ci siano riusciti, perché tutto quello che ci hanno insegnato lo ritroviamo e fa parte delle nostre vite oggi. Tutto questo capitava nello stesso anno in cui ho deciso di prendere una Canon e di cominciare a scattare le mie fotografie». Nel libro c’è anche un omaggio a Fellini. «Uno dei miei registi preferiti. E la nave va è uno dei film che amo di più». Tonerà presto a Roma, anticipa. «Lo scorso agosto sono stato qui e all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli ho trovato degli elementi che mi hanno ispirato per un lavoro che vedrete alla fine del 2020».

·         Elton John.

Carlo Lanna per IlGiornale.it il 15 ottobre 2019. Oggi, martedì 15 ottobre, è prevista la pubblicazione di "Me" l’autobiografia ufficiale del celeberrimo Elton John. Il divo della musica pop che ha segnato un’era con le sue canzoni e il suo carattere così stravagante, si rivela senza freni, raccontando particolari inediti della sua vita da artista. Dopo quelle che hanno riguardato Lady D., in cui Elton John afferma che la principessa si sarebbe trovata in un triangolo amoroso fra Richard Gere e Sylvester Stallone, ora spuntano quelle su Donatella Versace. La stilista è stata grande amica di John e il cantante racconta un momento della sua vita in cui ha salvato Donatella da un grave pericolo. "Ricordo molto bene il momento in cui Donatella chiese il mio aiuto – esordisce il cantante -. L’ho portata in un centro di disintossicazione. Non è sempre la scelta migliore, anche perché le persone non sono pronte a questa eventualità. Era in un stato terribile e sapevo che dietro quella sua richiesta c’era qualcosa di più". Non solo Donatella Versace ma, come Elton John ricorda nella sua autobiografia, sono diverse le personalità del mondo dello spettacolo che hanno chiesto il suo aiuto. "Ho aiutato molta gente a gente a tornare sobria e pulita. È successo anche con Eminen – ricorda -. Così è stato anche per George Michael. Andò in Svizzera per conto suo. Era una testa dura". Nel suo libro il celebre divo racconta anche quando nel 2007 si è operato d’urgenza per un tumore alla prostata e, a suo dire, si è trovato a "24 ore dalla morte". Ora che si è ritirato dalle scene e si gode la vita insieme al marito e ai figli. La sua autobiografia però scuote il mondo dello spettacolo.

Valeria Rusconi per repubblica.it il 20 novembre 2019. "Ladies and gentlemen, date il benvenuto a Mister David Walliams!", esplode la voce fuoricampo nel momento esatto in cui le luci cominciano a diventare ovattate. "Abbassate-le-vostre-aspettative", esordisce con tono flemmatico Walliams, appena sbucato da dietro la quinta, spegnendo così il fragoroso applauso che ha riempito la sala. "È un sogno dividere il palco con una leggenda vivente", continua, mentre il pubblico ammutolisce, "qualcuno che ha influenzato la vostra vita.

Un'icona. E questa sera, Sir Elton John, quel tuo sogno, è diventato realtà". Humour inglese: un'esplosione di grida e risate. Parte così – ma arriveranno anche le lacrime – An Evening with Elton John, la serata di presentazione della prima autobiografia di Elton John, Me, uscita in Italia lo scorso ottobre per Mondadori. Un libro pieno di storie che non vi aspettate, quelle che hanno costellato una vita arrivata a 72 anni, di cui oltre 55 dedicati alla musica, narrato in prima persona e subito diventato un bestseller, e non era così scontato. Forse perché gli aneddoti tragici si mescolano a quelli irresistibilmente comici, dalla dolorosa vicenda famigliare – un padre collerico e anaffettivo, pilota della Royal Air Force, che "scattava per un nonnulla, incapace di dire 'vieni qui, sediamoci a parlarne, ti voglio bene'" e una madre che "aveva una nube nera che la seguiva ovunque" che, quando Elton aveva solo 2 anni, gli insegnò a usare il vasino picchiandolo con lo spazzolone per lavare i pavimenti – alle arance tirate a Bob Dylan perché inetto al gioco enigmistico sciarada ("uno dei più grandi parolieri al mondo non riusciva a dirti se una parola aveva una o due sillabe o con cosa faceva rima!"). Sghignazzate, vicende rocambolesche di abuso di svariate sostanze, alcol. bulimia, attimi di grandi malinconie e persino maldestri tentativi di farla finita. Tutto quello che un libro deve avere per farsi leggere, tenuto insieme da una buona dose di sincerità, un po' di cattiveria, e nessuna concessione a uno stile formale (se il linguaggio scurrile vi impressiona, forse non fa per voi). Prima di David Walliams, il presentatore di stasera, metà di Little Britain, ovvero una delle più formidabili coppie di comici dell'ultimo ventennio, c'era già stato il suo partner di battute corrosive e di situazioni atroci a portare sul palco Elton John. Matt Lucas, omosessuale dichiarato, tra i numerosi personaggi s'è infatti inventato Dafydd, 'l'unico gay nel villaggio' che, nel marzo 2005, viene 'inviato' a Londra per realizzare l'intervista del secolo per il giornale locale: lui, l'ostentazione della gaytudine, letteralmente insaccato in un completo di latex sgargiante, incapace, impreparato e sprovveduto riguardo il senso comune e le regole basilari della professione, in una manciata di minuti pone a Elton tutte le domande che molti giornalisti non avevano mai avuto il coraggio di fare. Dirette, nessuna enfasi, piene di doppi sensi sessuali: "Ti piace di più ricevere o dare, a Natale?". La telecamera a un certo punto inquadra Dafydd che, con la lingua, preme con forza di lato rigonfiando la guancia. Persino Elton, che di sesso e di interviste ne ha sperimentate in egual misura, a un certo punto sembra tentennare, cercando di uscire da quella situazione così imbarazzante ridendo senza sosta, con la voce che però diventa sempre più minuta, fino a sprofondare non si sa dove. Questa volta invece David Walliams è vestito da David Walliams – completo scuro con cravatta e camicia bianca – e recita la parte del brillante showman scelto per presentare Me. All'interno dell'Apollo Theatre di Hammersmith, magnifico esempio di art deco, illuminato per l'occasione con luci arcobaleno che richiamano la bandiera del movimento di liberazione omosessuale nonché le lenti degli occhiali di Elton sulla copertina del libro – lui invece è ritratto in bianco e nero – suonano a volume altissimo le sue canzoni, da Philadelphia Freedom, commissionata al paroliere di sempre, Bernie Taupin, in onore dell'amica tennista Billie Jean King a Daniel, da Rocket Man – e come potrebbe mancare, dopo il successo stratosferico e anche un po' inaspettato del musical-biopic Rocketman – a Goodbye Yellow Brick Road e ancora Tiny Dancer, Island Girl e Honky Cat fino a Someone Saved My Life Tonight, cronaca di uno dei tentati suicidi di Elton (ficcò la testa nel forno, accese il gas, ma prima aprì la finestra e si assicurò di stare comodo, con un cuscino ficcato nell'elettrodomestico). All'ingresso del teatro vengono distribuite copie della biografia, inclusa nel prezzo dell'evento aperto a tutti con un pubblico molto eterogeneo per età, ceto sociale e orientamento sessuale: una coppia di ragazzi, tra le prime file, si accarezza mentre sullo schermo, sopra le due poltroncine al centro del palcoscenico, scorrono le foto di una carriera lunga più di mezzo secolo. Parte Bennie and the Jets, seguita da un medley di altri brani di un repertorio di qualcosa come 700 canzoni, scorrono i video dal vivo: "Ladies and gentlemen, date il benvenuto a una delle più grandi star musicali... Sir Elton John!". Ciondolante, entra in scena con la nota goffaggine. Indossa un completo a quadretti rosa pastello, camicia bianca, lenti rosa, mocassini verde metallizzato e calzini chiari. I bracciali, l'orologio e l'orecchino con la croce scintillano sotto i fari: non chiedetevi se si tratta di diamanti veri, il fatto di uscire accecati dalla sala vi darà la risposta che cercate. "Il libro è fantastico, è pieno di rivelazioni sorprendenti", comincia Walliams, "non avevo idea che tu fossi gay". Risate. "Come ti è uscito il titolo?". Boato di risate. "È stato Tony King (uno dei suoi primi discografici e grande amico, ndr)", dice Elton, "è molto difficile trovare un buon titolo. Sai, ci sono titoli orribili e io volevo qualcosa di corto e dolce, che rendesse l'idea". "Eri nervoso quando è uscito, visto che contiene molte storie...?". "Be', sì. Il film è uscito all'inizio dell'anno, prima del libro, ed è un fantasy, le vicende non sono narrate nel giusto ordine cronologico e non tutto quello che si vede è necessariamente vero. Ma questo libro invece lo è. A questo punto della mia vita dovevo essere me stesso, volevo essere il più onesto possibile, e l'ho fatto per i miei figli (Zachary, otto anni, ed Elijah, sei, ndr). Ora non hanno il permesso di leggerlo, forse quando avranno 15 o 16 anni glielo darò... David (Furnish, il marito, ndr) mi ha detto: 'Lo devi scrivere, lo devi scrivere per i nostri figli, devono sapere come sei, sapere quello che sei stato'". La conversazione si sposta sulle influenze musicali, quelle del bimbo Elton che, nella Gran Bretagna ferita dalla seconda guerra mondiale, viene conquistato dalla pianista Winifred Atwell, anche lei uscita dalla Royal Academy of Music. Parte un video: "Lei era la mia eroina", dice Elton, "ma tutto cambiò quando mia madre, un giorno del 1957, tornò a casa con Heartbreak Hotel di Elvis Presley. Non sarei mai potuto essere una star della musica classica perché le mie mani sono troppo piccole: quel disco mi ha fatto capire quello che volevo essere, una star del rock&roll". Non si parlerà né di Shelia Farebrother, la mamma, né del padre, Stanley Dwight, tranne per ricordare uno dei suoi molti moniti, "se ti masturbi, diventerai cieco!". "Se un padre ti dice una cosa del genere e tu, che hai appena messo gli occhiali, ti accorgi che la tua vista peggiora notevolmente… ecco, 'smetterò di masturbarmi per un po'', mi sono detto". Si tornerà però molto indietro nel tempo, cioè quando la musica è nata. Sentendolo parlare, per Elton è quella la cosa più importante. Lo ripeterà più volte: "La musica è sempre stata al centro di tutto". Come quando suonava nel pub vicino a casa (fuggendo dalla finestra sul retro quando scoppiavano le risse, ndr) fino al primo gruppo, i Bluesology di Long John Baldry ("se siete stufi della vostra routine quotidiana, vi consiglio caldamente di andare in tour insieme a un eccentrico cantante blues gay alto due metri con il vizio della bottiglia"). A dire il vero, fu proprio quella routine a disilluderlo a tal punto da spingerlo a cercare di scrivere canzoni proprie, rispondendo a un annuncio che cercava nuovi talenti tramite il quale il suo paroliere, amico, spalla di sempre, Bernie Taupin: "Ero sovrappeso, ero timido, non avrei potuto far male a una mosca. Avevo scritto due canzoni oscene, Mr. Frantic – la gente in sala sogghigna, pensando al titolo avventuroso – e Come Back Baby e volevo provare a ritrovare l'amore per la musica, a ripristinare qualcosa che si era spezzato. Scrivevo canzoni per vivere anche se non riuscivo a vivere. Quando Bernie arrivò dalla campagna a Londra capii subito che era la persona giusta per me. Probabilmente mi ero preso una cotta per lui", commenta Elton quando Walliams gli ricorda del 'tentato' bacio  che si vede nel biopic Rocketman, "perché era sempre bellissimo stare insieme, facevamo tutto in comune, è stata ed è una delle relazioni più strabilianti della mia vita: Bernie è come un fratello. E quando arrivò con quel testo, quello di Your Song, esclamai, "oh!". Sapevo che avevamo scritto una grande canzone, che avevamo fatto un grande passo avanti. Ci impiegai, credo, non più di un quarto d'ora a comporla. Più ascolto quei testi, oggi, e più mi ci crogiolo, diventano per me sempre più belli, mi ci tuffo dentro. Sono così fortunato ad averlo trovato". "Facciamo un applauso a Bernie!", esclama Walliams, e il pubblico lo segue. Poi sullo schermo spuntano delle foto in costume degli anni Settanta. "Ora vediamo un po' i tuoi vestiti", dice Walliams. Ne appare una celebre, dove Elton indossa una tuta aderente, creata da Bill Whitten, dalla quale partono dei fili con, alle estremità, delle palline multicolore, tipo albero di Natale. Tutto, allora, doveva essere "over the top", sempre più esagerato. Spiega Elton: "Il motto era: 'Tu crea un abito di scena, vuoi mettere cinquanta palline? Perché non cento?'. Racconta nei dettagli come 'funzionava' il vestito ma, naturalmente, con quella parola di mezzo – palle – sottolineata da Walliams e ripetuta costantemente da Elton, la battuta è servita su un piatto d'argento: "Perché le hai scelte?", chiede Walliams. "Perché mi piacciono le palle!", risposta, "e mi piacerebbe che le mie fossero altrettanto elastiche, oggi!". Poi si fa serio: "Senti, non ero Mick Jagger, non ero Rod Stewart e non ero Marc Bolan, la mia voleva essere una dichiarazione d'intenti, volevo dare un altro tono allo show, mi piaceva scioccare e divertire le persone". Poi elenca le forme degli occhiali che ha indossato: quelli a mela, quelli con l'enorme scritta ELTON che si illuminavano (e che, troppo pesanti, gli schiacciavano talmente il naso da impedirgli quasi di cantare), quelli dai mille colori.... "Non ho mai avuto il riconoscimento del 'man of the year per gli occhiali'", sbotta a un certo punto, "fanculo, dai, datemelo!". Ridono tutti. Arriva il primo tour negli Stati Uniti, è l'agosto del 1970, al Troubadour di Los Angeles. I giornali parlano di Elton come 'il nuovo messia de rock', con Leon Russell – uno dei suoi idoli – seduto tra il pubblico ("non sapevo fosse lì, altrimenti mi sarei letteralmente cagato addosso! È venuto nel backstage, mi aspettavo una reazione violenta, ma invece di essere geloso della mia fama mi ha portato in tour con lui, ha abbracciato il mio successo. Io faccio lo stesso, cerco di incoraggiare le nuove leve, mi piace ascoltare gente nuova, come Billie Eilish o Sam Smith; penso siano fantastici e questo mi dà tutta la speranza per un mondo migliore. È meraviglioso"). Poi racconta di John Lennon, di quella scommessa che lo portò sul palco per l'ultima volta: "Paul è arrivato al numero uno, George è arrivato al numero uno, Ringo è arrivato al numero uno, ma tu no. Se con il tuo nuovo singolo Whatever Gets You Thru the Night ce la farai, salirai con me a cantare". E così avvenne, il giorno del Ringraziamento del 1974. John si era separato da Yoko ma lei era voluta venire lo stesso al concerto. "Yoko prima dello spettacolo gli mandò una gardenia, lui non disse nulla, ma se l'infilò nell'asola. Poco dopo si erano riconciliati". Ricorda dell'amicizia che li univa e anche se all'inizio "ero molto intimidito perché avevo sentito che poteva avere atteggiamenti "abrasivi", con me non fu mai scontroso. Anche quando lo conobbi, c'era della musica. C'è sempre la musica alla base di ogni cosa, di ogni mia cosa, e la nostra amicizia è cresciuta così". La metà degli anni Settanta, quando Elton John era diventato l'artista solista a vendere più copie nel mondo, non tutto però era rose e fiori. Nella biografia si racconta di un uomo disilluso dall'amore, in cerca di amore, infatuato (o innamorato) di uomini impossibili da avere ("erano tutti eterosessuali") ma soprattutto in cerca di cocaina. Ma la musica, quella sì, c'era sempre. "Allo Studio 54 (la stravagante, esagerata discoteca di New York ritrovo dei creativi, ndr) la musica era fantastica", dice, elencando i nomi della scena disco dell'epoca con la voce che si fa eccitata, come quella di un fan che parla dei propri miti, "ricordo che c'era un dress code, i costumi o gli abiti dovevano essere di un certo tipo, ma una volta Divine e io venimmo respinti all'uscio: eravamo troppo esagerati anche per quel posto. Dentro c'erano i soliti tipi con baffoni e fazzoletto infilato nella tasca posteriore dei calzoni (indicazione di una certa propensione sessuale nel mondo gay, ndr) ma non girava troppa roba. Sotto c'era chi giocava a flipper o si faceva strisce di coca. Sembrerà strano ma io ci andavo per ballare. Tutto ruotava sempre intorno alla musica, sempre. In quel periodo, però, ero così pieno di cocaina che comunque non avrei potuto fare niente col mio pisello. Una volta mi gettai addosso a Rod Stewart e finimmo sul pavimento e lui mi implorò, mi disse che non era preparato per quello... Comunque, non usate droghe: finireste come me, che a un certo punto mi sono messo a urlare contro qualcuno dicendo 'voglio che fermiate il vento!'". "E il successo? Cosa provavi?", chiede a un certo punto Walliams. ""Never believe the hype", "Non credere mai all'hype", è sempre stato il mio mantra. Se leggete la bio direte: 'Ma che cazzo sta dicendo?!'. Però è vero, ero conscio che ci sarebbe stato un momento in cui non avrei più venduto perché sarebbe stato il momento di qualcun altro. Quello che ho ottenuto non è accaduto per niente: abbiamo lavorato come pazzi, abbiamo fatto tour estenuanti, perché l'America è grande, non ci sono solo Los Angeles e New York". Arriva il momento dei ricordi, il primo è per Terry O'Neill, uno dei più grandi fotografi del rock scomparso pochi giorni fa, forse quello che più a lungo documentò la carriera di Elton, e poi per Freddie Mercury. "L'idea di serate-party tra voi due ti fa andare fuori di testa", dice Walliams. "Non ho mai incontrato nessuno come lui, così brillante e divertente. Era così bello passare il tempo insieme. Ci vedevamo ogni sera in un club a Londra, a Denmark Street (dove Elton agli albori lavorò come fattorino in quella che sarebbe diventata la sua casa di produzione musicale, ndr). Erano solo risate, non ci si atteggiava in alcun modo. Mick (Jagger, ndr) è il più grande performer al mondo ma Freddie era certamente il secondo, il più incredibile". Racconta dei soprannomi femminili che appioppava agli amici: Freddie si faceva chiamare Melina Mercouri, Brian May era 'la Signora May', per via della chioma fluente, Michael Jackson era Mahalia ("ma non gli piaceva affatto..."), Elton era Sharon. "Freddie abitava vicino a me. Quando si è ammalato, non sono più andato a trovarlo. Lo trovavo penoso. Freddie era un grande collezionista, come me. Collezionava oggetti nipponici. Mentre moriva continuava la sua collezione e sulle credenze giapponesi c'erano montagne di medicinali, accanto ai cataloghi delle aste. Non aveva paura, né tristezza. Era ancora vivo... durante i funerali, al crematorio, fu così toccante... Io amavo le opere di Henry Scott Tuke, un pittore che dipingeva ragazzi nudi e barche. Lui morì a novembre. Il mese dopo, la mattina di Natale, mi recapitarono un acquerello di Scott Tuke. Insieme c'era un biglietto, diceva: "Ho visto questo dipinto all'asta e ho pensato che ti sarebbe piaciuto. Questo è per te. Ti voglio bene, Sharon. Firmato, Melina Mercouri". A quel punto non riesce più a parlare, si commuove, e tutto il teatro piange insieme a lui. Anche in questo caso, c'è sempre la musica di mezzo. Anche nell'impegno della sua Aids Foundation, ricordando la storia di Ryan White, un ragazzino che morì di Aids, contratta dopo una trasfusione: "Mentre mi lamentavo che la carta da parati dell'hotel non era di mio gradimento, la famiglia di Ryan aveva perdonato tutti quelli che erano stati orribili nei loro confronti. Mi vergognai di me stesso per essere stato quello che ero. Sei mesi più tardi ero sobrio. Quando ho smesso di drogarmi ho deciso che avrei fatto qualcosa per contrastare l'Aids. Negli anni Settanta non ero per le strade a manifestare. Mi sento colpevole per questo; e allora, mi sono detto, 'raccoglierò una montagna di soldi per dare supporto a tutti coloro a cui prima non l'ho dato'. Non volevo sprechi, tutto quello che raccogliamo finisce dove deve finire. Ryan mi aveva fatto capire il livello del mio degrado e quanto fossi arrogante. Senza di lui, non avrei fondato la Elton John Aids Foundation, una charity che finora ha raccolto 450 milioni di sterline", racconta. L'alleggerimento arriva con la storia dell'incontro con il marito David Furnish. "Qual è la sfida dell'essere David?", scherza Walliams: "Siamo insieme da 26 anni, stare con me non è facile, anzi è dura. Ero sobrio da tre anni quando ci siamo conosciuti. Una sera mi sentivo solo, così chiesi aiuto. Ero a casa mia, a Windsor. Mi attaccai al telefono e chiamai un amico che lavorava nel negozio di Versace in Bond Street. Lo invitai da me con i suoi amici gay. Non volevo del sesso, solo compagnia. Volevo una serata piacevole, una cosa per pochi, con gente normale. Arrivarono quattro persone, una di quelle era David. All'inizio non voleva venire perché pensava fossi la solita rockstar piena di sé... lui mi sorprese; aveva un lavoro, una casa e una macchina! Io di solito facevo solo degli 'ostaggi' che poi si dileguavano! Il giorno dopo, come un vero gentleman, aspettai le 11.30 prima di farmi risentire. Lo invitai a pranzo, prendemmo un take away (cinese, si dice che poi vomitarono, ndr), e questo è tutto". Poi si parla del tentativo di adottare due bambini da un orfanotrofio in Ucraina, Lev, di 18 mesi, e Artem, fallito perché "mi facevano domande tipo "sembri molto attratto da questi ragazzini... vuoi davvero adottarli?", ero troppo vecchio, ero gay e le leggi europee erano davvero restrittive. Di recente li ho rivisti, a Kiev. Abbiamo singhiozzato entrambi, lui, il fratello e la nonna”. Va avanti, è un fiume in piena: "Smetti di essere egoista, prenditi delle responsabilità, mi dicevo. Non avevamo uno scopo, solo una vita edonista. I miei figli Zachary ed Elijah mi hanno cambiato, mi hanno dato qualcosa che non pensavo esistesse. Li amo tantissimo. A un certo punto David mi ha detto: 'Cosa hai intenzione di fare?'. E io ho pensato al Farewell Tour, un tour d'addio, perché volevo passare più tempo con la mia famiglia. Sono stufo di fare tournée. Non voglio morire sul palco. Il 2021 sarà l'ultimo anno. Sono qui per dire ai miei fan quanto sono stato fortunato ad averli e che me ne vado nel modo migliore, suonando e facendo il mio meglio nel mio spettacolo migliore. Farò ancora degli show ma se li farò saranno cose in un posto come questo, un teatro, con un spettacolo fisso, dove suonare pezzi dal mio catalogo che voglio suonare, non The Bitch is Back. Ho provato a cambiare il repertorio ma se non suoni le hit ti uccidono, perché la gente vuole quelle e se non le suoni ti ammazzano! I mie figli mi dicono: "Papà, perché non canti mai Mona Lisas and Mad Hatters?". Ecco. La mia ambizione è rimanere in vita abbastanza per vederli sposati. Hanno una vita fantastica ma devono guadagnasi le cose. Avranno una macchina di seconda mano, se non potranno permettersene una. Oggi fanno lavoretti in giardino per avere la mancia. La vita è piena di problemi, chiunque li ha. Io incluso". "Be', hai altre domande?", sbotta Elton, rivolgendosi a Walliams, cosciente di essersi fatto prendere un po' troppo la mano dall'argomento. "No, però vorrei fare gli auguri di compleanno a David! Lo porti da Nando's per cena?", dice, riferendosi a una terrificante catena di ristoranti diffusi un po' ovunque. Risate. "Forza, cantiamo tutti insieme!". "Non è un po' kitsch?", replica Elton, il re del kitsch. Ma tutti si sono già alzati in piedi a cantare: "Happy birthday, Dear David!". La musica, dicevamo, è sempre lì. Ti salva. Anche questa sera.

"È stata troppo cattiva con Lady Gaga". Elton John critica Madonna. Tuonano le affermazioni di Elton John nella sua autobiografia in cui rivela che, in passato, Madonna ha usato un comportamento poco adeguato nei riguardi di Lady Gaga. Carlo Lanna, Domenica 27/10/2019, su Il giornale. Il mondo dello spettacolo (e non solo) sta tremando di fronte alle rivelazioni di Elton John trapelate su "Me", la sua prima autobiografia. Il celebre artista che ha rivoluzionato il panorama della musica pop, è sempre stata una persona fuori dagli schemi, amato e odiato per il suo carattere pungente. E proprio quel carattere ha creato diverse tensioni da chi, come lui, ha scalato le classifiche di gradimento del pubblico. “Me” è un racconto a cuore aperto degli anni in cui Elton John ha stigmatizzato la sua figura nel mondo della musica e, nel suo libro, ha voluto raccontare il rapporto che ha avuto con alcune stelle della musica. Fra queste spunta anche Madonna. Elton John ha criticato aspramente il comportamento della regina del pop, affermando che non si sarebbe comportata in maniera adeguata nei riguardi di Lady Gaga. Tutto sarebbe nato dopo un’intervista che Madonna aveva rilasciato ad ABC News, in cui ha affermato che la neo-diva del pop con "Born This Way" aveva pubblicato una canzone molto simile alla sua "Express Yourself". John affermando comunque che le due canzoni sono simili, non comprende il comportamento di Madonna. "Lei è stata molto cattiva a riguardo, soprattutto perché afferma di essere una sostenitrice delle donne – rivela –. Questo comportamento è sbagliato. Un’artista affermata non dovrebbe affossare la carriera di una cantante all’inizio della sua carriera". Nel libro Elton John prosegue nel suo duro attacco, affermando che Miss Ciccone è stata fin troppo dura nella critica che ha rivolto a Lady Gaga. "Lo dice una che con Like A Virgin sembrava una spogliarellista al luna Park – continua –. Ho detto cose orribili su di lei, ma volevo tenerle per me. Purtroppo quelle rivelazioni sono state montante dopo un’intervista che ho rilasciato a una TV australiana. Nessuna ha compreso però che stavo raccontando solo un semplice aneddoto a un amico". Nel libro si parla anche di Lady D, Michael Jackson e tanti altri nomi dello spettacolo.

DAGONEWS l'8 ottobre 2019. Estratto dell'autobiografia "Me, Elton John". Una mattina del giugno 1983 fui svegliato dal suono di qualcuno che martellava sulla porta della mia suite d'albergo. Non riuscivo a pensare chi fosse perché non riuscivo a pensare affatto. Nel momento in cui ho aperto gli occhi, mi sono reso conto che avevo i postumi di una sbornia che ti fa pensare che non fosse una sbornia: non puoi sentirti male solo per gli eccessivi bagordi - ci deve essere qualcosa di più grave di sbagliato in te. Non era solo la mia testa. Mi faceva male tutto il corpo. Soprattutto le mie mani. Da quando i postumi ti hanno fatto male alle mani? Il martellamento continuò, accompagnato da una voce che chiamava il mio nome. Era il mio PA, Bob Halley. Mi sono alzato dal letto. Dio, quella sbornia era sorprendente. Mi sentivo peggio di quanto non mi fossi sentito dopo la festa di capodanno del 1974 di Ringo Starr, che era iniziata alle 20:00 e si è conclusa verso le 15.30 del pomeriggio seguente. Ho aperto la porta e Bob mi ha lanciato uno sguardo attento, come se si aspettasse che io dicessi qualcosa. Quando non l'ho fatto, ha detto: «Penso che dovresti venire a vedere questo». L'ho seguito nella sua stanza. Aprì la porta per rivelare una scena di totale devastazione. Non era rimasto intatto un solo mobile, tranne il letto. Tutto il resto era sottosopra o a pezzi. Seduto tra i detriti c'era un cappello da cowboy che a Bob piaceva indossare. Era completamente piatto, come quello di Yosemite Sam dopo che Bugs Bunny gli fa cadeva un'incudine in testa. «Diavolo – dissi - che è successo?» Ci fu una lunga pausa. «Elton - disse alla fine – Sei sto tu». Cosa voleva dire, sono stato io? Non riuscivo a capire come questo potesse avere qualcosa a che fare con me. L'ultima cosa che ricordavo è che mi stavo divertendo moltissimo. Quindi perché dovrei distruggere qualcosa? «Ero al bar - dissi con indignazione - Con i Duran Duran». Bob sospirò. «Sì, lo eri – disse - All'inizio». Era il giugno 1983 ed eravamo a Cannes per girare un video per “I'm Still Standing”, che era stato pianificato come il primo singolo del prossimo album, “Too Low for Zero”. Le riprese erano iniziate alle 4 del mattino ed erano proseguite tutto il giorno. Mentre il sole tramontava, fu ci fu una pausa e io tornai nel mio hotel, il Negresco, per rinfrescarmi prima delle riprese notturne. Ero nella hall quando ho incontrato Simon Le Bon. Era in città con i Duran Duran e stavano andando al bar. Vuoi venire? Non lo conoscevo così bene, ma pensavo che un drink veloce potesse ravvivarmi. Stavo riflettendo su cosa ordinare, quando Simon mi ha chiesto se avessi mai bevuto un vodka martini. Non lo avevo fatto. Forse avrei dovuto provarne uno. I resoconti variano su ciò che è accaduto dopo. Temo di non poterli confermare o negare perché non ricordo davvero nulla oltre al fatto che i Duran Duran fossero una compagnia enormemente allegra e che la vodka martini era scivolata giù molto facilmente. Secondo alcuni, ne avevo bevuti o sei o otto nel giro di un'ora e mi ero fatto un paio di strisce di coca. Sono tornato sul set del video, ho chiesto loro di iniziare a far funzionare le telecamere, mi sono tolto tutti i vestiti e ho iniziato a rotolarmi sul pavimento nudo. Il mio allora manager John Reid era lì, vestito da clown. Mi ha redarguito, un intervento che ho preso molto male. Talmente male, infatti, che gli ho dato un pugno in faccia. Alcuni osservatori hanno detto che sembrava che gli avessi rotto il naso. Questo spiegava perché mi facevano male le mani, ma ero piuttosto scioccato. Non avevo mai colpito nessuno nella mia vita adulta prima e da allora non l'ho mai più fatto. Odio la violenza fisica al punto che non riesco nemmeno a guardare una partita di rugby. Se avessi voluto interrompere l'abitudine di una vita e dare un pugno in faccia a qualcuno, poteva essere John Reid il bersaglio: poteva prenderlo come rimborso per avermi picchiato quando eravamo una coppia. Qualcun altro è riuscito a rimettermi i vestiti - questo, mi è stato detto, hanno fatto diversi tentativi - e Bob Halley mi ha spinto al piano di sopra. Ho espresso il mio disappunto per il suo intervento distruggendo la sua camera d'albergo. Come finale, avevo calpestato il suo cappello, poi sono tornato barcollando nella mia stanza e sono svenuto. Bob e io ci siamo seduti sul letto in preda all'isterismo. Non c'era altro da fare se non ridere per la distruzione e poi fare delle telefonate di scusa. È stato un giorno che avrebbe dovuto farmi riflettere a lungo su come mi stavo comportando. Ma non ha funzionato affatto in quel modo. L'impatto principale che gli eventi di Nizza hanno avuto sulla mia vita è stato che - aspetta - ho deciso di bere più vodka martini. Il più delle volte, nessuno osava dire nulla a causa di chi ero. Questo è il successo. Ti dà una licenza per comportarti male; una licenza che non viene revocata fino a quando il successo non si esaurisce completamente. Avevo iniziato ad assumere cocaina nel 1974. Mi piaceva come mi faceva sentire. Quella scossa di fiducia ed euforia, la sensazione di potermi improvvisamente aprire, di non sentirmi timido o intimidito, di poter parlare con chiunque. Era una stronzata, ovviamente. Ero pieno di energia, ero curioso, avevo un senso dell'umorismo e una sete di conoscenza: non avevo bisogno di una droga per farmi parlare con la gente. Semmai, la cocaina mi ha dato troppa fiducia. Se mi non fossi stato impazzito quando i Rolling Stones si presentarono in Colorado e mi chiesero di salire sul palco con loro, avrei potuto semplicemente esibirmi con Honky Tonk Women, salutare la folla e uscire. Invece, ho deciso che sarebbe andata così bene, sarei rimasto sul loro set, senza prima prendere la precauzione di chiedere agli Stones se volevano un tastierista ausiliario. Per un po', ho pensato che Keith Richards continuasse a fissarmi perché era sbalordito dal miei contributi improvvisati alla loro opera. Dopo alcune canzoni, è finalmente penetrato nel mio cervello che l'espressione sul suo viso non suggeriva un profondo apprezzamento musicale. Mi sono allontanato rapidamente, notando mentre procedevo che Keith mi stava ancora fissando in un modo che suggeriva che ne avremmo discusso più tardi e ho deciso che sarebbe stato meglio se non fossi rimasto per la festa dopo lo spettacolo. Ma c'era qualcosa di più nella cocaina rispetto al modo in cui mi faceva sentire. La cocaina aveva una certa qualità. Era alla moda ed esclusiva. Farsi  è stato come diventare membro di una piccola cricca d'élite, che si abbandonava segretamente a qualcosa di pericoloso e illecito. Abbastanza pateticamente, questo mi ha davvero attratto. Sarei diventato popolare e di successo, ma non mi sarei mai sentito figo. Anche nella mia prima band, i Bluesology, ero il nerd, quello che non assomigliava a una pop star, che non si era mai portato via i vestiti alla moda, che ha trascorso tutto il suo tempo nei negozi di dischi mentre il resto della band erano fuori a fare sesso e ad assumere droghe. Quando finalmente arrivò il successo, nonostante l'accoglienza calorosa che avevo ricevuto dalle altre star, non potei fare a meno di sentirmi ancora fuori posto, come se non fossi del tutto indipendente. A quanto pare, farsi una striscia di coca, per poi farsene un’altra, ero io. Non sono mai stato il tipo di tossicodipendente che non poteva alzarsi dal letto senza una striscia, o che aveva bisogno di prenderla ogni giorno. Ma una volta iniziato, non potevo fermarmi, fino a quando non ero assolutamente certo che non ci fosse cocaina da nessuna parte nelle vicinanze. Ancora una volta, potresti pensare che questo mi abbia fatto riflettere, ma temo che nei successivi  16 anni sino stati pieni di incidenti che avrebbero potuto dare una pausa razionale all'essere umano riguardo al  consumo di droga. Questo era il problema. Dato che mi facevo, non ero più un essere umano razionale. Diventi irragionevole e irresponsabile, ossessionato da te stesso. È la tua strada o l'autostrada. È una droga orribile.

Paolo Giordano per “Il Giornale”il 9 ottobre 2019. Mica facile scrivere l' autobiografia di una vita da romanzo. Elton John ci è riuscito ma chissà che fatica ridurre mezzo secolo di eccessi, follie, incontri pazzeschi e successi epocali in un solo libro. Basta sfogliare a caso Me: Elton John (che esce per Mondadori il 15 ottobre tradotto da Michele Piumini e Valeria Gorla) per trovare pagina dopo pagina la storia del rock, quella del costume e quella della liberazione sessuale in un ritmo da musical, talvolta un po' barocco ma, accidenti!, in un copione così ci sta bene anche un po' di enfasi. D' altronde nella vita di Elton John vale tutto. Se incontri Elvis Presley a un concerto a Washington e ti rattristi davanti alla sua decadenza ma poi mandi a John Lennon una nuova versione di Imagine per prenderlo in giro, beh, vuol dire che non ti sei fatto mancare proprio nulla. «John e Yoko (Ono - ndr) erano pessimi come me quando si trattava di shopping», scrive lui dopo aver ricordato di avergli regalato un orologio a cucù con un pene che usciva fuori a ogni ora. John Lennon aveva tanti appartamenti pieni di opere d' arte, mobili antichi, vestiti costosi. Così, per stuzzicare il compagno di shopping, Elton John gli mandò un bigliettino con i versi della nuova Imagine. La metrica è rispettata, il senso no: «Immaginati sei appartamenti, non è difficile da fare, uno è pieno di pellicce, un altro di scarpe». Insomma, è uno dei tanti episodi che la superstar ha tirato fuori dal cappello magico della sua vita. Dopotutto, la vita di Elton John non ha bisogno di essere riassunta nei dettagli fondamentali perché la conoscono tutti: londinese, 72 anni, 400 milioni di dischi venduti, maestro della provocazione, pianista funambolico, cantante istrionico, fondatore di una delle organizzazioni no profit più grandi del mondo (la Elton John Aids Foundation) e autore di brani come Crocodile Rock o Don' t go breaking my heart che chiunque riconosce alla prima nota. Tutto il resto è leggenda. Come quando lui, invitato dai Rolling Stones a eseguire con loro il brano Honky tonk women su di un palco in Colorado, era così fatto di cocaina che non voleva più andarsene: «Decisi che l' esecuzione stava andando bene, quindi mi sarei trattenuto sul palco e avrei improvvisato per il resto del concerto». Poi però ha capito che no, era meglio andarsene. «Per un momento ho pensato che Keith Richards mi stava guardando perché impressionato dal mio brillante contributo (...). Dopo pochi secondi ho finalmente realizzato che l' espressione sulla sua faccia non suggeriva un apprezzamento musicale». In sostanza, era ancora abbastanza lucido da andarsene in fretta e furia prima di essere buttato fuori a calci. Così, aneddoto dopo aneddoto, in viene fuori un circo Barnum di esagerazioni, follie e buoni sentimenti che trasformano Reginald Kenneth Dwight in arte Elton John nel paradigma della rockstar. Durante una festa nel giardino di casa sua, era così alterato dalla cocaina da scambiare Bob Dylan per il giardiniere, ma lo scrive dopo aver ammesso che sniffare è stato «l' errore più grande della mia vita». E che questo straordinario performer abbia un cuore altrettanto sensibile lo confermano le pagine sulla morte di Ryan White, il ragazzino che contrasse l' Hiv da una trasfusione e che fece scintillare all' artista la volontà di costituire la Elton John Aids Foundation che finora ha raccolto oltre 150 milioni di dollari poi distribuiti in 55 paesi del mondo. Chapeau. Però, oltre alle facciata di lusso e successo, anche questo londinese amico di Lady Diana e padre di due bambini adottivi (uno dei quali dolcemente schiaffeggiato a un evento pubblico dalla regina Elisabetta perché era scalmanato e «non devi discutere con me, sono la Regina!») ha attraversato le sue porte di dolore. La perdita degli amici, come quella di Gianni Versace del quale racconta, tra l' altro, di come scherzosamente considerasse Prada una comunista perché aveva disegnato una borsa di nylon. E la malattia. Dopo un intervento per rimuovere un cancro alla prostata, fu vittima di una infezione che lo spinse a un centimetro dalla morte: «i medici dissero a David Furnish (suo marito, anche in questo Elton John è stato un apripista controcorrente - ndr) che ero a 24 ore dalla morte». Ora invece la più glamour delle vecchie rockstar è a pochi passi dal traguardo, visto che è in giro per il suo tour d' addio, che è lungo, lunghissimo perché a una storia così è proprio difficile mettere il punto finale. Al massimo, si va a capo.

Giordano Tedoldi per “Libero”il 9 ottobre 2019. Con un gesto da star, comunque più sobrio di certi costumi indossati nei concerti, il 15 ottobre Elton John pubblica in contemporanea mondiale la sua autobiografia: Me (Mondadori, 384 pagg., 24 euro). Nonostante questi ultimi anni da sosia di Angela Merkel, Elton John è stato un grandissimo e longevo musicista, non inferiore al coetaneo e più criticamente apprezzato David Bowie, col quale peraltro non correva buon sangue: Bowie, che si sentiva assai fine, definì Elton «la checca da marciapiede del rock». Come che sia, la checca da marciapiede, con la sua formazione alla Royal Academy of Music, conosceva la sua arte molto meglio di Bowie e della maggioranza dei suoi colleghi, il che si riscontra in quel suo peculiare stile "misto" tanto nel suonare il pianoforte quanto nel comporre canzoni «con più di tre o quattro accordi» come dice con legittimo orgoglio nell' autobiografia (nel pop odierno se va bene se ne usano due) e nel fondere, seguendo l' esempio di uno dei suoi tanti modelli, il pianista Leon Russell, rock' n'roll, blues, gospel, country. Da un punto di vista strettamente biografico, Elton John è un soggetto alquanto noioso. Nato Reginald Dwight, cambiò nome rubandone gli elementi dal sassofonista Elton Dean e dal cantante Long John Baldry, con i quali suonava l' organo elettrico nel suo primo e ultimo gruppo, i dimenticati Bluesology. Nel 1970 il successo, con l' album Elton, sancito dall' acquisto di un' Aston Martin DB6 appartenuta a Maurice Gibb dei Bee Gees. Seguono le prevedibili storie di eccessi, shopping compulsivo e montagne di cocaina che sono l' ordinaria amministrazione della rockstar.

Lennon e Warhol. Divertente però l' aneddoto di Elton e John Lennon chiusi in qualche appartamento a sniffare una torre di Babele di polvere bianca. A un certo punto suonano alla porta e i due, fattissimi e dunque paranoici, pensano alla polizia. «Va' a vedere dallo spioncino» dice l' ex Beatle, da poco separatosi dall' arcigna Yoko Ono. Elton va e dietro la porta c' è Andy Warhol. «È Andy Warhol!» dice eccitatissimo, non avendolo mai incontrato. Lennon gli intima di non aprire assolutamente la porta, e quando Elton John protesta, saggiamente viene redarguito: «Scommetto che ha la sua macchina fotografica del cazzo, vero? E tu vorresti che entrasse a fotografarti con quei ghiaccioli di coca appesi al naso?». Nelle pagine, Elton John fa penitenza per i suoi decennali eccessi con le sostanze, ma non può evitare di sembrare forzato. Molto più credibile è quando offre in pasto al lettore la sua fragilità sentimentale, che l' ha spesso portato a innamorarsi di personalità dominanti, come il suo manager John Reid, dal quale si è separato quando, poco prima di una festa, dopo aver discusso a proposito dei suoi continui tradimenti, Reid afferra Elton, lo trascina in bagno e gli molla un violento pugno in faccia. «Non potevo stare con un uomo che mi picchia». Decisamente no. Ma lasciò che Reid continuasse a fargli da manager, perché era bravo e aveva orecchio. Fu Reid a far sentire a Elton un brano di un nuovo gruppo che questi giudicò «la cosa più kitsch che abbia mai ascoltato» e «dal titolo assolutamente ridicolo»: Bohemian Rhapsody dei Queen (con buona pace del fiuto di Reid, secondo noi aveva ragione Elton).

«Sono un nerd». Dicevamo degli eccessi assai ordinari delle rockstar. Il tratto più bello del libro è quando l' autore si rende conto che, dopotutto, lui è stata una rockstar del tutto anomala e che, ad esempio, a differenza di molte di loro, non è mai stata sexy. In un' occasione, parlando della sua passione per le statistiche, le classifiche di vendita, la mania dell' ordine, Elton John si definisce «un nerd». L' autovalutazione è corretta. Ma è stata tale nerdaggine a farlo circondare infallibilmente di musicisti agguerritissimi come Nigel Olsson o Davey Johnstone (si vedano i suoi assoli di chitarra in Rocket Man) e soprattutto di un paroliere di delicata sensibilità - rara avis in quell' inferno di velleità grandiose che è il rock - come Bernie Taupin. Scartate alcune dozzine di canzoni di routine e melliflue come ce ne sono in ogni repertorio, nelle composizioni del duo John-Taupin si apprezza un' inedita complessità armonica e melodica nella parte musicale, e una poesia che fluisce con nobile naturalezza in quella testuale.

Poletario noioso. Così ecco che le cose stanno proprio così: l' autobiografia di Elton John è un poco noiosa, è la storia di un proletario londinese con la passione per Jerry Lee Lewis e Little Richard, con una sensibilità musicale che va dal blues a Chopin a Bartók, con un tratto omosessuale tardivo - «vergine fino a 23 anni» - che con quel suo stile misto, con la sua voce tra il cantante confidenziale e la rockstar, con l' amore per l' estetica "camp" (si veda il video della stucchevolissima Blue Eyes, dove Elton suona l' oggetto più volgare che esista: un pianoforte bianco) ha scalato le classifiche e, per certi versi, ridicolizzato la seriosità di una scena rock che si avviava rapidamente alla sua dissoluzione per avidità commerciale, arretratezza sociale e inconsistenza musicale. Oggi Elton John può solo testimoniarci cosa fu l' impatto del rock' n'roll nell' Inghilterra postbellica, così ben dipinta dai Quattro Quartetti di T.S. Eliot, in quel tempo apocalittico dove ogni cittadino era stato costretto a scegliere tra i fuochi di "pira o pira". Spenti i roghi purificatori, accese le luci sul palcoscenico, lo show è stato lungo e necessario, ma non ne rimpiangiamo la fine, e ci sembra che anche Reginald Dwight, raccontandocela, condivida

·         Lodovica Comello.

Gianmaria Tammaro per Dagospia l'8 ottobre 2019. Colpo di fulmine: Avevo letto la prima versione della sceneggiatura di Extravergine, e l’idea di base mi è piaciuta subito. Mi divertiva raccontare questo soggetto anacronistico, Dafne, una ragazza, una giornalista, un’anima vintage che si muove nella Milano del 2019, una città che va veloce e che sta al passo con i tempi. E mi divertiva il fatto di raccontare una persona con un segreto come il suo: essere vergine a trent’anni”. Lodovica Comello, cantante, presentatrice e attrice, è la protagonista della nuova comedy di Fox Italia prodotta con Publispei e in onda da mercoledì 9 ottobre su FoxLife. Ammette: “Rimanere vergini a trent’anni è una cosa difficile, ma non impossibile; so che ci sono dei rari esemplari di donne che conservano la loro verginità”.

In Extravergine, Dafne è una giornalista. E all’inizio si occupa di libri. E la sua rubrica non va benissimo.

“Il suo capo le dice: non sei tu, sono i libri”.

Siamo messi veramente così male, secondo lei?

“Sto per dire un’ovvietà, ma è una cosa che riscontro anche in me stessa: circondati come siamo da mille cose, mille social, mille spunti, incapaci di trovare il tempo per riflettere su noi stessi e per tranquillizzarci, diventa sempre più difficile ritagliarsi un momento per leggere”.

I tempi sono cambiati?

“La lettura, come il sesso tra l’altro, è una di quelle cose che una volta si facevano con più cura”.

Com’è stato lavorare a una serie come Extravergine, tutta sul sesso?

“Ha creato degli scompensi nella mia famiglia. I miei nonni non sapevano ancora molte cose su di me. Ma a me no, a me divertiva veramente tanto. La mia esperienza recitativa si è concentrata soprattutto su Violetta, e trattavo tutt’altro. Poi ho recitato in un paio di film, ma erano ruoli molto positivi, mai spinti, mai eccessivi”.

Il personaggio di Dafne è diverso.

“Mi diverto a parlare di sesso; e mi diverte chi parla di sesso. E mi diverte farlo in Italia, dove nessuno l’aveva mai fatto in modo così originale. Sono incuriosita dalla reazione del pubblico”.

Di sesso si parla pochissimo. Perché?

“È ancora un po’ sconveniente; è uno di quegli argomenti che ci imbarazzano, ma è anche uno dei pochi in grado di catturare immediatamente la nostra attenzione. Siamo ipocriti. Ed Extravergine è interessante anche per questo: sdogana uno dei più grandi tabù della nostra società”.

Ovvero?

“La libertà di una donna di vivere la propria sessualità in modo trasparente. Con normalità. Come lo fa qualsiasi uomo”.

Che cosa ha imparato sul set di Extravergine?

“Sono entrata in contatto con sex toys di ogni forma e dimensione, e di intensità di vibrazione. E con bambolotti che non avevo mai visto da vicino”.

Parlare così tanto di sesso le dà fastidio?

“In realtà mi fa ridere. All’improvviso, dopo aver girato una serie sul sesso, sono diventata agli occhi delle persone un’esperta. E ora mi ritrovo a parlare solo di questo. Insomma: se avete problemi o dubbi, chiedete a Lodovica”.

Chi è Lodovica?

“Sono una ragazza normale, in realtà. Ho avuto le mie esperienze, e di uomini, ecco, ne ho avuti anche pochi”.

Crede che il pubblico di Violetta la seguirà anche in quest’avventura?

“Secondo me sì, se con Violetta erano bambini, ora sono diciottenni e sono pronti per certe cose. Qualcuno me lo sono portato dietro, e mi diverte questa cosa di essere cresciuta insieme a loro: di averli accolti in fasce e di accompagnarli oltre la pubertà”.

Extravergine a parte, sta lavorando anche alla nuova stagione di Italia’s got talent.

“Abbiamo da poco concluso le riprese delle audizioni. E sono andate molto bene. Quest’anno la giuria ha avuto un nuovo acquisto, Joe Bastianich, ed eravamo tutti curiosi di vederlo all’opera. Non ha lanciato piatti, ma ha usato parole molto taglienti”.

Nel 2017 è stata a Sanremo.

“Cosa sta riesumando...”.

Sono passati solo due anni.

“Ma ero un’altra persona!”

È cambiata così tanto?

“Tantissimo. Con Extravergine, sa...”

Che esperienza è stata per lei?

“È stata un’esperienza bella e stressante come poche. Andare a Sanremo è come stare in una bolla. È un’occasione troppo surreale. L’emozione, lo stress, l’adrenalina. È uno sballottolamento totale, ma che alla fine ti porta una soddisfazione unica”.

Pronta a rifarlo?

“Se capita, perché no? Io non mi tiro indietro davanti a niente”.

Extravergine è una serie sul sesso, e l’abbiamo già detto; ma è una serie pure al femminile.

“E non solo per il cast, ma anche per tutto il team. A cominciare da Roberta Torre, la regista, che ha portato una visione straordinaria, e dalla nostra produttrice, Verdiana Bixio. Ciascuna di queste donne ha dato qualcosa alla serie”.

L’Italia è un paese maschilista?

“Forse sempre meno; se pensa ai paesi stranieri, sì, siamo ancora indietro. Soprattutto non siamo abituati alla donna che fa ridere, la donna irriverente, e i personaggi femminili forti sono ancora un po’ scomodi. Li guardiamo ancora con sospetto. All’estero questa cosa è stata abbastanza sdoganata. Le stand-up comedian donne sono parte della normalità”.

Le cose, diceva, stanno cambiando.

“Entrano in gioco tantissimi fattori. Tutto. Ma nel mondo stanno succedendo molte cose, e i punti di vista si stanno rovesciando, e noi donne stiamo facendo sentire la nostra voce. Non c’è più paura di esprimersi – non deve esserci”.

Forse torna tutto lì: al sesso. E al nostro rapporto con il sesso.

“Siamo frustrati, dice? È verissimo. Qualche tempo fa, mi sono imbattuta in questo articolo che diceva che i giovani d’oggi fanno sempre meno sesso. Stiamo andando sempre più alla deriva; siamo più individualisti. E aprirci fisicamente agli altri è sempre più scomodo, è sempre più strano. Ed è incredibile pensarlo”.

Il problema, forse, è come il sesso viene raccontato.

“Ma soprattutto come ci viene dipinto dalla tv e dai social, e dalle immagini che ci vengono continuamente proposte. Siamo abituati a vedere queste donne giunoniche, valchirie, invincibili, e questi uomini prestanti e aitanti. Non è concesso un margine di imperfezione e di debolezza. Dobbiamo essere tutti dei modelli perfetti. E poi ci ritroviamo a doverci confrontare con quest’idea, che non è vera”.

Effetti collaterali?

“Ci diciamo: rimango alla mia foto di Instagram, e almeno qui le persone non mi conoscono e non mi giudicano per quello che veramente sono”.

Qual è la cosa più assurda che ha scoperto sul set di Extravergine?

“Che i bambolotti pesano tantissimo. Ma una donna che ne deve maneggiare uno, dico io, come fa? Io non riuscivo ad alzarlo. Mi hanno dovuto dare delle dritte... Non è che abbia in programma di usarne uno, per carità. Però mi chiedo come facciano le persone. E poi sono costosi. Affittarne uno, per un giorno, costa 500€. E se lo vuoi comprare - nel caso fossi interessato - costa tra i 2000 e i 3000€”.

Potrebbe diventare testimonial.

“Potrei fare la venditrice porta-a-porta”.

Sia sincera: si arrabbia mai?

“Quando mi incazzo, mi incazzo veramente. E quando lo faccio, la gente se ne accorge, mi creda. Sono una di quelle che accumulano e accumulano, e accumulano ancora. E poi quando scoppiano fanno il disastro. Ma, giuro, ho molto autocontrollo”.

·         I Ricchi e Poveri.

Franco Gatti rivela: "Mio figlio beveva molto, è stata la sua disgrazia". Il cantante dei Ricchi e Poveri, ospite di Caterina Balivo a “Vieni da me”, parla di suo figlio Alessio, scomparso nel 2013 a soli 23 anni: “Era un genio, ma ha fatto una cazzata in vita sua e l’ha pagata cara”. Alessandro Zoppo, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. Franco Gatti è stato ospite di Caterina Balivo nel corso della puntata di Vieni da me andata in onda su Rai1 nel pomeriggio dell’8 ottobre 2019. Il “baffo” dei Ricchi e Poveri ha ripercorso la sua lunga carriera, iniziata con i Jets nella metà degli anni ’60 e proseguita con successi come Che sarà e Sarà perché ti amo, e il suo privato, segnato dal dolore per la perdita del figlio Alessio. Era il 13 febbraio 2013 quando il ragazzo, appena 23enne, è stato trovato morto nella sua abitazione di via Capolungo a Nervi, nel levante di Genova. Alessio è stato stroncato da un infarto, procurato da un cocktail di alcol ed eroina, come certificato dagli esami della Procura di Genova e compiuti dall’Istituto di Medicina legale. “Mio figlio beveva – racconta Gatti –, beveva e beveva. Ed è stata anche un po’ la sua disgrazia. Ha fatto una cazzata, la prima della sua vita, con gli stupefacenti e in un momento in cui non stava bene. E l’ha pagata così”. Sono passati più di sei anni e il cantante ha detto basta alla musica perché non riesce più a salire con gioia su un palcoscenico. Alessio, tuttavia, è sempre al suo fianco. “Io mio figlio – spiega Gatti – lo sento vicino. Era incredibile, dotato di una grande genialità. Io ho sempre giocato nei titoli borsistici, gli feci vedere come facevo, dopo sei mesi era migliore di me. Di studiare non se ne parlava, però era un tipo così. L’unica cosa era che beveva molto”. Il cantante ci ha tenuto a specificare che il figlio non assumeva abitualmente droga e si è commosso ripensando ad un aneddoto che l’ha sempre colpito. “A casa – confessa – veniva sempre un gabbiano la mattina a trovarmi. Lo guardavo e poi se ne andava. A Mosca poi pensai a mio figlio e vidi un gabbiano. Se non era un messaggio questo? Credo che ci rincontreremo, lo spero”.

·         Giorgio Moroder: Viva gli anni Ottanta!

 "Viva gli anni Ottanta! Un'epoca ottimista che mi donò tre Oscar". Il mito (italiano) della musica elettronica per la prima volta dal vivo. A 79 anni...Ferruccio Gattuso, Sabato 11/05/2019, su Il Giornale. Settantanove anni messi sul piatto, per una mano di poker che vale la posta. Il piatto, ovviamente, è anche quello da deejay, perché Giorgio Moroder insieme a tante altre cose è anche questo. Monumento della disco music elettronica, compositore e innovatore, guru del sintetizzatore, vincitore di tre Oscar per aver marchiato a fuoco tre film di culto come Fuga di mezzanotte, Flashdance e Top Gun, senza contare la colonna sonora di Scarface di Brian De Palma, gangster movie icona degli anni Ottanta. E proprio all'ultimo decennio ottimista della storia d'Occidente il produttore italiano (originario di Ortisei, Bolzano) dedica il suo primo show live in carriera, The Celebration of the 80's, partito il primo aprile da Birmingham e atteso in Italia a Milano, Roma e Firenze a metà maggio. Prima tappa il Teatro Ciak di Milano, il 17 maggio.

Maestro Moroder, per lei un esordio nella musica dal vivo, con tanto di band. Perché ora?

«La verità è che cinque anni fa cominciai a uscire dallo studio di registrazione, il luogo dove ho sempre vissuto professionalmente. Ho cominciato a fare dj set e, con mio stupore, mi sono divertito un sacco. Non avevo mai provato il rapporto diretto col pubblico. Alla fine, mi sono deciso: su un palco, insieme a dei musicisti, qualche cantante. Anzi, anch'io canterò un paio di brani».

Non è mai troppo tardi per reinventarsi?

«Assolutamente. Era il mio sogno nascosto, questo del live. Difatti lo show avrà la forma di una festa».

La sua parabola stellare cominciò negli anni '70: perché celebra gli '80?

«Nel repertorio ci saranno anche brani dei '70, naturalmente. Sono gli anni in cui cominciai la carriera di produttore e compositore, quando conobbi Donna Summer, a Monaco. Tutto partì, veramente, da I Feel Love. Ma per me gli anni '80 sono gli Oscar con FlashdanceWhat a feeling e Take my breath away da Top Gun».

Che ci faceva a Monaco negli anni '70?

«Io parlo tedesco fu una scelta naturale: dopo un po' di tempo a Berlino, dove ero salito per cercare fortuna e perché lassù viveva una zia, ero sceso nel sud della Germania. Berlino? Una città fantastica, ricca di stimoli: lì scoprii l'elettronica. Dopo un po', però, mi sentii soffocare: il Muro condizionava tutto, ammorbava le menti. A Monaco c'era un'altra atmosfera».

Donna Summer, Barbra Streisand, Freddie Mercury, David Bowie, Britney Spears: lei ha collaborato con star di tutte le generazioni. Quale l'ha colpita di più?

«Se devo citare due divine piene di talento, dico Donna Summer, con cui ho realizzato quasi ottanta canzoni e che fu per me una vera amica, e Barbra Streisand, incredibile nell'eccellere su ogni fronte: cantante, attrice, regista. Oggi come lei vedo solo Lady Gaga, una delle mie preferite: compone e canta, recentemente ha vinto un Oscar come attrice».

L'hanno definita, tra le altre cose, il Padrino della disco music, per le sue origini italiane. Lei è del profondo nord, ma vallo a spiegare agli americani. Ha pesato, questa italianità, sulla sua carriera?

«Nemmeno un po'. Negli States contano idee e talento. E gli italiani che hanno fatto successo sono moltissimi. Ma l'inglese resta la lingua perfetta per la dance».

Dopo aver vissuto tanti anni a Los Angeles, è tornato nella sua Ortisei: non una scelta da pensionato, a giudicare da questo tour.

«Mi alterno tra Stati Uniti e Italia, in verità»

Qui in Italia la scena musicale al momento è dominata dal rap e dalla trap: che giudizio dà di queste tendenze?

«Non mi dispiacciono. L'importante è che un brano abbia qualità, nei suoni e nell'arrangiamento. L'elettronica si deve maneggiare con cura».

Quale deve essere, per Giorgio Moroder, la prima qualità di una hit dance?

«Il ritmo. Deve farti muovere. Armonie e melodie vengono dopo, anche se contano. E poi serve l'ultimo tocco fondamentale».

Quale?

«La fortuna». 

·         Tatti Sanguineti. Patate, patacche e "fake".

Tatti Sanguineti. Patate, patacche e "fake". Ecco a voi la vera storia dell'oscuro Sarchiapone. Tatti Sanguineti porta in scena genesi, aneddoti e derive «pop» del celebre sketch di Walter Chiari, scrive Luigi Mascheroni, Mercoledì 10/04/2019, su Il Giornale. Dire che cosa sia il Sarchiapone - lo sanno tutti - è facilissimo. Chi non sa cos'è un Sarchiapone? Il Sarchiapone è... È un animale, un animaletto, un Diavolo - sì, un diavoletto: è il Razzuello napoletano - è un mostriciattolo che mangia le dita ai bambini. Il Sarchiapone è un oggetto di gomma, è un salvagente a forma di papera, è una persona goffa e credulona (a cui far credere che esiste il Sarchiapone). È un tormentone per cervelli annoiati, è una patata con i bottoni come occhi e un ciuffo d'erba in testa (oggi li vendono su Internet)... Ecco cos'è il Sarchiapone! È una patacca! Uno scherzo, un bluff... Oggi si dice «fake». Si dice che la leggendaria scenetta del «Sarchiapone» interpretata da Walter Chiari, assieme alla fidatissima spalla Carlo Campanini, poi riproposta e dilatata a dismisura in molte occasioni, sia un passaggio obbligato del genere comico. Renzo Arbore sostiene che se esistesse una Scuola per comici e umoristi, il Sarchiapone dovrebbe essere il tema della prima lezione. Senza conoscere le regole del Sarchiapone - improvvisazione, smorfie, giochi linguistici e commedia degli equivoci - sul palco non vai da nessuna parte. Che sul palco il Sarchiapone, di qualsiasi cosa si tratti, sia una sicurezza, è noto. Almeno da quando Walter Chiari lo mise al centro del suo sketch più celebre e più citato. Meno noto, però, è da dove arrivi esattamente il Sarchiapone.

Ma chi sa tutto dei Sarchiaponi, chi davvero può narrare genesi, aneddoti, varianti, mitizzazioni e usi impropri del Sarchiapone, è Tatti Sanguineti, critico cinematografico da Oscar alla carriera, conoscitore immenso di ogni piccola piega della storia del nostro cinema, biografo e grande amico di Walter Chari. Sarà lui, questa sera, all'interno del XX Festival del Cinema europeo di Lecce, a tenere una lectio-show su «Walter Chiari e la Puglia» con racconti, filmati inediti (come un video pirata e rarissimo del Finale di partita da Samuel Beckett con Renato Rascel e Walter Chiari, Teatro Variety, Firenze 1986) e altre perle di spettacolo e comicità. In scena, accanto all'inesauribile Tatti Sanguineti, anche Alfredo Traversa nella doppia veste di regista del docu-film sulle origini grottagliesi di Walter Chiari Il complesso di Walter e, soprattutto, di straordinario spacciatore di Sarchiaponi. E rieccoci, al Sarchiapone. Creatura indefinibile, invisibile ma pericolosa, che rimane chiusa dentro la gabbia portata in treno dal passeggero impersonato da Campanini mentre Walter Chiari ne parla come se ne fosse esperto, in realtà animale inesistente, puro pretesto inventato dal suo possessore per far scappare tutti dal vagone e poter dormire in santa pace, il Sarchiapone è una squisita metafora. Anzi, due. Metafora antropologica della pretesa, tutta italiana, di parlare con assoluta convinzione di cose che in realtà non si conoscono affatto (quanti discorsi sul Sarchiapone si sentono ancora oggi nei talk show...). E metafora linguistico-filosofica di tutto ciò che è inconoscibile. In effetti, l'origine del Sarchiapone è inconoscibile. Dopo aver fatto capolino nella rivista (Oh quante belle figlie Madama Doré, del 1956), le cronache televisive riferiscono che il Sarchiapone diventa noto con lo sketch - oggi storico - di Walter Chiari e Campanini nel programma Rai La via del successo, puntata del 9 febbraio 1958. E poi torna acclamatissimo nel 1973, durante il varietà di Antonello Falqui L'appuntamento, che Chiari conduce assieme a Ornella Vanoni, la quale prende parte alla gag (durata 14 minuti, si trova su Youtube). Ma Sanguineti, entrato in possesso della sceneggiatura originale del numero comico che poi conoscerà infinite declinazioni («Eccola qui la Ur-Sark! Il primo testo sul Sarchiapone depositato alla Siae») è convinto che l'invenzione della scena risalga agli anni 1954-55. A scriverla è sicuramente Italo Terzoli, sceneggiatore destinato a diventare con Enrico Vaime uno dei più prolifici autori di teatro e varietà fra gli anni '60 e '70, al quale Walter Chiari racconta una storia, pur dai contorni indefiniti. E cioè quella dello stesso Chiari che su una spiaggia di Fregene vede un napoletano vendere quelle palline sintetiche senza peso, sospese in una gabbietta, pronte a volare soffiandoci dentro come quelle che stanno nei fischietti degli arbitri: «Venite, comprate il Sarchiapone», grida il venditore ambulante. Chiari, stupefatto, sente le mamme e i bambini dirsi l'un l'altro «Sai che io c'ho il Sarchiapone», «Eh ce l'ho anch'io», «Io pure. Vuoi che non sappia cos'è il Sarchiapone», e lo sciòc diventa sketch...E da lì, attraverso la fantasia di Chiari e la scrittura di Terzoli, tutti ben presto sapranno che cos'è il Sarchiapone. O almeno: dicono di saperlo. Il Sarchiapone divenne un numero comico di scuola, poi un successo tivù, i dizionari lo hanno lemmatizzato, le pizzerie adottato (Ristorante-pizzeria Il Sarchiapone, forno a legna, chiuso il lunedì), la zoologia fantastica lo ha tassonomizzato e il disegnatore Alfonso Artioli nel 1964 addirittura s'inventò una Sarchiapone story a fumetti per il settimanale umoristico Il Travaso...«In realtà - è l'idea di Tatti Sanguineti, filologo inappuntabile del comico italiano - Walter Chiari in quegli anni doveva venire fuori dal ghetto dove certa intellighenzia paleostalinista italiana l'aveva confinato, in quanto marò della Decima MAS - tutti i comici sopra la Gotica erano fascisti.... - e inoltre capiva che doveva contrastare il successo montante di Alberto Sordi, sfruttando la moda della americanità nella società italiana: Un americano a Roma è del 1954... E così tirò fuori dal suo immenso talento il Sarchiapone. O meglio: il Sarchiapone americano...». Sarà vero? Sarà falso? Sarà un Sarchiapone. Che è tutto e niente. Una cosa che nessuno ha visto ma di cui tutti parlano. Il Sarchiapone è un trucco, è un termine antico, una parola napoletana, ma di origini pugliesi... È una «macchinetta» si diceva allora. Una matrice. Oggi si direbbe un format. Comunque, c'è da dire, di successo.

·         Fonzie e la sua vita da dislessico.

Fonzie e la sua vita da dislessico «Ogni commento mi faceva sentire inferiore». Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Alessandra De Tommasi su Corriere.it. Sono le sei del mattino in California e Henry Winkler, che a distanza di 40 anni il pubblico ricorda ancora come il «Fonzie» di Happy Days, ha già fatto colazione, controllato le e-mail e portato a spasso la cagnolina (un incrocio di labrador). Fa una pausa per una chiamata via skype Los Angeles-Roma, elettrizzato all’idea di parlare di quella che definisce «la soddisfazione più grande della carriera. E della vita, seconda solo alla nascita dei miei due figli e dei miei cinque nipoti». Si è reinventato, con successo, autore di romanzi per bambini, ispirandosi alla sua esperienza con la dislessia: il protagonista, un ragazzino tutto pepe di quarta elementare, si chiama Hank Zipzer e sta per tornare in Italia con il decimo libro di avventure esilaranti: Il mio cane è un coniglio. 

Che cosa ricorda della sua infanzia? 

«I miei genitori mi dicevano, in tedesco, che ero uno “stupido cane”. Gli insegnanti e persino il preside mi ripetevano che non avrei combinato niente nella vita. Non avevo amici, perché passavo il tempo a casa in punizione, a causa dei voti bassissimi a scuola, e per vedere qualche ora di tv dovevo convincere mamma che il programma aveva uno scopo educativo. Intanto ogni commento mi ha piazzato un chiodo nel cuore e mi ha fatto sempre sentire inferiore. Più mi impegnavo e meno riuscivo a fare i conti, leggere bene o ricordare lo spelling delle parole (non ne sono capace neppure oggi che di anni ne ho 73)».

Quando ha capito di non essere stupido? 

«A 50 anni, ma solo quando ne avevo 31 ho dato un nome, “dislessia”, a queste mie caratteristiche. Ho accompagnato mia moglie dal medico per alcuni test a Jed, figlio delle sue prime nozze: era intelligente, maturo e chiacchierone eppure non riusciva a scrivere una frase di fila. Mentre il dottore elencava questi disturbi specifici dell’apprendimento sembrava stesse parlando di me». 

Come ha reagito?

«Male, mi sono arrabbiato. Ho subito ogni genere di umiliazione, urla, recriminazioni per niente. Oggi, da padre di due figli dislessici, so che la cosa giusta da dire è: “Provaci al massimo delle tue possibilità e va bene così”». 

Ha mai letto ai suoi figli favole della buonanotte? 

«Ci ho provato, sia con loro che con la mia figlioccia Bryce (la figlia di Ron Howard, ndr) ma mi costava una tale fatica che finivo per addormentarmi a metà della frase. Così le leggeva mia moglie e io recitavo la parte dei personaggi, interpretando il lupo o l’uccellino, riproducendo i versi e camminando su e giù per la stanza. Loro si divertivano ma dentro di me ne soffrivo». 

Ai suoi nipoti, invece? 

«I maggiori lo fanno per me, oppure sono io a leggere ai più piccoli i miei libri, che sono stati stampati in modo da aiutare le persone dislessiche con un metodo creato da un papà olandese. Quanto avrei voluto che ci fosse stato quando sono cresciuto io, mi avrebbe risparmiato tanto dolore». 

Neppure Fonzie le ha regalato una ventata di autostima?

«Beh, la fama non mi ha reso più alto né bravo in matematica. Di fatto lo status di celebrità non ti trasforma in una creatura migliore, ma di sicuro Happy Days è stata la tempesta perfetta: interpretavo qualcuno che avrei tanto voluto essere ma non sarei mai diventato. Non riuscivo a leggere i copioni, così li imparavo a memoria. E nessuno se n’è mai accorto perché usavo le battute per mascherare gli errori, ma dentro ero un groviglio di vergogna e imbarazzo. Le 55 mila lettere a settimana dei fan, comunque, un pochino aiutavano l’autostima». 

E i premi?(Esce dallo studio, prende l’Emmy e lo bacia) 

«Il mio primo Emmy l’ho vinto da poco per la serie Barry e fino a quel momento non ci avevo mai pensato. Tutti gli altri, Telegatto incluso, sono su una mensola vicino alla scrivania, ma questo è in bella mostra al centro del tavolo del salotto. Si vede dalla porta d’entrata e lo vedono tutti, dal fattorino che mi consegna i farmaci per il colesterolo al corriere che mi porta il cibo per cani».

Pensa alla pensione?

«No, ma sogno tutto l’anno le mie due settimane a pesca di trote, a giugno in Idaho e a luglio in Wyoming. Non le mangio, però: quando abboccano le tiro su, faccio una foto veloce, do loro un bacetto e le ringrazio della soddisfazione prima di rigettarle in acqua. Mia moglie intanto mi tiene d’occhio dalla barca accanto e all’ora di pranzo andiamo insieme a riva a mangiare». 

Riceve ancora commenti cattivi sulla dislessia?

«Un uomo a Crema, dove sono andato a visitare il centro di neuropsichiatria infantile, mi ha detto: “Mi faccia il piacere: non esistono i disturbi dell’apprendimento, alcuni bambini sono pigri e basta”. Gli ho risposto: “Io sono la prova vivente che esistono eccome: il nostro cervello è solo collegato in maniera diversa”». 

Per cos’altro si arrabbia oggi?

«Per la mancanza di rispetto. Ancora ricordo il mio incontro con Donald Trump, anni fa, quando era solo un uomo d’affari borioso. Gli ho teso la mano, ma lui si è girato dall’altra parte e se n’è andato. Spero che nessuno, incontrandomi, si sia mai sentito così». 

Che cosa la rende felice, a parte la famiglia? 

«L’arte: ogni volta che qualcosa mi colpisce scrivo una lettera di ringraziamento. O meglio la detto perché faccio fatica a mettere insieme su carta più di un paio di parole (“caro” e “con affetto”). L’ultima l’ho indirizzata, tramite un amico comune, a Sam Rockwell per lo straordinario Fosse/Verdon: mi ha detto di averla apprezzata in modo speciale. E ho tirato un sospiro di sollievo».

Perché?

«Una parte di me resta molto insicura, cerca l’approvazione altrui e teme ancora di essere fraintesa quindi quando preparo queste lettere passo le ore a lambiccarmi. L’ha ricevuta? L’indirizzo è esatto? Gli è piaciuta? Lo stress mi attanaglia, dovrei imparare a prenderla con maggior filosofia».

Il ritorno di Fonzie per i 50 anni di Happy Days, nel 2024? 

«Scherzando dico che gli ho costruito una dependance nel giardino di casa mia, dove sarà sempre il benvenuto per mettere su un’officina. Sono convinto che, in gamba com’è, se fosse una persona in carne ed ossa a quest’ora ne avrebbe già messa su una catena per tutti gli Stati Uniti. Mi piacerebbe vederlo nonno ma a due condizioni: che il copione sia buono come l’originale e che gli altri miei colleghi partecipino al progetto». 

·         Robert De Niro e la famiglia arcobaleno.

TRUMP? UN IDIOTA, DOBBIAMO LIBERARCENE”.  Paolo Mastrolilli per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. «Scusate, non è che sono ossessionato dalla politica, ma questo idiota proprio non riesco a digerirlo. È una disgrazia e un danno per il nostro Paese». In teoria, Robert De Niro è venuto all' organizzazione culturale di Manhattan 92Y per presentare Robert De Niro Sr.: Painting, Drawnings and Writings 1949-1993, il libro dedicato alla memoria padre pittore. Finché risponde alle domande del moderatore Robert Storr riesce a restare nel personaggio, ma appena passa a quelle del pubblico si lascia portare via dalla passione: «Cosa avrebbe detto mio padre di questa epoca storica? Che va male, ma poi si sarebbe ritirato nel suo mondo artistico. Io invece non ci riesco proprio. Non perché sono un grande analista politico, ma perché credo che dovremmo liberarci al più presto di questo idiota, per il bene del Paese». Qualcuno si azzarda a ipotizzare un film su Trump, e De Niro risponde così: «Forse, ma prima dobbiamo superare lo shock e lasciar sedimentare la storia. Poi magari avremo l' equilibrio necessario per rivedere questa epoca assurda». Robert senior era un pittore, che aveva lasciato la moglie poco dopo la nascita di Robert junior, quando aveva rivelato di essere gay. Il figlio però gli è rimasto sempre molto legato, «non solo per l' amore, ma anche per l' ammirazione della sua integrità e della passione per il lavoro. Più cresco, più gli assomiglio». Il suo rimpianto è quello di non aver custodito meglio la memoria del padre: «Ma succede così a tutti. Anche i miei figli non mi danno mai retta, e non sono minimamente interessati a quello che faccio». Quello che fa però affascina milioni di persone, e quindi dopo la presentazione di Irishman al New York Film Festival è impossibile non parlare della sua carriera, cominciando dall' amicizia con Scorsese da quando erano ragazzini a Lower Manhattan: «Era un posto diverso da oggi, molto più duro». Il pubblico gli chiede di ricordare Taxi Driver, ma lui dice che «non è stato uno dei ruoli più difficili. È venuto naturale. Quando fai un film non sai mai anticipare l' impatto che avrà. Restammo tutti sorpresi, quando vedemmo l' effetto di Taxi Driver». I ruoli più difficili però furono altri: «Jack LaMotta in Toro scatenato (con cui vinse l' Oscar ndr), The Mission, Batte il tamburo lentamente».

UNA FAMIGLIA ARCOBALENO. Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 20 giugno 2019. Due premi Oscar, due Golden Globe e quattro tra le più autorevoli onorificenze, tra cui quella atta a consacrarlo: «Uno dei migliori attori cinematografici di sempre». Con un talento del genere vi aspettavate che Robert De Niro avesse alle spalle un passato facile? Non di rado, il genio creativo, scaturisce dalle più turbolente circostanze di vita, e il divo italoamericano sembra darne conferma: «Mio padre era gay», ha dichiarato l' artista. «Viveva in modo conflittuale la sua omosessualità. Come poteva essere altrimenti, essendo di quella generazione e trovandosi a Syracuse, una piccola città dello stato di New York?». Forse fu proprio per assecondare le convenzioni di una società bigotta che, Robert De Niro Sr, sposò Helen O' Reilly, negando a se stesso un'omosessualità che porterà la coppia a sciogliersi negli anni '40, poco dopo la nascita del loro unico figlio. Bob crescerà negli Stati Uniti assieme alla madre, mentre il di lui padre, animato dal proposito di estrinsecare le sue doti di pittore nel Vecchio continente, partirà alla volta della Francia, riducendosi a vagabondare lungo i marciapiedi di Parigi come un qualsiasi senzatetto dell' epoca. In un documentario di cinque anni fa, l'attore ha raccontato di quel genitore con il quale aveva un legame insolito: a consolidare la loro unione non furono le partite di baseball, bensì un amore incondizionato che ebbe modo di manifestarsi fino a quell' improvviso abbandono in merito al quale non gli fu fornita spiegazione: «Mia madre non voleva parlare mai di nulla, e quando hai una certa età queste cose non ti interessano. Io non mi ero accorto che fosse gay, e adesso vorrei che avesse condiviso con me della sua omosessualità». Comprensivo verso quel tormentato patriarca col quale si ricongiunse da adulto, De Niro appare adesso affrancato da qualsiasi forma di rancore, e si compiace del fatto che, la separazione alla quale fu condannato in tenera età, sia servita a consentire al padre di vivere liberamente un orientamento sessuale di cui non fece più alcun mistero una volta approdato in Europa. «Non fu un padre cattivo. Era molto fiero di me e non è mai stato invidioso della mia carriera. Oggi mi riconosco la colpa di non aver insistito abbastanza perché si curasse quando gli è stato diagnosticato un cancro alla prostata, di cui è morto a 71 anni. Lo celebro attraverso i quadri che tengo affissi alle pareti di casa mia, dei miei ristoranti e dei miei hotel. Voglio rivelare il suo talento a tutti. Mi adorava, esattamente come io adoro i miei sette figli». Ed è proprio di uno dei suoi amati eredi che la star, intervistata da The Guardian, ha reso pubblica l' omosessualità. Come per una sorta di benefica legge del contrappasso, De Niro ha oggi la possibilità di conciliare con il figlio quei sentimenti di comprensione che non ha potuto veicolare al padre quando questi ne aveva più bisogno, e non intende farsi sfuggire l'occasione: «Mio figlio è gay. Ne abbiamo parlato e lo capisco. È spaventato dal clima di intolleranza che aleggia negli Stati Uniti». Ma qualsiasi siano le apprensioni del ragazzo, egli potrà almeno dirsi certo di fronteggiarle con l' appoggio di un padre che ha imparato a servirsi delle vicissitudini per fare di sé una persona migliore e sensibile al punto tale da donare al cinema alcune tra le più sublimi interpretazioni che esso annoveri. Non a caso Sergio Leone, invitato ad esprimersi sulla star, ne descrisse così la grandezza: «Si butta nel film e nel ruolo con la stessa naturalezza con la quale uno potrebbe infilarsi un cappotto».

Man. Cos. per “Libero quotidiano” il 4 ottobre 2019. Non si arresta l'ondata di guai giudiziari che, negli ultimi anni, sta investendo le star di Hollywood. Robert De Niro, l' attore due volte premio Oscar, ha ricevuto una denuncia con annessa richiesta di risarcimento per 12 milioni di dollari, per "discriminazione di genere" - cioè, avrebbe maltrattato una donna proprio in quanto donna. Ad accusarlo è Graham Chase Robinson, ex dipendente di lungo corso della sua Canal Production, casa di produzione cinematografica dell' attore, che - a suo dire - sarebbe arrivata a licenziarsi lo scorso aprile dalla posizione di vice presidente dopo esser stata ripetutamente al centro di minacce, insulti e anche avances non volute. La Robinson fa riferimento, a mo' di prova, a messaggi sulla segreteria telefonica in cui la star di "Taxi Driver" la chiamava «troia» e «ragazza viziata». E poi contatti fisici «indesiderati», battute a sfondo sessuale. C' è da dire che proprio l' attore, qualche mese fa, aveva denunciato la donna e le aveva chiesto 6 milioni di danni per aver sottratto soldi alla società. Chissà se le due cose sono collegate.

Da Askanews il 20 agosto 2019.  Robert De Niro ha fatto una causa da sei milioni di dollari alla sua assistente perché invece di lavorare guardava delle serie tv su Netflix. Come riportato da Variety, l'azione legale è stata intentata dalla Canal Productions, di proprietà di De Niro, che aveva promosso la donna a vicepresidente con uno stipendio da almeno 300.000 dollari all'anno. Lei, però, non aveva tenuto per nulla fede alla fiducia riposta passando le giornate a guardare serie tv "per un'esorbitante quantità di tempo", riporta la causa intentatale in tribunale a New York. In gennaio la donna avrebbe guardato 55 puntate di "Friends" in quattro giorni, ordinando caviale per pranzo e andando poi a in un altro bistrot rinomato: Paola's. Ovviamente, tutto a spese dell'azienda. In totale, la donna avrebbe accollato alla ditta più di 30.000 dollari di pasti nell'arco di due anni e 32.000 dollari di Uber, senza contare le miglia aeree extra "scroccate" dal conto personale di frequent flyer De Niro. Prima di lasciare la posizione, lei aveva anche consegnato una bozza per una lettera di raccomandazioni all'attore chiedendogli di firmarla. Cosa che lui si è rifiutato di fare.

·         Al Pacino.

Silvio Bizio per “la Repubblica” il 29 ottobre 2019. «Ho recitato in The Irishman per merito di Robert De Niro. Per me è come un fratello, mi fido di lui». Al Pacino, 79 anni, è uno che ha sempre selezionato con cura i film in cui recitare. E la sua interpretazione in The Irishman è considerata una delle migliori della sua eccezionale carriera, culminata con il premio Oscar conquistato nel nel 1992 con Profumo di donna. Nato nel Bronx da una famiglia di origine siciliana nell' aprile del 1940, è uno degli attori più influenti e studiati della sua generazione. Da anni alterna la sua passione per Shakespeare e il teatro a film che non ha mai scelto per l' aspetto commerciale. Di recente ha anche sperimentato la televisione, girando per Amazon una serie di 10 episodi intitolata The Hunt . Lo abbiamo incontrato al Four Seasons Hotel di Beverly Hills, dove arriva con passo svelto, i capelli lunghi tinti di scuro legati con un codino; si alza, cammina, gesticola.E parla veloce, racconta, senza interrompersi.

Lei e De Niro vi conoscete da una vita. Come è nata la vostra amicizia?

«L' ho incontrato quando avevamo vent' anni. Un giorno me lo sono trovato di fronte, sulla 14esima Strada. All' epoca la mia meravigliosa compagna, Jill Clayburgh, che purtroppo non c' è più, conosceva Robert dai tempi della scuola di recitazione, e avevano lavorato insieme in film con Brian de Palma. Quel giorno lo incrociamo per strada e lei me lo ha presentato: non lo dimenticherò mai. Ho anche chiesto a Jill, chi è questo tipo? Sentivo che aveva qualcosa di speciale. E lei mi ha detto, "è un grande attore, ho lavorato con lui". Poi siamo saliti alla ribalta più o meno nello stesso periodo, nei primi anni Settanta: io facevo teatro, lui molto cinema. Le nostre carriere hanno cominciato a prendere percorsi paralleli, ed eravamo spesso paragonati uno all' altro, anche se eravamo molto diversi. Ogni tanto riflettevamo insieme su quello che significava diventare famosi: non era come adesso, per noi era un universo sconosciuto».

Come è nata la sua passione per la recitazione?

«A 10 o 11 anni iniziai a partecipare alle recite a scuola per saltare le ore di matematica. Un giorno qualcuno mi disse: "tu sarai il prossimo Marlon Brando", ma io non avevo idea di chi fosse. Poi ho dovuto lasciare la scuola a 15 anni per lavorare, mia madre si era ammalata, io vivevo da solo nel Greenwich Village e facevo lavoretti per aiutarla. Intorno ai 16 anni ho fatto un provino per caso all' Actor' s Gallery, che faceva un tipo diverso di teatro. A quel punto mia madre era morta, io ero solo e senza tetto, ma sul serio, e ho finito per dormire in quel teatro, la notte, dopo le recite. Mi bastava una birra, stavo insieme agli altri attori. Poi recitai in The Creditors di August Strindberg ed è scattato qualcosa, in quel momento ho capito che questo lavoro mi avrebbe salvato la vita, e così è andata. Ho scoperto che è quello che volevo fare. Sono stato fortunato».

Eppure a un certo punto lei per quattro anni aveva anche smesso di recitare.

«Sì, che è un tempo molto lungo per un giovane. Ma non sapevo bene cosa stessi facendo, avevo fatto dei film che non erano andati bene: ho pensato, provo a fare qualche altra cosa. Ma poi ho incontrato Diane (Keaton, ndr ) e sono stato con lei per parecchi anni, e grazie a lei ho conosciuto a Parigi una delle mie più care amiche, l' attrice Marthe Keller, e sono state loro che mi hanno convinto a tornare. E così ho fatto, ma è una decisione che ho preso anche perché non avevo più un soldo e sono stato costretto a farlo! (ride)».

Da allora come è cambiato per lei il modo di recitare?

«Non è cambiato. È come quando suoni l' oboe, puoi avere successo ma il tuo strumento è sempre l' oboe. Nel caso di un attore, tu sei lo strumento e hai un certo tipo di suono. Quando reciti cerchi di capire il personaggio e che legame ha con la tua vita, con la tua realtà, qualunque sia il tipo di film che stai facendo. Scorsese ha il suo modo di interpretare il mondo, e me lo ha spiegato. Ho una grande familiarità con il mondo del cinema, ma allo stesso tempo lui lo guarda attraverso lenti diverse».

A proposito di Scorsese, quanto sapeva di Jimmy Hoffa prima di "The Irishman"?

«Tutti sapevamo un po' di Hoffa, e soprattutto della sua misteriosa sparizione - il corpo non è mai stato trovato - ma da lontano, e come sempre quando so che devo interpretare un personaggio ho fatto una grande ricerca. C' è molto materiale filmato su di lui, che mi ha aiutato molto. Ho scoperto delle cose importanti e cercavo di ricollegarle a quello che c' era scritto sul copione. Studiandolo mi avevano sorpreso un paio di cose: innanzitutto che probabilmente era la seconda persona più popolare negli Stati uniti all' epoca, dopo il Presidente, era davvero un' icona perché era guidato da una passione reale come sindacalista e da un bisogno di aiutare i lavoratori. In quel senso era un visionario».

Ha 79 anni. I vantaggi di invecchiare?

«Dovrebbero essercene, vero? (ride, ndr ) Forse è vero che a una certa età pensi di essere più saggio, ma non è vero niente. Ho solo più esperienza, e mi sento meglio rispetto alle cose, alla gente, a questo incredibile mondo. E il mio lavoro cambia, non ti offrono più gli stessi ruoli. Ora per esempio voglio cominciare a concentrarmi su certe cause civili, voglio recitare per aiutare la gente a unirsi e leggere, che sia nelle prigioni o in altri luoghi in cui le persone sono in difficoltà. Sono sempre pronto a mettere in scena qualcosa, soprattutto Shakespeare, che puoi leggere e rileggere e ogni volta ci trovi qualcosa di diverso».

In cosa trova la motivazione ogni giorno?

«I miei figli innanzitutto, che sono una cosa che cambia costantemente, con alti e bassi, ed è divertente, oltre che essere il mio mondo. E poi ho appena fatto una grossa serie per Amazon, The Hunt , 10 episodi, una cosa nuova per me. Sono tempi e ritmi diversi rispetto a quelli dei set cinematografici, non c' ero abituato, è un altro mondo. Ed è interessante. Non posso dirne molto perchè il mio è un personaggio chiave. Se vi dicessi chi è, potreste indovinare se poi ci sarà una seconda stagione!».

·         Jack Nicholson, il ghigno folle dell'antieroe di Hollywood.

Jack Nicholson, il ghigno folle dell'antieroe di Hollywood. Da "Chinatown" a "Shining" e Joker del primo "Batman": dopo 50 anni e più di 60 film, nel 2010 l'attore si è ritirato dalle scene. La scoperta a 37 anni di essere figlio di quella che credeva sua sorella segna la vita e la carriera dell'attore, raccontate nel doc "Dr Jack mister Nicholson" di Emmanuelle Nobécourt, su Sky Arte nel giorno del suo 82esimo compleanno, scrive Rita Celi il 21 aprile 2019 su La REpubblica. Una persona misteriosa, un sorriso leggendario, una star imprevedibile e impenetrabile dietro gli occhiali scuri. Per tutti è semplicemente Jack ma in oltre 50 anni di carriera, più di 60 film e tre Oscar, Nicholson è l'antieroe di Hollywood, anticonvenzionale e ribelle, un mito del cinema che ha usato lo schermo come una tela dove raccontarsi e rivelare le sue zone d'ombra. La sua leggenda è immutata anche dopo il 2010 quando si è ritirato dalle scene, preferendo condurre il resto della sua vita in privato, nella sua villa a Mulholland Drive. La vita e la carriera dell'attore sono raccontati nel documentario Dr Jack mister Nicholson in onda nel giorno del suo 82esimo compleanno, lunedì 22 aprile, su Sky Arte (canale 120 e 400). Diretto da Emmanuelle Nobécourt, il film ricostruisce con uno sguardo deciso e originale i frammenti della sua complessa personalità nascosti dietro le facce dei molteplici personaggi che ha interpretato, soffermandosi sui ruoli che hanno fatto di lui il mito. Il documentario ripercorre le varie fasi della carriera con moltissime immagini di repertorio, backstage, estratti di interviste filmate e testimonianze di amici e collaboratori tra cui il biografo Patrick McGilligan, l'amico d'infanzia Jonathan Epaminondas, i registi Roger Corman e Henry Jaglom, Christopher Lloyd e il critico cinematografico Jean-Baptiste Thoret.

Brillante studente negli anni trascorsi a Spring Lake, New Jersey, nell'adolescenza Nicholson comincia a maturare un certo atteggiamento insolente e ribelle che lo porta a lasciare tutto e partire da solo a 17 anni per Los Angeles, dove trova lavoro alla Metro Goldwyn Mayer e inizia a studiare recitazione. Nel 1958 il debutto in The cry baby killer, poi l'incontro con Roger Corman, il primo che intravede la singolarità di Jack e gli offre una piccola parte in La piccola bottega degli orrori, dove interpreta il paziente masochista di un dentista mostrando per la prima volta il suo ghigno folle. "Quello che rendeva Jack speciale e diverso dagli altri giovani attori dell'epoca era la sua estrema intelligenza - racconta il regista - era molto acuto, aveva un bizzarro senso dell'umorismo. Si impossessava della sceneggiatura e modellava il personaggio su se stesso". Sono piccoli ruoli che permettono però al giovane Jack di entrare nella Factory di Corman, da cui scaturirà nel giro di pochi anni il nuovo cinema americano. "Eravamo tutti giovani, amici e in un certo senso in competizione tra di noi - prosegue Corman - rappresentavamo una nuova corrente di Hollywood".

Questa nuova generazione di artisti americani è ispirata dal cinema europeo, ma Nicholson non riesce a trovare la sua strada: nel 1964 firma la sua prima sceneggiatura, poi decide di lasciare la recitazione e sogna di diventare regista ma nel 1969 tutto cambia con Easy Rider, il cult di Dennis Hopper che ha rivoluzionato il cinema americano, in cui interpreta un personaggio fuori controllo, George Hanson, un "perdente" che rappresenta l'emblema di un'intera generazione. Candidato all'Oscar per questo ruolo Nicholson, che all'epoca era considerato solo "il contadino del New Jersey", ottiene le chiavi di Hollywood ed è pronto a diventare una stella.

Rifiuta di lavorare nel Padrino accanto al suo idolo, Marlon Brando: "Ho sempre voluto lavorare con Marlon ma il personaggio che mi avevano proposto sentivo che doveva essere italiano e poi nella sceneggiatura non avevo scene con lui" spiega in un'intervista. Cerca ruoli ai limiti dell'accettabile, una sorta di intima esplorazione da mostrare al pubblico, e inizia a lavorare nel cinema d'autore, si mette a nudo e piano piano arrivano i personaggi vicini a ciò che è veramente. Da Roman Polanski a Michelangelo Antonioni, Stanley Kubrick, Elia Kazan e Martin Scorsese, Jack Nicholson inizia a lavorare con i più grandi registi del suo tempo, contribuendo a ridefinire la figura di attore e a cambiare il panorama del cinema statunitense.

Il racconto si sofferma poi sull'infanzia di "bambino viziato" in una famiglia di sole donne: la madre Ethel May, e le sorelle June e Lorraine. Ma a 37 anni, subito dopo Chinatown, Jack scopre che in realtà è figlio di sua sorella June: aveva solo 16 anni quando è rimasta incinta, ignorando chi fosse il padre. Per paura di uno scandalo, la madre Ethel May fa credere che il bambino sia suo e fa un patto con le figlie di non rivelare mai la verità. June muore nel '63 e la madre sette anni dopo, entrambe senza mai dire nulla, tocca a Lorraine confermare a Jack lo sconvolgente segreto, rivelato da un giornalista. Il documentario prosegue quindi con il suo rapporto con le donne, la sua fama di "grande seduttore", il burrascoso matrimonio con Anjelica Huston che sopporta i suoi vizi e le infedeltà per 17 anni. "Una delle cose stimolanti nell'essere un attore - dichiara Nicholson - è che puoi esplorare te stesso. Trovi una parte di te che hai in comune con il personaggio, dopodiché scavi dentro di te e la butti fuori". E questa continua esplorazione fa di lui un personaggio istrionico, dalla personalità dirompente, eternamente alienato, sempre sul punto di perdersi tra feste, droghe e alcol.

Nonostante la fama infatti Nicholson, che sempre più rivela se stesso e le sue zone d'ombra, resta profondamente inquieto con una furia cieca che prende il sopravvento nei suoi ruoli e che si manifesta in Qualcuno volò sul nido del cuculo: sul set Milos Forman lo incoraggia a improvvisare ma Jack va ben oltre le sue aspettative, finendo per identificarsi col personaggio. E vince il suo primo Oscar. "Quello che sto cercando di fare come artista è liberare il terreno per il subconscio" dichiara l'attore in un'intervista. Nel 1980 con Shining di Stanley Kubrick entra in una nuova dimensione, sull'orlo di una rottura, divorato dai suoi demoni interiori, ma con Jack Torrance entra definitivamente nella mitologia del cinema. Nel 1989 arriva poi un altro Jack, il Joker nel Batman di Tim Burton, con cui raggiunge la vetta e diventa l'attore più pagato di Hollywood.

Il documentario di Emmanuelle Nobécourt si conclude raccontando l'incontro con Sean Penn, l'unico che riesce a liberarlo dalla trappola di apparenze in cui si è chiuso: Nicholson si riconosce in questo giovane attore passato dietro la macchina da presa e che è riuscito dove lui ha fallito, e gli permette di trarre ispirazione dalla sua storia personale. Accanto ad Anjelica Huston in Tre giorni per la verità (1995) vita reale e fiction si intrecciano per l'ultima volta, ma è Jerry Black in La promessa (2001) a svelare che dietro quella maschera c'è un uomo solo, una persona che si rende conto che alla fine di tutto non c'è niente, e l'unica soluzione è quella di sparire dalle scene. Ed è quello che ha fatto Jack.

·         Il segreto della longevità: Kirk e Anne Douglas.

Kirk Douglas compie 103 anni e non vuole la festa di compleanno. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 su Corriere.it da Paola Caruso. Il 9 dicembre 2018 Kirk Douglas ha spento le 102 candeline e il suo compleanno è stato festeggiato con un party in casa. Eccolo un anno fa, ormai in carrozzina, con la moglie Anne, allora 99enne e oggi 100enne, davanti alla porta di casa mentre accoglie gli ospiti. Ma per i 103 anni il divo di Hollywood, al momento il più longevo premio Oscar maschile vivente (la donna premio Oscar più longeva è Oliva de Havilland, 103 anni, la dolce Melania di «Via col vento»), non vuole una festa di compleanno: preferisce una cena in famiglia, come ha dichiarato qualche settimana fa il figlio Michael in una intervista televisiva. «Mio padre mi ha supplicato di non organizzare una festa per i 103 anni - ha spiegato il 75enne primogenito di Spartacus —. Mi ha detto di programmare una cena e di portare i bambini». Che poi i nipoti tanto bambini non sono. Ma per Kirk un traguardo del genere, raggiunto insieme a una moglie centenaria con la quale nel 2019 ha festeggiato i 65 anni di matrimonio, non può certo passare inosservato. Ecco qualche curiosità sulla vita di questo incredibile attore che per oltre mezzo secolo, dal 1946 al 2004, ha calcato le scene di Hollywood.

Kirk Douglas compie 103 anni: è il premio Oscar più longevo al mondo. Laura Pellegrini l'08/12/2019 su Notizie.it. Kirk Douglas spegnerà 103 candeline il 9 dicembre 2019 guadagnandosi il titolo di più longevo premio Oscar maschile vivente ad oggi. Il divo d Hollywood, però, ha supplicato il figlio michael di non organizzare nessuna festa di compleanno. Accanto a sua moglie (con la quale ha festeggiato 65 anni di matrimonio), la centenaria Annie, Kirk preferisce festeggiare con una semplice cena di famiglia. In un’intervista, infatti, il figlio primogenito di Spartacus, che ad oggi ha 75 anni, ha confessato: “Mio padre mi ha supplicato di non organizzare una festa per i 103 anni. Mi ha detto di programmare una cena e di portare i bambini”.

Kirk Douglas oggi: curiosità. Issur Danielovitch è il vero nome del divo di Hollywood Kirk Douglas che ad oggi compie 103 anni e rimane il più longevo premio Oscar maschile ancora in vita. Nato ad Amsterdam, ha deciso di cambiare nome non appena approdato nel mondo del cinema divenendo Isadore Demsky. La scelta però non piace al registra teatrale Guthrie McClintic che lo modifica nell’attuale Kirk Douglas. il nome, infatti, deriva dal personaggio di un fumetto amato dall’attore, mentre Douglas era il cognome della sua insegnante di dizione all’Accademia di arti drammatiche di New York. Kirk e Michael, il figlio avuto dalla prima moglie Diana Dill hanno un legame molto forte. Infatti, pubblicando alcuni scatti sui social, Michael celebra e onora suo padre ogni giorno. I due si sentono quotidianamente via Skype e non si può negare l’aiuto di Kirk al figlio nel mondo dello spettacolo. “Lo dico dal profondo del mio cuore. Sono così orgoglioso di essere tuo figlio” aveva dichiarato Michael in un discorso alla Walk of Fame. Nel 2017 è uscito il libro Kirk and Anne: Letters of Love, Laughter, and a Lifetime in Hollywood, che contiene le lettere che Kirk e Annie si sono scambiati dagli anni 50 ad oggi. Dal volume si scoprono tantissimi dettagli sulla coppia: dal primo incontro a Parigi nel 1053 fino alla difficile relazione che però li ha portati a festeggiare 65 anni insieme. Annie era gelosa della fama e del seguito di Kirk. Nel 1958, inoltre, Kirk scriveva all’attuale moglie: “Se vivessimo fino a 100 anni, avremmo ancora tantissime cose da dirci”. Ed eccoli serviti: lei ha 100 anni, lui 103.

Kirk e Anne Douglas, 202 anni in due, festeggiano i 65 anni di matrimonio. Pubblicato martedì, 28 maggio 2019 da Paola Caruso su Corriere.it. Di strada insieme ne hanno fatta tantissima. L’attore Kirk Douglas, 102 anni compiuti il 9 dicembre 2018, e la moglie Anne Buydens, 100 anni compiuti il 23 aprile 2019, tagliano un altro traguardo importante dopo il record di candeline a tre cifre per entrambi: il 29 maggio festeggiano i 65 anni di matrimonio (sposati nel 1954). Le nozze di pietra. Un punto di arrivo che a Hollywood è una rarità, fatta eccezione per Paul Newman e Joanne Woodward che si sono fermati alle nozze d’oro (50 anni) a causa della scomparsa dell’attore nel 2008. Nessuno avrebbe scommesso su un’unione così salda e duratura. Kirk e Anne sì, come raccontano nel loro libro «Kirk and Anne: Letters of Love, Laughter, and a Lifetime in Hollywood» pubblicato nel 2017. «Siamo anime gemelle» ha spiegato il divo di «Spartacus» in un’intervista.

KIRK DOUGLAS HA COMPIUTO 102 ANNI, SUA MOGLIE ANNE HA SUPERATO QUOTA 100: SPOSI DAL 1954. Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2019. E se il segreto della longevità, come sembrano suggerire Kirk e Anne Douglas, fosse vivere con la persona più «difficile» del mondo? Il club dei centenari planetari conta mezzo milione di soci. In Italia sono 17 mila. In Giappone, che dopo Hong Kong vanta la percentuale più alta, l' 88 per cento dei 70 mila «over 100» è donna. Un sodalizio di vedove. È così anche negli Usa, dove i super vecchi sono 80 mila su quasi 330 milioni di abitanti. Superare in due l' asticella del secolo è cosa rara. Ma quante case possono vantare due centenari, un Oscar alla carriera e un Picasso in salotto? Soltanto una: villa Douglas a Beverly Hills. Kirk ha compiuto 102 anni il 9 dicembre scorso. Anne Buydens, sua moglie dal 1954, ha superato ieri quota 100. Rispetto agli standard di Hollywood, la loro è una piccola residenza. Ci abitano da una ventina d' anni. Quando si avanza nella vecchiaia, scale e ascensori diventano ostacoli. Avendo 202 anni in due, Anne e Kirk non appaiono in splendida forma. Ma se ne infischiano. C' è una foto che rende bene il senso del loro superno amore: sono su un marciapiede di Beverly Hills, in una giornata di sole, e viaggiano su due carrozzine blu sospinte da una coppia di badanti. Non si guardano, non ce n' è bisogno: sanno probabilmente tutto l' uno dell' altra. In una recente intervista Kirk ha definito Anne «la donna più difficile che abbia mai incontrato». Lei raramente si è lasciata andare a simili complimenti. Ma fin da subito, prima ancora delle nozze, aveva fatto capire all' impettito Spartaco di che pasta era fatta: per una festa a Parigi, la città dove a quel tempo viveva, Anne fece trovare a Kirk molte delle donne con cui era andato a letto. «Quando entrai non ci potevo credere - ha raccontato l' attore almeno un centinaio di volte, dal vivo e nelle pagine di alcuni dei suoi dodici libri di memorie - Ah! Anne sa sempre tutto». Tutto. La fama di «cattivo ragazzo» ha accompagnato a lungo Issur Danielovitch Demsky, in arte Kirk Douglas, figlio di un emigrato russo venditore di stracci e di una contadina ucraina arrivati in America agli esordi del Novecento. Per il centenario della sua nascita, Santi Urso per «Marilyn» del Corriere ha raccontato magistralmente le gesta e la psiche dello «sguardo più penetrante di Hollywood». La lista dei suoi flirt è leggendaria: da Rita Hayworth a Joan Crawford, da Marilyn Monroe ad Anna Maria Pierangeli. È proprio in Europa, inseguendo «l' amore italiano di James Dean», che Kirk scopre di provare qualcosa di più che ammirazione professionale per l' altra Anna, l' assistente bilingue che aveva conosciuto a Parigi nel 1953. Miss Buydens è una belga-americana che si guadagna la vita traducendo e sottotitolando film americani. Mister Douglas è già un uomo divorziato, dopo il matrimonio in panne con Diana Dill (la mamma del futuro attore Michael Douglas). Kirk è inquieto, a suo modo insicuro. Uno capace di andare dallo psicologo per avere rassicurazioni circa la sua supposta impotenza. «Ieri ho fatto cilecca», gli dice. Replica:«E quando è stata l' ultima volta che è andata bene?». Kirk: «Bé, tutte le 29 notti precedenti». E il dottore: «Figliolo, si dice che anche Dio dopo il sesto giorno abbia riposato». Sono aneddoti da film, vite che sembrano sceneggiature. L' esistenza della coppia più longeva di Hollywood ha avuto pagine drammatiche. La morte di un figlio, Eric, nel 2004, per overdose. Hanno reagito a loro modo, con filantropia, aiutando gli altri in difficoltà. La causa dell' Alzheimer (che aveva colpito il papà di Kirk), il diritto allo studio per i figli delle minoranze. L' attore ha sempre votato democratico (e per questo ha litigato con l' amico John Wayne). Da quando un ictus l' ha colpito nel 1996, parla con difficoltà. Ha anche pensato di farla finita. «Ma il pistolone era troppo grosso e mi ha ferito il labbro e così ho lasciato perdere». In realtà, narrano le cronache, è stata Anne, «la donna più difficile che ho mai incontrato», a ricucire l' amor proprio di uno Spartaco ferito. Ci si ama per quel che si è. Anche da centenari. Anche se si arranca su due carrozzine, persi nei propri pensieri.

Nicola Bambini per vanityfair.it il 17 ottobre 2019. La paura di perdere un figlio. Michael Douglas torna con la mente a quei giorni terribili, i più brutti della sua vita, quando il primogenito Cameron era stretto nella morsa della droga: «All’inizio era dipendente da erba e alcol, poi la questione si è fatta più seria», ricorda l’attore americano in un’intervista doppia per People. «Ha cominciato ad abusare di cocaina, eroina e vendere metanfetamine. «Odiavo ciò che ero diventato ma non riuscivo a smettere», ammette il figlio, che già a vent’anni vendeva stupefacenti e girava con una pistola. Michael e la sua ex moglie, Diandra Luker, le hanno provate tutte per rimettere in carreggiata Cameron, ma ogni tentativo cadeva nel vuoto. «Ci sono stati momenti in cui la speranza di recuperarlo si è ridotta al lumicino. Abbiamo avuto davvero paura di perderlo». Poi, nel 2009, l’arresto: «Cameron era arrivato a sniffare tutti i giorni, una spirale subdola dalla quale è dura uscire», aggiunge il due volte premio Oscar. «Quando arrivi a quel livello ci sono solo due opzioni, il carcere o la morte». La galera dunque è stata salvifica e dietro le sbarre il ragazzo, che ora è un uomo di 40 anni, ha capito i suoi errori: «Nel 2016 è uscito, una persona nuova». Che adesso, insieme alla sua storica fidanzata Viviane Thibes, istruttrice di yoga, sta crescendo la piccola Lua, nata all’inizio del 2018 e già innamorata di nonno Michael. «Voglio spingere i tossicodipendenti a cercare aiuto e magari salvare qualche vita», conclude Cameron, che sta provando a riprendere la sua carriera di attore e ha condiviso nel libro «Long Way Home» il suo straziante percorso. Per tornare a casa, appunto. Dove ha trovato papà Michael pronto a riabbracciarlo.

·         Sofia Loren.

Fulvia Caprara per “la Stampa” il 21 settembre 2019. Succede, nella vita delle stelle, che gli anni, a un certo punto, diventino pura convenzione. Le ricorrenze continuano a essere festeggiate, ma hanno perso di senso, perchè il vero divo possiede il dono dell' immortalità. Oggi Sofia Loren compie 85 anni, Sky le dedica, con Buon compleanno Sofia, una settimana di celebrazioni a base di film e basta cliccare il nome dell' attrice per trovarsi davanti a un tripudio di servizi, reportage, spezzoni di vecchie pellicole......Non sarà un caso se, nel 2020, la rivedremo sul grande schermo nel nuovo lavoro di Edoardo Ponti La vita davanti a sè, trasposizione in epoca contemporanea del celebre romanzo di Roman Gary. Girato quest' estate in Puglia, scritto da Ugo Chiti con il regista, il film racconta la storia di Madame Rosa, anziana ebrea ed ex prostituta che, seppur riluttante, accetta di prendersi cura di Momo, un turbolento dodicenne di strada di origini senegalesi. Le madri, si sa, non mollano mai. E se Sofia ha accettato di tornare sul set, è, prima di tutto, questione di sangue. "Brooke Shields non è comparsa per lo Stanley Siegel Show così lui ha fatto un'intervista telefonica in diretta con Sophia Loren che si trova in città, abita al Pierre. Il suo inglese adesso è buono. Ma sai, stamattina nel vederla alla televisione mi è sembrata...ciarpame. Ha detto che lei non permetterebbe mai a una sua figlia di fare una parte come quella di Brooke Shields in Pretty Baby, forse che lei non si è fatta strada scopando? A chi vuol darla ad intendere? E' così pretenziosa". (20 settembre 1977).

Leeor Samocha per “Daily Mail” il 21 settembre 2019.. Bozzacchi parla del divorzio, avvenuto nel 1974, e del suo tentativo di tenerli insieme. In quel periodo Burton stava girando il film di De Sica ‘Il Viaggio’, con la Loren, la quale era sì sposata con Carlo Ponti, ma le voci di una relazione fra lei e Richard cominciarono a circolare. Liz considerava Sophia la sua peggior nemica, a quel punto. Chiamò subito Bozzacchi, quando venne a conoscenza delle chiacchiere, anche perché il suo amore era ospite proprio alla villa dell’attrice italiana. Il fotografo e Liz si organizzarono per un servizio a colori da vendere alle riviste americane, in cui lei faceva sapere di essere single, giovane e bellissima. La relazione fra Sophia e Richard non è mai stata confermata ma Liz era convinta fosse avvenuta.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2019. L'accusa di bigamia mi ruba la normalità. E io reagisco con "La ciociara", che mi consacra nel mondo». E le porterà il primo di due Oscar. Quella normalità resta, però, la tentazione con cui fa i conti quando conosce Cary Grant, nel '57, girando proprio «Orgoglio e Passione». Anche lui è sposato, solo che in America il divorzio è consentito. «Entrambi intuivamo che il sentimento fra noi cominciava a venarsi d' amore e ne avevamo paura», scriverà lei. L' ultima sera, mentre trionfa un tramonto bellissimo, Cary Grant le chiede «mi vuoi sposare?». A Sophia le parole si strozzano in gola. Risponde: «Ho bisogno di tempo». E lui: «Perché intanto non ci sposiamo e poi casomai ci pensiamo?». Cary non si dà per vinto. Le manda rose, lettere. Lei si tormenta, pensa che non può andare avanti così.….. Quel giorno, Cary reagisce da signore: «Tanti auguri, Sophia, spero che tu sia felice».

Cristiano Sanna su Spettacoli Tiscali.it il 21 settembre 2019.  ….E così è stato per la ragazzina sostanzialmente ripudiata (anche se riconosciuta) dal padre, figlio dei marchesi siciliani Murillo, rifiutata e costretta a tornare a Pozzuoli insieme alla madre pianista Romilda Villani, tra la povertà e le macerie della guerra. La storia di Sophia Loren è quella di una risalita che ha scolpito i suoi gradini nella storia. Dalla vittoria del titolo di Miss Eleganza a Miss Italia a soli 15 anni (ed ecco il ripudio paterno, il genitore la accuso di prostituirsi assieme alla madre, e il tutto dovette essere chiarito di fronte alle forze dell'ordine) fino agli esordi nello spettacolo con Corrado e Alberto Sordi, l'incontro con il produttore e poi marito Carlo Ponti che ne costruì il lancio internazionale. La fortuna ad Hollywood, i ruoli senza tempo. Dal Ragazzo sul delfino a Orchidea Nera, da La Ciociara a La contessa di Hong Kong fino a Ieri, Oggi, Domani e Matrimonio all'Italiana. Registi mitici (Curtiz, Cukor, De Sica, Lumet) e partner sul set mitici (Brando, Chaplin, Quinn, Sellers, Perkins). Poi tanta tv, fino allo spot con Tornatore e Morricone appena tre anni fa. Di lei (celebrata da una programmazione speciale su Sky) cantano Dylan, Endrigo e J-Ax quando si pensa a un modello di bellezza e femminilità che non è orpello ma valore. E per questo, che non sente lo scorrere del tempo.

·         Gina Lollobrigida.

Gina Lollobrigida «confusa» e «suggestionabile»: la sua autonomia «è un’illusione». Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. Così carica di progetti da programmare un volo a Los Angeles per seguire le riprese di un docu-film sulla sua vita. Ma talmente «suggestionabile» da aver bisogno di un amministratore di sostegno (nominato dal Tribunale) per garantirle la gestione del patrimonio e degli affari correnti. Gina Lollobrigida, la «Bersagliera», perde a 91 anni la propria battaglia: la Corte d’appello di Roma ha respinto il ricorso che aveva presentato contro l’istituzione di un tutore stabilita in precedenza dallo stesso Tribunale. La decisione dei giudici della sezione della persona e della famiglia (Gisella Dedato, Paolo Russo e Elisabetta Pierazzi) poggia su una consulenza della esperta Paola Cavatorta che dopo una serie di colloqui personali con la diva ha offerto il proprio parere. La «Lollo» pur «lucida» e «autorevole» nel campo artistico appare «vulnerabile» su tutto il resto, con «momenti di autentico disorientamento spazio temporale per lo più innestati da tematiche persecutorie» scrivono i giudici. Intatta nelle sue capacità «socio relazionali» appare «fragile» in tutti gli altri campi della vita. La sua autonomia appare compromessa. L’attrice, spiegano i togati, «offre a sé stessa e agli altri l’illusione di avere il pieno dominio della sua vita e dei suoi affari, mentre la comprensione della realtà che la circonda risulta sommaria e i suoi giudizi attuali sono superficiali». Vivacissima ed energica quando si tratta di rileggere episodi ed elencare protagonisti dei suoi anni d’oro diventa invece «confusa» quando si affrontano temi quotidiani. Il suo patrimonio immobiliare? La diva ignora quale sia. Le società che se ne occupano? Anche su questo la «Lollo» non sa riferire nulla: «Ha fornito risposte non esaurienti, talvolta confuse, non ricordando alcun dato relativo ai ricavi, ai costi e al rendimento effettivo di dette società». Su tutto ciò che riguarda insomma gli aspetti pratici della propria esistenza l’attrice dipende dal suo assistente Andrea Piazzolla, già indagato per circonvenzione d’incapace. Nessun dubbio sulle conclusioni della consulente Cavatorta. Secondo i giudici il suo lavoro « è stato condotto con scrupolo professionale ed esame attento di tutti gli atti del procedimento». Quanto ai parenti, assistiti dall’avvocato Michele Silveri Gentiloni, dicono solo: «Le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello ci ricordano che i processi si fanno nelle aule dei tribunali e non negli studi televisivi».

R.S. per il Messaggero il 17 settembre 2019. Serata da divi a Castel Romano. Domani, nella cornice della mostra di Rino Barillari 40 scatti della mia Dolce vita, sarà presente la star del cinema Gina Lollobrigida, a cui il King of paparazzi romano ha dedicato diverse fotografie. L' esposizione vede protagoniste tutte le star del cinema, da Sophia Loren a Grace Kelly. La diva 92enne racconta così la sua esperienza sul set e la sua carriera.

Lei che è stata un simbolo della Dolce Vita, di quegli anni incornicia il glamour, la moda o il cinema?

«Nessuna delle tre, solo l' arte!

» Come sono cambiati da allora il cinema e le attrici?

«Sono cambiati i tempi e anche il modo di fare cinema, compresa la scelta degli interpreti».

E delle donne contemporanee in generale cosa pensa?

«Oggi le donne sullo schermo si somigliano quasi tutte e sembrano tutte perfette».

È vero che Fellini le aveva offerto un ruolo nella Dolce Vita e che suo marito le nascose il copione?

«Ho saputo dopo 10 anni che mio marito Milko Skofic lesse il copione di Fellini, ma non me né parlò perché non lo giudicò adatto a me. Non conosceva lo stile di Fellini».

A quali stilisti si affidava negli Anni '60 e perché ha cominciato a crearsi da sola i suoi abiti?

«A Emilio Schuberth, uno dei migliori di quei tempi, poi alle Sorelle Fontana e Roberto Capucci. Spesso il regista mi chiedeva di realizzare dei costumi per qualche scena che aggiungeva al film: tutti conoscevano le mie doti da stilista ed io mi divertivo ad accontentarli».

Quale abito le è rimasto nel cuore?

«Conservo gelosamente molti vestiti che ho realizzato. Li vedrete nella mia biografia».

In una foto in mostra ha a tracolla la macchina fotografica ed è accanto a Rudolf Nureyev.

Meglio essere dietro o davanti la cinepresa e cosa significava subire l' assalto dei paparazzi?

«Continuo a disegnare, offrirò al pubblico dei miei ritratti, per beneficenza, di vari artisti che stimo, come Rudolf Nureyev. È più interessante essere dietro la macchina da presa: ho realizzato un film su Fidel Castro, uno sulle Filippine e uno più breve su Indira Gandhi. Mi sono poi dedicata alla scultura e ho realizzato una 60ina di opere. L' assalto dei paparazzi? Era inevitabile con l' arrivo della popolarità».

Ha recitato accanto a celebrità del calibro di Burt Lancaster, Frank Sinatra e Sean Connery ed è noto che aveva molti corteggiatori. Chi le è rimasto nel cuore?

«Ho avuto un' intesa sempre perfetta con tutti, solo con Yul Brinner c' è stato qualcosa in più. Ricordo di quando girammo la scena di un bacio nel film Venere imperiale: quando il regista diede lo stop noi continuammo a baciarci incuranti che la scena fosse terminata».

Era molto amica di Marylin Monroe che chiamavano la Lollo americana, che ricordo conserva di lei?

«L' ho conosciuta appena approdata a New York nel 50. Bella, discreta, ma sola. Le ho voluto subito bene. L' ho frequentata a Los Angeles e siamo diventate amiche. Era sola come me, ma io mi difendevo meglio. Si fidava troppo di tutti io no! Il cavaliere che l' accompagnò alla mia festa se ne andò presto, lasciandola sola. Rimasi senza parole. L' ho vista piangere e poi andare via nonostante i tanti ammiratori. Non la dimenticherò mai».

Maria Corbi per la Stampa il 30 agosto 2019. Miss Italia sì o no? Serafico show nazionalpopolare o trappola per perpetuare il modello di bella statuina? In piena crisi dal Pd tuona Michele Anzaldi. Tanta attenzione non c' è stata invece per le delegazioni politiche impegnate nella crisi tra Colle, Palazzo Chigi e appuntamenti segreti dove la presenza femminile non solo è stata ai minimi termini ma è sembrata messa lì perché proprio non se ne può fare a meno. E così anche Dacia Maraini fa sentire la sua voce per il ritorno delle Miss in Rai e non per la scomparsa delle politiche. A sottolinearlo è una diva come Gina Lollobrigida, che è la madrina del concorso: rivendica il femminismo come «affermazione di libertà e indipendenza compresa la possibilità di sfilare in costume a un concorso di reginette di bellezza». D' altronde lei è stata Miss nel 1947, anno magico in cui arrivò terza dietro a Lucia Bosè e Anna Maria Canale, mentre quarta e quinta furono Eleonora Rossi Drago e Silvana Mangano.

Allora signora Lollobrigida, una difesa del concorso nostalgica o convinta?

«Convinta. La Maraini ha le sue ragioni, io le mie. È sbagliato pretendere il pensiero unico quando si tratta di donne. Vanno invece pretese pari opportunità, pari accesso al potere, rispetto. Siamo ancora indietro, il talento delle donne disturba i maschi».

Siamo quasi al traguardo?

«Assolutamente no. Ha visto quante poche donne tra i politici che contano? E anche nel mio mondo, quello dell' arte, è ancora difficile».

Cosa dirà alle ragazze di Miss Italia?

«Che devono essere indipendenti, capaci di difendersi e di sbattere la porta quando ce n' è bisogno come ho sempre fatto io e come continuerò a fare».

Lei durante il caso Weinstein ha rivelato di essere stata molestata.

«È stata una cosa molto più seria. Prima non potevamo dire queste cose. Sono stata drogata e violentata da un mio ex fidanzato. Lo avevo lasciato perché avevo saputo che mi tradiva, anzi che si sarebbe sposato con un' altra. Ma lui non poteva sopportare questa mia scelta, così mi invitò a una festa e feci l' errore di andarci. Non c' era nessun festa: mi ha drogata e se ne è approfittato».

Molestie nel suo mondo?

«No. Sapevano che avrei reagito male, con tutta la mia violenza. Si può dire di no».

Cosa ha significato per lei Miss Italia?

«Io venivo da Subiaco, non avevo visto niente, per me era una gita. Il concorso è stata la porta di accesso al mondo dello spettacolo. E lo è ancora oggi. Non c' è niente di male a sfoggiare la propria bellezza, una dote come lo è per i maschi. Miss Italia non è che un grande casting e chi ha talento emerge. Ci scandalizziamo per delle ragazze che sfilano in costume quando ci sono reality dove stanno tutti in mutande? Per una ragazza che viene dalla provincia più profonda e sogna una vita nel mondo dello spettacolo questo concorso è una opportunità. E le assicuro che c' è ne sono poche».

Per lei si sono spalancate le porte di Hollywood. Con attori del calibro di Yul Brynner ai suoi piedi.

«Mi chiamò Howard Hughes e provai. Ma la passione per il cinema è nata e cresciuta con Vittorio De Sica. Era meraviglioso essere diretta da lui».

Dicono che fosse innamorato di lei.

«Era affascinato dalla diva del cinema, ma è stato un rapporto platonico. Mi scriveva dei poemi e me li declamava per telefono. Era molto discreto».

Yul Brynner?

«Sostituì Tyrone Power quando morì ed eravamo molto attratti l' uno dall' altra, ma niente di più. Quando il regista dava lo stop a una scena in cui ci baciavamo noi continuavamo come se in quella stanza affollata fossimo soli».

Quanta importanza ha avuto l' amore nella sua vita?

«Ne ha avuta, ma non sono stata fortunata. Sono sempre stata lasciata».

Perché?

«La mia popolarità faceva paura, gli uomini erano troppo gelosi, competitivi. Con una donna di successo accanto gli uomini si sentono menomati».

Suo figlio voleva farla interdire, siete ancora in guerra?

«Ha intorno persone malvagie che vogliono che ci sia questo contrasto. Deve capirlo, altrimenti peggio per lui. Per non soffrire occorre essere indipendenti nella vita».

Lei è una «perennial», come chiamano oggi le persone che sfidano l' età. Si riconosce?

«Fino a che sono viva io vivo e lavoro. Amo la vita».

A cosa sta lavorando.

«Alla mia biografia, ce ne sono troppe scritte da persone che non mi conoscono. Ora sarò io a raccontarmi».

·         Claudia Cardinale.

Dagospia il 26 novembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Claudia Cardinale è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

A proposito della giornata internazionale contro la violenza sulle donne: "Io lavoro all'Unesco da più di trent'anni. Mi occupo delle donne, con Amnesty International. Mi batto anche contro la pena di morte. Purtroppo ho visto che in Italia molte donne vengono uccise. Questo mi dà molta tristezza. Negli ultimi anni la condizione delle donne in Italia sta peggiorando".

Quando andò in udienza dal Papa e si presentò con la minigonna: "Erano gli anni '60. I giornalisti mi criticarono, ma Paolo VI mi disse che lui era il Papa, ma io ero il Cardinale. E che quindi avrei potuto fare quello che volevo. Mi accolse molto bene".

Claudia Cardinale ha parlato un po' di se: "Vado a dormire tardi, verso le undici e mezza, e alle sei del mattino mi alzo. Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare molto presto. Avevo sedici anni e ho iniziato a Tunisi. Ho fatto il primo film con Omar Sharif. A Tunisi dicono che non sono né italiana né francese. Dicono che sono tunisina. Mi hanno messo a disposizione una enorme casa e mi hanno detto che posso andare quando ne ho voglia. Ho fatto 181 film, ne ho fatti quattro con Visconti, quattro con Bolognini, ho girato in tutto il mondo, in America, in Svizzera, in Inghilterra, ovunque. Non volevo far cinema, avevo una sorella molto bella e quello del cinema era il suo sogno. Io rifiutavo ogni proposta, poi Martin Scorsese e Woody Allen hanno insistito e mi hanno convinto. Il film a cui sono più affezionata? Il Gattopardo, con Visconti. Lui non amava le donne e mi diceva che ero un maschiaccio. Ho fatto tanti film a Hollywood, loro volevano che mi fermassi lì, ma io rivendicavo sempre il mio essere Europea. Oggi continuo a girare, anche se ho 81 anni. Continuo a girare sempre. Ho fatto insieme. Io non mi trovavo bella".

Sul rapporto con le altre attrici: "Sempre bellissimo, non credo ci fosse invidia nei miei confronti. Io non sopporto queste cose, mi sono trovata bene con tutti. Se qualche produttore o qualche regista ha mai provato ad approfittarsi di me? Qualcuno ci ha provato, ma non ci sono mai cascata".

Sull'amore: "Ho avuto solo un uomo nella mia vita, Pasquale Squitieri. Ha voluto chiamare Claudia, come me, nostra figlia. Come sono da nonna? Ho Milo, il bambino di mia figlia, che dice di avere dieci moglie. E' un piccolo latin lover. Poi c'è Patrick, mio figlio, anche lui divenuto genitore. Ho un bellissimo rapporto con i suoi figli, tra poco, per le feste di Natale, verrà qui a casa mia".

A proposito dei suoi genitori: "Si sono conosciuti giovanissimi e sono stati insieme tutta la vita. Mio papà è morto a 94 anni, mia madre ne aveva 88. Lei mi confessò che prima che lui morisse avevano fatto l'amore. Erano una coppia meravigliosa".

Quando respinse Marlon Brando: "Il primo film che ho visto quando era a Tunisi aveva lui come protagonista. Una notte bussò alla mia porta, disse che era dell'ariete come me e che avrebbe voluto far l'amore. Io lo mandai via, ma mi son pentita di averlo allontanato...Sono stata stupida. Il primo film che ho visto era con lui".

Di nuovo su Pasquale Squitieri: "E' stato l'unico uomo della mia vita. Quando l'ho incontrato si è accorto che non avevo neanche una lira in banca. Il produttore con cui lavoravo si prendeva tutti i soldi e non mi lasciava niente. Facevo quattro film l'anno, ma non avevo un soldo. Pasquale aveva un sacco di donne. Quando mi ha visto ha lasciato tutte, si è messo con me e siamo stati insieme 28 anni. E' stato il vero amore".

Claudia Cardinale: «Il cinema mi ha sfruttata e sottopagata, e a Marlon Brando dissi di no». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Francesco Battistini inviato a Parigi su Corriere.it. «Sa che ho appena chiesto il passaporto tunisino?...». Sotto la casa di Claudia Cardinale, sul Lungosenna si menano gli ambientalisti e la polizia va di spray al peperoncino. Le sirene sono ormai un’abitudine parigina — cortei verdi o gilet gialli, bandiere nere o autobotti rosse — e lei si fa la prima risata di quest’intervista piena di risate. Sedute a una brasserie, fra spremute e sigarette, la divina Claudia è spensierata e ride tanto («mia mamma mi diceva che è per questo che non mi si vedono le rughe!») e la figlia Claudia («io per la verità volevo chiamarla Ania, ma Pasquale Squitieri disse no: si chiamerà Claudia, come se tu mi avessi sposato!...») è pensierosa e ride meno, spesso correggendo, bacchettando, sostituendo la mamma nelle risposte: «A Tunisi o a Parigi, alle sirene ci si abitua. S’impara a convivere con queste cose. Ma io per la verità non mi agito mai, sono sempre stata un po’ pazza... (risata). Mio papà era ingegnere ferroviario, da bambina abitavo vicino alle rotaie e aspettavo che il treno partisse, per saltarci sopra. Poi i macchinisti andavano a dirglielo: guarda che tua figlia è matta...! (risata). L’incendio di Notre-Dame è stato nel giorno del mio compleanno: dovevo cenare fuori, mi sono affacciata alla finestra e ho visto il fuoco. Allora sono andata là. E sono rimasta a guardare le fiamme tutta la sera. Un’immagine apocalittica. I ponti bloccati, una folla pazzesca, la gente che piangeva». Si sente più parigina, siciliana o tunisina? «Mezza tunisina e mezza italiana. Da ragazzina dovetti imparare l’italiano, Tunisi era francofona, a scuola si studiava l’inglese e in famiglia parlavano siciliano per non farsi capire da noi figli. Qui a Parigi sono sempre stata bene, la gente mi saluta per strada senza pressare e il rapporto con le celebrità è molto diverso: in Italia ho cambiato tre indirizzi, pur di liberarmi dei paparazzi. Tutti sapevano dove stavo, che facevo. Una volta mi suonò alla porta un tizio, arrivato da New York, che mi proponeva di convivere: diedi 50 mila lire al tassista e lo rispedii all’aeroporto (risata). Qui invece sono più discreti: un giorno, un signore m’ha avvicinata timido per dirmi che da giovane era innamorato di me, ma siccome non poteva sperare, aveva cercato per tutta la Francia una che mi somigliasse e l’aveva sposata...! (risata). Questa casa parigina m’è costata una fortuna: apparteneva alla famiglia reale, all’inizio non riuscivo neanche a pagarla. Ma ha le colonne e sa che faccio? Metto la musica e ci ballo intorno! Ha pure davanti la Senna: a volte ci sono dei maschi che si piazzano sotto il ponte, mezzi nudi, pensano che nessuno li veda e non sanno che abito lì, allora prendo il binocolo e li guardo un po’... (risata). Sì, questa zona mi piace, perché vedo l’acqua. Com’era a Tunisi, da ragazzina». Col passaporto tunisino, tornerà a vivere là? «Ho appena girato un film in cui faccio la nonna. Avevo paura che mi volessero coi capelli bianchi. E invece no! (risata). Lo scopo è mostrare come un tempo in Tunisia convivessero musulmani, cristiani, ebrei. E noi italiani: ci chiamavano la piccola Sicilia. La mia famiglia veniva dall’Isola delle Femmine — laggiù si chiamano ancora tutti Cardinale — e i nostri vicini erano russi scappati dalla Rivoluzione, maltesi, greci. Sa che alla Goulette fanno ancora le processioni con la Madonna e partecipano anche gli islamici? Sono quelle, le mie origini. Quando ci vado, sto benissimo. Sono la figlia di tutti, non pago mai nulla. Sono anche andata a rivedere la mia casa». Che cos’ha trovato? «Ho bussato. Una donna m’ha risposto in arabo: non posso aprire, sto facendo la doccia. E io: no, eddài, fammi entrare... È tutto uguale, non hanno mai fatto un lavoro! La mia camera, i bagni, la cucina: le stesse cose. Mi sono presa qualche oggetto. Quella che è cambiata, è la cattedrale di Cartagine dove ho fatto la prima comunione: sconsacrata. Andai a rivederla con mia mamma — perché mio papà Francesco non è mai più voluto tornare in Tunisia — e scoprii che dentro ci facevano i corsi di danza del ventre. Non c’è nemmeno il cimitero, dov’erano sepolti i nonni: spianato ai tempi di Ben Ali. Non so dove hanno messo le salme». Negli anni 70, lei non lavorava più: il produttore Franco Cristaldi voleva farle pagare d’essersene andata col regista Squitieri. E la rinascita fu sempre nella sua Tunisia...«Zeffirelli andò là a girare il Gesù e fu il primo a ridarmi un ruolo: guarda caso, l’adultera! (risata). Il mio ritorno dopo due anni. Angelo Frontoni mi scattò foto bellissime con Pasquale. Liberatorie. Perché Cristaldi aveva bloccato tutto, messo un veto sul mio nome. Fu un momento molto delicato. Avevo scoperto di non avere un soldo in banca, i miei genitori erano scandalizzati: ma come, con tutti i film che hai fatto?... È che venivo retribuita come una dipendente, quattro titoli l’anno, lo stipendio mensile. Stop. Cristaldi programmava tutto, all’americana. Era anche innamorato pazzo di me, anche se io non ci sono mai cascata, eh? (risata). Le case, i gioielli, non pagavo nulla per carità, ma non vedevo i soldi che gli facevo fare. È chiaro che c’era uno sfruttamento. Se oggi le attrici sono ancora sottopagate rispetto ai maschi, allora era anche peggio. Io ruppi il giocattolo. Oggi coi figli di Cristaldi i rapporti sono un po’ così: c’è stato un documentario su di me, non mi hanno ceduto i diritti... Pazienza». L’isolamento la fece soffrire? «Fu dura. Pasquale era uno che andava in tv e diceva cose pazzesche. Ci mise anni a trovare chi finanziasse Claretta. Ripeteva: ci sarà un cavolo di produttore che odia Cristaldi... Non mi stupisco che alla fine l’abbiano ucciso». Ucciso? «Pasquale ha ricevuto una grandissima ingiustizia. Due anni fa, la sua morte è stata un trauma. Ma se non fosse stato per me, sarebbe morto anni prima. Perché gli avevano tolto non solo la pensione da senatore di An, una cosa che di questi tempi si può anche capire, ma pure l’assistenza sanitaria. Dopo una certa età, in Italia non puoi più farti un’assicurazione medica. Terribile. Aveva un tumore, era senza un soldo e senza copertura, l’ho aiutato io. Lui era complicato, in lite con tutti. Qualcuno disse: va beh, ma chi se ne frega se muore... Una cosa inqualificabile, era proprio preso di mira. Molti lo snobbavano. Per ragioni ideologiche». Lei invece ha la casa piena di premi, la invitano ovunque...«Ho 81 anni e ho fatto 181 film. Più della Loren e della Lollobrigida, per dire. E ho ancora una vita piena. In America, non sa quanto. In Tunisia, hanno appena fatto una mostra su di me. E poi sono ambasciatrice dell’Unesco, mi occupo di Amnesty, di bambini in Cambogia, d’omofobia, di Aids... M’invitano dappertutto. Ogni tanto succedono cose allucinanti. Un piccolo museo nel 2013 m’ha chiesto in prestito il David che vinsi per Il giorno della civetta. Non me l’hanno più restituito! (risata). Ho dovuto mettere di mezzo gli avvocati». E l’asta dei suoi 130 abiti? «Me l’ha appena organizzata Sotheby’s qui a Parigi. Tutte cose degli anni 60, quando vestivo Capucci, Balestra, Nina Ricci... Li tenevo a Roma, non m’importava niente, io metto Armani da quando si chiamava solo Mani. Poi però i miei figli si sono accorti che rischiavano di rovinarsi: c’è la pelliccia di paillettes presa per gli Oscar, gli abiti di scena del Magnifico cornuto... Un vestito del Gattopardo: pesantissimo, faceva male, mi stringeva così tanto che Alain Delon riusciva a cingermi la vita con le mani. Visconti una sera entrò in camerino e vide che sanguinavo. “Claudia, ma perché non me l’hai detto che soffrivi?”. “Perché a soffrire non sono io, è Angelica”, il mio personaggio… (risata)». Delon, Belmondo, la Bardot: vi vedete? «Poco. Quando Delon ha avuto il premio a Cannes, era in Svizzera e m’ha chiamato: voglio che tu venga con me. La Bardot, l’adoravo. Prima ci sentivamo sempre, ma da quando sta con un simpatizzante di Le Pen, no, mi spiace, non posso più: al telefono risponde sempre lui! Il fatto è che, del mondo del cinema, non me ne frega niente: da ragazzina volevo essere un’esploratrice, era mia sorella Blanche che sperava di fare l’attrice. Io stavo alla larga perché non mi andava di rubarle il sogno. Oggi sto alla larga per rimanere con figlia e nipoti». A Hollywood era piena d’amici...«Il più grande, Rock Hudson. Allora c’era l’odio contro i gay, io fingevo d’essere la sua fidanzata: prese l’Aids da un inglese, mi chiamò, mi volle vicino prima di morire. 

Marlon Brando mi corteggiava, una sera bussò alla mia porta: “Io sono ariete come te, facciamo l’amore?”. Lo buttai fuori. Poi mi dissi che ero stata veramente scema: ma perché l’avevo cacciato?... (risata). 

Rita Hayworth mi fece piangere: venne nella mia roulotte, mi guardò, disse che anche lei da giovane era stata bella. Non accettava d’invecchiare (io no, io ho imparato a tenermi tutte le rughe!...). 

John Wayne invece aveva una mano doppia, una stretta pazzesca. E un grande cuore. Sul set usava una sedia enorme, col nome, mentre io ero una ragazzina e avevo un anonimo seggiolino. Allora me ne regalò una uguale, con la scritta “Claudia Cardinale”. Ce l’ho ancora». Oggi può dirlo: con Marcello Mastroianni fu amore? «Ma no! Una volta c’invitano a una trasmissione tv. Io arrivo e lui è con Catherine Deneuve. Si alza e mi dice: guarda che io ero innamorato di te, ma tu non ci hai mai creduto... Da quel giorno, la Deneuve mi odia. La incontro qui a Parigi e ancora non mi saluta. Ma io non ho mai avuto una storia. Nel nostro primo film, Il bell’Antonio di Bolognini, lui mi baciava, mi baciava. Ma che ne sapevo che fosse innamorato? Io nella vita ho amato un solo uomo: Pasquale». Come andò con Carlo Cassola al premio Strega? Era giovanissima, scandalizzò tutti appioppandogli un bacio in pubblico...«Mi hanno appena chiesto una testimonianza, per un libro che stanno facendo su di lui e La ragazza di Bube. Ma sa che Cassola me lo ricordo poco? (risata)».E Macron? «L’ho conosciuto prima che diventasse presidente. A una festa mi disse che aveva visto tutti i miei film, che ero stata un suo sogno. Poi mi presentò l’insegnante che era diventata sua moglie: avevo 12 anni, mi disse, e ne ero già innamorato...». E perché litigò con Bob Dylan? «Fece un disco e mise una mia foto sulla copertina. Ma non aveva chiesto l’autorizzazione. A me faceva solo piacere, immaginarsi, un futuro premio Nobel... Fu Cristaldi a fargli causa. Dylan dovette ritirarli, ma qualcuno di quei dischi si trova ancora». L’hanno intervistata centinaia di volte...«Moravia fu il migliore: lo incontrai per caso a Roma, mi fece salire da lui, mi chiese solo del mio corpo, non capii che era un’intervista. Pasolini parlò dell’angolo dei miei occhi. Poi Enzo Biagi... Quella con Oriana Fallaci me la ricordo poco. Ma la cosa più bella di me, la disse David Niven: “Con gli spaghetti, Claudia è la migliore invenzione degli italiani”. Qualche mese fa ho fatto un’intervista in Rai, ma è stata un errore: le domande dovevano essere altre, Mara Venier cercava soltanto lo show. M’ha chiesto dello stupro da ragazzina e del figlio che tenni. Quello è un argomento che non voglio mai toccare: dico solo che mio figlio adesso vive a casa mia con sua moglie, abbiamo un rapporto bellissimo». È vero che Paolo VI la ricevette in udienza e lei si presentò in minigonna? «L’avevo comprata a Londra da Mary Quant. Devo dire che quelli erano anni più liberi di oggi, nonostante le apparenze. Lo erano anche a Tunisi: sa che il bikini ci arrivò prima che a Cannes? Nel mio primo film, con Omar Sharif, ero piccola e Jacques Baratier mi aveva fatto recitare col velo perché facevo un’araba. Poi mi guardò e disse: ma perché t’ho messo il velo? Allora mi fece scattare delle foto in bikini e finii sulle copertine (risata). E quando mi presentai in Vaticano con le gambe fuori, i paparazzi mi dissero: aoh, ma sei matta, vai conciata così?». Ha messo all’asta anche la minigonna? «Non la trovo più. Probabilmente, se l’è tenuta il Papa» (risata).

Da Lettera 43 11 Giugno 2013. La notte del 31 agosto 1997, quando Lady Diana morì insieme a Dodi Al-Fayed in un incidente stradale a Parigi, l’allora presidente francese Jacques Chirac era introvabile. Nessuno sapeva dove fosse, né il primo ministro né sua moglie. Fu il suo autista ad informarlo dell’accaduto sotto la casa parigina dell’attrice italiana Claudia Cardinale. Cosa ci faceva lì Chirac? Il giornalista francese de L’Express, Renaud Revel, ha dato una risposta a questa e altre domande nel suo libro Les Amazones de la Republique, pieno di aneddoti e curiosità piccanti tra flirt e scappatelle dei capi di Stato della V Repubblica. Nel mirino sono finiti così François Mitterrand, Valery Giscard d’Estaing, Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy. Secondo la ricostruzione di Revel, la notte della morte di Diana sotto il tunnel dell’Alma, poco distante Chirac (ignaro di tutto ciò) si intratteneva con l’attrice italiana Claudia Cardinale. «Né il primo ministro né la moglie, Bernadette, sapevano dove fosse – ha raccontato Revel -. Fu il suo autista, che lo attendeva impaziente sotto la casa parigina della Cardinale, a informarlo dell’accaduto appena il presidente si congedò dalla bella attrice alle tre di notte. Chirac si precipitò direttamente sul luogo dell’incidente, dove si trovavano già il ministro dell’Interno e l’ambasciatore inglese. Mancava solo lui». Che il presidente socialista Mitterrand fosse un grande seduttore si sapeva (una delle sue figlie, Mazarine, nacque da una relazione extraconiugale): quello che si scopre è che aveva messo gli occhi anche su Valerie Trierweiler, la compagna dell’attuale capo di Stato, François Hollande. Mitterrand e Valerie si incontrano nel 1994, durante una cerimonia all’Eliseo: lei all’epoca aveva solo 25 anni ed era bellissima. Il presidente non poté resistere al suo charme e la invitò a pranzo. L’autore precisa che tra i due non ci fu una relazione. Ma fu grazie a quell’incontro che il direttore di Paris Match, Roger Therond, decise di assumere la Trierweiler per le sue relazioni privilegiate all’Eliseo. «Questo libro offre un altro sguardo sulla funzione presidenziale», ha spiegato Revel. «Grazie alle confidenze di alcune giornaliste ho raccontato le relazioni tra i politici e quelle che ho chiamato le ‘amazzoni’, cioé le donne, spesso giornaliste, che hanno contribuito a fare la storia di palazzo». E ha aggiunto: «L’Eliseo è uno specchio che ingigantisce, un universo di sfumature che stravolge i sensi e disorienta le bussole interne. Non si varca impunemente e innocentemente la soglia di quest’edificio senza misurarne gli effetti o i rischi. Tutto cambia una volta avuto l’accesso. Il visitatore si sorprende a trovarsi importante mentre il padrone di casa diventa improvvisamente sessuato».

·         Sharon Stone.

Sharon Stone: «Dopo l’ictus dimenticata come Lady Diana». Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Annalisa Grandi su Corriere.it. Dice di essere stata trattata male, di essere stata «dimenticata come Lady Diana». Sharon Stone torna a parlare dell’ictus che la colpì nel 2001. Lo fa in un’intervista a «Variety» in cui racconta come il mondo dello spettacolo l’abbia lasciata sola, nel momento più difficile della sua vita. «Ero una delle donne più famose e amate al mondo, poi all’improvviso tutti sembravano essersi dimenticati di me. Mi sono sentita abbandonata e ho perso tutto, compresa la cosa più importante che avevo: l’affetto di mio figlio» dice l’attrice, 61 anni compiuti a marzo. «La gente mi ha trattato in modo crudele, a partire dalla giudice che si occupò della custodia di mio figlio e fino alle mie colleghe. Ho capito che le persone non hanno la minima idea di quanto possa essere pericoloso un ictus e quanto sia faticoso riprendersi totalmente, mi ci sono voluti sette anni». Come Lady Diana, dice Sharon «Lei è morta, io ho avuto un ictus. Eravamo entrambe famose e siamo state dimenticate». La cosa peggiore però, ha raccontato l’attrice, è stata per lei perdere la custodia del figlio (Roan, otto anni all’epoca della sentenza nel 2008, adottato insieme all’ex marito Phil Bronstein). «In tutto il periodo successivo all’ictus - ha spiegato ancora la Stone a «Variety» - ho perso tutto ciò che avevo: la casa, la carriera, la famiglia. Mi sono sentita come se mi avessero tolto l’identità». Sharon Stone aveva 43 anni quando venne colpita dall’ictus, per quasi tre non è stata in grado di scrivere «Avevo il 5% di possibilità di sopravvivere» aveva spiegato.

·         Olivia Newton-John: la guerriera.

Chiara Maffioletti per il “Corriere della sera” l'8 agosto 2019. Con quel suo sorriso gentile che aveva fatto perdere la testa anche a un duro come Danny Zuko, Olivia Newton-John ha raccontato quello che sperava di non dover più raccontare. Lo ha fatto con la grazia che l' ha resa un' icona in tutto il mondo, davanti alle telecamere di 60 Minutes Australia. E con la naturalezza con cui si parlerebbe a un amico, ha dato a tutti una lezione di vita spiegando come, quando ti dicono che per la terza volta ti è tornato il cancro, «ogni giorno diventa per forza di cose un regalo». Per tre volte l' attrice - oggi splendida 70enne - si è sentita dire di avere un cancro al seno. Rispetto al passato però, ora ha scelto di non sapere quale sia la sua prospettiva di vita. «Non so quanto vivrò ancora, non ho nemmeno voluto saperlo dai dottori. Sono grata per ogni giorno che ho», ha spiegato con un candore disarmante. Facendo anche capire che dietro questa sua scelta c' è una logica precisa: «Se qualcuno ti dice "hai sei mesi da vivere", è possibile che sia così, perché alla fine ci credi. A livello psicologico, per me, è meglio non avere idea di cosa si aspettano o cosa ha vissuto l' ultima persona che si è trovata nella tua stessa condizione». Meglio non sapere. Quello che sa è che il tumore è tornato ed è a uno stadio avanzato. Ma, in fondo, secondo Newton-John, una simile, terribile diagnosi, non fa che metterti di fronte di colpo a una condizione che in realtà è propria di ognuno di noi. «In quanto essere umano, ciascuno ha una prospettiva di vita. La nostra condizione è quella di morire, prima o poi. Il cancro ti fa ragionare su questo ma in fondo nessuno può sapere quando accadrà». Ecco perché ha deciso di non definire gli orizzonti di quello che le succederà. Preferendo lasciare aperta la finestra sul suo futuro, su quello che sarà. L'attrice - che ha molto in comune con la dolce ma tostissima Sandy di Grease - aveva già avuto, in passato, il cancro al seno: nel 1992 e nel 2013. L' ovvia speranza era che fosse qualcosa che apparteneva al passato, come è stato per altre persone famose, come Kylie Minogue, Anastacia, Michael Douglas o Hugh Jackman (che l' altra sera ha mandato all' attrice un video messaggio in cui le diceva che splendida persona e che esempio per tutti è). Poi, l' ultima diagnosi, due anni fa, ha confermato il ritorno del tumore e la presenza di metastasi. Davanti alle telecamere, Newton-John ha anche incluso il capitolo delle cure: «Credo che la cannabis faccia una grande differenza - ha spiegato -. Se non prendo le gocce sento che fa male, quindi so che funziona». In questa impegnativa conversazione, l' attrice, luminosa come sempre, si è trovata più volte a rompere la tensione con una risata e abbracciare la conduttrice, commossa di fronte a quella manifestazione di forza d' animo e di eleganza dei sentimenti che poi altro non è se non la forma plastica del coraggio. Con quella stessa forza d' animo, Olivia Newton-John ha deciso di prendersi una pausa dal lavoro per dedicarsi agli altri, anche con la sua associazione. E con quella stessa forza d' animo si è definita fortunata, «fortunata per aver attraversato tutto questo tre volte e essere ancora qui».

·         Il 2 volte premio Oscar Jodie Foster.

Silvia Bizio per La Repubblica il 29 luglio 2019. C'è un'infermiera specializzata per un certo tipo di pazienti nel fittizio Hotel Artemis di Los Angeles, a Downtown. È stoica, precisa, dedicata e indifferente al motivo per cui sei lì, d'altronde se sei lì puoi essere solo un criminale in fuga. Si chiama The Nurse ed è interpretata dalla due volte premio Oscar Jodie Foster. Che a 56 anni portati sportivamente (nessun ritocco) si abbandona al ruolo con gusto, accettando di farsi invecchiare. Nel film scritto e diretto dall'inglese Drew Pearce (sceneggiatore Iron Man 3, Pacific Rim e altri film d'azione, ora passato alla regia), ci troviamo immersi in una distopica Los Angeles del 2028. In una notte di tafferugli e scontri con la polizia che cerca di respingere violentemente i manifestanti che si sono tinti di blu per perorare la loro unica richiesta: acqua pulita, si aggirano quattro uomini, i volti coperti da maschere a teschio, hanno appena fallito un colpo in banca finendo in uno scontro a fuoco con la polizia. L'unica speranza di sopravvivere è raggiungere prima possibile uno stabile di 13 piani, dalla logora facciata, un tempo un prestigioso hotel, ma adesso un luogo sicuro che nasconde nell'attico un ospedale all'avanguardia. L'iscrizione a questo Pronto Soccorso esclusivo si paga in anticipo e tutte le regole della casa devono essere seguite alla lettera (compresa installazione di un chip nel polso). A gestire la struttura è The Nurse, l'infermiera, e stanotte è particolarmente impegnata. "Sono nata, cresciuta e ho vissuto tutta la vita a Los Angeles" dice Jodie Foster, incontrata per il lancio del film in un hotel ultra moderno di Beverly Hills (lei vive a Malibu); "e questo film è una specie di lettera d'amore alla mia città, un film ambientato in un futuro prossimo ma anche pieno di atmosfere anni '20 – tutta la struttura, lo stile, il milieu dell'hotel art déco -  quindi un futuristico nostalgico!". "In Hotel Artemis c’è una vena malinconica per Los Angeles che condivido con Drew Pearce, che ha creato qualcosa di veramente originale e visivamente d'impatto, che mostra la città da prospettive nuove. Il film è sicuramente un thriller, ma allo stesso tempo appartiene a un mondo tutto sue, un genere trasversale". "Los Angeles ha una sua precisa personalità" dice l'ex enfant prodige del cinema, aveva 13 anni quando interpretò la giovane prostituita in Taxi Driver di Martin Scorsese. "Qualcuno l'ha definita una città di "porte", perché a differenza della East Coast o dell'Europa non hai idea di quale sia l'interno di un posto basandoti sulla sua estetica esteriore. Il ristorante più alla moda potrebbe stare dietro la porta di un centro commerciale fatiscente, e per me in questo c’è qualcosa di eccitante. Tutto ciò si riflette in Artemis, che potremmo definire sicuramente un film di porte. Una storia guardata attraverso il buco della serratura". Il finto Hotel Artemis (ricostruito in studio) è in realta' ispirato al vero Hotel Alexandria, il più elegante di Los Angeles al tempo della sua inaugurazione del 1906. Se all'epoca si andava a Downtown era sicuramente il posto dove fermarsi.

Signora Foster, per la sua Infermiera ha tratto ispirazione da qualcuno in particolare? È un ruolo così diverso dai suoi precedenti.

"In un film originale come questo ogni personaggio è originale. L'Infermiera è forte e timorosa insieme, dà tutto al suo lavoro e sa affrontare qualsiasi dolore tranne quello proveniente dal suo passato. È eccentrica ed esuberante come solo una Barbara Stanwyck poteva esserlo".

Originale per il mix di fantascienza e stile rétro?

"Certo. Non so voi, ma a me hanno davvero stufato i film triti e ritriti e i grossi franchise di cassetta, tutti uguali, e ho abbracciato questo film con la sua combinazione di nostalgia e stile vintage alla Wong Kar-Wai mixato all'universo dello sci-fi e dell'azione. Energia ed elegia".

Ci parla della sua trasformazione fisica nel film?

"Ecco la vecchia Jodie! [ride] Così sarò a 70 anni, e a 70 anni vorrò ancora recitare, perchè lo puoi ancora fare, anche a 80 se è per questo. Tornando alla sua domanda, mi sono dovuta sottoporre a ore e ore di make-up e prostetica facciale ogni giorno da parte del grande artista Lois Burwell, davvero un mago del trucco. E i denti ingialliti, e la parrucca grigia, e le rughe, e tutto contribuisce alla costruzione del personaggio. Mi è piaciuto molto invecchiarmi".

È interessante che a lei sia piaciuto invecchiarsi, in un'arte e un'industria dove tutti cercano di apparire più giovani.

"È una tematica interessante per tutti noi over 40. Ma io volevo la trasformazione e immergermi nel personaggio e nella storia, e non me ne importa niente di come appaio. Ho la fortuna di non essere una bellezza di prima classe e che dell'apparenza mi è sempre importato poco. Quindi ho un handicap di vantaggio su altre colleghe mie bellissime, non so se rendo l'idea". 

Come immagina la Los Angeles nel 2028?

"Grande punto di domanda. Io sono orgogliosa della mia città e di essere californiana. Essere californiani significa molto in questo momento storico-politico, perché siamo lo Stato che fa sempre la differenza, che spesso illumina la strada, guida il tragitto verso il futuro. Certo, la velocità degli sviluppi tecnologici sta trasformando il tessuto sociale, e sento che stiamo sull'orlo dell'abisso, e possiamo cadere o fare un passo indietro e dire: ehi, aspetta un momento, che stiamo facendo? Fermiamoci un attimo a riflettere. Ma io nutro sempre la speranza che la California sappia condurre saggiamente. Il resto del paese ha spesso guardato noi per capire dove stiamo andando". 

Ha speranza anche per gli Stati Uniti e il mondo?

"Adesso non esageri con le domande politiche perché non sono mai stata e continuo a non esere una portavoce politica, qualificata a commentare sulle cose del mondo. Siamo bravi di sicuro a dire le cose tramite i personaggi nei film, cose di cui possiamo discutere e comunicare. Di certo questa è una congiuntura storica particolare e abbiamo tutti l'opportunità di essere migliori".

Ha un'opinione sul riscaldamento globale?

"Bisogna avere un'opinione? Lo stiamo sperimentando. Sono un'amante della scienza, rispetto la scienza, ho fede nella scienza, e la scienza ci sta dicendo chiaramente coi fatti che il global warming non è un mito, e ci dà anche risposte su come affrontare il problema". 

Cosa pensa dei movimenti Me Too e Time's Up?

"Di nuovo, non sono una brava portavoce, e resisto sempre alla tentazione dei sound bite, della militanza con gli slogan o i 250 caratteri. E non credo ci sia bisogno di ascoltare un altro attore sentenziare sul tema. Comunque sono tematiche sacrosante, dobbiamo tutti elevare le coscienze e ricalibrare ogni rapporto sociale, sul posto di lavoro e in genere nella vita".

Lei aveva fatto quasi "outing" in un discorso ai Golden Globe qualche anno fa, ricevendo il premio alla carriera. Perché ha preferito glissare?

"Per tutte le ragioni che ho spiegato sopra. Non mi sento di fare nessun comizio, sono una persona piuttosto riservata e di sicuro introversa, ho sempre privilegiato la mia privacy, così come rispetto profondamente quella degli altri".

Quando l'Infermiera nel film soffre di ansia, ascolta musica con vecchie cassette. Lei cosa fa per rilassarsi?

"Spengo CNN o MSNBC. Cerco di disconnettermi da tutto il chiasso e la confusione e il dolore del mondo. Medito. Cerco di farlo tutti i giorni. E d'inverno vado a sciare. La cosa più rilassante che ci sia".

Davvero?

"Sì, perché quando scendi veloce devi pensare solo al momento, a non cadere, sbattere contro un albero o un pilone, a non morire. La neve, la velocità, il vento in faccia. Sciare annulla ogni agni altro pensiero, è la mia pratica Zen".

·         Diane Keaton ed il suo funerale.

Diane Keaton ed il suo funerale. Silvia Bozo per “la Repubblica”  l'8 maggio 2019. Settantatré anni e non sentirli. A poca distanza dall' uscita nelle sale italiane di Book Club, commedia con signore agée che riscoprono il brivido del sesso grazie alla lettura di 50 sfumature di grigio, Diane Keaton è di nuovo una "pantera grigia" in Poms, la commedia diretta da Zara Hayes, nelle sale americane da venerdì. Nel film interpreta Martha, una donna che si trasferisce in una comunità di pensionati e insieme a Jackie Weaver, Pam Grier (star del cinema black anni 70) e Rhea Perlman mette in piedi una squadra di cheerleader. «E pensare che da giovane non ho mai fatto la ragazza pompon, ero goffa, ballavo malissimo. Feci un provino a quattordici anni ma non lo passai» ci racconta quando la incontriamo al Four Seasons Hotel di Beverly Hills. «Il film racconta la vicenda di una donna insicura, con un blocco emotivo, che rinuncia alle amicizie, alla vita. Si ritira per invecchiare e morire come le pare. Poi accade qualcosa che le cambia le carte in tavola».

È un bel momento per le attrici non giovanissime.

«È bello poter fare film di questo tipo in questo momento della vita. E complimenti a Zara Hayes, che è al suo debutto eppure è stata in grado di gestire un' orda di signore scatenate. Il soggetto mi è piaciuto subito, sono stata al gioco e ho fatto bene. Il messaggio del film è che non c' è età per inseguire i tuoi sogni».

È anche la sua filosofia?

«Non ho una vera e propria filosofia di vita, mi sono sempre sentita un po' fuori dalla norma, qualcuno mi definisce eccentrica. In realtà con il personaggio di Poms ho in comune il desiderio di vivere come voglio, in pace. Quando sono a casa, ogni tanto mi faccio uno spinello e me lo godo con un bicchiere di vino. Una sensazione divina».

Allora per lei è questo il segreto dell' eterna giovinezza, come per molte donne la chirurgia estetica?

«No, è l' ansia. Lo so, può sembrare una battuta di Woody Allen ma è la verità. L' ansia è un sintomo di vitalità. È impossibile essere sempre felici come vorremmo, e l' ansia è una forma di protesta contro ciò che ci impedisce di realizzare i nostri sogni. Un sentimento positivo. Certo, anche l' ambiente aiuta. Vivo a Sea Ranch, a nord di San Francisco ma ho anche una casa a Sedona, in Arizona, un posto magico, fatto di rocce rosse che al tramonto ti trafiggono di bellezza».

Poi c' è la Napa Valley in California dove produce vino.

«Tutta colpa di Francis Ford Coppola che mi ha introdotta in questo universo meraviglioso. Il mio vino si chiama The Keaton ma è un prodotto senza pretese, un bianco e un rosso non costosi, i cui ricavi vengono destinati al centro di ricerche sul tumore al cervello "Lou Ruvo" di Cleveland. Nessuna speculazione insomma. Per me è un divertimento e amo andare in California, mi ricorda l' Italia che conosco bene grazie a Paolo Sorrentino che mi ha voluta per il suo The Young Pope ».

Sette film con Woody Allen e una lunga amicizia.

«Woody è sempre un carissimo amico. Anche con tutte le sue fobie. Ha dieci anni più di me ma penso che vivrà almeno fino a 120 anni, tanta è la sua paura di morire. Ha un buon dna, suo padre è vissuto fino a 100 anni, la madre oltre i 90. L' unica cosa che mi secca è che morirò prima io e lui sarà al mio funerale».

·         Buon compleanno Meryl Streep: l'attrice compie 70 anni.

Buon compleanno Meryl Streep: l'attrice compie 70 anni. Ripercorriamo la carriera della diva, in questi giorni sul piccolo schermo in Big Little Lies 2. Nicoletta Tamberlich il 22 Giugno 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Più che una diva una leggenda vivente che continua a mantenere intatto il suo fascino e appeal verso un pubblico trasversale di almeno tre generazioni salita 21 volte sul palcoscenico dell’Oscar e ben 26 su quello dei Golden Globe, compreso un Orso d’oro alla carriera. Meryl Streep spegne con sfrontatezza 70 candeline sfoggiando le rughe con orgoglio protetta e amata da sempre da una solida famiglia il marito Don Gummer, i quattro figli e il nipotino.

Mary Louise Streep nasce in New Jersey il 22 giugno del 1949 e proveniente dal metodo dell’Actor's Studio, debutta nel '75 nei teatri di Broadway, dopo una serie di provini sfortunati due anni dopo, debutta con il film Giulia. Tre le vittorie per la statuetta più ambita di Hollywood: nel 1980 come migliore attrice non protagonista per Kramer contro Kramer e nel 1983 e nel 2012 come migliore attrice protagonista rispettivamente per La scelta di Sophie e The Iron Lady. «È vero che ho vinto tre Oscar, ma è anche vero che ne ho persi molti di più» ha detto in occasione della candidatura per The Post (di Steven Spielberg) Meryl Streep con ironia, una delle migliori attrici di tutti i tempi. Non la pensa così Donald Trump che l'ha definita nel 2017 «una delle attrici più sopravvalutate di Hollywood». Viso ovale, naso lungo e sottile, occhi penetranti: una bellezza anticonvenzionale che ha sempre caratterizzato ogni suo ruolo. Non tutti sanno, è stata lei stessa a raccontarlo, che nel 1975 fu rifiutata da Dino De Laurentiis per la parte di protagonista nel film King Kong: il produttore l’aveva giudicata troppo brutta. 

Nel 1978 l’attrice ottiene una parte ne Il cacciatore di Michael Cimino. L’ingaggio le consente di stare vicino a John Cazale, l’uomo che ama e che è gravemente malato. Una volta ultimate le riprese, la Streep comincia la lavorazione della miniserie Holocaust, con cui si impone all’attenzione generale. Nonostante la morte del compagno, si getta poi in una frenetica attività teatrale, per ricevere infine la nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista per la sua performance ne Il cacciatore. La candidatura all’Academy Award costituisce per Meryl l’inizio di un periodo positivo. Nel 1979, l’attrice recita e viene applaudita in Manhattan di Woody Allen, e ne La seduzione del potere. Gli anni 80 segnano per la Streep il definitivo passaggio a ruoli da protagonista.

Da non dimenticare innanzi tutto La donna del tenente francese (1981), nel quale ricopre un doppio ruolo e affianca Jeremy Irons, e La scelta di Sophie (1982), che le impone di calarsi nella difficile parte di una donna polacca che abbandona la figlia in un lager per poter salvare se stessa e l’altro figlio. L’interpretazione le vale il suo primo Oscar come miglior attrice protagonista.

Nel 1984 Meryl Streep ritrova Robert De Niro in Innamorarsi, nel 1985 forma una coppia perfetta con Robert Redford, suo compagno di set ne La mia Africa di Sydney Pollack. Nel 1986 è la volta di Jack Nicholson, che incontra sul set di Heartburn - Affari di cuore. Il 1989, invece, è l’anno del premio per la migliore attrice al Festival di Cannes (Un grido nella notte) e della sua prima parte comica, (in She-Devil: Lei, il diavolo). Negli anni 90 arriva la stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Pur conservando un certo interesse per il cinema d’autore, come dimostra Cartoline dall’inferno (1990) di Mike Nichols, Meryl inizia a non disdegnare un cinema più popolare.

Il film che le porta maggiore fortuna sta a metà fra queste due strade, perché a dirigerlo ci pensa un grande regista, ma a ispirarlo è un best-seller: I ponti di Madison County (1995), in cui l’attrice fa la parte di una casalinga che vive una bellissima parentesi amorosa con un fotografo. Negli anni 2000 la Streep è l’attrice più richiesta di Hollywood. Arriva quindi un altro successo di botteghino con la cinquantenne in salopette che canta i brani degli ABBA (Mamma Mia!, 2008), o la buffa zia di due tristi orfanelli (Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi, 2004), ora l’autrice di un famoso libro di cucina (Julia & Julia, 2009). Se i film che le recano maggiore successo sono Radio America (2006) e Il diavolo veste Prada (2006) - in cui dà vita all’indimenticabile Miranda Priestly, direttrice di una prestigiosa rivista di moda - la critica la apprezza soprattutto ne Il ladro di orchidee (2003) e in The Hours (2003).

Quest’ultimo, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Cunningham, le fa vincere, insieme a Julianne Moore e Nicole Kidman, L’Orso d’Argento a Berlino. Da non dimenticare, sempre a inizio Duemila, l’incursione di Meryl in film che affrontano argomenti politici: The Manchurian Candidate (2004), Rendition (2007) e Leoni per agnelli (2007), diretto dall’amico Robert Redford. Nello stesso decennio, Meryl Streep viene acclamata anche per la miniserie Angels in America, nella quale recita con Al Pacino. Meryl Streep nel 2018, è tornata a interpretare Donna Sheridan in Mamma Mia! Ci risiamo, da ricordare Il ritorno di Mary Poppins diretto da Rob Marshall, ma anche 'Florencè con Hugh Grant; Dove eravamo rimastì di Jonathan Demme. Ha quindi preso parte alla seconda stagione della serie tv Big Little Lies, in onda in questo periodo su Sky Atlantic. E’ attesa sul grande schermo nella nuova versione di Piccole Donne di Greta Gerwig, forse alla Mostra del cinema di Venezia 2019.

Meryl Streep compie 70 anni senza perdere il suo stile e diventa nonna per la prima volta. Chiara Ugolini il 17 giugno 2019 su La Repubblica.  In oltre quarant'anni di carriera Meryl Streep, che il 22 giugno compie 70 anni, si è distinta non solo per i successi cinematografici, ma anche per aver saputo mantenere pressoché immutato il suo fascino così particolare e cerebrale, vestendolo sempre con eleganza e femminilità. Col passare del tempo l'attrice ha trovato un suo stile molto preciso: classico, ma molto personale e lontano dal convenzionale e dallo scontato. Si è cucita addosso un'identità riconoscibile nell'abbigliamento con la quale dimostra di essere in piena sintonia, sia sul red carpet che nelle occasioni informali. Abiti morbidi, ma mai sciatti, completi dal taglio maschile indossati con scarpe col tacco alto, vestiti con spacchi e scollature che mostrano con fierezza il corpo senza mai scivolare nella volgarità. La parola d'ordine nell'armadio di Meryl Streep sembra essere sobrietà: una caratteristica che quando è accompagnata da una personalità spiccata come quella dell'attrice tre volte premio Oscar non scade mai nell'anonimato. Del resto non potrebbe essere altrimenti visto che nessuno nella storia del cinema ha ricevuto altrettante candidature ai premi Oscar, 21 per la precisione, di cui 17 come miglior attrice protagonista. Basterebbe questo a capire la grandezza di Meryl Streep, che continua a rappresentare un mito del grande e del piccolo schermo. Di quelle ventuno nomination ben tre si sono trasformate in premi Oscar: migliore attrice non protagonista per "Kramer contro Kramer" (1979), migliore attrice protagonista per "La scelta di Sophie" (1982) e per "The Iron Lady" (2012). Merito delle sue metamorfosi che sono diventate leggendarie: dalla protagonista di "La scelta di Sophie", per cui imparò il polacco, alla strega di "Into the Woods", la grande Meryl ha dimostrato negli anni abilità camaleontiche uniche. Nel 2016 la biografia "Her Again: Becoming Meryl Streep", scritta da Michael Schulman, svela alcuni dettagli del suo privato tra i quali quelli legati alla tragica morte del primo fidanzato John Cazale, avvenuta per un cancro ai polmoni nel 1978, e poi dell'incontro con Don Gummer con il quale si è sposata nel settembre del 1978 e che tuttora è suo marito. Con Don, scultore e artista, ha avuto quattro figli: Henry (nato nel 1979), Mamie (1983), Grace (1986) e Louisa (1991). E proprio Mamie, la secondogenita, nel 2019 l'ha resa nonna per la prima volta catapultandola in una nuova fase della vita per la quale però ha fatto allenamento sul set: nella seconda stagione della serie TV "Big Little Lies" (in onda dal 18 giugno su Sky Atlantic) infatti interpreta la parte della suocera di Nicole Kidman e di nonna dei due figli di quest'ultima. Negli ultimi anni, l'attrice ha fatto della sua battaglia contro Donald Trump quasi una missione portandola anche negli eventi ufficiali, come ai Golden Globe 2017, o l'anno prima sul palco del Public Theater di New York, dove è salita con parrucca in testa, giacca XL e trucco arancione sul volto, per fare una parodia di Donald Trump, lei che ha sempre sostenuto Hillary Clinton e che è stata definita dallo stesso presidente degli Stati Uniti "un'attrice sopravvalutata". Del resto l'attivismo politico di Meryl Streep è sempre stato noto, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei diritti delle donne e l'appoggio delle campagne per i diritti civili della comunità LGBTQ+ della quale è diventata una paladina.

Meryl Streep, i suoi 10 film più belli. Trentuno nomination ai Golden Globe (con premio alla carriera), ventuno agli Oscar (da record!), l'attrice continua a emozionare. Simona Santoni il 22 giugno 2019 su Panorama. Buon compleanno Meryl Streep! Attrice che mette sempre d'accordo tutti, la divina Meryl oggi compie 70 anni ma non sembra sentire il peso dell'età come le colleghe coetanee: ruoli accattivanti e da protagonista non le mancano. Per lei è un continuo inanellare performance memorabili, a volte anche all'interno di film meno memorabili. È stata un'iniezione di energia nel musical Mamma Mia! (2008) a suon di canzoni degli Abba. L'abbiamo ancora negli occhi come Margaret Thatcher granitica e fragile in The Iron Lady(2011), terzo e ultimo Oscar in bacheca. Meryl Streep har reso emozionante e dolcissimo anche il senso del ridicolo e come soprano inconsapevole della sua assoluta scarsità canora è formidabile in Florence (2016), una volta di più: nel film di Stephen Frears ha interpretato Florence Foster Jenkins, cantante lirica americana della prima metà del Novecento celebre per essere totalmente stonata. Meryl l'ha resa tenerissima e commovente nelle sue stravaganze da ricca appassionata di musica. Così tragicomica e adorabile quando cinguetta come una papera col mal di gola. E poi, recentemente, ha coniugato forza e umanità come editore Katharine Graham alle prese con i documenti top secret dei Pentagon Papersin The Post di Steven Spielberg. Per lei ben ventuno nomination all'Oscar: un record assoluto!  E ben trentuno candidature ai Golden Globe e Golden Globe alla carriera (con tanto di discorso di fuoco contro Donald Trump). Basandoci anche sui giudizi della critica internazionale raccolta sotto il sito Rotten Tomatoes, qui ripercorriamo i 10 film più belli con Meryl Streep.

10) La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula. Meryl Streep è Sophie, ex internata in un campo di concentramento che, per salvare se stessa e suo figlio, ha sacrificato la figlia e collaborato coi nazisti. L'attrice offre una performance formidabile, nel far rivivere sul suo viso pallido quel calvario di scelte estreme e sensi di colpa. Oscar - il secondo - come migliore attrice protagonista. 

9) Kramer contro Kramer (1979) di Robert Benton. A trent'anni per Meryl arriva il primo dei tre Oscar vinti (in questo caso come migliore attrice non protagonista). Insieme a Dustin Hoffman tratteggia una crisi coniugale, con tutti gli impatti che il divorzio ha sui componenti della famiglia, soprattutto sul giovane figlio (Justin Henry) della coppia. Un classico strappalacrime. 

8) I ponti di Madison County (1995) di Clint Eastwood. Un adattamento che fa meglio del romanzo ispiratore di Robert James Waller. Storia romantica, piena di grazia ed eleganza, tra un fotografo di mezza età, lo stesso Clint, e una moglie e madre rassegnata, super Meryl, che con lui riscopre interiorità e passione. Nomination all'Oscar per la Streep? Certo!

7) La voce dell'amore (1998) di Carl Franklin. Un dramma famigliare elevato dalle solide interpretazioni dei suoi protagonisti, da Renée Zellweger, figlia che torna dai suoi per pensare alla madre malata, al padre fedifrago William Hurt fino ovviamente a lei, Meryl Streep, che illumina l'anima straordinaria di una donna comune. Undicesima nomination all'Oscar.

6) Cartoline dall'inferno (1990) di Mike Nichols. Film tratto da un romanzo semi-autobiografico dell'attrice Carrie Fisher. Meryl Streep interpreta un'attrice tossicodipendente con problemi con la madre (Shirley MacLaine) e un rapporto disfunzionale con un produttore squallido che s'approfitta di lei (Dennis Quaid). Nomination all'Oscar per Meryl. 

5) Il ladro di orchidee (2002) di Spike Jonze. Uno sceneggiatore con blocco creativo interpretato da Nicolas Cage. Si chiama Charlie Kaufman e non è un caso (lo sceneggiatore del film è Charlie Kaufman, che ebbe grosse difficoltà di scrittura trasferite poi nel copione in maniera biografica). Meryl Streep è l'autrice del libro da adattare (ennesima nomination all'Oscar per lei, la tredicesima). Un'opera originale che passa dal grottesco al drammatico.

4) Un grido nella notte (1988) di Fred Schepisi. Al Festival di Cannes Meryl Streep è premiata per la migliore interpretazione femminile. Accanto a Sam Neill, incarna Lindy Chamberlain, donna ingiustamente incolpata di aver ucciso sua figlia di nove settimane in uno dei processi per omicidio più pubblicizzati in Australia. Per l'attrice ottava nomination all'Oscar.

3) Il cacciatore (1978) di Michael Cimino. È il secondo film della carriera per Meryl e anche quello che la lancia, con tanto di prima nomination all'Oscar come migliore attrice non protagonista. Classico straziante sui travagli di tre lavoratori dell'industria siderurgica durante e dopo la guerra del Vietnam, ha vinto cinque statuette, tra cui miglior film e regia. Nel cast anche Robert De Niro, Christopher Walken e John Cazale, allora fidanzato della Streep, morto prematuramente per tumore, prima che le riprese finissero.

2) Prossima fermata: paradiso (1991) di Albert Brooks. Toni leggeri e fantastici per trattare temi impegnativi come la morte e l'aldilà. Un pubblicitario (lo stesso Brooks) morto in un incidente d'auto si ritrova in una Città del Giudizio, in attesa di esser giudicato per la sua vita. Qui si innamora di Julia, ovvero la Streep, che avrà un ruolo determinante per il suo processo.

1) Manhattan (1979) di Woody Allen. Per Meryl un ruolo secondario, quello di Jill, seconda moglie da cui ha divorziato l'autore televisivo interpretato da Allen, alle prese con un triangolo amoroso tra un'adolescente (Mariel Hemingway) e un'intellettuale (Diane Keaton). Umorismo agrodolce e romanticismo.  

(Articolo pubblicato il 31 gennaio 2017, aggiornato il 22 giugno 2019)

Meryl Streep compie settant’anni. Operaia, madre coraggio, lady di ferro: cinque interpretazioni meno note. Nel giorno in cui l’attrice americana ( e pluripremiata) compie settant’anni, ecco alcune sue interpretazioni davvero singolari. Maurizio Porro il 22 giugno 2019 su Il Corriere della Sera.

La donna del tenente francese (1981) di Karel Reiz. L’attrice Meryl Streep si innamora del collega Jeremy Irons sul set di un film in cui si racconta di un folle amore di uno scienziato vittoriano. E’ il passato che torna, un match sul doppio che c’è dentro di noi, sfida tra verità e finzione, normalità e follia, materia del best seller di John Fowles adattato niente meno che da Harold Pinte. Un melodramma che si accende di elettricità intellettuale e che la grandezza di due scrittori fa diventare un match poderoso i due attori. La Streep, uscita dal match familiare di “Kramer contro Kramer”, in epoca prima di me-too, si impadronisce spandendo intelligenza del lato pirandelliano del melò di cui diventerà regina.

Silkwood (1983) di Mike Nichols. Da parte di un regista che si è spesso molto divertito a farci divertire, arriva la storia di una blue collar americana e di una operaia di un istituto nucleare dell’Oklahoma che denuncia le precarie sicurezze sul lavoro ma muore in un incidente d’auto prima di far rivelazioni al New York Times. Poco interessato al mondo operaio, il cinema Usa questa volta si traveste come fosse Petri o De Santis, denunciando con anticipo la possibile tragedia che poi si abbatterà sul mondo. Meryl Streep, bravissima in un ruolo di donna semplice e dura, non artefatta, costringe al minimo le sue ricchezze espressive e parla coi dialoghi di Nora Ephron, sicura che questo personaggio entrerà di soppiatto nella storia di quel cinema che ha un’influenza morale sulla vita.

The hours (2002) di Stephen Daldry. Tre storie che si legano e si rincorrono nel tempo, mostrando le intemperie psicologiche cui sono sottoposte tre donne in conflitto con la vita. Lavorando sul romanzo di Cunningham, lo sceneggiatore David Hare cesella su tre grandi attrici che si rimbalzano dolori e responsabilità. Nicole Kidman è Virginia Woolf che cerca di finire di scrivere Mrs. Dalloway nel 1923; nel ’51 a Los Angeles Julianne Moore leggendo quel libro si interroga sul senso della propria vita; nel 2001 a N. York la editor lesbica Meryl Streep organizza una festa per un amico malato di Aids. Pioggia di premi ma l’Oscar cui è abbonata in genere la Streep questa volta va alla Kidman.

Angels in America (2004) di Mike Nichols. E’ il capolavoro sull’Aids e sul contesto sociale in cui si sviluppa, l’America ’80, dove si intrecciano diverse storie che il drammaturgo premiatissimo Tony Kushner intreccia abilissimamente chiamando a testimone il passato con un trucco paranormale che rende la storia, al di là del suo via vai di amici mariti e amanti, un grande affresco della Storia. Gli angeli scendono dal cielo e annunciano l’Apocalisse, come già aveva avvertito il nostro Testori. Un cast stellare per il dramma che aveva sbancato le coscienze in tutto il mondo e sta per tornare in scena in Italia: la Streep è una dolentissima madre coraggio e Al Pacino un istrionico e feroce avvocato dalla doppia vita che sta dalla parte della reazione bieca reaganiana. Tv da premio, 6 puntate prodotte HBO.

The Iron Lady (2011) di Phillyda Loyd. Il finale di partita di una donna di potere, la Thatcher che a 80 anni e col morbo di Alzheimer, combatte con i fantasmi della propria vita e naturalmente la regista si diverte a contrapporre questo presente al passato umile che l’ha portata però con costanza nel ’79 a essere primo ministro. La sua politica ha dato la scossa al paese e scatenato scioperi e lotte non ancora conclusi, anche se il film tende all’abbraccio finale in nome della morte. La Streep in questo film ha avuto il suo terzo Oscar ed è difficile immaginare una recitazione meno retorica e più perfetta di così: la grande prova d’una donna che alterna ruoli intimi, amori disastrosi con Eastwood, ritratti di soprani senza voce (Florence) e accuse a favore della libertà di stampa e di pensiero (The Post). E’ l’ideale connubio tra la regina melò Bette Davis e la regina wasp Katharine Hepburn.

Pubblicato sabato, 22 giugno 2019 da Paolo Mereghetti su Corriere.it. Per lei hanno creato un neologismo: streepian, specie di incrocio tra controllo, intensità e precisione tecnica. E i suoi fan si fanno chiamare streepers. Non so se esiste un’altra attrice (o attore) che possa vantare simili appendici linguistiche, anche perché è difficile immaginare chi li meriti più di Mary Louise Streep sposata Gummer (da 41 anni, un altro primato), recordwoman neo-settantenne festeggiati ieri, 22 giugno, l’unica ad aver conquistato ventuno nomination agli Oscar — al secondo posto, staccatissimi, Katherine Hepburn e Jack Nicholson, con dodici —, tre delle quali diventate statuette. Cui vanno aggiunti, per le statistiche, trenta nomination ai Golden Globe (otto sono diventate premi, più uno alla carriera), una Palma a Cannes, un Orso a Berlino, due David e un Marc’Aurelio a Roma e un altro numero spropositato di premi e riconoscimenti in giro per il mondo, compresa la Legion d’onore del governo francese. Una specie di gratificante contrappasso per l’attrice che ha costruito la propria carriera sulla rinuncia all’alone mitico che contraddistingue le star (gli storici del cinema parlano di «divismo semplificato» per indicare la scelta di annullare la distanza che separa il divo dall’orizzonte dello spettatore comune) e che ha sempre privilegiato la vitalità dei suoi personaggi alla loro supposta verità, per offrire al pubblico la possibilità di identificarsi non tanto con il ruolo quanto con le passioni e i sentimenti che vi palpitavano dentro. O almeno di ammirarli, se sceglieva di interpretare parti non proprio simpatiche come la Miranda Priestly di Il diavolo veste Prada o la Mary Fisher di She-Devil – Lei, il diavolo. Niente di più lontano, per Meryl Streep, dei tormenti del metodo Stanislavskij, quelli che ti fanno lavorare tre mesi da tassista per poterlo interpretare. Per lei c’è solo l’impegno, la dedizione, la costanza, quella che l’ha fatta esercitare sei ore al giorno per otto settimane col violino, così da essere pronta a diventare Roberta Guaspari in La musica del cuore (e portar via la parte a Madonna). E pensare che il primo sogno della bambina Streep era stato quello di diventare cantante lirica, impegnata già a 12 anni a studiare con una insegnante privata. Senza comunque le manie del genietto precoce, se a sedici anni era con altri 55mila coetanei allo Shea Stadium di New York ad applaudire i Beatles. Con un cartello su cui aveva scritto «I Love Paul» (lo confesserà lei stessa a McCartney quando nel 1990 verrà invitata a consegnargli il Grammy Lifetime Achievement). E comunque, che avesse davvero talento musicale lo dimostrerà a tutti quando sarà bravissima nello stonare a tono in Florence, ruolo ben più complicato di quelli, più tradizionalmente canori, affrontati anche per Radio America (l’ultimo film di Altman), il musical Mamma mia! o il melo-rock Dove eravamo rimasti. La scoperta della recitazione arriva durante gli anni al Vassar College cui seguirà la Yale School of Drama (compagna di corso, Sigourney Weaver) e le prime prove teatrali, soprattutto shakespeariane. Il cinema la chiama nel 1977, con una piccola ma notevole parte in Giulia di Zinnemann, che la fa indicare tra le promesse dell’anno dell’autorevole «Screen World» di John Willis. E l’anno successivo, con il ruolo di Linda, la donna amata da De Niro e Christopher Walken nel Cacciatore, si aggiudica il suo primo Oscar (come non protagonista). È l’inizio di una carriera travolgente che la vedrà affinare negli anni Ottanta un metodo di recitazione che cancella l’impressione della «prova d’attrice» e della sfida virtuosistica per privilegiare l’autenticità e la forza dei sentimenti ricreati. Anche scegliendo personaggi non proprio accattivanti, come la moglie che abbandona marito e figlio in Kramer contro Kramer. O la mamma di Un grido nella notte, accusata di aver sacrificato la vita del figlio per le sue fobie religiose, ruolo per il quale la Streep si sottopone a una specie di tour de force masochistico, imbruttita da un caschetto di capelli neri, ingrassata e sguaiata nel suo forte accento australiano. Tra parentesi, una delle sue grandi qualità, quella della bravura nell’imitare (e studiare, naturalmente) le diverse cadenze della lingua, dimostrata fin dai tempi della Donna del tenente francese, dove alterna americano e dialetto inglese del Dorset a secondo che interpreti la moglie Anna o la domestica Sarah. Il secondo Oscar arriva nel 1982, per lo straziante personaggio di La scelta di Sophie (anche qui, un personaggio non certo empatico) e la consacrazione del pubblico più largo tre anni dopo, con La mia Africa al fianco di Robert Redford. Ma il suo vero colpo d’ala arriva a metà anni Novanta, dopo che superata la quarantina Hollywood sembra volerla mettere ai bordi per inseguire solo volti giovani. La sua prova nei Ponti di Madison County non solo le conquista una nuova nomination ma dimostra che il suo modo di recitare piace al pubblico nonostante le rughe (la sua unica concessione all’estetica è evitare i bagni di sole). Iniziando così una seconda stagione di successi — con il terzo Oscar per The Iron Lady e la ventunesima nomination per The Post — che non sembra volersi fermare.

·         Britney Spears, dramma senza fine.

Britney Spears, dramma senza fine tra rehab, liti tra i suoi genitori e tribunali. Pubblicato sabato, 11 maggio 2019 da Laura Zangarini su Corriere.it. Liberate Britney. Alla già attorcigliata trama del dramma interpretato suo malgrado da Britney Spears, 37 anni, l’ex principessa del pop trasformata dalle sue fragilità in una regina stanca, spaesata, sola, si è aggiunto un nuovo atto. Nell’aula del tribunale di Los Angeles presieduta dalla giudice Brenda Penny, Britney ha fatto la sua comparsa accompagnata dalla madre Lynne. Solo i pochi rimasti all’interno sanno quello che le tre si sono dette nella stanza chiusa al pubblico e ai media. Di fatto, secondo quanto riferisce Tmz, la giudice avrebbe disposto la valutazione, da parte di un gruppo di esperti, delle condizioni di salute mentale della popstar in relazione alla sua capacità di prendersi cura dei due figli avuti dall’ex marito, il rapper Kevin Federline, che ha in custodia Sean, 13 anni, e Jayden, 12. Del responso verrà dato conto in aula il 18 settembre prossimo. Ma dietro alla richiesta di Brenda Penny potrebbe anche esserci, si mormora, il desiderio di Lynne di avere un ruolo nella gestione dei beni della figlia, possibilità a lei preclusa in quanto da 11 anni è l’ex marito Jamie, il papà di Britney, dal quale Lynne ha divorziato nel 2002, il solo tutore legale della cantante. Dopo quasi 15 anni di silenzio, mamma Spears si sarebbe riavvicinata alla figlia dopo le accuse a Jamie, sui social, di aver costretto Britney a un nuovo ricovero in clinica. E che la cantante abbia approfittato dell’appoggio di Lynne per liberarsi di lacci e lacciuoli imposti dalla tutela restrittiva del padre, facendo conto su quelli più laschi della madre. Jamie è gravemente malato, due interventi chirurgici ne hanno minato il fisico, mettendo a rischio la sua vita. Tanto che proprio per stargli vicino, Britney ha rinunciato, nel gennaio scorso, a una lunga (e succosa) residency a Las Vegas. Lo stress causato dalla malattia del padre è stato quello che l’ha spinta — così ha scritto nel comunicato diramato agli inizi di aprile — al ricovero di un mese in un centro di salute mentale. Una decisione molto criticata dai fan, secondo i quali Britney sarebbe stata internata contro la sua volontà. Per mettere a tacere le voci, la popstar è stata costretta a postare un video su Instagram, rassicurando tutti: «Sto semplicemente prendendo un momento per me stessa». Nel 2008, l’annus horribilis di Britney, era stato proprio Jamie a salvare la figlia dal baratro in cui l’aveva precipitata il crollo nervoso provocato da festini a base di alcol e droghe ed eccessi vari, culminato nella foto che fece il giro del mondo, lei con la testa rasata a zero, la macchinetta tagliacapelli ancora in mano dopo il raid nel negozio di un parrucchiere. Il padre l’aveva fatta ricoverare e ne aveva assunto la tutela legale, impedendo a Britney di prendere alcune decisioni (tra cui quella di sposarsi) senza il suo permesso. Un modo per sorvegliare una ragazza il cui patrimonio fa gola a molti. Uno per tutti Sam Lutfi, ex manager di Britney che nelle scorse settimane avrebbe tentato di convincere Lynne a mettere in discussione la tutela di Jamie e per questo è stato condannato a tenersi ad almeno 200 metri di distanza dalla cantante. Una restrizione decisa dal tribunale anche in seguito a commenti postati sui social, in cui avrebbe incitato i fan a protestare di fronte al tribunale. Ma accuse di cattiva condotta coinvolgono anche l’attuale manager di Britney, Lou Taylor, che avrebbe addirittura usato i soldi di lei per finanziare le proprie idee conservatrici e anti-Lgbt.

·         Anna Mazzamauro.

Anna Mazzamauro: “Paolo Villaggio era uno snob spaventoso. Non abbiamo mai pranzato insieme”. Pubblicato venerdì, 09 agosto 2019 su Corriere.it. Quando interpretava la mitica signorina Silvani nella saga di Fantozzi non era mai tenera con Paolo Villaggio. A 20 anni dall’ultimo film della serie cinematografica, Anna Mazzamauro intervistata da Pieluigi Diaco nella trasmissione televisiva “Io e te” ha usato parole dure per descrivere il rapporto con l’attore genovese: «Paolo Villaggio? Era uno snob spaventoso. Un giorno gli ho chiesto perché non eravamo amici e lui mi ha risposto ‘perché io sono amico solo degli attori ricchi e famosi’. Non abbiamo mai pranzato insieme». L’attrice che lo scorso 1 dicembre ha festeggiato gli 80 anni, ha anche dichiarato di aver compreso troppo tardi la genialità della saga ideata dal comico scomparso nel 2017: “Solo adesso riesco a capire quanto sia stato importante Fantozzi. Perché solo adesso capisco la grandezza di Paolo Villaggio che mi ha viziata per intelligenza e bravura”.

Dagospia il 13 dicembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Anna Mazzamauro è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatci", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La Mazzamauro ha raccontato alcuni aspetti di se: "Da ragazzina studiavo soltanto lettere, in matematica ero una capra. Avevo nove e dieci in latino, italiano e greco, voti bassissimi in materie scientifiche. Avevo anche sette in condotta e stavo dalle suore. Dall'asilo al liceo. I miei avendo intravisto questo turbamento mentale, questo essere preda dei demoni del teatro, mi hanno mandato sempre dalle suore sperando di combatterlo. Ho dei ricordi pessimi delle suore, orrendi. Detesto le monache, non le posso vedere, quando le incontro per strada le picchierei. Non voglio generalizzare, sicuramente esistono delle suore meravigliose, ma le mie non lo erano". Anna Mazzamauro ha proseguito: "Sono sempre stata una diversa, è il tema di uno spettacolo che ho scritto e che presto sarà in scena. Si chiama 'Belvedere'. Vorrei proporre al pubblico il tema diversità, così da dare veramente un senso alla conquista che i diversi operano nel mondo. Vengo da una famiglia normale, borghese. Questa figlia che voleva fare la 'bottana' da grande veniva visto male. Questo consideravano una ragazza che voleva fare l'attrice. Se avessero assecondato questa mia diversità con calma e con amore forse avrei sofferto di meno. Pensavo di essere nel peccato totale, pensavo di essere una amorale, mi sono sempre posta con gli altri, i cosiddetti normali, come se io fossi una povera disgraziata che tentava di immettersi nel mondo".

Anna Mazzamauro rivela: "Pensavano volessi fare la prostituta". Anna Mazzamauro si è raccontata ai microfoni di Radio Due durante il progrmma "I Lunatici" e ha rivelato alcuni dettagli del suo passato che sono alla base del suo prossimo spettacolo. Francesca Galici, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. "Pensavano volessi fare la bottana", sembra il titolo di qualche film o libro autobiografico, invece è quel che ha raccontato Anna Mazzamauro a I Lunatici di Radio Due parlando dei suoi genitori. L'attrice, tra le più grandi interpreti del nostro cinema e teatro, si è raccontata ai microfoni di Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, ricordando alcuni episodi della sua vita ma, soprattutto, l'avversità della sua famiglia al suo desiderio di fare l'attrice. "I miei, avendo intravisto questo turbamento mentale, questo essere preda dei demoni del teatro, mi hanno mandato sempre dalle suore sperando di combatterlo", ha detto con la solita verve Anna Mazzamauro, che purtroppo non ha ricordi piacevoli del suo periodo scolastico trascorso negli istituti monastici dall'asilo fino al liceo. “Detesto le monache, non le posso vedere, quando le incontro per strada le picchierei. Non voglio generalizzare, sicuramente esistono delle suore meravigliose, ma le mie non lo erano”, ha svelato a I Lunatici. Sono dichiarazioni molto forti, che sono però lo specchio del vissuto di una donna che si è sempre raccontata senza filtri. “Vengo da una famiglia normale, borghese. Questa figlia che voleva fare la bottana da grande veniva vista male. Questo consideravano una ragazza che voleva fare l'attrice. Se avessero assecondato questa mia diversità, con calma e con amore, forse avrei sofferto di meno”, dice ai microfoni radiofonici recriminando un atteggiamento di chiusura della sua famiglia, che non ha accettato la sua scelta di vita artistica. La negazione di un appoggio da parte delle persone a lei più care ha influito sulla sua formazione personale. Per lungo tempo Anna Mazzamauro ha pensato di vivere nel peccato e di essere una persona amorale, solo perché il suo più grande desiderio era quello di diventare un'attrice. Questo ha influito anche sui rapporti umani con il resto del mondo, con il quale Anna Mazzamauro si poneva “come una povera disgraziata.” Il vissuto dell'attrice, le sue vicissitudini personali e private e la sensazione di sentirsi sempre come quella diversa rispetto al resto del mondo, sono al centro di un'opera che Anna Mazzamauro si sta preparando a portare in teatro: “Sono sempre stata una diversa, è il tema di uno spettacolo che ho scritto e che presto sarà in scena. Si chiama Belvedere. Vorrei proporre al pubblico il tema diversità, così da dare veramente un senso alla conquista che i diversi operano nel mondo.” Il successo ha probabilmente modificato la percezione della professione da parte della famiglia di Anna Mazzamauro, ma quel che è stata la sua giovinezza ne ha inevitabilmente segnato l'età adulta.

·         Milena Vukotic: «Ero per tutti la Pina di Fantozzi.

Laura Rio per “il Giornale” il 7 agosto 2019. L’abbiamo vista volteggiare con grazia e leggerezza come fosse una giovane fanciulla nell' ultima edizione di Ballando con le stelle. Regalando al pubblico, ancora una volta, la sua arte e mostrando come si può fare spettacolo a 84 anni. Però Milena Vukotic, in arte Pina, la mitica moglie di Fantozzi e titolare di innumerevoli altri personaggi, è ancora arrabbiata con la tv di Stato, nonostante la Rai l' abbia cercata per il grande show del sabato sera. Solo un poco, però, perché lei mantiene la sua serafica calma e dolcezza anche se qualcosa non le va giù. «Sono tanto dispiaciuta che non si faccia più il Medico in famiglia, mi manca tanto», ci racconta in una lunga chiacchierata sul lungomare di Catanzaro Lido, prima di cominciare una passeggiata, incurante del sole torrido. L' abbiamo incontrata mentre era ospite del Magna Grecia Film Festival, una manifestazione in crescita, che si tiene nel capoluogo calabrese.

Dunque, signora Vukotic, partiamo dagli ultimi momenti belli. Ballando l' ha resa ancora più popolare, dai bimbi ai nonni l' hanno ammirata tutti...

«In effetti le persone dopo Ballando mi salutano con più affetto. È bello sentire l' abbraccio del pubblico. Quel programma è stata un' esperienza di rinascita, mi sono ritrovata a fare la ballerina, che era la mia professione da ragazza prima di decidere di diventare attrice. Ho scoperto che potevo riprendere il mio corpo in mano, che potevo fargli fare ancora quello che volevo...»

Ma come si fa a mantenersi così in forma alla sua età?

«Beh, io faccio ginnastica tutti i giorni. Ma non tanta: un quarto d' ora ogni mattina prima di alzarmi dal letto. Però per Ballando mi sono esercitata tanto, ore e ore di prove e lezioni tutti i giorni. Certo è stata una decisione un po' folle presentarsi lì alla mia età, ma io ho fatto così tante cose folli nella mia vita...»

Come stare vent' anni sul set del Medico in famiglia, dove lei interpretava la nonna snob Enrica?

«Ma che peccato che non l' abbiano più voluto produrre! Non riesco ancora a capire perché una serie che ha avuto così grande successo con un protagonista così amato come Lino Banfi sia stata messa in soffitta. È una decisione assurda, forse c' è una scelta politica dietro. Stavamo tutti ad aspettare di girare l' undicesima edizione, eravamo lì pronti a firmare i contratti, ma poi non ci hanno detto più nulla».

Le manca la famiglia Martini?

«Moltissimo, tornerei di corsa a girare: eravamo come una famiglia vera, sia sul set che fuori. Ho visto i bambini e i ragazzi protagonisti crescere, fidanzarsi, sposarsi, fare figli. Abbiamo girato insieme dieci stagioni da 26 puntate l' una e io sono stata una delle poche a non lasciare mai».

È ancora in contatto con il cast?

«Sì, certo, ci sentiamo spesso, soprattutto con Margot (Sikabonyi, Maria nella serie): è come se fosse mia figlia. E ovviamente con Lino: ogni tanto vado a mangiare nella sua orecchietteria. Riparliamo della serie: lui ci ha provato molte volte, insieme agli altri protagonisti, a convincere la Rai a ripensarci. Spero che prima o poi ci riesca».

Intanto le piacerebbe tornare in tv?

«Moltissimo. Soprattutto in uno spettacolo in cui c' è la danza, visto anche com' è andata con Ballando. Intanto ora parteciperò a un film televisivo».

Ha realizzato tanti spettacoli per la Rai...

«Il più bello fu Gian Burrasca con Rita Pavone, un piccolo capolavoro, quella era un' altra Rai dove si aveva il tempo di lavorare, si rifacevano le scene finché venivano bene. C' erano grandi attori come Valeria Valeri, Arnoldo Foà...»

A proposito di follie, quali sono state le più incredibili della sua vita?

«Beh, direi che tutta quanta la mia vita è stata folle. Quello che ho fatto è sempre stato a rischio o semplicemente incosciente. Anche soltanto la decisione di lasciare la danza per la recitazione. Mi buttavo nelle nuove avventure con coraggio, nonostante sia una persona timida. Quando conobbi Fellini avevo con me una lettera di presentazione, ma non gliela feci neppure vedere perché entrammo subito in sintonia...»

Cosa è stato il maestro per lei?

«È stato un privilegio, un premio averlo incontrato e averlo avuto come persona amica. È stato bellissimo partecipare ai suoi film, però la cosa più importante è stata poterlo frequentare, lui attirava intorno a sé persone che avevano una grande ricchezza umana. Apparentemente era un amicone, ma in realtà non era una persona semplice».

E la prendeva in giro...

«Un giorno accettò finalmente di venire a cena a casa mia insieme a Paolo Villaggio e Giulietta Masina. Io gli chiesi cosa volesse mangiare e mi rispose Il pesce persico pescato in un certo lago. Lo cercai per tutte le pescherie senza trovarlo, non era stagione, allora comprai le trote. Quando servii il secondo, mi scusai che non avevo trovato quel pesce e lui rispose Ma come mi hai preso sul serio?».

Tra le sue follie c' è anche quella di aver posato nuda per Playboy...

«Un mio amico fotografo un giorno mi chiese se avessi voglia di provare a fare degli scatti più femminili, sullo sfondo c' erano quadri di Klimt e fiori che mi coprivano il seno. Poi mi chiese il consenso di pubblicarlo su Playboy, io accettati a condizione che fosse stato accompagnato da un' analisi sul tema di bruttezza e bellezza: risultò interessante perché vennero messe mie immagini di un film in cui ero imbruttita accanto a quelle belle foto. Fece molto scalpore...»

La sua dannazione ma anche fortuna è stata essere la Pina di Fantozzi.

«Sì, certo. Ma io sono molto affezionata alla Pina, perché è un personaggio che mi ha restituito tanto, anche se mi ha fagocitato. Villaggio mi ha sempre detto che era dispiaciuto per questo. Quando si casca in uno schema, anche i registi si sottraggono all' idea di farti fare il personaggio che non sia la zitella, la bruttina. In Venga a prendere il caffè da noi di Lattuada c' erano tre sorelle brutte: io, Francesca Romana Coluzzi e Angela Goodwin. Per interpretare la parte a una misero una cosa in bocca, a una nel naso e a me... niente. Andavo bene così!»

Le sarebbe piaciuto interpretare anche ruoli più femminili?

«A me piace recitare, se mi offrono una parte dove c' è la possibilità di formare il personaggio, dargli un carattere, accetto volentieri, però non ho avuto grandi scelte. Comunque in alcuni film, come quelli di Sergio Martino, ho potuto cimentarmi in caratteri meno grotteschi, anche con dei bei capelli...»

Cosa ricorda di più di Paolo Villaggio?

«Racconto sempre di quella volta che andai a trovarlo, la cameriera mi aprì la porta ed esclamò: Signora c' è la moglie di suo marito!. Lui era una persona abbastanza chiusa, anche burbera. Però ho un ricordo di grande affetto e amicizia. Quando mi ha chiamato per partecipare al mio primo Fantozzi (che era il terzo della serie) mi ha subito messo sull' avviso che non dovevo pretendere di avere qualsiasi velleità femminile perché i personaggi erano come cartoni animati e dovevano riflettere questi caratteri che lui ha descritto magistralmente».

Personaggi ancora attuali...

«Lui ha creato delle maschere, naturalmente portate al paradosso, però molto umane. E anche universali, non solo italiane. Basta togliere la deformazione che lui ne faceva e le troviamo ancora oggi dappertutto».

Ma rivede ancora le vecchie pellicole di Fantozzi in tv?

«Se ci capito sopra le rivedo volentieri, mi fa piacere perché riguardo i difetti della recitazione, sono sempre pronta a migliorarmi...»

Lei è inesauribile, non si ferma mai, ha già pronti progetti futuri..

«Questo lavoro mi piace troppo. Presto riprenderò lo spettacolo Autunno di fuoco con Maximilian Nisi che interpreta mio figlio e la regia di Marcello Cotugno. In mezzo girerò un cortometraggio muto di Francesca Fabbri Fellini, la nipote del maestro, basato sui disegni animati di Fellini, dove interpreterò Giulietta Masina. E prima o poi vorrei riuscire a realizzare il mio sogno: portare in teatro la figura della danzatrice Isadora Duncan»

Milena Vukotic: «Ero per tutti la Pina di Fantozzi. Ora, a 84 anni, ho scoperto di essere bella». Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Chiara Maffioletti su Corriere.it. Da quando è scesa sulla pista di Ballando con Stelle, Milena Vukotic ha conquistato tutti. Un trionfo di complimenti meritati. Per la sua bravura come ballerina, lascito di un passato nella danza che le ha regalato una grazia che dalle movenze si riflette nei modi. Ma anche per la sua bellezza, che le consente di portare straordinariamente bene gli 84 anni che compirà il 23 aprile.

Un ribaltamento di prospettiva sorprendente e inatteso per lei, che nei panni dimessi della signora Pina Fantozzi, è entrata nell’immaginario collettivo.

«Mi ripeto che devo stare concentrata su cosa ancora c’è da fare, ma per quanto ci si ubriachi di buoni proponimenti, di fronte a tutte le belle parole l’emozione ha il sopravvento».

Immaginava che Pina sarebbe stata così fondamentale per la sua carriera?

«Villaggio era un genio, quindi un po’ lo pensavo. Aveva creato degli archetipi. All’inizio, mi aveva detto: dimenticati ogni velleità, ormai siamo dei clown. E ho aderito, sono molto disciplinata». 

Si è mai pentita?

«Mai, anche perché quella è una maschera universale. Ho cercato di sviluppare tutte le sue possibili sfumature. Penso di averlo fatto. Al punto che un giorno, invitata a colazione a casa di Paolo, dopo aver aperto la porta, la colf disse: signora, è arrivata la moglie di suo marito. Paolo rise molto, ci volevamo bene. In generale, credo conti avere consapevolezza di fare ciò che ci appassiona». 

Ma prima di essere attrice è stata ballerina: era nel Grand Ballet du Marquis de Cuevas.

«Ho dedicato alla danza una frazione della mia vita: anche se l’ho abbandonata molto tempo fa, ora un po’ mi avvantaggia. Ricordo quegli anni come una specie di servizio militare: bisognava sposare il rigore. Non è un peso se senti di amare quello che fai».

Solo che, a un certo punto, ha sentito di amare la recitazione, è così?

«E’ successo dopo aver visto La strada, di Fellini. Mi ha illuminata: ho capito che volevo recitare. Così mi sono buttata, ho ricominciato da zero. Ma volevo incontrarlo: mi aveva dato un segno».

Ci è riuscita?

«Sì. All’appuntamento sono andata con una lettera di presentazione che mi è rimasta in tasca: è stato subito amichevole, sapeva mettere chiunque a suo agio. Ero andata dal parrucchiere, cosa che non mi capita spesso, e lui mi aveva messo una mano in testa. Negli anni siamo diventati amici, ma non gli ho detto che per me era stato così fondamentale».

Ha lavorato anche con Luis Buñuel: come lo ricorda?

«Un altro maestro. Abbiamo fatto tre film. Prima di incontrarlo avevo chiamato proprio Federico per chiedergli un parere, come ormai facevo abitualmente. Era entusiasta, mi aveva detto di salutarglielo e prima di mettere giù mi aveva chiesto: ma... quanti anni ha? Anche Buñuel, poi, era stato felicissimo di ricevere i suoi saluti: mi aveva detto che lo amava molto, mille complimenti. E prima che andassi, mi aveva chiesto: ma... quanti anni ha?».

Ha recitato per loro, Risi, Scola, Bertolucci, Monicelli...

«Sono stata fortunata, senza dubbio. Ora mi piacerebbe farlo per Gianni Amelio, Nanni Moretti, Alice Rohrwacher. E Sorrentino, certo, ma ammetterlo è un po’ imbarazzante perché in passato mi aveva cercata... poi non siamo riusciti... vedremo».

Nella sua carriera ha avuto spesso il ruolo di moglie, no?

«Mogli e fidanzatine disgraziate, zitelle... Personaggi che ho sempre curato con felicità, cercando di renderli veri. Avendo un fisico che non corrisponde a certi schemi di bellezza, forse era inevitabile. Ricordo un mio incontro con Renato Castellani. Mi disse: ma lei cosa vuole fare? Il cinema? Bisogna essere o belle come Gina Lollobrigida o avere una tipologia marcata come Anna Magnani: lei non ha una cosa e nemmeno l’altra, le consiglio di lasciar perdere».

Parole non semplici...

«Eh, insomma... ma aveva detto ciò che pensava. Anni dopo mi volle per un suo film: non se ne ricordava. Certo, vedersi affidare sempre certi ruoli, un po’ ti segna».

A cosa pensa?

«Ad esempio, a quando Lattuada mi scelse per Venga a prendere il caffè da noi. Io, Angela Goodwin e Francesca Romana Coluzzi dovevamo essere tre emblemi della bruttezza. A una avevano dovuto mettere una cosa in bocca, all’altra deformavano il viso con il trucco... a me, invece, non avevano fatto niente: andavo bene così». 

Che effetto le fa sentirsi dire oggi che è bella?

«Mi fa sorridere. L’età c’è, ma è bello festeggiare l’essere in vita. Riguardo al fisico, penso sia la danza ad avermi aiutata, chissà. Mi tengo stretta queste belle parole».

Per lei è una rivincita?

«Non saprei, forse in un certo senso... Ma, tornassi indietro, non cambierei nulla. Non ho rimpianti, visto come è andata. Sempre Fellini mi diede un consiglio che per me resta importante: nei limiti della decenza, bisogna fare tutto».

Da I Lunatici Radio2 il 30 giugno 2019. Milena Vukotic è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. L'attrice,  ospite a “Passaggi festival”, la manifestazione dedicata alla saggistica giunta alla settimana edizione, a Fano dal 24 al 30 giugno, ha parlato della sua carriera: "Il personaggio della Pina di Fantozzi? Non è stato un problema. Quando Paolo Villaggio mi ha chiamato per parlarmi di questo personaggio mi ha subito detto di non avere velleità di femminilità, che dovevamo ricordarci che eravamo tutti dei cartoni animati, che di conseguenza con questo spirito è stato più facile affrontare le deficienze della Pina, che poverina era bruttina, con la figlia brutta, con questo senso patetico della vita. Però è un personaggio al quale io mi sono anche affezionata. Io sul set non mi rendevo conto che stavamo facendo un qualcosa che sarebbe passato alla storia. Sicuramente Paolo Villaggio sì, lui era brillante, vedeva lontano, è stato il creatore di questi personaggi. L'incontro con Verdone? E' stato molto più avanti, è stato bellissimo, era il primo film di Verdone ed è stato molto divertente fare questo personaggio, una specie di maestrina che poi si rivela essere questa donna di vita. A me piacciono questi personaggi che si possono sviluppare, colorare, caratterizzare". Milena Vukotic è stata anche sulla copertina di Playboy: "Sì, anche quella cosa è nata per caso. Un mio amico fotografo mi chiese se avessi avuto voglia di fare qualche foto che esaltasse la femminilità. A un certo punto mi ha chiesto se mi interessasse finire sulla copertina di Playboy. Ho detto ok, purché non fosse una cosa fine a sé stessa". Milena Vukotic ha recitato anche con Ugo Tognazzi e Lino Banfi: "Sono stata due o tre volte moglie di Tognazzi. Anche in Amici Miei. Ho fatto la moglie bruttina e patetica anche con Lino Banfi. Il rapporto è stato con tutti molto giocoso. Monicelli era un sornione, un personaggio molto affascinante. ma difficile da capire, perché aveva un carattere particolare. Con Tognazzi era bello recitare, ci conoscevamo. Le scene che ho fatto io erano sempre con lui, non sono mai stata con gli altri compagni di viaggio. Se dovessi scegliere un marito tra Tognazzi, Banfi e Villaggio? Difficile, ognuno aveva il proprio carattere. Con Villaggio pur avendo avuto davvero una amicizia con lui e la sua famiglia lui rimaneva sempre una persona abbastanza difficile da capire, con cui si poteva entrare in confidenza fino a un certo punto. E lo stesso vale per Tognazzi. Con Lino Banfi, forse perché è meridionale, è già più facile avere un rapporto più aperto e affettuoso. Pensate che quando ho iniziato Ballando con le Stelle ha mandato un messaggio al mio vero marito scrivendo guarda che bella moglie che abbiamo". Sul #Metoo: "Io non ho mai avuto certi problemi o certi esperienze. Non so, ma ho idea che queste cose siano sempre esistite, magari erano meno riconosciute, c'erano meno copertine, meno possibilità di farsi vedere. Credo che le cose siano anche molto esagerate".

Milena Vukotic: “Quella cena con Villaggio e Fellini...” Scrive Giovanni Terzi il 23/04/2019 su Il Giornale Off. Oggi è il compleanno di una bravissima e popolarissima attrice, Milena Vukotic (Roma, 23 aprile 1935). L’attrice ha esordito nel mondo del cinema nel 1960 con il “Sicario” di Damiano Damiani. Poi le numerose commedie degli anni sessanta, assieme a film d’autore dei più prestigiosi registi. Da Risi, Fellini a Scola e Zeffirelli. Nel 2007, il Ciak d’oro alla carriera. Festeggiamo i suoi 84 anni presentandovi questa bella intervista del nostro Giovanni Terzi (Redazione). La grazia, l’eleganza e la gentilezza accompagnano ogni gesto e parola di Milena Vukotic, attrice di cinema e di teatro che incontro quest’estate insieme alla mia amica Francesca Fabbri Fellini, erede e nipote del maestro, durante la manifestazione Estate con Fellini, organizzata dall’amministrazione di Desenzano del Garda e dal suo assessore Francesca Cerini.

Milena, quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo dell’arte?

«Ho iniziato come ballerina. Esordi un po’ anomali, perché nasco figlia di artisti: mia mamma era una pianista compositrice e papà un autore teatrale. A nove anni ero molto magra e così ho iniziato a studiare danza a Londra. Volevo assomigliare a mia mamma, con cui ho avuto un legame assoluto e profondo di amore».

Quindi la danza è stata la prima forma d’arte per te?

«Sì, anche se oltre alla danza studiavo teatro a Parigi, dove poi mi ero trasferita con la famiglia».

E la passione per il cinema?

«Ho incontrato il cinema guardando La strada di Federico Fellini: fu in quell’occasione che qualcosa si è aperto in me. Ho sentito come dovesse avvenire se un cambiamento importante e ho subito desiderato incontrare il Maestro. Non ho mai avuto grandi parti nei film di Fellini, ma ho potuto assaporare quell’aria di magia visionaria».

Come avvenne l’incontro con Fellini?

«Nel suo studio in via della Croce a Roma: avevo una lettera di presentazione che non usai mai perché ci fu subito grande sintonia e simpatia».

Un altro grande del cinema italiano con cui invece hai lavorato è Paolo Villaggio.

«Paolo era un uomo misterioso e poco incline alla battuta. Quando mi scelse per il ruolo della Pina (sua moglie in Fantozzi, n.d.r.) mi disse «Non farti venire velleità femminili»: voleva farmi capire che eravamo attori, maschere prestate alla commedia umana».

Hai un ricordo particolare come moglie di Fantozzi?

«Andai a casa sua e mi aprì la domestica, che disse a Maura (la moglie di Villaggio, n.d.r.) «Signora, c’è la moglie di suo marito».

Un ricordo con Fellini?

«Sono stata la sua assistente per una settimana, sostituendo Liliana Betti, la sua segretaria. Un giorno entrò un gigante in ufficio, lo ricordo ancora, talmente alto che Fellini sembrava minuscolo».

Sei mai riuscita a riunire Fellini e Villaggio?

«A tavola. Cucinai io delle fettuccine alle zucchine e una trota al forno. In realtà Federico voleva il pesce persico del lago di Pusiano, ma non lo trovai. Non sono una grande cuoca ma in quella occasione furono tutti contenti. La fantasia di Federico ci fece trascorrere la serata all’insegna del fantasma del pesce persico».

E con Giulietta Masina che rapporto avevi?

«Un rapporto di grande tenerezza. Mi considerava come la sua sorellina. Ho un ricordo di una artista tanto grande quanto umile e piena di gentilezza d’animo. Pensi che a Milano si ritirava alla sera in albergo e si cucinava con un fornellino elettrico la sua pastina in brodo».

Adesso stai facendo ancora teatro?

«Ho appena finito la terza recita di Autunno di fuoco, per la regia di Marcello Cutugno con Maximillian Nisi. Riprenderemo a novembre».

E il tuo sogno?

«Tornare al cinema, un amore nato attraverso Fellini che non mi ha mai abbandonato».

·         Ilona Staller ed i suoi cimeli.

(Agenpress il 6 dicembre 2019) – Luca Di Carlo, legale della ex pornostar,  dichiara: “Ilona Staller ha diritto a 100.000 dollari al mese”. L’ex deputata Ilona Staller, al secolo Cicciolina sposata con Jeff Koons  milionario artista americano, dal 1993 ad oggi non ha mai percepito l’assegno di mantenimento. Ilona Staller – afferma  –  “Jeff  Koons è diventato famoso anche grazie a me ed ha sfruttato la mia immagine raffigurandola in alcune opere d’arte, che sono esposte nei musei di tutto il mondo, senza mai riconoscermi i diritti d’immagine”. L’ex pornostar  ha incaricato il suo legale conosciuto anche con lo pseudonimo di “Avvocato del Diavolo” sia per la richiesta dell’assegno di mantenimento, sia per il riconoscimento dei diritti d’immagine. L’ Avvocato Luca Di Carlo si guadagnò la fama quando vinse da solo contro “l’esercito di Avvocati” schierati dall’artista nel processo di contesa del loro figlio Ludwig, dove Jeff Koons chiedeva a Ilona Staller un risarcimento di 8 milioni di euro. La richiesta è stata annunciata proprio dopo l’inaugurazione dell’opera d’arte Bouquet of Tulips costata 3,5 milioni di euro, gigantesca scultura realizzata dall’artista Jeff Koons per commemorare gli attacchi terroristici del 2015, opera istallata a Parigi presso il Petit Palais, nell’area dell’avenue des Champs-Elysées.

La verità del figlio di Cicciolina, sulla droga trovata nella sua casa. Dopo aver ospitato tre volte Cicciolina, questa sera a "Live Non è la D'Urso" è proprio suo figlio che racconta la verità sulla brutta vicenda di droga che lo ha visto suo malgrado coinvolto. Roberta Damiata, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Dopo che la vicenda ha tenuto banco su tutti i giornali e i siti web, Barbara D’Urso, ha invitato per ben tre puntate Cicciolina a raccontare cosa fosse realmente successo a casa del figlio Ludwig, perquisita dai Carabinieri in cui sono stati trovati un 1,7 kg di hascisc due dosi di eroina, un bilancino sotto la mattonella di una camera e 4000 euro in contatti. Cicciolina, per ben tre volte ha raccontato che il figlio aveva dato ospitalità a due ragazzi che ne avevano bisogno, e che erano stati proprio loro a far entrare la droga nella casa di Ludwig. Questa sera però, a raccontare la sua verità arriva proprio lui Ludwig Koons, ritornato dall’America dove era andato a far visita a suo padre l’artista di fama mondiale Jeff Koons. Le cose che racconta però sono molto diverse da quelle dette dalla mamma è Barbara glielo fa notare: “Tua mamma è venuta qui tre volte a raccontare che avevi dato ospitalità a questi ragazzi che hanno poi introdotto a casa tua la droga”, chiede Barbara, ma Ludwig racconta un’altra verità, che in realtà quella che la madre chiama casa è un Bed & Breakfast da ristrutturare, e che quei ragazzi erano lì per questo. “Io non ero a Roma in quei giorni, ero a Parigi perché incontrare mio padre che aveva inaugurato un’opera d’arte per le vittime del terrorismo. I giornali hanno raccontato cose inesatte. Io sono figlio del più grande artista e della più grande pornostar del mondo, non posso permettermi di fare queste cose” - racconta. Cicciolina le dà man forte spiegando a Barbara cosa sia successo veramente anche se la sua versione è totalmente differente da quella raccontata da figlio, ma lui spiega la cosa con un : “Una mamma è pronta a difendere e a prendere le parti del figlio, io non sono stato indagato, i ragazzi sì sono stati arrestati, io non ho mai messo quella cosa a casa mia tanto è vero che non sono accusato di niente”.

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 19 ottobre 2019. Il figlio di Cicciolina nei guai per droga. Non è bastato l'altro giorno che giurasse di non saperne nulla di un grammo di eroina e un bilancino di precisione trovati dai carabinieri nella sua camera da letto, in un elegante appartamento della madre, a Roma Nord. Per Ludwig Koons, unico figlio dell'ex pornostar Ilona Staller, è scattata la denuncia in stato di libertà per detenzione di sostanze stupefacenti. È andata peggio, invece, a tre trentenni del Gambia, suoi ospiti, o più probabilmente affittuari, nella stessa abitazione sulla Cassia. Per loro è scattato l'arresto per spaccio. Il blitz degli uomini dell'Arma li ha colti nel sonno. Sotto al letto avevano una valigia con un chilo e settecento grammi di marijuana e quattromila euro in contanti. L'operazione è scattata dopo un controllo su Koons, fermato nei pressi di casa da una pattuglia intorno alle due del pomeriggio di giovedì. Il giovane si è mostrato nervoso. Aveva provato ad allontanarsi, ma alla fine è stato bloccato. La perquisizione domiciliare è scattata subito dopo. Sotto una mattonella i carabinieri hanno rinvenuto un bilancino di precisione usato, secondo gli investigatori, per pesare la droga, e, nascoste in camera da letto, anche due dosi di eroina, un grammo in tutto. Durante i controlli è rientrata nell'abitazione la madre di Ludwig, la Staller, rimasta visibilmente scossa di quanto stava succedendo. «Non ne so nulla di quelle dosi - si è giustificato il ragazzo. non erano nella mia disponibilità». Ma gli investigatori non gli hanno creduto e a fine servizio hanno informato il magistrato, il pm Santina Leonetti. L'intervento dei militari alla fine si è chiuso con il recupero del pacco di marijuana, che una volta suddiviso avrebbe fruttato 9.560 dosi, e l'arresto dei tre cittadini del Gambia. Al momento del blitz dei carabinieri Basaikou Marong, Embrima Barrow e Ismila Barron stavano riposando. La valigia contenente il chilo e settecento grammi di marijuana, da cui si potevano ricavare 9.560 spinelli e circa 4.000 euro in contanti, era stata trovata sotto a uno dei loro letti. Per gli stranieri, invece, sono scattate immediatamente le manette. Ieri, dopo la convalida dell'arresto a piazzale Clodio, i tre arrestati sono stati scarcerati in attesa del processo.

Giada Oricchio per Il Tempo il 10 maggio 2019. È stata a dir poco surreale l’uno contro tutti di Ilona Staller, in arte Cicciolina, a “Live non è la d’Urso”. L’ex pornostar era stata invitata per parlare del vitalizio da parlamentare ridotto da 2000 a 800 euro, ma il confronto è scivolato su altri argomenti. Cicciolina ha iniziato dicendo di non essere ridotta sul lastrico, ma di aver messo all’asta alcuni suoi cimeli perché molto richiesti dai fan: “ci sono molte persone nel mondo che vogliono la TANGA di Cicciolina, la guepiere, il fallo di Cicciolina che utilizzavo per gli spettacoli”, la d’Urso ha sgranato gli occhi: “Avevi degli strumenti, ma non scendiamo nei particolari. La domanda è: li conservavi?”, “Sì, i frustini, i frustoni, i falli. Ti devo dire la verità questo fallo non è un qualsiasi fallo, ma è un fallo di cristallo realizzato a Murano. Era molto gelido” e la d’Urso disperata nonostante fosse l’una di notte passata: “Ok, basta chiamiamolo Giuseppe. Giriamo le sfere, chi c’è? Ah Giuseppe Cruciani”. Inevitabili le risate di tutto lo studio e Cicciolina: “Pensa che per il fallo Giuseppe hanno offerto 5.000 euro”. La serata ha preso una piega decisamente hot con lo zoo di Cicciolina: “Nei miei spettacoli avevo diversi serpenti, sei o sette. Amo molto i serpenti, anche i coccodrilli, ma questi non li posso tenere in casa. Il serpente Pito Pito che non è morto per colpa mia come hanno scritto” e Barbara: “Io non esco viva da questa serata. Lavoravano tutti?”, la Staller è stata al gioco: “Sì, sì tutti. Avevo anche un’oca, l’oca De Mita, chiamata così per il politico. Non sapete cosa è successo una volta, ho portato il mio ‘qua, qua’ in discoteca e mentre io cantavo, un pazzo le ha dato il whisky e l’ho sgridato e l’oca non è più andata in scena. Avevo anche una tigre del Bengala che è caduta dalla terrazza e l’ho dovuta portare in clinica e l’ho aggiustata. Io amo gli animali e li ho trattati tutti bene”. Cicciolina ha smentito Rocco Siffredi che ha sempre raccontato di non aver un buon rapporto con la pornodiva perché durante una scena hard lei stava al telefono con Pannella: “No, no. Dice un sacco di bugie. Ha raccontato che io mentre facevo sesso con lui in un film porno ero a pecorina (si alza e si mette in posizione, nda), mi mettevo a pecorina e parlavo con Marco Pannella, ma come si fa a dire una cazzata del genere? A pecorina non si possono fare telefonate”. Una deriva così trash e divertente non si vedeva da tempo. E i social ringraziano.

ILONA STALLER VENDE I CIMELI DI “CICCIOLINA”. Da “la Zanzara - Radio 24” il 13 aprile 2019. “Ho bisogno di un milione di euro per produrre il film sulla mia vita. E secondo me il mio primo vestito da parlamentare, quello col tricolore, li vale”. Ma chi te lo compra, dai: “Ma stai scherzando? Ha un valore immenso. Poi ci sono le mutandine, l’intimo che indosso”. Ma non le compra nessuno: “Ma stai scherzando? Le mutandine indossate da me magari per una notte intera?”. Ilona Staller, in arte Cicciolina, parla a La Zanzara su Radio 24 della sua situazione economica. E non sembra “al verde” come ha detto in una intervista a Vanity Fair. Magari hai cose più pregiate, chiedono i conduttori: “Negli anni ottanta sono andata a Murano ed ho fatto fare una specie di vibratore in cristallo trasparente.  Una misura abbastanza grande del sesso di un maschio. In realtà non è proprio un vibratore, è un opera d’arte. Tu lo mettevi per terra con le palle e ti ci sedevi sopra tranquillamente, sul palco. Unico problema di questo oggetto è che era gelido ed estremamente duro. Terrificante. Duro di quel duro gelido, freddo. Non è come il sesso del maschio che quando ti entra duro si ammorbidisce all’interno, prende la forma della vagina. E’ un oggetto molto bello. Quanto può valere? Si può partire con un prezzo di base di 5000 euro per poi salire. Pisello di Murano artistico realizzato tra il ’70 e l’80 che usavo negli spettacoli dal vivo”. Ti hanno pure tolto il vitalizio: “Sono un’icona nazionale, non hanno capito niente. Tagliare innanzitutto è anti costituzionale. Ho fatto ricorso come hanno fatto tutti gli altri. Quei duemila euro oggi mi mancano, da qualche tempo non sto andando più in vacanza”. Una volta hai detto che volevi fare un ultimo film porno, ma oggi il porno è cambiato. Saresti in grado di reggere il set?: “Certo, hai voglia”. Ma oggi fanno delle gang bang pazzesche, guarda la Nappi: “In che cosa consiste il gang bang? Cosa è? Non lo so, lo giuro”. Ma non è vero, dai. E’ una scena con una donna circondata da tanti uomini, anche più di dieci: “Ah, mi fa un baffo. Ma secondo voi quando io facevo i film non c’erano due o tre uomini con cui stavo? Addirittura facevo la tripla penetration….”.

Da tgcom24 il 16 aprile 2019. A “Mattino Cinque” si parla dei vitalizi e, in particolare, del caso di Ilona Staller, in arte Cicciolina, ex parlamentare che ha fatto ricorso contro il taglio del suo vitalizio da 3000 a 1000 euro circa. Sulla questione è intervenuto il giornalista, Mario Giordano, che ha detto: "L’onorevole Staller durante questi anni ha fatto 17 film tra cui Carne Bollente, Supervogliose di Maschi, All’onorevole piacciono gli stalloni". Secondo il giornalista "per questi cinque anni di lavoro, mille euro di vitalizio sono troppi". A stemperare la tensione ci pensa Antonio Misiani del PD: “Giordano, lei li ha visti tutti?”, ha scherzato il senatore. Chi non ci sta, invece, è l’avvocato di Ilona Staller, Luca Di Carlo, che in collegamento telefonico con “Mattino Cinque”, ha risposto: “Le spettano di diritto, lei sta soffrendo in questo momento”.

Da Tgcom24 il 16 aprile 2019. A 16 anni dalla morte di Pito Pito, il pitone utilizzato da Ilona Staller (in arte Cicciolina), durante i suoi spettacolo hard viene a galla la verità: non fu ucciso da un topo ma morì per un uso improprio da parte della pornostar. A lanciare l'accusa è stata una gola profonda dell'ex entourage di Riccardo Schicchi, il noto agente delle attrici porno. E sulla vicenda insorgono le associazioni animaliste. Schicchi raccontò che il 13 ottobre 1993 Pito Pito, il nome d'arte del boa constrictor di Cicciolina, venne messo come consuetudine nella piramide di cristallo dove avrebbe dovuto cibarsi col un ratto. Ma le cose non andarono bene. Tinta, questo il vero nome, è finito ucciso dal topo che gli aveva anche mangiato parte della testa. Un lutto improvviso che aveva lasciato di stucco la povera Cicciolina. Oggi però questa ricostruzione viene messa in dubbio da Lorenzo Croce, presidente dell'associazione italiana difesa animali ed ambiente: "Secondo quanto mi è stato personalmente raccontato da un personaggio che allora conosceva bene i segreti di quel mondo, il boa quando fu messo nella teca già morto e solo per quel motivo il topo potè rosicare parte del suo corpo, ora purtroppo è tardi per intraprendere una causa per maltrattamento di animali contro la ex pornodiva o comunque contro chi ha messo in quegli anni a repentaglio la vita del serpente, ma sicuramente la verità è giusto che venga a galla e questo caso potrebbe essere un volano per i controlli ai serpenti che anche oggi vengono utilizzati nel mondo dello spettacolo, compresi quelli usati nei circhi. La fonte che vuole rimanere rigorosamente anonima - conclude Croce - ha confermato anche che la signora Staller non ha mai avuto nessun rapporto sessuale con cavalli o altri equidi come per anni si è voluto far credere". Insomma, pare che la vera causa del decesso di Pito Pito sia stato un uso improprio del rettile. Una storia che lascia molti interrogativi, anche legati alla veridicità dei personaggi coinvolti. Si resta quindi in attesa di una eventuale replica dell'altra protagonista della storia, la mitica Ilona Staller.

Da Il Fatto Quotidiano il 17 aprile 2019. “Sono un paio d’anni che sento questa storia e provo tanta tristezza. Capisco che Cicciolina non se la passa bene. E capisco anche la rabbia del figlio: con una mamma ex pornostar, in Italia, non è facile. Più che dire che mi dispiace non so che dire”. Queste le parole di Rocco Siffredi a commento dell’anticipazione del servizio su Ilona Staller che andrà in onda questa sera durante il programma Le Iene: “Non so perché Le Iene continuino a fare Le Iene e a rompere i coglioni a questa donna così. Tutte le cose che dice su di me, da un lato mi dispiace e dall’altro mi fanno sorridere: io con lei ho lavorato pochissimo, quindi quando sento storie del tipo “Rocco l’ho inventato io”, mi viene da sorridere. Per prima cosa però mi dispiace tanto per la situazione sua”. Questo il pensiero di Rocco che aggiunge: “Non credo cambierà mai, anche se lei continuerà a fare interviste “contro”. Con tutte le se*** che mi sono fatto da bambino pensando a lei… Insomma, è sempre la grande Cicciolina e mi fa tristezza sapere che è finita così, per lei. Non la vedo molto bene. Però va be’, that’s life”.

Da Le Iene il 17 aprile 2019. Dopo l’anticipazione che abbiamo pubblicato sul nostro sito sul servizio di Filippo Roma a Cicciolina, appena andato in onda, Rocco Siffredi ha chiamato la Iena, nella telefonata che potete sentire qui sopra. A Cicciolina è stato tagliato il vitalizio da ex parlamentare. Nei giorni scorsi ha annunciato che per andare avanti metterà in vendita i suoi abiti usati sui set porno. Così il nostro Filippo Roma è andato a farle visita, ma l'ex pornostar non ha gradito, soprattutto quando la Iena ha cominciato a farle domande su Rocco Siffredi. “Filippo ma quando cazzo la smetti di importunare la signora Cicciolina usando il mio nome?”, dice il divo del porno. “Me lo dici? Perché lo fate? Perché fai la iena?”. “Senti, io vengo a Roma. Ti vengo a trovare. Arrivo la e vi inculo, vi inculo, a tutti, uno dopo l’altro”. Insomma, Rocco non l’ha presa tanto bene. E difende Cicciolina: “Povera Cicciolina ma mi dispiace ma vaffanculo, dai. Calcola che mi son fatto le pippe da bambino. Non mi piace vederla così cazzo”.

·         Barbara Bouchet.

Da I Lunatici Radio2 il 5 ottobre 2019. Barbara Bouchet è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Sugli esordi: "Come mi sono avvicinata al cinema? Ho vinto miss china beach a San Francisco, poi un altro contest dove mi hanno promesso un provino che poi non ho fatto. Così sono andata io a cercarlo. Avevo quindici anni e me ne andai di casa con la disperazione di mio padre. Mia madre era d'accordo, mio padre no. Anche se inconsapevolmente è stato lui ad iniziarmi su questa strada. Sono andata via di casa a quindici anni e non sono più tornata. Mi dispiace tanto. C'è stata una lite furibonda purtroppo. Lui ha sempre dato la colpa a mia madre di avermi messo questa idea in testa". Sulle prime grandi occasioni: "Piccole cose. Una pubblicità per parrucche che si vedeva alle due di mattina. Venivo dalla Germania, ho fatto tanti film con attori che non conoscevano. Ma erano i più grandi. Solo dopo me ne sono resa conto. Ho recitato con Marlon Brando. E a 17 anni mi hanno fatto firmare un contratto per un film in cui facevo la moglie di Kirk Douglas. Da lì ho iniziato la mia strada". Aver respinto della avance le ha causato problemi: "In America, lui mi disse che se non fossi andata con lui mi avrebbe distrutto. Mi sono informata su chi fosse in realtà e ho scoperto che poteva farlo. Era l'avvocato della mafia. Mi ha spaventato talmente tanto che ho fatto la valigia e me ne sono andata da Hollywood. Sono scappata da Los Angeles, e arrivata a New York venni ingaggiata per fare un film in Italia. Dall'Italia, poi, non me ne sono mai andata". Sul #metoo: "Ha aperto gli occhi di tutti e magari ora i provoloni si guardano bene dal fare certe cose. Non sono d'accordo però sulle denunce che arrivano trent'anni dopo i fatti. Sta a noi accettare o no determinate condizioni. Io ho sacrificato la mia carriera californiana per aver detto un no, ma sono andata avanti e ho ricominciato la mia carriera in Italia". Sull'imbarazzo per le scene di nudo sul set: "Avevo cinque fratelli, vivevamo tutti in una stanza. Non ci vergognavamo di farci vedere, non avevamo pudore. Per noi era normale. Venendo in Italia mi hanno chiesto di fare certe scene, è un ruolo, non sono io. Se faccio un'assassina devo sparare e uccidere qualcuno, ma non vuol dire che nella realtà sia un'assassina". Barbara Bouchet è stata la prima a parlare in Italia di fitness: "Se oggi ci sono le palestre è grazie a me. Se le donne hanno iniziato a fare ginnastica è perché io le ho portate a questo. Ne sono fiera". 

·         Ludovica Frasca.

Da "I Lunatici - Rai Radio 2" il 5 ottobre 2019. Ludovica Frasca è stata ospite dei Lunatici di Rai Radio2 raggiungendo in studio Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'ex velina ha chiacchierato con gli ascoltatori che chiamavano lo 063131 e ha risposto a diverse domande. Ludovica Frasca ha parlato un po' di uomini: "Cosa mi fa calare l'interesse? Se uno fa errori grammaticali può essere anche figo, ma cambio il modo di guardarlo. Conta molto come un uomo parla, mangia e si comporta. Un'altra cosa che non tollero sono i gomiti sul tavolo quando siamo a cena o a pranzo. Mi sono da poco trasferita a Roma e devo ammettere che i romani sono molto più provoloni rispetto ai milanesi. Solo che ci provano un po' con tutte. Vogliono piacere. Qualche tempo fa mi ha fatto delle avance un ragazzo fidanzato ma l'ho respinto. Non sono mai stata tradita, almeno che io sappia, e non ho mai tradito. Preferisco troncare, anche di colpo, se mi accorgo che si è rotto qualcosa. La parlata che più mi eccita? Il romagnolo". L'ex velina ha parlato del suo rapporto con i social: "Mi arrivano tante richieste strane, i feticisti sono molti, basta guardare il numero di like che all'improvviso sale se in una foto si vedono i piedi. Molti vogliono foto dei miei piedi, eppure io non li amo particolarmente, anzi. C'è anche chi vorrebbe comprare le mie scarpe usate.  Di scarpe porto il quaranta. Poi ci sono gli aspiranti schiavi.  Magari sognano di essere calpestati. Ma non gli do spago, mi mettono in soggezione". Ludovica Frasca poi ha parlato delle insidie che si nascondono nel mondo dello spettacolo: "Si sente parlare di quelli che magari quando vedono una bella ragazza fanno i marpioni o provano a fare ricatti. Ma a me non è mai capitato, veramente".

·         Angela Cavagna.

Striscia La Notizia, il dramma dell'infermiera Angela Cavagna: "Il mio ex marito ha raccontato menzogne". Libero Quotidiano il 5 Ottobre 2019. Volano ancora stracci tra gli ex coniugi Angela Cavagna e Orlando Portento. A dare inizio alla diatriba l’ex agente della soubrette, che l'ha accusato di avergli rubato tutto, lasciandolo solo con una misera pensione. Un’accusa che Portento ha ribadito anche a Barbara D'Urso, nel salotto di Pomeriggio 5. Dal canto suo quindi, l'ex infermiera di Striscia la notizia ha deciso di procedere per vie legali. "Portento ha raccontato un sacco di menzogne. In particolare, la cosa più grave è stata quella dello stalking. Stava lì a ripetere: "È un’infamia, è un’infamia". Barbara d’Urso gli ha detto: "Tu sei stato denunciato per stalking". Ma gli avrebbe dovuto dire: "Tu sei stato condannato per stalking". E c’è una bella differenza tra essere denunciato e condannato, la D’Urso avrebbe dovuto verificare, informarsi. Lui è stato condannato, ci sono le sentenze. Io l’ho denunciato quando ha iniziato a offendere e a minacciare non più solo me, ma anche mio padre, che all’epoca aveva 80 anni, e mia madre, che ne aveva 78", ha dichiarato la Cavagna in un'intervista alla rivista Di Più. "È dal mio conto corrente che partivano i soldi per pagare il mutuo della casa di Genova. Lui dice che me l’ha intestata, facendo credere che l’ha comprata. Non è vero: la casa l’ho acquistata io. All’epoca stavamo insieme, è vero, ma il mutuo l’ho fatto a mio nome. Se saltava una rata ero io a finire nei guai, non lui. E comunque a guadagnare, andando in tv, ero io, non lui", ha concluso nervosa la soubrette, che da qualche anno ha lasciato il mondo dello spettacolo italiano per trasferirsi a Tenerife dove vive con il secondo marito, Paolo Solimano.

Da oggi.it il 6 dicembre 2019. Angela Cavagna è in guerra con l’ex marito Orlando Portento. Lei che da anni si è ritirata al sole di Tenerife con il secondo marito Paolo Solimano sembra proprio non voler cedere di un millimetro. Come rivela in esclusiva al settimanale Oggi.

LA DENUNCIA AI CARABINIERI – Ci risiamo. Continua la guerra a colpi di marche da bollo tra Orlando Portento e l’ex moglie Angela Cavagna, l’indimenticata infermiera sexy di Striscia la Notizia, da tempo ritirata in quel di Tenerife in compagnia di un nuovo marito. Portento ha ripreso in mano carta e penna e ha querelato la showgirl per diffamazione a mezzo stampa. Precisando anche che «l’intero ricavato del risarcimento dei danni sarà devoluto in beneficenza a me medesimo». Tre fogli che lo stesso Portento ha consegnato a mano la mattina del 12 novembre negli uffici della stazione dei Carabinieri di Genova San Fruttuoso, in qualità di persona offesa. E ha allegato copia di un recente articolo con le espressioni da lui ritenute diffamatorie, copia di una sentenza di non luogo a procedere nei suoi confronti e copia del pagamento che lui ha dovuto sostenere di 250 euro per oblazione.

53 ANNI PORTATI ALLA GRANDE – Proprio sull’oblazione si sofferma Angela Cavagna, 53 anni, portati alla grande, che di questa storia ne ha piene le tasche. «Portento continua a tirarmi in ballo per farsi pubblicità attraverso me, sperando di essere ripescato in qualche trasmissione tv. Magari l’Isola dei famosi, come si vocifera da qualche tempo e da più parti». Su questo argomento, però, Portento, 72 anni, autore e conduttore televisivo, fa sapere che il suo nome circola tra i papabili naufraghi della prossima edizione, ma precisa: «Ho risposto: “No grazie”. Vorrei nuotare come opinionista più che come concorrente, così potrei essere sull’altra riva e sarei sicuramente un mare in tempesta. Grazie, prego, come opinionista io ci starò». Ma torniamo all’oblazione. «Il fatto che abbia dovuto pagare 250 euro», continua Cavagna, «vuol dire che è stato condannato ed era per il reato di molestie. Deve ritenersi fortunato che io abbia ritirato la denuncia per minacce, altrimenti lo rovinavo. Mi sono fatta convincere dal suo avvocato che allora me lo chiese esplicitamente, facendo leva sul mio buon cuore».

“LA TV NON MI MANCA” - Angela Cavagna si concede poi a simpatiche divagazioni sulla sua nuova vita e dice di fare la moglie a 360 gradi e di stare benissimo a Tenerife. «Qui c’è sempre il sole e quindi non voglio altro. Credo di essere stata l’unica al mondo ad avere lasciato le scene nel momento giusto. C’è un tempo per apparire e un tempo per dire basta. Adesso ci sono persone senza arte né parte che si mettono in mostra in tv e sono terribili, perché non hanno capito quando è l’ora di smettere. Eppure, io non sono da buttar via. Alla mia età posso dire con onestà che non mi sono mai fatta una puntura per apparire più giovane». Poi si fa di nuovo seria e ritorna sull’angoscioso argomento del quale farebbe a meno di parlare. «È lui che mi tira sempre in ballo e io, anche a volermene stare tranquilla, devo pur difendermi. La differenza tra me e lui è che io porto le prove di quello che dico. E ogni volta che ha detto menzogne l’ho sbugiardato. Vuole la guerra? Sono pronta e stavolta vado fino in fondo. Se lui dopo 13 anni cerca ancora di mettersi in luce parlando di me, diffamandomi, io non ci sto. È già stato diffidato, e allora perché non si fa la sua vita in santa pace, invece di dannarsi l’anima per apparire?». Angela si congeda con un largo sorriso da soubrette, afferrando la mano di suo marito Paolo: «Con lui», dice, «sono felicissima. Il mio passato è pieno di pagine meravigliose e ho un pubblico che mi ricorda ancora con affetto, come dimostrano le migliaia di ammiratori che seguono il mio blog. Non avrei voluto ritornare sull’argomento Portento, ma devo difendere la mia onorabilità. Il resto lo diranno di nuovo i giudici».

Dagospia il 6 dicembre 2019. Comunicato stampa. Ingrata! Sono stato 25 anni con una strega fuori di senno, bugiarda, ballista, falsa di donna senza avere nessun sospetto, neppure quando mi raccontò, quasi piangente che fu molestata in camerino dall’allora ex primatista dei cento metri  Ben Johnson, ospite di Gianni Minà al programma di Raitre “domani si gioca l’altro spettacolo”, facendomi subdolamente capire che il signor Minà era al corrente di questa molestia. Quindi telefonai a Gianni Minà dicendogli di tutto, ma non finisce mica qui...la Cavagnosa mi fece litigare anche con l’amico genovese Fabio Fazio, allora padrone di casa di “quelli che il calcio” perché l’ennesima telefonata della mia ex moglie fu quella di dirmi che Fazio voleva metterla in una posizione in cui le si vedevano le cosce, e pure in questa occasione dovetti litigare a causa di Angela con il conduttore ligure. La signora oggi è felicemente sposata ed è trattata come una principessa dal suo nuovo marito principe azzurro annanato, pelato e in ammollo; almeno io gli occhi azzurri li avevo davvero, non sarò un principe ma sono stato un guerriero crociato. Come quando ci cacciarono dalla Rai perché dichiaratamente “di destra”, quando ci fecero fuori chiesi un appuntamento con Gianfranco Fini, riuscii ad avere questo colloquio con lui presso la sede del suo partito, allora Alleanza Nazionale in via della Scrofa a Roma; io attesi fuori dall’ufficio ed entrò Angela a parlare con l’onorevole...cosa accadde dopo dieci giorni dalla nostra visita a Fini? Ci chiamarono da Mediaset e fecero un contratto alla Cavagna di due anni per “guida al campionato” su Italia Uno, Fini alzò la cornetta del telefono, chiamó Confalonieri e ci diedero lavoro al Biscione...

Lele Mora un giorno mi disse: “tu gestisci solo la Cavagna?...ma non ce l’hai della carne fresca?!” e io gli risposi: “caro Lele, ma da quando in qua fai il macellaio?” Forse tutto questo e molto altro lo inserirò in un libro che intitolerò “due cuori e una Cavagna”, un libro di poche pagine ma se decido di scriverlo ne leggerete delle Belle e non delle Balle! Ora mi sono rotto delle menzogne che escono dalla bocca di Angela Cavagna che sta tutto il giorno a Tenerife con il culo in ammollo tra mare e piscina a mangiare, bere ed ingrassare, chiedo un confronto con lei, un duello con lei in diretta televisiva, voglio un tête a Tette...senza nulla pretendere! Oltre a tutto ciò sto valutando con il mio avvocato Aurelio Di Rella se ci sono i presupposti per farle una nuova querela per mancato guadagno date le mie ospitate annullate a Pomeriggio 5 perché la signora Cavagna ha querelato e diffidato il mondo: me, Mediaset, Barbara D’Urso e gli autori delle due trasmissioni. Angela Cavagna io non l’ho mai amata, ci ero affezionato, le volevo bene, facevamo l’amore, ma non l’ho mai baciata e non le ho mai detto “ti amo”.

·         Paola Caruso: ci è o ci fa.

Paola Caruso ritrova il fratellastro del figlio Michelino: "Il nostro regalo di Natale". Paola Caruso ha deciso di rendere pubblico l'incontro tra il figlio Michelino e il fratellastro, nato da una precedente relazione di Francesco Caserta e anche lui mai riconosciuto. Luana Rosato, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Al centro del gossip per la fine della relazione con Moreno Merlo, Paola Caruso torna a far parlare di sé per un’altra situazione riguardante la sua vita privata: l’incontro con il fratellastro del figlio Michele (detto Michelino). Ai tempi della sua gravidanza, vissuta da sola perché l’ex compagno Francesco Caserta decise di lasciarla mettendo in dubbio la paternità del figlio che aspettava, la Caruso raccontò di aver fatto delle sconcertanti scoperte riguardo il passato del padre di Michelino. Come riportato a Domenica Live, infatti, la showgirl fu contattata da colei che le rivelò di essere una ex di Caserta e, come lei, aveva vissuto la gravidanza in solitudine perché l’uomo decise di non riconoscere il bambino che aveva in grembo. “Mio figlio ha un fratello”, annunciò tra lo stupore generale Paola Caruso, che negli ultimi periodi pare abbia deciso di mettersi in contatto con la donna che, come lei, ha vissuto il suo stesso calvario. Così, la ex Bonas di Avanti un altro ha incontrato il fratellastro del piccolo Michelino documentando questo importante momento sui social. “Io e Michelino abbiamo ricevuto un bel regalo di Natale, il più bello che potevamo augurarci – ha scritto Paola su Instagram allegando gli scatti dei due bambini -. Michele e Gabriele insieme super fratelli”.

I follower della Caruso non hanno potuto fare a meno di incuriosirsi e lei non ha esitato a spiegare a tutti cosa fosse successo negli ultimi giorni, ribadendo tutto il suo disprezzo nei confronti di Francesco Caserta e della sua famiglia. A chi ha invitato le due donne abbandonate a “fare un complotto”, Paola ha spiegato che “per fortuna esistono i tribunali”, mentre a chi le ha fatto notare che Caserta e la madre sono “due persone di mer..”, lei ci ha tenuto a sottolineare che i commenti dispregiativi nei loro confronti dovrebbero essere ben peggiori. In tantissimi, inoltre, si sono complimentati con le due mamme, che hanno deciso di regalare ai bambini la gioia di avere un fratello di cui, fino a poco tempo fa, non conoscevano nemmeno l’esistenza. "Che bellissima cosa due fratellini che si conoscono, grazie alla buona volontà delle loro mamme! Nonostante siano figli di un padre che non ne è degno! Sono comunque dei bimbi felici e si vede!", si legge tra i commenti al post della Caruso, "Bellissimi! Loro sono innocente e meritano tanto...incluso la vicinanza di un fratello", ha aggiunto un altro utente della rete che ha rivolto il suo plauso alla showgirl e alla mamma del fratellastro di Michelino.

CI È O CI FA? LO DECIDE IL DNA! Renato Franco per il ''Corriere della Sera'' il 23 aprile 2019. Ragazza immagine del Billionaire, corteggiatrice a Uomini e donne , la popolarità grazie al quiz di Bonolis Avanti un altro . Si è cucita addosso il ruolo di svampita (ci è o ci fa?), è stabilmente nel mondo della tv come famosa in quanto celebre, ospite seriale, personaggio da reality. Se la tv è il brodo di coltura di Paola Caruso, non poteva che essere la tv a svelare una storia che è molto più incredibile delle sceneggiature di Beautiful : «È un miracolo» racconta lei che ha ricevuto in diretta i risultati del test del dna dai quali ha scoperto chi è la sua madre biologica.

Lei è stata adottata appena nata...

«Ma l' ho scoperto solo a 14 anni e per me fu uno choc. I miei genitori non mi avevano detto niente, fu una mia amica a rivelarmelo».

E quelli che fino a quel momento pensava fossero i suoi genitori?

«Non mi volevano dare spiegazioni. Più avanti l' ho capito, avevano paura di perdermi, appena affrontavo l' argomento si chiudevano nel silenzio. Oggi se mi metto nei loro panni li capisco. Ci misi 10 anni a metabolizzare».

Ora ha 34 anni e rimette tutto in discussione.

«Un anno fa, in una puntata di Domenica Live raccontai di essere stata adottata. Una ragazza, che poi ho scoperto essere mia sorella, sentì la storia e mandò una lettera a Barbara d' Urso: era convinta che sua madre fosse anche la mia per tanti indizi, dal paese dove sono cresciuta alla somiglianza».

E cosa ha scoperto?

«La mia vera madre aveva partorito con il cesareo, quando si risvegliò dall' anestesia le dissero che la figlia era morta. Sua madre - mia nonna - aveva paura delle voci di paese, io ero il frutto scandaloso della relazione tra mia mamma e un calciatore famoso in prestito al Catanzaro. In Calabria i genitori comandano sui figli: mia nonna decise così, mia mamma era ignara anche se in cuor suo sapeva che non ero morta».

Così si arriva al test del dna, aperto in diretta tv.

«Devo tutto a Barbara, senza di lei non l' avrei trovata. Ora mi ritrovo con due mamme, un fratello e una sorella: è sconvolgente».

Ora vuole incontrare anche il suo padre biologico?

«Dopo tutto quello che ha fatto Barbara per me mi sembra giusto rivelare chi è in una delle sue trasmissioni».

Non la prenda come mancanza di fiducia, ma è una storia talmente vera da sembrare finta. Non è che è romanzata come il matrimonio di Pamela Prati?

«C' era una possibilità su 7 miliardi, ma è andata proprio così».

Paola Caruso, la soubrette che ha scoperto in tv chi è la sua vera madre e ora cerca il padre calciatore. Pubblicato martedì, 23 aprile 2019 da Carlo Macrì su Corriere.it. La Calabria è nel suo cuore. Quando può ci torna volentieri, anche perché a Platania, paesino dell’altopiano silano, in provincia di Catanzaro, vive ancora la mamma adottiva, il papà è morto alcuni anni fa. Paola Lucia Caruso, 34 anni, una laurea in Giurisprudenza, la “Bonas” di Avanti un altro, la trasmissione condotta da Paolo Bonolis, che le ha dato la popolarità e l’ha fatta conoscere agli italiani, ragazza immagine del Billionaire, da qualche giorno, dopo anni di ricerca affannosa, ha scoperto chi è la sua vera madre. È raggiante l’ex Velina. La sua storia ha fatto il giro dei talk show nazionali, anche perché nel frattempo Paola Caruso ha partecipato a molte trasmissioni televisioni e a reality. Nel 2003 sfiorò anche la finale di Miss Italia. La madre naturale all’epoca ha avuto una storia d’amore con un calciatore del Catanzaro. Siamo alla metà degli anni ‘80, la squadra calabrese del presidente Ceravolo militava tra A e B e svolgeva la preparazione precampionato proprio a Platania. Della Calabria la bella Paola ha, però, un ricordo molto amaro. Appassionata di cavalli, cinque anni fa, è caduta ed è rimasta a lungo paralizzata. La caduta le ha prodotto la frattura del bacino e subito un ematoma a livello spinale. Dopo otto mesi in ospedale e sei di riabilitazione la showgirl si è rialzata. Un episodio, questo, che le ha cambiato la vita e di cui ne parla mal volentieri. È stato durante la trasmissione di Domenica Live, condotta da Barbara d’Urso, che Paola ha confessato di aver scoperto, solo a tredici anni, di essere stata adottata e di non aver mai conosciuto i suoi genitori biologici. Da quel momento la showgirl ha iniziato la ricerca per conoscere i suoi veri genitori. La sua richiesta d’aiuto è stata, per caso, ascoltata da un’altra ragazza di Platania che mandò un messaggio a Barbara d’Urso. Tante le somiglianze con Paola. Il test del Dna ha fatto il resto.

·         Debora Caprioglio.

Da adnkronos.com il 5 Novembre 2019. “Oggi vedo troppe minorenni che sui social si propongono nude, e credo che questo non vada bene, perché quando succedono certe cose non è più un fatto privato ma diventa pubblico”. Lo ha detto Debora Caprioglio, ospite questo pomeriggio della trasmissione ‘Vieni da me’ condotta da Caterina Balivo. Sorprendendo il pubblico in studio, l’attrice veneziana non ha rinnegato il suo passato di ‘icona sexy’, ma ha sottolineato: “È vero che io ho fatto un film erotico da giovane (nel 1991 l’attrice fu protagonista di ‘Paprika’, di Tinto Brass), ma ero maggiorenne, ed era un film, quindi era un fatto diverso. Oggi tutte queste minorenni che si mostrano nude non credo siano una cosa positiva”.

Debora Caprioglio: “Quella volta sul set con Klaus Kinski..” Il Giornale Off l'01/07/2019. fonte: ilsussidiario.net – Debora Caprioglio e Klaus Kinski. Tutti noi conosciamo la liasion fra i due. Lui la notò quando aveva 18 anni e la loro relazione fece molto scalpore a causa della differenza d’età. “Ero una toy-girl: ho precorso i tempi», ha detto l’attrice, ospite di Caterina Balivo. Si conobbero a Venezia, trent’anni fa, in occasione di un concorso di bellezza, in un ristorante: la loro storia durò tre anni: “Lui mi lanciò nel mondo del cinema inizialmente come comparsa in Nosferatu a Venezia”. Anche con Tinto Brass il ristorante si rivelò un posto…decisivo: il grande Tinto le inviò il copione del film Paprika, lei lesse le prime due pagine e lasciò perdere.  Fu solo con un invito a cena che Tinto Brass convinse Debora Caprioglio a accettare la parte del film Ma Debora Caprioglio si è saputa scrollare di dosso l’ etichetta di icona sexy e, da anni, si dedica soprattutto al teatro. Di qualche anno fa la sua performance, insieme ad Edoardo Sylos Labini, nello spettacolo La grande guerra di Mario, una rilettura comica ma con momenti di profondo lirismo del capolavoro di Mario Monicelli. La Caprioglio è stata protagonista femminile di questa pièce e ha poi proseguito la sua carriera di attrice teatrale affermando di preferire il teatro al cinema perché solo dal palcoscenico si può instaurare un rapporto diretto con il pubblico. Rapporto che regala sempre grandi emozioni. Vi proponiamo questa sua intervista cult. (Redazione).

Un episodio off della tua carriera?

«Nei miei sogni di ragazzina io ho iniziato molto presto, a diciotto anni. Facevo danza classica e sognavo di fare l’attrice. Non avrei mai pensato di concretizzare questo sogno».

E’ stato un caso?

«Avevo fatto un concorso di bellezza  un volto nuovo per il Cinema e poi una sera a cena con mia madre e mia sorella, in attesa di riprendere l’ultimo anno di liceo, ho incontrato Klaus Kinski, che non conoscevo. Lui stava cercando volti nuovi per il suo film successivo».

Come nei sogni!

«Una volta succedevano queste cose. Se io non fossi stata a quel tavolo, io credo, non so come sarebbe andata a finire.

Con lui la cosa si è evoluta...Abbiamo avuto una relazione. Io a Mestre, lui negli Stati Uniti».

Che tipo era?

«Non comprendevo allora, ma era un grandissimo artista. Aveva un amore maniacale per il cinema, per il suo lavoro. Quando preparava i film o i personaggi aveva con loro una profonda immedesimazione».

Un esempio?

«Per fare Paganini, che è stato il mio primo film, si vestiva da Paganini tutti i giorni e girava per casa ascoltando musica classica a tutto volume!»

Quanto si resiste accanto a uno così?

«Dipende dal carattere! (Ride) Io sono stata con lui tre anni. Magari, difronte a una persona normale sarei durata cinque minuti. Io con lui, tre anni!»

Com’è finita?

«Si è esaurita la storia. C’era una differenza di età importante. Quello è stato il motivo più determinante».

Un ricordo divertente del set con lui?

«Durante le riprese del film Paganini, sull’Appia Antica, dovevamo girare un campo lungo, era un film d’epoca ovviamente, entra in campo una Cinquecento! Motore, azione, chi doveva bloccare la strada si è distratto, fa il suo ingresso sul set una Cinquecento con due innamorati che si volevano appartare. Klaus s’incazza e vestito da Paganini salta sul cofano della macchina con l’archetto del violino, spaventando i due che scappano. Un corvo impazzito contro questa coppia ignara...»

Tu sei veneta. Un pregio e un difetto dei veneti?

«Padovani gran dottori, veneziani gran signori, vicentini magnagatti…Un pregio, un difetto… Possono essere molto open, gaudenti nel week end, poi da grandi lavoratori, molto chiusi nel resto della settimana. Due facce della stessa medaglia. Le nuove generazioni però, tutto diverso».

Todo cambia?

«Sì. Io avverto nettamente il cambiamento. Noto costantemente questo collegamento al telefono o smartphone. Anche a teatro, le teste sono piegate su questi schermi luminosi. Gianfranco Jannuzzo, mio collega in scena, quando sente un cellulare che squilla lo fa notare in maniera divertente: “Se è per me, sto lavorando”. È una dipendenza con la “D” maiuscola».

La tua famiglia ti appoggiava?

«Mia mamma mi ha sempre incoraggiato. Forse avrebbe voluto anche lei fare l’attrice. Vinse anche lei un concorso di bellezza a Mestre. Mi ha sempre sostenuto. Stava sempre con me. Mio padre più silenzioso sul tema. Lui non c’è più».

Il tuo primo ricordo da spettatrice?

«Al cinema Una giornata particolare con la Loren, a teatro Gino Bramieri al Sistina in una commedia dove c’era guarda caso anche Gianfranco Jannuzzo. Poi Alberto Lionello mi piaceva tanto. Col teatro non è stato amore a prima vista».

Tutto iniziò con Tinto Brass.

«Paprika è un film degli anni Novanta. A distanza di tanti anni è davvero un cult, un film davvero d’autore».

Paprika era ambientato in un bordello. Sei favorevole alla riapertura delle case chiuse?

«Quando sento parlare di prostituzione penso sempre allo sfruttamento. Oggi tutto è più ingrandito. Non lo so se è una soluzione oggi. Gli interessi sono troppo grandi. Non sono sicura. Quel film raccontava un’atmosfera protetta, c’era il dottore, il controllo sulle malattie, ma era diverso».

Tua mamma che diceva di Tinto Brass?

«Questa è divertente. Chiamò casa mia. Rispose mia madre. Signora, sto cercando Deborah, sono Tinto Brass. E lei: “E io la regina d’Inghilterra!” E buttò giù il telefono».

Brass si innamora delle attrici con cui lavora?

«Si innamora dei personaggi. Se ci fai caso non ha avuto la stessa attrice per più di un film.

Parliamo del tuo teatro.

«È una passione, una droga. Se non lo faccio per più di dieci giorni mi manca. Mi manca il contatto col pubblico. Io sono fortunata. Quei dieci minuti di applausi sono più di una vacanza in un centro benessere».

Qual è la piazza teatrale più accogliente?

«Non so perché, Torino».

La più ostica?

«Roma. Difficile da acchiappare».

Un personaggio che vorresti fare?

«La locandiera di Goldoni».

Che si può fare per il teatro, per risollevarlo?

«Portare i giovani. Sono il pubblico del futuro e sono molto attenti. Il Teatro è civiltà».

·         Serena Grandi.

Serena Grandi a processo: non ha pagato un conto di 750 euro in un resort. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Aperto il processo e subito rinviato al 25 giugno del prossimo anno un procedimento a carico di Serena Grandi. L’attrice, secondo l’accusa, non avrebbe pagato il contro di un resort di Santa Firmina, presso Arezzo, dopo aver trascorso la notte insieme al fidanzato. L’amministratrice della società che gestisce la struttura ha citato entrambi. I fatti risalirebbero al 25 giugno 2018 quando Serena Faggioli, in arte Serena Grandi, insieme a Luca Iacomoni, sarebbero andati via dal resort lasciando un conto da pagare di 741,59 euro per il pernottamento e la ripulitura della stanza.

Dagospia il 21 novembre 2019. Da “Un Giorno da Pecora - Radio1”. “Nella mia casa di Rimini sono venuti i ladri, qui c'è una grande delinquenza. Mi hanno rubato oggetti a cui tenevo molto, dei ricordi dei miei genitori”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l'attrice Serena Grandi, che oggi è intervenuta nella trasmissione condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Su Instagram, dopo questo furto, lei ha fatto un appello a Salvini: gli ha scritto che ci vuole la ruspa. “Si, mi piace la sua cultura e la sua identità, abbiamo bisogno di riconoscerci”. Non si sente tranquilla nella sua Rimini? “Il sindaco ha fatto tanto, purtroppo però c'è un sacco di delinquenza. Io non esco dopo le sei di sera”. Tra poco si voterà nella sua Emilia Romagna. “Io voterò per Lucia Borgonzoni: noi donne siamo fortissime, sappiamo come fare”. 

Da leggo.it il 21 novembre 2019. “Mi sento ancora sotto choc. Ero a Roma per lavoro e, quando sono rientrata a casa, ho trovato la porta dell'appartamento aperta”, l'attrice Serena Grandi racconta la paura per il furto che ha subito nella sua casa nella Capitale. I malviventi si sono fatti strada dal terrazzo: “I ladri sono entrati dal terrazzo – ha raccontato a “Nuovo” - rompendo un vetro antiproiettile, e poi sono usciti indisturbati dall'ingresso principale. Mi è andata via la voce immediatamente a causa dello spavento: la tensione mi ha travolto, lasciandomi senza forze, e ci sono voluti diversi giorni per metabolizzare l'accaduto”. A casa era sola e l’ha aiutata la vicina: “Edoardo vive a Milano. La sua presenza mi sarebbe stata di grande aiuto. Ero sola con i miei cani che si sono subito agitati e hanno cominciato a correre in giro per la casa messa a soqquadro, innervositi per l'odore lasciato dai malviventi. Ho chiamato subito la mia vicina che è corsa a sostenermi. Ero in uno stato pietoso: mi sentivo talmente confusa che non sapevo nemmeno dove sedermi per riprendere fiato. Che brutta storia…”. Il furto è stato consistente: "Tutti i gioielli per un valore intorno ai centomila euro: erano i ricordi di una vita, molti dei quali appartenuti ai miei affetti più cari. Non si sono fermati davanti a nulla e hanno anche trafugato le due urne contenenti le ceneri dei miei amati genitori, provocandomi una ferita ancor più dolorosa del danno economico. Forse erano talmente ignoranti da non saper nemmeno leggere, visto che c'erano due targhette di metallo con i nomi di papà e mamma, la loro data di nascita e quella di morte... Sono senza parole. Purtroppo mi hanno rubato anche orologi di valore".

Da liberoquotidiano.it il 14 novembre 2019. L'attrice Serena Grandi rivela a Pomeriggio 5 davanti ad una allibita Barbara d'Urso: "Gianni Morandi mi ha lasciata. Siamo stati insieme...". Il riferimento è a tanti anni fa ma fa comunque scalpore. L'attrice di La grande bellezza ha rivelato di una sua storia d'amore inedita. "Sono stata fidanzata con Gianni Morandi, è stata una grande storia d'amore. Lui però era più grande di me, aveva già 38 anni e io ero più piccola. Alla fine ci siamo lasciati e lui ha fatto perdere le sue tracce, forse per i figli. Ma io sono stata molto male". “Nei primi anni Ottanta, io muovevo i primi passi come attrice (…), andai a vedere un concerto di Gianni”, ha raccontao Serena al settimanale DiPiù. “Negli anni avevo seguito la sua carriera, lo ammiravo e andai dietro le quinte a salutarlo”. Lei aveva 24 anni ed era libera e bella, lui ne aveva 38 e il matrimonio con Laura Efrikian era alle spalle. “Scattò qualcosa”. Si scambiarono i numeri di telefono e presto, molto presto, lui la chiamò. “Ero stregata dai suoi occhi azzurri…”. 

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano”  il 21 luglio 2019. Cerco Serena Grandi per qualche giorno ma il telefono spesso risulta staccato. Provo con dei messaggi e Serena con la solita gentilezza mi risponde «sono in un posto dove non prende bene il telefono». Il giorno seguente ci diamo un appuntamento telefonico per la nostra intervista.

«Sono in campagna con delle amiche e qui il telefono prende poco; spesso mi ritiro fuori dal mondo perché ho bisogno di stare con le mie amiche del cuore».

Mi sembra una ottima scelta Serena; hai sentito di Tinto?

«Certo che ho sentito e mi sono subito prodigata a chiamare Caterina Varzi, la moglie, per sapere come sta e per fortuna le condizioni sembrano stazionarie». Hai lavorato con Tinto Brass in Monella negli anni ottanta e poi sei diventata una sua grande amica.

Chi è Tinto Brass?

«Tinto è un gentiluomo, un uomo straordinariamente galante; colto e profondo a tal punto che è riuscito a fare del "cinema erotico" una cifra stilistica estetica straordinaria».

La "leggenda " però ha sempre parlato di un uomo che amava le donne con cui lavorava e non disdegnava "toccarle". È vero questo?

«Assolutamente è falso! Tinto non ha mai sfiorato nemmeno una spalla delle persone che hanno lavorato con lui; il rispetto è stato sempre il punto di partenza della sua professionalità. Anzi ti dirò di più. Non sai quante ragazze avevano voglia di saltargli addosso e lui invece le fermava con eleganza. Ragazze prive di scrupoli che per fare andare bene un provino cercavano di conquistarlo in altro modo. E poi ricordiamoci che al fianco del maestro c'era sempre Carla Cipriani soprannominata Tinta sua moglie e sua musa ispiratrice per quarant' anni».

Che rapporto aveva con Tinta?

«Un rapporto di complicità assoluta. Tinta è sempre stata non solo la moglie e la compagna di una vita fino a che non è morta nel 2006, ma era la sua musa ispiratrice. Tinto provava le scene, anche quelle spinte, proprio con lei... una coppia straordinaria».

Vuoi dire che prima di una scena di Miranda Tinto Brass provava con la moglie?

«Certo che sì! Che ricordi meravigliosi Miranda!»

Me li vuoi raccontare?

«Guarda per me lavorare e conoscere il "maestro" è stato decisivo per la mia carriera. Sapevo che avendomi scelto ed io accettato quel ruolo non mi sarei più tolta di dosso l' idea della "icona sexy". Ma ho scelto di farlo perché sapevo che Tinto Brass mi avrebbe insegnato il mestiere di attrice. È un perfezionista attento ad ogni cosa io da lui ho solo imparato. Sarò per sempre riconoscente a lui e alla sua arte. Non amo chi riconoscente non è!».

A chi ti riferisci?

«A chi adesso fa la suora rinnegando il passato».

A Claudia Koll?

«Sì certo, io non metto in dubbio la sua scelta di fede, anzi me ne compiaccio, ma rinnegare un periodo storico dove faceva i film erotici lo trovo ipocrita».

Claudia Koll aveva dichiarato: «Se potessi, certi errori non vorrei averli commessi. Il film non mi ha aiutata: sono rimasta due anni senza lavorare. A un certo punto ero arrivata perfino a pensare di iscrivermi di nuovo a Medicina. Mi aveva ostacolato la carriera. Io sognavo il cinema vero, di Bergman. Feci un grosso errore di valutazione: pensai che mi avrebbe fatta conoscere e invece lo impedì, perché tutti si fermarono al mio corpo, e le uniche chance di lavoro erano dello stesso genere».

Cosa pensa Serena di queste dichiarazioni?

«Penso che siano ingenerose nei confronti di chi ti ha scelto e dato l' occasione di lavorare. Citare Bergman denigrando Tinto è sbagliato. Tinto Brass dipingeva le scene, era un pittore e la sua formazione passa attraverso il lavoro fatto con due grandi registi Joris Ivens e Roberto Rossellini di cui era negli anni Sessanta assistente. Io avevo voglia di imparare da lui e se poi ho lavorato con registi del calibro di Sorrentino o Pupi Avati e perché il mestiere me l' ha insegnato Tinto».

Non hai peli sulla lingua Serena?

«Penso di potermi permettere di dire ciò che voglio senza alcun problema come, per esempio, quando feci la madrina del gay pride di Rimini e venne organizzata una processione da un parroco e da Forza Nuova nella stessa città contro l' iniziativa. Ho trovato terribile questo gesto ed il tema della parità di genere a me è profondamente caro».

Questo è stato un anno difficile, sei passata attraverso la malattia, come ne sei uscita e cosa ti ha insegnato?

«Forse proprio per questo non ho più alcun timore a parlare e dire ciò che penso. Il mondo lo vedo da un' altra prospettiva e mi sento più libera di raccontare ciò che provo. La malattia mi ha migliorata».

E come vedi l' Italia in questo periodo storico?

«Ho votato Salvini e ho fiducia in lui e spero non mi deluda. Credo che stia cercando di dare nuovamente dignità al nostro paese e ne avevamo bisogno. Riacquistare la nostra dignità di popolo... Salvini sta lavorando su questo. Io per esempio sono orgogliosa di essere romagnola; hai visto in due giorni hanno sistemato tutto dopo il disastro che c' è stato per la pioggia. Ecco io voglio la mia nazione così, orgogliosa e laboriosa».

Ti piacerebbe entrare in politica?

«Sì, lo farei volentieri occupandomi del sociale».

Quale altro politico hai votato?

«Bettino Craxi; sono stata craxiana perché anche lui cercava di dare una dimensione internazionale al nostro paese».

Certo il ricordo di Sigonella è limpido nella nostra memoria. L' hai sentito quando era ad Hammamet?

«Spesso lo chiamavo e alcune volte sono andata a trovarlo. Mi venne regalata una lampada di Bettino e mi dissero che tutti i suoi discorsi li scriveva sotto quella luce. La conservo con grande amore, è in ceramica, molto bella. Adesso però devo andare: sono ospite e mi stanno tutti aspettando».

Infatti Serena non è stato semplice trovarti, dove sei?

«Sono in Toscana insieme alle mie amiche del cuore Corinne, Beatrice e Fanny».

Corinne Clery la moglie del tuo ex marito Beppe Ercole... i vostri rapporti non erano idilliaci?

«Sì, siamo come sorelle io e Corinne. La vita è magica e ti sorprende sempre».

·         I Pentimenti di Claudia Koll.

CLAUDIA KOLL, RIVELAZIONE SU TINTO BRASS: "LE SCENE OSÉ MI HANNO ROVINATO". Alessandro Pagliuca per Il Giornale il 5 maggio 2019. Claudia Koll ha raggiunto la sua notorietà negli anni ’90, grazie al film di Tinto Brass, Così fan tutte. Gli anni hanno iniziato a passare e Claudia, tentando di liberarsi del personaggio osé che le aveva garantito il successo, ha deciso di cambiare vita. Negli ultimi anni si è molto avvicinata alla fede. In molti programmi televisivi in cui è stata ospite ha ribadito la sua voglia di ricostruire la sua personalità basandosi sulla dottrina cattolica e questa scelta ha cambiato sia la sua vita privata che quella lavorativa. Infatti, Claudia ha scelto di interpretare ruoli di film e fiction più adatti alle famiglie e di seguire un percorso di fede che l’ha portata, un passo alla volta, a rinnovarsi. Ai microfoni di SicilyMag, l'attrice ha rinnegato il suo passato da attrice a luci rosse. Ha voluto smentire con questa intervista ciò che alcuni giornali hanno scritto in passato. In molti hanno infatti sostenuto che lei non abbia mai fatto un passo indietro rispetto alle pellicole osé che le hanno dato notorietà: "Se potessi, certi errori non vorrei averli commessi. Qualche giornale di recente ha scritto che non mi sono pentita, ma non può essere: certamente lo sono, altrimenti non avrei mai cambiato vita. Il film non mi ha aiutata: sono rimasta due anni senza lavorare. A un certo punto ero arrivata perfino a pensare di iscrivermi di nuovo a Medicina. Mi aveva ostacolato la carriera…. Io sognavo il cinema vero, di Bergman… Feci un grosso errore di valutazione: pensai che mi avrebbe fatta conoscere e invece lo impedì, perché tutti si fermarono al mio corpo, e le uniche chance di lavoro erano dello stesso genere. Così mi fermai per due anni, fino a che Baudo mi chiamò a Sanremo, che mi ha permesso di uscire dall’isolamento".

Estratto dell’articolo di Salvo Fallica per Sicilymag.it il 5 maggio 2019. «La Sicilia mi ha affascinata sin da giovane. Quando ero nel pieno della mia attività di attrice e non mi ero ancora convertita, durante alcuni periodi di pausa venivo a riposare a Palermo attratta dal mare. La Sicilia da subito mi è entrata nel mio cuore». L’oggi 53enne Claudia Maria Rosaria Colacione, che il mondo dello spettacolo ha conosciuto col nome d’arte di Claudia Koll, delinea in tal mondo il suo rapporto di lunga durata e di autentica intensità con la terra siciliana […] Una storia intensa ed originale quella dell'attrice Claudia Koll che come ha ricordato lei stessa durante una sua testimonianza nella chiesa dei Cappuccini di Paternò, gremita di gente, era giunta ad essere «una delle attrici di maggior successo in Italia, una delle più pagate». Con sincerità racconta: «Vivevo in un lusso inimmaginabile. Poi ho detto basta con quella vita, ho fatto film sbagliati, privi di un copione, che strumentalizzavano il mio corpo. La mia conversione è stata profonda, la mia esistenza è cambiata, sono stata illuminata dalla luce di Dio. L'energia della fede, la luce della spiritualità hanno mutato la mia vita. La religione vissuta con un cammino spirituale autentico ti apre nuovi orizzonti, ti fa cogliere il senso della vita». […] «Ho fatto il Liceo Classico, ero e sono affascinata dalla filosofia. Perché da sempre mi interrogo sul senso delle cose. Ho letto e leggo molto: letteratura, filosofia, saggistica...». […] «Vi è stata una rottura con il passato. Con le ipocrisie del passato. Questo non vuol dire che sia diventata una bacchettona. Sono pronta a tornare sulle scene ma con opere di qualità culturale che siano coerenti con la mia scelta di vita […]».

Eleonora Barbieri per “il Giornale” il 22 giugno 2015. Claudia Koll ha compiuto da poco cinquant'anni. Il 17 maggio ha festeggiato in piazza San Pietro «con una quarantina di amici», tutti raccolti «per la canonizzazione di alcune suore». «Sono voluta tornare a San Pietro perché la mia conversione è iniziata lì nel 2000, con il giubileo» racconta l'attrice che, dopo la fama negli anni Novanta (il film di Tinto Brass Così fan tutte è del 1992), il Festival di Sanremo, il ruolo di commissario in Linda e il brigadiere, la «nuova esistenza» cominciata nel 2000 con la conversione e l'impegno religioso, oggi vive la sua «terza vita» come mamma di un ragazzo in affido, Jean Marie, originario del Burundi.

Se si guarda allo specchio, che cosa vede?

«La serenità sul volto, la luce. Mi vedo più luminosa di prima, vedo la gioia nel cuore di avere una vita piena, intensa e ringrazio il Signore perché, se non l'avessi incontrato, la mia vita non avrebbe sapore».

Perché tutta questa gioia?

«È la gioia di fondo nel fare il bene, di sapere che la mia vita non è sprecata, è vissuta».

Di recente ha detto che non diventerà suora perché vuole fare la mamma. È vero?

«Non è proprio così. È da 15 anni che giro il mondo con una missione: annunciare la misericordia e la grazia di Dio. E poi c'è un impegno concreto, l'associazione “Le opere del Padre”, che opera in Africa e soprattutto in Burundi, dove sosteniamo e aiutiamo tanti bambini e tanti orfani, per aiutarli a ritrovare la speranza».

E poi è mamma...

«Sì. Oltre a questo, il Signore mi ha donato un ragazzo, venuto in Italia dal Burundi per essere curato, che poi il tribunale ha affidato a me da quando aveva 16 anni. Oggi ne ha 23. E poi c'è anche l'Accademia di recitazione, dove mi occupo dei ragazzi. Insomma ho una vita piena nel mondo: prendere i voti ed entrare in convento non è la scelta che il Signore mi ha chiamato a fare».

Che mamma è?

«Non lo so... Non è stato facile. All'inizio Jean Marie non parlava italiano e rifiutava il cibo. Era in condizioni fisiche gravi, quando è arrivato era irriconoscibile a causa di una insufficienza renale. Ho dovuto combattere anche per farlo mangiare, a volte con la preghiera più che con i rimbrotti. Poi, piano piano si è creata una relazione di fiducia, veniva con me nei miei viaggi, gli facevo le punture sulla pancia, come farebbe chiunque abbia in casa un malato. Piano piano però». 

E oggi?

«Ha studiato dai salesiani per diventare cuoco, perché ama cucinare. Ora cerca lavoro. Siamo una famiglia normale, ecco, quando parto rimane a casa da solo ma ha i suoi amici e io mi fido: è un ragazzo solido, sano».

Ma non ha mai pensato di farsi suora?

«Certo, l'ho pensato, però poi ti chiedi: che cosa vuole Dio da me? E la risposta è diversa. Questo non significa che non metta Dio al primo posto nella mia vita».

Quando è iniziata la sua conversione?

«Nel 2000, quando ho passato la Porta Santa. Accompagnavo un'amica che veniva dall'America ed era la mia coach sul set. Poi siamo andate in Puglia per il film e lì, per la prima volta, mi sono trovata di fronte a delle difficoltà che non riuscivo più a gestire: prima ero sempre determinata, sicura, e invece non lo ero più».

Che cosa è successo?

«Per esempio, in una scena drammatica sarei dovuta scoppiare a piangere ma non ce l'ho fatta, il cuore non rispondeva ai miei comandi: si era indurito. E mi sono chiesta: perché? La mia amica mi disse: “Se non c'è verità nella tua vita, come ci può essere nel tuo mestiere?”. E la sera, in albergo, pensai a Gesù, che dice che la verità rende liberi».

E che cosa ha fatto?

«Ho capito che la menzogna mi stava spegnendo dentro. E piano piano ho messo in discussione certi aspetti della mia vita, come il fatto che tutto ruotasse intorno a me, che fossi solo il centro di me stessa».

Quali altri aspetti ha messo in discussione?

«La mancanza di autenticità, e quindi la necessità di compiere scelte più coerenti rispetto all'unità della persona. E poi appunto l'egoismo: ho capito che bisogna pensare anche agli altri e ho cominciato con un ragazzo malato di Aids, ricoverato in un centro della Caritas».

Uno choc?

«Dal mondo patinato del cinema in cui tutto deve essere bello... Lì, con quelle persone ero obbligata a essere vera, erano tutti malati terminali. Un'esperienza forte, come i poveri in Africa: ho visto neonati senza guance, col visino scavato, bambini scheletrici e tutto questo mi ha fatto crescere più di tante parole».

E che cos'altro è cambiato?

«Beh, per esempio non spendo più tanti soldi in vestiti e scarpe. Mi piacciono, ma ho la consapevolezza che non si possa vivere pensando solo a quello».

La conversione è arrivata quando era al successo. Un caso?

«Non credo, anche se fondamentale è stato il passaggio della Porta Santa. Certo è che ho saputo rinunciare a tante cose, perché ne ho anche sperimentato l'inconsistenza: quando avevo davvero bisogno, i soldi e il successo non mi hanno dato le risposte che cercavo, Dio invece sì».

Si è pentita del passato da attrice?

«Ma io continuo a fare l'attrice, anche se non in tv o in tournée: ho ruoli meno visibili, ma non ho smesso».

Ma dei ruoli non proprio «casti» che ha interpretato?

«Certo è chiaro che, se potessi, certi errori non vorrei averli commessi. Qualche giornale di recente ha scritto che non mi sono pentita, ma non può essere: certamente lo sono, altrimenti non avrei mai cambiato vita. Non ci sarebbe stata conversione».

Eh, i giornali...

«A volte pubblicano anche immagini di quell'epoca, e mi dispiace. Oppure vogliono fare credere che la mia vita di oggi sia triste, ma non è così, anzi: è una vita più piena, più intensa. Poi è vero anche che, quando Dio ti perdona, ti riconcilia in qualche modo col tuo passato, ti dice: non rimanere ferma, cammina, guarda avanti».

La sua famiglia è cattolica. I suoi genitori come presero quel film con Tinto Brass?

«Secondo lei? Come potevano prenderlo? Ero già via, fuori di casa, ma i miei genitori hanno continuato per anni a pregare per me, per la mia conversione. E quando è successo davvero, mio papà mi ha detto che lo sperava, ma non immaginava che Dio potesse portarmi a un cambiamento così grande».

Ma quando ha deciso di fare l'attrice?

«Da bambina, a cinque anni. Guardavo i film con mia nonna che non vedeva: io le dicevo che cosa vedessero i miei occhi, lei ascoltava e mi spiegava il film. Ecco, questo stare insieme l'una con l'altra, davanti al film, mi fece capire che l'arte era una strada speciale».

E poi come ha cominciato?

«Mi iscrissi a Medicina come volevano i miei, ma capii che volevo fare altro. Io ho avuto una formazione solida, ho cercato sempre di migliorare nella recitazione. Ho scelto il teatro dopo Sanremo, che è stata una bella esperienza, come Linda e il brigadiere: non è che sia tutto da buttare, tante cose le ho fatte con gioia. Guardi, le devo dire una cosa».

Prego.

«Il film di Brass non mi ha aiutata: sono rimasta due anni senza lavorare. A un certo punto ero arrivata perfino a pensare di iscrivermi di nuovo a Medicina. Mi aveva ostacolato la carriera».

Addirittura?

«Io sognavo il cinema vero, di Bergman... Feci un grosso errore di valutazione: pensai che mi avrebbe fatta conoscere e invece lo impedì, perché tutti si fermarono al mio corpo, e le uniche chance di lavoro erano dello stesso genere. Così mi fermai per due anni, fino a che Baudo mi chiamò al Festival di Sanremo, che mi ha permesso di uscire dall'isolamento».

Si ritiene fortunata?

«Non uso questa parola. Ringrazio Dio perché scrive sulle nostre righe storte, ama l'uomo e, anche se cadi, se c'è lo sguardo rivolto a lui ti prende in braccio e ti risolleva».

Ha detto che non ha tempo per un uomo. Sul serio?

«Nel senso che ho una vita così piena, dedicata agli altri, che non sarebbe giusto fermarla: quella che ho cominciato è una missione e avere un compagno vicino significherebbe dedicargli del tempo ulteriore. E non sono in grado».

Magari nella quarta vita?

«Eh, appunto... No, sinceramente non ci penso».

Perché condivide così tanto con gli altri la sua fede?

«La nostra fede dipende dalla predicazione, è la volontà di Gesù: “Annunciate il Vangelo”. Sono 15 anni che giro per il mondo: se non fosse la volontà di Dio, la forza non l'avrei più. Troverei un'altra via, un'altra strada?».

ANCHE IL DIAVOLO SI ERA INVAGHITO DI CLAUDIA KOLL. Da Il Fatto Quotidiano il 29 maggio 2019.  “Se io sono oggi una nuova persona è grazie allo Spirito Santo. L’esperienza spirituale che io ho fatto non capita a tutti. Ho capito che c’era un male in me. C’erano delle forze che mi stritolavano le gambe e allora mi sono rivolta al Padre Nostro. Presi il crocifisso, lo afferrai e pregai“. A parlare di così è Claudia Koll che, ospite di Caterina Balivo a Vieni da Me, racconta del suo incontro con la fede: “Quando la preghiera è diventata un grido il Signore mi ha liberato. Mi avvolto una pace profonda. Col tempo ho cominciato a capire la potenza della croce, che Cristo aveva agito. Poi quando il maligno ha provato a riattaccarmi ho scoperto che solo Dio poteva aiutarmi e quindi mi sono legata sempre di più a lui e ho iniziato a seguire un percorso”. Un racconto, quello della Koll che va anche sui momenti lontani della sua carriera da attrice: “Il film con Tinto Brass? Fu un errore di valutazione. Non sono quel tipo di donna. Ho sofferto molto durante la lavorazione di quel film. Mi ero resa conto di aver sbagliato, non ero stata cresciuta così. Cambiai anche il mio modo di parlare, ero più maliziosa, facevo doppi sensi”.

tvzap.kataweb.it il 29 maggio 2019. Il film con Tinto Brass? Un errore di valutazione per Claudia Koll. L’attrice, ospite di Caterina Balivo a Vieni da me nella puntata del 28 maggio ripercorre la propria carriera a partire da quel film, Così fan tutte a proposito del quale confessa: “[…] Ho fatto l’errore di valutazione, ho pensato che cavalcavo l’onda e poi avrei scelto quello che volevo, e invece è stato difficile dopo perché io non sono quel tipo di donna che ha poi presentato questo film quindi ho dovuto lavorare tanto su me stessa, rinunciando a tanti lavori, due anni sono stata senza lavorare […] Ho sofferto molto durante la lavorazione di quel film […] Mi accorgevo che da quando avevo fatto questo film avevo cominciato a essere maliziosa, avevo doppi sensi e soprattutto le parolacce. Io mi rendevo conto di aver sbagliato in base all’educazione ricevuta. Era stato un errore mio di valutazione”.

Claudia Koll e il Festival di Sanremo. Nel corso della lunga chiacchierata anche il riferimento all’esperienza a Sanremo 1995 con Pippo Baudo e Anna Falchi: “Sanremo? Una fatica. Non c’era un attimo di pausa […] Avevo pure un versamento al ginocchio […] Contrasti con Anna Falchi? No no assolutamente, ci volevamo bene. Una volta lei mi ha chiamato in camerino e mi ha detto ‘Claudia che dobbiamo fare che i giornali ci mettono l’una contro l’altra?’ Non c’era competizione”.

Claudia Koll e la fede. Quanto invece all’incontro con la fede che le ha cambiato la vita Claudia Koll racconta: “Se io sono oggi una persona nuova è grazie allo Spirito Santo. L’esperienza spirituale che io ho fatto non accade a tutti. Ho capito che c’era un male in me. C’erano delle forze che mi stritolavano le gambe e in quel momento mi sono rivolta a Dio e ho pregato il Padre Nostro […] Ho preso il crocifisso tra le mani, l’ho afferrato e ho pregato. Quando la preghiera è diventata un grido forte dell’anima il Signore mi ha liberata […] Mi ha avvolto una pace profonda nella quale ho riposato. Nel tempo ho cominciato a capire la potenza della croce […]. Poi quando il maligno ha provato a riattaccarmi ho scoperto che innalzando il crocifisso spariva. Ho scoperto che solo Dio poteva aiutarmi e quindi mi sono legata sempre di più al Signore e ho iniziato a seguire un percorso“. 

·         Anna Falchi.

Da ilmessaggero.it il 23 novembre 2019. «Ho ancora il numero di telefono di Fiorello? No, per carità. È una storia prescrittissima... Eravamo i Ferragnez...». Anna Falchi, ospite di Vieni da me, ricorda così la relazione con Fiorello. «Il numero di Max Biaggi ce l'ho. Con qualcuno rimani amico e con qualcuno no. Con Max ci sentiamo un paio di volte l'anno, è sempre stata una persona che mi è stata molto a cuore. Siamo stati insieme poco, un paio d'anni», aggiunge. Il matrimonio con Stefano Ricucci «è stato bellissimo, lo rifarei. Ma era troppo, è finito all'improvviso in modo tragico. Non voglio rivangare il passato, è stato tosto. È difficile rifare un'esperienza del genere ma sono sempre pronta, sono una persona super positiva. Mai dire mai».

Da “Un giorno da Pecora - Radio1” il 27 settembre 2019. “Conte? Mi ha conquistato, da che non mi piaceva proprio ora mi ha davvero convinta, ha personalità, mi piace molto”. A Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Anna Falchi ha espresso il suo apprezzamento verso il premier Conte, che, pare le abbia fatto un po' mettere da parte quello per Matteo Salvini, più volte al centro di dichiarazioni a dir poco positive della showgirl. Quando si è 'innamorata' del Primo Ministro? “Quando ho visto il suo discorso al Senato, che ho seguito tutto. Alla fine non aspettavo altro che parlasse Conte. E poi, quando è partito, ha tirato fuori gli attributi: che carisma incredibile e poi è charmant”. Lo trova sexy? “Molto molto sexy”. Se lei fosse single, ci farebbe un pensierino? “Ci andrei a cena subito, si, mi piace. E poi vi do una chicca: mia nipote va a scuola con suo figlio”. Lei però era una superfan di Matteo Salvini: ora chi preferisce tra i due? “Conte, non scherziamo”. Salvini ha passato l'estate pre-crisi dalle sue parti, al Papeete Beach. “Conosco quelle zone ma al Papeete non sono mai stato, è una roba da selvaggi”. Ma se c'era il Ministro dell'Interno. “Si, ma praticamente era nudo, io sono contrarissimo all'uomo a petto nudo, per me quell'immagine lì è troppo. Almeno poteva indossare una camicia”. Ora come vede il leader leghista? “Lo vedo dimagrito, sempre in forma però, anche se sta facendo grandissimo errore: accettare il confronto da mio zio Bruno Vespa (la Falchi è fidanzata con Andrea Ruggieri, nipote del conduttore e deputato di FI, ndr) con Matteo Renzi”. Poi la Falchi ha dato il suo giudizio sulla crisi voluta dal leghista: “si è fatto prendere la mano, con un po' di megalomania, ha sbagliato. Non avrebbe dovuto confondere il consenso del pubblico sulle piazze con l'amore vero del popolo che poi ti va a votare, magari subito dopo che hai messo in crisi il governo. Anche se il colpo finale, secondo me, glielo ha dato l'endorsement di Trump a Conte”. Lei è una star di Instagram: le scrivono anche politici? “Molti mi dicono che m seguono e che mi mettono 'like' ma poi non lo fanno. Mentre io con loro lo faccio sempre”. Le hanno mai proposto di fare un reality? “Si - ha detto a Rai Radio1 -me li hanno offerti tutti, ma io dico proprio no ai reality, preferisco fare una prestazione artistica. Oggi come oggi non ci andrei mai, non lascerei mai mia figlia, e non è un genere che mi piace”. Non andrebbe nemmeno a Tempations Island? “Lo hanno chiesto a me e ad Andrea. Gli ho risposto: ma come vi viene in mente?” Anche il suo fidanzato era d'accordo? “Lui ha lanciato questa cosa nelle sue chat, sia quella con gli amici che col partito: tutti impazziti, dalla Boschi a Berlusconi”. Ma la Boschi non fa parte di FI. “Ma noi siamo tutti amici. Anche Boccia, De Girolamo, Marattin...Ma anche Andrea non sarebbe andato ovviamente”.

·         Tinto Brass, una grappa, un sigaro e i trastulli della provincia italiana.

Tinto Brass, una grappa, un sigaro e i trastulli della provincia italiana. Il Giornale Off il 28/05/2019. Claudia Maria Rosaria Colacione, in arte Claudia Koll, una delle attrici di maggior successo in Italia, la musa scoperta dal grande Tinto Brass. Oggi ha 53 anni e recentemente, nella chiesa dei Cappuccini di Paternò in Sicilia (fonte: sicilymag.it),  ha raccontato davanti a un folto pubblico la sua storia: «Vivevo in un lusso inimmaginabile. Poi ho detto basta con quella vita, ho fatto film che strumentalizzavano il mio corpo […]. Vivevo in un lusso inimmaginabile. Poi ho detto basta con quella vita[…]. Vi è stata una rottura con il passato[…]. Questo non vuol dire che sia diventata una bacchettona. Sono pronta a tornare sulle scene ma con opere di qualità culturale che siano coerenti con la mia scelta di vita». Leggiamo su Dagospia, per altro (dagospia.com), che il film con Tinto Brass fu peggio che un errore di valutazione. L’attrice racconta infatti di aver sofferto molto durante la lavorazione e di avere addirittura cambiato anche il suo modo di parlare, infarcendolo di malizia e doppi sensi, fino ad arrivare a sentire di essere posseduta dal Maligno. Da qui la sua celeberrimo conversione religiosa e la fuoriuscita dal mondo del cinema, almeno dal cinema di tipo erotico: “Mi sono rivolta al Padre Nostro. Presi il Crocifisso, lo afferrai e pregai…se io sono oggi una nuova persona è grazie allo Spirito Santo”. In attesa di rivederla sul grande e piccolo schermo (ma non in un film di Tinto Brass, evidentemente) vi proponiamo un bel ritratto di colui che la scoprì (Redazione).

Tinto Brass nasce per caso a Milano il 26 marzo del ’33 ma la sua città resta Venezia, lido della raffinata bellezza, del Carnevale, dello sberleffo e dell’ironia, dell’ilare e musicale accento dialettale; la lingua di Carlo Goldoni e del poeta erotico Giorgio Baffo: “città che vuole tutti i trastulli, ziogadori, puttanieri e bulli” e ancora: “il poeta che si lambicca il cervello zorno e notte, per far sonetti grassi e butirrosi, per divertir le donne e i so morosi, ma mi fazzo sonetti e i altri fotte“. Il piccolo Brass ama le matite, disegna in continuazione, è sempre bersagliato da immagini. Il suo vero nome è Giovanni e il nonno pittore un giorno sbotterà di soddisfazione: “Ma chi abbiamo in casa? Un piccolo Tintoretto?” Ecco il nomignolo che porterà sempre. Padre fascista. Aveva fatto la marcia su Roma. La scoperta del sesso come insurrezione, anarchia, cambio di rotta perché “la vita è semplice ma complicata sempre dalla paura che le persone hanno della libertà“. Tinto ragazzo, con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole, lui che voleva fare il regista sognando Parigi, la nouvelle vague, Jean Vigo. Ha sempre avuto, per via del papà avvocato e gerarca, un problema con l’autorità e tutta la vita lotterà con le carte bollate e i ricorsi della censura. Sposa Carla Cipriani(detta la Tinta) e dal sodalizio nasceranno due figli: Beatrice e Bonifacio. Tinto, assistente di Rossellini, amico intimo di Antonioni, ha diretto film con cast stellari: Alberto Sordi, la Mangano, Monica Vitti, Tino Buazzelli, Vanessa Redgrave, Franco Nero, Gigi Proietti, Franco Branciaroli, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli, Helmut Berger, Ingrid Thulin. Nel 1976 arriva nelle sale cinematografiche il suo Caligola: Malcom Mc Dowell, Peter O’ Toole, Helen Mirren, John Gielgud, scene mirabolanti di Danilo Donati. Pellicola stravagante, folle, barocca, kitsch, grottesca, delirante, impetuosa, un capolavoro. È nel 1983 con il film La Chiave che inizia il suo ciclo erotico. La “chiave di volta” del suo cinema sembra essere proprio la sessualità, libera, anche dai lacciuoli e compromessi produttivi; l’esperienza di Caligola lo aveva profondamente segnato: Brass era stato estromesso dai produttori americani al montaggio del film e la sua filmografia d’ora in avanti sarà a. C / d. C (prima e dopo La Chiave). Tinto nelle interviste ama ripetere: “Il c… è lo specchio dell’anima” è una frase militante, politica, impegnata. Afferma gioiosamente il diritto della donna ad esprimere un piacere erotico autonomo e indipendente dal dominio maschilista. E il pensiero corre ancora una volta a Goldoni; nel 1985 remake de La Locandiera con Serena Grandi/ Miranda. Oggi come appare la provincia italiana senza l’allegria dei film di Tinto Brass? È la provincia veneta, piemontese o lombarda che stimola la nostra morbosa curiosità di utenti televisivi: provincia ricca, gelosa e non più golosa ma avida, ignorante, nevrotica e psicotica, proprio perché non libera sessualmente. Villette, casolari, quartieri lucidi e agiati, terreni visitati ogni tanto dai Ris o dai cani fiuto della Polizia in cerca di qualche traccia di cadaveri occultati, poi omertà, gente che ha fatto i schèi, paesini senza un cinema, un teatro, villette senza libri, tante balere, provincia felice? Diffidano di tutti: gay, stranieri, immigrati, diversi. Berretto con la visiera calata, arma da taglio e quella da fuoco sotto il cuscino. Questa brutale endogena aggressività Brass la esorcizza con il piacere, la gioia di vivere, della buona tavola: una mangiata, una grappa, una boccata di sigaro, un’occhiata svelta alla scollatura della locandiera consapevole del suo fascinoso portamento. Non c’è colpa nel sesso. La repressione sessuale infatti è alla base di ogni società autoritaria apparentemente libera. Se il mondo corrente è opaco, torbido, meschino, avido e vuole forme di intelligenza ottusa, lineare e binaria, Tinto ci provoca con le forme tonde, splendide, goduriose, spiritose, beffarde. Quelle di un bel culo.

·         Chi guida la Lamborghini?

Da Il Fatto Quotidiano il 29 maggio 2019. “Chi mi conosce sa che sono una brava ragazza, quasi una suora, specie da quando mi sono avvicinata alla religione”. Parole di Elettra Lamborghini che al settimanale Tu Style ha rivelato di essere molto religiosa: “Io domando e Dio mi risponde, è difficile da spiegare. Credo di essere un po’ sensitiva. La spiritualità è importante. Vado in chiesa, leggo la Bibbia, compro rosari, tanti rosari…”. Questo lato religioso della giudice di The Voice era già stato raccontato in passato: “Vado molto spesso in chiesa, ma non ci tengo a farlo sapere troppo”, aveva detto Elettra a Quotidiano.net.

Antonella Luppoli per “Libero Quotidiano” il 2 dicembre 2019. Da martedì alle 22 su MTV (canale 130 di Sky) Elettra Lamborghini-Twerking Queen.

Perché un documentario sulla sua vita?

«Ho pensato fosse arrivato il momento per soddisfare i desideri dei miei fan. Ho scelto di farlo con Mtv perché è una garanzia, lavoro con loro da tempo e mi fido».

Ha detto no anche a qualche reality?

«Sì. Non volevo mettermi a nudo».

Sui social però lo fa spesso...

«(Ride, ndr) Ultimamente sono "più coperta". Credo che a ogni età corrisponda un modo di essere e di mostrarsi. Ho 25 anni ma mi sento un po' vecchia. Detto questo posso mostrare ancora, no? (ride, ndr)».

Cosa scoprirà la gente di lei guardando Mtv?

«Tutto quello che non faccio vedere sui social. Questo documentario è un backstage della mia vita e della mia musica».

C' è qualcosa che ha voluto non mostrare?

«Quando andavo in giro con "la patana di fuori" (ride, ndr). Scherzo, c' è tutta me stessa e spero che si possa andare oltre tre puntate».

Le piacerebbe dare serialità al progetto?

«Perché no? Non ne abbiamo parlato».

Le diranno che ha copiato la Ferragni...

«Lo fanno tutte. Potrebbero dire allora che lei ha copiato da Kylie Jenner. Il mio prodotto è diverso: è un docu-reality su me stessa».

È davvero la regina del twerking?

«Sì, sono "portatrice sana di twerking"».

Dopo il documentario, cosa ci sarà?

«Musica e tv. Sto lavorando a nuovi progetti musicali e non solo... Sono tornata da poco da Miami e ora voglio stare in Italia per un po'».

Italia, musica, tv... il Festival di Sanremo?

«Chissà...».

Si vocifera che sarà in gara, lo sa?

«Si dicono tante cose... non posso dire nulla»

Cosa guarda in tv?

«Non guardo la tv, neanche Netflix. Trovo sia una perdita di tempo».

Ascolta musica italiana?

«La mia (ride, ndr). No, solo reggaeton».

Rifarebbe The Voice of Italy o preferirebbe una chiamata da Amici della De Filippi?

«Amici lo farei. Mi piace aiutare i ragazzi e mi riempie d' orgoglio quando riescono a fare quello che vogliono fare. The Voice mi ha aiutato a crescere come persona».

Ha un cognome "ingombrante"...

«Sì. Se avessi potuto lo avrei cambiato. Non è semplice: ti chiedi se le persone si avvicinano a te per come sei o per come ti chiami. In realtà, sono "pane, burro e marmellata" (canticchia sorridendo, ndr), una normale. Conosco persone che ostentano ricchezza ma che in fondo non sono felici. In Italia c' è un po' di invidia sociale ma me la cavo sempre con la simpatia».

Le pesa di più ora o quando era ragazza?

«Ora. Prima ero solo Elettra. Le persone pensano che sia un nome d' arte e invece è il mio».

Se non avesse fatto questo lavoro, cosa avrebbe fatto?

«Medicina o psicologia. Mi piace ascoltare. Ero brava a scuola. Studiavo poco ma andavo benissimo. Creavo problemi, non sul profitto».

Era irrequieta?

«Molto».

Anche nei sentimenti lo è?

«No, oggi sono innamorata. Non sono una mangiauomini come tanti mi etichettano, a Bologna mi conoscono come una "figa di legno". Da ragazzina avevo un' amica del cuore che stava con un ragazzo da tre anni senza avergliela mai data. Per me, era invincibile».

Una santerellina?

«Secondo me, meno la dai e più sei figa. Dico sempre che sono "una Lamborghini km zero". E consiglio a tutte le ragazze di fare così».

Quanti uomini ha avuto?

«Non si possono contare. Dopo 6 mesi li mollavo senza averci fatto niente. Dicevo ai fidanzatini che non gliel' avrei data finché non fossi stata sicura dei miei sentimenti. Se uno ti ama, ti ama a prescindere».

È bolognese, voterà alle prossime elezioni regionali in Emilia Romagna?

«Sì, ancora non so per chi. La mia famiglia mi ha sempre insegnato che bisogna andare a votare e l' ho sempre fatto».

Le hanno chiesto di buttarsi in politica?

«Non è il mio. Sto bene dove sto: a fare la cantante e a twerkare».

Elettra Lamborghini confessa: "Sono esaurita, devo staccare per tornare più carica". Nel rispondere alle domande dei suoi follower su Instagram, la regina del twerking ha confessato di essere in un periodo particolarmente stressante della sua vita e di aver bisogno di allontanarsi per ricaricare le energie. Novella Toloni, Martedì 01/10/2019, su Il Giornale. Il 2019 è stato un anno pieno di impegni per Elettra Lamborghini: la partecipazione in veste di giudice a "The Voice of Italy", l'uscita del suo album di esordio "Twerking Queen" e infine il tour promozionale in giro per il Paese. Un'agenda fitta di impegni che non l'ha tenuta lontana dai suoi fan e dai social, dove la cantante è sempre molto attiva. Ultimamente, però, Elettra Lamborghini ha ridotto la sua presenza sui social network e molti follower se ne sono accorti. Nel rispondere ad alcune domande nelle storie di Instagram, la regina del twerking ha confessato di essere stanca ed esaurita. "Sono in un periodo Zen - ha scritto su Instagram Elettra Lamborghini -sono esaurita lo dico con il sorriso ma è la verità. Sono stanca da morire, dentro e fuori, e mi è venuta paura della gente anche solo se mi guardano. Sto cercando di concentrarmi su me stessa, sulla mia salute e tornare nel giro di poco carica di energie. Sono tranquilla e consapevole, è normale non mi sono fermata un attimo quest'anno. Adesso ho solo bisogno di staccare un po' la spina e fare tanta nuova musica. Ma mi conosco, vado sempre a periodi, questo week parto e starò via due mesi, conto di tornare più carica di prima". Ancora una volta Elettra Lamborghini torna a parlare apertamente della sua paura della gente, che la porta a scappare dai suoi fan quando li incontra per strada. Un disagio cresciuto nel tempo che oggi si è trasformato in una vera e propria paura. Lo stress, l'attenzione costante su di lei e gli impegni hanno così convinto la cantante a staccare la spina, allontanandosi dall'Italia per qualche mese. Una pausa, per concentrarsi sulla musica, che le consentirà di tornare più carica e forse con qualche timore in meno.

CHI MONTA SULLA LAMBORGHINI? Alessandro Ferrucci per ''il Fatto Quotidiano'' il 19 maggio 2019. Fuori dal camerino, nell' attesa di parlare con lei (sta mangiando), arrivano all' ufficio stampa due richieste d' intervista, e da quotidiani nazionali. Desiderata, Elettra Miura Lamborghini (non è un nome d'arte). È il fenomeno televisivo del momento, protagonista di The Voice, con i suoi modi spigliati, agitati, vestita per mettere in risalto le forme naturali e quelle ricercate, ama "dire sempre quello che penso", ripete spesso. Per conoscerla bastano i numeri di una biografia breve ma di questi tempi già densa: 25 anni ieri, 5 reality, ultra-trash, e sparsi tra le tv straniere. Il primo singolo Pem Pem ha milioni di visualizzazioni, possiede 30 cani e della servitù per accudirli; ha 42 piercing, molti dei quali con diamanti e un numero imprecisato di auto sportive. Ovviamente tutte Lamborghini, il cognome non è casuale. A The Voice è un coach, forse il meno preparato, sicuramente il più chiacchierato. Nonostante il clamore, i settimanali femminili non le dedicano molto spazio. Ho avuto una copertina su Maxim, ma cerco di concentrarmi su interviste fighe più che finire su giornali di gossip; non amo strumentalizzare aspetti privati della mia famiglia, non voglio raccontare i cazzi miei ai giornaletti.

Ha partecipato a dei reality dove il confine tra privato e pubblico è molto labile. C' è differenza tra studiarsi la storia e raccontare chi sei. Come viene giudicata dalle donne over 40?

«Mi guardano tutti bene».

Trasversalmente.

«Non ho paura di partecipare a programmi come su Rai2, dove una presenza come la mia è difficile trovarla, per questo ringrazio la Rai e Simona (Ventura)».

Salto di qualità.

«È saper guardare al futuro, non si può essere sempre legati al passato, ora va la trap (genere musicale)».

In questo ultimo periodo quando uno deve spiegare il proprio successo risponde "perché sono me stesso".

«Non ci riescono tutti, in tanti provano a copiarmi, tentano la strada del "simpaticone", poi uno li guarda e pensa: "Che cavolo stai a fa'?". Io sono me stessa».

La sua immagine è un po' studiata.

«Per niente, per l' amor di Dio».

Passa da atteggiamenti provocanti, a interviste dove si definisce "figa di legno".

«Sono fidanzata e sono contentissima, lui è tenero e non gli ho mai messo le corna».

Resta la contrapposizione tra forma e sostanza.

«No, sono le idee delle persone malate che giudicano l' apparenza (Si innervosisce per la musica di sottofondo, ci sono le prove del programma: "Almeno chiudete la portaaaa!")»

Dicevamo?

«Una persona è libera di vestirsi e fare ciò che vuole e se uno pensa male non è colpa mia.

Il "Geordie shore" non è un programma delicato. Non è spinto, solo ragazzi che si divertono (in realtà accade di tutto, a confronto il Grande Fratello è da educande)».

Cosa le scrivono sui social?

«Solo cose positive».

Solo positive.

«Ovvio, se vado sulla pagina di politica, si parla della Lamborghini come una figa xxx».

Niente politica.

«Non c' entro niente».

Ha mai votato?

«Certo. Mio padre mi dice "devi assolutamente farlo"».

Non si interessa ma ritiene il voto importante.

«Non parlo di certe cose».

Il giudizio di suo padre è fondamentale.

«Se non avessi avuto i miei genitori che mi hanno educata, sarei una delle tante che dice "non voto perché tanto non cambia niente"».

La sua generazione spesso non conosce alcuni mostri sacri del cinema o della musica italiana. Ad esempio, sa chi è Ugo Tognazzi?

«No, mi spiace».

Mai sentito nominare?

«Se volete mettermi alla prova, anche no».

È solo per capire.

«Mi sono concentrata sul reggaeton».

È nata a Bologna: Dalla?

«Sento altra musica, e non sono meno artista di altri.

Tognazzi era un attore.

«E 'sti cazzi! (Si altera) Non capisco queste domande provocatorie, mi sento attaccata».

Non lo è.

«Sono domande scomode».

Sicura?

«È entrato su temi politici».

Quali?

«Tocca argomenti che non capisco cosa c' entrino».

Tognazzi era una questione generazionale.

«E allora sarà meglio dirlo agli insegnanti, ci pensino loro».

Ha dichiarato di leggere molto. Cosa le piace?

«L' ultimo libro è di psicologia, amo molto analizzare il linguaggio del corpo».

In questo momento è sulla difensiva.

«Perché?»

È seduta di traverso, chiusa, con le gambe incrociate.

«Se mi fossi messa così non sarebbe stato carino (nel frattempo allarga le gambe con evidente elasticità e indica le parti intime). Non credo a quelle cose».

Cioé?

«Se dovessi parlarle con le cosce aperte, sarei una cafona. (Decisamente alterata)».

Ha avuto paura di ottenere tutto e subito?

«Non è facile. E un po' ci sono rimasta: in carriera ho saltato dei passi, non ho studiato; il primo concerto è stato a Los Angeles in un' arena piena».

Si riguarda?

«Ora sì».

E cosa vede?

«Capisco che se i ragazzi di The Voice hanno coraggio, io ne ho avuto tre volte di più; questa cosa mi penalizza».

Non si imbarazza nel giudicarli?

«Mi spiace, perché capisco quante sono le persone che desiderano emergere, ma preferisco la sincerità, altrimenti pensano che la vita da famosi è solo soldi e felicità».

E non è così.

«I famosi hanno spesso dei problemi, dei disturbi».

Davvero?

«Depressione, e basta vederli sui social: soffrono per i pochi commenti e like. A volte vorrei chiudere tutto e restar sola a pregare».

Come mai?

«Più ci stai e più non fa bene».

Poi grazie a Dio sono cresciuta a Bologna, in mezzo al verde, e i miei genitori e la mia tata mi portavano dai cavalli.

Lei a scuola.

«Avevo il caratterino ed ero molto simpatica».

Andava bene.

«Molto brava».

Diplomata con?

«Chi se lo ricorda.

Parliamo dell'altroieri.

«Sono sempre stata la migliore della classe, e a differenza degli altri ero ribelle, poi studiavo tre ore e sapevo tutto».

Super brava.

«Apprendo in fretta».

Lei tra dieci anni.

«Ho due strade: o faccio una vita più tranquilla, famiglia, figli, fidanzato o marito».

Oppure Famiglia, figli, marito e continuare a spaccare.

Famiglia e marito comunque. Ho una famiglia solida e faccio i complimenti alle donne che crescono i figli da sole, però voglio un uomo accanto».

È cattolica.

«Vado spesso in chiesa».

È per o contro l' aborto?

«Eeeeee, non so rispondere».

Abbiamo finito.

Silvia Bombino per Vanity Fair il 27 giugno 2019. Il telefono, appoggiato sulle gambe, ogni tanto si illumina e fa bip. Lei butta giù, infastidita. «Ho un pessimo rapporto con il cellulare. Vorrei spegnerlo ed eliminare tutto, non ascolto vocali, non guardo i commenti ai post e penso che non fa bene stare sempre lì. Praticamente sono anti-social». Peccato che a parlare sia Elettra Miura Lamborghini, 25 anni, 4 milioni e mezzo di follower su Instagram, e un video, Pem Pem, da 100 milioni di visualizazioni su YouTube. Dopo vari programmi tv, l’ultimo come giudice di The Voice, sta promuovendo il suo primo album Twerking Queen.

Oltre a essere una regina del twerking, è anche una regina dei social. Qual è la parte di Elettra che non mette in mostra?

«Se non lavoro vado in giro struccata, più coperta. L’apparenza dei miei video non inganni. E comunque in Mala dico che “sono cattiva”, in quello di Pem Pem alla fine ballo e basta: non c’è malizia».

Pem Pem ha riferimenti sessuali espliciti, la provocazione c’è.

«Un po’, ma alla fine non faccio niente. La malizia sta nell’occhio di chi guarda».

Lei ha molti fan tra i bambini sotto i 10 anni.

«Infatti, e voglio dare l’esempio».

Quale?

«Sono una persona normalissima».

Che cos’è «normale» per lei?

«Ho iniziato a fare tv per caso e ha funzionato. Studiavo, andavo a scuola, dal mio cavallo, la mia vera “casa”. Mi è sempre piaciuto cantare, ma il mio futuro era il conservatorio, non certo un reality».

La sua famiglia che educazione le ha dato?

«Tradizionale. Ho sempre avuto moltissime regole, e anche oggi le seguo. Ai genitori dei bambini miei follower dico: meno male che seguono me e non altre zoccolone che ci sono in giro. Sono tutto fumo e zero arrosto».

Ossia?

«Sono fidanzata, non ho mai fatto le corna, non bevo alcol né l’ho mai bevuto, non ho mai fumato uno spinello, non mi drogo. Sono bravissima».

Nemmeno uno sgarro nelle serate in discoteca?

«Quando ci vado bevo solo acqua e sono fiera di questa cosa».

Il latte di soia che ha mostrato a The Voice?

«Lo bevo, assolutamente. Credo anche che sia stato quello zucchero a darmi un po’ alla testa in tv».

È andata in visita ai bambini dell’Ospedale Rizzoli di Bologna.

«Sì, non volevo neanche dirlo, ma quelli dell’associazione (Ansabbio, ndr) mi hanno spigato che la mia presenza serviva proprio a pubblicizzare l’evento, sennò non funzionava. Alora ho detto ok. Di solito faccio beneficenza ma non ne parlo. Il mio più grande sogno – e l’ho chiesto al mio fidanzato visto che a settembre, dopo il mio tour, abbiamo del tempo libero – è riuscire ad andare in Kenya ad aiutare i bambini orfani. In realtà vorrei proprio adottare una bambina africana».

Bisogna essere sposati.

«So tutto, e ci vogliono almeno tre anni… Ma io vorrei prima».

In un’intervista lei ha detto di volersi sposare con il suo fidanzato, il deejay olandese Afrojack, alias Nick van de Wall. Quando?

«È un desiderio, ma ora sono concentrata sulla carriera».

Non vedo anelli di fidanzamento.

«Il nostro è questo (solleva il polso destro, all’interno un piccolo tatuaggio, ndr). L’abbiamo entrambi».

Tra i tanti tatuaggi, anche le macchie di leopardo su sedere e spalla. Ora le ha mese anche nella sua capsule collection di costumi da bagno lanciata con Twinset.

«È il mio segno distintivo ormai, lo adoro».

Nick è un produttore molto importante e impegnato, come lei. Come fate a stare insieme?

«Ci vediamo spessissimo».

Quantifichi «spessissimo».

«Tutte le settimane. Prendiamo aerei e voliamo dall’altro. L’ultima volta io sono andata a Disneyland, a Parigi, perché lui stava lì. Oppure lui fa una serata a Dubai e io lo raggiungo, poi torno a casa. Lui deve andare da qualche parte, fa scalo a Miami, passa la notte con me e poi va via. Non riesce a stare senza di me per più di sei giorni».

È molto innamorato.

«E anche io».

È stato un colpo di fulmine?

«Più o meno. Ci siamo conosciuti a un festival. Poi lui mi ha detto di andare in studio da lui, per provare qualcosa. Sono andata e non abbiamo mai più parlato di musica».

Subito, la prima volta?

«Sì».

Lui è alto 2 metri e 8 centimetri.

«Per baciarlo mi arrampico, ogni volta rischio di spezzargli il collo».

È geloso?

«No, zero. Sono molto serena, pensi che stiamo insieme da quasi un anno – un recordissimo per me – e non abbiamo mai litigato».

In che lingua parlate?

«In inglese, ma sto iniziando a capire l’olandese. Ho una dote per le lingue, ho fatto il liceo linguistico, è lì che per la prima volta ho studiato lo spagnolo, la lingua del mio genere, il reggaeton».

Prima dell’attuale fidanzato aveva avuto storie importanti?

«No, ero single da molto tempo. Non è perché ho due tette e un sedere grosso che mi si deve giudicare “facile”».

Ha detto di essersi rifatta solo il seno.

«Preferirei non parlarne».

È sempre stata una ragazza prosperosa?

«Sì, mi dicevano che ero grassa perché mi sono sviluppata presto e avevo un seno grande. Poi l’ho un po’ perso perché sono dimagrita bruscamente di dieci chili».

Voleva dimagrire?

«Ma va’! Avevo fatto per un anno una dieta vegana troppo rigida, non ero stata seguita bene. A me non importa il giudizio degli altri, ho un carattere forte, uno deve stare bene con se stesso».

Da dove viene questo equilibrio?

«Non ne ho la più pallida idea. Mi dico: meno male che più vado avanti più non mi vengono voglie strane».

È più simile a sua madre o a suo padre?

«Non saprei, ho avuto tanti esempi. Come un’amichetta, a scuola, a quindici anni. Era molto carina. Era fidanzata con uno, ma, dopo un anno, non gliela aveva mai data. Questa cosa mi faceva impazzire: si sa che a quell’età si fanno i primi passi, e se non la dai i ragazzi ti mollano subito. L’ho imitata. I ragazzi che avevo li facevo aspettare sei mesi, poi li mollavo. Così capivo se stavano con me perché ero Elettra Lamborghini, o perché ci tenevano davvero. A Bologna lo sanno tutti che ero una “figa di legno”».

Essere «Elettra Lamborghini» era già un problema?

«Non ero ancora famosa, come oggi, che non posso uscire perché ho i bambini-fan che mi aspettano sotto casa… Ma già da ragazza ero un “personaggio”».

Avendo tanta disponibilità di denaro, che rapporto ha con i soldi?

«Da giovane ero “sborona”. Poi per fortuna, non sono una cretina, sono rimasta umile. Oggi non me ne frega più una mizzega, sono diventata molto più spirituale e ho trovato la felicità in altre cose».

Per esempio?

«Ho ritrovato il rapporto con Dio, ma preferisco non parlarne troppo. In generale, se uno mi invita fuori a cena, preferisco un picnic con un bel panorama al ristorante di lusso».

Lei ha detto di essere bisessuale: conferma?

«Assolutamente sì. Infatti Nick è una cosa a parte: stando con lui ho capito che non mi interessano tanto gli uomini, mi innamoro della persona, non del sesso».

Si sente felice?

«Ormai sto così bene nel mio minimal...».

Che cos’è il suo «minimal»?

«Sto bene nel nulla. Ripeto: se fosse per me io mollerei tutto e andrei in Africa. Ho già fatto tutto e visto tutto nella vita, ho 25 anni ma mi sento vecchissima. La vita è fatta di aspettative: uno si immagina di voler arrivare a una cosa bella, una volta che ci sei dentro ti rendi conto che fa cagare. Quindi vuoi tornare a spalare la merda dei cavalli, che forse è meglio».

Elettra Lamborghini: «Io e Morgan? Come cane e gatto». Pubblicato lunedì, 03 giugno 2019 su Corriere.it. Ha 25 anni Elettra Lamborghini e ha indiscutibilmente una simpatia contagiosa. Sarà per quell’accento bolognese, per quella irruenza naturale, e per quei modi sinceri e sfrontati frutto anche di una vita molto più che agiata. In tanti hanno storto il naso quando hanno sentito il suo nome come coach di The Voice, l’hanno ritenuta poco adatta a giudicare e a insegnare musica ai ragazzi. Ma va ammesso che per l’età che ha, il suo curriculum non è brevissimo: in tv ha cominciato al Chiambretti Night, poi ha preso parte a #Riccanza sulla vita dei giovani milionari in Italia, e ha partecipato al Grande fratello spagnolo. Poi il suo primo singolo Pem Pem, subito disco di platino. Ma più che il curriculum ha vinto la sua empatia: corre spesso ad abbracciare i ragazzi, si vede che ha paura di ferirli e non dà mai giudizi affilati, scherza con i suoi colleghi coach con una dose anche di umiltà.

Elettra, cominciamo da The Voice. Martedì c’è la finale. Può compiere un primo bilancio. Che esperienza è stata?

«Molto impegnativa. Diciamo che The Voice mi ha catapultato nel mondo del lavoro vero e proprio. E’ vero che ho già fatto tv, ma questo programma è un’altra cosa. Sono super soddisfatta anche perché la Rai non ha un pubblico facile per una come me, esuberante e certo diversa dal canone della tv pubblica. Vedere il pubblico così entusiasta per la mia interpretazione mi ha riempito di gioia».

Secondo lei come è riuscita allora a conquistare il pubblico?

«Perché sono me stessa. Tutti dovrebbero essere come me: pura e sincera. Dico quello che penso. Del resto, te ne rendi conto subito quando uno non è sincero».

Ha molto colpito anche la perfetta alchimia dei 4 coach (Gigi D’Alessio, Morgan, Gué Pequeno e lei).

«Un team perfetto. Dopo la notizia che non ci sarebbe più stato Sferra e Basta ero molto molto preoccupata. Mi sono detta: e ora chi lo sostituisce? Poi è arrivato Gigi D’Alessio, una vera manna dal cielo. Siamo una famiglia e ci troviamo bene. Non ci sono stronzi in mezzo».

Un giudizio su ciascun giurato. Gué Pequeno.

«Lo conosco da tanto tempo, è un amico e una icona rap. Ed è anche un bravissimo ragazzo dal cuore d’oro».

Gigi D’Alessio.

«E’ una bella persona, è un po’ il papà della situazione. È molto alla mano, ironico».

Morgan.

 «Non lo conoscevo, ogni tanto qualche scazzo c’è stato. Siamo cane e gatto. Ma c’è molto rispetto tra noi».

Lei ha detto fin dall’inizio che sarebbe stata attratta dai timbri particolari, non dalle grandi voci.

«Se avessi dovuto scegliere quello con la voce meravigliosa e perfetta avrei creato un infelice ed è quello che non volevo»

Elettra è la nipote di Ferruccio Lamborghini, fondatore dell’omonima casa automobilistica. Ha 4 fratelli: Ferruccio, come il nonno, Flaminia, Lucrezia e Ginevra. Che rapporto ha con loro?

«Un bellissimo rapporto, siamo molto legati. E io voglio proteggerli. Per questo non voglio parlare di loro».

E’ fidanzata con il dj olandese Afrojack. E’ vero che state già pensando al matrimonio?

«Col mio ragazzo stiamo bene ed è vero: stiamo già pensando al matrimonio. Io credo molto nella famiglia. È un ragazzo d’oro e non se ne trovano facilmente».

Come mai ha scelto di fare televisione tra le tante opzioni possibili?

«Mi è sempre piaciuta. Mi trovo a mio agio a stare a contatto con le persone. Mi piacciono molto i programmi di musica. Ricevo un sacco di commenti: “Grazie perché mi tiri su la giornata” e mi fa molto piacere».

Se potesse scegliere un programma da condurre?

«Uno tutto mio con i ragazzi che hanno problemi di autostima o problemi alimentari. Un programma per aiutarli».

Lei è giovanissima: guarda la tv?

«Non la guardo effettivamente».

Fece discutere il programma «Riccanza» che raccontava la vita extra lussuosa dei giovani milionari italiani.

«Non ne voglio parlare».

Su Instagram ha 3,9 milioni di follower. Una ragazza molto social.

«In realtà dovrei essere più attiva: se non mi va di postare, non posto. Lo so che ho un potenziale enorme, ma non mi va di farlo tutti i giorni».

Cosa le dicono / chiedono i followers?

«Di tutto Da “Vorrei essere la tua migliore amica” a “Grazie perché mi fai stare bene».

Lei ha di recente raccontato di essersi avvicinata alla Chiesa. Ha una forte spiritualità e va spesso in chiesa.

«E’ vero ma è una cosa mia e non ne voglio parlare».

Ma lo ha raccontato lei!

«Lo so, ma poi vederlo scritto su tutti i giornali mi ha dato fastidio».

Il 14 giugno è una data importante per lei.

«Sì, esce il mio nuovo album “Twerking queen” e terrò un concerto a Milano. Sono carica e non vedo l’ora. Provo tutti i giorni. Perché io faccio coreografie, ballo e canto. Non c’è nessuno come me in Italia».

Da dove prende ispirazione? C’è qualche cantante che è stato il suo mito?

«La fonte di ispirazione è solo me stessa. Io ho sempre ascoltato reggaeton e mi piace molto la musica latina. Il mio primissimo concerto è stato Tiziano Ferro che secondo me è un genio. Lo adoro. Come adoro Sfera e Gué, ma io non sono una da concerti. Non ci vado mai».

Che progetti ha?

«Sono imprevedibile, guardate, state attaccati e reggetevi forte».

·         Frankie Hi NRG.

Da I Lunatici Radio2 il 27 giugno 2019. Frankie Hi NRG è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Frankie ha parlato dei rapper e i trapper di oggi: "Con una forma diversa, più contemporanea rispetto a quanto accadeva una volta, anche dieci o quindici anni fa i temi di una bella fetta della musica erano sesso, droga e rock. Ora vengono declinati con una forma differente, con un approccio diverso, si parla di soldi in modo differente rispetto a quando lo faceva 50 cent, ma neanche troppo diversamente se andiamo ad analizzare i testi. Quello che fa scalpore è che venga fatto in italiano. Visto che molti italiani non capiscono l'inglese non si rendevano conto di ballare o essere fan di temi scomodi o contraddittori, per questo molte persone oggi sono stupefatte. Mi fa un po' sorridere questo stupore. La forma dei trapper è contemporanea, diversa, frammentata, perché oggi è tutto frammentato, anche il cinema non viene visto come una volta. Il trap porta dei contenuti che meritano di essere ascoltati e compresi, perché all'interno hanno una complessità assai maggiore di quella che sembra trapelare da una forma così scarna". Frankie Hi NRG ha parlato poi del suo più grande successo, 'Quelli che benpensano': "Chi sono oggi quelli che benpensano? Quelli che lo erano nel '97, quando è uscita quella canzone. Spesso i loro figli, i loro nipoti. Non è una categoria che è andata scemando, anzi. Si è andata impolpando. La quantità di persone che hanno bisogno di accessori placcati oro anche se è oro finto è diventata davvero grande. E non semplicemente perché sono dotati di un gusto pessimo, ma perché l'ignoranza è stata riconosciuta sempre di più come un valore, gli intellettuali vengono considerati dei parassiti della società e c'è una diffusa acredine nei confronti di chi ha argomentazioni diverse dai diktat di cui si è portatori. Quelli che benpensano sono diventati più poveri e un po' "je rode er culo" per questo. Come nacque quella canzone? Mi sono trovato in un paese della bassa pavese a fare un lavoro di volantinaggio dentro alle cassette della posta e l'osservazione di quel luogo, con tutte queste case identiche, con il giardinetto davanti, le serrande abbassate, apparentemente disabitate, con persone dentro questi scrigni tutti dorati ma cheap. La canzone è nata fantasticando su chi potessero essere gli abitanti di questa città fantasma. Sembrava tutto finto e quella finzione mi ha fatto fantasticare sull'ideale finzione degli abitanti di quel luogo".

·         Arisa

Arisa:«Credetemi, ho cambiato molti lavori, si impara dagli errori». Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Irene Consigliere su Corriere.it. Tutte doti alle quali ispirarsi durante il cammino professionale: «Se si fallisce una volta, non bisogna certo abbattersi ma continuare a provarci, senza scoraggiarsi subito». Certo, poi le situazioni possono cambiare e per questo è importante non trascurare mestieri alternativi e avere un «piano B». Se invece si riesce a salire oltre i primi gradini, si deve anche imparare a fidarsi dei propri collaboratori e saper delegare. Nata a Genova 36 anni fa, ha vissuto fino a 19 anni in Basilicata. Il padre autista di autobus, mentre la madre per un periodo è stata rappresentante per un marchio svizzero di prodotti di bellezza e sporadicamente ha fatto anche qualche lavoretto di pulizia per dare una mano alla famiglia, composta da altre due sorelle. Dopo il liceo pedagogico si è iscritta alla facoltà di lettere moderne all’Università Statale di Milano. Ma il canto, sin da bambina, è sempre stato al centro della sua vita. «Mia zia Lucia mi ha portato a fare il primo concorso canoro all’età di tre anni» racconta. «Non volevo pesare sui miei genitori che comunque avevano già fatto tanti sacrifici per mandare avanti la nostra famiglia e così per mantenermi anche agli studi dopo il liceo ho cominciato a fare diversi lavori: a partire dall’estetista, un mestiere che mi è sempre piaciuto moltissimo. Truccavo le future spose, sono brava fare manicure e pedicure e chissà, un giorno potrei anche laurearmi in medicina estetica, mi piacerebbe» continua Arisa. I primi tempi a Milano non sono stati facili: l’affitto da pagare era un fardello non da poco, così come mettere insieme pranzo e cena. Ecco quindi il lavoro da cameriera in un locale notturno, dove dopo aver servito ai tavoli aveva anche l’opportunità di cantare, e poi in una pista di go-kart. Ma i «mestieri» attraversati sono stati tanti: non solo estetista, anche parrucchiera, baby-sitter, commessa in un supermercato e soprattutto abile ad arrangiarsi in ogni situazione. Ironicamente ammette: «E’ vero che sono nata per fare la principessa, ma se ce ne fosse bisogno farei anche la contadina. Quando ci siamo conosciuti un mio fidanzato si è molto meravigliato del fatto che fossi in grado di spostare le pietre». All’inizio della sua vita universitaria milanese, Arisa era davvero in difficoltà: «Mio padre, da uomo del Sud, in principio sperava, in un certo senso, che mi scoraggiassi e che tornassi. Anche se lui ci ha sempre tenuto davvero tanto che riuscissi a realizzare il mio sogno nel cassetto». Poi l’anno della vera svolta. Quando? Nel 2008 vince la gara delle giovani proposte al Festival di Sanremo. La sua canzone «Sincerità», è diventata ormai un ritornello nella testa di tanti. Nello stesso anno partecipa come ospite fisso al programma «Victor Victoria» con Victoria Cabello. Il ritorno al Festival è nel 2010 con «Malamorenò». Un anno importante è anche il 2011 nel corso del quale è giudice alla quinta edizione di «XFactor» e debutta come attrice nel film «Tutta colpa della musica», diretto da Ricky Tognazzi e presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. È giudice a Xfactor anche nel 2012, anno in cui è protagonista della commedia «Colpi di fulmine» ed esce il cartone «Un mostro a Parigi» dove esordisce come doppiatrice. Debutto anche da scrittrice con il romanzo «Il Paradiso non è un granché» edito da Mondadori. La consacrazione arriva nel 2014, con la vittoria a Sanremo con «Controvento»(l’album «Se vedo te»). E poi è persino conduttrice insieme a Carlo Conti e alla collega Emma del Festival del 2015. Il resto è storia recente: nel 2017 collabora con Takagi e Ketra per il singolo, certificato tre volte disco di platino, «L’esercito del selfie». Il singolo ha raggiunto di recente 126 milioni di views su YouTube. Nel 2019 torna a Sanremo con «Mi sento bene» e ora è in radio con il singolo di successo «Tam tam» tratto dall’album «Una nuova Rosalba in città». Rosalba, per inciso, è il suo nome di battesimo. Ma la nuova Arisa- Rosalba com’è e quali consigli si sente di dare a chi parte dal basso come ha fatto lei? «La nuova Arisa è più tranquilla, più sicura di sé stessa. Mi preoccupavo della carriera ma ora ho la fortuna di avere intorno diverse persone che mi assistono e si preoccupano per me, anche se alla mia età sento comunque di avere ancora tanto da imparare». Insomma, anche arrivati a un certo livello «e anche se bisogna essere sempre consapevoli di quanto si vale, è importante non farlo pesare agli altri. Fondamentale è anche mantenere sempre una “bolla” separata per la propria vita privata, capire che cosa realmente si vuole realizzare e avere l’appoggio e il sostegno della propria famiglia». Arisa, che ha cominciato il suo tour estivo il 15 giugno, tra i diversi appuntamenti, sarà prossimamente il 30 giugno ad Anzio in Piazza Battisti, l’8 luglio a Bormio, alla Sala Terme, Bormio Terme, e il 7 agosto a Marina di Pietrasanta alla Versiliana Festival, il 14 agosto a Sanremo al Roof Garden Casinò, il 9 settembre a Magliano (Le), in Piazza degli Eroi.

Luana Rosato per Il Giornale  il 20 luglio 2019. Lo ha fatto ancora una volta, come di consuetudine da 22 anni a questa parte: Arisa ha deciso di rasarsi i capelli e si è mostrata, orgogliosa, sui social con il nuovo look. Già in passato, la cantante aveva spiegato i motivi per i quali taglia periodicamente la chioma, scegliendo sempre di accorciare moltissimo i capelli. Criticata da alcuni utenti della rete per gli hairlook scelti, Arisa – al secolo Rosalba Pippa – aveva raccontato: “Ecco perché non mi faccio mai crescere i capelli, quando ce li ho, me li stacco”. L’artista due volte vincitrice del Festival di Sanremo, infatti, soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo denominato tricotillomania, che porta a strapparsi i capelli involontariamente e che è spesso causato da stress. Proprio per questo motivo, dunque, Arisa è tornata a rasarsi, lanciando un messaggio ben preciso a coloro che, come accade sempre più spesso, sarebbero stati pronti a condannare la sua decisione senza andare in fondo alle cause che determinano alcune scelte. “Sì, ho coraggio – ha scritto Arisa in alcune Instagram story nelle quali ha mostrato il suo nuovo look - .Anche paura...ma più coraggio”. La cantante, quindi, ha invitato coloro che avrebbero voluto criticarla a scavare più a fondo, nel suo animo, senza pensare solo alla sua immagine. “Mi raso da quando avevo 22 anni, se non ti piaccio prova ad amarmi per quello che sono dentro – ha continuato lei - . E fai così con tutte le persone che incontri. Provaci almeno”. Gli hater avranno compreso il suo gesto o, ancora una volta, avranno deciso di criticare e giudicare senza andare oltre le apparenze?

·         Annalisa

Annalisa: «Gli animali ci migliorano la vita, non potrei mai farne a meno». Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Alessandro Sala su Corriere.it. Gli animali li ama da sempre. Fin da quando era piccola e viveva in un piccolo paesino della Liguria è stata abituata a vivere con dei quattrozampe attorno. E anche adesso che è famosa e che la sua vita è ricca di impegni e di apparizioni, non rinuncia a condividere la casa con un cane e un gatto, chiedendo un piccolo aiuto al padre per accudirli quando gli impegni artistici la tengono lontana per molti giorni. Annalisa la sua vocazione animalista l’ha manifestata in tante occasioni — e il tatuaggio di un micio con la coda attorcigliata che ha sul lato sinistro del collo è un altro, chiarissimo indizio —, e lo ha fatto anche nei giorni scorsi, registrando il video del suo ultimo brano «Avocado Toast», quando ha convinto il regista a inserire anche un cane nella sceneggiatura. Ma non un cane qualunque, magari con il pedigree di una delle razze più trendy. Ha voluto invece che fosse un ospite del Parco Rifugio Canile Gattile di Milano, dove noi l’abbiamo incontrata, in modo che di questa oasi verde alla periferia est di Milano — e di tutte le strutture che in ogni angolo d’Italia svolgono la stessa importantissima funzione — fosse una sorta di ambasciatore.

Questo è un posto che conosci bene, ci sei stata in diverse occasioni...

«Sono sempre felicissima di venire qui, è un posto veramente bello. E inviterei tutti quelli che possono a venire a farsi un giro. Intanto potrebbero incontrare Darby . E poi tantissimi altri amici». 

Come è nata l’idea di inserire un cane nel video?

«La sua presenza è legata al contenuto della canzone, che racconta me stessa e quindi il mio modo di vivere la famiglia e l’intimità. In questo mio mondo ci sono anche gli animali di casa. Ho approfittato di questa canzone e ho voluto coinvolgere Darby e simbolicamente tutto il Parco canile di Milano, perché questo è un periodo delicato, in cui aumentano gli abbandoni. Questo rifugio è un posto molto bello, pieno di cani e gatti che stanno solo aspettando qualcuno che si accorga di quanto sono meravigliosi. Qualcuno che deve ovviamente essere altrettanto meraviglioso. Gli animali ci migliorano l’esistenza, la mia l’hanno sicuramente migliorata. Noi possiamo dare molto a loro, ma sicuramente sarà sempre meno di quello che ne possiamo ricevere in cambio». 

Qualche maligno potrebbe pensare che oggi va di moda essere animalisti, soprattutto se si è personaggi noti. Tante star in questo periodo hanno fatto appelli pro-animali...

«Sono convinta che non sia una moda o un gesto costruito a tavolino per catturare like. Chi si spende per gli animali lo fa con il cuore, la testa, l’intelligenza e la sensibilità». 

Fra tanti cani che ci sono al canile perché hai scelto proprio Darby?

«Vogliamo parlare di quanto è brava? Basta guardarla per rendersi conto di quanto è meravigliosa… Però, al di là dell’intesa che si è creata e del fatto che me ne sono innamorata, era importante la sua storia, che mi ha molto colpito. E’ stata in famiglia per alcuni anni, poi arrivata in canile per una situazione difficile che si era venuta a creare. Inoltre è importante dare un altro messaggio, ovvero il fatto che i cani non più giovanissimi hanno un sacco d’amore da dare. Possono essere più tranquilli, hanno già imparato un sacco di cose, sanno cosa vuol dire stare in casa. Insomma, sono perfetti per un’adozione». 

La storia di Darby è purtroppo la storia di molti degli ospiti di questo luogo...

«Vero, ma possiamo anche guardare le cose con ottimismo e positività per il futuro. Invito le persone ad informarsi, a fare un giro qui, è un posto fantastico, dove i cani stanno bene, vengono educati, portati a spasso. Ad accudirli ci sono molti professionisti. Quando questi animali vengono adottati sono davvero pronti per esserlo. Vorrei regalare un grosso in bocca al lupo a Darby e a tutti i cani e i gatti e gli altri amici che sono qui in attesa di una famiglia. E a tutti direi: godiamoci l’estate, ma insieme ai nostri amici animali».

·         Emma Marrone.

Dagospia il 12 dicembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Emma è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino.

La cantautrice ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? Dipende dai periodi. Ce ne sono alcuni in cui alle 21 crollo e altri in cui il sonno non arriva mai, quindi passo le nottate a leggere, ascoltare musica, guardare serie televisive. Dopo i concerti, poi, prima delle quattro non si va mai a dormire. Il segreto del mio successo? Non lo so se esiste. Adoro avere un pubblico trasversale, eterogeneo. Io faccio tutto in modo istintivo e naturale. Non uso tattiche. Forse quello che sono arriva ai bambini e agli adulti. Sono me stessa sempre, nel bene e nel male, anche quando faccio cose che non convincono. Forse il segreto è proprio questo, essere se stessi. Da bambina ero pensierosa, sempre un po' tra le nuvole, un po' malinconica, ma anche coraggiosa, determinata. Imponevo il mio pensiero, non mi facevo condizionare dagli altri. A scuola me la cavavo bene, ero brava, non volevo essere impreparata, non mi andava che i miei compagni avessero un qualche piccolo motivo per prendermi in giro".

Sul rapporto con i genitori: "All'inizio erano un po' spaventati. Ma è normale quando ti ritrovi una figlia che si sveglia un mattino e ti dice che vuole fare la cantante. Poi al Sud questo mondo sembrava lontanissimo, sembrava un universo parallelo. Erano spaventati, ma non mi hanno mai ostacolata. Sono molto discreti, questo è fondamentale".

Sul suo stato di salute: "Sto bene, ho ancora quella sensazione di fifa, è stato un momento abbastanza tosto, ma grazie a Dio è andato tutto bene, meglio di così non poteva andare. Quando passi attraverso determinate porte non puoi tornare indietro, ma puoi guardare avanti con una visione completamente diversa. Io sono diventata ancora più fragile, ancora più sensibile, ma lo vivo come un miracolo, non come un impoverimento". Sta per uscire il film di Muccino, in cui avrà un ruolo da attrice: "Esperienza incredibile. Molto faticosa, è un ambiente diverso dalla musica, non avevo mai recitato, non avevo termini di riferimento. Non sapevo se stavo facendo bene o male, però ho seguito l'istinto e mi sono totalmente affidata a Gabriele Muccino. Tutti sono stati carini e gentili con me, è stata una esperienza meravigliosa, ho vissuto una seconda vita che mai avrei pensato di poter vivere. E' stato pazzesco".

Sul rapporto con i fan e i social: "I feticisti sono i miei fan preferiti, ogni tanto mi chiedono le foto di piedi e qualche volta gliele mando, perché non ci vedo niente di male. Sono sempre gentili. Ogni tanto c'è qualcuno che ha problemi di fama e pensa che insultando la gente o mortificandola possano essere meno frustrati".

Emma Marrone a Le Iene: “Il difetto di Maria De Filippi? Il suo bassotto”. Le Iene il 6 novembre 2019. Nel suo ultimo disco “Fortuna” c’è anche il singolo scritto per lei da Vasco Rossi. Emma Marrone si racconta a Le Iene in una lunga intervista parlandoci anche della malattia, di fan e hater e dei segreti su come fare colpo con lei. “Appena sai queste notizie ti incazzi, piangi e hai paura”. Così ha reagito Emma Marrone alla notizia della sua malattia. “Oggi sto bene, ma ho ancora paura di stare male. Cerco di vivermela al meglio tutti i giorni”, ci dice. Qualche anno fa ha deciso di rivelare al mondo anche questa parte della sua vita: “Mi ero resa conto quanto fosse importante lanciare il messaggio della prevenzione. Ho scoperto che non stavo bene da una visita di controllo e da lì sono partite tutta una serie di cose che mi hanno un po’ destabilizzata. Mi hanno afflitta tantissimo, però mi sono messa in piedi il prima possibile”. Così affronta al 100% le giornate: “Ora sono più folle di prima. E mi mangio la vita a morsi”. Ha 35 anni “ma dentro me ne sento dieci in meno, fuori a volte anche 68”. Adottata dal Salento ma nata a Firenze, ha venduto più di 1 milione di dischi. L’ultimo si chiama Fortuna, è uscito il 25 ottobre ed è  già arrivato in testa alla classifica Fimi degli album più venduti. L’ultimo singolo, “Io sono bella”, l’ha scritto per lei Vasco Rossi (“un mito, sexy, intelligente e puro”). E Emma come si vede? “Dipende dai giorni, però mediamente sono carina. Tanto che non mi rifarei, anche se da adolescente non andavo d’accordo con il mio corpo perché avevo delle bocce enormi!”.  Con lei facciamo le pagelle d’importanza delle cose. Avere una bella faccia: 6, una bella voce: 10, un bravo manager: 11, un Instagram che funzioni: 5. E un gossip che faccia parlare di te: “Non lo amo. Quando parlano di me non è per mia volontà”. Per Emma può contare tanto invece vincere X-Factor o Amici (fatto!) e soprattutto il Festival di Sanremo (fatto!): “È una bella soddisfazione”. Andare a letto con qualcuno che conta? “Non l’ho mai fatto, ma se si va a letto e si continua a non avere talento, si è solo fatto una scopata”. Emma ci racconta che ha iniziato facendo la cameriera, ha scaricato scatoloni in un magazzino e ha anche assistito anziani. I primi soldi guadagnati? “Li ho usati per comprare un’auto nuovo a papà, così avrei avuto vicino i miei genitori”. A una ragazza che vuole diventare Emma Marrone cosa consiglia? “Non fidarti di quelli che diranno che non ce la farai mai. A me un sacco di volte mi hanno detto che non valevo un cazzo. E proprio grazie a loro che sono qui: mi hanno dato la voglia di dimostrare il contrario”. Ora è single, “forse perché sono troppo intelligente e gli uomini si spaventano”. Sesso per la prima volta? A 21 anni. “Me la sono presa comoda”, ma non si ricorda l’ultima volta. E le fa pure piacere essere un’icona gay, tanto da ricevere avances sia dagli uomini che le donne: “Le amo sono in un senso mentale per la loro protezione, non sono attratta”. Ci confessa anche il suo primo appuntamento ideale: meglio un invito a cena che al cinema, meglio giacca e cravatta che scarpe da ginnastica, petto villoso (ma non troppo!) e soprattutto meglio intelligente che famoso e sconosciuto. E l'importante è che offra lui "perché se chiede di dividere, pago il conto e lo depenno per tutta la vita!". Assolutamente bacio subito e forse anche altro: “Se se la merita anche sì”. Tra viagra e cilecca, meglio quest’ultima: “Perché se poi si sente male è panico totale! Meglio cilecca che almeno la situazione diventa più simpatica”. In questi anni si è trovata anche a dover affrontare gli stalker: “Non basta lo spray al peperoncino nella borsa, che ho sempre. Per fortuna non sono mai stata molestata fisicamente, anche perché avrebbe fatto una brutta fine”. Con noi parla anche dei fan: “Io faccio stare bene loro e loro fanno stare bene me nei momenti più difficili”. L’altra faccia della medaglia però sono gli hater. “Mi hanno scritto che meritavo di morire di cancro. Mi hanno fatto incazzare perché ho pensato a chi di cancro è morto per davvero”. E proprio gli hater l’hanno attaccata per le sue idee politiche: “Tra Salvini e Renzi? Nessuno dei due”. Ci dice anche il lato che preferisce di Maria De Filippi: “Una persona molto vera e onesta”. Il lato negativo ha quattro zampe: “Si chiama Filippa, è un bassotto. Non la sopporto, perché tutte le volte che vado a casa sua mi ringhia!”. 

Sara Faillaci per F il 30 novembre 2019. Emma Marrone dal vivo sembra molto più giovane dei suoi 35 anni. Ed è così minuta che ti chiedi come tanta grinta e forza possano essere contenute in quel corpo all’apparenza fragile. Due mesi fa, quando si apprestava a uscire con il nuovo album, Fortuna, su Instagram ha scritto: «Succede. Da lunedì mi devo fermare per affrontare un problema di salute. Adesso chiudo i conti una volta per tutte con questa storia e poi torno da voi. Vi prometto che tornerò più forte di prima!». Poche semplici parole per dire ai fan che la malattia (dieci anni fa aveva avuto un tumore all’utero) era tornata ma lei l’avrebbe combattuta e avrebbe vinto anche quel secondo round. E così è stato. Nemmeno venti giorni dopo era a fare la promozione, su e giù dall’Italia senza mai fermarsi, con un calendario del 2020 stellare visto che riprenderà a esibirsi live: il 25 maggio all’Arena di Verona festeggerà il suo compleanno e i dieci anni di carriera; poi inizierà il tour Fortuna con 9 date a ottobre nei palasport delle principali città italiane. Quando la incontro i suoi occhi brillano, la prima cosa che mi dice è che si sente fortunata.

Fortunata?

«Ho un gran culo perché dopo un mese ero già a presentare il mio disco. Mentre ci sono ragazzine che hanno combattuto il triplo di me e adesso sono sottoterra. Quindi, di che cosa stiamo parlando?».

Che idea ha della fortuna?

«Non esiste. Le cose accadono ma poi tutto dipende da noi, da come reagiamo».

E la fede? Ce l’ha?

«Credo in Dio, che si chiami Buddha o Allah poco cambia. Credo che il corpo sia energia e ne attiri di positive o negative a seconda di come ci relazioniamo con gli altri. Credo nei morti che continuano a starci vicino, altrimenti nulla avrebbe senso».

Vasco per questo album le ha scritto una canzone, Io sono bella, che recita: “Sono stanca di essere come mi vogliono tutti, sono stanca di vivere come vorrebbero gli altri”. Ha detto che queste parole gliele ha lette nella mente.

«Veramente è stato lui a fare tutto. Mi teneva d’occhio, gli piaceva il mio animo ribelle. Essere famosi ti porta a vivere secondo le aspettative degli altri e non per quello che sei. L’ho provato all’inizio della carriera ma già da bambina volevo sempre fare tutto bene e non deludere nessuno».

Primogenita?

«Sì, ma non è qualcosa che mi hanno trasmesso i miei genitori. Non volevo fallire ma c’è sempre un margine di errore. Poi si cresce e oggi mi ritrovo perfettamente nelle parole della canzone: voglio essere libera».

Invece mai come adesso le ragazze vogliono adeguarsi a modelli estetici estremi e irraggiungibili.

«A loro dico sempre: nutrite la testa con i libri, la cultura, questo vi renderà molto più attraenti. A 20 anni tutte vogliamo piacere, fa parte della nostra natura di donne.

Il problema è quando diventa un’ossessione. Quando, per piacere agli altri, ti trasformi e quindi stai amando più gli altri di te stessa. Invece bisogna volere bene al proprio corpo e fare delle imperfezioni un punto di forza. Stravolgersi i connotati con la chirurgia non ti rende più bella, ma solo uguale agli altri».

Mai avuto la tentazioni di ritoccarsi?

«Mai. Sono cresciuta in una famiglia quasi matriarcale, dove il modello era mia madre, una donna fortissima. Non è una donna “oggetto”, che deve essere sempre truccata e pettinata. Crescendo sono diventata più sicura di me: a 20 anni non esci struccata, a 35 te ne freghi».

All’inizio della sua carriera però non aveva un look molto femminile.

«Mi mortificavo con cranio rasato, jeans e chiodo, perché volevo piacere per il talento. La bellezza è fragile: ci sarà sempre una più bella di me. Io invece voglio essere apprezzata per come canto, per come comunico i miei valori, che spero mi rendano unica nel mondo della musica».

Eppure è successo anche a lei di essere attaccata per il suo aspetto fisico.

«Tante volte e molto spesso, purtroppo, dalle donne. Ci vorrebbe più solidarietà femminile. Non mi toccano certi commenti. Ma davanti all’articolo di un  noto giornale che sottolineava come non fossi in forma per l’estate, mi sono chiesta se quel direttore si sia mai reso conto della gravità di quello che ha pubblicato. Io al mare mangio e bevo, non mi interessa rientrare in certi canoni di bellezza. Avrò più ritenzione delle altre ma sono felice».

Gli uomini che ha avuto come compagni, invece, come l’hanno fatta sentire?

«Gli uomini che sono stati con me ci sono stati, spero, per la mia testa, per come li ho amati, perché li ho fatti sentire importanti e perché sono una persona molto sincera e molto dedita all’amore. Non hanno mai avuto niente da ridire sul mio corpo altrimenti li avrei presi a schiaffi».

Social network: pro e contro.

«Ormai sono parte della nostra società, il problema è utilizzarli bene. Basterebbe inserire nelle scuole un’ora di educazione per spiegare ai ragazzi come sfruttarli al meglio e come difendersi dai pericoli. Le cose belle sono tante: si può condividere un pensiero, un libro, un film con milioni di utenti».

Crede che l’abbiano aiutata ad aumentare la sua popolarità?

«Penso di sì. Li seguo personalmente, sono io a postare quando voglio e come voglio. Quello che serve oggi è la certificazione: se vuoi usare i social devi mandare i tuoi documenti ed essere identificabile, devo sapere chi sei».

Lei ha usato i social per dire ai suoi fan che aveva un problema di salute. Perché?

«L’ho fatto perché dovevo cancellare degli impegni di lavoro, se non l’avessi detto avrebbero potuto pensare a una mossa di marketing prima dell’uscita del disco e per me era inaccettabile. Quindi ho scelto di metterci la faccia. Se fosse successo in un altro momento, forse non l’avrei detto».

C’è chi come Nadia Toffa ha scelto di condividere tutto della malattia. Qualcuno pensa sia sbagliato.

«Io non ho mai detto che problema specifico ho avuto, perché penso che ognuno ha il diritto di tenere certe cose per sé. Ne parlai dieci anni fa perché volevo che le ragazze facessero prevenzione: i controlli annuali salvano la vita».

Lei all’epoca aveva 25 anni. Bisogna fare i controlli così presto?

«Sono figlia di un infermiere, quindi i controlli erano all’ordine del giorno. Mia madre poi aveva avuto un tumore ventenne ma, in ogni caso, penso sia importante per tutti controllarsi da subito. Detto questo, rispetto chi, come Nadia, ha scelto di parlarne nel dettaglio perché le malattie non devono essere un tabù. Bisogna però avere molto coraggio per farlo».

La malattia l’ha cambiata?

«Non ero nuova al problema... ma quando ti risuccede, sei sempre impreparata. Ti viene da dire: perché proprio a me? Poi però ho pensato ai bambini di 8 mesi negli ospedali. Invece di incattivirmi, credo che la malattia mi abbia reso più dolce. Adesso tutte le mattine mi sveglio con il buonumore. E sono diventata ancora più sensibile nei confronti del prossimo. Quindi sì mi ha cambiata, in meglio».

Dieci anni fa invece, quando l’ha scoperta per la prima volta?

«Ero solo una ragazzina. L’unica cosa che mi è rimasta era una grande paura, che mi sono trascinata fino a oggi. È l’esperienza che ti fa cambiare il punto di vista.

Ma non significa che oggi non ho paura: quella ce l’avrò sempre. Ma la combatto con la voglia di vivere, sembra banale ma non lo è. Adesso una bottiglia di vino ha un sapore ancora più buono».

Sua madre che cosa le ha detto quando avete saputo che il male era tornato?

«Niente, è bastato guardarci. Per la prima volta ho visto mia mamma piccola, veramente piccola. Finalmente ha dovuto accettare le sue debolezze e ho goduto. Perché si è sempre caricata le croci del mondo sulle spalle e non era giusto. Quello che le ho detto, con lo sguardo, è stato: “Basta, smettila, non può dipendere tutto da te. Una mamma non vuole vedere sua figlia in quelle condizioni in un ospedale, lo capisco e lo accetto, ma non puoi pensare che sia colpa tua. Mi hai dato la vita... mica hai messo al mondo una figlia rotta”».

Sarebbe pronta per una famiglia sua?

 «Non lo so. Ne parliamo tra amici, sarà l’età. Credo però che una donna sia donna anche senza bisogno di procreare. Ci sono tanti modi di essere madre, io sono materna quando mi accollo gli amici a mangiare e preparo per tutti. I figli dei miei amici poi mi si appiccicano proprio. Non lo so se sarò mamma, sinceramente. Certe cose non si possono programmare. Se lo sarò imparerò giorno per giorno da mio figlio come si fa, ma né la pancia né l’abito bianco sono mai stati i miei sogni».

E che cosa sognava da piccola?

«Volevo essere indipendente, avere potere decisionale per essere libera. Sono sempre stata una ragazzina atipica. Poi magari domani scappo in America con uno, mi sposo a Las Vegas e torno con tre figli adottati. Tutto può succedere».

Questa sua indipendenza pensa abbia condizionato i rapporti con gli uomini?

«Gli uomini sono molto più intelligenti di quanto crediamo. A volte ci stupiamo che stiano con una donna in un rapporto di comodo, magari senza passione, ma la verità è che le relazioni di oggi sono basate quasi tutte sul controllo. C’è molta paura di vivere un amore lasciandosi andare. Perché l’amore è bellissimo se ti va bene, ma se ti va male ti devasta. E non tutti hanno i coglioni per viverlo fino in fondo».

E lei ce li ha?

«Io se non posso vivere l’amore come lo intendo io, imperfetto e totalizzante, preferisco stare da sola. Ci vorrà magari un po’ più di tempo, ma sono convinta che troverò un uomo che la pensa come me».

Qualcuno, anni fa, insinuava che le piacessero le donne.

«Quando sui giornali si parlava della mia presunta omosessualità chiamai i miei. Mio padre mi rispose: “Che tu stia con un uomo o con una donna, non fa differenza. Conta solo che tu sia felice”. Io non ho mai avuto dubbi sulla mia sessualità: mi piace l’uomo. Amo le donne, la loro bellezza, la loro testa, ho uno staff tutto femminile, ma non ne sono attratta fisicamente».

Mai incontrati predatori alla Weinstein?

«No, se mi fosse successo l’avrei denunciato. Molto spesso le donne non denunciano non perché manchi loro il coraggio, ma perché servono soldi, per un avvocato, per una sistemazione diversa. Come fa chi campa con pochi euro al mese? Per questo non giudico chi non denuncia, devi metterti nelle vite degli altri. Ci vogliono strutture, aiuti. Io nel mio piccolo ci metto la faccia, vado a cantare insieme ad altre donne, lo faccio impiegando energie, tempo libero e non chiedo compenso».

Quest’anno compie 10 anni di carriera. Le sembrano tanti o pochi?

«Ogni anno azzero tutto per iniziare da capo. In questo modo per me è come se fosse sempre il primo giorno».

Cambierebbe qualcosa?

«Niente, nemmeno gli errori, le sofferenze e le coltellate perché senza non avrei imparato a scegliere le persone».

Il suo futuro lo vede sempre nella musica? Ha recitato nel nuovo film di Muccino.

«La musica è e resterà la mia vita. Recitare è un’esperienza che mi è stata offerta da Gabriele, non avevo mai fatto nemmeno una recita a scuola! Per tutto il tempo delle riprese mangiare e dormire non è stato facile: soffrivo perché non avevo termini di paragone e non sapevo se una scena l’avessi fatta bene, per di più accanto avevo attori bravissimi. Ma non sono il tipo che rinuncia davanti a una nuova sfida».

Calarsi nei panni di un’altra persona che effetto le ha fatto?

«Mentre cercavo di costruire la vita di Anna ho capito un sacco di cose della vita di Emma. Comunque Anna oggi non esiste più, non mi porto dietro il personaggio. Io sono Emma e felice di esserlo».

Emma Marrone: «Ho visto bimbi di 8 mesi negli ospedali e ho trovato la forza per battere la malattia». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Francesca Angeleri. «Ero solo una ragazzina. L’unica cosa che mi è rimasta è una grande paura, che mi sono trascinata fino a oggi (…). Non significa che oggi non ho paura: quella ce l’avrò sempre. Ma la combatto con la voglia di vivere». Emma Marrone, nonostante sia una giovane donna all’apice della sua carriera, non smette di mettersi in gioco e di stupire per il suo coraggio e la forza di vivere. La cantante si racconta in esclusiva sul settimanale F in edicola mercoledì 27 e coglie l’occasione per raccontare come ha affrontato il tumore che l’ha colpita per la seconda volta (dieci anni fa si ammalò di un cancro all’utero). «Non ero nuova al problema…ma quando ti succede, sei sempre impreparata. Ti chiedi: perché proprio a me? Poi però ho pensato ai bambini di 8 mesi negli ospedali. Invece di incattivirmi, credo che la malattia mi abbia reso più dolce. Tutte le mattine mi sveglio con il buonumore, sono diventata ancora più sensibile. Mi ha cambiata in meglio». «Fortuna» il titolo del suo nuovo album è quanto mai propizio, «Ho un gran culo - afferma la cantante senza peli sulla lingua - perché dopo un mese ero già a presentare il mio disco. Mentre ci sono ragazzine che hanno combattuto il triplo di me e adesso sono sottoterra». La sua forza la sua voglia di vincere sono state di stimolo anche a sua mamma cui bastò guardarla negli occhi per capire cosa stava succedendo: «Con lo sguardo le ho detto “basta, smettila. Una mamma non vuole vedere sua figlia in quelle condizioni in ospedale. Lo capisco e lo accetto (…). Mi hai dato la vita…mica hai messo al mondo una figlia rotta». Il 2020 potrebbe veramente rivelarsi l’anno di Emma che festeggia i primi dieci anni di carriera e che aprirà la stagione con un concerto-evento all’Arena di Verona il 25 maggio.

Emma Marrone, la sua "Fortuna" nasce nel bagno di un treno. Il retroscena. Emma Marrone ha rivelato ai follower come ha trovato la giusta ispirazione per la realizzazione della sua nuova musica, che ha preso vita su un treno Frecciarossa. Serena Granato, Sabato 09/11/2019, su Il Giornale. Dopo essersi concessa un ritiro dalle scene musicali per via di una recidiva del cancro, che l'ha colpita recentemente e che lei ha scoperto sottoponendosi a degli accertamenti, Emma Marrone è tornata a sorprendere i fan annunciando l'uscita del suo nuovo lavoro musicale, dal titolo Fortuna. Da quest'ultimo è estratto Io sono bella, il primo singolo del disco che porta la firma del rocker Vasco Rossi. E non è solo per la pubblicazione del suo nuovo lavoro, uscito il 25 ottobre, che l'artista fa parlare di sè. La cantante salentina nonchè ex concorrente al talent-show Amici di Maria De Filippi ha voluto confidare ai fan com'è nata la sua Fortuna, ovvero la canzone che porta la sua firma ed è omonima del nuovo album, che la contiene al suo interno. Attraverso il suo profilo personale Instagram, la Marrone si è lasciata andare al racconto di un aneddoto, che molti considerano esilarante. Nella sua confessione regalata ai fan, Emma ha infatti fatto sapere di aver trovato l'ispirazione giusta -per la realizzazione della traccia Fortuna- mentre era a bordo di un treno e di aver dato alla luce questa sua "title-track" ( la canzone che dà il titolo all'album, ndr) nel bagno dello stesso treno in cui stava viaggiando, un Frecciarossa. E l'aneddoto raccontato da Emma ha conquistato in pochi minuti il popolo del web, facendo incetta di like, commenti e condivisioni sui social-media. “Spettinata… struccata… in giro per chissà dove…-queste sono le parole che Emma Marrone ha riportato nella descrizione di un post contenente i suoi due ultimi video condivisi su Instagram-, ma con il quaderno e la penna sempre in borsa”. “Perché un viaggio in treno a volte può trasformarsi in qualcosa di più- prosegue tra le sue ultime righe destinate ai fan l'interprete, che ha così voluto mostrare le esclusive immagini del momento in cui ha iniziato a realizzare la sua nuova musica -. E le parole spesso mi vengono a trovare quando meno me lo aspetto. Era il 4 luglio e Fortuna non era più solo un pensiero. Stava diventando la mia canzone".

La reazione al retroscena di Emma Marrone. "La fortuna non esiste, esisti solo tu", canta Emma Marrone nella canzone che ha scritto di suo pugno sul Frecciarossa preso durante la scorsa estate. Una canzone, Fortuna, che segna una crescita, soprattutto dal punto di vista personale, della cantante che ad Amici 18 si era rifiutata di ricevere in dono un mazzo di rose rosse giunte per lei in studio da Alberto Urso, per via della scaramanzia e in quanto non amante delle stesse. "Mi portano sfortuna", aveva confidato sulle rose rosse e in quella particolare circostanza Emma, mentre era ospite al talent show di Canale 5. Ma adesso Emma non crede più nella fortuna e quindi neanche nella sfortuna, tanto che nelle vesti di ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa ha accettato il mazzo di rose rosse ricevute a fine ospitata come omaggio floreale. E sotto l'ultimo post rivelatorio di Emma, ovvero quello del divertente retroscena concernente la realizzazione del suo ultimo album, si leggono molteplici commenti tra cui quello riportato dall'account Frecciarossa, una categoria di servizio dei treni dell'impresa ferroviaria italiana Trenitalia: "Ciao Emma, siamo contenti che il viaggio in treno ti abbia ispirata! Ti aspettiamo ancora a bordo, con quaderno e penna".

Emma bacia Belen in diretta tv. Hanno (finalmente) fatto pace? La cantante salentina, reduce dalla pubblicazione del nuovo album dal titolo Fortuna, si è esibita con il singolo Io sono bella e, subito dopo la fine della performance, si è precipitata da Belen Rodriguez per darle un bacio. Un gesto che ha conquistato il pubblico di Tù sì que vales. Serena Granato, Domenica 03/11/2019 su Il Giornale.  Lo scorso 2 ottobre, in prima serata su Canale 5, è stata trasmessa la nuova puntata di Tù sì que vales, che ha visto protagoniste Emma Marrone e Belen Rodriguez. "Il 6 ottobre è uscito il suo nuovo singolo, Io sono bella, scritto da Vasco Rossi. Il 25 ottobre è uscito il suo album dal titolo Fortuna, lei è Emma", con queste parole il giudice di Tù sì que vales, Maria De Filippi, ha presentato in studio l'ex allieva di Amici, Emma. La cantante è apparsa con un sorriso smagliante sul palco, dove ha eseguito una performance del suo ultimo singolo. Un'attesa esibizione nel corso della quale le telecamere hanno inquadrato le reazioni dei presenti in studio. E, a colpire i telespettatori è stata, in particolare, la reazione avuta dalla conduttrice di Tù sì que vales, Belen Rodriguez, la quale ha assistito con interesse all'ultima esibizione di Emma. E non finisce qui. Perché poi la cantante salentina è diventata protagonista di un gesto che ha suggellato definitivamente la pace con Belen in tv e che, al contempo, ha messo a tacere le malelingue che la vedrebbero da sempre in forte competizione con l'argentina.

Emma Marrone e il gesto che spiazza a Tù sì que vales. "So che vai all'Arena di Verona", fa sapere la De Filippi, rivolgendosi ad Emma. "Sì, il 25 maggio. Il giorno del mio compleanno, per cui mi sono regalata una festa per pochi intimi all'Arena. Ce la godiamo fino in fondo", dichiara la cantante. "Il disco è bellissimo", aggiunge Maria. "Mi hai vista benissimo?", domanda la Marrone. "Il disco è bellissimo!", esclama di tutta risposta la De Filippi. "Anch'io", ribatte scherzosamente poi Emma. E, subito dopo essersi congedata dal pubblico con un sonoro "Grazie a tutti!", Emma Marrone si è precipitata da Belen Rodriguez. E proprio alla modella argentina la cantante salentina ha riservato un caloroso bacio. "Emma sei una donna rispettosa... hai rispettato pure Belen", si legge tra i messaggi scritti dagli utenti su Facebook. Pace fatta, quindi, fra le due?

Emma Marrone imita Belen: "Ma è Di Martino o De Martino?" Ironica e autoironica, Emma Marrone durante la presentazione dell'ultimo album Fortuna ha improvvisato una gag, imitando Virginia Raffaele in una delle sue interpretazioni più riuscite, quella di Belen Rodriguez. Francesca Galici, Domenica 27/10/2019, su Il giornale. Emma Marrone ha una dote rara nel mondo dello spettacolo ma, forse, nel mondo in generale. È una donna ironica e autoironica e lo ha dimostrato in numerose occasioni, strappando una risata ai presenti. È successo anche venerdì scorso, il 25 ottobre, durante la presentazione del suo ultimo lavoro a Roma, quando una sua battuta inaspettata ha divertito la sala. Tutti conoscono le vicende del passato di Emma Marrone, la sua lunga relazione con Stefano De Martino iniziata durante l'esperienza ad Amici e poi conclusa poco prima che il ballerino si fidanzasse con Belen Rodriguez. Quel che è successo da quel momento in poi tra Stefano De Martino e Belen è storia. Ai tempi furono inevitabili le voci di un tradimento della cantante con la showgirl da parte del ballerino, visto il poco scarto tra la fine di una relazione e l'inizio dell'altra da parte di De Martino, ed è indimenticabile la perfomance di Emma Marrone ad Amici, quando incantò il pubblico con la sua interpretazione viscerale di Bella senz'anima. Era il 2012, sono passati tanti anni e la vita è andata avanti per tutti. Stefano De Martino e Belen, si sono sposati, hanno avuto un figlio, si sono lasciati e ritrovati. Emma Marrone ha avuto molte storie, alcune relazioni e tante battaglie difficili da portare avanti, tra cui l'ultima difficile ed emotivamente complicata contro il tumore che ha fatto ritorno, per fortuna vinta. Dopo questa parentesi Emma è risalita sul palco con più grinta e determinazione per presentare Fortuna, l'ultimo album. Tra un brano e l'altro, Emma Marrone ha avuto modo di raccontarsi e di raccontare alcuni frammenti di vita e di lavoro, tra cui i cantanti che le piace ascoltare in questo periodo. È a questo punto che è nata la gag che ha mandato in delirio la sala. “Che musica ascolto? Ti dico gli ultimi acquisti? Tommaso Paradiso? No. Telefon Tel Aviv, Riccardo Sinigallia, Di Martino o… De Martino?”, ha detto Emma imitando Virginia Raffale nella sua interpretazione di Belen Rodriguez. Una gag non preparata, estemporanea, che ha inevitabilmente fatto nascere una standing ovation per la cantante salentina, che sembra ormai aver messo definitivamente alle spalle la relazione con Stefano De Martino e il successivo dolore per la fine, tanto da scherzarci sopra.

Emma, costretta a fermarsi per motivi di salute: «Succede e basta». In passato aveva combattuto un cancro, ha accompagnato il messaggio con una frase di John Lennon: «La vita è ciò che ti accade quando sei tutto intento a fare altri piani». La Gazzetta del Mezzogiorno. Emma Marrone con un post sui social comunica ai propri fan di essere costretta a fermarsi per problemi di salute: «Succede. Succede e basta. Questo non era proprio il momento giusto, ma in certi casi nessun momento lo sarebbe stato» scrive la cantante. «Da lunedì mi devo fermare per affrontare un problema di salute. Ve lo dico personalmente per rassicurarvi e per non creare allarmismi inutili. Per questo motivo non sarò presente a Malta per il concerto di @radioitalia che ringrazio per l’immediata comprensione» aggiunge. La cantante, che in passato aveva combattuto un cancro, ha accompagnato il messaggio con una frase di John Lennon: «La vita è ciò che ti accade quando sei tutto intento a fare altri piani». «Inutile dirvi - aggiunge - l’immenso dispiacere che provo per tutti quei ragazzi che hanno speso dei soldi in voli aerei e alberghi per venire fino a Malta per sostenermi. Non avete idea di quanto mi sarebbe piaciuto essere su quel palco e cantare per tutti voi. Vi prometto che tornerò più forte di prima! Ci sono troppe cose belle da vivere insieme. Adesso chiudo i conti una volta per tutte con questa storia e poi torno da voi. Grazie e state sereni davvero... Andrà tutto bene!». Pochi giorni fa la cantante 35enne aveva annunciato per i suoi primi 10 anni di carriera un nuovo album, anticipato dall’atteso brano «Io sono bella», scritto per lei da Vasco Rossi.

Emma Marrone: "Mi devo fermare per problemi di salute". La cantante ai fan: "Adesso chiudo i conti una volta per tutte con questa storia e poi torno da voi". La Repubblica il 20 settembre 2019. "Succede. Succede e basta. Questo non era proprio il momento giusto, ma in certi casi nessun momento lo sarebbe stato. Da lunedì mi devo fermare per affrontare un problema di salute. Ve lo dico personalmente per rassicurarvi e per non creare allarmismi inutili". È l'annuncio che Emma Marrone ha voluto fare direttamente sui suoi profili social. La cantante, che già in passato aveva avuto affrontare un tumore, come lei stessa ha raccontato in diverse interviste, ha aggiunto: "Per questo motivo non sarò presente a Malta per il concerto di @radioitalia che ringrazio per l'immediata comprensione". "Inutile dirvi - ha proseguito la cantante - l'immenso dispiacere che provo per tutti quei ragazzi che hanno speso dei soldi in voli aerei e alberghi per venire fino a Malta per sostenermi: Non avete idea di quanto mi sarebbe piaciuto essere su quel palco e cantare per tutti voi. Vi prometto che tornerò più forte di prima! Ci sono troppe cose belle da vivere insieme". Nel finale del post, Emma ha rassicurato i fan: "Adesso chiudo i conti una volta per tutte con questa storia e poi torno da voi. Grazie e state sereni davvero... Andrà tutto bene!"

Emma e la lotta al tumore, iniziata a 24 anni: «Mi trovate  dai medici più che nelle spa». Pubblicato sabato, 21 settembre 2019 da Corriere.it. Quando il dottore le ha spiegato la prima volta che la stanchezza che provava da tempo era il sintomo di un tumore all’utero e alle ovaie, Emma non ha pianto. Aveva 24 anni e, come ha poi avuto modo di raccontare, quasi se lo aspettava. «Anche prima di andare a fare la visita avevo parlato con mia mamma e le avevo detto: preparati perché non ne verrà niente di buono, lo so. Me lo sentivo dentro». Nel momento in cui quel presentimento è diventato concreto, la futura cantante che allora era solo una ragazza con grande voce e ancora più grandi sogni ha voluto che i medici le parlassero con chiarezza: rischi, probabilità, passaggi da affrontare. Poi è andata incontro alla sua prima operazione nel modo forse più inatteso: con serenità. «Ero serena, il perché non lo so. Sarà che sono abbastanza credente, pregavo molto. Avevo paura però volevo comunque affrontare tutto», aveva spiegato dopo. Molto dopo. Dopo la sua vittoria ad «Amici» che l’aveva trasformata da commessa con la passione per il canto a nuovo idolo per tantissimi ragazzi che da quel momento hanno iniziato ad amarla e che ancora oggi, dieci anni più tardi, lo fanno. Ed è quel seguito, quella influenza che sa di avere su chi ascolta le sue canzoni che ha spinto Emma a condividere la sua storia, per convincere tutti dell’importanza dei controlli, della prevenzione. Prendi qualcosa di negativo e cerca di ribaltarlo, trasformandolo in un elemento per crescere, per fare del bene. Con la sua dolcezza avvolta da uno spirito rock, Emma con la malattia ha fatto sempre così. Poco dopo essere uscita dall’ospedale, la prima volta, c’erano stati i provini di «Amici». De Filippi sapeva di quello che aveva da poco attraversato, ma lei aveva chiesto di non parlarne in televisione. Lo avrebbe fatto lei, solo dopo. «Da quando sono scampata al male mi sento un po’ fortunata e un po’ missionaria nei confronti dei giovani. A loro dico: mi raccomando, non bisogna vergognarsi di andare dal medico». Lei, da quella prima volta lo ha sempre fatto. Ed è così che, sei anni fa, ha saputo che era necessaria una seconda operazione: «È più facile che mi troviate in un centro medico che in una spa», aveva raccontato in seguito, con ammirevole ironia. Spiegando come fosse andata, anche quella volta, senza impacchettare le parole: «La seconda operazione l’ho voluta addirittura fare da sveglia con l’epidurale (la cosa più dolorosa che mi sia mai capitata, più del taglio sulla pancia), volevo capire tutto in tempo reale: così ho saputo che mi stavano esportando un ovaio con la tuba. Ora sono una splendida ragazza mono ovarica». Lo scorso anno, aveva mostrato la cicatrice delle sue operazioni: una foto sgranata fatta con il cellulare e inclusa in un’edizione speciale del suo album «Essere qui». Commentando il taglio sull’addome, aveva spiegato come fossero altre le ferite che le avevano fatto più male, tipo quelle che procurano le «parole scagliate con irruenza», che feriscono in modo gratuito. Lei, le sue le ha sempre usate con cura, lanciando messaggi quando possibile, spendendosi per i suoi fan, spesso anche per farli sentire meno soli. Eppure anche adesso, quando le fanno i complimenti per il suo coraggio, Emma quasi non sente di meritarli. «Il coraggio si vede in altro», ha detto. Lei, semplicemente, è stata se stessa.

Da Il Messaggero il 20 settembre 2019. Emma si ferma. La cantante ha comunicato sui social che, a causa di un problema di salute, sarà costretta a prendersi una pausa dalla musica. Immediata la reazione di fan e colleghi, che hanno immediatamente espresso la propria vicinanza alla 35enne salentina. Ma il messaggio più emozionante è senza dubbio quello di Maria De Filippi, che attraverso i profili social di Amici ha fatto sentire il proprio affetto a Emma con un'emozionante lettera. «Cara Emma - scrive la conduttrice di Canale 5 - immagino che quello che sto scrivendo tu lo sappia già. Lo sai perché sono passati 10 anni da quando hai cantato davanti a me una canzone della Nannini e da allora non ci siamo mai perse». Maria De Filippi decide di mettersi a nudo e raccontare pubblicamente, per la prima volta, del suo legame speciale con Emma. «Il bene non si perde, i sentimenti se sono veri vivono e sopravvivono anche se non ci si vede quotidianamente. Ci sei, ci sei stata e so che ci sarai sempre nella mia vita, me lo hai dimostrato ogni volta che avevo bisogno di te e ti chiamavo». La conclusione della lettera di Maria per Emma è da brividi: «So che lo sai ma ripeterlo non è mai abbastanza e, come diceva mia madre "verba volant scripta manent", io se tu vorrai nella tua vita ci sarò sempre. Ti voglio un bene dell'anima davvero, non avere mai paura di nulla perché sei fortissima. Maria».

Emma Marrone e la foto dall’ospedale:  «È stata dura ma è andata. Torno presto». Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 da Corriere.it. «Ho finalmente tolto questo braccialetto ma lo conserverò per sempre, è stata dura... ma è andata! Ho bisogno del tempo necessario per recuperare le forze ma credetemi non vedo l’ora di tornare da tutti voi, e lo farò al più presto». Emma Marrone ha pubblicato su Instagram la foto del braccialetto ospedaliero con il suo nome staccato dal polso, prova che si è concluso positivamente il problema di salute che l’ha obbligata a interrompere i concerti. «Mando un bacio a tutte le persone che hanno avuto un pensiero per me e ringrazio per tutto l’amore che ho ricevuto —scrive l’artista — e che mi ha dato la spinta a combattere con più forza e coraggio del solito. Mando un bacio molto più grande a tutte quelle persone che ancora non possono smettere di combattere: Tenete duro, io sono con voi! La serenità sta pian piano prendendo il posto della paura... Piango di gioia finalmente! Vi voglio un mondo di bene», conclude. «È stata dura... ma è andata». Sono passati solo otto giorni, ed Emma è tornata a scrivere sui social, la finestra sul mondo che da bacheca per raccontare la sua musica e la sua vita pubblica si è dovuta trasformare in bollettino per aggiornare i fan sulla sua malattia e sui suoi tormenti. Questa volta però niente nuvole ma un sole che rischiara l’aria; dopo le parole di preoccupazione e dubbio, è il momento di un «pianto di gioia» e di una foto che diventa simbolo di un laccio che si spezza: l’immagine del braccialetto dell’ospedale dove si è operata è il modo per rassicurare tutti. «Ho finalmente tolto questo braccialetto ma lo conserverò per sempre». «Ho bisogno del tempo necessario per recuperare le forze ma, credetemi, non vedo l’ora di tornare da tutti voi, e lo farò al più presto. Mando un bacio a tutte le persone che hanno avuto un pensiero per me e ringrazio per tutto l’amore che ho ricevuto e che mi ha dato la spinta a combattere con più forza e coraggio del solito». Il suo pensiero è andato a tutti quelli che l’hanno aiutata a distanza (prima dell’operazione ha ricevuto tantissimi messaggi di sostegno che hanno fatto annegare i pochi, vigliacchi, post che le auguravano il peggio). Ma non si è dimenticata di quelli che sono in mezzo al tunnel, che lottano tra sogni, speranze e realtà: «Mando un bacio molto più grande a tutte quelle persone che ancora non possono smettere di combattere: Tenete duro, io sono con voi! La serenità sta pian piano prendendo il posto della paura... Piango di gioia finalmente! Vi voglio un mondo di bene». Sul suo profilo Instagram il braccialetto trasparente con cognome e nome, Marrone Emmanuela, e data di nascita (25/05/1984) adesso è di fianco all’altro post, quello con le parole di John Lennon che aveva scelto per rivelare di doversi prendere una pausa dalla musica per il ritorno della malattia («la vita è ciò che ti accade quando sei tutto intento a fare altri piani»). Sono 11 anni che la vita si infila nei piani di Emma, da quando (aveva 24 anni) il medico le disse quello che nessuno vuole sentirsi dire: «tumore» (nel suo caso all’utero e alle ovaie). Ora è alla sua terza operazione, ma ha cercato sempre di prenderla con ironia, che con l’amore è la miglior medicina dell’anima: «È più facile che mi troviate in un centro medico che in una spa» scherzava con quello spirito che non nasce in un luogo fisico ma viene da dentro (lei è un mix di terre: è nata a Firenze, ha vissuto la sua prima infanzia a Sesto Fiorentino, si è poi trasferita con la famiglia ad Aradeo, in provincia di Lecce, terra d’origine dei genitori). Emma si è costruita il successo in un triennio d’oro tra il 2010 e il 2012 quando vinse ad Amici e il talent le aprì le porte di Sanremo: seconda (con i Modà) e poi prima (con il brano Non è l’inferno). Ma a differenza di tanti personaggi del mondo dello spettacolo, che preferiscono non schierarsi e si fanno profeti dell’ovvio per non scontentare nessuno, la cantante ha usato la sua popolarità non solo a uso e consumo del suo conto in banca, ma anche per accendere il cervello di chi ha la curiosità di ascoltare. Così ha invitato i suoi coetanei a non aver paura di prendere un appuntamento dal medico: «Da quando sono scampata al male mi sento un po’ fortunata e un po’ missionaria nei confronti dei giovani. A loro dico: mi raccomando, non bisogna vergognarsi di andare dal medico». Così non ha avuto timore di dire la sua sul clima politico e sociale che ci circonda: «È un momento storico in cui stiamo annegando nell’odio. Il momento in cui un professore mette all’angolo un bambino di colore e lo prende in giro davanti ai suoi compagni. Io non sono madre, ma vorrei che mio figlio crescesse in un’Italia bella sana, pulita coraggiosa, rispettosa dei diritti di tutti». Del resto, se la salute ci consente di godere la vita, la malattia ci aiuta a comprenderne meglio il significato.

Emma Marrone, la prima foto su Instagram dopo l’operazione è con Paola Turci: «Amica speciale». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Emma Marrone torna su Instagram dopo l'operazione. E lo fa con un'immagine pubblicata dalla collega Paola Turci nelle Stories. La cantante salentina trucca la sua amica: «La mia makeup artist è una grande gnocca», scrive Turci, condividendo la storia sui social. La fotografia mostra ai fan la voglia di tornare sulle scene: solo qualche settimana fa Marrone aveva annunciato uno stop per quella che si sarebbe scoperto essere un'operazione a cui si è dovuta sottoporre per chiudere «i conti una volta per tutte con questa storia», come scrisse lei stessa (spiegando che non avrebbe partecipato al concerto di Radio Italia a Malta e che si sarebbe fermata per un po' di tempo, ndr). Su Instagram, il 29 settembre, l’artista pugliese, postando la foto del braccialetto dell’ospedale, aveva annunciato di aver superato la fase più difficile ma di avere ancora bisogno di tempo per riprendersi: «Ho finalmente tolto questo braccialetto ma lo conserverò per sempre. È stata dura ma è andata... Ho bisogno del tempo necessario per recuperare le forze, ma credetemi non vedo l’ora di tornare da tutti voi, e lo farò al più presto. Mando un bacio a tutte le persone che hanno avuto un pensiero per me e ringrazio per tutto l’amore che ho ricevuto e che mi ha dato la spinta a combattere con più forza e coraggio del solito». In passato aveva già affrontato un tumore, come lei stessa aveva raccontato anche al Corriere della Sera. In questo periodo, tanti colleghi e fan le hanno fatto sentire la vicinanza e il sostegno: «Sei una guerriera, siamo con te», le aveva detto Francesca Michielin, seguita da Alessandra Amoroso: «Brava Emmuccia, tanti cuori tutti per te e con te». «Sei pura energia. Bella dentro», aveva commentato l'attrice Isabella Ferrari. Senza dimenticare Fiorello — «E noi ti aspettiamo», Elodie e Maria De Filippi, che aveva ripercorso il rapporto decennale costruito con la cantante, vincitrice di Amici 2010.

Scoppia la polemica per la foto di Paola Turci con Emma: "Perché pubblichi uno scatto vecchio?" Paola Turci è finita al centro di una polemica social sulle fake news. La cantante ha pubblicato su Instagram una vecchia foto con Emma, alimentando pettegolezzi e rumors che hanno indignato i follower. Novella Toloni, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. La questione è delicata. Dopo la recente confessione sulla sua malattia, ogni volta che si parla di Emma Marrone il rischio di sbagliare è altissimo. I fan sono pronti a cogliere ogni errore, ogni sbaglio e il pericolo di incappare in una fake news è sempre dietro l'angolo. E' successo di nuovo, per la seconda volta, con Paola Turci. La cantante (che giorni fa aveva condivisio sui social foto e commenti equivoci su Emma, per i quali si era scusata) ha pubblicato, nelle scorse ore, una nuova foto con Emma Marrone nelle sue storie di Instagram. Sullo scatto solo una scritta: "La mia make-up artist è una grande gnocca". Nessuna data, nessun riferimento al fatto che la foto fosse vecchia di almeno un anno e non recente come molti hanno pensato. La notizia è stata così ripresa e pubblicata da numerosi giornali e siti, alimentando nuovi rumors sulla salute di Emma in questo periodo di convalescenza. Tutto un equivoco. La foto pubblicata da Paola Turci era vecchia. Uno scatto fatto circa un anno fa. La popolare cantante è così intervenuta su Twitter sdegnata: "Quella foto è di un anno fa, come fate a dare notizie così a caso??". La mancanza di un riferimento temporale ha tratto in inganno tutti. Molti hanno spalleggiato il disappunto di Paola Turci, ma molti altri follower si sono scagliati contro di lei: "Potevi mettere una didascalia un po' più chiara e nessuno ti avrebbe criticato", "Scusa Turci secondo me tu e la Marrone su questo fatto ci state marciando, navigando. I giornalisti dicono mezze verità e le fake news sono molto frequenti! Vi state facendo pubblicità!", "Tu perché pubblichi foto di un anno fa come fossero di oggi? Gliele servi tu su un piatto d’argento".

Novella Toloni per ilgiornale.it il 22 ottobre 2019. Emma Marrone ha scelto la rivista Vanity Fair, nel numero in edicola il 23 ottobre, per raccontare al grande pubblico il difficile momento vissuto dopo la scoperta della malattia. La cantante salentina ha svelato, nell'intervista esclusiva, particolari inediti e ha mostrato il suo lato più fragile, raccontando del dolore e delle ripercussioni sulla famiglia che la malattia ha procurato. Emma ha però mostrato anche il suo proverbiale lato combattivo: "Dopo l'intervento, mi sono tirata giù dal letto subito, perché per me era più importante mostrare alle persone a cui voglio bene che c'ero e che stavo bene". Poi confessa come la madre ha appreso la notizia della sua malattia: "Non ho fatto vedere nemmeno a mia madre quanto dolore provavo veramente. Però per la prima volta ho visto mia madre piccola". Emma Marrone ha svelato di essersi "aiutata" da sola in questa difficile battaglia: "Non vorrei sembrare presuntuosa, però io mi sono aiutata da sola. Per quanto tanti ti dimostrino amore, famiglia, amici e altri, poi sei tu che ci devi fare i conti. E' stata la mia testa, il modo in cui mi sono proposta sin dall'inizio nei confronti delle situazioni. Sono una combattiva e ho sempre cercato di vedere il bicchiere mezzo pieno. Anche nei momenti più tremendi. Dico sempre che esiste un Karma. Se è successo a me, come succede a tanta gente, è perché doveva andare così e poi ci sarà un risvolto positivo, C'è sempre". La malattia l'ha costretta a un inatteso stop, ma il desiderio di tornare ancora più forte di prima sulla scena musicale e non solo è il suo motore principale. Nel nuovo numero di Vanity Fair, Emma racconta la paura, la sfida e il coraggio in questo momento cruciale della sua vita, che l'ha messa di fronte all'ennesima e durissima prova.

Emma: «Le radio mi boicottavano. La salute? Eccomi». Pubblicato martedì, 22 ottobre 2019 su Corriere.it da Andrea Laffranchi. «La salute? Non è stato un momento facile , ma è andata bene. Ora sono numero uno in radio, dopo dieci anni di boicottaggi». Ci ha messo 10 anni. E adesso Emma si gode la prima volta da numero 1 nelle radio. Da due settimane «Io sono bella», pezzo scritto da Vasco con Gaetano Curreri e altri, è la canzone più ascoltata. «Questo mestiere mi ha insegnato pazienza e temperanza», sorride. «In passato ho avuto altri brani che meritavano, ma forse non ho messo d’accordo tutti. Non mi è mai interessato scalpitare per arrivare in alto, preferisco essere un cavallo lento e durare altri 10 anni. Alcune radio, che non nomino per eleganza, mi consideravano di serie B. Ho capito che avrei dovuto faticare il doppio anche se mi è spiaciuto subire il pregiudizio. A un certo punto ho pensato pure che fossi io a sopravvalutarmi». Si festeggia per quello. Si tengono le dita incrociate per l’uscita del nuovo album «Fortuna», venerdì 25 ottobre. E c’è una ritrovata serenità per le condizioni di salute. Un mese fa aveva annunciato uno stop «per affrontare un problema di salute» e «chiudere i conti una volta per tutte con questa storia». «Sto bene. Ho detto che avrei risolto la situazione e sarei tornata. Sono tornata. Non è stato un momento facile ma è andata bene. Il comunicato l’ho fatto perché avevo dovuto cancellare la mia partecipazione a un evento a Malta per il quale molti fan avevano preso hotel e volo. Fosse accaduto in un altro momento non avrei detto nulla». Sulla foto della copertina del disco tiene in mano la carta della ruota della fortuna, la decima carta degli arcani maggiori dei tarocchi. «Non credo agli elementi esterni che ti condizionano, la vita non può essere in balìa delle decisioni di altri. Al limite credo alle coincidenze, ai treni che passano e devi saperci salire». Nel 2003 aveva preso quello sbagliato. Aveva partecipato a Popstars, un reality che la portò a incidere un disco, in trio con le altre due finaliste, sotto il nome Lucky Star. Non funzionò. Nel 2009 passa un altro convoglio, quello di Amici. È quello giusto. Ricorda a memoria le date: il primo provino a telecamere spente, il primo andato in onda, l’esibizione che le fece guadagnare il banco nella scuola. Quella della vittoria? «Il 29 marzo 2010! Le ho ripassate, non voglio enfatizzare troppo i dieci anni... Se mi riguardo vedo una faccia con la pelle lucidissima e bella, mi fa una grande tenerezza». Per celebrare la ricorrenza dei 10 anni ci sarà un concerto unico il 25 maggio all’Arena di Verona. Il disco presenta una Emma a più facce. In un paio di tracce la sua voce si appoggia al ritmo e quasi rappa. «Ho scelto produttori diversi. Oltre a otto brani con Dardust ho lavorato con Luca Mattioni, Elisa, Frenetik & Orang3. Anche se gli stili sono diversi c’è coerenza. Li ho dentro inconsciamente». In «Fortuna», uno dei brani più forti, ripete «più dite male e più mi va bene». «Non è un messaggio solo per gli haters, ma per chi cerca di affossarmi. Il karma esiste e mia nonna diceva “non sputare al cielo che ti ricade in faccia”». Con gli haters ha un conto aperto. Le hanno augurato il peggio quando è stata male e le rinfacciavano le prese di posizione a favore dei porti aperti. «Per avere il proprio profilo verificato, quello con la spunta blu, sui social bisogna mandare una serie di documenti. Lo renderei obbligatorio per tutti, si entra soltanto con le proprie generalità così se commetti un reato ti trovano subito, e applicherei sanzioni vere per scoraggiare i più folli». Vasco le ha regalato una canzone: «Se il tuo mito ti analizza e arriva a conoscere chi sei si realizza il sogno della vita. Da ragazzina seguivo Vasco più che Britney, giravo con chiodo e jeans più farmi i codini». Elisa firma e produce l«Mascara», pezzo musicalmente divertente: «Una persona pulita. Mi ha fatto entrare nella sua vita tanto che i figli mi chiamano zia Emma».

Simone Marchetti e Malcom Pagani per vanityfair.it il 22 ottobre 2019. «Ammalarsi è sempre ingiusto, ma non ho mai pensato “perché capita di nuovo a me?”. Mi sono detta: “È successo, mi curo, torno e così è stato”. Sono uscita allo scoperto sui social perché avevo preso un impegno lavorativo e promesso di esibirmi a Malta. Siccome ho rispetto dei soldi degli altri, perché mi ricordo cosa significhi metterli da parte per andare a un concerto e lì c’era gente che li aveva già spesi, ho parlato. Altrimenti sarei stata in silenzio». Silenzio che Emma Marrone ha in effetti mantenuto, dopo il post su Instagram di un mese fa in cui annunciava di non poter partecipare al concerto di Radio Italia a Malta e di doversi «fermare per affrontare un problema di salute» (il terzo intervento chirurgico in dieci anni, ne aveva 25 quando nel 2009 le venne diagnosticato un tumore all’utero). Silenzio che ora rompe solo con Vanity Fair che le dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 23 ottobre, due giorni prima dell’uscita del suo nuovo disco, Fortuna. «Mi hanno sempre descritta come una che non ha paura di niente, ma non è vero», dice la cantante nell’intervista al direttore Simone Marchetti e al vicedirettore Malcom Pagani. «Ho avuto paura, molta. Però non è la paura a provocarmi l’infelicità. Non lo è mai stata. (…) So affrontare il malessere fisico e tutto ciò che è legato a una malattia, ma delle malattie o della morte, come tanti, ho paura anche io. E poi ho paura di fallire, di non riuscire a realizzare i miei sogni, di restare sola, di non essere amata, capita, apprezzata, ad esempio, per quest’ultimo disco. Vorrei che fosse quello della rinascita artistica e non l’album da incensare soltanto perché sono stata male». A proposito del titolo, Fortuna, Emma spiega a Vanity Fair di avere un’idea controcorrente su destino e felicità, e anche sul luogo comune del combattente che si ribella alla malattia. «Non ho mai creduto al destino né alla sfiga. Il metro della tua vita sei tu: è il tuo modo di scuoterti, di ovviare ai problemi, di affrontarli per quello che comportano che dà la cifra di quel che sei davvero. C’è gente a cui è andata sempre bene e gente a cui è andata sempre male, ma non è questo a determinare la tua felicità. A fare davvero la differenza non è mai quel che possiedi e, anche tre le persone a cui è andata sempre bene, non è che ne veda tante poi veramente felici». Adesso, dopo l’operazione, dice di sentirsi «serena, azzarderei addirittura felicina»; dopo la scoperta del ritorno del male invece «ho pianto per due giorni perché ho imparato che tirare fuori tutto subito è meglio di covare il dolore, ma ero nera. Sentivo che la vita mi stava togliendo una possibilità. Ai medici continuavo a dire: “Fatemi cantare al concerto”. “Vasco Rossi ha scritto un pezzo per me”, “Non posso andare a Malta e operarmi dopo?”». I medici le hanno risposto che non era il caso di rischiare. «Ho dovuto accettarlo e ho capito una cosa fondamentale. Che accettare non significa farsi andare bene ogni cosa o aspettare passivamente quel che ti accadrà, ma costruire la propria serenità. Ho avuto un problema di salute, ma non l’ho combattuto né respinto. L’ho fatto mio, l’ho digerito, me lo sono fatto fatto scivolare addosso. Non sono arrabbiata e non sto combattendo. Per accettare una cosa del genere è necessaria molta più consapevolezza di quanto non ne serva per combattere. Accettare di stare di nuovo male mi ha aiutata ad arrivare all’intervento con serenità. Sono entrata in sala operatoria col sorriso e ne sono uscita nello stesso modo. L’operazione non mi ha incattivito: non sono arrabbiata con la vita, al limite alla vita sono grata». La sua gratitudine, spiega a Vanity Fair, viene tra le altre cose da «un lavoro che mi dà la possibilità economica di poter scegliere la maniera migliore per curarmi e i medici giusti». Ma è una consapevolezza che le mette anche tristezza: «Invece di essere allegra, piango. Perché persone che si fanno il mazzo in fabbrica e lavorano il triplo di me meriterebbero di essere curate nello stesso modo e invece – non ci prendiamo in giro – la medicina non è uguale per tutti. Come vivono gli altri lo vedo tutti i giorni. Vado spesso al Bambin Gesù a trovare i bambini e mi sono passate accanto tante storiacce: genitori che non possono permettersi un b&b e per stare vicino ai figli dormono in macchina. Ecco cosa mi ha fatto davvero male nei giorni di cure, di tagli e di ospedali e di disordine emotivo: non tanto superare quello che mi è successo, ma pensare a chi è chiamato a sacrificare tutto senza avere niente. Non voglio sembrare paracula, ma è la verità». Emma, che il 25 maggio festeggerà all’Arena di Verona i suoi 36 anni e i 10 di carriera, dice di essere stata molto colpita dalla reazione al suo annunzio. Per i pochi tuttologhi dei social («Mi hanno scritto di tutto: da “Ti sei ammalata perché mangi troppa carne” a “Ti sei ammalata perché hai molte vite irrisolte”), ci sono stati i tantissimi che le hanno mostrato «amore infinito» e rispetto: «Nessuno di quelli che mi vuole bene o delle persone che vengono ai miei concerti facendo molti sacrifici mi ha chiesto cosa avessi esattamente. Ma semplicemente: “Come stai?”. È come se il mio pubblico fosse cresciuto con me, fosse diventato maturo al mio stesso ritmo e fosse finalmente diventato il mio specchio. Nessuna curiosità morbosa, nessuna domanda indiscreta: solo la gioia di vedermi di nuovo in piedi. D’altra parte ogni tanto incontro lo sguardo pietoso degli altri e mi incazzo: non ho bisogno di nessun pietismo. Ma di rispetto. L’altra sera ero in un ristorante e una ragazza mi ha regalato un sorriso bellissimo. Stava dicendo : “Che meraviglia vederti tornare a sorridere con i tuoi amici”. A volte nel silenzio c’è tutto».

LA SOTTILE LINEA MARRONE. Barbara Costa per Dagospia il 29 Agosto 2019. Di Emma Marrone, io lo dico subito, che sono pazza delle sue gambe, per me la vincono sui suoi seni che invece fanno faville tra i suoi fan: e pensare che fino al ginnasio Emma era “piatta, una tavola”, e che, quando finalmente madre natura ha fatto il suo corso, lei nascondeva le curve in abiti da maschiaccio, per non parlare di quel suo periodo autodistruttivo, in cui si rasava il cranio a zero. Tempi finiti, per fortuna, gettati nel dimenticatoio, e oggi Emma passa da selfie hot su Instagram a intriganti shooting in lingerie. Dice Emma che di sesso si deve parlare (giusto), visto che si fa e fa bene farlo (giustissimo), e infatti lei ne parla, se lo scrive e se lo canta in maniera esplicita ma “pulita”, perché secondo Emma il sesso si deve trattare “con eleganza” (va beh, mica sempre), visto che “le donne sono come gli uomini, ne parlano anche loro in termini da bar” (verissimo), e poi – importante – Emma dice che lei ama le donne ma non sessualmente, e qui a essere maliziosi ai massimi livelli come lo sono io si sogna che non si riferisca all’amicizia che la lega alle sue amiche, ma che abbia le sue fantasie valide non oltre la soglia del reale. In realtà Emma si deve dannare per ripararsi dal gossip cattivo che la colpisce ferendola, e infatti, quante volte e quanti idioti l’hanno accusata – e l’accusano, anche per strada – di essere lesbica, come se esserlo fosse offesa, una malattia, qualcosa di cui vergognarsi? Emma non è gay e sulle incazzature che in merito le fanno prendere ci ha costruito alcuni suoi brani ("Malelingue"), ma è contro tale anelito al ritorno a una società chiusa, bigotta, da caccia alle streghe, che Emma spende la sua popolarità social e televisiva: per combatterlo, e a viso aperto. Perché, scoccia dirlo, ma è vero che l’Italia nella sua essenza è quella della provincia, dei paesi vili e chiacchieroni, dove non tutti hanno la fortuna di Emma, che è cresciuta in una famiglia dove insulti quali "fr*cio" e "re*chione" sono sconosciuti. Così bisogna educare i figli, e a proposito di famiglia e maternità, sentite quanto è avanti la ragazza: “L’amore non è per forza legato al matrimonio, né alla famiglia con una mamma e un papà. Il figlio di un single, di due papà, o di due mamme non sta meno bene di quello di una coppia etero. Io voglio un figlio e un giorno lo avrò, anche da sola. Il mio non è un desiderio egoistico, né contro natura”. Emma ha perfettamente ragione: è aberrante mettere socialmente alla gogna – addirittura da parte di ministri – chi professa e vive sessualità non eterosessuali. Emma sostiene la libertà di una sessualità fluida, di amarsi per quel che si è a prescindere dal genere, convinta che una fluid generation meno giudicante formi una società meno incattivita. Provoca Emma: “Questa è l’Italia: se gli omosessuali fossero esentati dal pagare le tasse, correrebbero tutti a fare coming out!”. Ma perché tali illuminanti messaggi non passano mai nei tg della sera? “Leggete Schopenhauer, cazzo!”, esorta Emma, e Schopenhauer dice che ogni insulto deve andare a segno, e Emma mai insulta però agli insulti che riceve sui social risponde a tono, tra il divertito e il caz*iato, e qui si va dal faccio come cavolo mi pare e quando, al sacrosanto “io le vostre caz*ate me le metto in tasca da anni!” contro i gossip indecenti sulla sua vita privata, su tutti quello che le attribuiva una liaison con Maria De Filippi. Emma dice che quello della musica è un ambiente ancora abbastanza maschilista in cui i pregiudizi esistono, e che su di lei li hanno sommati al fatto di provenire da "Amici". Pochi sanno che la ragazza non ha mai avuto né concepito un piano alternativo a quello di farcela con la musica, da sola, di diventare quello che sognava da piccola, un incrocio rock tra Gianna Nannini e Vasco Rossi (il quale, con Gaetano Curreri, le ha scritto un brano per il nuovo disco di inediti che Emma sta registrando a Los Angeles). Oggi, Emma sta sul palco a farsi "mangiare" dal pubblico, a far l’amore con tutti quegli occhi, quelle bocche, quelle braccia e mani a lei tese. Dopo aver superato il milione di copie vendute, dopo aver sbancato Sanremo, e dopo averne condotto uno, fanno ridere quei giornalisti matusa che le chiedono dei suoi progetti in materia, ma peggio sono quelli che le "rimproverano" di essere ormai superata dai trapper. Voglio proprio vedere quanti tra questi "fenomeni" saranno musicalmente vivi qui a 10 anni, con la stessa tenacia, grinta di Emma, e gli stessi suoi risultati. Emma si definisce egocentrica, predatrice di uomini (“per quanto mi riguarda ho sempre rimorchiato, se un ragazzo mi piace mi faccio avanti”), ha perso la verginità a 21 anni, non si fa problemi a rivelare che ci sono periodi in cui non fa sesso, e ammette che non è spogliarsi per una foto, ma è con chi ti piace e con cui stai per fare l’amore, che ha le sue difficoltà e imbarazzi. Emma non nasconde le sue smagliature e il suo peso oscillante, è una che mette in social primo piano quei "difetti" che altre dive celano filtri su filtri. “Non permettere mai a nessuno di dirti chi sei e che non ce la puoi fare”; “ogni tanto siate leggeri, per favore, perché veramente non vi si regge!”; “con le paure ci vivi e le combatti, le ordini, le selezioni”: in queste frasi c’è molto del social-Emma-pensiero. Dicono che ai ragazzi manchino modelli positivi: chi lo sostiene apre la bocca per dare aria al culo, fidati.

L'ex datrice di lavoro di Emma Marrone: "Era una brava commessa". La signora Claudia, incalzata da alcune domande sul suo rapporto con Emma Marrone, ha rivelato alcuni dettagli sull'esperienza lavorativa della cantante. Serena Granato, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale. Emma Marrone trionfava nel 2009 con la vittoria della finale di Amici di Maria De Filippi, battendo l'avversaria Loredana Errore. Se per molti la vittoria del talent-show di Canale 5 avrebbe cambiato nel profondo la cantante salentina, per altri la Marrone sarebbe rimasta la stessa. E a ritenere che Emma continui ad essere la ragazza umile e coi piedi per terra di un tempo, nonostante il successo ad oggi raggiunto, è un'ex datrice di lavoro della cantante di "Sarò libera".

L'ex datrice di lavoro ricorda Emma Marrone. Così come viene riportato nel nuovo numero cartaceo del settimanale Di più tv, incalzata da alcune domande sul suo rapporto maturato con Emma Marrone, la signora Claudia ha rivelato che l'ex pupilla di Maria De Filippi ha lavorato come commessa: "Emma era una brava commessa. Aveva un carattere schietto, non le mandava mai a dire. Ci metteva il cuore, voleva fare la cantante, ma non aveva ancora ottenuto nulla. E per non pesare sulla famiglia, lavorava qui con me. Era molto attenta ad aiutare gli anziani”. L'ex datrice di lavoro della Marrone ha confidato, inoltre, che la cantante non è mai cambiata suoi confronti e, ogni volta che va a farle visita in Puglia, ad Aradeo, Emma le svaligia il negozio: “Non è per nulla sparita: quando torna dai genitori, passa sempre a salutarmi e ogni volta si compra qualche abito. Io rimango sempre stupita: Ma tu sei vestita dai migliori stilisti e compri qui da me. E lei: Questi tuoi vestiti mi piacciono".

Emma Marrone, Muccino la difende dagli haters social: «Uomini con il cuore pieno di vermi». Pubblicato lunedì, 23 settembre 2019 su Corriere.it.  «Insultate me, uomini col cuore pieno di vermi», scrive sui social il regista Gabriele Muccino, riprendendo la notizia degli attacchi giunti sui social ad Emma Marrone dopo che la cantante ha annunciato uno stop ai concerti per affrontare dei problemi di salute. Muccino, che ha diretto Emma nel suo debutto al cinema Gli anni più belli (in arrivo nelle sale il 13 febbraio), ha voluto così prendere le difese della cantante che in questi giorni è stata oggetto di alcune frasi feroci da parte di alcuni utenti, anche in riferimento alla sua malattia. Lei, intanto, rompe il silenzio con un commento sul profilo Instagram di Tiziano Ferro: «Preparami un pass per tutte le date», ha scritto Emma sotto alla foto postata dal cantante per presentare il suo nuovo tour. La cantante era già stata vittima di attacchi sui social in passato, quando aveva espresso solidarietà alla capitana della Sea Watch, Carola Rackete, insultata e minacciata al suo arrivo a Lampedusa. «Solo una parola. Vergogna. Il fallimento totale dell’umanità», aveva twittato Emma, insieme a un video che mostrava l’accoglienza riservata alla capitana della ong. All’epoca aveva raccolto la solidarietà di molti colleghi cantanti, come Tommaso Paradiso, Paola Turci («Quanto hai ragione, amica mia») e Fiorella Mannoia («Avanti, scatenatevi pure. I vostri insulti sono medaglie»). Dopo l’episodio, Marrone era tornata sul tema durante un concerto, dicendo: «Il mio palco sarà sempre fonte di luce, di amore e di rispetto per tutti, anche se questo significa prendersi la merda in faccia. Non diventerò come voi. È un momento storico in cui stiamo annegando nell’odio. Il momento in cui un professore mette all’angolo un bambino di colore e lo prende in giro davanti ai suoi compagni. Io non sono madre, ma vorrei che mio figlio crescesse in un’Italia bella sana, pulita coraggiosa, rispettosa dei diritti di tutti».

Serena Pizzi per il Giornale il 24 settembre 2019. Solo qualche giorno fa, Emma Marrone ha annunciato con immenso dispiacere che deve fermarsi per un problema di salute. Immediatamente, i suoi profili social sono stati sommersi da messaggi, foto e video. Chiunque, dai personaggi del mondo dello spettacolo ai comuni mortali, vuole starle vicino. Tutti sono con lei in questa battaglia. Purtroppo, però, in questo clima di solidarietà non potevano mancare i soliti odiatori. Quei leoni da tastiera malefici che sanno solo sparare cattiverie. Così, in questi giorni, hanno vomitato contro Emma le peggiori cose a causa delle sue posizioni politiche assunte in passato. Non le ripetiamo, non diamo così importanza a quattro stupidi. In un momento così delicato, le cattiverie sono aria fritta. Ci concentriamo su altro, sulle dimostrazioni di stima e affetto. Questa mattina, infatti, ospite di Skytg24 c'era Matteo Salvini. L'ex titolare del Viminale, durante la sua chiacchierata, ha toccato diversi temi. Ha parlato della proposta di Giuseppe Conte di tassare le merendine, dei continui sbarchi e dell'accordo (fasullo) di Malta. Ma sul finire dell'intervista, la giornalista ha volutire chiedere qualcosa su Emma. Salvini sa che la cantante si è ritirata temporaneamente e sa anche che in questi giorni è stata insultata con una violenza inaudita per alcune sue posizioni politiche assunte in passato. Emma e Salvini hanno chiaramente idee politiche differenti, ma quando si parla di malattia nulla ha più valore della vita. E tutti quegli attacchi, insulti e offese sono solo una vergogna. Salvini lo sa e lo dice chiaramente. "Mi piacerebbe molto andare a un suo concerto - dice il leader della Lega interpellato sul tema - come artista mi piace, la musica non ha confini.... mio figlio va ai concerti di Fedez. Sicuramente le manderò un mazzo di fiori, sta affrontando un momento difficile. Un conto sono le idee, un altro il rispetto delle persone, in bocca a lupo Emma". Perché il male non si augura a nessuno.

IL TWEET DI RENZI. Gli haters che stanno attaccando Emma #Marrone si devono soltanto vergognare. Emma è una grande artista. E per la sua battaglia personale merita solo affetto e sostegno, non la cattiveria di chi odia.

Da Di Lei.it il 24 settembre 2019. Gli haters attaccano Emma Marrone dopo l’annuncio dello stop per problemi di salute, augurandole addirittura la morte e Laura Pausini interviene, difendendola. La cantante è stata fra i primi colleghi che hanno dato sostegno a Emma dopo che sul suo profilo Instagram è comparso un messaggio struggente. L’ex vincitrice di Amici ha affermato di doversi fermare per problemi di salute e il pensiero di tutti è andato alla battaglia difficile che ha già affrontato in passato contro il cancro. La Marrone non ha mai nascosto di aver combattuto contro il male per ben due volte. La prima a pochi mesi dall’ingresso nella scuola di Amici, tanto da aver partecipato ai provini ancora con le fasciature e un busto con le stecche, la seconda nel 2014 quando, durante una visita di controllo, ha scoperto che la malattia era tornata. Emma ha promesso ai suoi fan che tornerà presto e ha affermato di essere serena. Nonostante ciò, l’apprensione è tanta e su Instagram la cantante ha ricevuto numerosi messaggi di sostegno, da amici e colleghi. Fra questi Maria De Filippi, l’ex Marco Bocci e Laura Pausini. Quest’ultima è intervenuta per difenderla da un hater che le ha augurato la morte, scrivendo un messaggio agghiacciante sotto uno dei suoi post. “Ops, vuol dire che è tornato? – si legge -. Non c’è due senza tre. Tutto meritato, camionista. E chissà questa volta come finirà. Addio”. Il commento non è passato inosservato: l’interprete di Simili ha deciso di non rimanere in silenzio, ma rispondere alla violenza verbale dell’hater. “Ma chi è ‘sta deficiente che scrive una roba del genere? – ha scritto -. Segnalatela, io l’ho fatto”. Poco dopo a intervenire è stato Gabriele Muccino, che si è scagliato contro chi insultava Emma deridendola per la sua malattia e ricordando la sua presa di posizione riguardo i migranti. “Emma Marrone impegnata a combattere la malattia forse ora non avrà tempo per insultare Salvini” ha scritto qualcuno, mentre altri hanno aggiunto: “È ritornato? Ognuno ha quello che si merita CAMIONISTA” o “È inutile che adesso facciate tutti i virtuosi e difendiate l’indifendibile. Questa stupida ragazzotta ha creduto di mettersi in vista insultando Salvini nei suoi concerti, probabilmente si è attirata addosso gli accidenti di tante persone e qualche accidente è andato a segno… ben le sta. Nella prossima vita impara a tacere e a non fare politica, che non è il suo mestiere. Che sia malata non me ne frega proprio niente, anzi, ripeto, ben le sta”. Muccino, che ha conosciuto Emma grazie al suo nuovo film, ha scritto: “Insultate me, uomini col cuore pieno di vermi”.

Emma Marrone, gaffe del Tg1: dà per certo che abbia un tumore, ma non lo ha mai detto. Libero Quotidiano il 24 Settembre 2019. Qualche giorno fa Emma Marrone ha fatto sapere ai suoi fan di doversi allontanare per un breve periodo dal mondo della musica e dagli impegni pubblici per risolvere un problema di salute. Nonostante la cantante salentina non abbia specificato la natura del suo male, il Tg1 "ha deciso" che l'artista stia nuovamente affrontando una battaglia contro il tumore alle ovaie, che nel 2012 aveva presentato una recidiva. Nel servizio dedicato alla diminuzione nell’ultimo anno delle neoplasie in Italia, il medico intervistato, Francesco Cognetti, direttore del Dipartimento Oncologico dell’Istituto Nazionale Regina Elena, ha fatto gli auguri di pronta guarigione alla Marrone. "Sempre più giovani vediamo colpiti da tumore, ultimo il caso di Emma Marrone", ha sottolineato la giornalista del servizio Ada De Santis, "alcuni tumori sono frequenti anche nell’età giovanile", ha replicato quindi il medico. "Noi auguriamo a Emma Marrone una pronta guarigione. Sappiamo dalle notizie che sono state diffuse che è affetta fortunatamente da una neoplasia abbastanza sensibile ai trattamenti medici in cui anche la chirurgia può giocare un ruolo fondamentale", ha aggiunto il direttore di Oncologia, dando sì buone notizie nel caso, ma facendo così una diagnosi di non sua competenza.

Marco Bocci vicino a Emma Marrone: "Sei bella ma sei pure cazzuta". Dopo l'annuncio di una pausa per un problema di salute, Emma Marrone ha ricevuto moltissimi messaggi d'affetto e tra questi spicca quello di Marco Bocci, suo fidanzato nel 2013. Francesca Galici, Sabato 21/09/2019, su Il Giornale. Il messaggio con il quale Emma Marrone ha annunciato di doversi prendere una pausa per un problema di salute ha lasciato il segno in molte persone. Tantissimi hanno voluto commentare il post condiviso dalla cantante salentina con parole di sostegno e di incoraggiamento e tra questi ci sono stati anche molti volti noti. Maria De Filippi, per esempio, ha scritto una lettera e l'ha condivisa tramite i canali social di Amici mentre altri hanno direttamente commentato il post di Emma. Tra questi c'è anche Marco Bocci, suo ex fidanzato con il quale la cantante è rimasta in buoni rapporti. La relazione tra i due non è durata a lungo. Era il 2013 e i due hanno vissuto alcuni mesi di grande passione prima di lasciarsi. Poco dopo, Marco Bocci ha iniziato la love story con Laura Chiatti, che ha più volte dimostrato di apprezzare Emma Marrone e che, anche in questo caso, ha espresso la massima solidarietà per l'ex di suo marito. Marco Bocci ha dapprima lasciato un commento sotto il post di Emma Marrone: “Sono sicuro che andrà tutto bene. Chiudi i conti in fretta e fatti sentire. Perché è vero che sei bella, ma sei anche cazzuta.” Forse, però, all'attore quel messaggio è sembrato troppo poco per il rapporto che li lega e così Marco Bocci ha deciso di fare anche una storia dedicata alla sua ex, utilizzando come sottofondo la sua ultima canzone. Fatto lo shot del display del telefono con il brano in riproduzione, Bocci ha aggiunto: “Sei bella ma sei pure cazzuta. Ti aspettiamo subito.” Anche il messaggio di Laura Chiatti è stato all'insegna della combattività: “Amica, testa dritta e petto in fuori.” Non è noto se Emma Marrone abbia risposto in privato almeno a Bocci e a sua moglie, quel che è certo è che ha ringraziato tutti genericamente per l'amore che sta ricevendo in questi giorni.

Nadia Toffa morta, da Oriana Fallaci a Emma Marrone e Lorella Cuccarini: tutti i vip che hanno parlato apertamente del cancro. Chi ha già superato quella sfida ne parla ormai pubblicamente, per motivi diversi e tutti legittimi. C’è chi lo fa per invitare quelli che vogliono farlo a non vergognarsene; chi per “scherzarci” sopra; chi per sfidarlo. Il ciclista Lance Armstrong, della lotta al suo cancro ai testicoli, ci fece una ragione di vita e di esempio per tutto il mondo. Francesco Oggiano il 13 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Le cose terribili hanno sempre tantissimi nomi. “Malattia inguaribile”, “male incurabile”, “lunga malattia”, “male del secolo”. Nadia Toffa aveva scelto di chiamarlo cancro fin dall’inizio. Su Instagram metteva davanti alla parola pure il cancelletto, per trasformarla in hashtag e vaffanculo. Se doveva parlare della sua malattia, tanto valeva parlarne maestosamente, senza parafrasi. Wondy, su quelle parafrasi, ci ha sbattuto la testa per anni: “Alle soglie del 2014 siamo ancora troppo imbarazzati di fronte alla parola ‘cancro’!”, scriveva sul blog che aveva aperto su Vanity Fair. Si chiamava Francesca Del Rosso, giornalista, e per anni ha raccontato tutto ma proprio tutto del suo tumore: la “crapa pelata” (non voleva usare parrucche), le terapie, le piccole lotte quotidiane. Quando è morta nel 2016, suo marito Alessandro Milan, storica voce di Radio24, l’ha ricordata elencando anche i suoi difetti. Nessuna apologia, e tre parole: “Mi vivi dentro”. La stessa lotta linguistica fu portata avanti da Oriana Fallaci, che pure spesso chiamò il suo cancro ai polmoni “l’alieno”. La giornalista fu una delle prime in Italia a parlare apertamente della sua malattia, anche per rompere il tabù di cui divenne consapevole dopo il primo intervento subito: “Il chirurgo disse: ‘Le do un consiglio. Non ne parli con nessuno’. Rimasi allibita. E così offesa che non ebbi la forza di replicare: ‘Che cosa va farneticando?!? Avere il cancro non è mica una colpa, non è mica una vergogna!”. Pochi anni prima di morire, raccontò che la malattia l’aveva “cambiata, eccome”: “È diminuita estremamente la mia energia, è raddoppiata la mia sopportazione al male fisico”. Uguale rimase invece la sua cocciutaggine, che le diede la forza di ingaggiare con l’“alieno” una sfida, un dialogo muto: “Anche quando accendo una sigaretta mi sembra di sfidarlo, “Teh brutto stronzo, che ti fumo in faccia””. A spiegare quell’abitudine di fumare in faccia al cancro è stata Emma Bonino: “È il primo guizzo di sfida. Come diceva il mio papà, io voglio morire malata, non voglio morire sana“. La leader di +Europa ha raccontato pubblicamente la sua lotta con un tumore al polmone, che lei chiama un “signore antipaticissimo” dentro al corpo: “Uno stronzo, ma capisco che non se ne volesse andare. Mangi tre volte al giorno, hai un bel terrazzo, dormi tutta la notte. Chi meglio di lui?”. Niente parrucche, per lei, solo piccoli turbanti, tantissimi. Perché la lotta ha un’estetica tutta sua. Shannen Doherty, per esempio, ha trasformato il suo profilo Instagram in un museo vivente della lotta al cancro. Foto dopo foto, da due anni la Brenda di Beverly Hills 90210 mostra al mondo gli alti e bassi della sua vita col tumore dentro al seno: la testa rasata, gli esami in ospedale, la bandana. “Credo che ciò che è bello, difficile e interessante del cancro sia il fatto che ti distrugge e ti ricostruisce. E ancora ti butta giù, e ti ricrea. E tu ti ritrovi ricostruita in modi che non pensavi nemmeno fossero possibili”. E la paura? Quella c’è, eccome, e va raccontata proprio per questo. “Non so quanto durerò. Cinque anni? Dieci?”. Olivia Newton John non vuole saperlo. La dolcissima Sandy di Grease, a 70 anni e con un cancro definito incurabile, crede alle profezie che si autoavverano e si regola di conseguenza: “Se ti dicono che ti restano sei mesi, tu ci credi e alla fine vivrai proprio quel periodo di tempo lì. Io non voglio saperlo, non voglio avere un limite temporale alla mia vita”. Dice che ha “paura”, ma in fondo “tutti abbiamo delle sfide da combattere nella vita, questa è la mia”. La lotta al cancro va di pari passo con quella al suo tabù. Emma Marrone, che ha parlato di quel tumore che la colpì 25enne poco prima di partecipare ad Amici, ha detto parole lucidissime sul tabù della malattia: “Viviamo in una società che vuole essere supertecnologica e ultramoderna, per la quale dobbiamo essere sempre perfetti e forti. In cui una malattia è una cosa da non raccontare perché ci rende imperfetti e vulnerabili nei confronti di chi ci sta vicino”. Bugia: “Le imperfezioni e le diversità ci rendono unici. Senza quelle saremmo un ammasso di cose tutte uguali che non sanno dove stanno andando”. Chi ha già superato quella sfida ne parla ormai pubblicamente, per motivi diversi e tutti legittimi. C’è chi lo fa per invitare quelli che vogliono farlo a non vergognarsene; chi per “scherzarci” sopra; chi per sfidarlo. Il ciclista Lance Armstrong, della lotta al suo cancro ai testicoli, ci fece una ragione di vita e di esempio per tutto il mondo: “Le persone, anche quelle più forti, muoiono di cancro. Questa è la verità essenziale da imparare. E dopo averla imparata, tutto il resto sembra non avere più importanza”. Ben Stiller annunciò al mondo di aver sconfitto il tumore alla prostata nel modo più divertente possibile: postando la foto di lui giovane che si tocca le parti intime durante una scena di Tutti pazzi per Mary (quella della zip incastrata): “Due anni fa ho avuto un cancro e volevo parlarne”. Lorella Cuccarini, colpita da un tumore nel 2002, ha sempre raccontato la storia della sua “tiroide perduta con il sorriso sulle labbra”. Fabrizio Frizzi, uno che tra tutti gli estroversi era il più timido, pochi mesi prima di morire raccontò con garbo che lottava “per continuare a veder crescere la mia creatura”: “Non so se mia figlia Stella abbia capito quanto è accaduto, abbiamo cercato di proteggerla, ma so che i bambini capiscono molto più di quanto immaginiamo: ogni giorno giochiamo insieme, è il suo modo di sorreggermi, mi dà l’energia per continuare a combattere”. E poi ci sono quelli che ne parlano per sfidarlo, o lo raccontano per sensibilizzare gli altri alla prevenzione. La cantante Anastacia, dopo una doppia mastectomia, posò senza veli, per mostrare al mondo quelle cicatrici al seno, “ormai parte del mio viaggio”. Hugh Jackman, operato per un tumore alla pelle anni fa, ancora non smette di ripetere ai suoi fan su Instagram di “fare i controlli e mettere la protezione solare”. Perché fa pure questo il cancro, quando è raccontato: pialla tutto, leva ogni sovrastruttura, annulla ogni vantaggio pregresso. E porta uno degli attori più famosi e strapagati al mondo a ricordarti, col tono un po’ barboso di una mamma in spiaggia coi figli, di spalmarti la crema solare.

Storie Italiane, Viola Valentino rivela: «Ho un tumore ma a settembre mi sposo». Marco Leardi mercoledì 3 aprile 2019 su Davide Maggio. Storie Italiane, Viola Valentino. “Circa tre o quattro anni fa mi hanno detto che avevo un carcinoma e bisognava operare d’urgenza“. Sofferta e inaspettata, la rivelazione di Viola Valentino è avvenuta ieri su Rai1, a Storie Italiane. Ospite di Eleonora Daniele, la cantante ed ex moglie di Riccardo Fogli ha svelato in tv la propria battaglia contro la malattia. “Circa tre o quattro anni fa mi hanno detto che avevo un carcinoma e bisognava operare d’urgenza. Non mi ero resa conto, è una malattia subdola, quando arrivano queste cose neanche te ne rendi conto. Normalmente lo prendi in ritardo, invece io ho avuto la fortuna di prenderlo in tempo, ma questo non esclude che ci sia metà e metà di sicurezza che non si propaghi (…) E’ un problema, però dipende caratterialmente come sei fatto, se sei una persona che nutre speranze nella vita ed è capace di lottare o che si abbandona“. ha dichiarato Viola Valentino. “Le persone forti possono fare in modo che le più deboli assorbano la loro energia e si tirino su” ha aggiunto la cantante, attribuendo in qualche modo una valenza pubblica alla propria disarmata rivelazione. Poco prima, del resto, era stata la stessa conduttrice a sottolineare: “Facciamo tante battaglie sociali su tante persone che vivono questo problema (…) Se tu mi hai raccontato questo, magari qualcuno che ci sta ascoltando da casa si sente meno solo“. A Storie Italiane, Valentino ha però anche dato una notizia positiva: quella del suo matrimonio con il nuovo compagno, fissato per settembre. “È arrivato il divorzio dal mio secondo marito. Era la famosa carta che stavo aspettando per sposare Francesco, con cui sto da otto anni“.

Sabrina Paravicini: "Ho guardato la ferita al seno, imparerò a volerle bene". Sabrina Paravicini, che aveva ammesso di temere la sua immagine riflessa allo specchio dopo l'asportazione del seno, ha raccontato di essere riuscita a guardare la ferita. Luana Rosato, Lunedì 23/09/2019, su Il Giornale. L’attrice Sabrina Paravicini, operata al seno per l’asportazione di un tumore, continua a raccontare la sua riabilitazione via social e, dopo vari tentennamenti, ha spiegato di essere finalmente riuscita a guardare quella ferita. Mostrando la fascia che copre il seno reciso, l’attrice di Un medico in famiglia ha raccontato le sue sensazioni dopo aver finalmente superato la paura dello specchio. “Ieri sera mi sono guardata allo specchio – ha esordito Sabrina Paravicini su Instagram - . Mi sono tolta la maglietta, il reggiseno post operatorio e la fascia contenitiva. Il seno destro nudo, quello sinistro, quel che ne rimane, coperto da un grosso cerotto sterile. I dolori non passano, si attenuano per poi riemergere da un lato all’altro a sorpresa”. La Paravicini, infatti, aveva già raccontato di aver sentito dei dolori lancinanti dopo l’operazione e, ancora oggi, la sua sofferenza sembra non attenuarsi. “Ieri mi sono ripetuta mille volte “passerà”, come un mantra, come una preghiera. È una sorta di sequestro emotivo. Il corpo sequestrato in casa, la mente sequestrata da un tempo sospeso e infinito che non passa più. Ma passerà, sta passando”, ha continuato a scrivere. “Questa mattina ho fatto una nuova medicazione, non so perché a un certo punto ho guardato giù. Ho visto la cicatrice, l’ho messa a fuoco per un secondo poi d’istinto ho distolto lo sguardo. La mia mente l’ha registrata sfocata, solo la lunghezza mi è rimasta in modo nitido – ha detto ancora l’attrice che, fino a qualche giorno fa, aveva scelto di non guardare quella ferita - .Attraversa il mio seno da una parte all’altra, non mi è sembrata centrata o simmetrica, immagino che quando mi inseriranno la protesi prenderà il posto giusto. Intanto si è posizionata in modo confuso e sgranato nella mia mente. Come l’immagine di una polaroid uscita dalla macchina fotografica. Sgranata, indefinita. Leggermente fuori fuoco. Imparerò a volerle bene”. Ieri sera mi sono guardata allo specchio. Mi sono tolta la maglietta, il reggiseno post operatorio e la fascia contenitiva. Il seno destro nudo, quello sinistro, quel che ne rimane, coperto da un grosso cerotto sterile. I dolori non passano, si attenuano per poi riemergere da un lato all’altro a sorpresa. Ieri mi sono ripetuta mille volte “passerà”, come un mantra, come una preghiera. E' una sorta di sequestro emotivo. Il corpo sequestrato in casa, la mente sequestrata da un tempo sospeso e infinito che non passa più. Ma passerà, sta passando. Questa mattina ho fatto una nuova medicazione, non so perché a un certo punto ho GUARDATO GIU’. Ho visto la cicatrice, l’ho messa a fuoco per un secondo poi d’istinto ho distolto lo sguardo. La mia mente l’ha registrata sfocata, solo la lunghezza mi è rimasta in modo nitido. Attraversa il mio seno da una parte all’altra, non mi è sembrata centrata o simmetrcia, immagino che quando mi inseriranno la protesi prenderà il posto giusto. Intanto si è posizionata in modo confuso e sgranato nella mia mente. Come l’immagine di una polaroid uscita dalla macchina fotografica. Sgranata, indefinita. Leggermente fuori fuoco. Imparerò a volerle bene. Fino a qui tutto bene.

Alba Parietti confessa: "Ho avuto un tumore a 37 anni". Il toccante messaggio di Emma Marrone sui suoi problemi di salute ha colpito profondamente Alba Parietti. La conduttrice, nel far forza alla cantante, ha svelato di esser stata colpita a 37 anni da un tumore all'utero. Novella Toloni, Sabato 21/09/2019, su Il Giornale. Siamo abituati a vederla solare, ironica e irriverente. Alba Parietti nasconde, però, anche un passato doloroso, che ha svelato sui social network. La Parietti ha voluto inviare un messaggio via Instagram a Emma Marrone, per dimostrarle appoggio e affetto in questo difficile momento per la cantante salentina. La popolare conduttrice ha, così, svelato di esser stata colpita, molti anni fa, da un tumore all'utero. Una confessione choc che l'ha riportata indietro nel tempo. "Bisogna avere il coraggio di fare e dare coraggio - scrive Alba Parietti nel suo post social - di poter dire che davanti alla malattia, alla vita alla morte, al dolore, alla gioia all’amore siamo tutti uguali. Ho avuto una neoplasia grave a 37 anni al collo dell’utero. Sono stata operata d’urgenza grazie alla solerzia del mio ginecologo e Jessica, che mi costrinse con dolcezza a sottopormi a un’accurata prevenzione". La conduttrice racconta delle amiche che le sono state vicine subito dopo l'intervento chirurgico e della paura di confessare ai suoi cari del male: "Non lo dissi né ai miei genitori né a mio figlio per non spaventarli. Ho risolto senza grandi traumi. Ma la diagnosi fu atroce da sentire: cancro. Sì, il suo nome era cancro generato dalla degenerazione del papilloma virus. Quando ti pronuncia questa parola il medico, tu pensi non stia parlando di te o a te. Invece accade. Esiste per tutti la possibilità. Esistono anche cure portentose, operazioni, terapie risolutive come lo è stato nel mio caso grazie a una prevenzione e un’immediatezza che avevo di operarmi, pagando". Un racconto che Alba Parietti ha voluto fare per dare coraggio a quanti stanno conducendo la loro personale battaglia contro una malattia, soprattutto a Emma Marrone. La cantante non ha spiegato quale problema di salute l'abbia colpita, ma la Parietti ha voluto incoraggiarla a lottare: "Tu sei un emblema di forza, di capacità di comunicare con coraggio. Le cose brutte devono avere un senso. Il senso della tua malattia sarà la tua battaglia perche tutte le donne abbiano eguali diritti , rispetto a prevenzioni e cure".

"Cara Emma, davvero forza , davvero ti sono vicina , davvero come tante donne ci sono passata e so , esattamente cosa si prova. Emma hai fatto tante battaglie , rischiando di tuo , mettendoci la faccia e anche questa volta sarai un esempio di coraggio. Il coraggio di chiamare le cose che possono accadere con il nome che hanno. Il coraggio di dire che siamo in mano al destino e siamo solo esseri umani fragili e vulnerabili come tutti e tutte . Il coraggio di fare e dare coraggio , di poter dire che davanti alla malattia , alla vita alla morte, al dolore , alla gioia all’amore siamo tutti uguali. Ho avuto una neoplasia grave a 37 anni al collo dell’utero , sono stata operata d’urgenza , grazie alla solerzia del mio ginecologo e Jessica che mi costrinse con dolcezza a sottopormi ad un’accurata prevenzione Il giorno dell’operazione arrivarono tutte le mie amiche , una “compagnia barbarica “, riuscimmo persino a riderci su .Non lo dissi ne ai miei genitori ne a mio figlio per non spaventarli . Ho risolto senza grandi traumi . Ma la diagnosi fu atroce da sentire : Cancro il suo nome era cancro, tra parentesi generato dalla degenerazione del papilloma virus. Quando ti pronuncia questa parola il medico, tu pensi non stia parlando di te o a te. Invece accade. Esiste per tutti la possibilità. Esistono anche cure portentose, operazioni, terapie risolutive come lo è stato nel mio caso grazie a una prevenzione e un’immediatezza che avevo di operarmi , pagando , che dobbiamo pretendere e ottenere per tutte come un diritto alla vita e alla salute gratuitamente . Tu sei un emblema di forza , di capacità di comunicare con coraggio. Le cose brutte devono avere un senso. Il senso della tua malattia sarà la tua battaglia perche tutte le donne abbiano eguali diritti , rispetto a prevenzioni e cure. Forza Emma forza donne ....Ci sono , ci siamo passate in tante molte hanno vinto alcune no è proprio per quelle dobbiamo far sentire la nostra voce , che garantisca a tutte uguali possibilità di cure, ripeto di prevenzione e rispetto per la propria salute e dignità".

Emma Marrone e le altre: noi non siamo il nostro male. Pubblicato sabato, 21 settembre 2019 da Corriere.it. In quelle sette lettere, in quel «succede» usato da Emma Marrone per spiegare che il tumore era tornato per la terza volta nella sua vita, c’è molto dell’universo che difficilmente chi attraversa la malattia riesce a spiegare. Il lessico condiviso, in questi casi, è fatto di parole altissime, vocaboli che rimandano al coraggio, alla lotta, all’essere eroici. Quando in realtà, chi scopre di avere un cancro di fatto si trova catapultato in una dimensione mai così concreta: di colpo sei posto davanti a qualcosa che, come ha ricordato la cantante, «succede e basta». Affrontare la situazione non è tanto una scelta coraggiosa, ma l’unica possibile. Così lo fai. Emma ha 35 anni e gli ultimi dieci sono stati parecchio intensi: sono quelli in cui ha conosciuto la malattia e al contempo il suo enorme successo. Quello che però è anche riuscita a fare, probabilmente senza nemmeno pensarci su, è stato dimostrare con il suo stesso modo di essere che il tumore è sì qualcosa di enorme, ma non è tutto. Parlando della malattia con la normalità che si riserva ai fatti della vita, incitando alla prevenzione e controllandosi sempre. Ma anche proseguendo liberamente nella sua carriera, portando avanti le sue passioni, diversificando i suoi impegni, senza farsi fagocitare da un qualcosa con cui convivere, ma che non può oscurare tutti i colori di una esistenza piena. Quello che negli ultimi anni hanno fatto molte donne famose come lei — e che fanno ogni giorno migliaia di persone non note —, è stato dimostrare plasticamente di non essere la malattia che portavano nel corpo. Scegliendo di concentrare la loro energia sulla cura e su quello che si è oltre, ponendo attenzione sul valore del loro tempo, delle loro scelte. Freud diceva che nel momento in cui ci si chiede il significato e il valore della vita, si è malati. Considerazione comprensibile. Ma se la frase potesse proseguire, dovrebbe farlo con le esperienze di donne come Olivia Newton-John, ad esempio. Da anni sta curando una malattia che per quanto ostile non è riuscita a spegnere il suo leggendario sorriso e nemmeno il suo ottimismo. Pur essendo diventata ambasciatrice della ricerca, l’attrice ha continuato con il suo lavoro cercando anzi di godere del suo tempo, sentendosi addirittura privilegiata rispetto agli altri per rendersi conto da tempo che «ogni giorno è un dono». Newton-John ha ridotto la sua terribile diagnosi (un tumore in uno stadio avanzato) a una condizione che è propria di ognuno di noi: «In quanto essere umano, la nostra condizione è quella di morire, prima o poi. Il cancro ti fa ragionare su questo ma in fondo nessuno può sapere quando accadrà. Per questo io non ho voluto sapere quanto mi resta da vivere». Anastacia non ha smesso di cantare e ha imparato a sentirsi bella da quando ha le sue cicatrici: le ha svelate per dimostrare come il tumore renda vulnerabili ma anche quanto accettare questa vulnerabilità possa creare condivisione, vicinanza e quindi bellezza. E così è continuata la sua carriera, al pari del suo impegno nel parlare di prevenzione, senza diventare però manifesto di una malattia, ma semplicemente non nascondendola, non parlandone solo dopo, una volta guarita (come hanno fatto alcuni suoi colleghi famosi, da Rod Stewart a Ronnie Wood). Sheryl Crow ha spiegato che «la malattia mi ha fatto rivalutare e ridefinire la mia vita. Ho riguardato le mie decisioni, le mie scelte, la mia arte e la mia concezione delle cose. Ho imparato che non va dato nulla per scontato». Lo stesso ha fatto Kylie Minogue, non lasciando che la malattia rendesse meno luminosa la sua stella, o Shannen Doherty, la Brenda Walsh di «Beverly Hills 90210», che ha condiviso ogni momento delle sue cure, anche difficili, in quanto parte della sua vita. Da noi Nadia Toffa, addirittura criticata per il suo aver condiviso la malattia, nel mentre ha portato avanti ostinatamente tutto il resto della sua vita, anche quando era faticosissimo. Monica Guerritore ha condiviso il suo percorso e Carolyn Smith, ballerina e giudice di «Ballando», è andata in onda in prima serata su Rai1 senza capelli perché vergognarsi di un cancro è semplicemente senza senso. Qualcosa di ovvio, forse. Ma che prima di queste donne nessuno aveva fatto.

·         Alessandra Amoroso.

Alessandra Amoroso: ero innamorata di Jovanotti, davanti a lui ho pianto a dirotto. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 da Chiara Maffioletti su Corriere.it. Può essere che — in questi giorni, da qualche parte — ci sia una ragazzina che mentre ascolta Mambo Salentino di Alessandra Amoroso e Boomdabash, uno dei tormentoni più suonati di quest’anno, sogni di diventare una cantante. Riavvolgendo il nastro del tempo, qualche anno fa la ragazzina era lei, che immaginava timidamente un futuro di musica ogni volta che le radio trasmettevano il suo mito, Jovanotti. «Mamma mia, quanto è bello», inizia a raccontare oggi la cantante salentina appena il pensiero va a quello che ormai è un suo collega. «Jovanotti è un idolo per me, come faccio a spiegarlo... Io e le mie sorelle ascoltavamo sempre le sue canzoni, il primo concerto a cui sono stata era il suo: non avevo una lira nemmeno per battere la testa contro uno spigolo eppure non me lo sono persa. Quando l’ho visto sul palco, i miei occhi si sono riempiti di colpo di lacrime». Se deve cercare una canzone, tra tutte quelle di Jovanotti che per lei hanno un significato, sceglie Il più grande spettacolo dopo il Big Bang. «La sua musica ha scandito così tanti momenti della mia vita, ma quella canzone, in particolare, mi ricorda me e le mie sorelle che la cantavamo a squarciagola, in macchina. Solo che alla fine cambiavamo il testo, e anziché dire che il più grande spettacolo “siamo noi, io e te”, urlavamo: “siamo noi, noi tre”». E sembra di vederle le tre sorelle Amoroso, divise da cinque anni di differenza l’una dall’altra eppure unitissime: «Siamo sempre state insieme, nonostante cinque anni di distanza non siano pochi, specie quando arrivi all’adolescenza. Il fatto che io sia diventata nota non ha cambiato niente nel nostro rapporto: direi che se ne sbattono altamente». Cantano bene anche loro? «Bene? Da paura, sono intonatissime. Come mia madre, del resto... abbiamo proprio tutte il suo gene, lo riconosci. Con lei cantavamo anche durante le nostre estati, in barca con papà. Ne avevamo una piccolina a Otranto: mamma si metteva a cucinare già dal primo mattino... la sua parmigiana mi fa venire fame solo se ne parlo». Quei giorni pieni, passati in famiglia, prevedevano anche delle gran cantate. E qui torna, ancora una volta, Jovanotti. Che di famiglia, in questo modo, lo era quasi anche lui. Da quando fa il suo stesso lavoro, Amoroso ha avuto l’opportunità di incontrarlo: «Eh... è successo dopo un suo concerto, che ovviamente non mi sono persa. Solo che quella volta, alla fine, dallo staff mi hanno detto di fermarmi per andarlo a conoscere. Beh, quando l’ho visto, neanche a dirlo, mi sono messa a piangere. Lui rappresenta proprio tanto per me, tante fasi della mia vita e anche del mio percorso... se mi avessero detto allora che un giorno lo avrei conosciuto, non ci avrei creduto mai». E ora che lo vede cantare sulle spiagge, Amoroso ha trovato il coraggio per fare anche un altro gesto: «Gli ho scritto un messaggio. Dovevo assolutamente ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per me attraverso la sua musica. E così ho recuperato la forza. Non mi aspettavo una risposta, invece è arrivata ed è stato anche davvero gentile. Cosa mi ha detto però lo custodisco per me». Riflettendo su quanto le cose siano cambiate per lei, fa venire un po’ di vertigini pensare a chi ora, magari in macchina con le sue sorelle, canta le sue di canzoni: «È un pensiero che mi mette i brividi. Ho fatto da poco un incontro con i miei fan, che mi seguono ormai da anni. Ci sono persone che mi dicono di aver trovato un aiuto ascoltando le mie canzoni, altri che mi confidano di avuto nella mia musica la compagnia che mancava. E poi c’è chi addirittura mi dice di aver chiamato le figlie Alessandra. Per me è ogni volta un onore immenso».

·         I Boomdabash.

"Siamo nazionalpop e lanciamo tormentoni Ma quanta gavetta..." La band pugliese è regina delle classifiche «Il nostro segreto? Non perderci d'animo». Paolo Giordano, Mercoledì 10/07/2019 su Il Giornale. All'inizio erano un grande boh. Ora sono idoli del grande pubblico, che magari non li ferma per strada cercando un selfie ma ha senza dubbio canticchiato almeno uno dei loro brani. Ad esempio, Non ti dico no con Loredana Bertè nel 2018. I Boomdabash arrivano da Mesagne, provincia di Brindisi, e da una lunga gavetta fatta di concerti in posti microscopici, viaggi in furgone e sogni svaniti. Sono il simbolo della musica al posto dell'immagine. La gente li canta senza essere condizionata dalla loro esuberanza social o da frenetiche storie su Instagram. Semplicemente, i Boomdabash hanno intercettato la musica giusta nel momento giusto. Sono in quattro: Biggie Bash, Payà, Blazon e Mr. Ketra che ha una seconda vita con Takagi... La musica? Parte dal reggae e arriva all'hip hop. «Prima mettevano i dischi nei locali come sound system, soltanto dopo abbiamo iniziato a scrivere brani», spiega il cantante Biggie Bash, al secolo Angelo Rogoli. Tanto per capirci, in queste settimane sono in classifica con due brani. Il primo arriva dal Festival di Sanremo, ed è quel Per un milione che è già disco multiplatino. L'altro è candidato a diventare tormentone dell'estate. «La nostra collaborazione con Alessandra Amoroso è nata una sera nel camerino dell'Ariston», spiega lui presentando Mambo salentino, neo disco d'oro e in rotazione altissima su tutti i network.

Visti da lontano, i Boomdabash sembrano più che altro chirurgici produttori di successi.

«È l'idea più lontana da noi. Anche il brano di Sanremo non è stato composto con l'obiettivo di resistere soltanto per le cinque serate del Festival. Non ha senso fare così. Ogni nostra canzone ha voglia di vivere più a lungo».

Adesso avete addirittura due brani in classifica.

«Non ci saremmo mai aspettati che Per un milione fosse ancora in classifica cinque mesi dopo il Festival. Però, quando lo abbiamo presentato in gara all'Ariston, ci siamo accorti di quanto calda e soddisfatta fosse la reazione del pubblico».

Da poco è arrivato Mambo salentino, che se la passa altrettanto bene.

«Al Festival abbiamo incontrato Alessandra Amoroso (che è nata a Galatina, provincia di Lecce - ndr) e l'idea ci è venuta durante le cene dopo la gara. Con lei e Stefano Settepani abbiamo parlato della possibilità di ripetere l'esperienza del brano A tre passi da te che abbiamo pubblicato insieme nel 2015. E, passo dopo passo, il progetto si è realizzato e abbiamo raggiunto un altro obiettivo».

Scusi, Biggie Bash, ma cosa vuol dire Boomdabash?

«In realtà il nome c'era già quando nella band sono entrato io. E non aveva alcun significato. Però mi sono accorto che aveva un significato nella lingua giamaicana. Un significato di senso compiuto, ossia esplodi il colpo. Dal punto di vista musicale, è la missione della band, quindi è diventato il nostro nome perfetto».

Avete collaborato con rapper come Fibra e Fedez (nel brano M.I.A. inserito nel disco Pop-Hoolista) e con icone del pop come Loredana Bertè.

«Sono obiettivi che non ci immaginavamo di certo».

E come ci siete arrivati?

«Posso dirlo? Senza scoraggiarci mai. Se dovessi dare un consiglio ai giovanissimi, l'unica cosa che mi sentirei di dire è di non lasciarsi prendere dalla delusione. Il perdersi d'animo è la prima causa di morte delle band e degli artisti. Le porte non sempre si aprono al primo colpo. Ma, se ci si mette d'impegno e si ha talento, prima o poi si spalancano».

C'è qualche collaborazione che non siete riusciti a portare a termine?

«Quella con Salmo. Avremmo voluto, ma lui era impegnato con il suo disco».

Come risponde a chi «accusa» i Boomdabash di essere solo una band da tormentoni?

«Dicendo che siamo sempre stati un gruppo con una grande attività live, in media trenta o quaranta concerti l'anno».

E adesso?

«Ovviamente abbiamo un tour».

E poi?

«Altri brani. Ma attenzione: le sonorità saranno completamente diverse, preparatevi».

·         Antonella Ruggiero e la sua voce.

Da leggo.it il 18 dicembre 2019. La cantante Antonella Ruggiero è finita nel mirino degli haters dopo che sulla sua pagina Facebook ha postato una foto che raffigura delle sardine: un chiaro endorsement al movimento di protesta che tanto sta facendo parlare nelle ultime settimane. Una "presa di posizione" che non è piaciuta ad alcuni followers della ex indimenticabile voce dei primi Matia Bazar, da alcuni anni cantante solista. Sotto la foto sono infatti apparsi parecchi commenti critici, molti offensivi, tanti insulti, ma anche tantissimi attestati di stima da parte di chi difende Antonella. Qualcuno scrive «che tristezza» o «che delusione» «sei proprio caduta in basso», altri si spingono più oltre: «Trovo inaccettabile che una persona di spettacolo debba fare politica». E ancora: «Dopo Celentano mi cade un altro mito, Tu! Fine dei like anche per te!», oppure «Pensa a cantare che è meglio». La Ruggiero non si è però fatta intimidire dalle critiche degli haters e dopo qualche ora ha postato un video, che con lo stesso sfondo di 'sardine', riportava il testo e l'audio del brano 'Nuova Terra', uscito nel 1996 (scritto dalla cantante con Ivano Fossati). La canzone recita queste parole: «Si vivrà di nuova terra e nuove città/infinite vie saranno lontano da qua/si apriranno porte al sole e a ciò che verrà/altre genti si uniranno lontano da qua. Canterò con te e tu con me/un coro di voci sarà/canterai con me e io con te/e terra noi si troverà. Si amerà la nuova terra, la nuova città e le vie ci guideranno lontano da qua».

IL TASTIERISTA: "C...NI DA TASTIERA". In difesa di Antonella Ruggiero si è schierato l'amico musicista Mauro Sabbione, ex tastierista dei Matia Bazar, che pubblica la stessa foto della cantante e scrive: «Questa è la foto che ha pubblicato Antonella Ruggiero sulla sua pagina di FB. Senza scrivere nulla e senza prendere nessuna posizione politica. Pagina che replico anch'io vergognandomi per tutte le feroci critiche dei soliti leoni, anzi coglioni da tastiera che affermano, con mio grave disappunto, che un artista non debba prendere posizioni politiche». «Mi fanno particolarmente imbestialire le frasi tipo: 'Sei una grande artista ma da oggi non ti seguirò più ne metterò like. Andatevene affanculo razza di imbecilli. Siamo artisti e proprio per questo assai sensibili alla vita reale intorno a noi - scrive il musicista, che vive in Svizzera - Ne conosco a bizzeffe di cantanti famosi, fascisti, comunisti, anarchici e magari anche amici di Putin o di Trump ed ognuno decide nella propria vita sociale ed artistica di avere il proprio pensiero, le proprie idee, e naturalmente deve sentirsi libero di esternare, esattamente come si permettono di fare gli imbecillì di turno, visto anche i momenti cupi che state vivendo in Italia. Povera Patria».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 18 dicembre 2019. Travolta da una bufera social solo per aver illustrato un suo brano con un branco allegro di sardine. E averlo postato sul suo profilo Facebook. Antonella Ruggiero la cantante dalla voce perfetta, già frontwoman dei Matia Bazar e ora solista, si è svegliata ieri tra improperi e insulti, attaccata perché dietro la sua scelta artistica si legge una presa di posizione politica che a una parte dei suoi tanti fan, non è piaciuta.

Ruggiero, ci è rimasta male?

«Per niente. Di contro mi è arrivata una valanga di vicinanza da parte di gente che ora affolla le piazze. Gente istintiva. E quella sono io. E così sugli insulti ci ho riso sopra. Mi dispiace solo per la foto bistrattata. È bellissima».

La polemica è tutta politica infatti. Non artistica.

«Ho provato pena per chi scriveva parole in libertà. Trovo naturale partecipare a un movimento bello e pulito che arriva in un momento violento dove il ghigno perfido rivela noncuranza per il genere umano. Loro invece mi trasmettono speranza per il futuro».

Ha partecipato mai?

«Purtroppo avevo concerti ma tornando a casa mi rallegravo per quello che stava accadendo. Ho visto gente di tutte le età, ho visto giovani colti, semplici, non griffati, che sono spinti dalla voglia di costruire».

Forse scenderanno in politica... Contenta?

«Non so immaginare come tutto ciò potrebbe evolversi ma la politica è un pozzo scuro che ti sprofonda anche se sei intriso di buone intenzioni. Io provo empatia per il movimento spontaneo, ora. Forse perché ho un ideale lontano dalla realtà, con la politica al servizio di tutti per rendere migliore l' Italia. E non come vedo oggi, una rappresentazione teatrale. Pure brutta».

Queste polemiche l' hanno riportata a una canzone accantonata.

«L' avevo scritta 15 anni fa con Daniele Fossati, "Nuova terra" e ha una bella visione di quando ancora c' era uno sviluppo positivo dell' immigrazione. È attualissima».

E adesso?

«Proprio perché mi chiedo "Ma che sto vedendo?" rispetto a quanto accade in Italia, esco con un mio disco riassuntivo, sei cd che si intitola "Quando facevo la cantante", che racchiude il mio percorso artistico che va dal 1996 al 2018, da quando ho iniziato da solista a oggi. Musica colta e popolare che racconta come si può fare musica scollegati dal sistema industriale. Alto artigianato che non ti tira dentro a un meccanismo perverso. Sarebbe perfetto per giovani cantanti».

"La voce è come la matematica. La natura insegna che Dio c'è". «L'esperienza più straordinaria? La nascita di mio figlio», dice la cantante storica dei Matia Bazar. «Oggi il colore dell'Italia è il grigio», scrive Luca Pavanel, Mercoledì 09/01/2019, su Il Giornale. Chi non ricorda l'Antonella dei Matia Bazar, le «Vacanze romane» sanremesi, i suoi acuti da usignolo: «Sono nata così, quasi nessuna lezione di canto». È una «filosofa-ricercatrice della voce». E della vita: «Oggi la nostra società si è tinta di grigio piombo». Bisogna reagire, bisogna credere. «Sono legata alla natura, che nella sua perfezione mi ha insegnato che Dio c'è». Torniamo sulla Terra.

Se Antonella Ruggiero, fosse rimasta con i Matia Bazar?

«Non avrebbe più potuto succedere, dopo 14 anni di lavoro e viaggi in un mondo che a mano a mano si è dissolto, dall'Urss al Cile, luoghi mediorientali dove siamo andati in tournée. In me, a un certo punto, si è esaurito qualsiasi tipo di interesse. Quando è così, si mette un punto e ho chiuso nel 1989».

Quando si sentono certi suoi acuti canori si pensa a un usignolo: così si nasce o si diventa?

«Si nasce con un talento, come un matematico che capisce e fa cose incomprensibili ai più, o cose che un essere umano fa e che possono sembrare miracolose. È la natura che ci dota, ci fa un regalo».

Per cantare così chissà quante lezioni però...

«Ne ho presa solo qualcuna, la prima quando ero piccina piccina e tempo dopo qualche incontro a Genova ancora prima di cominciare nel 1974. Poi l'incontro con una simpatica signora, ex cantante lirica, che mi ha solo detto guardi che lei non può iniziare senza fare dei vocalizzi, servono. Prima di cantare occorrono come gli allenamenti di riscaldamento per gli atleti. Iniziavo sempre a freddo. Riguardo ai miei corsi di canto direi che tutto finisce qui, non ho fatto altro».

Già da bambina, sognava di fare la cantante o le cose sono capitate?

«Tutto mi è capitato, eccome. Prima di incontrare quelli che poi sarebbero diventati i miei colleghi per anni e anni, mi volevo occupare e mi occupavo di arti visuali. Il disegno e la grafica erano il mio mondo. Ho fatto studi velocemente abbandonati visto che a 22-23 anni i ragazzi e io siamo partiti e, immediatamente, abbiamo avuto successo. Da quel momento ho cominciato a cantare di più, imparando pure a salire su un palcoscenico. L'arte di vivere lo spettacolo, insomma, non è una cosa da poco».

A conti fatti ha avuto una bella infanzia o qualcosa è suonato stonato?

«Nella memoria mi è rimasta la mia città, Genova appunto. Ho dei ricordi del centro storico medievale che ho frequentato a lungo, perché vi abitavano i miei nonni. Rivivo costantemente quel periodo nei pensieri».

La sua città Genova, ultimamente è stata colpita al cuore.

«Recentemente ho fatto tre concerti poco dopo la tragedia del ponte, quante volte sono passata sul Morandi. Cantare dopo il crollo è stata un'esperienza umana toccante, sia da parte mia sia da parte del pubblico. Alcuni mi hanno raccontato le loro storie. Chissà per quanto tempo gli abitanti dovranno sottostare ad assurdità legate alle burocrazie».

Parliamo della sua famiglia?

«Figlia unica, due cari genitori, i diminutivi erano Lino e Rina, persone che hanno sempre amato la musica fin da ragazzini. In casa si ascoltavano opere e operette, musiche della guerra, degli anni Cinquanta. E io ho sempre sentito musiche legate al sacro. Mio nonno paterno, che viveva in America, amava il jazz nero. Quando cresci in un clima così, in un'atmosfera di semplicità e protezione e con la musica sempre presente, hai una grande familiarità con i generi più diversi».

Lei già da giovane, doveva essere un tipo creativo, estroso...

«Beh, portavo avanti passioni come la pittura e il disegno, appunto, la creatività attraverso la mano. Andavo molto spesso, quando ero ragazzina, a vedere le statue del cimitero di Staglieno che ha delle opere d'arte straordinarie, come del resto quelli di Milano e Venezia. Guardavo quelle sculture realizzate da mani sconosciute, perlopiù, per ricordare le persone di famiglie ricche. Ma ricordo anche la statua che si era fatta fare una vecchina che aveva speso i suoi risparmi per questo. Per tutta la vita ha venduto caldarroste».

Come le ha cambiata la vita?

«Sono sempre stata uguale a oggi, direi me stessa. Quando ho frequentato luoghi dove c'è molto di tutto, dal pubblico ai media alle feste, sono sempre entrata con una concentrazione mia, particolare. E così ne sono uscita immediatamente. Niente salotti. Non ho mai fatto, neppure una volta, pubbliche relazioni, non mi sento adatta a questo genere di cose. Mai fatta una telefonata in vita mia per raggiungere qualche cosa. E comunque le vicende sono andate così come sono andate. Le situazioni mi sono venute a cercare. E questo mi permette di essere me stessa, sempre, e per sempre».

Capita di steccare, anche nella vita. Le è mai successo?

«Parlando di musica non mi è mai successo. Mai una volta durante un concerto. Una volta ho cantato a Sanremo con problemi alla voce ma è andata bene lo stesso. Nel resto della mia vita pure, penso di non avere steccato. Direi una vita intonata, se ci sono problemi li affronto, faccio quello che devo fare, finisco e vado via».

Da affrontare ci sono dei bivi, ne raccontiamo uno?

«Quando ho lasciato i Matia Bazar. Per sette anni ho cambiato tutto. Dal punto di vista artistico l'Oriente era un luogo che fin da ragazzina avrei voluto visitare, ma i miei non mi hanno lasciato andare. Ai tempi non era possibile. E così l'ho fatto in quel periodo, diciamo che c'è stato il recupero di quei no di allora».

Che zone dell'India ha visitato?

«Beh, è stato un Paese molto presente nei miei viaggi, dal Centro al Sud. Conoscevo e ho incontrato musicisti, modalità diverse, strumenti vari; tanto che poi ripartendo da qui, ho realizzato il mio primo lavoro da solista che si intitola Libera».

Cosa la colpì di più di quelle avventure?

«Quando sono andata le prime volte in India, si poteva vedere un'esistenza, che probabilmente ancora oggi resiste nei villaggi, legata alla ricerca, scollegata dai media, da Internet, dai telefonini. Ora ci sono monaci con il cellulare, tutto è cambiato. Io ho colto probabilmente l'ultimo frammento di un'India antica. Che forse è rimasta in luoghi sperduti dove la differenza tra i mega-ricchi e i poveri è palpabile».

Quale è stata la sua avventura personale più forte?

«La nascita di mio figlio. Questa è stata l'esperienza più straordinaria della vita, altro che il resto... I viaggi si posso far sempre, come tutto il resto».

Suo figlio ha preso la strada dei genitori?

«Gabriele è una persona indipendente mentalmente. Nessun condizionamento da parte nostra. Ha studiato Filosofia, ama la musica e fa dell'altro. Vive a Berlino, lavora nel sociale per e con i giovani. Ragazzi che possono avere dei disagi, in una città che a volte è dura seppur molto interessante».

Lui sarà il suo primo fan musicale...

«Sì, ma ha i suoi gusti, ascolta musica elettronica, altri generi. Senza che noi dessimo indicazioni, quando abitava in famiglia ascoltavamo attraverso di lui musiche che io e mio marito (Roberto Colombo, tastierista, arrangiatore e produttore discografico ndr) sentivamo a vent'anni, per esempio i gruppi progressive, dai Pink Floyd a Frank Zappa».

Ci sono momenti in cui si guarda indietro. Lei cosa vede?

«Io ragazzina, c'erano le manifestazioni delle femministe. Ho sempre visto ciò per cui le donne lottavano un fatto del tutto naturale. Per me era naturale che gli uomini collaborassero e che fossero educati. Sono cresciuta in un clima così. Con persone che si comportavano come i ragazzi moderni di oggi. I diritti e doveri erano già quelli».

I giorni del femminismo.

«Quelle lotte sono state fondamentali per tutte noi. Purtroppo vedo che oggi siamo tornati parecchio indietro. C'è un clima sociale che vede le donne sottopagate, sfruttate, non considerate. Altro che parità dei diritti».

Il conto dei traslochi esistenziali e non, l'ha mai fatto?

«Ho visto tanti posti, ho cambiato abbastanza case, però penso che quello che sei te lo porti dietro come se fosse dentro a una valigia, un baule. Adesso abitiamo anche noi a Berlino, andiamo e torniamo. La prima volta che sono stata là era il 1981, volevo vedere il Muro. Sono molto interessata alla storia di quel Paese, per capire che cosa è accaduto. Berlino capitale tedesca negli anni Venti, era all'avanguardia, c'è stato il quartier generale di Hitler, poi la Stasi. Una città affascinante, con una storia unica al mondo».

Oltre ai viaggi materiali ci sono anche quelli spirituali...

«Ho un rapporto con la spiritualità, un rapporto legato alla natura. La natura insegna, è matematica. Vedi le cose più piccole, tutto disegnato, tutto geometrico e ti dici come è possibile? Qualcuno ci sarà. La natura mi ha sempre insegnato che Dio c'è».

Dopo le avventure, il ritorno alle scene come è stato?

«Ho ripreso con l'intento di spostarmi il più possibile in territori diversi rispetto a prima, dall'elettronica al jazz alla musica popolare. E da questo nuovo lavoro che ho pubblicato si capisce che cosa è successo negli anni, tutti gli spostamenti personali, umani, artistici. È stato ed è ancora fantastico».

Parliamo del progetto che ha appena lanciato e che è stato accolto con molto interesse?

«In Quando facevo la cantante ci sono degli inediti, ci sono registrazioni fatte, perché Roberto là dove è stato possibile ha sempre portato a casa e tenuto. Tutto è finito in un archivio, finché un giorno mi ha detto ma perché non ci facciamo un regalo. Ed è venuta fuori la voglia di realizzare un'antologia».

Chissà quanti pezzi da riscoprire...

«Un cofanetto con sei cd, in tutto 115 pezzi eseguiti dal 1996 al 2018, in ogni disco un genere diverso. Si va alla musica popolare al sacro al classico, alle storie alle cose strane per fare degli esempi. Tutto riveduto dai vari arrangiamenti, dalle varie modalità stilistiche. È anche un documento dedicato ai giovani per far capire se possono far delle cose diverse».

Facciamo il gioco della torre: sui brani ora pubblicati, almeno uno che non butterebbe mai giù.

«Si intitola i Katari, un brano molto bello che anche io ho riascoltato tanti anni dopo averlo cantato».

Lei è sposata con un musicista, è difficile lavorare insieme?

«Sarebbe molto difficile se avessimo visioni diverse legate all'esistenza. Abbiamo una vita semplice, amiamo le stesse cose, la pensiamo allo stesso modo dal punto di vista sociale e politico. E, ovviamente, tutti e due amiamo la musica».

Guardando avanti, quali sono i nuovi orizzonti?

«Ci sono ancora molte cose da fare. Magari legate alla musica, sicuramente che hanno a che fare con l'arte. Cose che si potrebbero realizzare, indirizzate anche verso i giovani, i bambini, che sono i più vulnerabili a certi richiami e attacchi della società. Un tema che mi coinvolge molto».

Cosa le sarebbe piaciuto fare che non ha potuto realizzare?

«Mi sarebbe piaciuto realizzarmi attraverso l'arte visiva. Ormai non mi dedico al disegno o alla pittura che sono cose molte serie, ogni tanto però visito mostre. Vado a cercare quel che è avvenuto nel passato. Per esempio i primi del Novecento, a Berlino mi piace molto il museo della Bahaus».

E per lei in generale che cosa conta di più?

«La tranquillità emotiva e mentale sono la base per far sì che la vita stessa abbia un senso. Una cosa che raccomanderei ai giovani che troppo spesso vedo come delle prede per dei grandi venditori».

Che colore ha la nostra società?

«Oggi grigio piombo, io parlo dell'Italia. Siamo arrivati a una situazione inimmaginabile qualche decennio fa e chissà per quanto tempo sarà così. Penso ai giovani, che studiano, si impegnano e poi vengono maltratti per due soldi, messi a fare lavori che non portano da nessuna parte. Questo è un delitto, perché si rubano vita e speranze alle persone».

Rifarebbe tutto?

«Direi di sì, al netto di tutte le fatiche, rifarei le stesse cose. E penso di aver compiuto e compiere un lavoro sentito, onesto, minuzioso. Lontano dal baillame delle grandi regole». 

·         Marcella è Bella.

Marcella Bella: “Quella volta in cui ho rischiato di rimanere in perizoma..”. Gustavo Marco Cipolla l'08/06/2019 su Il Giornale Off. Si ricorda “Montagne verdi e le corse di una bambina” Marcella Bella. Alla “Discoteca laziale” di Roma, dove ha presentato il suo best of “50 anni di Bella musica”, la cantante catanese è arrivata di turchese vestita, perché “fa chic”, per incontrare i fan. La passione per la musica e suo marito Mario Merello, il rapporto con il fratello Gianni, un flirt datato anni ’70 con Red Canzian, bassista dei Pooh. Poi la candidatura alle elezioni europee nel 2004 con Alleanza Nazionale e quella volta in cui rischiò di rimanere in perizoma durante un concerto in Campania.

C’è un episodio OFF e singolare degli inizi della sua carriera?

«In realtà ero già famosa. Durante un concerto in un piccolo stadio vicino a Napoli rischiai di rimanere in perizoma. Avevo una lunga gonna, c’era un pubblico prevalentemente maschile e un ragazzo in particolare iniziò a tirarla. Ero terrorizzata e, siccome non mi lasciava andare, gli mollai il microfono in testa». (ride, ndr)

“50 anni di Bella musica” con suo fratello Gianni in un album che è un best of per festeggiare mezzo secolo di carriera…

«Ho voluto farlo dal vivo con una grande orchestra. Mi piaceva l’idea di raccogliere in due cd e in un dvd una parte dei mie successi e ricantare i pezzi con le emozioni e il cuore di un concerto live, che è completamente diverso da un disco strutturato. Ricordando i 50 anni anche con il calore del pubblico».

“Ora o mai più”. Bando al buonismo, nel mondo della musica non siete tutte “Amiche per l’Abruzzo”, vero?

«Mi sono scontrata diverse volte con Donatella Rettore, però ci siamo incontrate nella trasmissione di Rai 1 “Ora o mai più” e abbiamo chiarito. Ci siamo dette “è assurdo alla nostra età  fare le rivali”. Mi ha fatto molto piacere. Poi ci siamo abbracciate. Oggi mi telefona, è venuta al Brancaccio per  cantare con me. Ognuna ha i suoi seguaci, il suo repertorio e la propria personalità con generi diversi. Se qualcuna però si comporta da maleducata non subisco. Da buona siciliana reagisco e non le mando a dire».

I biscotti di Orietta Berti in trasmissione erano davvero “buoni”?

«Erano delle gag divertenti, siamo ritornate amiche. Come si fa a voler male ad Orietta».

Una collega che invece  è stata un suo punto di riferimento?

«Ho sempre ammirato Mina, mi è sempre piaciuta. L’ho sentita un po’ di anni fa, l’ho rivista a Forte dei Marmi, abbiamo giocato a carte insieme. Penso che ci sia una stima reciproca».

Lei domani glielo dice a suo marito Mario che lo ama ancora?

«Glielo dico da quarant’anni. Siamo rimasti io e lui. C’erano una volta Al Bano e Romina e ci sono ancora Orietta Berti e il suo Osvaldo. Compatibilità zodiacale perfetta: il mio Mario è Bilancia, io del segno dei Gemelli».

Negli anni ’70 un amore con Red Canzian, bassista dei Pooh…

«Non parlerei di amore, si è trattato piuttosto di un flirt, un’infatuazione. Una simpatia tra adolescenti. Un amoruncolo che come è nato è finito».

Di recente si sono svolte le elezioni europee e lei nel 2004 si è candidata nelle liste di Alleanza Nazionale. Lo rifarebbe?

«No, per l’amor di Dio. Io e la politica siamo due esseri completamente diversi, direi contrastanti. La seguo, ma sono troppo idealista per farla. La politica oggi non si fa con gli ideali, si fa dedicandosi moltissimo. Dopotutto sono una cantante, rimango un’artista e quella resta solo un’esperienza».

È sempre stata un sex symbol. Si sente Bella oggi?

«Oggi no, ma per l’età che ho non posso lamentarmi. Per fortuna non sono ingrassata, cerco di essere equilibrata con il cibo, di non stancarmi troppo. Bella non mi sono mai sentita. Quando gli altri  lo dicono però mi fa piacere. Mio marito lo dice sempre».

Con il sesso che rapporto ha?

«Bellissimo, mi piace».

E con la religione?

«Sono una cattolica non integralista. Una cristiana con delle pecche, però credo in Dio».

È consapevole di essere un’icona gay?

«Certo, li amo. Il mio fan club è fatto soprattutto da ragazzi gay. Ma non mi piace dire questa cosa, perché è come discriminarli. Per me sono persone come le altre, la sessualità appartiene alla dimensione privata. Adoro il genere, sia uomini che donne, e li ritengo molto sensibili, quindi più vicini alla mia sfera emotiva. Anche se spesso di me viene fuori l’immagine da leonessa catanese».

Se dovessero proporle di collaborare con un artista italiano emergente chi sceglierebbe?

«Mi ha colpito particolarmente il vincitore della scorsa edizione di X Factor, Anastasio. In passato ho fatto qualcosa sul genere rap, mi diverte sperimentare. Non mi dispiacerebbe lavorare con lui perché rispetto agli altri rapper mi è sembrato un po’ più sensibile, grintoso e coinvolgente».

Sogni?

«Ne ho una serie. Tanti, troppi. Quello che mi viene in mente subito è tornare a Sanremo. Ma non lo considero un sogno visto che ho partecipato più volte. Non so perché, purtroppo, negli ultimi anni ho avuto molti ostacoli. Quindi spero con tutto il cuore di ritornarci, è giusto che ci sia. Non mi piace cantare solo le canzoni del passato, vorrei esserci. Ho voglia di musica nuova».

Con un brano composto da suo fratello Gianni?

«Solo con un brano di Gianni».

Lei è gelosa se lui scrive per altre interpreti?

«Sì, ma un po’ ci gioco su. Alle donne non poteva regalare canzoni. Anche se tempo fa è riuscito a dare un pezzo ad Ornella Vanoni. Si chiamava “Innamorarsi”».

Marcella Bella vuota il sacco: "Il Festival di Sanremo? Nel 2007 mi hanno umiliato perché mi ero candidata con An", scrive il 21 Luglio 2017 Libero Quotidiano. Marcella Bella attacca Sanremo. "Al Festival del 2007, quando andai con Gianni e presentammo Forever, la giuria mi trattò malissimo… L’anno prima mi ero candidata alle Europee per An nella mia Sicilia e me la fecero pagare. Era una giuria di sinistroidi, per modo di dire, tutti comunisti con il Rolex". La cantante, tornata al successo con un singolo scritto da Mario Biondi, in un'intervista al settimanale Oggi, in edicola da domani. Alla domanda se tornerà a Sanremo dice: "Ho tenuto fuori dall’album una canzone per proporla, chissà. Certo, dipende dagli orientamenti che avrà il direttore artistico: se è uno che vuole solo giovani dai talent, sono fritta". A Oggi Marcella Bella parla anche della rivalità con la Rettore: "Lei mi punzecchiò a Sanremo nel 1986, io le risposi per le rime») e con la Berté («Le ho sempre voluto bene, lei a volte mi ama, a volte mi odia, non sa nemmeno lei il perché".

·         Rita Pavone.

Rita Pavone racconta Woodstock: "Ero avanti e fuori legge. L'unico rimpianto è non essere rimasta negli Usa". La cantante presenterà il 25 giugno su Rai 2 una serata in omaggio allo storico concerto con ospiti e le immagini delle esibizioni più emozionanti. "Sono amata e odiata ma non mollo mai. Sono felice che il direttore Carlo Freccero abbia pensato a me, ha capito il mio spirito". Silvia Fumarola il 20 giugno 2019 su La Repubblica. Nei giorni di Woodstock, nel 1969, era a Londra, per far nascere il figlio. Scopriva gli hippie e ascoltava artisti che sarebbero entrati nella storia della musica. Cinquant'anni dopo Rita Pavone, 73 anni rock, presenterà su Rai 2 in prima serata il 25 giugno la storica tre giorni di Woodstock. Woodstock, Rita racconta è un omaggio al concerto che riunì mezzo milione di persone, nel segno della libertà. "Sono felice che il direttore di Rai2 Carlo Freccero abbia pensato a me" racconta la cantante, "vuol dire che ha capito il mio spirito". Verranno proposte le immagini più emozionanti del concerto, le esibizioni di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Joe Cocker, Joan Baez, The Who, Creedence Clearwater Revival, Santana, Jefferson Airplane, Crosby, Stills, Nash & Young. Accompagnata dalla band Life in the Woods, Pavone ripercorrerà  il clima di quei giorni con tanti ospiti, da Donovan, star degli anni 60, a Mario Biondi, Raphael Gualazzi, Karima.

Signora Pavone, è stata una ragazza rock. Com'è nata la passione per la musica?

"Papà, che era operaio alla Fiat, nella sfortuna della guerra, era rimasto amico di tanti commilitoni che giravano il mondo. Alla radio sentivo che esisteva un mondo dall'altra parte, un'altra musica, e i suoi amici - che lavoravano sulle navi e andavano spesso in America - conoscendo la mia passione, mi portavano i padelloni di allora, ascoltavo Tony Bennett, Fats Domino. Avevo 12 anni, i grandi successi in Italia arrivavano molto dopo, ci volevano mesi e mesi, quasi un anno".

E quella musica l'ha segnata.

"Quando è arrivato il mio momento ero abbastanza avanti. All'epoca Gino Latilla e gli altri cantavano tutti impalati davanti ai microfoni. Ma io guardavo Baby Gate, la grande Mina prima che diventasse Mina, Celentano".

Alla fine degli anni Cinquanta era in Italia. Nel 1969, invece, era a Londra.

"Ero a Londra per dare il cognome a mio figlio. Non c'era il divorzio in Italia, mio marito Teddy Reno l'aveva ottenuto in Messico. Ci eravamo sposati in Svizzera. Ero fuori legge. Ho vissuto Woodstock da lontano ma mi resi conto della trasformazione epocale che stava avvenendo, del senso di solidarietà, dell'idea che tutti insieme si potesse cambiare il mondo. Era una rivoluzione pacifica. Quando andai a vedere Hair rimasi colpita, erano tutti nudi, ma era una nudità candida, ingenua, come quella dei bambini. Senza malizia".

Cosa la colpì di Woodstock?

"Mi emozionò moltissimo il fatto che nonostante avesse raccolto mezzo milione di persone, forse di più, non ci sia stato un atto violento, anzi sono nati amori e tanti bambini. La musica ha coronato quella parte importante della vita. Woodstock fu una celebrazione della vita, della voglia di stare insieme e condividere le stesse emozioni: un evento irripetibile".

Le celebrazioni per i 50 anni sono saltate per ragioni di sicurezza.

"La paura domina la nostra vita. È triste che non si sia potuto fare il concerto celebrativo. Non sa quanto mi dispiace per il futuro che verrà. Non per me, la mia vita l'ho vissuta - compirò 74 anni ad agosto - ma per i miei figli e le generazioni che verranno".

Si considera una combattente?

"Lo sono sempre stata. E il fatto che abbiano pensato a me per condurre lo speciale su Woodstock vuol dire che hanno intuito il mio carattere. Freccero ha capito come sono fatta. Mi sono sempre assunta le mie responsabilità, anche da ragazzina. Non mollo mai".

Il primo disco d'oro a 17 anni, il successo di Gian Burrasca, le tournée in tutto il mondo. Come furono gli inizi?

"Da piccola l'unico intoppo che avemmo fu quando mi arrivò la proposta di esibirmi negli Stati Uniti. All'epoca la signora dell'ambasciata ci accolse in modo sgarbato perché avevo fatto un concerto dove c'era Palmiro Togliatti. Avevo 18 anni, non potevo neanche votare, all'epoca dovevi averne 21. Guardai papà e mamma, loro avevano votato monarchico, poi democristiano. Non capivo. Allora, come in un film, la signora tirò fuori un manifesto dal cassetto: c'era stato un comizio di Togliatti, poi avevo cantato io. Spiegai: 'Canto per tutti, non guardo il colore'. Mi guardò un po' così, e mi diede il permesso per partire".

Rita Pavone, una pericolosa comunista?

"Avrebbe dovuto vederla mentre tirava fuori quel manifesto, tipo il commissario Cordier quando ha la prova decisiva. Togliatti era un mio grande ammiratore, ho conosciuto lui e Trombadori. Mi sono sempre chiesta perché chiamassero Togliatti il migliore. Guardava al di là".

Che impressione le fece l'America?

"Partecipai a cinque serate all'Ed Sullivan show, meraviglioso. Era la prima volta che vedevo New York, si figuri, abitavo alle case popolari Fiat. Viaggiare è la cosa più bella che la vita mi abbia regalato, incontravo altra gente, scoprivo un'altra architettura. Fissavo i grattacieli e mi dicevo: io sono qua".

Ha rimpianti?

"Forse l'unico è di non essere rimasta in America. I miei non hanno voluto, papà ha insistito per farmi tornare in Italia. Ringrazio Dio tutte le mattine per quello che ho avuto, ma a New York avevano un modo di lavorare che noi neanche immaginavamo. Organizzavano tutto, dovevi solo esibirti. Sono rimasta dodici settimane su Billboard, ho lavorato con Orson Welles, Marianne Faithfull, Tom Jones, Barbra Streisand. Era una scuola che mi piaceva. Per carità ho avuto successo in Italia, ma chissà cosa sarebbe accaduto se avessi continuato a lavorare con l'agenzia William Morris. Ho cantato alla Carnegie Hall, non si esibivano tutti".

Se dovesse fare un bilancio?

"Ho avuto successo e ho ingoiato tanti rospi ma come Rossella O'Hara mi sono sempre detta: domani è un altro giorno. La vita è una giostra, per uno che ti ha dimenticato, trovi un direttore di Rai 2 che dice: 'La Pavone è la persona giusta per la serata Woodstock'. Ricordo tutti quelli che mi hanno fatto male e aspetto che il cadavere passi, ma ricordo anche chi mi ha fatto del bene: Antonello Falqui, Guido Sacerdote, mio marito l'ho sposato, Lina Wertmuller. Sono amata e detestata, mi dicono: succede perché hai personalità".

Lo ha scoperto sui social, dove è molto attiva?

"Scrivo 'Oggi è una bellissima giornata' e ti rispondono 'Chissenefrega'. Scrivo di pancia, i miei figli mi rimproverano: devi pensarci mamma. Puoi condividere un'emozione o fare una considerazione che può essere giusta. Solo perché ti sto sulle palle non è detto che quello che ho scritto sia sbagliato. C'è gente con i paraocchi, chi non vuol capire non capirà mai e non ti lascia opportunità di esprimerti. Poi diciamo la verità, i tweet sono brevi non puoi mai spiegare bene cosa hai in testa".

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 25 Giugno 2019. Nel 1969 lei aveva già ottenuto una fama rarissima per una 24enne. E sempre nel 1969 alcuni tra i più grandi artisti mondiali si ritrovarono a Bethel, nello Stato di New York, per partecipare al più grande (e più lungo: durò tre giorni, dal 15 al 18 agosto) concerto della storia della musica, passato alla leggenda come Woodstock. Ma per entrambi, sia per Rita Pavone che per il movimento dei figli dei fiori radunatosi in quell' evento, il 1969 fu la fine di un mondo. Per lei, la chiusura di un decennio di riconoscimenti in patria cui sarebbe seguito un ingiusto allontanamento dalle scene. Per i sessantottini, la pietra tombale su un ideale di pace demolito dai cruenti anni '70. Per tutte queste ragioni diventa interessante seguire oggi su RaiDue in prima serata lo speciale Woodstock, Rita racconta, condotto da una Pavone in forma smagliante, insieme a ospiti eccellenti come Mario Biondi a Raphael Gualazzi. Una Rita che non le manda a dire perché, che usi la voce per cantare o per parlare, è sempre sferzante. Datele un martello, lei saprà che farne...

Rita Pavone, perché raccontare Woodstock 50 anni dopo?

«È stato l' evento che ha caratterizzato un' epoca decisiva della nostra vita: un momento di grande unione e solidarietà, segnato dalla voglia di cambiare il mondo. Non ci si è riusciti ma, di Woodstock, restano due cose: il desiderio di libertà e la qualità musicale di un raduno in grado di convogliare gente come Janis Joplin, Joan Baez, Joe Cocker, Jimi Hendrix. Un appuntamento del genere oggi sarebbe irripetibile: impossibile pensare a un concerto come quello, con 500mila persone».

A Woodstock si teorizzava una società libera senza polizia, regole, denaro e confini. Era un' utopia destinata a fallire?

«Era un' isola felice in cui tutti rivendicavano il diritto a cambiare e sognare. Ma quei 3 giorni rappresentarono anche la chiusura di un cerchio, la fine di un sogno. Dopo quell' estate si tornò alla realtà, col rimpianto di non aver realizzato la società ideale che avevamo immaginato».

Lei torna in Rai dopo aver partecipato a Sanremo Young. Ci voleva la Rai sovranista per restituire al servizio pubblico una grande artista come lei?

«Purtroppo in tv vale la regola che, se non appartieni alla "parrocchia", non puoi fare niente. E invece credo che un artista debba essere giudicato solo per il suo talento. Per questo ringrazio il direttore di RaiDue Freccero e gli autori del programma che hanno puntato su di me. Io ho un passato che tutti vorrebbero aver avuto, ma in Italia la gente ha la memoria troppo corta. Vedi così personaggi in tv che sono lì solo perché hanno alle spalle qualcuno. Ma la giostra gira anche per loro...».

Quest' anno lei festeggia i 60 anni di carriera. A partire dagli anni '70 tuttavia il suo successo è stato più all' estero che in Italia. Il nostro Paese non le ha mai perdonato le sue scelte di vita privata?

«Il mio matrimonio (la Pavone si sposò con Teddy Reno, un uomo molto più grande di lei e già con un figlio, ndr) mi è costato tantissimo. Tutti mi volevano come ribelle e ribelle io sono stata. Mi dissero che, se avessi fatto quella scelta, mi sarei rovinata la carriera. Ma io feci spallucce: dovevo pensare alla mia felicità, altrimenti sarei stata un' ipocrita. E, in ogni caso, penso che ad averci perso sia stato il mondo dello spettacolo italiano».

L' anno scorso lei ha invitato i Pearl Jam che aderivano alla campagna #Apriteiporti a farsi gli affari propri. Era un modo per sostenere la linea dei porti chiusi di Salvini?

«Io non volevo entrare nel merito della questione, ma intendevo dire questo: se un americano viene a fare un concerto a casa nostra, non è tenuto a dire ciò che gli italiani dovrebbero fare. È bastata quella battuta per attirarmi addosso critiche feroci. Ma io sono una Gian Burrasca, dico quello che penso prendendomi tutte le responsabilità. E come lui sono autentica, in un mondo di ipocriti».

Di recente ha postato un video di immigrati che compiono atti di vandalismo a Firenze. Con meno clandestini le città sarebbero più sicure?

«Io ho girato il mondo e mi sono sempre adeguata al modo di vivere del Paese dove andavo. Se sei ospite a casa di altri, ci sono cose che sarebbe bene non fare».

Le ha fatto piacere leggere Salvini che ha scritto «Onore a Rita Pavone»?

«Ringrazio Salvini per questa frase molto gentile e spero per il bene dell' Italia che questo governo regga. Ma, detto ciò, sono una liberale che non intende scendere in campo.

Dopo la mia candidatura nel 2006, ho capito che non sono fatta per la politica e la politica non è fatta per me».

Lei ha definito Greta Thunberg «un personaggio da film horror» prima di chiederle scusa quando ha saputo che soffre della sindrome di Asperger. Al di là della gaffe, crede che Greta sia un personaggio creato ad hoc dalle lobby ambientaliste?

«Io non avevo intenzione di offenderla. Quando l' ho definita "mostro", intendevo un personaggio che è stato creato ad arte e ha una potente organizzazione alle spalle. Greta poi, da ambientalista, si contraddice perché, per stampare il suo libro, si abbattono gli alberi. Aggiungo che in quell' occasione la vera massacrata sui social sono stata io: hanno pubblicato una mia foto orribile, scattata quando ero appena uscita dall' ospedale dopo un' operazione all' aorta».

Ha mai pensato di cancellarsi dai social?

«No, ci resto, ma non entro più in polemica. Quel mondo è incattivito da persone che si nascondono dietro un nickname. E io non voglio passare il tempo a rispondere, facendo come quegli artisti che parlano molto e cantano poco».

·         Donatella Rettore.

Giulia Cavaliere per corriere.it l'8 luglio 2019.

Una cantautrice. Quella di Donatella Rettore è una storia misconosciuta: ricordata per la sua dirompente e coloratissima figura, artistica ed estetica, che fece irruzione nel panorama del pop commerciale italiano a partire dal grande successo del 1979 con l’album Brivido Divino, è poco spesso riconosciuta per il suo ruolo reale: cioè quello di cantautrice. In occasione del suo compleanno ripercorriamo dunque la storia e specialmente le origini artistiche di una delle più prolifiche voci femminili della storia della canzone italiana.

Cobra e Gino Paoli. Un animale destinato a tornare nel bestiario di Donatella Rettore, questo Cobra, che dava anche il nome al primo gruppo in cui milita la cantante, a soli 10 anni, e con cui inizia a esibirsi in parrocchia con il benestare dei genitori a partire dalla madre, un’attrice di teatro di origini nobili particolarmente legata al mondo goldoniano. Nel 1973 esce il suo primo singolo seguito poi da un secondo singolo promozionale nel 1974: il brano, scritto da Gino Paoli, si intitola Ti ho preso con me e non ha alcun successo. Nello stesso anno si presenta a Sanremo con la canzone Capelli sciolti poi inserita nel suo primo album, uscito quell'anno con una straordinaria copertina di ispirazione folk e intitolato “Ogni giorno si scrivono canzoni d’amore”.

L'incontro. Sempre nel 1974, in Puglia, Donatella Rettore incontra quello che sarà il suo compagno e sodale per tutta la vita, cioè Claudio Rego, intanto, con il 45 giri Lailolà vende cinque milioni di copie e comincia a farsi conoscere anche sul mercato estero. Nel suo secondo album omonimo si annidano parecchie chicche: un brano dedicato a Luigi Tenco, È morto un artista, poi Gabriele dedicata a Gabriele D’Annunzio e un paio di pezzi impegnati che trattano con grande anticipo il tema delle molestie (pedofilia inclusa), Caro preside, e quello delle vessazioni della famiglia patriarcale, Il patriarca. Siamo nel 1977 e in quello stesso anno l’autrice torna a Sanremo con l’epica Carmela, lanciando caramelle sul pubblico in pieno mood sanremese anni Settanta (cioè con vera una spettacolarizzazione dell'esibizione). La canzone parla di Guerra Civile spagnola, insomma, ancora una volta siamo di fronte a una Donatella Rettore molto diversa da quella che l'immaginario collettivo vuole ricordare.

Chiamami soltanto Miss Rettore. Nel 1978 arriva la svolta: Donatella è uscita e a casa non c'è, come canterà lei stessa: chiamami soltanto Miss Rettore! Il nome Donatella sparisce dai titoli e il look cambia, si fa decisamente più pop, più colorato, più eccentrico, Rettore è un'icona ora e così resterà: le canzoni pure diventano più pop, lasciano spazio a giochini ai synth e a inserti disco, visto che siamo nel periodo della sua ascesa anche in Italia. Poco e nulla resta della cantautrice folk legata al mondo di Paoli e Tenco, ed è il momento di Splendido Splendente, il momento della Rettore che conosciamo. Dopo il grande successo di Brivido divino, l'anno successivo la nuova Miss Rettore darà alle stampe il suo Magnifico Delirio che conterrà, tra le altre, anche quel famoso Kobra...

Prima in classifica. Tutti i brani di Rettore sono firmati Rettore / Rego, un sodalizio lunghissimo che continua nel lavoro come nella vita e prende forme diverse, a volte più pop, altre più concettuali e alte, basti pensare a un album come Kamikaze Rock 'n' Roll Suicide, un concept ispirato alla cultura giapponese antica e moderna interamente incentrato sull'idea del suicidio. Non stiamo parlando di roba periferica, sia chiaro, il disco, che tra le altre contiene il singolo Lamette, vende più di tre milioni di copie in Europa e Giappone. Sono davvero pochissimi i casi in cui l'autrice si cimenta unicamente come cantante, come interprete, tra questi vediamo l'interpretazione di tre brani di Elton John tra cui Remember e Sweetheart on Parade. Non lo ricordiamo mai, ma Rettore, tra gli anni settanta e gli anni 80 è la cantante italiana donna che vende di più in assoluto e considerando che è superata soltanto da Mina, possiamo tranquillamente affermare che è la prima cantautrice donna nella classifica italiana.

Donatella Rettore: "Sono arrabbiata con Fazio". In una lunga intervista concessa a Leggo.it, Donatella Rettore ha spiegato i motivi che, secondo lei, l'hanno tenuta lontano dalla televisione italiana. Riccardo Palleschi, Venerdì 14/06/2019 su Il Giornale. Donatella Rettore è tornata a dire la sua sulla televisione italiana e sulle sue personali apparizioni in essa. In una lunga intervista a Leggo.it la cantante di Castelfranco Veneto ha lamentato di lavorare poco e ne ha spiegato anche i motivi prendendosela un po' con Fabio Fazio...

Donatella Rettore: "Sono arrabbiata con Fazio". Donatella Rettore ritiene che si stava meglio quando si stava peggio, per utilizzare un vecchio adagio. Per poter lavorare, infatti, è dovuta emigrare all'estero. Precisamente in Germania. Parlando del Paese teutonico la Rettore ha detto: "La Germania è stata la mia culla. Mi chiamavano Donatella e da lì in tutto il mondo. In Italia invece come ho scelto Rettore è cominciato il successo". Ma questo agli inizi della sua carriera. Successivamente, comunque, le cose sono cambiate. Rettore, infatti, continua: "In Italia non mi volevano, dicevano che ero una buzzicona. Gli italiani guardano le apparenze. Me lo disse anche Lucio Battisti quando lo incontrai all’estero. Era il 1978 e lui da anni non andava più nella tv italiana. Gli chiesi perché? E lui: 'Mi guardano il foulard, come porto i capelli, se ho la pancia. Non faccio più neanche i concerti'. Ha fatto pure il disco dal titolo L’Apparenza". E anche nel recente passato, nonostante la sporadica partecipazione a Tale e Quale Show, non è cambiato molto, infatti Rettore continua: "Sono sempre andata molto all'estero, ma da sei mesi non mi chiamano più. È terribile. Niente". Ed è a questo punto che Donatella Rettore spiega perché ce l'ha con Fazio: "Fazio a Quelli che il calcio mi invitava sempre come tifosa dell’Hellas Verona, a Che Tempo che Fa invece non mi ha mai chiamato. Neanche col disco nuovo, e io ci sarei andata gratis. Sono arrabbiata con lui. Evidentemente mi considera un’artista solo se si parla di calcio. Tutte le settimane ero lì e ho fatto anche la sigla del Processo del Lunedì, voluta dal grande Aldo Biscardi".

RETTORE, CHIAMATE UN DOTTORE! Marco Castoro per Leggo il 12 giugno 2019.  

Rettore, essere schietti è un pregio. Una dote che però si paga a caro prezzo…

«Vero. Ma essere schietti ti fa sentire libera. E la libertà non ha prezzo».

Con Loredana Bertè siete state talmente schiette da finire in tribunale.

«Siamo sempre state diverse. È lei che si sente una mia rivale. Per me è tutto chiuso. Anzi quest’anno a Sanremo se avesse vinto sarei stata pure contenta. Eravamo amiche. Poi mi ha chiamato in causa. Io dissi che evidentemente era invidiosa del mio primo posto in classifica. Da lì in poi mi ha detto di tutto, al punto che fui costretta a dirle “Io con te non parlo più”. In tribunale tutto chiuso perché i giudici non potevano perdere tempo con due cretine».

Due nemiche giurate…

«Come con Marcella, tanto nemiche che ora cantiamo assieme».

Canterebbe pure con la Bertè?

«Marcella è una vera cantante. Sta sul pezzo e non molla mai. Con Loredana è problematico. Perché io mi deconcentro se la nota non è precisa».

E i battibecchi con Orietta Berti a Ora o mai più?

«Ma dai! Lei ha pure cantato Il Kobra. Diciamo che in quella trasmissione io vivevo un momento difficile. Mi avevano affidato un tronco come cantante da seguire (Donatella Milani). Tanto che dissi loro: “Perché mi chiamate e poi mi date – come dicono Cochi e Renato – per premio un cannone in spalla”. Milani, diamine: se non prendi le note parla, così almeno non stoni. Facevamo tre prove, non di più perché - mi diceva - sennò le andava via la voce. Ma allora non fumare! Lei fumava nei corridoi all’aperto, in pieno inverno».

Adesso che cosa combina di bello?

«Sono sempre andata molto all’estero, ma da sei mesi non mi chiamano più. È terribile. Niente. Mi chiamavano più con Berlusconi premier che adesso, poi ti prendevano in giro con Bunga Bunga. Ma almeno ti chiamavano. La politica incide sul lavoro. L’Italia ha perso molta credibilità. Sono in tour in Italia con Rettore e il suo complesso. Attento, ho detto complesso e non band. Le band ce l’hanno i mafiosi, i cantanti hanno il complesso, magari quello di Edipo, ma è un complesso. Io e Marcella abbiamo fatto un disco, un duetto tra due che cantano con una bella voce. Poi quest’estate si ballerà in spiaggia il remix di Splendido Splendente, 40 anni ma non li dimostra».

In Tv c’è tanta musica. I talent…

«L’altra sera ho visto i Music Awards. Mi sono piaciuti Baglioni, De Gregori. Quella che mi è piaciuta meno è Alessandra Amoroso, dovrebbe ricominciare a studiare, canta troppo di naso. Eppure nei talent, a cominciare da Amici, ci sono fior di maestri di canto, io a Tale e Quale avevo quel genio di Maria Grazia Fontana che avrei voluto sempre con me. Dai 15 ai 60 anni abbiamo tutti bisogno di chi ci guida: quattro orecchie funzionano meglio di due. La voce nasale proprio no. Deve essere bella, suadente. Ce l’hanno insegnato Mina, Milva, Iva Zanicchi. Poi sono arrivati gli alpinisti, quelli che andavano in alto o i carbonari che facevano la gara a chi arrivasse più basso. Per favore! Cerchiamo di cantare bene. Un “mi” e un “re” vanno presi bene».

Ha scritto canzoni per tanti interpreti, è pentita?

«Assolutamente no. Prima o poi farò un album raccolta, tipo Adesso canto io. Ho scritto per Loretta Goggi, Iva Zanicchi, Tiziana Rivale, Dora Moroni, Luciano Rossi. Una soddisfazione scrivere per gli altri. Mi ha aperto la mente sentire cantare diversamente».

Il look quanto è importante?

«Negli anni Ottanta le case discografiche mi dicevano di indossare un tailleur: “Mica sei un uomo o David Bowie che puoi trasgredire”. Mentre in Inghilterra c’era Annie Lennox che faceva di tutto. Da noi ti chiedevano “Come si veste? Come si trucca?”. Io uscivo col teschio, col cappello in testa. A una che vende i dischi perché deve dire “truccati come Marisa Sannia”. Con i discografici ho sempre avuto problemi. Non li capivo. Mi sono fermata e mi sono messa a guardare i cadaveri».

A “Tale e Quale” tornerebbe?

«Me ne sono andata per un’infezione ai reni dopo tre puntate. Rifarlo, mah, dovrebbe cambiare. Non si devono prendere personaggi semi-sconosciuti. È fondamentale avere la voce, se non l’hai non puoi partecipare. Lo show non si deve basare solo su trucco e parrucco. I protagonisti sono gli artisti non i truccatori, altrimenti siamo a Viareggio e tutto diventa una mascherata. Ho impersonato Caterina Caselli, Patty Pravo e Gabriella Ferri.

La Pravo ragazza del Piper, non quella di adesso che non canta più ma parla. Ha difficoltà oggettive di concentrazione, a Ora o mai più non è partita e la povera Silvia Salemi si è dovuta beccare un 5 da Cutugno. Marcella era avvelenata con Toto. Impersonando la Ferri per un soffio non ho vinto e avevo 39 di febbre. Un altro artista che ho sempre adorato è Ugo Tognazzi. Dovrebbero indire un premio a suo nome. Un giorno voleva fare con me un film, mi propose Il petomane. Ma non potevo farlo».

Donatella è sparita. Che fine ha fatto?

«La Germania è stata la mia culla. Mi chiamavano Donatella e da lì in tutto il mondo. In Italia invece come ho scelto Rettore è cominciato il successo».

È stato più facile ottenere successo all’estero che in patria.

«In Italia non mi volevano, dicevano che ero una buzzicona. Gli italiani guardano le apparenze. Me lo disse anche Lucio Battisti quando lo incontrai all’estero. Era il 1978 e lui da anni non andava più nella tv italiana. Gli chiesi perché? E lui: “Mi guardano il foulard, come porto i capelli, se ho la pancia. Non faccio più neanche i concerti”. Ha fatto pure il disco dal titolo L’Apparenza».

Anche a lei in tv come ospite la vediamo poco.

«Fazio a Quelli che il calcio mi invitava sempre come tifosa dell’Hellas Verona, a Che Tempo che Fa invece non mi ha mai chiamato. Neanche col disco nuovo, e io ci sarei andata gratis. Sono arrabbiata con lui. Evidentemente mi considera un’artista solo se si parla di calcio. Tutte le settimane ero lì e ho fatto anche la sigla del Processo del Lunedì, voluta dal grande Aldo Biscardi».

«Elton John invece di dimagrire sta esagerando con i lifting. Sembra quasi Patty Pravo», dice al settimanale «Oggi», in edicola da domani, Donatella Rettore, che racconta di essere stata grande amica di famiglia della popstar. Una Rettore effervescente che non risparmia nessuno. «Ho un nuovo disco pronto, ma non voglio farlo uscire tra tanti dischi insulsi», dice. E lancia una frecciata alla collega Loredana Bertè: «Continua a fare cose tipo “col fucile, le pinne e gli occhiali”, mentre me la ricordo che cantava Il mare d’inverno». Pace fatta invece tra la Rettore e la rivale storica Marcella Bella. Tanto che Donatella a «Oggi» dice: «Tornerei a Sanremo solo assieme a Marcella».

·         Caterina Caselli: «Ho battuto il cancro, e sono tornata».

Caterina Caselli: «Ho battuto il cancro, e sono tornata». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Maria Luisa Agnese su Corriere.it. Pubblichiamo in anteprima una parte della lunga intervista che Maria Luisa Agnese ha fatto alla produttrice discografica e ex cantante Caterina Caselli. Dalle riflessioni sul tumore contro cui ha combattuto, ai ricordi della carriera e del successo di “Nessuno mi può giudicare”. Fino alla decisione di dedicarsi allo scouting di talenti come Andrea Bocelli e Elisa. Alle trasformazioni radicali Caterina Caselli è abituata. La prima volta fu nel 1966 quando i parrucchieri Vergottini le inventarono quel caschetto biondo e la ragazza di Sassuolo si trasformò in Casco d’oro. La seconda quando sotto quel caschetto che le aveva regalato uno dei successi più folgoranti degli anni Sessanta, cominciò a far ricrescere i suoi capelli castani e divenne prima la signora Sugar e la madre di Filippo, 47 anni, figlio amatissimo ora alla guida di Sugar Music, e poi curatrice di talenti nel complesso e capriccioso mondo della musica contemporanea. Adesso, alla terza nuova immagine, capelli corti, color naturale, appena mitigato da un bagno perla, corrisponde una nuova età e un look non scelto e neppure imposto dallo star system, ma dolorosamente accettato. E ora, dopo un periodo durissimo in cui si è dedicata a prendersi cura di sé e della sua salute, Caterina torna in pubblico «di nuovo leggera»: Nessuno mi può giudicare, suo brano feticcio insieme a 100 giorni, Perdono e Insieme a te non ci sto più, fa da colonna sonora per Sarah Jessica Parker nella campagna mondiale Intimissimi, bandiera di indipendenza per donne di tutte le età. Ed è appena arrivato un remix di Lost frequencies, alias Felix Safran De Laet, omaggio alla stessa canzone del dj internazionale belga. E presto con tre nuove proposte al femminile - Madame, Kety Fusco e Nyvinne - che si vanno ad aggiungere alla lunga lista di talenti da lei potenziati - da Andrea Bocelli ai Negramaro, da Malika Ayane ad Elisa, da Gualazzi e Riccardo Sinigallia a Motta e Arisa - e racconta quanto sono stati difficili gli ultimi due anni.

Quindi questa nuova immagine non è solo un capriccio di look.

«È stato far di necessità virtù. Ho attraversato un lungo periodo difficile e, per quanto superato, ha un risvolto estetico, perdi i capelli. Poi ricrescono e ricrescono del tuo colore. Mi ha sorpreso vedermi così, e lì per lì non ero così decisa a lasciarli naturali. Anche Piero, mio marito, era per il no. Poi piano piano ho cominciato a sentirmi a mio agio. E oggi mi sento me, me stessa. Per il periodo della malattia portavo una parrucca identica ai capelli che avevo prima, mi serviva per non far capire a mia madre. Che se ne è andata da qualche mese e per fortuna non si è accorta di niente. Non ha capito, stava male di suo. Ho vissuto la malattia in privato, in famiglia, sotto la parrucca. Poi piano piano mi sono abituata e quando le persone mi hanno visto mi hanno incoraggiato. Anche in ufficio non avevo detto niente, poi un giorno sono arrivata a una riunione, sono uscita dall’ascensore ed è partito un applauso, è stato il mio primo bagno di folla per quanto limitato, volevo fare una prova, vedere la reazione. Mi hanno detto che ho fatto un’entrata da rock star, hanno parlato di look newyorchese. Anche le amiche Daniela, Shake, Ludovica, Maria, Mina, Cristina, Giulia, Pia e Matilde mi hanno sostenuto nella decisione, Chiara Boni mi ha esortato a lasciarli così, e Ornella Vanoni mi ha chiesto: “Ti senti a tuo agio? e allora va benissimo!” Sono stata la prima ragazza del Piper, prima di Nicoletta, ovvero Patty Pravo, a maggio 1965: un’ esperienza straordinaria. Si parlava molto di me, questa ragazza del Piper, e Ravera che mi conosceva dal ‘64 a Castrocaro invita l’amico Ladislao Sugar, che poi sarebbe diventato mio suocero, e che arriva in mezzo a questi scalmanati, io avevo pantaloni a zampa d’elefante, cantavo Ray Charles, i Beatles e i Rolling Stones e lui è entrato là in mezzo, elegante, vestito di grigio e alla fine mi ha detto: “Sentendo lei tutto il resto mi è sembrato vecchio”».

È lì che è arrivato il caschetto.

«Ricordo i 7 cugini Vergottini schierati con Cele in testa che mi dicevano: “Non ti vergogni, con quei capelli?” Li portavo lunghi alla selvaggia e ho detto: “Fate di me quel che volete”, mi hanno decolorata, tagliata. Esco, scendo in galleria e incontro Ravera che non mi riconosce, capisce che sono io solo dalla voce. Poi quella canzone per Sanremo 1966, Nessuno mi può giudicare, scartata da Celentano che aveva già Il ragazzo della Via Gluck. Ma era un tango ed io pensai manco morta, tango e valzer erano musica da persone anziane. Il maestro Callegari mi dice non ti preoccupare e prepariamo una versione come piace a noi, che Arbore chiamerebbe beat».

La scoperta di nuovi talenti. Con Bocelli come è andata?

«Cercavo una voce così. Mi ero accorta che il tenore Mario Lanza aveva ancora un fan club molto vivo. Noi siamo i rappresentanti del bel canto, gli spartiti musicali sono in italiano, allegro, andante... E quando ho accompagnato Gerardina Trovato al tour europeo di Zucchero, sento questa voce che canta il Miserere e dico “Ma questo non è Pavarotti, ma chi è?”. Lo conosco e mi dice che anche lui mi stava cercando, e perdipiù era bello come Omar Sharif. Pavarotti in Pavarotti and friends cantava il repertorio pop mantenendo la vocalità lirica. I cantanti lirici utilizzano una emissione che consente di far correre la voce e superare la barriera dell’orchestra. La voce lirica impostata, se cantata nei teatri d’opera, ha una tecnica che non va amplificata. È così che certe canzoni pop cantate con voce impostata risultano fuori stile. Con Bocelli no. Per lui cambiare tecnica dal pop all’impostazione lirica è relativamente semplice. Ricordo una music supervisor di Walt Disney, Kathy Nelson, che mi disse: “I like Bocelli because is not so operatic “. Il canto pop è più naturale, non si avverte lo studio e arriva alla gente naturalmente. Ricordo una festa di compleanno di Gino Paoli a Modena dove c’era anche Zucchero, dove Andrea si alza, fa lo spiritoso e ridendo dice a Zucchero: “Io faccio te e Pavarotti messi insieme”: si è messo alla tastiera e ha fatto le due parti. Micidiale. E io mi sono rafforzata nell’idea».

Maria Luisa Agnese per ''Sette - Corriere della Sera'' il 18 giugno 2019. Alle trasformazioni radicali Caterina Caselli è abituata. La prima volta fu nel 1966 quando i parrucchieri Vergottini le inventarono quel caschetto biondo e la ragazza di Sassuolo si trasformò in Casco d’oro. La seconda quando sotto quel caschetto che le aveva regalato uno dei successi più folgoranti degli anni Sessanta, cominciò a far ricrescere i suoi capelli castani e divenne prima la signora Sugar e la madre di Filippo, 47 anni, figlio amatissimo ora alla guida di Sugar Music, e poi curatrice di talenti nel complesso e capriccioso mondo della musica contemporanea. Adesso, alla terza nuova immagine, capelli corti, color naturale, appena mitigato da un bagno perla, corrisponde una nuova età e un look non scelto e neppure imposto dallo star system, ma dolorosamente accettato. E ora, dopo un periodo durissimo in cui si è dedicata a prendersi cura di sé e della sua salute, Caterina torna in pubblico «di nuovo leggera»: Nessuno mi può giudicare, suo brano feticcio insieme a 100 giorni, Perdono e Insieme a te non ci sto più, fa da colonna sonora per Sarah Jessica Parker nella campagna mondiale Intimissimi, bandiera di indipendenza per donne di tutte le età. Ed è appena arrivato un remix di Lost frequencies, alias Felix Safran De Laet, omaggio alla stessa canzone del dj internazionale belga. E presto con tre nuove proposte al femminile – Madame, Kety Fusco e Nyvinne – che si vanno ad aggiungere alla lunga lista di talenti da lei potenziati – da Andrea Bocelli ai Negramaro, da Malika Ayane ad Elisa, da Gualazzi e Riccardo Sinigallia a Motta e Arisa – e racconta quanto sono stati difficili gli ultimi due anni.

Quindi questa nuova immagine non è solo un capriccio di look.

«È stato far di necessità virtù. Ho attraversato un lungo periodo difficile e, per quanto superato, ha un risvolto estetico, perdi i capelli. Poi ricrescono e ricrescono del tuo colore. Mi ha sorpreso vedermi così, e lì per lì non ero così decisa a lasciarli naturali. Anche Piero, mio marito, era per il no. Poi piano piano ho cominciato a sentirmi a mio agio. E oggi mi sento me, me stessa. Per il periodo della malattia portavo una parrucca identica ai capelli che avevo prima, mi serviva per non far capire a mia madre. Che se ne è andata da qualche mese e per fortuna non si è accorta di niente. Non ha capito, stava male di suo. Ho vissuto la malattia in privato, in famiglia, sotto la parrucca. Poi piano piano mi sono abituata e quando le persone mi hanno visto mi hanno incoraggiato. Anche in ufficio non avevo detto niente, poi un giorno sono arrivata a una riunione, sono uscita dall’ascensore ed è partito un applauso, è stato il mio primo bagno di folla per quanto limitato, volevo fare una prova, vedere la reazione. Mi hanno detto che ho fatto un’entrata da rock star, hanno parlato di look newyorchese. Anche le amiche Daniela, Shake, Ludovica, Maria, Mina, Cristina, Giulia, Pia e Matilde mi hanno sostenuto nella decisione, Chiara Boni mi ha esortato a lasciarli così, e Ornella Vanoni mi ha chiesto: “Ti senti a tuo agio? e allora va benissimo!”»

Alla fine è diventato un look per una nuova età della vita.

«Fino a qualche anno fa pensavo che la mia vita fosse infinita. Questa esperienza mi ha fatto capire che non lo è. Allora ti rendi conto delle cose che contano, degli affetti che contano e anche dei privilegi che hai. Ti rendi conto che è successo qualcosa per cui le priorità cambiano, ora c’è un lavoro nuovo che devi fare che non avevi previsto e che ha bisogno del tuo tempo e del tuo corpo. Conosci e impari terminologie che non conoscevi che riguardano le cure, devi fare leva sulla tua pazienza, devi trovare la forza che hai, che è latente, devi stimolarla, perché va e viene, non puoi essere sempre al top. Ci sono momenti in cui non stai bene, e il dolore è ricattatorio».

Nel tunnel si entra da soli.

«Sì. In questi anni non ho mai perso la fiducia e ho trovato all’Istituto dei Tumori medici che si prendono cura del paziente anche dal punto di vista psicologico. Ma il tuo dolore non è delegabile, e nessuno te lo può togliere. Sei tu che devi sopportare, in prima persona. Ti conforta tanto però avere intorno una famiglia e delle amiche, mia sorella Liliana, una presenza importante nella mia vita da sempre. Mio marito Piero che mi segue passo passo, mio figlio Filippo, che dirige con grande passione e capacità l’azienda di famiglia. È finalmente tornato dopo essere stato per quattro anni presidente Siae. Io attualmente seguo alcuni progetti e per fortuna non sono più in “prima linea”, mi piace molto stare con i miei tre nipoti, Greta 21 anni, Alessandro 18 e Nicola 13 e mezzo, purtroppo li vedo non spesso per ragioni di studio. È una festa stare con loro, e ringrazierò sempre la dolcissima Maria Novella, moglie di mio figlio Filippo».

La famiglia di oggi, e quella di ieri. Chi sono stati i pilastri, allora?

«Io ho avuto due nonne, quella biologica Caterina che è morta giovane a 42 anni di emorragia cerebrale, e la seconda moglie di mio nonno, Maria, che non aveva studiato ma era intelligentissima e di gran sensibilità; capiva tutto e si occupava di tutto, faceva tappeti al telaio, curava l’orto, dava da mangiare a tutti e se ti facevi male faceva anche il medico, era speciale. È grazie a lei se mi chiamo Caterina: quando nacqui avendo capito che volevano chiamarmi Imelde – in Emilia è così, hanno questi nomi strani, mio zio si chiamava Falcero – andò da mio nonno e gli disse che doveva insistere perché mi mettessero il nome della nonna vera. Si dice che Caterina mia nonna cantasse benissimo, aveva una voce da contralto come me e si dice che quando lei e suo zio cantavano nei campi la gente si fermava ad ascoltare. Ho vissuto in una grande famiglia, mio padre l’ho perso a 14 anni, mia madre aveva creato nella casa dei nonni un centro di maglieria dove insegnava alle altre ragazze, figlie di contadini vicini, un mestiere. Erano tutte giovani, venivano a casa di mia mamma e io bambina ascoltavo le loro storie, le ricordo ancora, Anita che aveva un ragazzo militare e ogni giorno imbucava una lettera, Maria aveva le efelidi e non le piacevano e metteva un dito di fard in faccia».

Che bambina era Caterina?

«Vivevo già nella musica. A tavola improvvisavo con le forchette, a ritmo sui bicchieri. E continuavo a ripetere a mia madre: “Voglio farmi sentire la voce” ma lei niente. Così Zia Ave, la figlia di nonna Maria, stanca di sentirmi, dice: “Ma cosa ci sarà mai di male? E andiamo”. Canto Cantando con le lacrime agli occhi di Betty Curtis, allora sentivo quello che passava la radio, e il pianista Lenzotti detto Pinocchio per il naso, sentenzia: “Voce distintiva, timbro interessante, ha molto bisogno di essere educata. Ha molto orecchio”. Lo dico a mia madre e lei per smontarmi: “Assomigli a me, guarda che belle orecchie!”. Con mia madre c’è stato anche conflitto, ma oggi la capisco, ero ancora una ragazzina».

Ma lei aveva altri fan in famiglia.

«Il figlio della sorella di mia madre, mio cugino. Quando è diventato sacerdote, Don Rino, alla cerimonia indossava sotto l’abito talare la maglia rosa del Cantagiro: quella di una delle tappe della mia vittoria. È stato l’indimenticabile parroco del Duomo di Modena per 40 anni. E poi mio padre, mio grande sponsor, che mi guardava da dietro le quinte e poi diceva a mia madre: “Guarda che la ragazza piace”. A 14 anni, quando mio padre è mancato, ho detto lascio la scuola e vado a lavorare. Facevo la segretaria presso una società di confezioni per bambini. La mamma ha fatto un ultimo tentativo con zio Falcero e io piangendo ho detto, un po’ strumentalizzando mio padre, che lui avrebbe voluto che andassi avanti. Canto a Scandiano e arriva Maurizio Vandelli dell’ Equipe 84 e mi dice: “Non ammuffire qui”, mi parla del Capriccio, del Piper, e io m’immagino Roma come New York…».

Ed è diventata la ragazza del Piper.

«Proprio in questi giorni ho finito di leggere James Hillman che parla del daimon, del genio che ci possiede da quando nasciamo e contro cui non puoi andare. È successo tutto in un baleno, da aprile ‘65, non potevo fermarmi. Così sono stata la prima ragazza del Piper, prima di Nicoletta, ovvero Patty Pravo, a maggio 1965: un’ esperienza straordinaria. Si parlava molto di me, questa ragazza del Piper, e Ravera che mi conosceva dal ‘64 a Castrocaro invita l’amico Ladislao Sugar, che poi sarebbe diventato mio suocero, e che arriva in mezzo a questi scalmanati, io avevo pantaloni a zampa d’elefante, cantavo Ray Charles, i Beatles e i Rolling Stones e lui è entrato là in mezzo, elegante, vestito di grigio e alla fine mi ha detto: “Sentendo lei tutto il resto mi è sembrato vecchio”».

È lì che è arrivato il caschetto.

«Ricordo i 7 cugini Vergottini schierati con Cele in testa che mi dicevano: “Non ti vergogni, con quei capelli?” Li portavo lunghi alla selvaggia e ho detto: “Fate di me quel che volete”, mi hanno decolorata, tagliata. Esco, scendo in galleria e incontro Ravera che non mi riconosce, capisce che sono io solo dalla voce. Poi quella canzone per Sanremo 1966, Nessuno mi può giudicare, scartata da Celentano che aveva già Il ragazzo della Via Gluck. Ma era un tango ed io pensai manco morta, tango e valzer erano musica da persone anziane. Il maestro Callegari mi dice non ti preoccupare e prepariamo una versione come piace a noi, che Arbore chiamerebbe beat».

Undici settimane in testa alla classifica e avanti così per quattro anni, poi la sua vita è di nuovo cambiata.

«Mi sono innamorata, sposata, ho avuto un figlio».

E ha quasi smesso di cantare.

«Ho sposato una persona diversa da me. Sono empatica, mi metto nei panni degli altri, e percepivo un’ atmosfera intorno a me per cui dovevo rallentare. Nessuno mi ha mai detto non cantare più, ma io mi sono accorta che non era gradito, sentivo che si creava una disarmonia e a me piace l’armonia intorno. Così ho fatto la mamma per 6 anni, poi c’è stato il richiamo della giungla, Hillman avrebbe detto che era il daimon che pulsava…».

Il codice dell’anima, contro cui non si può andare. E lei si è inventata una nuova vita, oltre a dei nuovi capelli.

«Come dicevo mi viene facile mettermi nei panni di un altro, e quando avverto il talento sento che devo sostenerlo. Il talento vero è timido. Ed è democratico, può nascere ovunque. Ma non è sufficiente per il successo. Occorre carattere, dedizione, sostegno».

Lei ha detto che vuol essere un gradino per altri.

«Certo tu sei un gradino, un puntello, la tua parte la fai, ma poi ci deve essere una risposta dall’altra parte. Se l’altro non è affidabile, non serve a niente. E la mia parte è quella che chiamo creatività aggiunta. Ho corteggiato Paolo Conte per due anni, lui mi aveva dato Insieme a te non ci sto più, con Conte ci vogliamo bene da sempre, e ho scoperto che Egle, sua moglie, era una mia fan. Ma mi sono accorta che allora, nel 1978, non era così riconosciuto dal pubblico, e così ho registrato una cassetta analogica poi trasmessa da tutte le radio commerciali, con interviste a persone famose, Celentano, Benigni, Loredana Bertè, Arbore e Gianni Brera che parlavano di lui. Vorrei tanto ritrovarla, ricordo che Mario Soldati con quel suo vocione urlava: “Paolo Conte non so se avrà successo, perché è come Mozart, non contiene volgarità”. Poi, sotto la testata Corriere della Sera ho inserito tutti gli articoli che parlavano di lui. E con me Paolo ha fatto il salto. Ed è arrivato il famoso disco, 100 mila copie vendute in Olanda, più di Michael Jackson».

Quelli erano anche gli anni della sua amicizia con Bettino Craxi.

«Craxi è stato un amico acquisito; quando mi sono sposata ho conosciuto gli amici di Piero, Massimo Pini che era suo compagno al liceo Berchet, la Nedda Liguori con cui si andava a funghi insieme quando ancora lei era sposata con il generale, e viveva in caserma. E poi Anna Craxi, che ho rivisto recentemente con Stefania, sono rapporti che durano nel tempo. Ma erano serate fra amici, le faccio sentire questa registrazione di una serata a casa mia, con la voce di Bettino, che ancora mi fa emozione, che annuncia: Signore e signori il maestro Rotella e i suoi poemi fonetici…Siamo stati amici nei momenti buoni e anche in quelli difficili, gli amici si vedono lì. Per me era quello, un amico di famiglia, sono andata a trovarlo ad Hammamet. Diceva: “Questo Paese difficilmente andrà mai bene perché tutti sono ricattati e ricattabili”. È il sistema che è così, e anche i suoi accusatori così vergini non mi sembravano. Non voglio entrare nel giudizio politico, ma per me l’amicizia è un valore importante».

Poi dopo Conte, sono arrivati nella sua scuderia tanti altri talenti.

«Cerco di portare ricchezza all’opera dell’autore e dell’artista, anche con una buona dose di fortuna».

Con Bocelli come è andata?

«Cercavo una voce così. Mi ero accorta che il tenore Mario Lanza aveva ancora un fan club molto vivo. Noi siamo i rappresentanti del bel canto, gli spartiti musicali sono in italiano, allegro, andante… E quando ho accompagnato Gerardina Trovato al tour europeo di Zucchero, sento questa voce che canta il Miserere e dico “Ma questo non è Pavarotti, ma chi è?”. Lo conosco e mi dice che anche lui mi stava cercando, e perdipiù era bello come Omar Sharif. Pavarotti in Pavarotti and friends cantava il repertorio pop mantenendo la vocalità lirica. I cantanti lirici utilizzano una emissione che consente di far correre la voce e superare la barriera dell’orchestra. La voce lirica impostata, se cantata nei teatri d’opera, ha una tecnica che non va amplificata. È così che certe canzoni pop cantate con voce impostata risultano fuori stile. Con Bocelli no. Per lui cambiare tecnica dal pop all’impostazione lirica è relativamente semplice. Ricordo una music supervisor di Walt Disney, Kathy Nelson, che mi disse: “I like Bocelli because is not so operatic”. Il canto pop è più naturale, non si avverte lo studio e arriva alla gente naturalmente. Ricordo una festa di compleanno di Gino Paoli a Modena dove c’era anche Zucchero, dove Andrea si alza, fa lo spiritoso e ridendo dice a Zucchero: “Io faccio te e Pavarotti messi insieme”: si è messo alla tastiera e ha fatto le due parti. Micidiale. E io mi sono rafforzata nell’idea».

E poi venuto “Mare calmo della sera” e “Con te partirò”.

«È stata tratta ispirazione dalla romanza e riproposta in chiave moderna: indubbiamente oggi nel mondo il Belcanto è riconducibile ad Andrea Bocelli».

E oggi dove la porta il “daimon”?

«C’è sempre, e mi ha aiutato molto a staccare anche durante la malattia, quando il vero lavoro diventa un altro, occuparti di te e del tuo male. Con la musica dimentico tutto, anche quando fumavo 70 sigarette al giorno, gli unici momenti in cui dimenticavo di accenderne un’altra, era quando ero al pianoforte. La musica è come il profumo, ricordo ancora il profumo del pane appena sfornato quando passavo davanti al fornaio a Sassuolo. Profumo e musica contestualizzano ed evocano tanto, colpiscono la parte emozionale».

·         Gerardina Trovato.

Gerardina Trovato, dal successo a Sanremo alla brutta depressione fino alla rinascita. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Corriere.it. Una voce fuori dal coro quella di Gerardina Trovato. Potente ed espressiva, irrompe a Sanremo con la sua chitarra nel 1993 e si piazza seconda nelle nuove proposte dietro a Laura Pausini con il brano «Ma non ho più la mia città». Catanese, classe 1967, Trovato in quel brano canta del suo trasferimento a Roma e della lontananza dalla sua Sicilia. Raggiunge un grande successo, ma negli anni successivi fatica ad adattarsi agli ingranaggi dell’industria musicale fino a scomparire e, racconta poi, a dover fare i conti con una dura malattia. Fino a un recente ritorno.

I dischi. Dopo l’exploit sanremese, Gerardina Trovato torna ancora sul palco dell’Ariston per due volte (l’ultima nel 2000), pubblica tre dischi di inediti e mette a segno varie collaborazioni, fra cui quella con Andrea Bocelli nel brano «Vivere». Nel 2005 prende parte, anche se solo per due settimane, al talent show televisivo «Music Farm», esperienza che non le lascerà un buon ricordo: nelle interviste dirà infatti di essersene pentita. «Trattano gli artisti come lattine di birra, li sostengono fino a un certo punto e poi, l’anno dopo, ripartono con un altro. Non mi piace questa mentalità usa e getta», dichiara la cantante al settimanale Chi.

La scomparsa dalle scene. Dopo le ultime apparizioni in pubblico nel 2009, Gerardina è assente dalle scene per lunghi anni e si perdono le sue tracce. E’ solo sette anni dopo che torna a parlare e racconta delle sue difficoltà a convivere con le dinamiche del mondo musicale. Ammette errori suoi, ma soprattutto denuncia di essere stata «fatta fuori» e abbandonata da chi prima, nella discografia, la cercava e la sosteneva.

La depressione. La cantante trova anche il coraggio di rompere il silenzio sulla tremenda depressione che l’ha colpita negli anni in cui si è sentita abbandonata da tutti. Racconta di aver sofferto di una grave nevrosi ossessivo depressiva e di aver dovuto interrompere la sua attività creativa, impossibilitata a uscire di casa o anche ad ascoltare musica. Nelle sue parole, però, c’è sempre il desiderio di tornare e nel 2016 arriva anche un singolo, «Energia diretta». Poi è ancora silenzio.

Il ritorno. All’inizio del 2019 la notizia che tutti i suoi fan aspettavano: tramite la propria pagina Facebook, Gerardina Trovato annuncia il ritorno sul palco e ricomincia a esibirsi dal vivo. La sua rinascita porta con sé anche nuove canzoni e, come il pubblico le chiede a gran voce, la possibilità di un nuovo album.

·         Lo Stato Sociale.

Lo Stato Sociale. «Il nostro tormentone. Un omaggio a Battiato suonando l’ukulele». Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Chiara Maffioletti su Corriere.it. ra l’estate del 2013 e venivamo da un anno in cui avevamo fatto una marea di date, eravamo sempre in giro. Ecco, di quel periodo abbiamo tutti l’immagine di Checco (Francesco Draicchio) che la sera, quando avevamo finito di cantare, iniziava a suonava da solo, con l’ukulele, “Summer on a solitary beach” di Battiato»... è un bel ricordo, sarà per questo che ci è rimasta impressa... a ripensarci lo rivediamo ancora». Se una canzone ha il potere di far viaggiare nel tempo, lo Stato Sociale, attraverso le parole di Alberto — Bebo — Guidetti e Lodo Guenzi, sceglie quella del cantautore siciliano che era diventata il personale tormentone di un altro musicista del gruppo, e torna con la mente all’estate di qualche anno fa. «Suonavamo nelle piazze, era uno dei primi tour in cui avevamo la sensazione che tutto girasse come doveva: c’era molta allegria, ogni sera finivamo col ballare con gente presa a caso dal pubblico, erano sensazioni belle». E dire che Guenzi, l’estate non l’ha amata mai: «Esiste uno studio che conferma che chi è nato in estate, come me, non la ami per niente come stagione. Ricordo quelle che passavo in Romagna, da bambino, come le esperienze peggiori della mia vita: odiavo il caldo, la sabbia nel costume, la gente che “ciacola”, la crema solare da mettere, il sale addosso, tutto. Per me il tormentone è il sottofondo della colonna sonora di Top Gun: era alla base di tutti gli annunci fatti ai bagni con il megafono, tra cui quello di un bambino che si era perso, ancora l’ho in mente: si chiamava Matteo e aveva un costume verde fantasia». Ogni cosa è diventata più accettabile quando quei tre mesi, al posto di passarli sotto gli ombrelloni con qualche parente, ha iniziato a trascorrerli assieme ai suoi colleghi, sui palchi di tutta Italia. «Proprio tra il 2012 e il 2013 abbiamo avuto il sentore che qualcosa stesse cambiando nella scena indipendente. In un anno abbiamo fatto duecento date, era una totale rivoluzione. Per noi i concerti erano un luogo di completa libertà... anche dalla crema solare: la sera non la devi mettere. Era tutto perfetto quindi: passavamo da una festa all’altra, compresa una Sagra dell’Anguria a Fara Vicentino che ricordiamo come particolarmente divertente». Perché? «Diciamo che in quel periodo lo Stato Sociale aveva instaurato un rapporto fraterno con l’alcol...». Con la conseguenza di qualche, prevedibile, imprevisto: «Sempre durante quel tour, dovevamo cantare alla festa dell’Unità di Crema, solo che quella sera c’era stato un grosso temporale, c’era fango dappertutto, acqua ovunque... e quindi ci eravamo tutti convinti che non sarebbe venuto nessuno... ne eravamo proprio certi». E quindi? «Quindi abbiamo iniziato a mangiare e, soprattutto, a bere senza pensarci troppo, prima del concerto». Una volta usciti sul palco, la sorpresa: «Ecco, lì ci siamo resi conto che la gente c’era, e anche tanta, ma è la nostra unica memoria di quella serata da lì in poi. Abbiamo solo pensato: ora sono cavoli nostri, poi, per tutti, nella nostra mente si crea il vuoto, non c’è più nulla. Chi era lì ha descritto il concerto come il peggiore a cui fosse mai stato». Per fortuna poi però, anche quella sera, c’era stato Checco e, assieme a lui, Battiato e l’ukulele. «Quella immagine e quella canzone non la dimenticheremo mai». «Ma — conclude Lodo — c’è un’altra cosa che non dimenticherò mai e che ancora, tante volte, mi chiedo: come sarà mai stato fatto il costume verde fantasia di Matteo?». 

·         Sara Wilma Milani.

Sara Wilma Milani: «In “Matrimonio a prima vista” ti usano per fare tv, non vogliono formare coppie perfette». Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Corriere.it. Sara Wilma Milani nel 2017 ha partecipato al programma «Matrimonio a prima vista». Sperava davvero di trovare grazie agli esperti «un uomo su misura per me», ma, in realtà, ha trovato «un fratellone» da cui non vedeva l’ora di divorziare, solo che, per una questione burocratica, come hanno raccontato le cronache ci sta riuscendo solo ora, tre anni dopo. Un calvario, come lo chiama lei, che adesso racconta anche in una canzone piuttosto chiara già dal titolo: «Non ne posso più». «Porca miseria, non ne posso più davvero. Ora, se tutto va bene, a dicembre dovremmo divorziare», racconta lei. Cosa canta in questo singolo? «Canto da sempre ma questa volta ho scritto un brano diverso da quelli che avevo fatto fino ad ora. Anche se in modo fresco e ironico, la mia idea è seria, cioè quella di lanciare un messaggio contro programmi come quelli a cui ho partecipato io». In che senso? «Beh, non ho vissuto molto bene tutto quello che mi è capitato, quindi volevo dire la ia contro questi reality che ti promettono di farti trovare l’amore. Io ci avevo creduto molto, pensavo che gli esperti potessero arrivare lì dove io non ero stata in grado. Invece il loro intento non è tanto trovare la coppia perfetta, ma fare televisione». Questa è una critica netta, anche ai professionisti che fanno le selezioni, non crede? «Più che altro al programma, agli autori. Se una coppia va d’amore e d’accordo forse diventa noiosa: cosa si racconta poi in tv? Sta di fatto che tra me e quello che è stato mio marito la compatibilità era pari a zero... ti fanno fare 5mila test e poi trovi qualcuno con cui non c’entri nulla».Ci sarebbe quindi della malafede? «Non voglio giudicare i professionisti, ma il mondo dei reality si: gli autori non pensano al matrimonio, ci vedono come personaggi... ovviamente sono supposizioni le mie, ma come è possibile altrimenti che su tante coppie che si sono formate nelle diverse stagioni del programma abbia resistito solo una?».Già, come è possibile? «Perché quella è tv, ma te ne rendi conto dopo. Eppure le adesioni non mancano. Ecco perché voglio lanciare questo messaggio: l’amore non è fatto di calcoli anche se vogliono farcelo credere».Parla come una persona ferita: è così? «Ci sono degli strascichi, soprattutto se ci credi. Al netto del percorso tragicomico che ha avuto il nostro divorzio infinito».Cosa si augura nel suo futuro prossimo? «Trovare un compagno. Non dico di sposarmi, ma trovare un compagno si».E se dovesse scegliere tra i sogni: un compagno finalmente giusto per lei o il primo posto in classifica con questa canzone? «Urca, difficile. In questo preciso momento direi il primo posto in classifica, ma perché sono appena uscita fresca fresca da una delusione in amore. Ma subito dopo arriva comunque lui: il sogno dell’uomo ideale».

·         I 50 anni di Jennifer Lopez.

I 50 anni di Jennifer Lopez: «Io, partita dal Bronx». Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Giovanna Grassi su Corriere.it. «Non mi spaventa affatto il tempo che passa: è un traguardo arrivare al mezzo secolo e non posso che ringraziare la vita per tutto ciò che mi ha dato», dice Jennifer Lopez, per molti semplicemente J-Lo. Musicista e donna d’affari, imprenditrice e creatrice di una linea di moda e profumi, la ragazza del Bronx (nata il 24 luglio del 1969) che faceva tanti lavori per pagarsi le lezioni di canto sembra attraversare un periodo molto sereno al fianco dell’ex star del football americano, Alex Rodriguez, oggi consulente sportivo. Impegnatissima nelle tappe finali di un lungo tour, Jennifer spiega: «Terrò gli ultimi concerti a Miami, dove ho una casa e sarò con i miei due figli, Maximilian ed Emme di 11 anni, e con Alex e con i suoi due figli nel giorno del mio compleanno. Non mi piace la definizione di “famiglia allargata”, siamo semplicemente e serenamente una famiglia e ci divertiremo a mettere le foto del mio giorno di festa su Instagram».

È soddisfatta del tour?

«Molto. Dopo i concerti finali a Miami vivrò la mia festa, non a caso ho voluto intitolare il tour “It’s my party tour”, poi ad agosto farò un solo show a Tel Aviv. È importante portare la musica nei luoghi dove si vive una lunga guerra di etnie e di religioni. Nulla come la musica unisce, scavalca ogni divisione e barriera».

Lei, dopo molte burrasche anche sentimentali, sembra vivere un periodo di stabilità...

«È vero, sto attraversando un periodo felice e fertile in diversi campi, ma non mi piace mai sentirmi definire una business woman».

Perché?

«La musica è un dono, una vocazione per me. Non un affare. Come il cinema peraltro. Anche se non mi ha dato forse tutto ciò che speravo o a volte desideravo, resto legata a tutti i miei film».

La vedremo presto in «Hustlers». Che cosa ci vuole raccontare di questa storia di ballerine e spogliarelliste?

«È un impegno al quale tengo molto anche per la stima che ho della regista, Lorene Scafaria. Inoltre è una vicenda al femminile, ambientata a New York, la metropoli dove sono cresciuta. Ero una ragazza portoricana del Bronx. Una tappa dopo l’altra, ho avuto molto di ciò che sognavo».

Come nel film con Richard Gere «Shall We Dance?» la vedremo di nuovo ballare...

«Sono migliorata, è stata una grande fatica prepararsi a questo ruolo. In quanto al film con Richard ho bellissimi ricordi di quando gli davo lezioni di danza».

Lei ha conquistato anche la sua stella a Hollywood sulla Walk of Fame. Ha qualche rimpianto in una carriera ricca di premi?

«No, non ho mai rimpianti, tutto ciò che ho fatto e vissuto mi ha portato a essere la donna che sono oggi. Anche nel campo della moda e nella creazione di profumi ho messo slancio e passione. I miei due gemelli, nati dal legame con Marc Anthony, sono la mia gioia. E non tralascio i miei impegni filantropici per ospedali e associazioni in difesa dei bambini che soffrono di qualche handicap».

Che cosa le dà la musica oggi?

«Tutto ciò che desidero, non mi piace sentirmi definire una latina del pop, chiedo e do qualcosa di più. La musica dà un suono alla vita e faccio spesso mie le parole di Ella Fitzgerald I sing like I feel, canto come mi sento».

Dopo tanti successi, quali saranno le tappe dopo i cinquanta anni?

«Le stesse di quando avevo 30 o 40 anni: vivere in armonia, dare agli altri ciò che mi è possibile, crescere i figli che ho molto desiderato, essere leale con il mio pubblico. La vita mi ha regalato il dono della musica, io ho sempre cercato di restituirlo con passione. Non ho cercato di essere diversa da come sono: ho le curve, non sono una silfide. Dico a tutte le donne: basta riuscire a essere se stesse per stare bene».

Una volta ha dichiarato di ammirare e di avere come modello femminile Sonia Maria Sotomayor…

«Lo ribadisco. Una ragazza portoricana del Bronx, figlia di un operaio, cresciuta in case popolari. È diventata giudice della Corte Suprema, la prima donna di origine ispanica a farne parte. I sogni si conquistano, questa è la mia regola. Vale per chi ha 20 o 70 anni. Come nella musica, devi cercare la tua verità e andare avanti senza timori per il tempo che passa». 

·         Paolo Conte.

Massimo Cotto per “il Messaggero” il 23 luglio 2019. Il baffo è tirato a lucido, la faccia è una milonga: sorniona, malinconica, irresistibile. È quella faccia un po' così che ha Paolo Conte davanti a un caffè come piace a lui, così corto che nemmeno a Napoli, con tanto zucchero che nemmeno il mosto. Siamo nella campagna astigiana - Conte è appena rientrato da Perugia, dove si è esibito a Umbria Jazz - dove l'estate è tutta ventagli e silenzi e d'inverno abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna. Qualcuno può pensare che siano questi i posti dove capire davvero l'uomo geniale che ha cambiato faccia alla nostra canzone. Lui non è d'accordo: «Mi piace pensare che si possa apprezzare un artista senza interrogarsi sulla provenienza. Non mi sono mai sentito un cantore della provincia. L'Italia è tutta provincia».

Lei però ha scritto canzoni etniche, soprattutto agli inizi.

«Sì, sulla mia gente, come Genova per noi. È il mio brano più piemontese. È sulla timidezza, sul pudore, sulla difficoltà di mostrare i sentimenti. Quello di Genova, per noi, non è un mare qualunque: è il mare. Mi ricordo quando si falciava il fieno. Ti sembrava quasi di sentire l'odore di Genova, portato dal vento e dall'immaginazione».

Lei non ha il cellulare e non ama la tecnologia.

«Mi piace usare carta e penna, mi dà più gusto. Colleziono penne stilografiche e matite automatiche».

Il pianoforte, che invece le dà gusto, è maschio, ma lei lo accarezza come fosse una donna. Gli strumenti hanno sesso?

«La viola è femmina, così come il sax contralto. Il sax baritono è ermafrodito, tutti gli altri strumenti sono maschi».

A proposito di strumenti, lei ama il kazoo, che è quasi infantile, anche se per suonarlo bene bisogna essere maestri. È questo il senso dell'arte: diventare adulti rimanendo bambini?

«Sì, arrangiarsi anche solo con un pettine avvolto nella carta velina».

Che cos'è una canzone?

«Qualcosa che non cambia il mondo. È presuntuoso pensarlo. Può segnare un'epoca o sigillare un amore. Può mandare odori e profumi, anche gusti. Quando sentiamo certe canzoni veniamo catapultati in un altro mondo. Fa bene».

Le donne impazziscono per lei, eppure non le piace la sua faccia. Lei è strano, sa?

«Forse è la mia controfigura a fare queste conquiste».

Cinquant'anni di Azzurro. Avrebbe mai immaginato che tra l'oleandro e il baobab la sua vita sarebbe cambiata?

«Certamente sapevo, intuivo, che quella canzone era vincente. Non immaginavo che sarebbe arrivata così lontano e che tutti l'avrebbero fatta loro. Ho passato anni a chiedermi se mai avrei comprato il disco di uno come me».

Lei è felice?

«La vita ha tante stagioni, la vecchiaia non è detto che non contenga la felicità».

È vero che una volta a Roma, De Gregori le è venuto incontro chiedendole scusa prima ancora di salutarla?

«Io e mia moglie, nel sole, stavamo attraversando piazza del Popolo, quando da una via laterale vediamo venirci incontro, sbracciandosi, la figura alta di Francesco. Voleva scusarsi per aver eseguito in stile rock Un gelato al limon, nel disco Banana Republic, con Lucio Dalla. Continuava a ripetere: Mi perdonerai? Mi perdonerai?. L'ho tranquillizzato. Gli ho detto che per me era un onore. Peccato che da tantissimo tempo io e Francesco non ci vediamo, lo stimo molto».

Una volta ho visto una sua foto in spiaggia. Lei era in canottiera, elegantissimo. Come fa a essere sempre impeccabile e che cos'è l'eleganza?

«Una piccola forma d'arte. Da giovane ero raffinatamente elegante, ormai vesto casual».

Che cosa le piace?

«Le parole con la zeta. E America. Contiene qualcosa che al solo pronunciarla diventa poesia, ha qualcosa di leggendario e arcano».

Cosa non le piace?

«Non amo tanto raccontarmi in posti diversi da una canzone. In passato l'ho fatto, mi sono aperto. Il fatto è che ci sono artisti che vogliono essere compresi. Io penso alla bellezza di non essere capito nemmeno da me. Non sono per niente sicuro di voler sapere chi sono».

Che cosa la diverte e cosa la annoia?

«L'umorismo di alta qualità contro quello, più abbondante, di bassa lega».

Preoccupato per le sorti dell'Italia?

«Patriotticamente parlando direi che la nostra nazione si meriterebbe di più».

A chi comprerebbe un gelato al limon, oggi, a parte sua moglie Egle?

«A una bambina africana».

Se potesse rivedere per un'ora una persona del suo passato, chi sceglierebbe e cosa farebbe?

«Vorrei rivedere mio padre. Lo abbraccerei forte, poi gli chiederei di offrirmi un caffè al bar e lo starei a guardare mentre mette sul bancone cento lire. Poi lo abbraccerei ancora e comincerei a parlare, a spiegargli».

E se le dicessero che ha la possibilità di duettare con un gigante del jazz di un tempo?

«Mi nasconderei sotto il piano».

I momenti dell'artista sono tre: composizione, incisione e rappresentazione dal vivo. Ce n'è uno a cui è più legato?

«La composizione, senza dubbio. Procura una gioia inarrivabile, quasi fisica».

Che cosa sarebbe Paolo Conte senza il jazz?

«Ho amato il jazz alla follia, ma, criticamente, affermo che un certo jazz, soprattutto mainstream, ha esercitato, e continua a farlo, una pessima influenza sulle altre musiche. Il jazz è un denudatore della sostanza musicale».

Quando ha deciso di darsi alla musica?

«Un giorno, ero a una lezione di Diritto, all'Università. Cominciai ad avvertire un senso di insoddisfazione, quasi di noia. Presi un foglio e cominciai a buttare giù musica».

Ultima domanda: dove stiamo andando, musicalmente?

«A fondo».

·         Lucio Dalla Genio senza tempo.

Lucio Dalla: perché "4/3/1943" è un capolavoro senza tempo. Il brano, classificato terzo a Sanremo nel 1971, ha come titolo la data di nascita del cantautore, che oggi avrebbe compiuto 76 anni, scrive Gabriele Antonucci il 4 marzo 2019 su Panorama. Marzo è un mese che non può lasciare indifferenti i numerosi fan di Lucio Dalla. Il 1 marzo 2012, sette anni fa, ci lasciava il grande cantautore bolognese, stroncato da un infarto a Montreux, la città del jazz, dove si era esibito la sera precedente. Oggi, 4 marzo 2019, Dalla avrebbe compiuto 76 anni, età in cui diverse pantere grigie del rock (si pensi ai glimmer twins Mick Jagger e Keith Richards o a Paul McCartney) sono ancora in piena attività. Impossibile dimenticare la data di nascita di Lucio grazie a 4/3/1943, probabilmente una delle più belle canzoni italiane di sempre. Con essa Dalla, allora ventottenne, arrivò terzo a Sanremo nel 1971, inaugurando un nuovo corso della sua carriera, vincendo inoltre il premio del miglior testo assegnato da una giuria presieduta da Mario Soldati. Ad accompagnarlo sul palco c’era l’Equipe 84, che in seguito incise una sua versione del brano.

Il testo e il significato della canzone. Il testo è di Paola Pallottino, figlia del più grande etruscologo italiano, che all'epoca era operatrice nel mondo della pubblicità e poetessa dilettante, divenuta poi docente di Storia dell'illustrazione al DAMS di Bologna. 4-3-1943 racconta la storia di una ragazza di sedici anni che rimane incinta di un soldato alleato che poi morirà in guerra. Anche la ragazza, che crescerà da sola il figlio, avrà vita breve. A ricordare la sua storia è lo stesso figlio, chiamato ancora in età adulta Gesù bambino (il titolo originale della canzone). Il brano ha avuto tre versioni: quella originale, quella di Sanremo censurata e quella registrata sul leggendario Banana Republic del 1979, realizzato con De Gregori.

La censura. Nel testo originale l'epilogo della storia era "e anche adesso che bestemmio e bevo vino, per ladri e puttane sono Gesù Bambino". Dopo una breve trattativa con i dirigenti della Rai il verso fu trasformato in "e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino, per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino". Anche il titolo Gesù bambino, giudicato irrispettoso, fu cambiato all’improvviso prendendo spunto dalla data di nascita di Lucio, pur non essendo una canzone autobiografica.

Le altre versioni. 4/3/1943 fu interpretata in francese, nello stesso anno, da Dalida, con un testo firmato da Pierre Delanoë. La versione più famosa è però quella di Chico Buarque de Hollanda, intitolata Minha história, che ascoltò la canzone direttamente da Dalla, la memorizzò a orecchio e ne scrisse un testo in portoghese. Molto bella anche la versione che ne fece Maria Bethania. Da noi ebbe un buon successo la cover dell’Equipe 84, che accompagnò Lucio proprio sul palco di Sanremo 1971.

Lo stile della canzone. Il brano non è il tipico motivo sanremese, ma presenta le caratteristiche di una ballata popolare da cantastorie, con quattro strofe uguali, introdotte da un orecchiabile refrain di violino suonato da Renzo Fontanella. L’arrangiamento è merito di Ruggero Cini. Lucio ha sottolineato che 4/3/1943 era l'unica canzone ancora in grado di commuoverlo mentre la cantava.

La copertina. La copertina del 45 giri, pubblicato dalla Rca, raffigura il porto di Manfredonia in bianco e nero, il luogo dove Lucio aveva trascorso le sue vacanze estive da bambino e da adolescente. Una suggestiva foto in bianco e nero, con una freccia che indica il palazzo presso il quale il cantautore alloggiava con sua madre in quelle indimenticabili estati.

Il lato B. Sul lato B è inciso Il fiume e la città, con testo di Sergio Bardotti e musiche di Armando Franceschini e Dalla. La canzone era già stata pubblicata l'anno prima nell'album Terra di Gaibola. Il testo completo:

Dice che era un bell'uomo e veniva

Veniva dal mare

Parlava un'altra lingua

Però sapeva amare

E quel giorno lui prese a mia madre

Sopra un bel prato

L'ora più dolce prima d'essere ammazzato

Così lei restò sola nella stanza

La stanza sul porto

Con l'unico vestito ogni giorno più corto

E benché non sapesse il nome

E neppure il paese

M'aspettò come un dono d'amore fino dal primo mese

Compiva sedici anni quel giorno la mia mamma

Le strofe di taverna

Le cantò a ninna nanna

E stringendomi al petto che sapeva

Sapeva di mare

Giocava a far la donna con il bimbo da fasciare

E forse fu per gioco o forse per amore

Che mi volle chiamare come nostro Signore

Della sua breve vita è il ricordo, il ricordo più grosso

È tutto in questo nome

Che io mi porto addosso

E ancora adesso che gioco a carte

E bevo vino

Per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino

E ancora adesso che gioco a carte

E bevo vino

Per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino

E ancora adesso che gioco a carte

E bevo vino

Per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino

·         Bob Dylan: perché è il cantautore più influente del rock.

Bob Dylan: perché è il cantautore più influente del rock. L'artista Premio Nobel, che oggi compie 78 anni, ha attraversato oltre cinquant'anni di storia americana con i suoi cambiamenti di stile. Gabriele Antonucci il 24 maggio 2019 su Panorama. «Non sono io che ho creato Bob Dylan. Bob Dylan è sempre esistito e sempre esisterà», ha dichiarato alcuni anni fa il bardo di Duluth con il suo umorismo sottile e corrosivo. Dylan, che oggi ha tagliato il traguardo delle 78 primavere, non ha più la voce ammaliante degli anni Sessanta, ma conserva intatti un carisma e un’intensità interpretativa che non ha eguali nella musica contemporanea. Robert Zimmerman è il cantautore più influente della storia del rock, che da portavoce del movimento pacifista degli anni Sessanta, quasi suo malgrado, è diventato via via un’icona di straordinario carisma. Ai suoi primi album si deve la rinascita del folk, in un periodo in cui le classifiche erano dominate dai ritmi sincopati del beat, per poi attirarsi, nella seconda metà degli anni Sessanta, le critiche degli integralisti del genere, che non accettavano l’uso della chitarra e dell’armonica amplificate.

Un faro per John Lennon e Bruce Springsteen. Bob ha raccolto l’ideale testimone dai suoi idoli giovanili Woody Guthrie e Pete Seeger e l’ha passato ad almeno due generazioni di cantautori. Bruce Springsteen ha raccontato: «La prima volta che ho ascoltato Like A Rolling Stone avevo 15 anni, ero in macchina con mia madre e stavo ascoltando WMCA, quando ad un tratto partì quel colpo di rullante che suonava come se qualcuno stesse aprendo a calci la porta della mia mente». Più stringato, ma altrettanto efficace John Lennon, l’anima colta dei Beatles: «Dylan ci ha indicato la direzione». La parola al centro del rock. Si può tranquillamente affermare che non sono stati né la voce, né il virtuosismo strumentale, né le strutture musicali piuttosto semplici a rendere Dylan una leggenda, ma un aspetto a cui purtroppo oggi si presta sempre meno attenzione: la parola. Mentre Elvis Presley ha portato la fisicità nel rock, Bob Dylan ha messo al centro per la prima volta la parola. In un periodo, l’inizio degli anni Sessanta, nel quale i testi erano poco più che un pretesto, Robert, imbracciando la sua chitarra e la sua armonica con austera fierezza ha dichiarato al mondo che la poesia non era solo quella che si leggeva nei libri, ma anche quella che giungeva attraverso la radio. Le sue canzoni sono evocative, ricche di metafore e di figure retoriche, spesso oscure, indubbiamente di grande fascino. Con i suoi lunghi brani ha infranto la convinzione che il rock fosse soltanto un genere di intrattenimento, concepito solo per far ballare e divertire i giovani. In realtà proprio loro erano i destinatari delle sue poesie in musica, ma il cantante non voleva farli uscire da loro stessi e portarli in una dimensione altra come nel rock and roll ma, al contrario, il suo era un invito all’ascolto, alla riflessione e alla consapevolezza di ciò che stava accadendo nel mondo. I ruoli di portavoce di una nuova generazione, di paladino dei diritti civili e di ‘subconscio collettivo americano’ gli sono sempre stati stretti, tanto che, nel momento di maggior idillio personale e artistico con Joan Baez, ancora oggi strenua pasionaria in difesa dei diritti civili, Bob l’ha lasciata da sola sul palco per perseguire la sua personale visione musicale, più elettrica e meno impegnata politicamente rispetto agli esordi.

La svolta elettrica. "Non potevo continuare a fare il cantante folk solitario che strimpella Blowin' in the wind per tre ore ogni sera". Così Dylan ha spiegato la clamorosa "svolta elettrica" del 1965, iniziata pochi mesi prima con il lato A di Bring it all back home e portata a pieno compimento in Highway 61 Revisited, da molti considerato l'album più bello o comunque il più importante della sua carriera. Il titolo è particolamente significativo, perché la Highway 61 è la superstrada che unisce il Nord degli Stati Uniti al Sud, collegando idealmente il blues di Chicago al southern rock. Blonde on Blonde, monumentale doppio 33 giri pubblicato il 16 maggio del 1966, è il coronamento di una prima parte di carriera straordinaria e irripetibile, con sei capolavori su sette album pubblicati. Bisognerà aspettare il 1975, anno di pubblicazione di Blood on the tracks, giunto quasi per magia dopo un inizio di decennio turbolento dal punto di vista discografico, per ritrovare l'artista ispirato come negli anni Sessanta. L'album è una delle migliori raccolte di canzoni d'amore della storia del rock, anche se alla maniera di Dylan, incentrata sull' amore perduto, tormentato, incerto e conflittuale. Tangled up in blue, You're e big girl now e If you see her say hello sono da annoverare tra i vertici dell'arte dylaniana.

Un film su "Blood on the tracks" e il cofanetto "The Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings". In un'intervista sul "New Yorker" dello scorso 15 ottobre, il regista Luca Guadagnino, dopo il remake di Suspiria , ha rivelato che sta lavorando ad un adattamento cinematografico di Blood on the Tracks. Quando un dei produttori di Chiamami col tuo nome ha acquistato i diritti cinematografici dell'album e gli ha proposto di lavorare al film, Guadagnino ha accettato, ma a una sola condizione: voleva che la sceneggiatura fosse scritta da Richard LaGravenese. L’autore de La leggenda del re pescatore e de I ponti di Madison County ha accettato a sua volta l’offerta, e all’inizio dell’anno ha consegnato al regista il testo di 188 pagine: ‘una storia ambientata negli anni settanta, che LaGravenese e Guadagnino hanno inventato ispirandosi ai temi centrali dell'album’. Guadagnino, al momento della proposta, non aveva mai incontrato LaGravenese e oggi definisce lo sceneggiatore "questo tipo che amo follemente e completamente". LaGravenese, a proposito dei personaggi del film, ha dichiarato al New Yorker: "Quando veniamo repressi, drammatizziamo la repressione e ciò che questo comporta. E drammatizziamo quello che accade quando lasci che le tue passioni prendano troppo il sopravvento.” Di grande interesse, per tutti i fan del cantautore, l'uscita, il 7 giugno, dell'antologia che ripropone la prima parte del mitico Rolling Thunder Revue di Bob Dylan: il cofanetto composto da 14 cd include i cinque set completi dei live e le prove che furono realizzate negli studi S.I.R. di New York e al Seacrest Motel di Falmouth (MA), oltre a un disco bonus con esibizioni uniche risalenti a quel periodo. Bob Dylan – The Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings viene pubblicato poco prima del nuovo film, Rolling Thunder Revue – A Bob Dylan Story di Martin Scorsese, trasmesso in anteprima su Netflix il 12 giugno. Ognuna delle esibizioni di Bob Dylan usate nel film è presente nel cofanetto. La raccolta comprende 148 brani, di cui oltre 100 mai pubblicati. Nel cofanetto c'è un libretto di 52 pagine con foto rare e mai viste prima dei live ed un saggio del romanziere/musicista Wesley Stace. In concomitanza con l'uscita del cofanetto in cd verrà ristampata in vinile The Bootleg Series Volume 5, in formato 3 lp con un booklet di 64 pagine.

Un presente da crooner confidenziale. In oltre cinquant’ anni di carriera l'artista di Duluth ha attraversato la storia del folk e del rock sorprendendo sempre i critici e i fan con i suoi continui cambiamenti di stile. Appena si aveva l’impressione di averlo inquadrato in una definizione, eccolo pronto a smentirla, sparigliando di nuovo le carte con un nuovo album, sorridendo mefistofelico dietro la sua maschera enigmatica e sfuggente da sfinge. Si pensi agli ultimi tre dischi Shadows in the night, Fallen angels e Triplicate, dove il cantautore si è reinventato cantante confidenziale alla Frank Sinatra. La sua voce, consumata, rauca e nasale, sembra esaltarsi sulle languide note del classici degli anni Cinquanta e Sessanta, come se fosse finalmente libera di dispegarsi al di là dell'angusto recinto del suo Mito, edificato suo malgrado a partire dalla canzoni politiche degli anni Sessanta. Il cantautore è entrato nei cuori dei fan di almeno due generazioni proprio perché, paradossalmente, non ha mai fatto nulla per piacere e per risultare simpatico. Basta andare a uno dei suoi ultimi concerti per capire che all’enigmatico Bardo di Duluth non importa nulla del pubblico: non una parola, non un sorriso, pochissimo spazio in scaletta ai classici e, nei rari casi in cui essi siano proposti, arrangiamenti così diversi dagli originali da renderne difficile l'identificazione.

Il Premio Nobel. Il suo non è calcolato snobismo: a lui, semplicemente, non interessano le reazioni del pubblico, né tantomeno i premi e i tributi, anche se si tratta del Premio Nobel, massimo riconoscimento per uno scrittore, “per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”,ha dichiarato Sara Danius, segretario dell’Accademia svedese, nella motivazione del riconoscimento. Una vicenda surreale, per certi versi esilarante, sicuramente curiosa, quella del Nobel a Dylan, che ha visto per due settimane l'artista chiuso in un ostinato silenzio mediatico, salvo poi esprimere a sorpresa gratitudine per il premio ricevuto: "E' difficile da credere. Essere premiati con il Nobel è sorprendente, incredibile. Chi avrebbe mai sognato una cosa del genere?". L’accademia svedese ha poi diramato una sua lettera, in cui il cantautore spiega come ''impegni presi precedentemente rendono impossibile il viaggio a Stoccolma a dicembre''. Nella missiva Dylan ha sottolineato comunque di ''essere molto onorato e che gli sarebbe piaciuto poter ricevere il Nobel di persona''. Il 10 dicembre del 2016 è stato letto in contumacia il suo lungo e colto discorso durante la cena di gala, mentre Patti Smith ha cantato A hard rain's a-gonna fall. 

Il work in progress delle sue canzoni. In un periodo in cui i cantanti passano più tempo nei “firmacopie”dei mediastore che in studio di registrazione, Dylan prosegue dritto nella sua strada di solispismo, orgogliosamente asocial nell’epoca dei social. Dylan non compiace il pubblico ricorrendo a facili strategemmi e a vuote formule, ma dà continuamente una nuova forma alla sue canzoni, rendendole vive e sempre diverse, in modo da evitare la routine del greatest hits ripetuto a pappagallo ogni sera, senza modificare di un solo accento la struttura del pezzo. La metamorfosi, il non-finito è il segreto della sua arte che si rinnova a ogni esibizione del never-ending tour che va avanti ormai da trent'anni, a prescindere dall'uscita di album da promuovere. Le canzoni di Dylan non sono mai oggetti fissi e uguali a se stessi ma, come come creature vive, nascono, si sviluppano e cambiano nel tempo, fino ad assumere sembianze del tutto nuove. I momenti di assoluta poesia nei suoi concerti arrivano saltuariamente, come una ricompensa inaspettata e, proprio per questo, ancora più appagante. Nell’ultima intervista rilasciata dal cantautore nel 2012 al magazine “Rolling Stone”, alla domanda di Mikal Gilmore se “suonare dal vivo è un traguardo che ti appaga”, Dylan ha risposto in modo inequivocabile: “E’ appagante, come stile di vita? Beh, ma che tipo di vita è appagante? Nessuno tipo di vita è appagante se la tua anima non è redenta”. Non sarà stato certo un Premio Nobel a redimere l’anima del più grande poeta in musica del Novecento. Perchè i tempi stanno ancora cambiando.

·         Nunzia De Girolamo: “Finalmente è esplosa la mia femminilità”.

Ballando con le stelle, "vendetta" di Nunzia De Girolamo contro la giuria: il documento che spiega molte cose. Libero Quotidiano 2 Giugno 2019. Terminato Ballando con le Stelle, che la ha vista classificata al quinto posto con Raimondo Todaro, Nunzia De Girolamo si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Non ce l'ha ovviamente con Milly Carlucci, la conduttrice del programma di Rai 1. Semmai, tra le righe, ce l'ha con la giuria, con cui spesso si è scornata nel corso di questa edizione (soprattutto con Selvaggia Lucarelli). La De Girolamo, infatti, ha pubblicato su Instagram la classifica della giuria, che ha relegato la coppia al sesto posto, e quella del televoto, dove la De Girolamo è prima con il 25,71% di voti. In calce all'immagine, Nunzia ha scritto: "Non posso che dirvi, ancora una volta, grazie di cuore. Stamattina hanno pubblicato il televoto di tutte le puntate! Sono francamente senza parole per l’affetto che mi e ci avete dimostrato! Io e Raimondo Todaro siamo stati votati da casa con percentuali molto molto alte. Questa è la mia e la nostra grande vittoria ed oggi sono emozionata più di ieri. Quello che contava davvero per me era ed è il vostro giudizio e le emozioni che ci siamo regalati in questi mesi - sottolinea l'ex parlamentare -. Vi prego però non scrivete parole pesanti contro la giuria. Lo dico a tutela delle tante persone di cuore e perbene che mi scrivono e ci hanno sostenuto. Il gioco è così: ad alcuni di loro è anche concessa qualche parola che spesso, diciamolo, è andata anche oltre il semplice giudizio tecnico del ballo. Ma va bene così: siamo entranti nei vostri cuori, puntata dopo puntata. E, come vedete, anche ieri sera eravamo primi al televoto. Siete strepitosi! Ballando con le Stelle è stata una straordinaria esperienza, iniziata tra dubbi, incertezze e perplessità, ma terminata con una grande gioia!", ha concluso la De Girolamo.

Nunzia De Girolamo: “Finalmente è esplosa la mia femminilità”. Giulia Cherchi 27/04/2019 Il Giornale Off. Nunzia De Girolamo, 43 anni, ex deputato di Forza Italia e ex Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali del governo Letta, racconta a OFF la sua nuova entusiasmante sfida: ballerina nel programma di Milly Carlucci, Ballando con le stelle.

Perché ha deciso di partecipare a Ballando con le Stelle?

«La mia prima reazione è stata di stupore. Poi, complice la testardaggine di Milly, ho accettato. Ho voluto sfidarmi da un punto di vista fisico, ma anche  mettere a nudo alcuni lati del mio carattere, come la femminilità, che ho mascherato in questi anni di politica per proteggermi da un contesto maschilista».

Cosa le sta insegnando questa esperienza?

«A governare la mia passionalità. Prima, in politica, tendevo ad essere impulsiva: il ballo, essendo uno sforzo sia fisico che mentale, mi sta insegnando l’autocontrollo e la disciplina».

Ma è più faticoso il ballo o la politica?

«Sono due fatiche diverse. Il ballo è più leale della politica: c’è una squadra che lavora per un programma e allo stesso tempo si sfida per vedere chi sarà il vincitore. In politica invece c’è una squadra che si sfida per governare l’Italia, squadra che si sfalda il giorno dopo, perché ognuno pensa agli interessi di partito più che al Paese».

Cosa hanno detto i suoi ex colleghi della sua partecipazione?

«Hanno tutti reagito bene, specialmente le mie ex colleghe. Salvini mi ha detto: “la vita è una sola, divertiti!”»

Ci sono stati episodi OFF nella sua carriera?

«Agli inizi, in politica. Ricordo che a un convegno un collega molto adulto ci ha provato con me.  L’ho respinto in maniera non garbata, è stato piuttosto fastidioso. Ed è proprio per non incorrere in queste vicende che metti da parte il tuo essere donna».

E’ peggio uscire da “Ballando con le stelle” o dalla politica?

«Sono uscita per una manovra di palazzo, molto evidente, di notte mentre ero a letto con la febbre a 40. Non è stata una mia scelta, perché la politica mi piaceva e mi piacerà sempre. Penso che sia fondamentale nella vita dei cittadini. Mia figlia adora questa mia nuova esperienza televisiva, al punto che un giorno mi ha detto: “Mamma, finalmente fai un bel lavoro!”»

E suo marito cosa ne pensa?

«E’ molto contento delle reazioni alla mia partecipazione a “Ballando con le stelle”. All’inizio era un po’ preoccupato, soprattutto per la mia lingua, abbastanza tagliente: ma per ora l’ho tenuta a freno! Sarà per la stanchezza del ballo!»

Suo marito ha altre idee politiche: gli opposti si attraggono?

«Ci siamo conosciuti a un convegno ed è stato un colpo di fulmine. Rispettare chi ha un’opinione differente dalla tua è una crescita costante per noi. Come tutte le coppie, discutiamo sulle cose di ordinaria amministrazione familiare, ma sui temi etici, ad esempio, non abbiamo mai avuto scontri. E’ importante il rispetto delle diversità. Si ha paura delle differenze, quando invece le differenze sono il sale della democrazia. Non possiamo essere mica tutti uguali!»  

Il suo futuro ormai è la televisione?

«Sì e mi piacerebbe fare un programma che desse voce alle ingiustizie, magari basato sul format americano The Ellen DeGeneres Show. Io so essere istituzionale, ma anche ironica e autoironica, qualità essenziali per una trasmissione come “Ballando con le stelle”, che ti obbliga a non prenderti sul serio».

Nunzia De Girolamo e quel convegno “di sinistrissima” che fu galeotto...Edoardo Sylos Labini su Giornale off il 10/06/2019. Sul numero 5 del mensile CulturaIdentità in edicola al prezzo di 1 euro, Nunzia De Girolamo, 43 anni, ex deputato di Forza Italia, già Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali del governo Letta e poi protagonista dell’ultima edizione di Ballando con le stelle, ci racconta nell’intervista di Edoardo Sylos Labini come e quando decise di entrare in politica (nel 2004 un caro amico di famiglia con cui condivise la campagna elettorale delle Europee, per le quali era candidato, non resse alla “cattiveria” della politica e si tolse la vita: “[…] Per me fu uno shock enorme. La prima reazione fu: “Se questa è la politica, che stia lontana da me”. In seguito tuttavia la sentii come una sfida della vita e pertanto cominciai ad occuparmi dei movimenti giovanili di Forza Italia“), elogia l’eleganza di Milena Vukotic (“La Vukotic è un esempio di eleganza per noi donne. Ha dimostrato come si possa arrivare a 84 anni accettando il corso della vita”) e rievoca quella promessa di Silvio Berlusconi quando la incontrò per la prima volta a Napoli (“Una notte Berlusconi mi chiamò e mi disse: “Se cade il Governo Prodi ti porto a Roma con me”. La presi come una promessa, che li mantenne : era il 2008“). Nell’intervista nel mensile in edicola scoprirete non solo il segreto del successo di una giovane donna passata dalla politica allo spettacolo senza rimpianti e con lo sguardo sempre rivolto alla politica stessa, ma anche il segreto del successo del suo matrimonio con Francesco Boccia, che sta dall’altra parte della barricata politica (è un esponente di spicco del PD): il primo bacio, le tattiche per conquistarla e quel convegno “di sinistrissima”che alla fine fu galeotto (“Ero a un convegno di sinistrissima ed è stato un vero colpo di fulmine. Mi sono innamorata dei suoi occhi e del suo sorriso”). E infine un momento dedicato a suo padre (a Ballando con le stelle hanno ballato insieme) e ai ricordi di se stessa bambina (“[…] Trovava le parole per stimolarmi ad andare avanti, anche quando non condivideva le mie scelte. Posso dire di essere fortunata da questo punto di vista: la mia grande forza è la mia famiglia). (Redazione).

·         Nathalie Caldonazzo.

Vieni da me, Nathalie Caldonazzo parla dell'orrore vissuto con il suo ex Andrea Ippoliti: "Mi sono vergognata". Libero Quotidiano il 5 Dicembre 2019. La showgirl Nathalie Caldonazzo ha rilasciato una toccante intervista a Caterina Balivo nel programma Vieni da Me. Natalie, parlando dell'esperienza a Temptation Island, ha avuto parole molto dure su Andrea Ippoliti. “Un amore tossico”, lo ha definito, parlando di “violenza psicologica”. “Una storia in cui credevo tantissimo, ho rinunciato al 90% di me stessa e mi sono ritrovata in una realtà shockante”, ha detto. “Pentita di aver lasciato Andrea? Assolutamente no – spiega la Caldonazzo – è stata la delusione più grande della mia vita. Non pensavo di provare una sensazione da film horror". "Io mi sono vergognata di essere andata lì (a Temptation, ndr), l’ho detto anche ad Alessia (Marcuzzi, ndr)”. Sull’apertura fatta di recente da Ippoliti, che ha detto di stimarla e di voler chiarire con lei, taglia corto: “Lui può dire quello che vuole, non mi interessa. Quando una persona dentro di me muore, muore, basta. Qui c’è mancanza di stile totale, non posso accompagnarmi a una persona del genere. Penso di meritarmi di più”.  

·         Dilettatevi con Diletta.

Diletta Leotta, la bellissima a cui non è concesso sbagliare. In una tv fondata sul pressappochismo c'è solo un ambito dove è vietato fare inciampi: il tempio maschile del calcio. Beatrice Dondi il 23 dicembre 2019 su La Repubblica. Giusto per mettere le cose in chiaro: Diletta Leotta è una splendida donna. Ha la faccia, il sorriso, i capelli, le tette, tutto al posto giusto, e l’insieme, come si diceva un tempo, è un gran bel vedere. Diletta Leotta è talmente una splendida donna che cercando il suo nome su Google vengono fuori le sue forme in 3D anche nella ricerca testuale. E lei, se Dio vuole, ne va fiera. Si mostra e dimostra con libera gioia e generosità. E non c’è un motivo al mondo per cui non dovrebbe. Ma Diletta Leotta, Miss muretto laureata, che ha scrutato le previsioni meteo, cercato moglie ai contadini, subito l’umiliazione di veder pubblicati i suoi scatti più intimi e presentato scale reali, dopo un giro di valzer si è buttata nel mondo del pallone. Commettendo così il più imperdonabile degli errori. Perché, parafrasando il Fight Club, la prima regola se sei così avvenente è non parlare mai di calcio. O meglio, puoi parlarne nonostante tu abbia un fisico da urlo ma solo se sei impeccabile, se non cadi mai, non commetti gaffe, sei precisa, sciolta e incredibilmente sul pezzo. Altrimenti si grida alla lesa maestà.  Da anni la roccaforte maschile per eccellenza si sta sgretolando di fronte a una valanga di professionismo femminile, in studio e a bordo campo la presenza di signore più che competenti ha fatto breccia e dallo sgabello di Alba Parietti in poi sentire una voce di donna che commenta rigori e fuori gioco non fa più notizia. Eppure sempre di calcio si tratta. E in una tv fondata sul pressappochismo, dove in genere la celebrità bacia a caso fronti rigorosamente incapaci, quel settore sembra ancestralmente avvolto da uno schermo protettivo, che si buca solo con un costume da super eroe, possibilmente non troppo attillato altrimenti te la sei cercata.  Per controbattere giorno dopo giorno a chi con leggerezza esterna perle come «Una donna, ma diciamola femmina, che parla di calcio, mi rivolta lo stomaco» (Giancarlo Dotto) bisogna armarsi a dovere, senza sbavature. E se la bellezza non aiuta, Diletta Leotta, conduttrice di punta di Dazn sembra incarnare esattamente quel rischio a portata di mano, lei, bionda e solare, bionda e sgargiante, bionda e vistosa, che a volte si azzarda a parlare di calcio con inciampi casuali, sbagliando un nome, un riconoscimento, una canzone. Apriti cielo. Errore fatale, pericolo comune. Sarà per questo che sono spesso le donne stesse a prendersela con quel suo corpo immaginifico, vero o rifatto che sia poco importa. Perché se i maschi la incoronano queen Diletta, intonano cori dalle curve anche senza ascoltare quello che dice, il timore incombente di dover tornare indietro e partire dal via come a Monopoli è giusto un soffio sopra la traversa. E siamo solo nel 2019, quasi 2020. Frittole è ancora da queste parti.

Da fcinter1908.it il 4 dicembre 2019. Per la terza volta in carriera Samir Handanovic (2011 e 2013) è entrato a far parte della top 11 della Serie A come miglior portiere al Gran Galà del calcio, giunto alla nona edizione dell’evento organizzato dall’Associazione Italiana Calciatori. A presentare l’evento c’era Diletta Leotta protagonista di una gaffe proprio nei confronti del portiere nerazzurro. Quando Handanovic è salito sul palco per ritirare il premio, la giornalista ha accolto con queste parole il portiere: “Questa per te è la prima volta su questo palco. Quanto è importante ricevere questo premio?“. Handanovic però ha corretto subito la Leotta: “È la terza volta. Vedo che sei ben informata, però non importa ti scuso“.

Da areanapoli.it il 4 dicembre 2019. Ci risiamo. Ancora una volta, Caterina Collovati si è scagliata contro Diletta Leotta. E lo ha fatto attraverso un post pubblicato sui social network a seguito delle premiazioni per i migliori calciatori dello scorso campionato di Serie A: "Samir Handanovic, martedì sera, è stato premiato da Diletta Leotta al Gala’ del Calcio. Il fortissimo portiere dell’Inter per la terza volta risulta vincitore della top 11 come miglior giocatore nel suo ruolo", ha scritto la moglie di Fulvio Collovati, per anticipare il tema della sua critica. "La bella e procace Diletta - ha aggiunto la Collovati - che da anni funge da giornalista sportiva con microfono e domande ai protagonisti della domenica, si rivolge al portiere e dice testuale: “la tua prima volta sul palco.” Handanovic , da uomo intelligente, è uno dei pochi calciatori a non cadere inerte davanti al décolleté della Leotta, la corregge e risponde : “è la terza volta “ e aggiunge poi “ vedo che non sei informata.” Il bravo Handanovic ha colto nel segno. Alla bella Diletta non importa prepararsi , quel che conta son le forme, quelle si, preparate ad hoc. In quello è la numero uno. Attenzione però a sottolinearlo troppo perché altrimenti sei sessista". Da ilmessaggero.it l'8 dicembre 2019. E' stata una settimana complicata per Diletta Leotta. Lo splendido volto di DAZN, una delle conduttrici più amate da parte del pubblico sportivo italiano, è scivolata in tre bucce di banana che, purtroppo, i social non le hanno perdonato. Cominciamo dalla prima, quella della presentazione di Handanovic al Gran Galà del Calcio. «Per te è un'emozione essere per la prima volta qui sul palco». Daa. Sbagliato. E' lo stesso portiere dell'Inter a farle notare che lui, quel premio, lo ha già vinto tre volte. Il video finisce in rete e, addirittura, gli organizzatori sono costretti a scusarsi proprio con Diletta, scagionandola dalle accuse e scaricandole tutte sul povero autore che ha compiuto il (piccolo) errore. Arriviamo a Lazio-Juventus. O meglio, al post partita di Lazio-Juventus quello che ha fatto impazzire di gioia i tifosi biancocelesti. Una vittoria pazzesca contro i campioni d'Italia e un'epica "Giardini di Marzo" sparata a tutto volume all'Olimpico: «Ed ecco i tifosi e la Curva che canta no i "Giardini di Marzo" di Venditti...». Daa. Sbagliato. La canzone è di Lucio Battisti che era tra l'altro un tifoso della Lazio e non di Antonello Venditti che, all'Olimpico, va a vedere la Roma da circa due secoli. Errore musicale, ci può stare, non abbiamo tutti Shazam nel cervello. Qualche minuto dopo qualcuno fa notare l'errore a Diletta che fa subito marcia indietro scusandosi. Paola Ferrari, la nemica storica della Leotta, partecipa su Twitter ai commenti al veleno e scrive: «Pronta per Sanremo...» E arriviamo al triplete della serata. Balzaretti sta commentando la partita e le parole di Milinkovic-Savic: «Il serbo ha detto che quando ha palla Luis Alberto, io vado...». E Diletta Leotta fa a Balzaretti: «Sì vai vai». Balzaretti continua come se nulla fosse: «... lui sa già che gli arriva il pallone». L'ex terzino della Roma non voleva ovviamente andarsene nel mezzo della diretta, accanto a Diletta, o sapere se poteva continuare il discorso. Ah, il bello della Diletta...

LA REPLICA DI CATERINA COLLOVATI. Dagospia l'8 dicembre 2019. Gentile direttore, Ti sarei grata se mi consentissi qualche riflessione o meglio precisazione, rispetto al pezzo del vostro Pippo Russo, il quale per difendere la Diletta nazionale, non esita ad offendere la sottoscritta. Forse la collega attempata si può maltrattare senza alcun problema, mentre la giovane va protetta? Mah...Nell’articolo ripreso anche da Dagospia, mi da’ della rosicona, si domanda il perché io utilizzi il cognome di mio marito, ironizza sul mio curriculum che colloca la mia partenza professionale nelle trasmissioni di Mosca e Biscardi. Ritorna sull’obsoleta questione della frase di mio marito ritenuta sessista, riportando in maniera errata una mia intervista dell’epoca. Rosicona?

Non conosco questo sentimento, avendo una più che soddisfacente vita professionale oltre che una felicissima vita privata.

Non mi occupo più di calcio per mia scelta. 

Da oltre otto anni, tratto altri temi ; conduco un programma quotidiano su Telelombardia: attualità, diritti delle donne, sociale, cronaca.

Collaboro con Rai e Mediaset, non sul calcio.

È vero che le miserie umane sono infinite , ma francamente mi risulta oltremodo difficile invidiare Diletta Leotta peraltro coetanea delle mie figlie.

Il mio cognome? Ebbene sì, mio marito ha un cognome famoso. Nel lontano indimenticabile 1982, quando iniziai a muovere i primi passi nel giornalismo sportivo, decisi di utilizzarlo. Non si trattò di un cambio di identità, bensì di un diritto sancito anche dal codice civile. Il terzo punto riguarda la menzione ai miei inizi nelle trasmissioni di spessore, dice Russo, con chiaro intento denigratorio. Gli ricordo che sono ben fiera di aver avuto due maestri come Mosca e Biscardi, due veri animali televisivi, secondo il gergo, precursori di un modello di tv che funziona ancor oggi, copiato sia nella tv nazionale che nella privata. Concludo sottolineando una volta per tutte che non ho nulla di personale contro Diletta Leotta, peraltro bella, solare e sorridente, merita tutto il successo che sta riscuotendo. Sono al contempo molto critica nei confronti di chi utilizza la propria fisicità in maniera eccessiva. Ritengo che le donne non debbano per forza esprimersi con il corpo, sarebbe più opportuno farsi apprezzare attraverso i contenuti , pur non rinnegando la femminilità. Combatterò sempre per questo. Cordialmente Caterina Collovati

Pippo Russo per calciomercato.com il 7 dicembre 2019. È lo slogan del momento fra conduttrici e opinioniste che da svariati lustri campano di calcio, e che adesso mal sopportano la fulminante ascesa di Diletta Leotta. Non riescono a ammettere che accada. E quel che è più, proprio non reggono lei, la più Diletta dagli italiani. Perciò la bersagliano di critiche le cui argomentazioni sarebbero marchiate a fuoco di sessismo, qualora fossero commentatori maschi a esprimerle. E che invece, se pronunciate da donne e fra donne, paiono godere dell'immunità di genere. Sicché sarà mica il caso di porre la questione del sessismo fra donne? Interrogativo d'attualità dopo l'ennesimo attacco rivolto alla conduttrice di Dazn, in questo caso firmato da Caterina Collovati. Che altre volte aveva pubblicamente criticato Leotta, dunque figurarsi se potesse lasciarsi scappare l'occasione giunta dalla gaffe che la conduttrice ha compiuto presentando Samir Handanovic in occasione del Gran Galà del Calcio. Nella circostanza Diletta Leotta ha detto che il portiere interista si trovasse per la prima volta da premiato su quel palco. In realtà era la terza, come lo stesso Handanovic ha ribattuto. Il portiere sloveno ha aggiunto una postilla velenosa che forse, visto il contesto da celebrazione, avrebbe potuto risparmiarsi: “Vedo che sei ben informata, però non importa, ti scuso”. Ciò che ha offerto a Caterina Collovati l'occasione per vergare un garbatissimo post su Facebook, in cui si è riferita alla “bella e procace Diletta che da anni funge da giornalista sportiva con microfono e domande ai protagonisti della domenica”, per poi aggiungere: “Alla bella Diletta non importa prepararsi, quel che conta son le forme, quelle si [testuale, ndr], preparate ad hoc. In quello è la numero uno. Attenzione però a sottolinearlo troppo perché altrimenti sei sessista”. E già, il sessismo. Un tema sul quale la signora Caterina Cimmino in Collovati (a proposito, come mai non usa il cognome da nubile?), con curriculum forgiato dalla partecipazione a programmi televisivi d'altissimo spessore condotti da Maurizio Mosca e Aldo Biscardi, potrebbe tenere seminari. Specie dal giorno in cui il signor Fulvio Collovati in Cimmino, durante una puntata di Quelli che il calcio, fece la famosa sparata sulle donne che non dovrebbero parlare di tattica calcistica. Gli toccò scusarsi pubblicamente e beccarsi una sospensione di due settimane dalle trasmissioni Rai. Era nemmeno un anno fa. E in quella circostanza la signora Caterina Cimmino, amor di consorte, si precipitò a soccorrere il coniuge. Intervistata nel corso di un programma di Radio 2 Rai affermò che il calcio dovrebbe essere commentato dagli uomini mentre le donne farebbero bene a stare un passo indietro. Sarà mica sessismo anche questo? Va' a sapere. A ogni modo, se parliamo di colleghe – ché tali sono, per quanto non vogliano sentirselo dire – che attaccano Diletta Leotta, in prima linea c'è sempre Paola Ferrari. Che a più riprese si è scagliata contro la conduttrice di Dazn e con argomenti diversi. Anche lei si è soffermata sulle forme “preparate ad hoc”, giudicando diseducativi gli interventi di chirurgia estetica cui Leotta si sarebbe sottoposta.. E chissà se ciò sarà stato tema di dibattito con l'ex amica Daniela Santanché. Ma le critiche di Paola Ferrari non si fermano al tema “rifatti, non parole”. L'ex concorrente di “Ballando con le stelle” ha preso pubblicamente posizione, e in due circostanze diverse, rispetto alla partecipazione di Diletta Leotta al Festival di Sanremo. Dapprima come ospite (2017), e poi come conduttrice al fianco di Amadeus (ciò che potrebbe verificarsi con l'edizione 2020). Tutto ciò l'ha mandata fuori giri, e l'ha spinta a rilasciare commenti piccati. Come del resto le è capitato in altre circostanze e con altri bersagli, soprattutto via social. Per esempio, quando venne avvicendata alla guida della Domenica Sportiva stagione 2014-15 dalla collega Rai, Simona Rolandi. In quella circostanza si mise a vergare post furenti su Twitter e Facebook, usati anche per attaccare la successora. Post la cui rilettura risulta oggi meravigliosa, in cui si concionava di “attacco al popolo globale e democratico” di Twitter (sic!) e in cui si ammoniva Simona Rolandi come segue: “E non permetterti di pronunciare MAI il mio nome”. Con aggiunta di ulteriore stoccata: “Complimenti per i denti rifatti”. Evidentemente per la signora Ferrari la questione dei ritocchi è una fissa. Come del resto testimoniò la sua virulenta reazione alle ipotesi che fosse stata lei a porsi nelle mani del chirurgo estetico. Era il 2012, e in quella circostanza si diffuse la voce che Paola Ferrari volesse addirittura querelare Twitter. Cioè la stessa arena social che soltanto due anni dopo sarebbe stata battezzata come il contenitore del “popolo globale e democratico”. E merita riportare le frasi di allora: “È una situazione paradossale: all'alba del terzo millennio una donna di 50 anni viene criticata perché è ancora in tv. Questa è pura misoginia. Noi donne abbiamo fatto delle battaglie per ottenere la libertà che abbiamo adesso. La mia denuncia è per tutti, non per me. Lo faccio per mandare un messaggio. So che sto prendendo una posizione molto coraggiosa. Ma devo farlo. La donna del terzo millennio deve essere libera di essere se stessa. Deve essere libera di truccarsi o meno. Di rifarsi o meno".. Era il 2012. Sette anni dopo, Anno Domini 2019, la stessa Ferrari bollerà come “diseducativi” i (presunti) ritocchi della conduttrice di Dazn. E riguardo a se stessa, sempre nel 2012, Ferrari affermò di non essersi rifatta. Ciò che offrirebbe alla collega Diletta la possibilità di controbattere: “Si vede”. E beata lei, che per una battuta del genere non rischierebbe l'accusa di sessismo.

Diletta Leotta: «I cori del San Paolo? Un malinteso, era solo ironia». Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 su Corriere.it da Simona Marchetti. La conduttrice di Dazn si racconta al quotidiano inglese «Sun». «Ogni cosa che faccio diventa virale. Sogno l'Italia campione del mondo». Anche se ormai dovrebbe esserci abituata al fatto che ogni cosa che fa finisca sotto la lente d'ingrandimento dei social, Diletta Leotta non se l'aspettava di certo che quel pollice verso, mostrato per scherzo all'indirizzo dei tifosi del Napoli che le stavano cantando un coro non esattamente educato allo Stadio San Paolo («fuori le tette», ndr), avrebbe fatto il giro del mondo. «A volte ho come l'impressione che ogni cosa che faccio diventi virale, sia che mi alleni in palestra o che balli in un locale - ha spiegato la 28enne conduttrice di Dazn in un'intervista al Sun - quindi non ne sono rimasta sorpresa. Di certo però non mi aspettavo che questa storia superasse così tanti confini, anche perché è stato tutto un malinteso. I tifosi del Napoli mi hanno sostenuta per tutta la partita, poi hanno provato ad andare un po' oltre dopo che il Napoli aveva vinto, ma era solo uno scherzo e la mia reazione è stata legata all'ironia del momento». Catanese d'origine e con la Sicilia sempre nel cuore, la Leotta ha iniziato a muovere i primi passi in tv ad Antenna Sicilia, poi il salto a Sky Sports e ora a Dazn. «La scorsa settimana ho intervistato Radja Nainggolan a Cagliari - ha continuato Diletta, che ha una laurea in legge chiusa nel cassetto - e ho avuto la possibilità di conoscerlo meglio, rimanendo colpita dalla sua forza e dal suo amore per la squadra e per la sua vita. Un giorno mi piacerebbe intervistare dei calciatori che giocano all'estero come Messi, Sergio Ramos, Salah, Kane e Neymar, oltre a leggende della Premier League quali David Beckham, Alan Shearer e Sir Alex Ferguson». E a proposito di allenatori famosi, ha già incontrato José Mourinho e Carlo Ancelotti. «Con Ancelotti ho fatto un giochino: gli ho dato un quaderno e gli ho chiesto di scrivere i suoi desideri per la stagione 2018-2019 - ha raccontato la conduttrice tv - nessuno li ha poi letti tranne me, ma posso dire che non si sono avverati!». Tre anni fa la Leotta è stata vittima di un hacker, che ha violato il suo iCloud con dentro diverse sue foto nude e private. All'epoca Mario Balotelli prese le sue difese su Twitter («Ognuno è libero di fare quello che vuole con il proprio corpo, nel bene e nel male»), un gesto che la conduttrice non ha mai dimenticato. «Ho fatto denuncia non solo per proteggere la mia privacy - ha precisato Diletta - ma come una delle tante donne che hanno bisogno di reagire a causa degli stessi problemi. Ho molto apprezzato il sostegno di Mario Balotelli, sentivo di non essere sola in quell'occasione e che il problema è molto più comune di quello che mi sarei mai aspettata». Quanto al futuro lavorativo, la bionda di Dazn ha un sogno. «Mi piacerebbe essere in campo quando l'Italia vincerà la prossima Coppa del Mondo!». Vero, i pronostici di Ancelotti non sono andati benissimo, ma chissà che il ct azzurro Roberto Mancini non riesca a fare meglio....

DILETTATEVI CON DILETTA! Da Leggo.it il 27 aprile 2019. Diletta Leotta ospite a Verissimo si racconta in un'intervista a cuore aperto. La conduttrice di Dazn racconta la sua carriera, il percorso scolastico e la gavetta per arrivare a lavorare in Tv. Diletta Leotta parla del suo rapporto con il compagno, con cui sta da circa 4 anni e confessa di desiderare un figlio dal suo fidanzato. Diletta parla della sua famiglia, del bellissimo rapporto con i suoi 4 fratelli e con la sua mamma: «Ho tatuato sul polso il nome di mia mamma quando sono andata via da casa, perché mi mancava molto. Poi superata la prima fase stavo benissimo e ho trovato il mio nuovo equilibrio». La Leotta ammette che con il papà c'è un rapporto speciale: «Lui è la mia roccia, è stato un riferimento anche in momenti molto complicati della mia vita». Poi ricorda l'hackeraggio del telefono, delle sue foto e del numero di telefono: «Avevo paura che papà potesse reagire male, ma mi è stato di supporto, in modo basilare». La conduttrice ricorda l'episodio dell'hackeraggio e delle foto molto vecchie che furono rubate dall'iCloud, spiegando quello che è successo e confessando di aver temuto il giudizio della famiglia. La famiglia però, chiarisce, le è sempre stata vicino e il concentrarsi sul lavoro le ha permesso di superare quel periodo difficile. Diletta poi parla di aver subito anche attacchi da colleghi nel suo lavoro: «Le critiche che ho ricevuto, per fortuna sono critiche costruttive. Mi è capitato di aver ricevuto critiche da professioniste, da cui mi sarei aspettata una maggiore tolleranza. Quando si tratta però di critiche banali non mi toccano per niente». Poi ammette il riferimento a Paola Ferrari che ha parlato più che altro del suo aspetto fisico: «Non me lo aspettavo da grandi professionisti, mi sarei aspettata consigli. Non ci faccio caso, mi ha lasciato indifferente».

Antonella Latilla per gossiptv  il 27 aprile 2019. Diletta Leotta ha due tatuaggi: la scritta Ofelia sul polso e una stellina in “zona Belen”. In un’intervista concessa a Verissimo la conduttrice lanciata da Sky Sport ha ammesso che il primo disegno è dedicato alla madre, che si chiama proprio Ofelia. Un tattoo realizzato qualche anno fa, dopo che Diletta ha lasciato la sua città natale, Catania, per trasferirsi a Roma, dove ha cominciato a muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo. La Leotta ha scelto di tatuarsi il nome della madre perché è sempre stata il suo punto di riferimento e quando è andata a vivere da sola ha sentito molto la mancanza del genitore. “Quando ho detto a mia madre del tatuaggio non l’ha presa bene, si è arrabbiata. Quando ha visto il suo nome e ha capito il significato della scritta è scoppiata a piangere“, ha raccontato Diletta Leotta a Verissimo. “L’ho fatto in suo onore perché mia madre è il mio punto di riferimento, mi mancava molto e ho deciso di tatuarmi il suo nome sulla mia pelle”, ha aggiunto il volto di DAZN. Diletta ha un altro tatuaggio, una stellina nella zona inguinale, come svelato in un’intervista concessa al settimanale Oggi. Non solo la madre Ofelia, Diletta Leotta è anche molto legata al padre, un facoltoso avvocato siciliano che l’ha aiutata parecchio dopo lo scandalo delle foto hackerate. “Nei momenti più complicati della mi vita mio padre è sempre stato in grado di aiutarmi, come quando mi hanno rubato le foto dal cellulare e le hanno pubblicate in rete con il mio numero di cellulare. Lui mi ha dato la forza più bella per reagire” ha puntualizzato la 27enne.

Diletta Leotta, dalle foto rubate alla polemica con Paola Ferrari: perché si parla così tanto di lei. Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Arianna Ascione su Corriere.it. Diletta Leotta è una delle conduttrici sportive più apprezzate del panorama televisivo: dopo alcuni anni in Sky nel 2018 è approdata su DAZN dove ha presentato, al termine delle partite di seria A, il programma Diletta Gol. Ma l'attenzione su di lei è sempre stata molto alta, ed è tra i personaggi che finiscono più spesso nel mirino del gossip: è freschissima ad esempio la notizia della rottura con il dirigente Sky Matteo Mammì, con cui faceva coppia da tre anni. «È stata una scelta di entrambi - ha svelato Leotta in un'intervista al settimanale Gente - Non amo parlare pubblicamente della mia vita personale. Ma mi torna in mente una canzone di Venditti: certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano». Nel frattempo le sono stati attribuiti numerosi flirt, dall'ex tronista Francesco Monte — che ha lasciato Giulia Salemi — al pugile Daniele Scardina.

Diletta Leotta, il fidanzato pugile la gela: "Io e lei insieme?", la freddissima reazione. Libero Quotidiano il 5 Dicembre 2019. Il fidanzato di Diletta Leotta Daniele Scardina, in un’intervista con Rai Radio Uno nel programma Un Giorno da Pecora, ha detto la sua sulla love story con la giornalista. Il pugile di origini milanesi preferisce tenere la cosa privata, anche di fronte alle domande provocatorie dei conduttori Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. “Non sono mai entrato in dettagli, ho sempre preferito tenere la cosa un po’ riservata e continuerò a farlo”, ha commentato in modo piuttosto "freddo".  Così la Cucciari e Lauro hanno provato ad insistere per estorcere qualche dettaglio in più, facendo riferimento al momento in cui la Leotta ha fatto il tifo per lui durante un incontro. La risposta è stata gelida: “Com’è vedere le persone che ami intorno al ring? E io ho sempre risposto che è bellissimo che mi tifano intorno al ring”.

Diletta Leotta, l’estate da single è già finita: abbracciata a un pugile nelle notti di Ibiza. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Corriere.it. Solo pochi giorni fa Diletta Leotta annunciava la fine del suo lungo fidanzamento con Matteo Mammì. Ma la sua vita da single è durata poco. Se dall’annuncio della conduttrice si è subito scatenato il «toto fidanzato», l’attesa sarebbe già finita: il settimanale «Spy» ha pubblicato le immagini di Leotta in atteggiamenti affettuosi con un nuovo uomo e ne rivela l’identità.

Il nuovo «fidanzato» è un pugile: Daniele Scardina, 28 anni, campione del mondo IBF dei pesi Supermedi, soprannominato «King Toretto». Scardina, che è nato nella periferia milanese, attualmente vive e si allena a Miami ed è amico intimo di tutti i più famosi rapper milanesi, da Fedez , a Sfera Ebbasta, da Marracash a Gué Pequeno, che le ha presentato Diletta. Nelle foto pubblicate da Spy il tatuatissimo pugile e la conduttrice di Sky passeggiano teneramente abbracciati nella notte dopo aver passato la serata in un locale.

Da gazzetta.it l'11 luglio 2019. Ecco le immagini di Daniele "King Toretto" Scardina, il pugile che sarebbe il nuovo amore di Diletta Leotta: i due sono apparsi in una Instagram Stories della giornalista di Dazn in barca, in compagnia del comune amico Gué Pequeno. Toretto, classe 1992, è campione internazionale IBF nella categoria dei pesi medi.

Luca Pessina per gazzetta.it l'11 luglio 2019. Una vita a Miami e il cuore a Rozzano, dove tutto è iniziato. Daniele Scardina, per chi segue la boxe "King Toretto", da ieri è di nuovo in Italia in attesa dell'incontro di venerdì al Palalido contro Alessandro Goddi. Scardina difende il titolo International IBF dei supermedi a Milano, a due passi dalla sua Rozzano e nella città che a marzo gli ha consegnato la cintura nella grande serata del Superstudio Più: "Io vengo da qui, è la mia gente, la mia terra. Sono come fratelli per me. L'unione fa la forza, lo dico sempre, e tutti uniti possiamo crescere e diventare grandi". Non solo parole. Scardina è ancora il campione di Rozzano o più in generale della periferia. Quando può lascia Miami e torna a casa da famiglia e amici, come Jerry il barbiere di fiducia del South Barber. Rigorosamente a Rozzano: "Qui è nato il mio soprannome. Viene dal film Fast and Furious, un amico mi aveva definito "King" dopo i primi incontri ed è rimasto". Amici che compongono anche il suo team: "Il mio braccio destro è Ciccio, poi c'è Jerry (il barbiere del South Barber). Lo dicevo: l'unione fa la forza. Il team italiano è composto da quelli con cui sono cresciuto. Poi in America ho il manager e l'allenatore". Scardina non ha dubbi: la periferia dà una spinta extra per emergere: "Hai sempre una marcia in più. C'è la voglia di riscattarti e venire fuori. Vuoi farlo per te ma anche per la gente che ti è stata intorno. Quelli del quartiere che hanno creduto in te e soprattutto quelli che non ci hanno creduto". Nonostante l'incontro a due passi da casa non è facile per i genitori seguirlo dal vivo: "Mio padre ci riesce, ma è molto teso. Mia madre invece no. Esce fuori (ride ndr). E' quasi impossibile per loro".

LA STORIA. Daniele si avvicina alla boxe grazie allo zio e lo sport lo allontana da brutte frequentazioni. Ma guai a parlare di fortuna: "La fortuna non esiste. Esiste solo la voglia e la forza di volontà che ti fa superare ogni limite". Forza di volontà che lo ha portato col fratello in America, dove si è consacrato come pugile: "Siamo partiti da soli e ci siamo creati quello che siamo ora. Noi arriviamo dal nulla. Con mio fratello siamo molto uniti, fin da piccoli abbiamo inseguito i sogni insieme. Siamo partiti per gli States senza niente per ottenere un futuro migliore per noi e la nostra famiglia". Da professionista ci sono 16 vittorie e zero sconfitte, ma guai ad abbassare la guardia: "Io ho avuto delle sconfitte come tutti. Sono stati punti di partenza, ho imparato molto. Per quello non ho più in testa di perdere, ma voglio solo vincere e guardare avanti". Vittorie con cui è facile montarsi la testa: "Può accadere per quanto riguarda la tua immagine, però nel ring devi arrivare preparato. Alzarti la mattina umile e motivato, allenarti duro e portare a casa il risultato".

RAP E SOCIAL. Il rap è di casa quando combatte Scardina: molti grandi nomi del genere sono attesi anche al Palalido per supportarlo. Ma cosa lega il rap e la boxe? "Il fatto di avere un sogno e crederci, nonostante i critici, che non mancano. Abbiamo lo stesso sogno. Però confesso: io ascolto più musica latina, rap latino, fin da quando sono piccolo. Poi ovviamente i miei amici come Sfera, Guè, Marracash e Capo Plaza". C'è anche poco tempo per pensare a chi lo accusa di essere più social che sportivo: "Va bene che pensino quello.

DILETTA LEOTTA. Devo essere mediatico per esprimermi e mostrare alla gente che si può credere in un sogno e farcela. Poi sta me dimostrare quanto valgo sul ring. Lavoro duro, non si vede sui social ma sono in palestra due o tre volte al giorno". Di certo non passa inosservata la sua amicizia con la modella e compagna di allenamenti Adriana Lima: "La verità? Siamo molto amici. La gente si fa dei film in testa. Poi, certo, immagino di scatenare un po' di invidia. Ma ad oggi sono single". Scardina chiude e torna serio. Il suo messaggio è per i giovani, magari di periferia, che si avvicinano alla boxe: "Molti mi scrivono che sono un esempio, che grazie a me hanno ripreso ad allenarsi. Mi motivano, è parte del mio sogno".

·         Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina».

L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona ma sul tetto del mondo. Paolo Giordano, Mercoledì 04/09/2019, su Il Giornale. In fondo che cos'è un tormentone? È la foto più vera e crudele di una parte di noi. C'è qualcosa di più vero di Siamo una squadra fortissimi? Quello di Checco Zalone è un tormentone «prêt-à-porter», nel senso che è stato pubblicato nel 2006 ma sarebbe stato perfetto anche 30 anni prima o 30 anni dopo, tanto noi siamo (anche) quella roba lì, visionari e cialtroni, modaioli ma tradizionalisti e perfetti conoscitori dello sport più praticato del mondo, quello del quale ciascuno stabilisce le regole che vuole. Da quando sono nati, all'inizio degli anni Sessanta, i tormentoni hanno intercettato l'evoluzione degli italiani e dell'italianità, dal sapore di sale di chi iniziava a conoscere le vacanze al mare fino al Vespino dei Lùnapop sul quale sono salite due generazioni di liceali. Un processo graduale, inevitabile ma imprevedibile anno dopo anno, decennio dopo decennio. Invece Siamo una squadra fortissimi è implacabile. È la declinazione musicale dei film di Alberto Sordi mescolati con la commedia all'italiana, della furbizia di Amici miei con Il Processo del Lunedì e dei film di Totò con l'eterno neorealismo di Monicelli. «Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici e nun potimm' perde e fa figur' e mmerd', perché noi siamo bravissimi e super quotatissimi e, se finiamo nel balatro, la colpa è solo dell'albitro». Checco Zalone, che non era ancora il salvatore del cinema italiano ma si capiva che lo sarebbe diventato, si è inventato questo brano che è partito come sigla radiofonica del programma «Deejay Football Club - Speciale Mondiali» che Ivan Zazzaroni conduceva su Radio Deejay. Pubblicato come singolo, è stato al primo posto della classifica dal 14 luglio fino al 17 agosto. D'accordo, l'Italia aveva vinto i Mondiali di calcio a Berlino battendo in finale la Francia ai rigori e, quindi, senza saperlo Siamo una squadra fortissimi è diventato un inno persino più del globale popopopo mutuato da un brano rock dei White Stripes che i Mondiali manco sapevano cosa fossero. Checco Zalone ha messo in note il dizionario di un'Italia fanfarona e irresistibile e ci ha regalato la possibilità di riconoscerla in ogni campo, mica solo quello del pallone. «Stoppi la palla al volo, come ti ha imparato tanto tempo fa quando giocavi invece di andare a scuola, quanti sgridi ti prendevi da papà» è una caporetto grammaticale che parodizza tanti aspetti della vita pubblica italiana. Una volta a parlare così erano soprattutto i calciatori al 90esimo Minuto di Paolo Valenti, magari dopo aver segnato il primo gol in A dopo una carriera nata in qualche paesino sperduto. Adesso, ahimè, questi strafalcioni sono anche ai piani alti, o altissimi, magari anche a Palazzo Chigi. Dopotutto, ci sono ministri o senatori, da Razzi a DiMaio, che parlano uno «zalonese» stretto nonostante debbano confrontarsi con problemi di gravità planetaria. Ed è difficile non trovare tracce dell'enfasi di Checco Zalone in quel «il 2019 sarà un anno bellissimo» che l'ex e quasi neo premier Giuseppe Conte ha pronunciato pochi mesi fa. E chissenefrega se il 2019 è stato finora tutt'altro che bellissimo e l'Italia stia affrontando la crisi di governo più pazza della propria storia repubblicana: conta il messaggio, lo slogan, «l'impatto» dell'annuncio. «Cornuti siamo vittimi dell'albitrarità a noi contraria, ecco che noi cerchiamo di difenderci da queste inequità così palese» canta Zalone ma al suo posto ci potrebbero essere tanti altri. Come conferma anche Cetto Laqualunque, ossia la feroce maschera del politico italiano creata da Antonio Albanese, l'importante è parlare, annunciare, rivendicare. Anche per questo, il pezzo di Checco Zalone è diventato il vero tormentone dell'estate 2006, nonostante tanti altri brani si fossero candidati al ruolo più ambito dal pop estivo. Siamo una squadra fortissimi parla alla parte inconfessabile dell'italianità eppure percepita da tutti, anche da chi non la pratica. D'altronde, il momento era quello giusto. C'era il tormento di un'epoca che non sapeva dove andare. Saddam Hussein ha appena detto di preferire la fucilazione all'impiccagione. Osama bin Laden continua a minacciare l'Occidente. Bush parla spesso con la Merkel, l'unico primo ministro sopravvissuto fino a oggi di quel tempo politico. Berlusconi fa un discorso al Congresso degli Stati Uniti riunito in seduta plenaria e, subito dopo le elezioni di aprile, viene arrestato Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. A maggio inizia «Calciopoli» che costerà due scudetti alla Juventus e la credibilità a tutto il calcio italiano, esattamente come avvenne nel 1982, quando gli azzurri di Bearzot vinsero il Mundial pochi mesi dopo gli arresti (addirittura negli stadi a partite in corso) degli scommettitori più scatenati. Dire «Calciopoli» nell'immaginario collettivo significa dire Moggi. «Grande Luciano Moggi, dacci tanti orologgi agli albitri internazionali, si no co' 'O cazz' che vinciamo i Mondiali» canta Zalone con la libertà che soltanto un comico, in Italia, può permettersi. Si elegge Giorgio Napolitano al posto di Ciampi, e il muro di Berlino cade anche al Quirinale. Benedetto XVI fa arrabbiare molto i musulmani con il discorso di Ratisbona e L'urlo di Munch viene ritrovato dopo due anni dal furto. Insomma, il 2006 è un «anno incubatrice». Contiene i germi del populismo che stava fiorendo sottopelle, per lo più incompreso dalla classe politica. Non a caso, il «Vaffa Day» di Beppe Grillo del 2007 era ancora considerato un evento folcloristico destinato a non lasciare traccia nella vita politica italiana. E invece. Oggi, 12 anni dopo, gli urlatori più stentorei di quei «vaffa day» si stanno giocando il governo italiano per la seconda volta consecutiva a dimostrazione che molto spesso il pop e i commedianti arrivano prima dei migliori analisti politici o economici. In quel 2006 Checco Zalone, ossia il pugliese Luca Medici, era ancora uno dei talenti più cristallini di Zelig, quello più capace di mettere in pratica la lezione della grande comicità italiana: parlare di ciò che siamo e ridere di ciò che vorremmo essere. Siamo una squadra fortissimi è la conferma che si può cristallizzare un tipo italiano e scommettere che si riproporrà identico nel futuro. I versi di questo brano ce l'hanno fatta e, fateci caso, saranno attuali anche tra dieci o cento anni.

Giuliano Cazzola per huffingtonpost.it il 7 dicembre 2019. Mentre mi recavo, in taxi, nella sede di Mediaset della mia città per partecipare a ‘’Stasera Italia’’ (il talk show condotto da Barbara Palombelli su Rete 4) mi ha incuriosito una canzone - che proveniva dalla radio dell’auto – il cui ritornello ripeteva la parola “immigrato” mentre le strofe raccontavano, con un velo d’ironia, la “persecuzione quotidiana” che i cittadini subiscono da parte degli immigrati ai semafori, nei supermercati e a ogni angolo di strada. Addirittura all’italiano protagonista/vittima della canzone l’immigrato insidia, con successo e reciproca soddisfazione, anche la moglie. Ho chiesto subito al tassista se conoscesse quella canzone. Anche lui l’aveva sentita per la prima volta. Essendo la radio emittente al di sopra di ogni sospetto (per un momento avevo temuto che si trattasse di Radio Padania, ammesso che esista ancora), mi ero tranquillizzato, ripromettendomi di approfondire l’argomento. Arrivato in trasmissione ho scoperto l’arcano. Ad un certo punto, Palombelli ha mostrato un promo – divenuto virale sui social - del prossimo film di Checco Zalone. E così ho potuto sapere, anche attraverso le immagini del video, da dove veniva quella canzoncina. La conduttrice si è rivolta agli ospiti per conoscere la loro opinione. Tutti si sono sperticati in apprezzamenti per la canzonetta, trovandola divertente, dissacrante, capace di esorcizzare con la vis comica il senso di un fenomeno sociale. Il sottoscritto, invece, si è infilato – con sorpresa e disapprovazione dei presenti – su un’altra pista, ricordando, che nella Germania di Weimar si cantava nei cabaret di Berlino (pare che la vita notturna fosse molto intensa) una canzone a sfondo umoristico dedicata agli ebrei. Lo ammetto: io vivo nella convinzione (e nell’angoscia) che l’Italia si appresti a conoscere – ovviamente mutatis mutandis perché un secolo non è trascorso del tutto invano - l’esperienza della Repubblica di Weimar. Così, rincasato, sono risalito alla fonte nel saggio di Siegmund Ginzberg, "Sindrome 1993"’ (Feltrinelli 2019). Ecco qualche brano della canzone che avevo ricordato in trasmissione: ’’Se piove e se fa freddo/ se il telefono è occupato/ se la vasca da bagno perde/ se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi/ se il principe di Galles è un finocchio/ è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei. E via di questo tono. Il fatto è che a cantarla non erano le SA di Ernst Rohm a passo di marcia, ma dei normali attori durante uno spettacolo di satira politica andato in scena in un cabaret (il Tingel-Tangel) di Berlino nel 1931. L’aria del ritornello (è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei) rievocava l’habanera della Carmen. La musica era dell’autore (Felix Hollaender) delle canzoni di Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro. Come si vede siamo ben oltre il livello delle note (ispirate ad Adriano Celentano) di Checco Zalone. Certo, il grande comico italiano non è razzista, come non erano antisemiti gli autori e degli attori della satira tedesca del 1931. Si sono limitati, ora ed allora, a cogliere un sentimento diffuso, sperando di demolirlo con l’ironia. Del resto, non possiamo restare prigionieri del "politicamente corretto" – ammesso che l’antirazzismo possa ancora ritenersi tale, visti i dati del Censis – ma sarebbe meglio non dimenticare le parole di Primo Levi: ciò che è stato può ritornare.

TESTO IMMIGRATO

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

Al semaforo sul parabrezza

C’è una mano nera con la pezza

E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici

“C’ha due euro per panino!”

Immigrato

Quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

Mi prosciughi tutto il fatturato

Poi la sera la sorpresa a casa

Al mio ritorno

Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno

Ma mia moglie non è spaventata

Anzi

Sembra molto rilassata

E ritrovo quel suo sguardo malandrino

Che faceva quando…

Quella roba lì

La faceva…

Immigrato

Sembra proprio che ti sei integrato

Immigrato

Favorisci pure l’altro lato

Immigrato

Ora dimmi perché mi hai puntato

Potevi andar dal mio vicino pakistano

O a quel rumeno in subaffitto al terzo piano

Ma hai scelto me

Il mio deretano

Dimmi perché

Perché, perché perché perché?

Prima l’italiano!

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Immigrato

Immigrato

Marco Giusti per Dagospia il 7 dicembre 2019. Ci siamo. Ha già diviso tutti. L’ha fatto apposta. Ci sta. E’ bastato un video, che devo dire fa molto ridere, “L’immigrato”, una scatenata totocutugnata che parte con “il porto spalancato” e chiude con gag finale che spiega perché gli immigrati dopo averti tormentato tutti i giorni arrivano anche a trombarti la moglie, “prima l’italiano”, per portare Checco Zalone in quella zona pericolosa dei social che va dall’Inferno al Paradiso. Visto da destra, visto da sinistra, visto da destra pensando che sia si destra, visto da sinistra pensando che sia di sinistra e visto da da destra pensando che sia di sinistra e visto da sinistra pensando che sia di destra. Che mal di capoccia… e va subito in tendenza assieme alla Nutella e a Salvini. Per il centro Baobab è “spazzatura” (ma perché?), per altri partono gli insulti: “schifoso comunista cesso zeccone”, “anfame sinistroide e perlo più [scritto così…] milionario”. Aiuto! Poi partone le cattiverie nemmeno fosse Polanski. “Se a Zalone piacciono tanti i migranti, spero che gli regali a tutti il biglietto per vedere il suo nuovo film. Spero che sia il suo solo pubblico. Per me ha chiuso. #boicottaZalone”. Ecco c’è pure il movimento contro. Nemmeno fosse Polanski. Poi arriva chi lo difende. “Compagni a sto giro avete toppato di brutto, forse non la conoscete la comicità di Zalonem prende per il culo l’italiota da sempre”. Non a caso chiude il video con l’immagine di lui ducetto al balcone in bianco e nero, pronto a diventare leghista. No? E poi lo ha già detto. “Non è più irriverente prendere per il culo Salvini e Di Maio perché lo fanno già da soli”. E poi: “Se date del razzista a Checco Zalone non avete capito proprio un cazzo”, “buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere..#NONAVETECAPITOUNCAZZO”. Magari voleva davvero questo per lanciare il suo film il 1 gennaio. Dividere il pubblico per provocare interesse. Ovviamente c’è riuscito. Come Salvini con la Nutella. Ma che vai a romperci il cazzo con la Nutella come se fossi un hater di Nanni Moretti? Eddai… Non puoi limitarti a odiare la Juventus, che so, Chiara Ferragni… No. Attacchi la Nutella. Zalone non vuole fare della satira alla Albanese o alla Dandini, vuole prendere per il culo proprio gli italiani che cascano nel suo gioco di odio/amore, vuole andare oltre il politicamente corretto/politicamente scorretto. Mentre Ficarra e Picone, morto il cinepanettone,  fanno il grande film comico di Natale per tutti, mentre Marco D’Amore risorto come Cristo in L’immortale sta facendo il pieno al cinema, 1,2 milione di incasso in due giorni, mentre Garrone e Benigni provano il fantasy dark con la rilettura di Pinocchio, Zalone non può che sparigliare facendo Letto a tre piazze con l’immigrato e la moglie nelle scene finali del suo video. Deve farci ridere provocandoci. Ci trombano le mogli… Che sarà mai? Ma quale razzista… Sardine a parte, mi sembra l’unico che non nominandolo mai possa trattare Salvini per quello che è, perché affronta direttamente la confusione ideologica degli italiani. Il film farà il botto. Lo sapete già…  

L'immigrato di Zalone divide il web, Valsecchi: «È satira». Ben 2 mln di visualizzazioni in 48 ore per il singolo del re degli incassi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Dicembre 2019. La giornata di un italiano alle prese con un «immigrato», tra la «mano nera» che tenta di lavare il parabrezza e quegli spiccioli che rischiano via via di "prosciugare il fatturato», passando per la «sorpresa» finale: "Al mio ritorno/ Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno/ Ma mia moglie non è spaventata/ Anzi/ Sembra molto rilassata...». Checco Zalone ha scelto di lanciare in un modo tutto suo, irriverente e politicamente scorretto, il suo nuovo, attesissimo, film, Tolo Tolo, in uscita il primo gennaio: un singolo, intitolato appunto 'Immigrato', che mescolando echi di Celentano e Toto Cutugno tocca un nervo scoperto in una società in cui va montando - come ha appena certificato il Censis - una deriva verso l’odio, il razzismo e l’intolleranza nei confronti delle minoranze. Il videoclip di Immigrato ha fatto immediatamente il giro del web, raccogliendo in 48 ore quasi 2 milioni di visualizzazioni e incassando commenti entusiastici ma anche critiche feroci al re degli incassi del cinema italiano. «Il video 'Immigratò di #CheccoZalone è terribile e non fa ridere. C'è poco altro da commentare, nessun bisogno di addentrarsi in analisi di chissà quali sfumature: banale spazzatura per il mercato delle festività», scrive l’associazione di volontariato Baobab. «Non ho capito se la canzone di Zalone «Immigrato» è fascista e razzista oppure prende in giro chi lo è. O è entrambe le cose, se possibile. Secondo voi? #CheccoZalone», si legge in un altro tweet. «Forse #CheccoZalone voleva far ridere. Non c'è riuscito, si è solo adeguato ai tempi #immigrato #blob», riflette un altro utente. Ma c'è anche chi parla di «capolavoro» e chi, come Antonello Piroso, chiosa sempre su Twitter: «Iscrivere d’ufficio #Zalone a un partito/movimento è un esercizio sterile e pure offesivo(per lui). In un colpo solo, irride sovranisti e cultori del #politicamenteCorretto,#Salvini e #Saviano. Non è di dx nè sin.E' #oltre». «Sono molto stupito di queste poche, per fortuna, reazioni al videoclip di Checco Zalone 'Immigratò, da noi prodotto», commenta Pietro Valsecchi, patron della Taodue. «Per me - e credo di interpretare anche il pensiero di Luca - e quindi per noi, la diversità è sempre stata un valore a tutti i livelli: di pensiero, di origine sociale, di provenienza geografica. La satira vuole prendersi gioco di tutte le certezze, qualunque esse siano, e chi non la capisce, forse non vuole neanche provare a mettersi in discussione. E quando graffia, graffia. Vi aspetto tutti il primo gennaio in sala: evviva Tolo Tolo», conclude. Né il testo né le immagini del video - girato in diverse zone di Roma tra le quali il quartiere Bologna, nel caseggiato popolare che è stato set del film di Ettore Scola “Una giornata particolare” con Marcello Mastroianni e Sofia Loren - sono tratte dal film sul quale vige ancora il massimo riserbo. L'unica sinossi ufficiale recita: «Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti. Lui, Tolo Tolo, granello di sale in un mondo di cacao».

Lettera di Alessandra Mammì a Dagospia l'8 dicembre 2019. Caro Dago, in effetti Zalone è divisivo, persino in famiglia. E per non rovinarmi la domenica a discutere con il mio Giusti marito preferisco intervenire nel “dibbbattitto”  per dirti che  a mio parere quello spot “Immigrato” non è per niente politicamente scorretto. Correttissimo invece basta spostare il punto di vista e  registrare il plauso e l’applauso che arriva da i salviniani cronisti e opinionisti del “Secolo d’Italia” del “Giornale” e della “Verità” tutti pronti a sbeffeggiare il perbenismo di benpensanti e radical chic di sinistra, tipo me. Gente ancora ancorata a desueti principi di rispetto per l'altro , la quale pensa che è inutile girarci intorno, e citare filosofi in difesa della satira: il canto di Zalone sgorga dai petti della destra italiana e non c’è nessuna ambiguità, né umoristico sarcasmo. Il video è quello che vedi. Un immigrato pulcinella che cerca di vivere a sbafo e un italiano di classe media impoverita costretto alla convivenza forzata che non riesce a difendersi. Ma quel che mi ha più irritato confesso, non il legittimo sospetto di vedere un spot razzista ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista di cui non parla nessuno. Ma l’avete vista la moglie ( bianca traditrice) che occhieggia alla virile prestanza del nero? E l’equazione attenti a questi che rubano il soldo, il divano e poi la moglie? Fa ridere, dice il marito (mio). Beh a me non fa per niente ridere il fatto che siamo ancora lì a parlar di mogli e di divani che si possono occupare o rubare. Questa non è satira, ma brutale maschilismo  tanto duro a morire che nel “dibbbattitto” tra tante voci ( maschili)  nessuno ha spezzato una lancia nei confronti di quella povera donna. Per cui poco importa se tra il primo gennaio e la Befana, grazie al divisivo spot, il nuovo film di Zalone farà 40, 50, 60 milioni di euro, i miei 7 o 8 di sicuro non le avrà.  Finché almeno non mi chiede scusa, a nome di tutte le donne. Bianche e nere.

Dagospia l'8 dicembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Camilla Nesbitt, produttrice di Checco Zalone con la sua Taodue e moglie di Pietro Valsecchi: Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera che Alessandra Mammì ha scritto a Dagospia a proposito dello spot di Checco Zalone. Stupore perché credevo che Alessandra Mammì sapesse distinguere la satira, la farsa dalla realtà. Applicare all’ironia categorie del “politicamente corretto”, che già tanti danni ha fatto alla nostra cultura, è una pratica di rara scorrettezza intellettuale. E non da lei, che si ritiene una «radica chic di sinistra». Dov’era la Mammì, quando il suo giornale, l’Espresso, per anni ha riempito le copertine di donne scollacciate per attrarre lettori maschilisti? Ma quelle copertine, ovviamente, erano «ambigue, piene di «umoristico sarcasmo» e non «sgorgavano dai petti della destra italiana». L’Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra. Raccapriccio perché avremmo voluto leggere tanta indignazione e tanto risentimento alla pubblicazione del libro di suo marito Marco Giusti “Dizionario stracult della commedia sexy”. Certo qui i film «hard softizzati e soft hardizzati», i pornonazi, i pornoesotici, i pornopecorecci ecc, sono guardati con l’occhio del cinefilo maniaco, e dunque giustificati, studiati, ammirati, mentre Checco Zalone è un povero ignorantone, «un italiano di classe media impoverita», legato a una cultura arcaica. Nei grandi proclami, nelle lotte sociali, nelle battaglie contro il maschilismo noi donne ci mostriamo come ci conviene mostrarci; è nelle faccenduole che ci mostriamo come siamo, piccole donne.

I buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere. Massimiliano Parente, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Caro Checco Zalone, volevo farti i miei complimenti. Perché con la tua canzone che lancia il tuo prossimo film Immigrato hai fatto venire fuori l'imbecillità del politicamente corretto. Voglio dire: fai una splendida parodia di Celentano, ci metti dentro tutti gli stereotipi sugli immigrati, dove alla fine l'immigrato te lo prendi perfino a letto perché tua moglie si innamora di lui, un immigrato rappresentato in modo quanto di più simpatico ci sia (stupendo quando dici «perché proprio a me?», e lui risponde «prima l'italiano!»), e tu un protagonista con un giubbotto salviniano, molto divertente. Insomma una sana operazione comica, ironica, una satira contro la retorica razzista, e cosa succede? Che saltano fuori i soliti indignati per accusarti di razzismo. Gente serissima, noiosissima, che capisce fischi per fiaschi, che non è capace di ridere, e dunque anche di poca cultura. Tipo questi dell'associazione di volontariato Baobab: «Il video Immigrato di Checco Zalone è terribile e non fa ridere. Banale spazzatura per il mercato delle festività». Arriva pure un certo professore universitario Luciano Giustini per twittare: «Poi uno dice da dove arriva il razzismo». Ha capito tutto, un genio. Tra poco, stai tranquillo, si accoderanno tutti gli altri, mi stupisco che Saviano non si sia ancora pronunciato dall'alto della sua tonitruante savianaggine. A parte che, da meridionale quale sei, in numerosi film hai preso in giro i meridionali, che è quello che deve fare la satira, anche quella nazionalpopolare che fai tu, ma mi domando cosa direbbero questi scandalizzati se vedessero i grandi comici anglosassoni, da George Carlin a Ricky Gervais a Louis C. K., i quali hanno ironizzato su tutto, dagli omosessuali alle donne agli obesi agli handicappati ai vecchi, e in realtà proprio usando la satira hanno contribuito a abbattere muri di pregiudizi. Come Woody Allen lo ha fatto nei confronti degli ebrei, e nessuno lo ha mai accusato di nazismo, anzi sono stati gli ebrei i primi a sganasciarsi. Ti dicono che non fai ridere, il problema è che questi qui fanno proprio piangere, per non dire altro. Di certo i Baobab o come cavolo si chiamano (senza offesa per loro, avranno altri meriti, di certo non quelli di capire la comicità), mi hanno messo una tale tristezza da avermi convinto a venire a vedere il tuo film di corsa. Dando prima un euro al mio amico immigrato che trovo sempre lungo la strada del cinema, per carità.

Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina». Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Corriere.it. «Io non sono italiano, sono bergamasco. I bergamaschi si ritengono una razza a parte, superiore». Il produttore Pietro Valsecchi esordisce con tono provocatorio. «Provocatorio? No! È la verità».

E per quale motivo voi bergamaschi vi sentite superiori? A cosa?

«È un fatto culturale di comportamento. A Bergamo, per fare un accordo, basta stringersi la mano e guardarsi negli occhi, cosa che in Italia non esiste più».

Va bene, ma lei è nato a Crema e non a Bergamo.

«Sì ma le mie origini familiari sono bergamasche, i miei nonni facevano i contadini e avevano delle terre da quelle parti. Poi, avendo fatto pessimi affari, sono emigrati in Francia. Forse per questo ho una grande passione per i francesi».

Insomma, lei si sente bergamasco e un po’ francese, però come produttore ha fatto fortuna in Italia.

«È vero e nella vita professionale ho sempre raccontato storie italiane vere e mi sono trovato spesso a conoscere i personaggi che volevo rappresentare oppure coloro che li avevano conosciuti».

Tra quelli più impegnativi?

«Papa Wojtyla, di lui ho un ricordo tra i più vividi. Quando lo incontrai, era già malato e non parlava più. Però era molto ben informato e sapeva che stavo realizzando una serie sulla sua vita. Dopo avergli esposto il progetto, mi strinse forte la mano e mi lanciò uno sguardo che non dimenticherò mai. Mi voleva dire: “Non sbagliare!”». 

Poi toccò a Papa Francesco...

«Fu molto commovente la prima proiezione del film in Aula Nervi. Il Papa aveva deciso che dovessero assistere 7 mila poveri di Roma e non i soliti invitati scelti dal protocollo. L’applauso commosso di queste persone ha lasciato in tutti noi, che avevamo lavorato al tv-movie, un segno indelebile».

Non solo Papi, però...

«Il set più preoccupante fu quello del Capo dei Capi, su Totò Riina. Ebbene: nonostante fosse al 41 bis, il signor Riina sapeva che nella storia avevamo inserito un episodio relativo a sua moglie, Ninetta Bagarella, che lui riteneva non veritiero e ce lo mandò a dire! Confesso che fu un momento davvero difficile: ci allarmammo non poco».

Le storie che non è riuscito a rappresentare?

«Quella di Mohamed Yunus, il banchiere dei poveri: avevo letto il suo libro ed ero conquistato dalla sua visione rivoluzionaria. Avevo proposto il progetto a Oliver Stone, figlio di un banchiere, che declinò l’invito. Ne parlai con Gianni Amelio e il film doveva essere prodotto da Vittorio Cecchi Gori e, per definire i dettagli, fui invitato su un mega yacht attraccato davanti al porto di Cannes durante il festival del cinema. Me ne andai alla chetichella...».

Perché?

«Per parlare di povertà, mi trovavo nel lusso sfrenato di una festa scatenata, non era il posto giusto. Un’altra storia che non ho mai girato è quella della principessa di Monaco, Grace Kelly. Dopo un lungo lavoro diplomatico, riuscii ad avere un appuntamento con il principe Alberto: molto emozionato, entrai nella residenza dei Ranieri e finalmente iniziai a esporre il progetto, ma ben presto mi resi conto che il Principe probabilmente soffriva di narcolessia, durante l’incontro ogni tanto si addormentava, per poi risvegliarsi. Fu cortese, ma capii che non avrebbe mai appoggiato l’operazione. Stessa cosa successe con gli Agnelli».

Anche loro!

«Avevo scritto un bel copione dedicato alla vita dell’Avvocato, scomparso da poco. Chiesi di incontrare i familiari, John, Lapo Elkann ecc... ognuno mi indirizzava a un altro. Era meglio abbandonare l’idea, non avrei mai potuto raccontare questa storia nel modo gradito ai parenti. Un incontro importante, però, l’ho avuto con Francesco Cossiga, durante la stesura della miniserie su Aldo Moro: venne spesso nel mio ufficio per descrivermi i giorni del rapimento, uno dei grandi misteri italiani. L’ex presidente mi forniva solo il suo punto di vista, lasciando in ombra altri aspetti che credo non riusciremo mai a conoscere fino in fondo».

E pensare che voleva fare l’attore in palcoscenico... 

«I primi passi al Teatro Zero della mia città: era uno spazio militante negli anni caldi del movimento studentesco. Portavamo gli spettacoli nelle fabbriche occupate. Brecht era l’autore che rappresentavamo più spesso, per sollecitare domande scomode: in teatro si entra uniti e si esce divisi».

Un attore impegnato, dunque.

«Certo! Sono orgoglioso di essere figlio di un uomo, antifascista, deportato a Mauthausen».

La militanza teatrale si sposta poi a Roma.

«Il mio esordio nella Capitale avvenne una sera davanti a due sole spettatrici: Dacia Maraini e Sofia Scandurra. Apprezzarono la mia recitazione, tanto che mi proposero di interpretare un ruolo nel film Io sono mia: un set femminile e femminista, caotico, un’esperienza straordinaria a fianco di Stefania Sandrelli e Maria Schneider... però il teatro restava il mio unico amore».

E riparte dall’impegno politico con Terroristi di Mario Moretti.

«Il mio primo ruolo da protagonista: un’indimenticabile avventura, grandi elogi dalla critica, mi convincevo che era il mio mestiere, però a 28 anni ho deciso di voltare pagina: non più attore, né in teatro né al cinema».

Perché? 

«Ai miei amici dell’epoca, Michele Placido, Alessandro Haber, Fabrizio Bentivoglio, venivano proposti spettacoli o film importanti, a me solo piccoli ruoli. Avevo bisogno di lavorare e guadagnare e mi resi conto che come attore non avrei mai sfondato. Andai in crisi, ma non mi persi d’animo. Cominciai a leggere testi, copioni, libri... e li suggerivo agli amici primi attori».

Così nasce il produttore Valsecchi.

«Mi definisco un portatore sano di idee. Il primo grosso impegno produttivo fu con La condanna di Marco Bellocchio, con cui arrivammo all’Orso d’argento di Berlino».

Ma è l’incontro Camilla Nesbitt a cambiare le carte in tavola.

«La conoscevo perché anche lei faceva la produttrice, mi piaceva e avevo iniziato a corteggiarla, ma non mi filava. Finalmente in aereo, mentre andavamo al Premio Solinas, lei mi degna di uno sguardo e dice: Valsecchi siediti qui, vicino a me. Da quel posto non mi sono più alzato, siamo uniti da 27 anni».

Uniti nella vita e nel lavoro. 

«Insieme abbiamo capito che la tv era il futuro, non c’era più lo spazio per raccontare la realtà come aveva fatto il grande cinema civile dei Rosi, Petri, Bertolucci, Olmi... Era impensabile rifare quei film, che raccontavano un’Italia diversa. Noi volevamo rappresentare quella attuale e per farlo era necessario cambiare il mezzo: il piccolo schermo. Abbiamo unito le forze, creando la Taodue. In tutti questi anni abbiamo prodotto oltre mille ore televisive, tra tv-movie e fiction».

Un impegno costante, tanti i titoli famosi.

«E pure un allenamento quotidiano alla logica spietata dello share che ti fa crescere l’ansia: quel numerino, alle 10 di mattina, decreta implacabilmente se tutto il lavoro di mesi, a volte anni, è stato apprezzato. Uno stress terribile che mi ha causato fibrillazioni continue, fino a condurmi in ospedale e a dovermi operare: un’ablazione cardiaca. Per fortuna sto molto meglio». 

La fortuna al botteghino arriva con Checcho Zalone.

«Quando ho venduto la Taodue a Mediaset, mi davano per morto, finito. E invece ho tirato fuori dal cilindro un jolly: tutti mi sconsigliavano di fare un film con lui come protagonista e adesso, dopo quattro successi che hanno incassato in totale 200 milioni di euro, stiamo girando il suo nuovo lavoro dove firma anche la regia. È girato in Africa e si intitola Tolo Tolo, dall’espressione usata da un bimbo africano quando, nel film, incontra per la prima volta Zalone. Ma sto già pensando a una fiction su Ilaria Cucchi». 

Lo sbaglio madornale che ha compiuto sia in privato, sia nella professione?

«In privato, l’aver trascurato i miei figli, essendo troppo concentrato sul lavoro, credo di non essere un ottimo padre. Forse dipende dal fatto che i miei genitori sono morti troppo presto e non ho avuto figure con cui relazionarmi sotto questo profilo. Per fortuna ho due ragazzi, Virginia e Filippo, che si stanno costruendo la propria carriera in maniera autonoma: lei muove primi passi nella produzione, lui fa il cantautore. Nella professione? Non aver vinto un Oscar».

Un suo difetto insopportabile?

«Dire in faccia alle persone ciò che penso senza rendermi conto delle conseguenze. Un difetto che non ho è l’invidia, diffusissima in Italia: chi non sa fare semina zizzania».

A proposito di invidia, tra due anni finisce l’esclusiva con Mediaset: cosa farà?

«Tranquillizzo tutti: non so a chi dare i resti. L’unica cosa che mi manca, forse, è tornare alle origini. Mi piacerebbe produrre progetti teatrali, magari prendere in gestione un vecchio cinema nel cuore di Roma e trasformarlo in un luogo d’arte e intrattenimento: spettacoli, ma anche mostre, libri, incontri con personaggi importanti... Insomma, dentro la cultura e fuori i barbari.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. Nell'era dell'indignazione che prescinde dal motivo della stessa, persino Checco Zalone è scivolato giù dal crinale. Colpa di una canzone - Immigrato , tra Cutugno e Celentano - con cui ha inteso lanciare il suo nuovo film, sulla falsariga delle sue precedenti avventure, cioè sfruttando il cosiddetto "Teorema albertosordi" sulla moltiplicazione del pubblico, che quivi vado a spiegare: prendi per il culo l'italiano medio ed egli ti sarà grato, essendosi riconosciuto e credendo di essere esaltato, ma riceverai anche il plauso dei progressisti che ricevono la satira sul popolino e ne godono, facendo tintinnare il Martini. Risultato: botteghini assaltati. Nel video, esilarante, il comico giochicchia con tutti i peggiori luoghi comuni sugli stranieri e ne trae una canzone che sembra scritta da Salvini. A 'sto giro, però, persino i sovranisti si sono accorti della satira su di loro, e non plaudono, mentre i famosi radical chic, forse storditi dall'essere al governo con quelli che stavano con la Lega, hanno alzato lai altissimi contro il presunto razzismo. Questo, almeno sui social. Al cinema, vedremo. Io sono già lì.

Dagospia l'11 dicembre 2019.: Se cercavate una prova sul razzismo becero e sessismo qualunquista della canzone “Immigrato”, siete accontentati – Invece di fare il solito paraculo, il pugliese Zalone poteva permettersi una capatina dalle sue parti dove è devastante il fenomeno del “caporalato” che vede gli immigrati sfruttati nei campi e sottopagati e costretti a vivere in pessime condizioni sanitarie (altro che lavavetri che si scopano le mogli degli italiani).

Heather Parisi critica Checco Zalone: "L'ironia è altro". Ma il web non ci sta. In un tweet lanciato nelle ultime ore, Heather Parisi ha destinato parole dure a Checco Zalone sul nuovo film in arrivo, Tolo Tolo, che uscirà nelle sale cinematografiche il prossimo 1° gennaio. Serena Granato, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Checco Zalone è tornato al centro dell'attenzione mediatica, per via del suo imminente ritorno al cinema. Attore, comico, cabarettista e conduttore televisivo, Zalone sta facendo discutere sul suo conto, dopo la divulgazione in rete del trailer del suo atteso nuovo film, Tolo Tolo, la cui uscita al cinema è prevista per il 1° gennaio dell'anno alle porte. Nel video che anticipa l'uscita dell'attesa pellicola cinematografica, un extracomunitario viene presentato -con tono satirico- come "onnipresente". Un dettaglio quest'ultimo che, chiaramente, rispecchia la condizione che molti italiani sentono di vivere all'ordine del giorno. Nel trailer di Tolo Tolo, l'immigrato chiede spiccioli, pulisce i vetri e alla fine arriva persino a rubare la moglie a Zalone, intrufolandosi nel letto della coppia. All'uscita del promo del film in arrivo -il cui video è in poco tempo diventato virale nel web- è seguita la reazione di Heather Parisi, che ha destinato a Zalone un tweet al veleno. “L’immigrato di Checco Zalone è un concentrato di luoghi comuni - si legge nel messaggio che la Parisi ha scritto sul nuovo film di Zalone, alludendo in particolare al brano Immigrato presente nella nuova pellicola del comico-, che non ha nulla di ironico". "Perché l’ironia è altro -aggiunge, poi, Heather su quanto emerso nel trailer di Tolo tolo-, l’ironia consiste nel mostrare che è il suo contrario ad essere più credibile del luogo comune. #razzismo #immigrato #racism”.

I fan di Checco Zalone rispondono a Heather Parisi. Le ultime parole critiche, spese dall'ex showgirl di Fantastico, non sono state mandate giù da molti utenti. Sotto il tweet al veleno, lanciato da Heather Parisi circa l'attesa commedia - di cui Zalone è sia regista che attore protagonista- sono giunti, infatti, diversi messaggi di contestazione, da parte di chi proprio non condivide l'opinione espressa dalla ballerina."Non toccate #checcozalone, se non lo capite non lo guardate, punto", ha scritto un utente, alludendo, in generale, a chiunque abbia ad oggi criticato la comicità dell'artista nato a Bari e classe 1977. "Infatti, secondo me non è ironia, ma satira -si legge, poi, in un altro commento di contestazione rivolto alla Parisi-. Sì, Checco Zalone - anche se non sembra - è abbastanza intelligente per fare satira". Un altro utente scrive ad Heather, con tono ironico: "Checco Zalone razzista è la barzelletta di Natale". Infine, si legge ancora, contro la Parisi: "Stavolta, mi sa proprio che non hai capito, può non piacere per carità, ma di razzista non c'è niente... Se si conosce #CheccoZalone".

Da “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. Giorgia Meloni si schiera con Checco Zalone investito da molte critiche dopo la diffusione del trailer del suo film «Tolo Tolo», in uscita nelle prossime settimane. «Se diventa politicamente corretta anche la satira, sparisce. Quella di voler controllare la satira di Checco Zalone è una cosa che pretende solo la sinistra», ha affermato la presidente di Fratelli d' Italia intervenendo sulla vicenda nel corso della trasmissione di Retequattro «Fuori dal coro». Secondo la Meloni, invece, «la canzone "Immigrato" è divertente» In effetti, a indignare, soprattutto a sinistra, era stata proprio la canzone che accompagna il video di presentazione del film e che, sulle note de «L' italiano» di Toto Cutugno, racconta le disavventure di un connazionale alle prese con un immigrato che, prima gli chiede soldi in ogni circostanza, e poi gli seduce pure la moglie. Il video, insomma, affronta il delicato problema dell' immigrazione, probabilmente secondo quello che è il punto di vista di molti italiani e, magari, anche con l' intento di ironizzare su tanti luoghi comuni che accompagnano gli stranieri in Italia. Sta di fatto che l' associazione Baobab, tra le più attive a Roma nell' assistenza agli immigrati, ha attaccato il comico a testa bassa: Il video Immigrato di Checco Zalone, preso così, è a uso e consumo di populisti, perché servono gli strumenti per interpretarlo e ci vuole molta fatica per convincersi che il messaggio sia opposto e che sia l' uomo bianco quello preso in giro o stereotipato». La polemica poi si era trasferita in televisione con una furibonda lite a «Quarta Repubblica», il programma condotto da Nicola Porro, dove l' economista Giuliano Cazzola e lo scrittore Giulio Cavalli avevano attaccato il comico dicendo che «fare ironia su certi argomenti è pericoloso» e che «la satira si rivolge ai potenti, non ai poveracci»; mentre il giornalista Daniele Capezzone lo aveva difeso ribattendo: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? Quelli di Baobab hanno rotto». Polemiche che si erano già avute in occasione dei precedenti film e avevano portato assai bene a Zalone. Alla fine, a giudicare saranno gli italiani nelle sale cinematografiche.

Checco Zalone, il trailer del nuovo film indigna la Onlus dei rifugiati: "Istigazione al razzismo". Tolo Tolo uscirà nelle sale il primo gennaio. Nel video che lo anticipa, un extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente. Per il costituzionalista Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, oggi presidente del Cir, il Consiglio italiano rifugiati, non si tratta di una provocazione. "Satira? Quella si fa contro i potenti non nei confronti dei deboli". Goffredo De Marchis il 12 dicembre 2019 su la Repubblica. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Quel razzista di Checco Zalone. Nella follia del giorno d'oggi anche "Immigrato" la canzone del nuovo film del comico viene tacciata di razzismo. Redazione di Panorama il 10 dicembre 2019. Checco Zalone è un razzista. "Immigrato", la canzone con cui sta lanciando il suo attesissimo film è razzista, attacca ed offende gli extracomunitari. Andiamo con ordine. La prima cosa da fare è guardarsi il video ed ascoltarsi la canzone. Adesso che l'avete visto e smesso di sorridere bisogna fare un esercizio mentale molto faticoso e cercare di capire come mai ci siano non poche persone, decine, centinaia se non migliaia, tra cui noti e note intellettuali e persone anche vicine alla politica secondo cui questa sia una cosa razzista. E Checco Zalone un sovranista. I migliori addirittura ne hanno letto un inno al Salvinismo. Ma non è mancato chi ha detto che questa canzone sia sessista, contro le donne...Povero noi, povera Italia. Ormai è evidente che la guerra a Salvini ha prodotto risultati forse irreparabili; il nemico è dappertutto: in una frase, in una proposta di legge, in un post sulla Nutella, in un rosario, ora persino in una canzone di un comico.  Se lo ricordi chi parla di clima d'odio. 

Da ilmessaggero.it l'11 dicembre 2019. Grandi polemiche sul film di Checco Zalone, Tolo tolo, ancora prima della sua uscita: nell'occhio del ciclone la canzone che anticipa il film, "Immigrato". Ecco cosa è successo a Quarta Repubblica. Dopo aver mandato in onda il video della nuova canzone, colonna sonora del film in uscita, si è scatenato il dibattito in studio. Giuliano Cazzola, economista: «Su certi argomenti fare dell'ironia può essere pericoloso. In questa clip, la critica vera è l'offesa nei confronti degli stranieri in Italia: 5 milioni, di cui 3,8 extracomunitari. Molti mandano avanti settori importanti del paese. Il film non l'ho visto e forse neanche lo vedrò. Però rappresentare il problema degli immigrati con una caricatura è sbagliato». Dopo l'intervento dell'economista, tocca al giornalista Daniele Capezzone difendere la comicità di Zalone: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? A quelli di Baobab dico... c'avete rotto i coglioni, lasciateci sorridere». Parla infine a Giulio Cavalli, giornalista e scrittore, dire la sua: «La satira storicamente attacca i potenti. Dal 1500 avviene questo. Attaccare i difesi, i poveracci, gli immigrati ma anche agli omosessuali. Può piacere o non piacere, si può rivendicare il diritto di non apprezzare Checco Zalone. L'operazione di marketing ha funzionato... Non so quanto faccia ridere il mafioso con la coppola e la lupara. La questione è che chi ha il potere di fare la satira dovrebbe usarla per attaccare i prepotenti e i pregiudizi».

Antonello Piroso per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Sono solo canzonette. Ma anche no. Da venerdì 6 dicembre Immigrato, cioè il video-colonna sonora dell'ultimo film di Checco Zalone, Tolo Tolo, ha totalizzato oltre due milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube. Merito anche delle polemiche intorno al significato "metapolitico" da appioppare al testo, su cui si è già intrattenuto su queste colonne Francesco Borgonovo sabato scorso. Tutto grasso che cola, in vista dell'arrivo in sala il prossimo primo gennaio, per l'attore-regista pugliese e quell'altra faina incanutita che è il suo produttore Pietro Valsecchi. Come se ciò non bastasse, a fare ulteriore pubblicità all'ultimo manufatto zaloniano è anche il confronto a distanza tra Alessandra Mammì, firma dell'Espresso, e Camilla Nesbitt, moglie di Valsecchi.

Motivo della singolar tenzone? Il ruolo della donna nella canzone di cui sopra. Ussignur, mi verrebbe da dire: siamo ancora qui a disquisire dell'uso dell'immagine femminile, Il corpo della ragassa volendo citare il titolo di un romanzo di Gianni Brera del 1969, da cui 10 anni dopo il regista Pasquale Festa Campanile ricavò l'omonimo film con una ultrasexy Lilli Carati? Quasi all'alba del terzo decennio del terzo millennio, in cui le donne rivendicano pubblicamente la libertà della propria fisicità, financo sessuale, perfino come pornostar?

A dar fuoco alle polveri è stata Mammì, scrivendo a Dagospia per annunciare che non andrà a vedere il film nonostante l'entusiasmo del marito Marco Giusti (critico cinematografico che sempre per il sito aveva sfornato una recensione tutt'altro che negativa: "Zalone è l'unico in grado di affrontare la confusione ideologica degli italiani"): "Quel che mi ha più irritato non è il legittimo sospetto di vedere uno spot razzista (nientemeno, nda) ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista". Cioè? "Ma l'avete vista la moglie -bianca traditrice- che occhieggia alla virile prestanza del nero? Fa ridere, dice il marito (mio). Questa non è satira, ma brutale maschilismo". Eh, la peppa. Su due piedi, a me sarebbe venuto da replicare: "Signora, ma lei ha mai sentito Zalone quando intona Uomini sessuali sui gay? Oppure La Taranta del Centrodestra, maramaldeggiando con le rime baciate dedicate a Mara Carfagna a Mariastella Gelmini? A voler essere un gendarme del politicamente corretto, anche lì sì ci sarebbero stati gli estremi dell'omofobia e del sessismo, ma non ricordo alcuno a sinistra inalberarsi per quel perculamento molto più che abrasivo".

Nesbitt è invece intervenuta sul serio, con un incipit che non lascia spazio a dubbi: "Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera di Mammì...". Raccapriccio perchè -scrive lady Valsecchi- avremmo voluto leggere cotanto risentimento quando il di lei marito Giusti ha pubblicato il Dizionario stracult della commedia sexy, ovvero un viaggio di 528 pagine sui film "a luci rosse" degli anni 70 (nel presentare la sua fatica, Giusti peraltro ha messo in mezzo un altro esponente della sinistra massmediologica: "Ricordo perfettamente il lancio che Carlo Freccero, allora responsabile dei film di Canale 5, fece di quelle pellicole con Edwige Fenech e Gloria Guida"). Stupore perchè "dov'era Mammì quando il suo giornale, l'Espresso, ha riempito per anni la copertine di donne scollacciate? L'Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra". Diamo per scontato che la controindignazione di Nesbitt sia sincera e non faccia parte di un'abile strategia di marketing, cui l'intemerata di Mammì ha offerto un'occasione d'oro per battere il ferro promozionale. Sia come sia, sulle cover dell'Espresso a Nesbitt piace vincere facile.

Chi scrive ha iniziato a far (male) questo mestiere scrivendo per Panorama diretto da Claudio Rinaldi, chiamato affettuosamente dalla truppa "la mente criminale". Che sapeva benissimo che se voleva recuperare un po' di copie vendute rispetto a un numero "moscio", doveva schiaffare in copertina una bonazza per recuperare un buon 15% di vendite, e stiamo parlando di 75 mila copie su 500 mila vendute, non esattamente bruscolini. Difficile dire chi avesse cominciato: Panorama per adeguarsi all'Espresso (cui si accodavano volentieri -ma con tirature più basse- Epoca e Europeo)? O viceversa? Di certo, c'è che lasciando il primo per passare al secondo, Rinaldi non mutò approccio. E se l'Espresso di Livio Zanetti (direttore dal 1970 al 1984) nel 1975 aveva provocato con una copertina-scandalo sull'aborto, una vera donna incinta fintamente crocifissa, da lì in poi ogni pretesto fu buono per impaginare, con titoli grondanti sapienti doppisensi, donne giovani e micro (o affatto) vestite.

Non si rimane delusi: si va da "Vita da single" a "Un tuffo nella crisi", da "Anni d'oro" a "In vacanza con lo spread", da "Voglio una vita leggera" (e quindi senza vestiti) a "Vincere le allergie", da "Rinascere nel 1995" (con Claudia Koll desnuda) a "Malati di test" (con un paio di chiappe in primo piano, certo: con gli elettrodi), da "Nudo anch'io" (in cui il protagonista era Vittorio Sgarbi bello "biotto", in risposta alla copertina di Panorama che riproponeva un manifesto pubblicitario di Luciano Benetton nudo);

da "Povera Rai, poveri noi" (con signorina piegata in doggy style) a "Diario del Viagra" (dove uno s'immaginerebbe di trovare un uomo, come dire?, felice di essere vivo, e invece no: c'è una donna nuda a cavallo della pillolina blu), da "A tutta coca" (dove c'è sì una narice imbiancata, ma la prima cosa che si nota sono le labbra turgide e dischiuse) all'autoreferenziale e autopromozionale "Nudi in copertina: si può? Non si può?";

fino a, e qui siamo davvero al capolavoro, "Tutti da Ciampi sabato sera" (sottotitolo: "Da Castelporziano a Capalbio-Indagine sulle spiagge dei potenti", e quindi con quale scatto corredare l'inchiesta? Ma è ovvio: una ragazza che con una mano si copre il seno, e con l'altra ammicca all'abbassamento delle mutandine con il pollice a tirare l'elastico...). Serve aggiungere altro?

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. È chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L' immigrato all' inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce - ma anche esplicite - degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti - «prima l' italiano!» - e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l' amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l' immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un' altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa.

Cazzullo e Zalone. Augusto Bassi il 10 dicembre 2019. su Il Giornale. Per quanto io possa lavorare di cirage nello sforzo di tirare a lucido la mia retorica, nulla è più eloquente degli atti mancati così caratteristici della psicopatologia mainstream. Ieri Aldo Cazzullo ce ne ha offerto un buffissimo esempio. Commentando il trailer dell’ultimo film di Checco Zalone, scrive Cazzullo: «E’ chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L’immigrato all’inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce – ma anche esplicite – degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti – “«prima l’italiano!» – e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l’amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l’immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un’altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa». Sublime esempio di dum excusare credis, accusas. Mentre Cazzullo pensa di uscirne come quello progredito che non discrimina, in realtà rende evidente il proprio doppio metro da lacchè del padrone: se la satira sfotte l’immigrato è da censurare, se invece sfotte noi italiani va benissimo. Quindi mettiamo le mani avanti, chiariamoci: Zalone sfotte noi patetici coglioni, razzisti e fascisti! Noi patetici coglioni ancora convinti che gli immigrati siano una seccatura e alla fine possano rivelarsi una fregatura. Pensa che coglioni siamo! E chi legge diversamente il messaggio di Zalone… poverino, non capisce. Eccola la pruderie perbenino, rivelatrice del narcisismo servo degli influencer di dominio. Dove si specchiano le paure inconsce di chi non vuol contraddire il pensiero certificato – quello dietro cui soffia il capitale degli editori – perché sa di poter essere invitato a cena solo come suo cameriere. Le paure inconsce di chi arriverebbe a farsi coprire la moglie da un nordafricano pur di non perdere la livrea da valletto dell’ideologia regnante.

Fulvio Abbate per Dagospia il 9 dicembre 2019. Checco Zalone mi deve una cena, o forse basterà un cordiale. Intanto per la solidarietà che gli sto manifestando a proposito delle critiche davvero esagerate appena ricevute fin dal promo musicale del suo nuovo film, “Tolo Tolo”. Secondo alcuni, infatti, il video musicale dove si fa il verso a Celentano nostro sarebbe implicitamente, se non direttamente, “razzista”. A me non sembra così per nulla, e nel dire questo rimando tutti all’interrogativo capitale che, in giorni di semplificazione subculturale, quasi quotidianamente pongo ininterrottamente a me stesso. Eccolo, l’interrogativo: devo forse pensare che Roland Barthes sia giunto, un tempo, su questa terra del tutto inutilmente? Barthes, per chi non lo dovesse conoscere, è stato uno studioso di scienze umane che, fra molto altro, ha provato a spiegare l’ambivalenza del linguaggio: un semiologo. Proviamo con gli esempi: esiste, proprio per esempio, una figura retorica, detta “antifrasi”, che funziona così: ti do, metti, del “cornuto”, o dell’ “arruso”, o del “negro” per intendere altro dal significato apparente, anzi, per indicare il suo opposto, meglio, ribalto l’accezione negativa attraverso sarcasmo e ironia, depotenziando il negativo sia del significante sia del significato sia del referente. E’ troppo difficile da comprendere? Senza bisogno di arrivare allo strutturalismo e alla linguistica di Saussure, assodato che perfino la semplice parola “cane” morde, come spiegano, appunto, i linguisti alla loro prima lezione, in questo video di Zalone c’è ribaltamento attraverso la candeggina dell’ironia, ribaltamento di un sentimento di astio verso gli immigrati, e ciò avviene segnatamente con un’antifrasi. Va’ però un po’ a spiegarlo a chi mostri uno standard mentale oscillante tra Veltroni e Salvini. Zalone ha fatto un’operazione, come dire, perdonate se parlo da laureato in filosofia, da “radical chic”, perdonate anche se penso che questa cosa qui non la capirebbero neppure, temo, ripeto, né Salvini né Veltroni, Zalone ha fatto un’operazione manieristica, sì è messo nei panni del razzista medio, modello-base, ne ha riprodotto le ossessioni, le pulsioni ordinarie, ossia: il “negro” arriva qui da noi per un ennesimo ratto delle Sabine, forse anche delle Sabrine, per citare una Venere nostra del cinema. E adesso spiego perché Checco Zalone mi devi un vermut, chiamandomi in causa direttamente come scrittore: tra i miei libri ce n’è uno sui sentimenti - “LOve. Discorso generale sull’amore” (La nave di Teseo) - nel quale vive un capitolo che, temo, potrebbe non essere sfuggito agli sceneggiatori di Zalone. Dimenticavo: tratto da una storia vera. Lui, il “negro” impostore, si chiama Edison. Anzi, sai che ti dico? Ti incollo qui il racconto così com’è, ok? Leggi e poi capirai perché sto con Zalone. “Il pensiero più gretto che il razzista nostrano medio possa donare a se stesso, ogniqualvolta la televisione mostra le immagini dei migranti africani illuminati in viso e sulle braccia dall’arancione dei giubbotti salvagente, evoca l’immagine del ratto, nel senso del predatore. “Questi qui, i negri, vengono da noi per rubarci il lavoro, ma anche per scopare le nostre donne, le nostre femmine; infami, merde!” Segue un moto di sofferenza interiore al pensiero che tali soggetti possano avere perfino seguito nei sogni femminili del primo continente, se non altro per le risapute ampie dimensioni dei loro peni. D’altronde, come ha fatto visivamente notare una carta sinottica delle grandezze genitali maschili, l’Africa nera e i Caraibi brillano in cima al palmarès fallico. L’immagine successiva dell’invasione e della minaccia assodata mostra un ragazzo sempre di colore, il viso presidiato dai dread, ormai integrato nella vita serale cittadina, ora in veste di bartender ora di buttadentro. E qui il pensiero sostanzialmente non muta, il razzista medio concede soltanto che si tratti ormai di una gara tra maschi: “Vuoi vedere che questo negro stasera si porterà a casa quella che piace a me, scommettiamo, eh?” (…) In un angolo, su di una pedana, con la musica del duo Azucar Moreno, Devorame otra vez, pura salsa sensual, un ragazzone nero balla con una bottiglia in pugno, balla ammirandosi, perfino con talento, balla e sembra dire sempre a se stesso: “Cono, ce l’ho fatta!” Proprio lui, Edison, è l’attrazione del locale, sempre di lui si favoleggia ogni bene, ogni meraviglia.   Ma adesso occorre un passo indietro, fino a inquadrare Gaspare e Marina a spasso per L’Avana, Cuba. E’ lì che i nostri amici hanno incontrato Edison, è lì che lui è entrato per la prima volta nel loro campo visivo: un ragazzo con una maglietta del Benfica. (…) Per l’intera durata del soggiorno Gaspare, Marina e Edison sono rimasti inseparabili: lui li ha accompagnati ovunque, compreso al Museo de la Revolucion, dove vivono tarlate le memorie dell’avventura castrista che Gaspare ha guardato con emozione mentre Edison si informava con Marina circa la posizione dei capocannonieri del campionato italiano principale e perfino cadetto; Edison gli ha poi parlato della santeria, portandoli infine a cercare cio che Gaspare assolutamente desiderava dal tempo in cui militava in Avanguardia Operaia, cioè un ritratto del terzo cardine della trinità rivoluzionaria, Camilo Cienfuegos, dove gli altri due sono Fidel e Ernesto Che Guevara. Dovevate vedere che gioia negli occhi di Gaspare quando Edison, uscendo da un antro, si e presentato con il volto di Camilo impresso a fuoco su una tavoletta di legno! Infine, in serata, tutti a ballare, o magari ad ascoltare Edison e il suo pezzo forte, Piel Canela, un classico melodico d’America Latina: “Que se quede el infinito sin estrellas, / O que pierda el ancho mar su inmensidad / Pero el negro de tus ojos que no muera...” (“Lascia che l’infinito rimanga senza stelle / e il vasto mare perda la sua immensita / Ma il nero dei tuoi occhi non morirà.) Cosi fino a quando Edison, una sera, ha fatto deflagrare una bomba di lacrime, confessando a chiare lettere di non resistere più a vivere a Cuba. Il distacco tra Gaspare, Marina e Edison, alla fine, e stato molto duro, al punto che poco prima di partire per fare ritorno a casa, Gaspare ha promesso a se stesso che avrebbe fatto di tutto per far venire Edison in Italia. Ci sono volute giornate e giornate a sollecitare i funzionari dell’ambasciata di Cuba all’Aventino, ma alla fine ce l’hanno fatta. Così un bel giorno Edison è planato a Roma a spese degli amici italiani, chitarra in spalla, e già lì all’aeroporto ha preso a suonare la canzone della loro amicizia, Que se quede el infinito sin estrellas...Di lì a poco il lavoro a El Tendero. Inutile dire che Edison piace molto agli avventori del locale, lo ammirano perché effettivamente è un bel ragazzo, i tratti regolari, le gambe lunghe, un sorriso da conquistatore invidiabile. Edison, lo si è detto, piace anche a Gaspare e Marina, gli hanno approntato una piccola camera nella loro casa nel quartiere di San Giovanni, inizialmente destinata, almeno nel tempo analogico, a camera oscura per lo sviluppo e la stampa delle foto; così finalmente Edison è contento, e non c’è piacere maggiore per chi gli vuol bene. Certo, il clima di piazza Re di Roma non è lo stesso de la Isla de la Juventud, però, pazienza. A breve tuttavia dovrà pazientare anche Gaspare. Già, pazienterà a casa dei suoi, perché nel frattempo Edison e Marina hanno scoperto anche loro di stare bene insieme, molto bene, ancora meglio senza la presenza di Gaspare. Così un pomeriggio hanno detto all’uomo di troppo, anzi, all’intestatario del contratto di locazione: “Siediti un attimino, io e Edison ti dobbiamo parlare.” Il ritratto di Camilo Cienfuegos di lì a poco è finito contro uno spigolo, spaccato in due, Cienf e Uegos. E tornato a vivere a casa dei genitori, ritrovando la sua camera da studente dell’istituto professionale, i vecchi amici delle palazzine li intorno anche questi sono tornati a farsi vivi con lui, a dargli pacche di incoraggiamento. Anche Aroldo, un suo vecchio amico d’infanzia, tecnico di lavatrici convertitosi ai computer, che abita ancora lì nel quartiere. Gaspare lo ascolta in silenzio, a capo chino, senza neppure ribattere un “eh eh”.” Non credo sia doveroso aggiungere altro. Zalone e i suoi produttori, Camilla Snebitt e Pietro Valsecchi, mi devono davvero un cordiale, spero sia chiaro a tutti.   

Goffredo De Marchis per repubblica.it il 13 dicembre 2019. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Giancarlo Dotto per Dagospia il 14 dicembre 2019. Anche un asino parlo perché volle Dio, disse il saggio. Ma quanti ce ne sono di questi maledetti asini in circolazione? Nel giorno in cui il ridicolo del politicamente abietto sfonda il muro del suono con le accuse di “razzismo” allo spot di Zalone, per me solo banalmente spassoso (vedendolo e sganasciandomi su mi chiedevo, ci sarà mica qualche asino che lo troverà razzista? E mi rispondevo: no, non può esserci tanto asino al mondo), diventa giusto tornare sul famigerato “Black Friday”, il titolo più vituperato del decennio, diventato nel frattempo sufficientemente inattuale per considerarlo finalmente attuale. E prima che i soliti cervelli bovini si mettano al lavoro, ruminando l’inevitabile schizzetto di veleno, anticipo: mi sarà allo stesso modo facile dargli addosso al Zazza, nel caso contrario di dissenso. Nulla di personale, dunque. Il titolo, in questo caso, lo faccio io: “Dove sta lo scandalo ZaZa, madonna mia?”. Triplice Za. Dallo spot di Zalone al titolo di Zazzaroni all’esecrazione di Zaccaria, mi sa che il problema è proprio questo: i ridicoli non hanno il senso del ridicolo. Un problema serio. Le trombe della demagogia sono sempre lì, pronte a stonare. Voglio dire, qualunque nome porti, qualunque carica, storia o decorazione abbia alle spalle, tu devi seriamente diffidare di te stesso nel momento in cui scambi un comico che “gioca” sulle fantasie, peraltro succubi, del latticino medio, inteso come uomo bianco, a proposito dell’immigrato incombente (immaginarlo peraltro nel letto con la moglie sarebbe, secondo un sondaggio impossibile ma vero, la fantasia prevalente dell’italiano medio, imbolsito e devitalizzato da anni di ménage coniugale), per “istigazione al razzismo”. Se poi a dirlo sono anche quelli che si occupano istituzionalmente di rifugiati, vuol dire solo una cosa, che stai portando l’acqua al tuo mulino, in questo caso nero ma verniciato di bianco. Trovando razzismo dove razzismo non c’è, nemmeno l’ombra, non fai altro che lucidare la tua targhetta di ottone. Tornando al “Black Friday”. Passata una settimana, passata la tempesta di fango, paragonabile alle scariche compulsive di guano che di questi tempi bersagliano le teste dei romani, crivellati tra cielo e terra da uccelli e buche, è arrivato il momento di dire. La miseria dei tempi è la non sussistenza delle cose. Ti uccidono per equivoco con una raffica a vanvera e il giorno dopo più nulla. Come nulla fosse accaduto. Carnefici e vittime spazzati via dalla scarica successiva. I social sono, in questo senso, nichilismo puro. Oggi sì, a mente fredda e ombrelli aperti, le teste protette dal guano della rete, possiamo dirlo: le accuse di razzismo a quel titolo sono state una gigantesca cazzata planetaria. Un caso unico di contagiosa idiozia, con l’apice inarrivabile dell’interdizione ai giornalisti del “Corriere”. Ma di questo nemmeno parlo, in certi casi anche le parole si rifiutano di parlare. Partita, come sempre, in epoca virale, con due o tre lasciti dei soliti petomani del politicamente abietto, sempre in assetto di giudizio universale, è diventata in poche ore un boato, una stroncatura per sentito blaterare, una scia grottesca, un abominevole blob, toccando pure la complicità di quei poveracci innocenti di Smalling e Lukaku, oggetti piuttosto, con quel titolo, di un omaggio assoluto. Cosa spaventa di questa stupidità che per un paio di giorni ha infuriato sul “Black Friday” e ora sul “Black Zalone”? Due cose: la totale assenza di un pensiero e l’ottusità gregaria, l’orda di crani vuoti che si allinea nella catena del passaparola. Le due cose insieme hanno combinato la tempesta perfetta. Terza cosa, la smania di superarsi l’un l’altro nella corsa delle anime belle. E qui, Roma e Milan hanno stravinto. L’ultimo appunto lo devo fare al direttore Zazzaroni. Ha sbagliato di grosso a chiedere scusa ai due soggetti in questione. Un piccolo cedimento alla furia alias bolla di massa. Non c’era nulla di cui scusarsi. Togli Chris Smalling e Romelu Lukaku, metti Tommie Smith e John Carlos. Metti caso che il giorno in cui i due hanno alzato il pugno guantato di nero sul podio, Città del Messico 1968, fosse stato un venerdì invece che un mercoledì, sarebbe stato perfetto titolare “Black Friday” e nessuno avrebbe fiatato. Lukaku e Smalling non erano gli eroi di una protesta che avrebbe fatto scandalo, ma i due probabili protagonisti di una partita che avrebbe incendiato San Siro. Due neri, due ex compagni, due suggestioni potenti anche nella chiave fisica oltre che cromatica dello scontro. Evidenziare non vuol dire discriminare, direbbe la maestra al ciuco di turno. Sottolineare la differenza non è razzistico di per sé, lo diventa se è motivo di discriminazione. Il razzismo peggiore è negare la differenza. Quello vero striscia e si nasconde in ognuno di noi, nelle tante forme subliminali di discriminazione, invisibili nelle piccole cose. Parlando di gialli e di neri nel calcio. Il coreano Son del Tottenham è il calciatore più sottovalutato del pianeta. Se Diawara fosse biondo e aitante, la sua partita a San Siro, gigantesca, sarebbe stata giudicata con un nove, non avremmo letto stitiche sufficienze. La “differenza” è ovunque, grazie al cielo, attorno a noi, che ci attrae, ci cattura, ci stordisce. Che ci ammutolisce o ci fa eloquenti. La differenza titola tutte le nostre giornate. Ci libera dalla noia e dall’apatia. Ci mette in movimento. Che tu sia uomo o donna, nero, bianco, giallo o rosso, differenza non è sofferenza. Il colore stesso della pelle è differenza, una delle tante porte dell’immaginario. Solo nel mondo di Narciso, il più grande razzista della mitologia, la differenza non è desiderio.

Checco Zalone: «Basta con la psicosi del politicamente corretto». Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. L’attore e le polemiche : «Io razzista? Pensarlo è una vera stupidaggine.». Poi scherza: «Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Luca Medici, anzi Checco Zalone, il suo Immigrato ha scatenato molte polemiche.

«Si sono mossi in milioni per difendermi da Heather Parisi, d’ora in poi Hater Parisi, e dal professor Giuliano Cazzola. Grazie a tutti; ma non era il caso».

Insomma, qualche critica è arrivata.

«Purtroppo non si può dire più nulla. Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa, tipo quella di Giuliano dei Negramaro, mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare come facevo, che so, su Tiziano Ferro, o sugli uominisessuali».

Che non avranno gli assorbenti ma però hanno le ali.

«Per volare via, con la fantasia, da questa loro atroce malattia».

Lei non scherniva gli omosessuali, ma coloro che li scherniscono.

«È evidente; anche se forse non a tutti. L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto. C’è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende».

Hanno detto di lei che è diventato razzista.

«Escludo che qualcuno possa essere così stupido da pensarlo davvero. Non sono razzista neanche verso i salentini, che per noi baresi sono i veri terroni. E neppure con i foggiani, anche se molti di loro si sono risentiti per una canzone che ho cantato da Fiorello, La nostalgie de bidet: “Così proprio ogg’ so’ turnuto nella mia Fogg’, la delinquenza la spazzatura la poverté, ma finalment voilà le bidet...”. Ne approfitto per chiedere scusa ai foggiani: lo giuro, non penso che appartengano a una razza inferiore... E chiedo scusa pure ai calabresi: nel nuovo film c’è una battuta terribile su Vibo Valentia».

Altri hanno detto che lei è diventato di sinistra.

«Eh no! Questo è troppo! Qui mi arrabbio davvero».

Sul serio: lei come la pensa?

«Sono del 1977. Ho votato per la prima volta nel 1996: Berlusconi secco. Perse. Per un po’ mi sono astenuto. L’ultima volta ho votato Renzi. E ha perso pure lui».

Come nasce la leggenda del Checco Zalone di destra?

«Eravamo a una festa di paese. Tentavo di provare sul palco, ma da quattro ore un gruppo di comunisti, vestiti da comunisti, andava avanti con la pizzica. A un tratto mi venne spontaneo urlare: “Viva Berlusconi!”. Quel giorno nacque la Taranta de lu Centrudestra».

Che è una satira su Berlusconi e i suoi. L’ha mai conosciuto?

«Sono stato una volta ad Arcore, a cena con lui, il figlio Piersilvio, il mio produttore Pietro Valsecchi, Giampaolo Letta e la mia compagna Mariangela. Era nata nostra figlia Gaia, e per festeggiare bevemmo solo vino di Gaja, il migliore del mondo. Alle dieci di sera Berlusconi si alza sospirando: “Scusate, ma devo andare a scrivere le memorie difensive del processo. Cosa mi tocca, a quasi ottant’anni...”. Un’ora dopo, completamente ubriaco, mi faccio accompagnare al bagno. Ma al ritorno mi perdo nei meandri della villa. Mi oriento ascoltando una voce familiare… entro in una stanza, e trovo Berlusconi con sette donne: la Pascale e le sue amiche. Tutte vestite».

E lui?

«Recitava la parte del prete, che ascolta in confessione i peccati. Mi indignai».

Perché?

«Berlusconi con sette donne, tutte vestite!? E le tradizioni? I valori di una volta?».Lei nel 2013 disse che non le piaceva Renzi, perché piaceva a tutti. Il problema pare superato.«Infatti ora a me piace. Anche perché lui mi ha cercato, mi ha intortato... Amo i perdenti. Lei tifa il tennis?».

Sì.

«A me invece del tennis non me ne frega niente. Ma l’altra sera ho visto una partita in cui un tennista veniva massacrato; e ho cominciato a tifare per lui. Allo stesso modo, tifo Renzi. Mi ricorda don Chisciotte».

Le Sardine?

«Non le ho ancora capite. Non mi esprimo. Certo, questo leader con il cerchietto tra i capelli...».

E Salvini?

«Non ho capito neppure lui. So solo che è un grande comunicatore. E un grande paraculo. Ora vedo che sta tentando di diventare un po’ democristiano...».

Il suo nuovo film si chiama Tolo Tolo. Cosa vuol dire?

«Solo solo. È la storia di un italiano scappato in Africa, inseguito dai debiti. Nel Paese scoppia una guerra civile. E lui tenta di rientrare in patria, unico bianco tra i profughi. Incontra una donna. E un bambino: Dudù. “Ti chiami come il cane di Berlusconi!” gli urla».

La criticheranno per questo. Ma è un film che può cambiare il sentimento degli italiani verso i migranti.

«Non cambierà nulla, né ho questa ambizione. Però è stato un’esperienza straordinaria. Abbiamo girato in Kenya, in Marocco, a Malta, dove abbiamo ricreato i campi di detenzione libici. Venti settimane di lavoro durissimo. Ieri era il Data-Day».

È un termine tecnico? Cosa vuol dire?

«Non lo so: me lo sono inventato io. È il giorno in cui devi consegnare il film alla censura; perché esiste ancora la censura. Da quel momento non puoi più cambiare nulla».

Si è parlato di una lavorazione faticosa. Intanto non c’è più Gennaro Nunziante, il regista dei suoi altri film.

«Ma resta un amico: ci ritroveremo. Stavolta il regista doveva essere Paolo Virzì».

Poi cos’è successo?

«Mi sono reso conto di essere ingombrante. Forse ero troppo preoccupato di ripetere il successo di Quo vado. Fatto sta che gli ho detto: “Voglio farlo io”».

Virzì come l’ha presa?

«Spero male... Comunque ha già visto Tolo tolo. E mi assicura che gli è piaciuto. Ma è toscano, quindi paraculo».

Com’è stato lavorare in Africa?

«I primi provini per scegliere il piccolo protagonista li ho fatti a Roma. Ma erano tutti bambini adottati, pariolini, borghesi: bravissimi, ma troppo romani per essere credibili. Così siamo andati a fare i provini in Kenya. Ho conosciuto ragazzini straordinari, ma non trovavo quello giusto. Fino a quando non ho visto questo bambino con gli occhi enormi, Nassor, che quando ride, ride tutto, e mi sono detto: è lui».

Qual è il suo primo ricordo da bambino?

«Un balcone. Un triciclo. Io che vado su e giù».

Era molto solo?

«Per fortuna dopo tre anni è arrivato mio fratello Fabio. È uguale a me; solo che è povero. E ancora più cinico. Ogni volta che esce un nuovo film e cado in preda all’ansia, alla paura, alla depressione, mi canta balbettando la sigla di “Meteore”, il programma su quelli che hanno avuto successo una volta sola».

Perché balbettando?

«Quando parla con me, balbetta. Con le ragazze invece è spigliatissimo».

Che lavoro fa?

«Lo steward. Prima Ryan Air. Ora è stato promosso alla Norwegian. Capocabina. Una pacchia: dopo ogni volo transoceanico, per legge deve stare tre giorni a Manhattan».

L’ha raccomandato lei dopo Quo vado?

«In Norvegia non accettano raccomandazioni. Però da noi gli hanno offerto 40 mila euro per andare all’Isola dei Famosi come fratello di Checco Zalone. Mi ha telefonato: “Se me ne dai tu 45 mila, non vado”. Non è andato».

E l’altro fratello?

«Francesco è il piccolo di famiglia, anche se è enorme. Ha dieci anni meno di me e lavora nel cinema: attrezzista. Ruolo fondamentale. Se devi girare trenta volte la scena di una porta che sbatte con la maniglia che si stacca, devi riattaccare trenta volta la maniglia. Se servono due ore per girare una scena con il caminetto acceso, il fuoco va tenuto acceso con la stessa intensità. Una grande seccatura».

Qual è il suo primo ricordo pubblico?

«Paolo Rossi e il Mondiale 1982. Prima ancora, l’elezione di Reagan. Trovammo una cagnolina e mia madre disse: la chiameremo Nancy, come la first-lady».

Chi è sua mamma?

«Antonietta Capobianco. Si candidò nelle liste del Pci. Prese 18 voti; ma i Capobianco a Capurso erano 36. Metà non la votò. Un fatto gravissimo».

Comunista la madre di Checco Zalone?

«Quello di destra era mio nonno paterno: don Pasquale, capostazione».

Liberale?

«Fascistone. Lo sentivo mormorare: “Quando c’era Lui, i treni arrivavano in orario...”. Chiamò la figlia Rachele, come la moglie del Duce. Pudicamente la chiamavamo Lina. Ha fatto la poliziotta. L’ho stimata tantissimo. Mi ha insegnato cos’è il senso dello Stato, del bene comune. Dopo il terremoto la mandarono in Friuli. Ha chiuso la carriera come vicequestore. E’ stata lei a farmi studiare».

Dove?

«Mi iscrisse a una scuola privata di Bari. La quarta volta che non mi svegliai al mattino per prendere il pullman, mi mandarono alla scuola pubblica di Capurso. Io ero al penultimo banco. Dietro di me c’era Giuseppe De Bellis, che oggi dirige Sky Tg24».Lei si è pure laureato in Legge.

«Sì, ma non mi ricordo niente. Ho anche dato un concorso da ispettore di polizia. Per fortuna non mi hanno preso. Zia Lina tentò di farmi assumere da un avvocato: sarei dovuto andare a fare le fotocopie nello studio di Francesco Paolo Sisto, l’onorevole di Forza Italia. L’altro giorno l’ho incontrato in aereo e gli ho chiesto: “Fammi ‘na fotocopia, dai”».

È stato anche rappresentante di medicinali?

«Un periodo orribile. Piazzavo molta amuchina, che a Bari andava forte per paura del colera. E i cerotti per non russare, che però restarono invenduti».

E suonava ai matrimoni.

«Quello era un mestiere redditizio, perché in Puglia il matrimonio va molto. Settanta euro a serata. La cantante, serissima, annunciava: “Dopo questa canzone saranno serviti gli antipasti”».

Com’era il pubblico?

«C’era di tutto. Anche pregiudicati con amici e parenti in galera. Presi l’abitudine di esordire così: “Il concerto è dedicato ai reclusi della casa circondariale di Taranto, con augurio di presta libertà”. Al Nord scoppiavano a ridere. Al Sud scoppiava un applauso sincero: mi prendevano sul serio».

Ha giocato a calcio?

«Nella Polisportiva Capurso. Che poi non si capiva come mai si chiamasse Polisportiva, visto che – giustamente - si faceva uno sport soltanto: il pallone. Giocavo centravanti, benino. Un giorno incontriamo il Bari. Noto questo bambino di sette anni, piccolo, brutto. Non ci fece toccare palla. Era Antonio Cassano».

Siete diventati amici?

«Ogni tanto ci sentiamo. Ha un senso dell’umorismo totale. Un pomeriggio mi chiama sul telefonino al mare. Sto facendo il bagno, e al mio posto risponde Gennaro Nunziante. “Ricchione!” comincia Cassano. E l’altro, paziente: “Non sono Checco, sono Gennaro Nunziante, il suo regista...”. “E si’ ricchione pure tu!”».

Cassano sostiene di aver avuto 800 donne. E lei?

«Io otto. Anzi, ora che le riconto, sette. Ma perché non si fa i fatti suoi?».

Checco Zalone è un personaggio pubblico.

«La verità è che ho avuto solo due storie. La prima è durata dieci anni. La seconda dura ancora adesso. E sa qual è il segreto?».

Quale?

«Mariangela me l’ha fatta sudare per una vita».

Dicono che gli uomini tendano a innamorarsi prima di andare a letto con una donna, e le donne dopo...«...A volte per giustificare di esserci andate a letto. È assolutamente così».

Come vi siete conosciuti?

«Mariangela cantava in un piano bar della provincia barese, un posto un po’ triste. Io ero con un’amica che non mi considerava, e per ingelosirla vado da questa cantante, bella, prosperosa, a dirle: “Io suono ai matrimoni, se ti interessa...”. Le interessava. Sono innamoratissimo. Dopo Gaia è arrivata un’altra bimba, Greta».

Chi è il suo mito? Sordi? Totò? Benigni?

«Celentano».

Perché?

«Intendiamoci: Sordi ha messo in scena l’italiano come anch’io tento di fare. Ho visto e rivisto Tuttobenigni: straordinario, anche se dopo l’Oscar è un po’ rientrato nei ranghi, ha moderato il linguaggio... Un rischio, l’Oscar, che per fortuna io non corro. Totò è il più grande. Ogni volta che danno in tv Miseria e nobiltà, me lo guardo daccapo; e davanti alla scena in cui lui, finto aristocratico, entra nella casa del borghese impartendo benedizioni come il Papa, rido fino alle lacrime».

Ma perché Celentano?

«Innamorato pazzo, Il bisbetico domato, Asso: li ho visti tutti. Mi ha anche invitato alla sua trasmissione, ma non ci sono andato».

Perché?

«Dovevo ancora finire il film, ero distrutto, non potevo fare tre giorni di prove. Ma sono andato a pranzo con lui, l’ho visto lavorare. Sono pazzo di Celentano. All’orchestra ha detto: questa canzone la interrompiamo qui. “Va bene Adriano, ma perché?”. “Perché la so soltanto fino a qui”. Chiedo scusa pure a Celentano».

E Beppe Grillo?

«Come comico, siamo ai livelli di Totò. Ricordo una sua imitazione di Bossi dopo l’ictus: spietata».

Paolo Villaggio diceva che il comico deve essere cattivo...«...E non deve essere “scopante”. Purtroppo aveva ragione su tutti i fronti. Villaggio poi era cattivissimo: lo ricordo da Santoro criticare con sarcasmo la Lega perché non era abbastanza razzista. I primi due Fantozzi sono tra i film della mia vita».

Quali sono gli altri?

«Bud Spencer e Terence Hill. Rocky 4: la mia prima imitazione era Sylvester Stallone che gridava “Adrianaaaa!” e acchiappava la gallina. Di recente ho visto Una giornata particolare e C’eravamo tanto amati: stupendi. C’è una scena piena di poesia, quando Stefania Sandrelli, dopo essere stata con tutti, dice a Nino Manfredi che ha chiamato il figlio Luigi, e lui esulta: “L’hai chiamato come mi’ zio!”. Commovente».

È vero che una volta la cacciarono da una radio pugliese?

«Sì, ma non posso fare il nome. Comunque è Radio Norba. Facevo la parodia del cantante neomelodico. Interruppero le trasmissioni: volevano solo voci baritonali, impostate. È il Sud che si vergogna di se stesso. Pochi mesi dopo mi videro a Zelig e tornarono a invitarmi. Dissi no».

E quando non la vollero a Sanremo?

«Volevo prendere in giro Povia, che aveva fatto una canzone agghiacciante, “Luca era gay e adesso sta con lei”; come se l’omosessualità fosse una malattia da curare. L’idea era salire sul palco dell’Ariston con una medicina in mano, il Frociadil 600, ovviamente una supposta. Gli autori mi fecero capire che non era il caso».

A Sanremo quest’anno ci sarà Al Bano.

«Al Bano è il nostro Michael Jackson. La sua casa di Cellino San Marco è più grande dell’intero paese».

Siete amici?

«Lo ammiro, ma l’unico amico vero che ho nel mondo dello spettacolo è il mio quasi omonimo, Kekko dei Modà. Siamo anche stati in vacanza in Sardegna insieme, le nostre figlie sono coetanee; a raccontare le barzellette è molto più bravo di me. Sono affezionato anche a Gigi D’Alessio».

Quando l’ha conosciuto?

«Non l’ho mai visto in vita mia. Ma quando i critici stroncarono il mio secondo film, Che bella giornata, mi chiamò per consolarmi e mi tenne ore al telefono. Ho visto invece la Tatangelo, e questo mi ha reso ancora più solidale con Gigi D’Alessio».

Come vede l’Italia tra dieci anni?

«Sono ottimista. Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Sul serio?

«Giuro. Non sono ancora andato a riscuotere, perché temo di non trovare più un euro. Ma resto convinto che noi italiani siamo un popolo straordinario. Oggi va così. Però rinsaviremo».

·         Aida Yespica.

Da ilmessaggero.it il 22 dicembre 2019. Il dramma di Aida Yespica. «Sono quattro mesi che non vedo mio figlio Aron», racconta in lacrime a Verissimo, la trasmissione di Canale 5. «Ho visto per 4 ore mio figlio pochi giorni fa, mi ha rotto il cuore». Aida Yespica attacca l'ex compagno e padre di Aron, Matteo Ferrari, che pur sapendo dei suoi problemi con il rinnovo del passaporto le avrebbe negato di trascorrere più tempo con il figlio. «Aron mi chiede perché non vado da lui, perché non sono andata prima a rinnovare il passaporto. Pensa che non voglia vederlo. Sono a pezzi, piango sempre. Ho perso anche tutti i soldi per una truffa». Della lunga separazione dal figlio Aida Yespica ha parlato anche in una recente intervista al settimanale Vero. «Sta crescendo davvero tanto, ogni volta che lo rivedo resto stupita dai cambiamenti. Di solito ci vediamo una volta al mese, ma questo, purtroppo, è un momento un po’ così». Aron Ferrari è nato nel 2008 dalla relazione che Aida Yespica ha avuto con l’ex calciatore Matteo Ferrari. Oggi il bambino vive a Miami assieme a suo padre, dove la Yespica, appena può, lo raggiunge.

·         Loretta Goggi.

Loretta Goggi: «Io, che ho combattuto la tv maschilista, a casa ero una geisha». Pubblicato sabato, 24 agosto 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. «Alighiero Noschese è stato il primo e unico uomo con cui ho diviso un programma 50 e 50 senza gelosie. Era un signore: in quel 1973 di austerity in cui facevamo Formula Due e non sempre si poteva circolare, lui aveva l’auto Rai e io no e passava a prendermi a casa». 

Loretta Goggi, tolto Noschese, i suoi colleghi erano tutti maschilisti? 

«Più che altro, era maschilista la tv. La conduzione e il primo nome erano dell’uomo: conducono Baudo e Goggi; Bongiorno e Goggi».

E l’auto sempre solo a loro? 

«L’uomo presentava, la donna completava esteticamente lo show. Eppure, io cantavo, imitavo, ballavo... Ho lasciato la Rai per questo. Un dirigente mi aveva detto: una donna non può gestire un programma da sola. Me ne andai a Canale 5 e, nel 1981, fui la prima col cognome nel titolo di una trasmissione: Hello Goggi». 

Poi, la Rai le fece fare «Loretta Goggi in quiz» e «Ieri Goggi e domani».

«È stata una mia piccola vittoria». 

Esattamente 60 anni fa, nel 1959, Loretta Goggi, nove anni, vinceva un concorso canoro alla radio. L’anno dopo debuttava nel primo di molti sceneggiati Rai. Diventerà cantante, attrice, imitatrice, ballerina, mattatrice nei teatri. Lo sceneggiato La freccia nera avrà un successo clamoroso, le sue imitazioni di Mina faranno epoca, la canzone Maledetta primavera arriverà seconda a Sanremo 1981. Sposerà il ballerino e coreografo Gianni Brezza, mancato nel 2011, facendo della sua vita uno strano mix di emancipazione sul lavoro e devozione muliebre a casa. 

Il suo è stato il femminismo di chi ha avuto 18 anni nel 1968? 

«A 18 anni, stavo sul set della Freccia nera, in Scozia. La rivoluzione me l’hanno raccontata poi. Però ero cresciuta lavorando, gestendo scelte. A 22, arrivai a Canzonissima incosciente ma pronta». 

Impattò 26 milioni di telespettatori. 

«L’incoscienza era arrivare dopo Raffaella Carrà, fortissima e sex symbol». 

Pure lei era sexy in cover su «Playboy». 

«Lo feci nel ‘79, per dimostrare non femminilità, ma che i cliché sono gabbie. Già da giovane attrice pativo perché ero sempre l’orfana malata e povera. Perciò mi ero data alle imitazioni. Quanto alla Carrà, so di esserne l’eterna seconda». 

Fa la modesta? 

«Lei, Pippo Baudo, Mike Bongiorno sono icone, io una brava professionista». 

A Miss Italia 2007, riprese in diretta Mike, che l’annunciò con un quarto d’ora di ritardo. Fu maschilismo? 

«Per rispetto alla sua memoria, dirò solo che conservo una lettera della Rai che dice che non ero valletta, ma coconduttrice. Stimavo Mike, ma mi sono sentita offesa come professionista e donna». 

È stata femminista anche in amore? 

«Tutt’altro. Gianni era un uomo al quale era impossibile dire no. Era stato quattro anni in Marina ed era militaresco anche nei rapporti con le persone». 

Si autodenuncia moglie oblativa?

«Fuori casa, ero piena di responsabilità, a casa, era riposante affidarmi a lui ed essere la sua geisha. Certo, non sempre ero propensa a prendere ordini e le liti erano quasi giornaliere. Ognuno aveva la propria valigia pronta sul soppalco». 

Sarà mica stato maschilista? 

«Lo era ed era anche molto possessivo. Gli ultimi anni, voleva che usassi solo tailleur pantalone. Se ero in tournée senza di lui, dovevo chiamarlo appena finivo, quando salivo in taxi e scendevo dal taxi. E dovevo cenare da sola in camera». 

Non le dava fastidio? 

«Mi piaceva. A me non è mai venuto in mente di andare con un’amica al cinema o a fare shopping. Da vedova ho dovuto riscoprirmi. Ero passata da vivere con papà a vivere con Gianni. Non avevo mai saputo se mi piacesse alzarmi presto o tardi o cosa mi sarebbe piaciuto fare senza chiedere all’uomo che avevo vicino». 

Il primo incontro? 

«A Fantastico. Per i balletti de Il Grande Gatsby, il Dottor Zivago, Anonimo Veneziano, serviva un ballerino e coreografo prorompente, capace di guidarmi, ovvero Brezza, che però a 41 anni, ormai, faceva lo skipper per i mari. Non voleva venire, lo convincono. Arriva e chiede: chi è la squinzia che devo far ballare?». 

Che cosa la colpì? 

«La sensazione che sulla sua spalla potevo poggiare la testa. I coetanei non avevano quella forza con una donna ingombrante come me. A 29 anni, fu il primo amore da non capire più niente». 

Prima era detta la vergine di ferro. 

«Avevo fatto scuole solo femminili e, a lungo, di uomini avevo saputo zero». 

Brezza era sposato e aveva tre figli. 

«Abbiamo sofferto tanto, perché non volevamo distruggere una famiglia o io dare un dispiacere ai miei. Dopo, non abbiamo avuto figli per aspettare che i suoi crescessero e, poi, non ne sono arrivati». 

Come ha vissuto il cancro di Gianni? 

«Dovevo debuttare in teatro a Fermo, volevo tornare, ma lui me lo vietò. A quel punto, se l’avessi contraddetto, avrebbe capito di essere grave. Lasciai negli ultimi giorni e, quando lui capì di essere alla fine, non ne parlammo. Siamo rimasti insieme, vicini e basta, mano nella mano. Il giorno prima, mi ha chiesto: Goggi ma quanto mi ami? E io: manco te l’immagini. Dopo, per mesi, non mi è importato di mangiare, dormire, lavorare». 

Ora è tornata a lavorare tanto. 

«Ho capito che mi fa bene. Sono arrivati la giuria di Tale e quale show, il cinema con Fausto Brizzi, le fiction di Cinzia Th Torrini, due libri. Presto sarò nella fiction Pezzi Unici di Torrini, al cinema in Appena un minuto di Francesco Mandelli e in Burraco fatale di Giuliana Gamba. E sono protagonista di un corto sull’Alzheimer, Sogni, di Angelo Longoni». 

Ora che non dà più conto a un uomo, ha scoperto di essersi persa qualcosa? 

«Niente di rilevante. Solo che la mattina, invece di alzarmi presto per preparare pranzo e colazione, mi piace stare a letto a leggere il giornale».

Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 23 dicembre 2019. A giugno sono sessant' anni di carriera. Da allora ha inanellato un numero tale di esperienze, progetti e successi da diventare un assioma, un assoluto, da tramutarsi in una sorta di Limbo (il ballo) con l' asticella talmente bassa in quanto a difficoltà affrontate e superate da diventare un Limbo (dantesco) per chi ha provato a imitarla, senza mai riuscirci. Eppure Loretta Goggi quando parla, in particolare quando ripensa ai momenti più alti e felici, quasi mai si riferisce alla carriera, ma solo al tempo passato insieme a suo marito, Gianni Brezza, scomparso nel 2011 "dopo 29 anni insieme, l' amore della mia vita. Sì, sono una romanticona". E non piange, o nasconde bene le lacrime. Non recrimina, non si lamenta, non si ferma e la sua è solo lucida consapevolezza. E basta scorrere il book del nostro Umberto Pizzi, che li ha fotografati in tante occasioni, per scoprire un' evidenza: sono sempre mano nella mano. "Però è quasi tutto merito mio (sorride), ero io a smussare gli angoli". Ed è fondamentale. In assoluto è necessaria una certa morbidezza mentale, senza credere solo alla passione o alla sensualità.

Data di nascita: 1950, stesso anno di Verdone e Zero.

«Davvero? Cavolo che generazione».

Non male.

«E aggiungo il mio giorno: 29 settembre, come la canzone di Lucio».

Lo ha mai rivelato a Battisti?

«No, mai trovato il coraggio: quando avevo 19 anni siamo stati insieme in una trasmissione televisiva, era uno speciale dedicato proprio a lui, e con Lucio anche Equipe 84, Formula3 e Patty Pravo, ma non gli ho rivolto la parola. E da quel giorno non c' è stata più occasione».

Com' è possibile?

«Battisti realmente non parlava mai; una sera a Torino, siamo a cena con Fatma Ruffini (storica autrice tv) e lui; io accompagnata da mio padre. A un certo punto Battisti mi guarda e mi fredda: "Tu ridi sempre"».

Perfetto.

«A volte questa allegria è stata un problema, ma già da ragazza mi svegliavo cantando».

Perché un problema?

«Da sempre mi hanno posto dei limiti, per molti il mio lato sorridente mi avrebbe potuto procurare in teatro solo ingaggi per il ruolo della "buona"; poi mi dicevano che non avevo la voce giusta, mentre dopo il successo a Sanremo con Maledetta primavera dovevo interrompere le imitazioni».

Mancava sempre qualcosa.

«Ho passato gran parte della carriera a convincere i presunti esperti delle mie capacità».

Maledetta primavera resta un caposaldo.

«E pensare che è arrivata seconda a Sanremo, ma per me resta un gran momento, una rivincita, come presentare il Festival nel 1986. Anche lì ai piani alti non volevano».

Con quale motivazione?

«Temevano le manifestazioni operaie e in quanto donna, la mia incapacità a gestire l' imprevisto (sono le 10 del mattino, è su un set, si prepara)».

È tornata a recitare.

«È una delle mie battaglie: di solito il pubblico italiano mette la data di scadenza agli artisti, come prodotti da supermercato».

E invece.

«Ho deciso di interpretare il ruolo della vecchietta, e poi di togliermi dalle scene (sorride). Sul set mi diverte il trucco, il parrucco, vedere come gestiscono le luci».

Secondo Antonio Manzini, in Italia siamo colpevoli di offrire pochi ruoli alle attrici over 50.

«È vero, mentre all' estero si costruiscono parti importanti e si investe su attrici come Meryl Streep o Helen Mirren, al contrario da noi nei pochi ruoli over vestono le anziane in modo improbabile e ridicolo, da giovani. Non solo: il 60enne delle fiction può avere una compagna con qualche anno di meno, la donna no».

Irreale.

«E poi un tempo la televisione era più selettiva».

Lei è il nazional-popolare.

«Fin da piccolina ho interpretato dei capolavori della letteratura, e questo mi ha molto aiutato già alle scuole medie».

In quale modo?

«Quando i professori spiegavano Dante, Dostoevskij e Tolstoj, sapevo quasi tutto a memoria, ero quasi preparata».

Quasi.

«Non per una mia impreparazione, solo perché gli sceneggiati tv non erano fedeli all' originale, ma tradotti per un pubblico generalista, e al tempo il livello di alfabetizzazione del Paese doveva formarsi. Comunque potevo non studiare».

Ha iniziato a nove anni: si è mai sentita come in Bellissima?

«Con mamma no, mentre papà inizialmente ne ha un po' sofferto, masticava malissimo la situazione, anche perché per periodi lunghissimi stavo lontana da casa, in particolare i primi tempi quando partecipavo teleromanzi e duravano anche otto mesi».

Le pesava?

«Mi divertivo tanto, era come vivere tutti i giorni dentro a una festa di Carnevale: mi truccavano, sistemavano le acconciature, tutti carini e disponibili e soprattutto mi vestivano con abiti incredibili, di ogni epoca, ed ero circondata dai più grandi attori».

Si innamorava di loro?

«Da questo punto di vista ho iniziato tardi, il primo bacio è arrivato quando avevo 16 anni; sul set i vari Alberto Lupo, Gino Cervi o Paolo Stoppa li vedevo come dei genitori aggiunti, o degli zii».

Paolo Stoppa presunto caratterino.

«No, lui meraviglioso. Tra un set e l' altro mi dava ripetizioni di Storia (e inizia a parlare esattamente come Stoppa): "Lorè che te tocca oggi? Viè che la lezione te la sento io"».

La proteggeva.

«In qualche modo mi ricordava la mia età, era come ancorarmi ai miei dieci anni; una volta sul set tirai fuori una penna, dovevo scrivere di Mark Twain, scoppiò il putiferio: era di color viola».

Il viola non è leggenda.

«Scaramantici al massimo, mentre a me certe suggestioni non interessano.

In quegli anni ha incrociato la Mannoia.

«Fiorella era la mia controfigura ne La Freccia nera: lei e la sorella erano talmente brave e atletiche da venire ingaggiate per le scene maggiormente pericolose».

La Freccia nera visto da milioni e milioni di spettatori.

«Alla Rai arrivavano migliaia di lettere, un' invasione, un successo memorabile».

Investita dalla popolarità.

«Però il momento clou è arrivato con Canzonissima, e i paparazzi che si arrampicavano anche sui lampioni, sugli alberi, si piazzavano dietro le finestre pur di strappare una foto. Per me un trauma. Non ero abituata, non uscivo mai la sera e frequentavo solo gli amici di quando ero ragazza».

Con suo marito è diventata gossip.

«Perché era già sposato, e quando abbiamo esplicitato l' unione siamo scappati a vivere a Milano, lì i paparazzi erano meno aggressivi».

Per la carriera a cosa ha rinunciato?

«Proprio a niente, sempre preferito la vita privata, e per questo tre o quattro volte ho interrotto ogni percorso artistico (sorride); quando è nata la storia con mio marito, per sei mesi ci siamo solo dedicati alla barca a vela e alle regate».

All' improvviso senza riflettori.

«E senza rimpianti, eravamo io e lui e bastava.

Non è comune tra i suoi colleghi.

«Lo so, la maggior parte non riesce a vivere priva di riflettori, di quella luce artificiale che in teoria illumina le esistenze».

Ha lasciato senza la certezza di poter tornare In Italia.

«Funziona così: quando scendi dal treno è quasi impossibile risalire, e già lo sapevo, ma non mi interessava. Io avevo lui (e mostra il cellulare)».

Questo telefono.

«Lo so, è vecchio, funziona male, però è quello di mio marito e intendo utilizzarlo fino a quando sarà possibile (gli occhi diventano rossi e riesce a mantenere un sorriso non di circostanza)».

Ci pensa sempre.

«Prima di conoscere lui, mi ritenevo una persona pesante, ingombrante».

Addirittura.

«Ero quella iper responsabile: a 25 anni avevo già una bella indipendenza economica, possedevo una macchina, viaggiavo per il mondo, affrontavo una realtà differente. E I miei coetanei al massimo studiavano, magari per cercare la svolta giocavano la schedina al Totocalcio, e a quel punto il mio ruolo era di seconda madre».

Li bacchettava.

«Due palle allucinanti, mentre accanto a me avevo bisogno solo di un uomo forte e maturo, uno che rispondesse a un' esigenza pratica nascosta dietro a una domanda dentro di me quotidiana: "Se succede qualcosa, a me chi ci pensa?"».

I suoi genitori.

«Anche da adulta andavo in vacanza con loro, mi seguivano in molti appuntamenti, ma certe situazioni non si possono condividere con mamma e papà.

Quindi.

«Il matrimonio è stato il mio salvavita, mi ha reso indipendente dalla televisione e dal teatro, mi ha dato la giusta sicurezza ed equilibrio, mai schiava di certe liturgie. Mi sono sentita libera e capita».

Non male.

«Nel 1981 la Rai mi offre un programma, e nello stesso momento mi chiama Proietti per una tournée teatrale. O l'uno o l'altro. Spiazzata ne parlo con Gianni, e lui: "Vai da sola a Londra a vedere lo spettacolo che vuole portare in scena Gigi, e poi decidi"».

Da sola?

«Sì, non voleva influenzare la mia scelta; insomma, prendo l' aereo, acquisto il biglietto, mi siedo a teatro e dopo cinque minuti capisco qual è la strada giusta».

Proietti.

«Esatto, ed è stata un' esperienza meravigliosa, con Gigi ho capito cos' è la recitazione, quali sono i tempi giusti, cosa vuol dire professionalità. È un maestro. Aveva solo qualche problema con il dopo-teatro».

Cioè?

«Andava e va a dormire in orari per me impossibili, arrivava il pomeriggio in teatro e iniziava a mangiare. Per lui era il pranzo. Una sera io do la buonanotte, mentre mio marito e Gigi decidono di restare per due chiacchiere. Mi sveglio alle quattro del mattino e Gianni non era ancora tornato, e allora non c' erano i cellulari. Ho chiamato tutti gli ospedali della zona, disperata, ero convinta fossero morti».

Tra gli anni Settanta e i primi Ottanta i cantanti italiani andavano alla conquista dell' America.

«Me lo hanno proposto più e più volte, ho sempre rinunciato, preoccupata dai racconti di chi aveva affrontato quell' avventura.

Perché?

«Chi andava a New York o in America Latina veniva sequestrato dal boss locale con pretese continue: matrimoni dei figli, comunioni, cene e tutto un repertorio. Quelle situazioni non mi piacevano e per questo ho rinunciato a dei concerti pure al Radio City Music Hall di New York. E a una serie di ingaggi molto importanti (sorride di nuovo). Alla fine non so perché ho scelto questo mestiere».

In quel periodo ha conosciuto anche Califano.

«No, prima. Franco, insieme ad Arbore, è stato il produttore del debutto di mia sorella con il nome d' arte di Daniela Modigliani; in quel periodo frequentavano spesso casa nostra per mangiare la pasta e fagioli di mia madre».

Califfo personaggio particolare.

«Era un uomo di una generosità rara. Una sera in un concerto vede un ragazzo infreddolito, senza dire nulla si avvicina, lo guarda, si toglie il montone e glielo porge. Alla fine del concerto lo stesso ragazzo si avvicina per restituirlo, e lui: "Ormai è tuo"».

Insomma, non sa perché ha scelto questo mestiere.

«E aggiungo: non so neanche come posso stare ancora qua».

Tradotto?

La politica aiuta, i partiti aiutano, e non mi sono mai pubblicamente schierata».

A occhio non è da estrema destra.

«Io? Ma neanche di centrodestra, al massimo di centrosinistra».

Un vizio.

«L' ozio, il dolce far niente, ma quando è scelto, non imposto dall' umore».

Lo sa.

«Ho passato un periodo brutto, per fortuna ne sono uscita».

Una fortuna.

«Oltre a mio marito e alla famiglia? Quello di saper ancora oggi sognare, questa è la differenza tra vivere e sopravvivere. (E magari la Primavera non è sempre maledetta)».

·         Danika Mori.

Da sologossip.it il 23 dicembre 2019. Danika Mori è la pornostar più cliccata su Pornhub. A dirlo è il sito stesso che ha reso noti i dati del 2019 ora che l’anno è quasi volto al termine. Ma chi è Danika, la pornostar italiana che ha conquistato il mondo del web? Danika e Stefano Mori: gli italiani che hanno conquistato il mondo del porno. In tre anni ha totalizzato circa 700milioni di visualizzazioni sul sito Pornhub e, insieme a Stefano Mori, in arte Steve Mori, suo fidanzato, hanno conquistato il web. Quando nel 2016 hanno aperto il loro profilo su Pornhub in due settimane hanno sbancato. Sono due ragazzi di 29 e 30 anni e Danika, il cui nome vero è Federica, è riuscita ad essere considerata la pornostar più cliccata del web nel mondo, non solo in Italia. Pornhub così ha ingaggiato la coppia nel Model Program, ossia il progetto che permette ai pornostar più amati di avere un blog, un video con dei suggerimenti e assistenza continua al fine di fargli ottenere quanti più guadagni possibili. I due si sono raccontati sia a Fanpage che a Rolling Stone e abbiamo scoperto di più su Danika.

Chi è Danika Mori. Federica, alias Danika, ha 29 anni e vive in Spagna anche se è italiana ed è oggi una delle pornostar più cliccate al mondo. Per lei il sesso è un modo di scoprire meglio il partner e ottiene così un grande successo e diversi awards dal portale di Pornhub per le sue performance migliori. Il suo profilo Instagram è ovviamente privato, così come quello del suo compagno Stefano, ma diciamo che nel web chi cerca trova e così non è difficilissimo trovare immagini, video e foto di Danika che la ritraggono al massimo della sua bellezza ed espressività.

·         Alessandro Haber.

"Inappropriato e sessista": Haber finisce nella bufera. L'attore è finito la centro della polemica dopo le battute sessiste e le frasi ambigue rivolte alla presentatrice del Festival del Cinema di Castellinaria. La direzione artistica ha deciso di non revocargli il premio, ma si è dissociata dal suo atteggiamento. Novella Toloni, Mercoledì, 20/11/2019, su Il Giornale. Inappropriato, fuori luogo e sessista. Così è stato giudicato il comportamento tenuto da Alessandro Haber sul palco del Festival del Cinema giovane svoltosi domenica a Bellinzona. Secondo quanto riportato dal portale La Regione, l'attore bolognese si sarebbe lasciato andare a battute a sfondo sessuale, e a qualche apprezzamento di troppo, con la presentatrice della manifestazione poco prima di ricevere un premio alla carriera. Durante il suo intervento, poco prima della proiezione del film di cui è protagonista, Alessandro Haber ha buttato là qualche frase piccante all'indirizzo del pubblico femminile in sala e della conduttrice Moira Bubola. Apprezzamenti fuori luogo, doppi sensi ambigui e uscite imbarazzanti hanno messo il 72enne di Bologna in una posizione decisamente scomoda agli occhi degli organizzatori e delle persone presenti in platea. Se l'intento era quello di strappare una risata al vasto pubblico presente in sala, l'attore non ha ottenuto l'effetto desiderato, anzi. Non una risata né un applauso si sono levati dal pubblico presente. Sull'attore si è così abbattuta una vera e propria bufera mediatica. "Il comportamento di Haber sul palco è stato totalmente inappropriato. - Ha spiegato il direttore artistico del Festival del Cinema giovane di Castellinaria, Giancarlo Zappoli, in merito alla vicenda - La presentatrice Moira Bubola però lo ha rintuzzato da grande professionista qual è e quindi non aveva bisogno di una sovrapposizione da parte mia. Il premio non verrà revocato, abbiamo premiato l'attore non la persona". Dopo l'indecoroso spettacolo, infatti, è stata chiesta a gran voce la revoca del premio. La direzione artistica del Festival ha però fatto capire, che il premio è stato assegnato sulla base dell'oggettiva carriera dell'attore e non sulla sua persona. L'increscioso incidente e il clamore alimentatosi attorno al fatto hanno spinto Alessandro Haber a rilasciare una dichiarazione in merito. Sempre attraverso il portale LaRegione, l'attore si è scusato per l'accaduto, rivolgendosi alle donne e alla presentatrice: "Sono mortificato e sbigottito da quanto è accaduto. Le mie sono state delle battute assolutamente dette senza malizia, con lo scopo di strappare una risata. Mi rendo conto ora che in un contesto come quello di Castellinaria, attento in particolar modo quest’anno alla condizione femminile, le mie uscite possano essere state ritenute inopportune. Se qualcuno si è sentito urtato o offeso chiedo scusa. Le donne per me sono il motore della vita non era mia intenzione mancare di rispetto a nessuna di loro".

Giancarlo Zappoli per laregione.ch il 20 novembre 2019. Castellinaria, Festival del cinema giovane, non ha alcuna remora nel definire non solo ineleganti ma totalmente inopportuni gli atteggiamenti tenuti da Alessandro Haber domenica sera sul palco dell’Espocentro e se ne distanzia nella maniera più assoluta. L’attore bolognese era a Bellinzona con un ruolo nel cast del film presentato domenica sera in prima mondiale ed ha ricevuto il Premio Castellinaria. Nel corso del suo intervento prima della proiezione, Haber, dopo aver espresso il suo amore sia per il cinema che per il teatro, paragonando il secondo a un amore coniugale di lunga data di cui ha tessuto le lodi, si è lasciato anche andare ad alcune uscite infelici nei confronti della presentatrice Moira Bubola e del pubblico femminile. Forse la sua intenzione era quella di strappare le risate della platea di adulti di domenica sera con battute da avanspettacolo di bassa lega. Non aveva compreso quale tipo di spettatori si trovava davanti e quindi queste non si sono fatte sentire. Castellinaria constata come questo increscioso incidente sia purtroppo una ulteriore dimostrazione del fatto che la condizione femminile, una delle tematiche quest’anno in risalto nella programmazione del Festival, sia un tema di attualità a tutti i livelli, sul quale è necessario non abbassare la guardia e mantenere alta l’attenzione, tanto è vero che dallo stesso palco, di fronte a un folto pubblico e a nome di Castellinaria, di questo ha parlato con forza la proiezione del documentario "Woman" di lunedì sera. Un film che ha suscitato l’adesione degli spettatori che hanno applaudito non solo il messaggio del documentario ma anche l’azione che i ricavi dello stesso contribuiranno a sostenere per favorire la presenza delle donne che non hanno voce sui social. Senza minimizzare in alcun modo l’increscioso incidente di domenica, il Festival vuole sottolineare con forza la matura reazione dei presenti alla serata di domenica che non hanno degnato tali cadute di stile neppure di un fischio, giustamente sottolineando in questo modo l’infimo valore di tali comportamenti. La stessa presentatrice ha d’altronde immediatamente gestito Haber con fermezza e con la sua consueta estrema professionalità, rimettendolo, come si suol dire, al suo posto, rendendo inutile ma anche inopportuno l’intervento che stavo per fare. Si sarebbe trattato di una sovrapposizione maschilista nei confronti di una collega giornalista perfettamente in grado di controllare la situazione. L’autonomia della direzione artistica è una prerogativa riconosciuta dalla presidenza del Festival e costituisce un valore imprescindibile per una manifestazione come Castellinaria. Il Festival non intende ritirare il premio perché, come è stato sottolineato nella motivazione dello stesso letta sul palco prima che l’attore vi salisse e si abbandonasse a commenti riprovevoli, il riconoscimento andava all’attore e ai ruoli che ha sostenuto in più di 120 film, diretto dai più importanti registi del cinema italiano (dai Taviani a Monicelli, da Bellocchio a Olmi), non alla persona.

Giudichi il lettore di Matteo Caratti. Caro Festival, prendiamo atto con dispiacere che chi ti dirige si limita a considerare solo ‘totalmente inopportuno’ il comportamento tenuto domenica sera dal signor Haber, senza decidere (lo può fare) di ritirargli il riconoscimento, consegnato sul palco di Castellinaria, proprio mentre lui pronunciava frasi e assumeva atteggiamenti indecenti. Atteggiamenti – ripetiamolo – indecenti nei confronti della conduttrice e anche all’indirizzo delle donne presenti in sala. Prendiamo atto anche che chi tanto bene ti ha fatto crescere (onore al merito), afferma di voler premiare l’attore e non di voler giudicare la persona. Male, in un tale contesto possibile disgiungere? Proprio no, anche perché la persona premiata ha assunto un comportamento inqualificabile, proprio mentre ritirava il premio sul palco. Una macchia che va cancellata, secondo noi, per far capire di che pasta (etica) è fatto il festival del cinema giovane di Bellinzona. Ovvero: di persone che davanti allo squallore sessista non ci stanno. Avesse quel tale anche vinto il premio Oscar! Questione di coerenza e non solo. Per non tirarla alla lunga e per permettere anche a chi non era presente di capire di cosa stiamo parlando e di farsi un’opinione, ecco cosa ha detto il signor Haber sotto i riflettori di Castellinaria: rivolto alla conduttrice, dopo aver allungato una mano per cercar di toccarla, ha aggiunto ‘che belle tettine’. All’indirizzo del pubblico ha poi fatto sapere che era venuto a Bellinzona da solo e che la sera era a disposizione del gentil sesso. E per finire ha rivolto l’invito "a fargliene su una" alla conduttrice che gli ha risposto ‘Non se ne parla’. Volgarità pronunciate sul palco con tanto di riconoscimento culturale di Castellinaria in mano. A questo punto giudichi il lettore. Noi continuiamo a sperare che chi ti dirige, caro Festival, capisca che nel 2019 il pedigree artistico non è un salvacondotto.

«Abbiamo premiato l’attore Haber, non la persona». Il direttore artistico di Castellinaria, Giancarlo Zappoli, dà la sua versione dei fatti di quanto accaduto domenica sera all’Espocentro. L’attore Alessandro Haber. Da Antonio Mariotti il 19 novembre 2019 su Cultura & Società.cdt.ch.

Direttor Zappoli, ci conferma quanto riportato da LaRegione riguardo al comportamento di Alessandro Haber domenica sera sul palco di Castellinaria?

«Sì, diciamo che è andata anche così. Il comportamento di Haber sul palco è stato totalmente inappropriato. La presentatrice Moira Bubola però lo ha rintuzzato da grande professionsita qual è e quindi non aveva bisogno di una sovrapposizione da parte mia che sarebbe diventata un ulteriore atto maschilista, con l’uomo che difende la donna. La donna l’aveva già rimesso al suo posto da sola. Il premio non andava assolutamente alla persona: se ci guardassimo intorno troveremmo molti esempi di artisti, non solo nel cinema. Che non sono come le opere che presentano. Per cui il riconoscimento è andato all’attore che ha lavorato con i più grandi registi italiani e ad ulteriore dimostrazione di ciò ci sono le due scene che Haber interpreta ne I segreti del mestiere, il film ticinese che abbiamo proiettato domenica sera. È chiaro però che la persona si è rivelata tutt’altro. Che poi si sapesse, come scritto dalla Regione, che avesse dei precedenti simili è vero, ma siamo sempre lì: non gli abbiamo detto quanto è bravo il signor Alessandro Haner ma quanto è bravo l’attore Alessandro Haber. Oltretutto, senza voler dare colpe al pubblico, non c’è stato un fischio, può essere perché tutti siano rimasti basiti ma è anche vero che c’è stato un applauso quando è sceso dal palco e poi è comunque risalito subito dopo insieme a tutto il cast per presentare il film. Non c’è stata nessuna contestazione».

Come mai non avete stigmatizzato il comportamento di Haber lunedì in un comunicato?

«Perché non volevamo dare al comportamento della persona Haber un’ulteriore vetrina».

Quindi il premio non gli verrà ritirato?

«No, per i motivi che ho detto prima».

Haber si è scusato in qualche modo per il suo comportamento?

«Non l’ho praticamente più visto. So che è rimasto a vedere tutto il film. Ma ho visto dietro le quinte che può avere un comportamento molto “estremo”: l’ho visto piangere per una situazione di qualcuno che gli aveva raccontato di un proprio problema grave e poi ha queste uscite, totalmente estemporanee in un festival come questo. Sapeva di essere ospite di un festival per ragazzi, ma va detto che domenica sera di ragazzi in sala non ce n’erano, c’erano solo adulti».

Un brutto episodio comunque?

«Assolutamente, però io in questo festival parlo coi film, non posso mettermi al posto delle persone e di questi temi ho parlato lunedì sera presentando il film Woman. È stata una situazione molto sgradevole quella che ha visto protagonista Haber, ma ora è chiaro che non tocca più solo le 400 persone presenti in sala ma molte di più. Se si vuole si crea il danno d’immagine, basta volerlo. Noi non abbiamo voluto “fare notizia” ma c’è chi la pensa diversamente e non sarò certo io a censurarlo».

Haber contro Carlo Verdone: "Hai lavorato con ​cani e porci e con me un cazzo, sei una merda". Acceso scontro tra Alessandro Haber e Carlo Verdone nella prima puntata di "Maledetti Amici Miei" in onda su Rai2. L'attore teatrale ha accusato il regista, tra il serio e l'ironico, di non aver mai voluto lavorare insieme a lui. Novella Toloni, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Esordio con il botto per il programma irriverente di Rai Due "Maledetti Amici Miei". Tra musica, dialoghi improvvisati e gag satiriche Rocco Papaleo, Sergio Rubini, Giovanni Veronesi e Alessandro Haber hanno esordito in prima serata. Un debutto dove non è mancato l'inatteso fuori programma di Alessandro Haber, che si è reso protagonista di un acceso e colorito confronto con l'ospite della prima serata, Carlo Verdone. E pensare che ad annunciare il suo ingresso in studio, e ad accompagnarlo al centro del palco, era stato proprio Haber. Carlo Verdone entra in studio suonando la batteria. Alcuni minuti di musica e l'ospite viene accolto da Alessandro Haber, tra convenevoli e applausi. Il regista e attore romano, emozionato, saluta i colleghi e confessa: "Io praticamente c’ho tutto il mio cast, ho lavorato con tutti quelli che son qui dentro". Una frase che non va a genio ad Haber che da il via al suo personale show tra parolacce e recriminazioni: "Posso dirti una cosa? Siamo vicini di casa, abbiamo lo stesso barbiere, ti stimo come batterista, come attore e come regista. Però te lo volevo dire... sei una merd**. Te lo dico con affetto e stima, ma hai lavorato con tutti con Rocco, con la Buy, con piccoli e grandi attori, con cani, con porci e con me….un ca***". Carlo Verdone, dopo un attimo di sorpresa e spaesatezza, replica: "Ma lo sai perché? Tu sei un attore di teatro, hai un’impostazione teatrale, ma vai!”. Difficile capire se la gag tra i due fosse stata concordata. Ma mentre i colleghi allontanano Alessandro Haber da Verdone, l'attore prosegue: "Ma quale improvvisazione teatrale! Ho fatto centinaia di film, ho vinto un Donatello e quattro Nastri d’Argento! Visto che mi hai detto, quando ci siamo incontrati, prima o poi ti prendo, ti prendo, aspetti che io muoia?!". Ma a mettere la parola fine è Carlo Verdone: "Ok, ti prendo, promesso, ti prendo, però me l'hai tirata eh".

Da I Lunatici Radio2 il 3 ottobre 2019.  Alessandro Haber è intervenuto questa notte ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei. Haber ha parlato del format Maledetti Amici Miei, da stasera su Rai2: "Papaleo, Rubini e Veronesi sono davvero miei amici fraterni. Non sono uno avvezzo alla televisione, ma verrà fuori un bel prodotto.  Veronesi è un incredibile direttore d'orchestra, ci conosce, ci sferza, ci provoca. All'inizio mi sentivo un po' fuori luogo, perché non ero protetto da niente, mentre a teatro o al cinema sono protetto dal personaggio che interpreto. E' come se il pubblico ci vedesse dal buco della serratura. Parleremo di arte, teatro, cinema, racconteremo delle cose forti, alcune faranno sicuramente discutere. Nella seconda puntata farò un monologo di cui certamente si discuterà. Coinvolgerò le mamme, non dico nient'altro. Una cosa che farò e che ho fatto raramente è cantare. Cantare mi fa godere. Mi fa venire veramente un'erezione. Mi piacerebbe andare a Sanremo, sarebbe fantastico. Solo che rischierei di vincere. Scherzi a parte, mi considero un interprete, non un cantante". Su Papaleo, Rubini e Veronesi, Haber aggiunge: "Ognuno di noi tifa per l'altro, non ci sono gelosie, invidie. Siamo complici, ognuno di noi ha lavorato con l'altro. Io vorrei essere ognuno di loro. Abbiamo fatto bagordi insieme, condiviso anche donne. Con uno di loro ho condiviso una donna. Lei lo sapeva. Condivise nello stesso periodo, non nello stesso momento. Io credo più nell'amicizia che nell'amore. Una donna prima o poi ti tradirà. Un amico no. Soffrirei molto più per il tradimento di un amico che per il tradimento di una donna. Tornando al programma, ci saranno ospiti meravigliosi. Stasera toccherà a Verdone e Sangiorgi". Haber, poi, è tornato indietro nel tempo: "Mi sono costruito giorno dopo giorno. Ho perso molte occasioni, ma credo che sia un fatto di condivisione, uno dà e prende. Ho giocato molto sulla mia passione e sul mio talento. Senza talento non avrei fatto 140 film e 50 spettacoli da protagonista. Ma non me la tiro, sono rimasto uguale agli inizi. Noi dobbiamo essere grati e riconoscenti nei confronti del pubblico. Io mi commuovo se penso a quello che mi è successo, amo il pubblico che mi vuole bene". Su Regalo di Natale: "E' stato il primo film importante, da coprotagonista. Avevo già superato i 40 anni, venivo da 22 anni di gavetta. C'è tutta una storia dietro a quel film. Avati continuava a dirmi che ero bravissimo ma non mi chiamava mai. Un giorno piovigginoso di trent'anni fa, erano sei mesi che non lavoravo, stavo male, depresso, mi stavo per lasciare con la mia compagna dell'epoca. Ero a Roma, in Via Cola di Rienzo. Decisi all'improvviso di andare a trovare Pupi Avati. Ho suonato e l'ho aggredito. Gli ho detto che era una merda, perché da anni mi faceva i complimenti senza farmi lavorare. Ero depresso, odiavo tutti in quel momento. Lui mi ha detto di aspettare un attimo, ha fatto una telefonata e mi ha comunicato che avrei fatto parte del suo prossimo film, che era 'Regalo di Natale'. Certe volte la vita ti cambia in un attimo". Su Monicelli: "Il primo provino che ho fatto con lui lo lasciò perplesso. Mi scartò. Poi dopo anni è venuto a vedermi a teatro. Mi fece i complimenti e l'anno dopo mi fece fare 'Amici miei', la scena del vedevo che parla di quella gran troia di Adelina. Un cult".

Donatella Aragozzini per “Libero Quotidiano” il 2 ottobre 2019. Uno show basato sull' improvvisazione, con quattro attori che tengono la scena senza un copione scritto, con aneddoti e storie legate al loro mondo e alla loro amicizia ultra trentennale. È Maledetti Amici Miei, il programma al via domani in prima serata su Rai Due, sei puntate durante le quali Giovanni Veronesi, Alessandro Haber, Sergio Rubini e Rocco Papaleo, affiancati da Margherita Buy e Max Tortora, si racconteranno senza filtri.

Haber, per lei è l' esordio televisivo.

«Sì, mai nella vita avrei pensato di stare in quella scatola in quella maniera. Non sono molto avvezzo alla televisione, ho fatto qualche partecipazione a fiction, ma è un mondo che mi appartiene poco. A teatro e al cinema sono sempre protetto dal personaggio, qui invece proviamo ad essere noi stessi, è come se il pubblico ci guardasse dal buco della serratura».

Vi rifate un po', nel tono scanzonato, a Quelli della notte?

«Quella è stata una trasmissione rivoluzionaria, unica e irripetibile. Però anche questa è un po' fuori dai canoni».

Qual è realmente il legame tra di voi?

«Siamo quattro amici che si vogliono bene. Siamo molto diversi, perché Veronesi è la mente, il direttore d' orchestra, Rubini è l' intellettuale e Papaleo è il proletario con sense of humour. Ma insieme stiamo bene, siamo intonati, in scena e anche nella vita. Magari ci incazziamo, ma sempre in maniera costruttiva, facciamo l' uno il tifo per l' altro».

In scena sembrano tutti e tre coalizzarsi scherzosamente contro di lei. È così anche nel privato?

«Sì, mi hanno messo in mezzo, ma io sono un po' masochista e, se a loro fa piacere, mi sta bene, che mi usino pure. Sono sempre stato la loro vittima sacrificale, perché sanno che mi incazzo facilmente e si divertono a farmi incazzare».

Potrebbe succedere anche nel programma?

«Assolutamente sì. Però la mia è un' incazzatura che si smonta subito, non riesco a portare rancore, dopo un attimo passa tutto».

Una delle sue passioni è la musica, coglierà l' occasione per esibirsi come cantante?

«La canzone mi affascina e farò lo chansonnier, in ogni puntata canterò pezzi famosi rifatti a modo mio, come La valigia dell' attore, che tra l' altro è un brano che De Gregori ha scritto ispirandosi a me, o Margherita di Cocciante».

Il titolo dello show richiama il film di Monicelli, dove tra l' altro lei recitava.

«Sì, nell' Atto secondo. Lì con Monicelli abbiamo cominciato ad annusarci, con lui ho fatto in totale cinque film. Ne avrei dovuti fare anche altri due, ma non ho potuto perché ero impegnato a teatro. Uno era Rossini! Rossini!, nella parte che poi ha fatto Gaber. Se avessi fatto anche quelli sarei stato il suo attore più prolifico».

Cosa preferisce, tra cinema e teatro?

«Il teatro mi gratifica di più perché sono padrone di quello che faccio e sempre protagonista. Dipende però sempre dalla scrittura, mi piacciono i ruoli che abbiano una psiche, una storia, un passato, un presente e un futuro. Che siano drammatici o leggeri non importa, io sono malato di questo lavoro e amo anche i personaggi ostici, antipatici o lontani da me, basta che siano complessi».

Tra i tanti premi ricevuti nella sua carriera, ce n' è uno al quale è più legato?

«Il primo in assoluto, il premio IDI nel 1980, è stata una grandissima emozione. Ma quelli che mi hanno dato maggiore soddisfazione sono stati il primo Nastro d' Argento, per Willy Signori e vengo da lontano, di cui tra l' altro era sceneggiatore Veronesi, e il David vinto con Per amore, solo per amore, dove Giovanni invece era regista».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 14 ottobre 2019. Qualunque maschio avrebbe voluto essere lì, al posto di Alessandro Haber, seduto in carrozzina, a prendersi il bacio di una super sexy Monica Bellucci. A lui la fortuna è capitata giovedì scorso, nella seconda puntata del programma Maledetti amici miei su RaiDue, condotto insieme al regista Giovanni Veronesi («la persona con cui più mi confido») e ai colleghi attori Sergio Rubini e Rocco Papaleo. Un ritrovo goliardico tra compari, un po' in stile Gino Paoli (eravamo quattro amici al bar) un po' in stile Monicelli (Amici miei, appunto), in cui non mancano momenti di poesia e passaggi di ironico erotismo.

Haber, mi dica la verità. Dopo un bacio con la Bellucci si può anche morire felici?

«Ma sai, i baci veri ormai li abbiamo già dati. Questi sono baci dati davanti a un pubblico, un resoconto labile di quelli veri... E poi la Bellucci la conosco da tanti anni: aveva 23 anni, venne a vedere un mio spettacolo, mi abbracciò e nacque una simpatia. Ma è rimasta tale. L'ho sempre considerata una di quelle donne talmente belle da essere irraggiungibili: quando una è così bella ti sembra di non avere la forza per conquistarla, anche perché sai che finirà con un due di picche».

Ha detto di essersi molto eccitato per quel bacio. Solo finzione?

«Non c'era niente di vero, era solo una battuta. In generale quando baci non provi piacere. È come quando passa una donna e le tocchi il culo: non provi mica piacere. A maggior ragione se quel bacio è solo un gioco, il tuo lavoro fatto con ironia. Anche quando fai una scena di sesso in un film non senti un cazzo. La verità è che noi attori cerchiamo di dare verità a qualcosa che non esiste».

Sul web molti hanno definito sessista il modo in cui è stata trattata la Bellucci nel programma, con la lettura di commenti piccanti a lei rivolti. Ormai è vietato fare qualsiasi apprezzamento a una donna?

«Chi vede sessismo ovunque è ridicolo, ha problemi seri. Quei commenti le erano veramente arrivati, e noi abbiamo fatto una selezione, scegliendo i più soft, e con lei abbiamo costruito quel gioco. La gente si scandalizza, ma non capisce che sui social tutti commentano e possono accedere a tutto. Noi da ragazzini ci toccavamo guardando al più un giornaletto olandese dove si vedevano le tette, oggi invece i ragazzi hanno ogni cosa a portata di mano».

Questo atteggiamento moralistico è figlio del movimento femminista Me Too?

«Sì, credo che dopo il Me Too tutto sia esagerato ed esasperato. Non si può più fare la corte a una donna. La violenza è sempre da condannare, ma continuo a non capire gli atteggiamenti bigotti».

Lei ha la fama di essere un grande amatore. C'è stata una donna che le ha fatto perdere la testa?

«Mi sono innamorato poche volte e quelle volte ho sofferto. Mi piace anche soffrire perché la sofferenza mi aiuta a riflettere e mi consente di trasferire ciò che provo nel lavoro, che è la mia vera droga. Una donna che mi ha segnato è stata Giuliana De Sio: siamo stati insieme 3 anni, io avevo 29 anni, lei 19, poi si è rotto qualcosa per colpa di entrambi. Non siamo riusciti a rimediare, perché è la storia di tutti amarsi, lasciarsi, ferirsi. Con lei ci siamo risentiti, ma solo da amici».

Nel programma viene fuori un Haber poliedrico: recita, fa commuovere, legge poesie e canta. Se non fosse stato attore, avrebbe fatto il cantante?

«La musica è anche recitazione, è tempi e controtempi, è ritmo e pause. Io non canto solo una canzone, ma la interpreto, la recito, come spero di fare in un concerto che terrò il 6 dicembre al Parco della Musica a Roma. E poi in una canzone conta la partitura musicale, non hai bisogno di traduzione anche se il testo è scritto in un' altra lingua. Cantare mi fa godere, oggi ancor più che andare con una donna».

In un monologo ha ricordato quella volta in cui chiese a sua mamma se avesse mai fatto un pompino a suo papà. Andarono così le cose?

«In tutto quello che racconto c' è qualcosa di romanzato, ma almeno la metà è vera. E quella volta a mia mamma domandai: "Ma tu e papà le fate... quelle cosette lì?". Lei era di origine contadina, ma sapeva come ero fatto, senza peli sulla lingua, e sapeva come gestirmi. "Ma cosa dici, Sandrino!", mi fece. Conosceva il mio carattere e, agli inizi della carriera, quando mi vedeva insofferente perché non lavoravo molto, mi invitava spesso a cambiare mestiere: "Non so se sei bravo", faceva. Poi una volta, a uno spettacolo in cui recitavo con Gassman, Vitti, Proietti, lei sentì quei mostri sacri commentare all' intervallo "Oh, che talento che ha Haber". Da allora mi ha lasciato fare e non ha più rotto i coglioni (ride)».

Nella prima puntata del programma lei ha dato della "merda" a Verdone perché non l'ha mai chiamata a recitare in un suo film. Vi siete chiariti?

«Ma cosa me ne frega, certo mi sarebbe piaciuto recitare in un suo film ma non è che mi cambia la vita».

Verdone dice che lei è più che altro un attore di teatro.

«Ma se ho fatto 140 film, diretto anche da giganti come Monicelli, Tornatore, Avati! La verità è che io uso il cinema a teatro e viceversa perché, nell' uno e nell' altro, non recito ma vivo».

Maledetti amici miei è una chicca nel panorama tv. Eppure gli ascolti sono bassini, poco sopra il 4%. Come mai? La qualità non paga?

«RaiDue è la rete più bistrattata e, di certo, non ci aiuta l'approfondimento dopo il Tg2. Lo share in quella fascia cala dal 6 al 3% e per tirarlo su ce ne vuole. E poi c'è la concorrenza: è difficile che la gente si distacchi da un programma consolidato come Un passo dal cielo su RaiUno. E comunque chissenefrega: al di là degli ascolti, il gradimento per il programma è notevole. E avere 1 milione di telespettatori non è poco».

Subito dopo Haber richiama: «Non ti ho detto dell'amicizia. Questo programma non ci sarebbe stato se non fossimo stati amici. Io, Giovanni, Rocco, Sergio siamo complici, fatti l'uno per l'altro. E il nostro rapporto si è consolidato durante quest'esperienza. Io credo molto nell'amicizia: il tradimento di un partner lo devi mettere in conto, quello di un amico no. Ed essere buoni amici è il segreto per fare buoni programmi».

·         Tutto su Pedro Almodovar.

TUTTO SU PEDRO ALMODOVAR. Malcom Pagani per ''Vanity Fair'' il 18 maggio 2019. Un sorriso per difendersi e un passaporto per andare via lontano: «In provincia, da adolescente, non respiravo. Volevo fuggire. Ero ossessionato dall’idea di emigrare. Non avevo una buona opinione della vita rurale ed ero convinto che avrei potuto realizzare i miei sogni soltanto attraverso l’incontro con una grande città. Quando – sarà stato il ’68 o forse il ’69 – comunicai a mio padre che avrei lasciato il nostro paesino per raggiungere la metropoli, rispose che avrebbe fatto intervenire direttamente la Guardia Civil. Era sorpreso, addolorato, infastidito. Mi aveva procurato un lavoro sicuro in banca e io che non avevo mai litigato con lui, men che mai in maniera cruenta, sulla sua offerta stavo sputando. Quello strappo unilaterale rappresentava una violenza, ma tenni il punto: “Fai venire pure i gendarmi”, risposi, “me ne vado comunque e non ho nessuna voglia di discuterne”. I miei capirono che non potevano opporsi e mi lasciarono partire senza rompere i rapporti. Per compiacere e rassicurare lui e mia madre trovai un impiego amministrativo alla compagnia telefonica. Di mattina lavoravo, di pomeriggio e soprattutto di notte vivevo. Frequentavo quotidianamente la cineteca, iniziai a fare teatro, cominciai a girare alcune cose in Super 8». A Madrid, dove Pedro Almodóvar è rimasto per mezzo secolo eleggendola a set di molti dei suoi film, è ambientato anche Dolor y Gloria, presto in concorso a Cannes, la sua ventiduesima opera. Se sia d’arte oppure no, sostiene davanti a due scansìe stracolme di premi, pergamene e targhe che indirizzano a un’acquisita monumentalità che rifiuta con gesti, battute e parole, lo dirà il tempo: «Che si deve posare sulle cose, lasciarle sedimentare, rispettare un mondo che inevitabilmente, intorno, cambia. Non saprei dire cosa penso degli ultimi tre, ma con i miei film stabilisco sempre una relazione critica e un po’ nevrotica. Non li rivedo mai, a meno che non sia costretto a presentarli per una retrospettiva e quando accade, anche a trent’anni di distanza, trovo cose di cui sono molto orgoglioso e altre, la maggioranza, che non mi piacciono. Ma non ne parlo perché so che tutto, nel bene e nel male, mi appartiene profondamente. Senza agenti esterni, suggerimenti o imposizioni.  Riconosco i miei errori e non mi danno perché so che sono solo miei e accetto il prodotto finale perché il senno del poi è inutile e disonesto. Non ho mai pensato “avrei potuto fare questo” perché non avendolo fatto posso confrontarmi solo con ciò che resta, con ciò che c’è e non con le ipotesi». Rincorrendo ieri e interrogandosi su domani, in un felice incastro di memoria e autobiografia, commozione e ironia, rimpianti e speranze, Almodóvar ha messo al centro della trama un regista.

Fin troppo facile pensare che Antonio Banderas, in Dolor y Gloria, sia lei.

«È un film sull’amicizia, sul rapporto con i genitori, sull’infanzia, sulla creazione, sulla solitudine, sul desiderio ed è naturalmente un racconto che prende il via da una riflessione personale. Sono sempre stato preoccupato dal presente o dal futuro e non essendo mai stato un nostalgico, è difficile che per indole volga lo sguardo al passato. Per la prima volta dopo 15 anni sono tornato a farlo e credo dipenda dall’età. Al principio degli anni ’80, in piena movida madrilena, ero circondato da gente giorno e notte. Era la mia vita, la mia cultura, la mia scuola di formazione. Rispetto ad allora vivo molto più in disparte».

E in disparte si raggiunge un equilibrio?

«Ho più tempo per pensare a me stesso e per ricordare. Non si tratta di un’occasione per riassumere la vita che è passata, farci i conti o peggio pentirsene. Essendo ateo non conosco pentimento, castigo né senso di colpa».

A cosa serve allora il ricordo?

«A tenerti compagnia, a stare meno solo, ad accettare la vecchiaia che per Philip Roth, uno che la sapeva lunga, non era una malattia, ma un massacro».

In Dolor y Gloria chiedono a Banderas come si senta e lui risponde: «Vecchio». Si sente vecchio anche lei?

«Il personaggio del film si sente più vecchio di me, però anche se l’aspettativa di vita si è dilatata e a 69 anni non mi posso ancora considerare vecchio, di sicuro sono molto vicino a esserlo». (Ride)

Lei compirà 70 anni a settembre.

«Una cosa la so già: non sarò un buon vecchio. Sarò un vecchio arrabbiato, uno che da un lato capisce che la vita è così, che il corpo perde colpi, che il tempo impone pedaggi obbligati, e dall’altro si infuria. Non credendo in un dio non ho risolto i miei problemi con la morte e siccome la morte è lì, non si sposterà e non posso negarne l’esistenza, non accettarne il senso, non capirla e rifiutarne l’idea rappresenta un cruccio oggettivo».

Cosa si aspetta dal prossimo futuro?

«Spero di non avere più dolori di quel che già ho e di adeguarmi meglio e vivere con più leggerezza il non poter fare quel che facevo da giovane. Aspiro ad avere una certa dose di serenità utile a lottare contro tutto questo. Quel che è sicuro è che al momento, questa serenità, non ce l’ho». (Ancora sorrisi)

Sopperisce con l’ironia. L’aveva anche nei suoi primi Super 8?

«Immagino di sì, alcuni li ho anche conservati. Purtroppo o per fortuna non li vedrà nessuno. Ho proibito a mio fratello e ai miei collaboratori di mostrarli a chiunque». 

Che mestiere fa esattamente Pedro Almodóvar?

«Un mestiere che ha a che fare con l’incertezza, la parola che alla fine lo definisce meglio di tutte le altre. Un regista che pensa di avere sufficiente esperienza per dire “il mio prossimo film andrà bene” non lo capirò mai. Il prossimo film può andare sempre male e non dipende da quanti ne hai messi alle spalle o da quanto domini il linguaggio, ma da una serie di fattori insondabili».

Come ci si difende?

«Cercando di creare un’interazione vera e pulsante con le persone che hanno a che fare con il film. Maestranze, attori, produttore. Sono loro che possono cambiare la storia e portarti in una direzione che non immaginavi neanche. Parti, ma non sai dove arriverai. Truffaut diceva che le riprese equivalgono a salire su un treno senza freni. La funzione del regista è far sì che il convoglio non deragli. È sempre una grande avventura».

Che avventura è stata Dolor y Gloria?

«Un’avventura pericolosa, come molte altre. Nel film ci sono molte scelte rischiose che non ero sicuro funzionassero, ma di quel rischio ero pienamente cosciente».

Il regista Banderas, nel film, ha un grande futuro dietro le spalle. Dopo il successo del suo primo film, piegato dai dolori fisici, si lascia andare.

«L’incertezza sul suo stato fisico lo fa soffrire fino alla disperazione, non tanto per il dolore ma per la dipendenza che il cinema restituisce a chiunque lo faccia. Non poter più girare lo deprime e lo spinge a pensare. Quasi per caso gli arriva un acquerello tra le mani. È un disegno che parla di lui e che risale a 50 anni prima. Comincia a ricordare, i ricordi lo ispirano e gli viene voglia di raccontare una storia. Ricordare, per Banderas, rappresenta l’inizio della salvezza».

Prima di salvarsi però, Banderas comincerà a fumare regolarmente eroina e incontrerà un vecchio amore del passato.

«Hanno vissuto una relazione che per entrambi è stata non solo una storia d’amore, ma un rapporto fisico di intensità rarissima. Per Banderas, l’interruzione della storia con il suo compagno, la rinuncia forzata e dolorosa a una passione, fu come amputarsi un braccio, rinunciare a una parte del corpo, spezzarsi in due. Per l’altro al contrario significò mettere in piedi una famiglia, scoprirsi bisessuale, iniziare una vita lontana da lui. I due non si vedono da 32 anni e, quando si incontrano nuovamente, scoprono che i decenni hanno lavorato su di loro trasformandoli in persone diverse da quel che erano. L’amante di un tempo vorrebbe trascorrere la notte con lui, fare l’amore, regalarsi un’evasione prima di tornare alla routine, sognare che il tempo si possa fermare».

Invece?

«Invece il tempo non lo fermi. E tra i due, il più maturo è proprio Banderas. È lusingato, eccitato, grato, onorato, quasi commosso di essere desiderato ancora. Ma dice di no. Perché passare quella notte insieme al suo antico amante significherebbe riaprire le ferite che si è portato dietro per moltissimi anni. Nel rifiutare il déjà-vu si dimostra padrone di se stesso. Sa che quell’amore non deve ripetersi né continuare perché equivarrebbe a rendere artificioso qualcosa che invece è stato reale. È consapevole che quella storia è superata e che bisogna distanziarsene definitivamente. È una decisione molto importante che gli consente di scuotersi e gli dà forza per chiedere un appuntamento con un medico, riprendere la sua vita in mano, abbandonare l’eroina, rinascere».

In Dolor y Gloria lei evoca la movida senza mostrarla.

«Non ci sono immagini, ma solo memoria. Ho preferito parlarne in modo indiretto, per mezzo di un monologo recitato in un teatro. Amo usare il cinema o il teatro come elementi della narrazione, l’ho fatto spesso, in Tacchi a spillo e in tanti altri film. Il teatro occupa il ruolo del messaggero, è latore di tutti i segreti di cui Banderas non ha mai parlato, è l’intermediario tra il testo, la parola e il ricordo. Il monologo non mostra immagini della movida, ma parla di quegli anni in maniera molto intensa e vivida. La movida l’ho vissuta, so di cosa parlo».

Spieghi anche a noi.

«Tra il ’77 e l’84 in Spagna, prima che qualcuno ricordasse alla Spagna che apparteneva all’Europa e che la sua capitale doveva in qualche modo somigliare a una città europea, Madrid fu un luogo diverso da tutti gli altri. Con una notte interminabile e molte trasgressioni, inclusa ovviamente l’eroina».

Che ricordo ne ha?

«Ne avevo paura e non l’ho mai provata, benché fossi circondato da gente che la assumeva regolarmente. Qualcuno dice che l’eroina, in quegli anni, fu il nostro Vietnam. Ho visto tantissimi amici perdersi e tanti altri morire».

Cosa li spingeva ad assumerla?

«L’eroina era e seguita a essere pericolosissima, ma la droga all’epoca era un simbolo equivocato di libertà e di autonomia. I nostri miti erano Lou Reed o David Bowie, gente che prendeva moltissima droga e ai nostri occhi continuava a essere bellissima e quasi angelicata. I ragazzi non vedevano il lato terribile della vicenda e si facevano. Ma nonostante tutto, sono stato felice di aver partecipato a quel fermento e di essere stato giovane in quell’epoca. La libertà trascina sempre con sé il pericolo e io continuo a difendere quegli anni. Abbiamo avuto molti morti? Sì, li abbiamo avuti perché accade così: il pericolo fa parte della vita».

Come si difese dall’euforia di quel tempo?

«Avevo una vocazione molto concreta: volevo fare il regista. E non avevo nessuno che mi facilitasse il percorso. Sapevo che riuscire o meno dipendeva solo da me. Dal disordine mi ha salvato la vocazione».

E dai vizi?

«Ho provato la cocaina moltissime volte: nei giorni di festa la dividevo con gli amici, ma negli altri lavoravo e a dormire andavo sempre molto prima dei miei compagni. La mattina dovevo timbrare il cartellino, forzarmi, provare a mantenere la strada, svegliarmi».

All’epoca lei cantò anche un disco ¡Cómo está el servicio... de señoras! in coppia con Fabio McNamara.

«Ah, hombre... Sono anche stati anni molto divertenti. Conquistare un palco e cantare fu un sogno condiviso da molti. Lo facemmo e avvenne in maniera spettacolare, inebriante, con un contatto con il pubblico che nel mio lavoro, con i suoi tempi lunghi, non ho più ritrovato. Suonavamo un rock parodistico, ironizzando nei confronti di un genere per cui McNamara, almeno, aveva il physique du rôle che a me mancava. Io non avevo proprio i canoni del rocker e salivo sul palco vestito come una massaia, con un grembiule, le calze a rete e una collana di perle false. Eravamo in piena cultura punk e all’idea del tanto peggio tanto meglio, del rischio iconoclasta e del sovvertimento anche dialettico eravamo più che inclini. Le parole delle canzoni erano rudi e tanto più erano rudi, tanto più si rivelavano interessanti. In Voy a ser mamá dicevamo cose incredibili: “Sí, voy a ser mamá / Voy a tener un bebé / Lo vestiré de mujer / Lo incrustaré en la pared / Lo llamaré Lucjfer, le enseñaré a criticar / Le enseñaré a vivir de la prostitución / Le enseñaré a matar / Sí, voy a ser mamá”. Tutto questo nella tv pubblica, dove oggi sarebbe impossibile. L’esplosione di libertà era illimitata».

Nel film si parla anche di un bambino che di studiare in un collegio cattolico, proprio come lei, non vuole saperne.

«Come le dicevo prima, erano 15 anni che non mi guardavo indietro ed è avvenuto nuovamente perché in età matura ho avvertito una sensazione strana. La sensazione che c’era qualcosa della mia infanzia che non mi piaceva e nonostante avessi girato su quell’età due film di stampo opposto, La mala educación e Volver, non ci avevo riflettuto abbastanza».

Che ricordi ha della sua infanzia?

«A volte terribili. Come mostro in Dolor y Gloria, i bambini della Mancha passavano molto tempo con le donne di casa e quelle donne, magari lavando i panni in riva al fiume, parlavano impunemente di tutto senza tenere in considerazione non solo che noi ascoltavamo ma che un bambino, da grande, si sarebbe tramutato in narratore e avrebbe parlato di loro». (Sorriso sardonico)

Che storie raccontavano?

«Storie di incesto, di fantasmi, di suicidio. Il suicidio manchego aveva una liturgia atroce. La gente si buttava nei pozzi – uno dei peggiori finali che mi possano venire in mente – oppure si impiccava in soffitta. Le donne parlavano e la vita per me diventava un grande spettacolo anche del suo contrario, la morte. Nella Mancha esiste un culto, principalmente femminile, legato alla morte. Gli uomini ne sono esclusi e non si tratta solo di recarsi al cimitero o lucidare le tombe, ma di evocare continuamente il morto per proteggerlo nelle tenebre. Si accendono lumini con l’immagine del morto in una tazza per permettere al defunto di avere un po’ di luce e ritrovare la strada. In qualche modo il defunto non muore mai e si aspetta sempre il suo ritorno. All’epoca queste storie mi atterrivano, osservate con il filtro del tempo, quelle premure mi sembrano molto sane».

Torniamo all’educazione cattolica.

«Pessima, anche a livello didattico. Sicuramente non volevo diventare prete, ma avrei voluto imparare qualcosa, apprendere, sapere di più sui miei dubbi precoci legati all’esistenza di Dio e al senso della vita. Ma fu un’esperienza atroce. Fecero di me un bambino incolto e ignorante che passava il tempo cantando, con insegnanti del tutto inadeguati al compito. L’unico che sapesse qualcosa era quello di matematica, perché con i numeri improvvisare è impossibile».

Ha visto abusi in quegli anni?

«In collegio c’erano moltissimi abusi, soprattutto tra i bambini più piccoli. Ho memorie molto precise di questi abusi. Avevo 10 anni e con i miei coetanei passavo 24 ore al giorno. In camerata, di notte, ci raccontavamo le nostre esperienze. Mi ricordo di almeno venti bambini che vivevano nel collegio ed erano stati molestati. Non potevo fare a meno di immaginare concretamente il momento degli abusi. Ci provarono anche con me, ma riuscii sempre a scappare. C’era un prete che in cortile mi dava sempre la mano perché gliela baciassi. Io quella mano non l’ho mai baciata. Fuggivo. Fuggivo sempre e sotto i portici del chiostro, quando ero solo, non camminavo ma correvo. Avevamo paura».

I preti non temevano di essere scoperti?

«Questi bugiardi, questi banditi, non se ne preoccupavano. Le voci degli abusi però erano arrivate oltre le mura del collegio e i casi erano così concreti e così numerosi che la direzione dei salesiani non poté far altro che intervenire. E come intervennero? Cambiarono collegio ai sacerdoti mandandoli in un collegio di adolescenti».

Non furono puniti?

«Nessuna punizione. Nonostante la menzogna e l’abuso su un’età così indifesa e la devastazione imposta a chi si affaccia alla vita, sapevano che sarebbero stati coperti perché così accade da sempre: si coprono l’un l’altro. Lo facevano e continuano a farlo».

Non ne parlò con nessuno?

«Solo una volta, con il confessore. Mi chiese comprensione e mi disse di non parlarne con nessuno. Ma come si fa ad avere comprensione verso un adulto che si comporta così? Io non so se il Papa stia attuando una rivoluzione o se non stia facendo niente. Quello che so è che non sta facendo a sufficienza. Non solo contro gli abusi, ma anche con tutto ciò che ha a che fare con la sessualità dei preti. Al Papa non è mai passato per la testa di pensare al fatto che uomini e donne sono esseri umani e hanno desideri che non si possono tagliare come si taglia il ramo di un albero. Sono sicuro che se si concedesse l’addio al celibato, il 90 per cento degli abusi scomparirebbe. Non essendo cattolico non posso rimproverare l’inerzia al Papa, ma come cittadino posso farlo. E lo faccio. Tutti dicono che la Chiesa avanza, ma io non la vedo avanzare. E lo stesso vale per il ruolo delle donne che non possono dir messa né dare la comunione. In un momento storico in cui il femminismo rialza la testa, la Chiesa continua a considerare la donna un essere inferiore senza alcun diritto».

Ha mai parlato ai suoi genitori della sua sessualità?

«Mai. Nella mia famiglia non c’era posto per una conversazione di quel tipo. Immagino che conoscessero la mia sessualità, ma non ne discutevamo. Mio padre è morto nell’80, nella stessa stanza in cui era nato. Mia madre nel ’99. Ha recitato in molti miei film. Non considerava il cinema una cosa seria, ma sono stato contento di non aver la tipica madre dell’artista, pazza del lavoro di suo figlio. Mamma era pragmatica. A fine riprese mi diceva sempre: “Pedro, ma quando mi pagano?”».

Si è divertito in questi decenni. Ha provocato? Pensa di essere stato capito?

«Molto, anche quando non è avvenuto. Negli anni ’70 mi offrirono uno spot per una casa automobilistica. Mi attenni pedissequamente al copione e sulla macchina feci salire alcune ragazze. Lo spot era casto, ma la sensualità delle fanciulle, la loro recitazione, ai committenti sembrò scandalosa e provocatoria. Non lo era, era solo divertente, ma non osarono mandarlo in onda. Non credevo di provocare, ma involontariamente lo feci. Quello che allora non sapevo è che lo stesso testo, che parli di amore, di morte, di desiderio, di trasgressione o soltanto di automobili, si può declinare in molti modi».

Come definirebbe il saper declinare in modo diverso un tema?

«In un solo modo: essere regista. È la sua funzione, il suo obiettivo, il suo lusso».

·         Antonio Banderas.

Antonio Banderas: «L’infarto mi ha lasciato qualcosa che porto in scena». Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Raphael Abraham su Corriere.it. Senza cadere nell’esagerazione, si può dire che Antonio Banderas ha passato 37 anni della sua vita a prepararsi per il suo ultimo ruolo. In Dolor y gloria, l’attore spagnolo interpreta Salvador Mallo, un alter ego velatamente celato del suo caro amico e collaboratore di lunga data, il regista Pedro Almodóvar, con cui ha lavorato per la prima volta nel 1982, sul set di Labirinto di passioni. Quello realizzato da Almodóvar — che il 29 agosto scorso a Venezia è stato premiato con il Leone d’oro alla carriera — è un autoritratto incredibilmente onesto, talvolta perfino poco lusinghiero, offerto al pubblico tramite quella che probabilmente è la miglior interpretazione della carriera di Banderas e che gli è valsa innumerevoli complimenti dalla critica e il premio come miglior attore a Cannes lo scorso maggio. Ma in un certo senso la fase di preparazione di Banderas, anche se involontariamente, ha raggiunto un livello ancora più profondo. Il carattere cupo di “Salva” è dovuto in gran parte alle numerose malattie di cui il personaggio soffre (molte delle quali condivise anche da Almodóvar) e lo stesso Banderas, sebbene possa vantare una forma invidiabile per un uomo di 59 anni, non è estraneo ai problemi di salute, dopo l’infarto che lo ha colpito nel 2017. Quando lo incontriamo in un hotel nel cuore di Londra, parla con schiettezza dell’impatto che ha avuto sulla sua vita ma mentre lo fa, la sua parlata spesso nervosa e rapida rallenta e si addolcisce fino a diventare quasi un mormorio: «Dopo l’infarto mi è rimasto dentro qualcosa che prima non c’era. E noi attori siamo come animali, ci serviamo di qualsiasi cosa. Un pezzetto del mio cuore è in quel film». Ovviamente quel “qualcosa” è stato notato da Almodóvar, che è andato a cercare Banderas per questo ruolo, nonostante la loro ultima collaborazione — quella del 2011 in La pelle che abito — sia stata piuttosto burrascosa. In quel periodo l’attore era di ritorno da Hollywood, sicuro di grandi successi al botteghino come Desperado e La maschera di Zorro e impaziente di mostrare al regista ciò che aveva appreso dopo l’ultimo film ( Légami!) che i due avevano realizzato insieme 22 anni prima. «Voglio farti vedere cosa ho imparato», ha detto ad Almodóvar, «senti come modulo la voce adesso. Guarda come riesco a essere più rilassato di fronte alla telecamera». Ma il regista non è rimasto per niente impressionato. «Mi ha detto: “Così non mi servi a niente. Dove è finito il vero te?”. Gli ho risposto: “Questo è il nuovo me!”. Poi abbiamo iniziato a girare e la tensione era palpabile». Il film è stato un successo ma la chiamata per il ruolo in Dolor y gloria è stata comunque una sorpresa. «Non avrei mai pensato, soprattutto dopo quell’episodio, che mi contattasse per chiedermi di interpretarlo, ma è successo. Mi ha confidato: “In te c’è qualcosa di diverso dopo l’infarto e non voglio che tu lo nasconda. Perché io ti conosco, Antonio, e il tuo primo riflesso sarà quello di voler mostrare agli altri che stai bene, che sei in forma smagliante e che sei tornato. Non nasconderlo”». Ma Banderas sapeva già che questa volta avrebbe dovuto mettere l’ego da parte. Gli ha risposto che voleva ripartire da zero: «Facciamo finta che questo sia il mio primo film e che io e te non abbiamo mai lavorato insieme». Interpretare il proprio regista, imitando i suoi modi di fare, i suoi pregi e difetti, potrebbe sembrare rischioso. Invece Almodóvar è stato il primo a elogiare la performance di Banderas, definendola «la sua rinascita come attore e l’inizio di una nuova era... Questo personaggio si trova all’opposto rispetto a quelli che ha interpretato finora, sempre ricchi di virtù. Profondo, sottile, capace di ricreare una vasta gamma di piccoli gesti, è riuscito a portare in vita un personaggio davvero complicato». Il film non è stato facile neanche per Almodóvar che, attraverso “Salva”, stava cercando di affrontare e risolvere questioni dolorose legate soprattutto al rapporto con la madre defunta. «Sapevo che per Pedro era come una sorta di terapia», dichiara Banderas. «Mi accorgevo che si sentiva sempre più sollevato a mano a mano che andavamo avanti con le riprese perché attraverso il film stava dicendo cose che non era riuscito a dire per molto tempo. Lo conosco da quasi 40 anni, ma il nostro rapporto è sempre stato limitato dal suo carattere riservato. Perciò, quando ho ricevuto il copione, ne sono rimasto sorpreso. Ho scoperto cose riguardo al mio amico di cui non ero a conoscenza». Dolor y gloria parla innanzitutto di fare pace con il passato e, secondo Banderas, di «riconciliazione, richieste di perdono e seconde possibilità». C’è anche una cifra nostalgica, poiché “Salva”, attraverso l’eroina, rievoca ricordi della sua infanzia che, nonostante siano segnati da una grande povertà e dall’incombente presenza della Chiesa negli anni della dittatura franchista, sono comunque impregnati di desideri. In un momento storico in cui in Spagna (così come in altri Paesi) i populisti di destra invocano il ritorno a un passato glorioso, Banderas vede la nostalgia come un sentimento positivo o come un’abitudine pericolosa, al pari dell’eroina? «Entrambe le cose. Esiste un certo livello di xenofobia dovuto a una naturale paura verso ciò che non si conosce. Che cosa ci aspetta? Si ha un po’ paura di perdere la propria identità. Ci si sente sicuri solo in mezzo alla propria gente, ma se si pensa che questa gente non è più lì con noi, tutto inizia a diventare più sfocato. Chi siamo? Siamo ancora quelli che eravamo prima? Sono tutte domande che una nazione si pone, così come se le pone un individuo». Banderas stesso ha attraversato una fase di riflessione in cui si è lasciato il passato alle spalle. La «nuova era» a cui Almodóvar fa riferimento non è iniziata tutta d’un tratto, ma è il culmine di diversi anni di cambiamenti. Nel 2014, dopo 18 anni, si è separato dalla moglie Melanie Griffith, con cui ha una figlia, e nel 2015 ha lasciato Hollywood. La celebrità spagnola, che è nata a Malaga e ha proseguito la sua carriera tra Madrid e Los Angeles, oggi ha stranamente scelto di stabilirsi a Cobham, un paesino vicino a Londra, nel Surrey, con la compagna olandese. Ci spiega che Hollywood lo aveva reso «stanco» e «arrabbiato», frustrato da un sistema per lui ormai privo di possibilità, che lo vedeva solamente come un elegante latin lover. «Da professionista mi sentivo turbato da questa situazione, forse dovuta al fatto di lavorare in un luogo dove ero più svantaggiato e non venivo considerato per altri ruoli a causa del mio accento, per il mio essere ispanico... Pensavo avrei avuto la mia rivincita dicendo che ero pronto a fare qualsiasi cosa e che avrei guadagnato un mucchio di soldi. Poi quando è arrivato l’infarto ho pensato: ma cosa sto facendo? Devo dedicarmi solamente alle cose che amo, quelle che per me hanno un significato come attore. È così che è arrivato il ruolo di Picasso». L’attore si riferisce a Genius, la serie del National Geographic in cui lo scorso anno ha interpretato l’artista (anche lui malagueño). Suggerisco che se c’è qualcosa che sembra legare i personaggi di “Salva” e Picasso è la loro caparbietà e l’irremovibilità della loro visione artistica. Banderas concorda: «C’è molto di Picasso in Pedro. Ma non credo che lui abbia causato altrettanti danni collaterali. Picasso se ne è lasciati dietro parecchi, probabilmente senza nemmeno rendersene conto, ma era incredibilmente onesto. Al contrario di noi. Noi fingiamo tutti, anche se a volte per una buona causa. Non vogliamo ferire le persone che ci circondano, e quindi cerchiamo di far finta di nulla. Picasso non era così... per lui era tutto un: ti amo, ti amo, non ti amo più, via dalla mia vita, vado avanti. Era come un bulldozer. Io, quando ho avuto l’infarto, ho pensato: ma cosa sto facendo? Devo dedicarmi solamente alle cose che amo». La sola nota dolente di Dolor y gloria è che, nonostante sia il primo ruolo di Banderas al fianco di Penélope Cruz, i due attori non hanno nessuna scena comune. Lei interpreta sua madre nei vari flashback. Li vedremo mai insieme sullo schermo? «Entrambi diciamo sempre a Pedro che dovrebbe scrivere qualcosa per noi. E lui ogni volta ci risponde: sì, va bene, mmm, ok. Ma deve essere ispirato. Non è una persona che puoi convincere a fare qualcosa. Ha le sue idee e fa quello che gli viene in mente». Per Antonio Banderas invece si prospettano offerte per nuovi ruoli, più profondi e diversificati, e nuovi premi. Dopo aver ricevuto una nomination agli Emmy e una ai Golden Globe per la sua interpretazione in Genius l’anno scorso, quest’anno tenterà di conquistare il suo primo Oscar? «Non lo so. Non ci voglio neanche pensare. Perché l’aspettativa è la madre di tutte le frustrazioni. È meglio godersi semplicemente quello che si ha».

La vita — Antonio Banderas è nato a Malaga, in Spagna, nel 1960, figlio di un commissario di polizia e di un’insegnante. A Malaga studia teatro e a 19 anni si trasferisce a Madrid, per tentare la carriera di attore. Antonio Banderas con Nicole Kimpel, consulente finanziaria olandese: sono legati dal 2015, dopo il divorzio dell’attore dalla seconda moglie, Melanie Griffith.

La carriera — Debutta nel 1982 in Labirinto di passioni di Pedro Almodóvar e nei primi Anni 90 Hollywood si accorge di lui. Si trasferisce negli Stati Uniti dove conosce la futura moglie Melanie Griffith e dove la sua carriera decolla, con decine di film, molti dei quali con grande successo al botteghino, come Desperado del 1995 e La maschera di Zorro (1998).

Il ritorno — Nel 2015 lascia Hollywood per trasferirsi a Cobham, paesino vicino a Londra, con la nuova compagna, la consulente finanziaria olandese Nicole Kimpel.

·         Brigitte Bardot: la prima vera animalista.

Brigitte Bardot ha 85 anni: quel folle amore adulterino con Gainsbourg. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Giulia Cavaliere. I due furono protagonisti di un’infuocata storia sentimentale, come viene raccontato in «Scandale» di Jennifer Radulovic. Brigitte Bardot compie 85 anni, ancora una volta nella sua villa isolata e murata dagli occhi indiscreti di giornalisti e fotografi, invecchiando come solo i divi davvero grandi fanno: nel meritato, agognato silenzio. Intanto, la casa editrice indipendente paginauno, da Pordenone, regala all'Italia la più bella biografia mai uscita nel nostro Paese dedicata a quello che della Bardot fu grande amore, il più grande secondo quanto ebbe a dire lei in diverse occasioni: Serge Gainsbourg. A scriverla è Jennifer Radulović, con il titolo di «Scandale!», facendo un grande dono all'Italia che racconta la musica e che troppo poco si dedica e si è dedicata, pur immersa nell'infinita relazione con una grande canzone d'autore, a uno dei più grandi di tutti, dei fondamentali, in questo e in molti altri mondi musicali. Dimostrando grande attenzione e cura a questioni cruciali della storia artistica e intima di Gainsbourg  Radulović dedica un capitolo straordinario alla love story tra questi due grandi artisti-icona di una Francia perduta e, un po' più in là, essenze costitutive dell'idea stessa di grande Francia pop: sensuale, bellissima, ma pure storta, disordinata, drammatica, sexy. Serge e BB, che da bambina veniva invece chiamata Bri Bri, si conoscono nel 1959 sul set di Voulez-vous danser avec moi?, un film diretto da Michel Boisrond dove Serge è poco più di un figurante impacciato che non riesce a reggere il passo della Bardot accanto a lui e costringe il regista a rifare la scena più volte facendo cadere a terra, tremando per l'emozione, tutto ciò che il suo personaggio deve invece trattenere tra le mani. Come da copione lei non lo nota neppure, e tutta avvolta in storie di non amore,  gravidanze indesiderate, maltrattamenti e tradimenti, non si accorgerà di lui per tanto tempo. Nel 1962, convinta di fare il suo ingresso nel mondo della canzone, Bardot è costretta a ripetere l'incontro, in quei tre anni Gainsbourg si sta affermando progressivamente sempre di più nel panorama musicale e quindi è precettato per incontrare la diva nella sua abitazione insieme al futuro arrangiatore del primo album di BB. Per Serge la committenza è prestigiosa e per qualche anno Brigitte canterà diversi brani scritti da lui che, intanto, esploderà sul mercato discografico nel 1965. L'amore però non è ancora arrivato. Fa capolino solo nel 1967 quando, dopo la musica, Bardot sta per approdare in TV come mai fino a quel momento, con «Show Bardot», uno show televisivo, in programma per il 1968, interamente concepito intorno a lei. Gainsbourg viene considerato dalla produzione l'artista musicale più adatto per lo show, quello che meglio di tutti si sarebbe adattato e divertito a lavorare con la sua musica in un formato mediatico di quel tipo. Al 71 di avenue Paul Doumer, naturalmente a Parigi, dove BB vive, Gainsbourg è agitatissimo, lei pure lo è molto, tant'è che non riesce neppure a cantare mentre lui, seduto al piano, quasi non riesce a suonare. Chiede un po' di Champagne, specifica tre qualità desiderate ma in casa di lei c'è - oh che sfortuna - solo del Moët & Chandon. Glielo porge e lui promette di farle recapitare a casa una cassa del Dom Perignon, suo preferito: il giorno dopo a casa Bardot arriva una cassa dello Champagne migliore. Intanto, quella sera, Brigitte, che cercava disperatamente un amore vero, appassionato, con un uomo che la rispettasse e suscitasse in lei ammirazione e insieme desiderio, cerca le mani di Serge sotto il tavolo e, intrecciandole alle sue, apre definitivamente il fuoco. Brigitte è sposata con Gunter Sachs, un playboy miliardario conosciuto, manco a dirlo, a Saint Tropez, ma questo non sembra contare granché nella modulazione adulterina dei suoi desideri per il giovane cantante: «Fu un amore folle, da sogno, che resterà per sempre nei nostri ricordi e nella storia», racconterà Bardot di Gainsbourg. Il loro amore è un'esperienza sconvolgente, in modo diverso, per entrambi: da un lato c’è BB, attratta in modo incosciente e assoluto da questo piccolo intellettuale pop, che, come sottolinea anche Radulović, è insieme anticonformista, alternativo all'idea spenta del maschio à la Bardot, amante del lusso e della lussuria e, dall'altro, c'è un giovane uomo storicamente complessato e abituato a sentirsi un mostriciattolo, che si trova tra le braccia di una delle donne e delle immagini più desiderate e venerate del pianeta. Nello studio di registrazione, quando nel cuore della notte Serge e BB (a cui Serge, nel 1968, dedicherà la sua bellissima ode Initials BB che darà il titolo al suo ottavo LP), stanno registrando la prima versione di Je t'aime moi non plus, l'aria è elettrica e bollente, i due si accarezzano le mani cantando e non di rado spingono la curva erotica un po' più in alto, lasciandosi andare a effusioni spinte come in un preliminare di quel che la canzone più famosa di Serge racconta al mondo da decenni, cioè un amplesso: "io vado, vado e vengo tra i tuoi fianchi, vado e vengo tra i tuoi fianchi, e mi trattengo". La storia tra i due è destinata a durare ancora pochissimo dopo quella notte, il marito di lei, che già aveva ben intuito i dettagli extraconiugali, di fronte al pezzo più caldo e hard della canzone francese perde le staffe e minaccia lo scandalo: vuole rovinarla. Serge scrive a Philips, di suo pugno, di non pubblicare il pezzo (che poi inciderà con Jane Birkin). I due si incontrano per l'ultima volta nell'appartamento di lei, che se ne sta andando, in lacrime, da Parigi e da lui: è un incontro disperato che porterà a patti amorosi marchiati col sangue e all'ennesimo tentativo di suicidio della donna più amata e odiata di Francia. Dall'altra parte, nel suo appartamento, la leggenda racconta di Gainsbourg che, partita BB, immerso nello struggimento e nella tristezza, è circondato da immagini, piccole foto, dipinti e fotografie della donna: la sua dea, la sua Madonna.

Brigitte Bardot: «Io una pioniera, fui la prima vera animalista». Pubblicato venerdì, 16 agosto 2019 da Stefano Montefiori su Corriere.it. Brigitte Bardot gioca, in costume e pareo, con uno dei suoi cani nel giardino della casa di Saint-Tropez. È il 28 settembre 1974, il giorno del suo quarantesimo compleanno (foto Jack Garofalo/Parismatch/Scoop/agenzia Luigi Volpe)La prima volta che Brigitte Bardot si scoprì una sensibilità e soprattutto una determinazione animalista fu durante le riprese di quello che sarebbe rimasto il suo ultimo film, Colinot l’alzasottane. «Sul set c’era una capretta e la proprietaria mi ha detto “si sbrighi a finire la sua scena, perché domenica è la comunione di mio nipote e dobbiamo farla allo spiedo”. Ho subito comprato quella creatura e l’ho portata con me, attaccata a una corda, nell’hotel a cinque stelle». Nel 1953 Brigitte aveva mostrato l’ombelico sulla spiaggia di Cannes, durante il Festival, indossando il bikini appena inventato dall’ingegnere automobilistico Louis Réard. Fu il suo primo scandalo. Vent’anni dopo, la Bardot fece scalpore facendo entrare una capra nella sua camera d’albergo. «Quel giorno ho preso la decisione di smetterla con il cinema e di aiutare gli animali. Era il giugno 1973, avevo 38 anni». Brigitte Bardot in quell’occasione ha cambiato vita, e all’esistenza successiva è rimasta fedele. L’impegno animalista cominciato allora è rimasto assoluto, una missione che ha preso tutto il tempo e il denaro della diva del cinema francese. Anche la Madrague, la villa a Saint-Tropez sulla quale Gunter Sachs nel 1966 aveva lanciato in elicottero centinaia di rose, è stata donata alla Fondazione Brigitte Bardot per la tutela degli animali. Nel 1977 BB ha compiuto il primo viaggio per sensibilizzare il mondo alla causa animalista: sulla banchisa del Canada, nel golfo del Saint-Laurent, si è fatta fotografare accanto ai bébé foca destinati a essere massacrati con tre colpi di arpione. Dopo una lunga battaglia, la caccia agli esemplari nati da pochi giorni è stata finalmente proibita, una delle poche vittorie di BB. Oggi, a 84 anni, Brigitte Bardot continua la sua lotta. L’ultima presa di posizione in questi giorni, contro la «Festa del cane» di Barjols, poco lontano dalla Mandrague: in programma esibizioni di caccia al cervo con i cani. «Abito nel Var, e il nostro dipartimento già non ha più uccelli, fagiani, lepri, tutti uccisi dai cacciatori. Ci mancava questa pagliacciata. Barjols ha altre cose da proporre che non le pratiche vergognose che ormai interessano solo a qualche scemo». BB non è cambiata, i toni sprezzanti sono sempre gli stessi. Quel che è mutato è l’atteggiamento della società nei suoi confronti. Negli anni Settanta e Ottanta le immagini dei piccoli di foca suscitavano emozione, è vero, che però durava lo spazio del servizio al telegiornale: per il resto il benessere degli animali era una causa tutto sommato marginale. Oggi l’atmosfera è diversa. BB racconta a 7 come si sente adesso che la lotta animalista è diventata popolare, filosofi come Alain Finkielkraut o Élisabeth de Fontenay si dedicano con passione a questo tema, i vegani organizzano manifestazioni, e la tutela degli animali è al centro di una preoccupazione molto diffusa. 

Pensa di avere vinto la battaglia delle idee? Si sente una pioniera? È fiera di quel che ha fatto finora? 

«Quarantasei anni fa ho donato la mia vita agli animali. All’inizio mi ridicolizzavano. Mi sono tante volte lamentata delle ingiustizie tra gli uomini, ma per me comunque non erano niente rispetto alle ingiustizie che gli uomini fanno subire agli animali. Non mi sono arresa. Nonostante tutti gli ostacoli, ho avuto il coraggio di continuare quel che avevo cominciato. Sì, mi sento una pioniera perché sono la prima ad avere denunciato i maltrattamenti sugli animali. Ho vinto davvero solo una battaglia: quella delle foche, dopo trent’anni di attesa. Ma ho influenzato l’opinione pubblica, e questo è molto importante. Quindi sono fiera di ciò che ho ottenuto, anche se c’è ancora moltissimo da fare».

Le giovani generazioni sono molto sensibili a questo tema. La ragazzina svedese Greta Thunberg, che oltre a militare per l’ambiente è vegana e invoca la fine degli allevamenti industriali, suscita a sua volta molte critiche. Che cosa pensa BB di Greta? 

«Il mio sostegno e ringraziamento va a tutti gli attivisti, giovani o anziani. Greta Thunberg è una figura di punta, e offre un superbo esempio del rispetto che dobbiamo agli animali in tutti gli ambiti. Il disinteresse verso gli animali è la vergogna della nostra società, la prova della sua disumanità».

Secondo la visione di Cartesio, che ha plasmato a lungo l’atteggiamento della civiltà occidentale verso gli animali, essi non hanno coscienza, sono solo una sorta di «macchina animata». Ma quell’idea è messa in discussione dalle scoperte scientifiche e dagli studi etologici. Alcune associazioni come L214 non esitano a filmare quel che succede nei mattatoi per mostrare a tutti la sofferenza degli animali, e quei video stanno spostando l’opinione pubblica sulla questione posta da Jeremy Bentham: «Il punto non è: possono ragionare, possono parlare? Ma, possono soffrire?».

Che cosa pensa quindi dei discussi metodi di L214? 

«I militanti di L214 sono formidabili, coraggiosi, unici. Grazie a loro le immagini insostenibili dei mattatoi hanno disgustato l’opinione pubblica, che ignorava l’inferno patito dagli animali in queste fabbriche di agonia abietta che sono i mattatoi». 

Gli anti-specisti rifiutano l’esistenza di una gerarchia tra le specie. Lei si definisce come tale? 

«Penso che all’inizio l’uomo, l’animale, le piante, gli alberi, si trovassero in una condizione di uguaglianza. Certe specie tra le quali quella umana e certi animali si sono evoluti più rapidamente degli altri ma restano legati a una catena ecologica che dà equilibrio alla nostra presenza sulla Terra. Dunque non c’è una gerarchia, per me. Ma esiste un predominio dell’umano che, in virtù della sua supremazia, si è attribuito il diritto di vita e soprattutto di morte su tutti gli esseri più deboli. Non c’è alcun predatore che possa avere ragione della demografia vertiginosa degli umani, che toglie equilibrio al sistema ecologico destinato così al crollo. Siamo troppo numerosi su questo pianeta che soffoca ed è moribondo. Gli animali hanno la saggezza di smettere di riprodursi quando sentono che la loro esistenza è minacciata».

Nel mondo dei militanti in difesa degli animali, alcuni sono «abolizionisti», ovvero auspicano la fine dell’allevamento e del consumo di carne, mentre altri sono «welfaristi», quindi accettano la natura carnivora dell’uomo ma hanno comunque a cuore il benessere degli animali prima e durante l’abbattimento. Lei come si pone?

«In futuro, se un futuro ci sarà, penso che gli uomini giudicheranno i carnivori attuali come noi giudichiamo i cannibali di un tempo. Uccidere, sgozzare in catena di montaggio milioni di animali per nutrirsi della loro carne, dello loro sofferenze, del loro sangue, del loro terrore e della loro disperazione, è una crudeltà inimmaginabile. Sono vegetariana da 40 anni e adesso ne ho 84. Sto benissimo. Spero in una chiusura definitiva dei mattatoi, un giorno. Sono stabilimenti di sterminio, di sofferenza di esseri innocenti». 

Lei è vegana?

«No, mangio uova, formaggio, miele e burro. Non sono vegana, sono vegetariana». Nel luglio 2018 il presidente Emmanuel Macron e la première dame Brigitte, assieme al cane Nemo, hanno ricevuto Brigitte Bardot all’Eliseo. «So che mi sgriderà», esordì Macron. «No, perché non mi ha ancora promesso niente», rispose BB. 

Un anno dopo, come vanno i rapporti con il presidente? Le sue richieste sono state ascoltate?

«La prego, non mi parli mai più di Macron né di altri presidenti. Sono nauseata».

Poca fiducia negli uomini di governo, ma BB non rinuncia a sperare. 

«Sono fatalista. La nostra sopravvivenza è nelle mani di coloro che dirigono il mondo e ci portano verso il peggio. Ma credo anche nei miracoli, che mi faranno vincere finalmente una battaglia decisiva. Chi vivrà vedrà. Baci, baci a tutti».

BB negli Anni Ottanta, mentre accarezza un cavallo: l’attrice ha fondato a La Mare Auzou negli Anni ‘90 un rifugio per animali, che salva equini maltrattati.

Vita — È nata il 28 settembre 1934 a Parigi. Il padre Louis “Pilou” Bardot era un noto industriale. Ha iniziato a studiare danza classica da bambina e a 15 anni si è iscritta al Conservatorio. Nel 1952 ha sposato il regista Roger Vadim . I due hanno divorziato nel 1957. Nel 1959 ha sposato l’attore Jacques Charrier da cui ha avuto il suo unico figlio, Nicolas-Jacques. Si è risposata altre due volte: nel 1966 con il playboy tedesco Gunter Sachs e nel 1992 con il politico Bernard d’Ormale.

Carriera — Ha debuttato al cinema nel 1952 con Le Trou Normand . In breve tempo diventa una delle attrici europee più note anche negli Stati Uniti. Negli Anni 60 ha iniziato la carriera di cantante. Ha annunciato il suo ritiro dalle scene nel 1974, poco prima del suo quarantesimo compleanno.

·         Delon, vittima di una cultura del linciaggio.

Alain Delon colpito da emorragia cerebrale: "Condizioni stabilizzate". A distanza di quasi un mese dall'evento, la famiglia di Alain Delon riferisce di un serio malore cardio-vascolare con emorragia cerebrale per l'attore, che ora "riposa" in una clinica svizzera. Francesca Galici, Giovedì 08/08/2019, su Il Giornale. Qualche settimana fa Alain Delon è stato colpito da un infarto e da una emorragia cerebrale. Lo riferiscono solo ora i familiari dell'attore. Lo scorso 14 giugno erano giunte le prime notizie di un malore per l'anziano attore, che venne ricoverato d'urgenza presso l'ospedale americano di Neuilly, alle porte di Parigi. Il peggio sembrava essere scongiurato per l'artista, che solo pochi giorni prima era stato premiato con la Palma d'oro alla carriera al Festival del cinema di Cannes.

Il fatto ha destato grande preoccupazione tra i numerosi fan dell'attore e i familiari ma i bollettini medici diramati nei giorni successivi avevano rassicurato. L'attore era cosciente e in buona salute ma da quel momento di lui non si è avuta più nessuna notizia. Almeno fino a oggi, quando la famiglia ha ritenuto opportuno aggiornare sulle reali condizioni dell'attore. Stando a quanto riporta la stampa straniera, l'attore avrebbe avuto una complicazione la notte tra il 10 e l'11 luglio a causa di una emorragia cerebrale. Per i successivi 20 giorni Alain Delon è stato ricoverato presso il reparto di terapia intensiva prima di essere trasferito in una clinica svizzera, accudito dai suoi parenti più stretti. Le sue condizioni restano preoccupanti ma l'evoluzione clinica sembra essere incoraggiante, stando a quando riportano le fonti vicine al celebre attore. A parlare con la stampa è stato il figlio Anthony Delon, che ha riferito all'agenzia AFP l'attuale situazione di suo padre. Stando a quanto viene riportato, le funzioni di Alain Delon sarebbero perfette “e le sue condizioni stabilizzate”. “Mio padre ha avuto un problema cardio-vascolare e una leggera emorragia cerebrale” ha detto Anthony Delon. L'evoluzione della situazione clinica di Alain Delon è seguita da vicino dalla figlia dell'attore, che ora risiede nel Paese elvetico.

«Questo premio alla carriera è come la fine della mia vita». Pubblicato domenica, 19 maggio 2019 da Valerio Cappelli su Corriere.it. Cannes Oui, je suis Alain Delon. Ovazioni al suo ingresso e durante la cerimonia di consegna della Palma alla carriera. E il divo alla fine crolla tra le lacrime: «Penso a questo come alla fine della mia carriera, alla fine della mia vita». Al braccio della figlia Anouchka che gli ha consegnato il premio d’oro d’onore, l’83 enne attore ha sussurrato quasi invocandole «penso a Mireille e a Romy», riferendosi ai due più grandi amori, Darc e Schneider, tra i tanti della sua esistenza. Prima di ricevere l’onorificenza, il grande attore parla, cita Romy Schneider e Monica Vitti, ricorda, si commuove. Come quando si rivede in una scena di «Rocco e i suoi fratelli» insieme con Annie Girardot che non c’è più, e piange. Non sarà l’unica volta. «Il mio incontro con Luchino Visconti? Semplice, mi telefonò un agente di cinema, non il mio perché non ne ho mai avuti, e l’ho visto a Londra mentre allestiva “Don Carlo”. Aveva una disciplina ferrea». Aspetto invidiabile per la sua età, l’attore si volta verso lo schermo mentre le immagini al tempo della sua bellezza insolente ritmano le sue parole. Ecco «Delitto in pieno sole» di René Clement. «È un film del 1959, molti di voi non erano ancora nati, come fate a guardarmi come sono ora?». Il carisma, quello c’è tutto. Non vuole parlare delle femministe che lo hanno accusato di machismo, contrarie al premio. Lui ha fatto notare al quotidiano «Le Figaro» che sono persone in cerca di visibilità: «Chi sono, e perché ora? Non si può contestare una carriera». La Palma è un risarcimento dal Festival del suo Paese, che mai lo ha premiato: «Quando nel ’76 ero in concorso con “Mr. Klein” e non abbiamo vinto nulla, l’ho vissuta come una ingiustizia». Era gollista, il regista Losey era comunista, si parla di collaborazionismo a Parigi durante l’occupazione: «Eppure l’ho prodotto io». Ci fu lo sgarbo del mancato invito, a lui e al suo compagno d’avventure Jean-Paul Belmondo, per la celebrazione dei 50 anni della rassegna. «Io ero il primo violino e sono stato diretto da Karajan, questo riconoscimento non è per me ma per i grandi registi con cui ho lavorato. Altrimenti non lo avrei mai ritirato». Gli inizi: «Ero un ragazzino annoiato, non conoscevo nessuno, la mia carriera d’attore è stata fortuita. Tornato in Francia dalla guerra d’Indocina, non sapevo cosa fare. Mi fu subito naturale mettermi davanti alla macchina da presa. I registi mi dicevano: non recitare, parlami e ascoltami come stai facendo, sii te stesso. Non ho mai recitato i miei ruoli: li ho vissuti». Hollywood: «Non è la mia tazza di tè, dopo due anni volevo tornare a Parigi». La Nouvelle vague: «Mi aveva messo al bando, ma io sono andato avanti lo stesso. Molti anni dopo, nel ’90, mi prese Godard». Lui produttore: «L’unico modo per fare quello che volevo. Dovevo essere il boss. Ho prodotto 25 film». Il leit motiv sono le donne, ne parla anche se non sollecitato: «Sono le donne che mi hanno scoperto, non sarei qui senza di loro».

Cannes, il giorno di Alain Delon: "La Palma d'Oro alla carriera non è per me ma per chi mi ha diretto". Chiara Ugolini il 19 maggio 2019 su La Repubblica. L'attore, che stasera verrà premiato con il prestigioso riconoscimento, ha raccontato la sua vita in un rendez-vous fitto di ricordi e aneddoti. I registi che lo hanno portato sul set, le donne amate ("non sarei come sono senza di loro") ma nessuna polemica legata alle dichiarazioni che lo hanno additato come "razzista, omofobo e misogino". Poi, il ricordo commosso per Annie Girardot. Il rendez-vous con Alain Delon, a cui questa sera verrà consegnata la Palma d'Oro d'onore, si svolge come una rilassata intervista fatta di ricordi, aneddoti e un po' di commozione. L'inizio tutto italiano, la breve parentesi hollywoodiana ("sono tornato, mi mancava troppo Parigi"), la scelta di diventare produttore di se stesso ("non sapendo scrivere era l'unico modo per aver il controllo sui miei progetti") ma soprattutto i registi, i film, le donne che ha amato. Niente domande della stampa. Dopo le polemiche dei giorni scorsi sollevate dalle femministe americane che mettevano in dubbio l'opportunità di un riconoscimento a un uomo che, a detta loro, è "razzista, omofobo e misogino", una petizione aveva chiesto al direttore del festival di non consegnare il premio ma Frémaux fin dal primo giorno aveva difeso la sua scelta: "Non gli diamo il Nobel per la pace, premiamo il suo percorso artistico". E la sua carriera, i cento e più film che ha fatto dalla fine degli anni Cinquanta in poi, è al centro di tutto l'incontro scandito dalle sequenze dei suo film più celebri. "L'espressione mostro sacro è creata per lui, mettete via i telefoni perché voglio un vero applauso" dice Frémaux al pubblico dei festivalieri tra i quali si mescolano i cronisti. "Alain Delon è fedele a Cannes, come Cannes è fedele a lui" conclude il direttore prima di lasciagli la scena. In realtà il rapporto nel tempo è stato tormentato (alcuni premi non ricevuti, l'esitazione ad accettare questo riconoscimento) ma tutto si stempera nel tempo: "La prima volta che sono venuto a Cannes non facevo ancora il cinema, non conoscevo nessuno, ero appena stato congedato dall'esercito dove ero fuggito a 17 anni, tornato dall'Indocina. Una ragazza che mi amava mi ha proposto: 'Andiamo a Cannes' e io le ho chiesto: 'Che succede a Cannes?'. D'altronde chi sono diventato lo devo tutto alle donne, a quelle che mi hanno amato e ce ne sono state parecchie, ero un bel tipo sapete - scherza - mi cercavano e io non ho mai chiamato la polizia. Se non avessi incontrato le donne che ho incontrato sarei morto e se non fosse per i maestri che ho avuto non sarei qui. Ho accettato questo premio, dopo tanta esitazione, per rendere omaggio ai miei registi, Visconti, Clément, Melville che oggi non ci sono più". Non solo le donne che lo amavano lo hanno aiutato. "Inizialmente in Delitto in pieno sole io non avrei dovuto interpretare Tony Ripley, i produttori e anche il regista avevano un'altra idea. Durante una serata a casa di Clément sugli Champs Elysées discutevamo con i produttori perché io continuavo a dire che io non ero giusto per il ruolo che mi volevano dare e che dovevo fare il protagonista, siamo andati avanti un po' così con loro che mi dicevano: non sei nessuno, non hai fatto niente, chi ti credi di essere e io che insistevo e poi il regista che mi metteva in guardia: non si può parlare così ai produttori del film. Finché ad un certo punto nel silenzio generale dalla cucina la moglie, che Clément amava molto e stimava, grida: 'René cherie, le petit ai raison. René caro il ragazzino ha ragione'. Così ho avuto la parte". Grazie a quel ruolo è arrivato il film che lo ha consacrato Rocco e i suoi fratelli di Visconti perché il regista italiano lo aveva visto nel film di Clément ed era sicuro che solo lui potesse interpretarlo. Durante l'incontro si proietta la celebre sequenza sui tetti del Duomo di Milano quando Rocco dice a Nadia (Annie Girardot) che per amore del fratello non devono più vedersi, appena si riaccendono le luci Delon è commosso: "Annie è magnifica, mi fa male vedere questa scena ora che non c'è più". Probabilmente per questo non si proiettano immagini de La piscina, il film che ha segnato l'inizio della storia d'amore con Romy Schneider. "Al tempo de La piscina io avevo un discreto potere decisionale, quando fu il momento di scegliere con chi avrei diviso la scena io dissi che volevo Romy Schneider - ricorda - all'epoca lei era nell'oblio, non la chiamava più nessuno. I produttori volevano Angie Dickison o Monica Vitti ma io dissi che se non avessero dato il ruolo a Romy non avrei fatto il film. Il film fu un trionfo e nessuno dopo si ricordò che non la volevano, da quel momento per lei iniziò una seconda carriera". Ma il momento più importante per Alain Delon, quello che secondo lui ha influenzato tutta la sua carriera è stato il primo giorno sul set con René Clément. "Prima delle riprese mi ha preso da parte e mi ha detto: 'Alain tu conosci il personaggio, adesso non devi far altro di prendere questo spazio e farlo tuo. Questa stanza non è una scenografia è la tua stanza, devi solo guardare come guardi tu, parlare come parli tu e ascoltare come ascolti tu. Non recitare, sii te stesso, vivi. Questo ho fatto tutta la vita, io nei miei film non ho mai recitato".

Delon, vittima di una cultura del linciaggio. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Pierluigi Battista su Corriere.it. Siamo a Cannes e sembra una parodia comica di un film catalogato come «serio», come la trasposizione da Parigi a Zagarolo che Franchi e Ingrassia proposero del famoso tango di Bertolucci. Ma la damnatio di Alain Delon decretata da un manipolo fanatico non è comico, non è la parodia grottesca di cose molto serie come il «sessismo» e il «razzismo». No, è tragicamente vero. È vero che il premio alla carriera che Cannes assegnerà a un’icona storica del cinema viene contestato. È vero che il nome di Alain Delon viene ostracizzato. È vero che di Alain Delon si chiede la messa al bando non per quello che ha fatto, ma per quello che ha detto, ritenuto sconveniente dalle vestali del pensiero censurato. Fosse una manifestazione di solitaria intolleranza, la bizzarria di menti eccitate, davvero non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Ma invece l’ostracismo contro Alain Delon è solo l’ultimo anello di una catena di intolleranze, di intimidazioni, di linciaggi di immagine che sta sconvolgendo da anni il mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo. Chiudono mostre d’arte, bandiscono i classici della letteratura dalle università, impediscono l’uscita del film di Woody Allen. Ora si gettano su Delon, senza timore del ridicolo perché sanno che ormai il messaggio intimidatorio è arrivato: chiunque può essere messo al rogo (simbolico, ancora, e per fortuna), la caccia alle streghe può partire in ogni momento, anche approfittando di un festival internazionale. Ma bisogna insistere, pensare che premiare Delon per la sua carriera è cosa giusta e sacrosanta e che nessuno strepito potrà occultare questa semplice verità. Bisogna avere anche un po’ pena per le menti sovreccitate dei nuovi paladini della censura e del silenzio intimorito. E neanche questa è una parodia.

Delon, un caso a Cannes «Non merita la Palma è maschilista e omofobo». Pubblicato martedì, 14 maggio 2019 da Corriere.it. Sessista, razzista, misogino… Il caso Delon cresce, monta. E azzanna gli zombie di Jarmusch, oscurando l’inaugurazione. Le femministe contestano Alain Delon per le sue idee e per come le esprime. L’icona del cinema francese riceverà la Palma d’oro alla carriera e la polvere delle polemiche ricopre il tappeto rosso. Non è bastata la difesa d’ufficio del delegato del Festival Thierry Frémaux: «Non gli diamo il Nobel per la pace ma un premio alla carriera». Ha aggiunto che Alain Delon, 83 anni, in sostanza va capito, appartiene a un’altra epoca, che non è quella del dopo Weinstein e del politically correct. L’attore ieri ha rilasciato un’intervista al quotidiano Nice Matin, eludendo la querelle, smorzando i toni, ma rievocando il suo tumultuoso rapporto con Cannes, che mai lo ha premiato. Ventidue anni fa non fu invitato all’anniversario dei 25 anni del Festival, e insieme col suo amico Jean- Paul Belmondo lo boicottò. Si adontò perché nel 1984 non fu selezionato il suo film Notre Histoire, girato da Bertrand Blier (vinse il César come migliore attore). Questa la considera una riconciliazione, ma fonti a lui vicine, al di là delle dichiarazioni dovute («la prima volta al Festival fu nel 1961 con Che gioia vivere di René Clement un grande onore») dicono che ha a lungo esitato se ricevere o meno il riconoscimento. Tutto è cominciato con la presa di posizione dell’associazione femminista americana Women and Hollywood, per bocca della presidente Melissa Silverstein che ha chiesto al Festival di ritirare la Palma a Delon, raccogliendo 15 mila firme in una petizione, in costante aumento. Colui che nell’intervista al quotidiano della Costa Azzurra è «Il mostro sacro del cinema», per il movimento femminista sembra solo un mostro, dai «valori aberranti». Da «faccia d’angelo», come veniva chiamato per la sua bellezza insolente, a faccia di bronzo (stando alle accuse): «Cannes manda un segnale negativo alle donne e alle vittime di violenza; siamo deluse». All’attore rimproverano di essersi espresso contro le adozioni da parte delle coppie omosessuali, e di essere un simpatizzante della destra politica. In effetti l’attore è amico di Jean-Marie Le Pen, che conobbe al tempo del servizio militare durante la guerra d’Indocina. Ma non si può dire altrettanto che abbia in simpatia la figlia Marine, che non votò al recente ballottaggio. A Nice Matin Delon ha detto: «Ho avuto una carriera impensabile, in un’altra epoca, altri tempi… Ho lavorato con Clément, Visconti, Losey». Memorie: «Oggi siamo rimasti in tre della cosiddetta banda dei cinque: Trintignant, Belmondo e il sottoscritto. Cassel e Brialy se ne sono andati. Il cinema mi ha indicato una strada e salvato dalla morte». I travagli familiari, la famiglia adottiva, il collegio, la gioventù ribelle…Ha sempre sbandierato il suo amore per le donne: «Non ho chiesto nulla e mi è capitato tutto. Esisto solo per loro, e a loro devo tutto», ha detto in tv ospite di Fabio Fazio. Aggiungendo con ironia che da giovane fu molestato da tante ragazze. Le femministe gli rinfacciano i toni machisti, come uno di quei boxeur che ha interpretato. Scoperto in Italia negli Anni 60 da Luchino Visconti, a tratti parla in terza persona. Si è chiuso nella nostalgia e nell’orgoglio: «Ho fatto quello che volevo, quando volevo, con chi volevo. Sono rivolto più al passato perché ne ho avuto uno straordinario. Sono un vincente. Ho interpretato i ruoli che mi hanno proposto e non sono stato male. Alla fine nella maggior parte dei miei film muoio, e il mio pubblico si sorprende. Ma per essere un eroe devi morire».

Alessandra Magliaro e Francesco Gallo per l'ANSA il 14 maggio 2019. Non sono gli zombie di Jim Jarmusch a turbare la vigilia del festival di Cannes che comincia domani sera con I morti non muoiono, l'horror comedy con Bill Murray, Adam Driver (assente), Selena Gomez, Cloe Sevigny ma le femministe che hanno addirittura lanciato una petizione per boicottare la Palma d'oro onoraria al mito del cinema francese Alain Delon guidata da avvocatesse in prima fila per i diritti delle donne come Melissa Silverstein, fondatrice di Women and Hollywood. "Le contestazioni a Delon? Lo premiamo con la Palma d'oro alla carriera non con il Nobel per la pace" ha detto con convinzione il delegato generale del festival di Cannes Thierry Fremaux incontrando la stampa internazionale per dare il via alla 72/ma edizione. Il riconoscimento a Delon è stato contestato perchè il controverso attore ha ammesso di aver avuto atteggiamenti violenti con le donne. Ma non solo, perché si è anche espresso contro l'adozione da genitori dello stesso sesso ed è notoriamente vicino alla destra, alle posizioni del Fronte Nazionale di Le Pen. "Nessuno è perfetto - ha commentato sconsolato Fremaux - ma le contraddizioni sono nella storia di ciascuno. Posso non essere d'accordo con quello che ha detto in passato, ma dobbiamo anche contestualizzarlo: Delon appartiene ad un'altra generazione e a ben dire il Fronte di Le Pen rappresenta il 20 per cento dei francesi. Noi qui premiamo l'attore, l'artista che ha incantato Visconti e ci ha fatto sognare al cinema con Il Gattopardo". Insomma, anche se ben mascherata, una certa preoccupazione c'è. Del resto Cannes è sotto la lente d'ingrandimento anche per il gender gap: lo scorso anno la disuguaglianza negli alti incarichi dell'organizzazione del festival e nella selezione è stata presa di mira con clamore dal gruppo 50/50 2020 che auspica la parità entro il 2020. Fremaux ha ricordato "l'impegno firmato un anno fa" e la strada senza ritorno imboccata per avere più donne nei centri di potere del festival. Con appena quattro film in competizione? "Sono 15 anzi 20 se contiamo i cortometraggi. Del resto la sottorappresentazione delle donne registe della industria cinematografica è un problema più ampio che non dovrebbe essere discusso solo una volta all'anno durante il festival. Siamo in cammino, non siamo arrivati ma nonostante ciò posso dire che stiamo migliorando anzi stiamo provando ad essere perfetti: è un inizio di cambiamento, siamo lo specchio di quanto accade nella società". L'anima politica del festival è forte, ha ricordato Fremaux, citando i nuovi film di Loach, Dardenne, Les Miserable di Ladj Ly, Bacurau di Mendoncha figlio e Juliano Dornelles, per citarne alcuni "ma questo in equilibrio con l'anima romantica della selezione". Se lo scorso anno ha regnato la polemica Netflix, quest'anno, ancora tenendo duro con una selezione che non li ha compresi, il tema sembra essere, almeno alla vigilia meno appetibile, superato dai malumori per gli incastri punitivi delle proiezioni per la stampa tutte embargate in contemporanea con quelle ufficiali. Cannes ribadisce di voler essere al centro del cinema dal 14 al 25 maggio esaltando le première con il cast e l'eco attrattiva del tappeto rosso, la stampa si adegui. Per la sicurezza esagera: con la polizia a cavallo di Seine-et-Marne ed è anche un onore, una missione prestigiosa sottolinea il brigadiere capo Jean Emanuel Cotelle, capo dell'Unità equestre dipartimentale della polizia nazionale che con il suo assistente hanno raggiunto la cittadina con i loro cavalli Aldo e Titan per partecipare alla messa in sicurezza del Festival di Cannes. Per dodici giorni, dal 14 al 25 maggio, per questa 72esima edizione, la popolazione della città passerà da 75.000 a più di 200.000 persone. Garantire la sicurezza è diventata una priorità. Quasi 700 agenti di polizia sono mobilitati poi attorno all'evento e 639 telecamere puntate sulla città. Nelle vicinanze del palazzo, le guardie di sicurezza filtreranno i passaggi ai portici. Enormi fioriere in cemento antisfondamento , infine, già come l'anno scorso circoscrivono la Croisette. Stessa protezione anche dalla parte del mare: nessuna barca può avvicinarsi al palazzo.

Maurizio Acerbi per “il Giornale” il 4 agosto 2019. Ti guardo dormire. Sono accanto a te, mia Puppelé, Bambolina. E penso che sei bella, e che forse non lo sei mai stata così tanto. Per la prima volta nella mia vita e nella tua ti vedo serena, in pace. Come sei calma, come sei bella. Sembra che una mano abbia dolcemente cancellato dal tuo viso tutte le angosce. Ti guardo dormire. Penso a te, a me, a noi. Di che cosa sono colpevole? Ci si pone una domanda simile davanti una donna che si è amata e che si ama ancora. Arrivavi da Vienna e ti aspettavo all' aeroporto di Parigi con un mazzo di fiori che non sapevo come tenere. Mi sono perdutamente innamorato di te. E tu ti sei innamorata di me. Mio Dio, come eravamo giovani, e come siamo stati felici. Poi la nostra vita, che non riguarda nessuno se non noi, ci ha separati. Mia Puppelé, ti guardo ancora e ancora. Voglio divorarti di sguardi. Riposati. Sono qui, vicino. Ho imparato un po' di tedesco, grazie a te. Ich liebe dich. Ti amo. Ti amo, mia Puppelé. Ti dico addio, il più lungo degli addii. Non verrò in chiesa né al cimitero. Verrò a trovarti il giorno dopo, e noi saremo soli». È il 29 maggio 1982 e Alain Delon scrive l' unica lettera della sua vita («non scrivo lettere, solo biglietti»). Una straziante dichiarazione d' amore per la sua Romy Schneider, trovata morta a letto, con una penna in mano e una lettera scritta a metà, quella mattina, nell' appartamento parigino del produttore Petin. Delon mantiene la promessa e non va al funerale, ma si sussurra che le abbia scattato tre foto, una delle quali sempre presente nel taschino della sua giacca. In un primo momento, si pensa al suicidio della diva. Troppe ne ha passate quell' attrice dal destino artistico segnato (era figlia della tedesca Magda Schneider e dell' austriaco Wolf Albach-Retty, entrambi attori), nata nella Vienna post-Anschluss. L' anno prima, il 5 luglio 1981, il figlio quattordicenne David si era infilzato mortalmente mentre tentava di scavalcare il cancello dei nonni. Il primo marito, Harry Meyen, si era impiccato, nel '79, con una sciarpa. In realtà, l' autopsia dimostrerà che la morte è figlia di un fisico ormai provato dall'alcol, dall'asportazione di un rene (tumore), dal fragile equilibrio emotivo, dalla depressione e, non di meno, dal rimpianto per quell' amore svanito, come dimostrano le sue relazioni tormentate, dopo la rottura del 1964. «L' uomo più importante della mia vita resta Delon - scrive nel suo diario - È sempre pronto a tendermi la mano. Correrebbe in mio aiuto in qualsiasi momento». Alain non mi ha mai abbandonata a me stessa, né oggi né ieri». Per dire, nel '68, è Delon che la impone, ai produttori, per La piscina: «O date la parte a lei o non se ne fa niente», aiutandola a rilanciare una carriera, in quel momento, in crisi. I due si incontrano sul set de L' amante pura. È il 1958 e Delon è al primo ruolo importante, dal quale inizierà la sua scalata a sex symbol del cinema mondiale. La madre di lei, Magda, cerca in tutti i modi di mettere sull' avviso la figlia ventenne. Per carità, Delon non gli dispiace, come probabile genero, ma, cuore di madre, vede più in là di dove ti fa guardare l' amore: «Quello fa solo quello che vuole, e non molla per ottenere uno scopo, ma quando lo ha raggiunto», ammonisce la sua Rosemarie Magdalena (il vero nome della diva). Lei è quella più famosa, grazie alla trilogia di successo dedicata a Sissi. Lui è quasi uno sconosciuto. Come spesso accade, i due, all'inizio, non si annusano. La diffidenza la fa da padrona. Alain le regala un mazzo di rose, ma lei trova maleducato, quell' affascinante francese, quasi disgustoso. Però, complice anche il ruolo di amanti tragici nel film, lei inizia a vedere Delon con occhi diversi. Fanno un viaggio insieme, in treno, per andare a Bruxelles, in occasione di un festival cinematografico e la passione li travolge. Lui vuole vivere, con lei, a Parigi, ma Magda è contraria ad affidare la figlia nelle mani di quel ragazzino. Addirittura, chiede all'attore di firmare un impegno giuridico con la sua Romy, prima del trasloco nella capitale francese. Per quattro anni, il loro amore è travolgente. La coppia d' oro del cinema, che riempie i rotocalchi e incuriosisce la gente desiderosa di sapere ogni particolare della loro unione. Delon è nel pieno della sua carriera. La sua consacrazione internazionale arriva, nel 1960, con Rocco e i suoi fratelli, grazie alla regia di Luchino Visconti. Per non parlare, de Il Gattopardo, che vince la Palma d' Oro a Cannes. Ormai, Delon è una stella assoluta, considerato, dai più, l'uomo più bello del mondo. Un successo che eclissa la carriera della Schneider. La stampa gli attribuisce varie scappatelle, forse anche per mantenere intatta la sua fama di seduttore, ma Romy non si fa intimidire, tanto da fissare, con il suo amato, per gioco, la data del matrimonio, il 1967. In realtà, Alain flirta con una giovane ragazza che si fa passare per sua sorella. È Francine Barthelémy, si fa chiamare Nathalie, ventiduenne con una figlia e un matrimonio fallito alle spalle. Delon fa la scelta che rimpiangerà per tutta la vita. Decide di partire con Nathalie, lasciando Romy con un biglietto: «Mi dispiace. So che ti avrei reso infelice. Parto per il Messico con Nathalie. Ti auguro ogni bene». Sposerà Nathalie, già incinta di sette mesi, il 13 agosto dello stesso anno, pare dopo aver festeggiato l' addio al celibato con Marisa Mell. Il 23 settembre del 2018, pur essendo passati molti anni, non solo dalla morte della Schneider, ma anche dalla loro separazione, Alain Delon, sente, come dieci anni prima, il bisogno di dichiararle, ancora una volta, il suo amore. Si reca, il giorno prima, con il suo assistente, nella redazione de Le Figaro, per sottoporre un testo da pubblicare a pagamento. È commosso, ma non vuole parlare di Romy, affidando i suoi sentimenti alla dedica sulla carta stampata del quotidiano: «Rosemarie Albach-Retty detta Romy Schneider avrebbe compiuto 80 anni oggi, domenica 23 settembre. Chi l' ha amata e l' ama ancora le rivolga un pensiero. Grazie. Alain Delon». La dimostrazione che il rimpianto di quella rottura continuerà a tormentarlo fino alla fine.

·         Il professor Jovanotti.

Carlo Piano per “la Stampa” il 16 dicembre 2019.

Ti chiamo Lorenzo o Jovanotti?

«Chiamami come vuoi, mi giro anche se mi fai un fischio».

Lorenzo, ad Albenga ancora ti aspettano dopo che il concerto è saltato per l' erosione della spiaggia.

«È stata la prima spiaggia ad andare sold out, è stato brutto dover cancellare ma in questi casi decide la natura e non ci si può fare niente. È davvero preoccupante: una festa sulla spiaggia può anche saltare e non è la fine del mondo, mentre la fine di una spiaggia è la fine di un mondo. Non solo di un habitat naturale, anche di un paesaggio culturale».

Dicono che l' erosione delle coste sia colpa nostra: speculazione edilizia, riscaldamento globale....

«A me non piace questa cosa molto italiana che ognuno è esperto di tutto e si domanda a un cantante di spiegare perché si erodono le coste, io vorrei che questa questione venisse posta a chi ha delle risposte che si basano sullo studio, i dati, le prospettive possibili». 

Sarà anche sbagliato, ma talvolta è più ascoltato un cantante che un premio Nobel.

«Giovanni Soldini, che è mio amico, mi ha raccontato che nella sua recente navigazione a vela dalle Hawaii a Hong Kong ha incontrato in 15 giorni quattro enormi masse di plastica a pelo d' acqua lungo la rotta in pieno oceano. Hai presente quando è grande il Pacifico?».

Il più grande di tutti gli oceani, un terzo dell' orbe.

«Appunto: scontrarsi per quattro volte contro rifiuti prodotti dall' uomo vuol dire che il mare ne è letteralmente infestato, e inoltre c' è sempre meno pesce e quello che c' è spesso mangia quella plastica che si disintegra in piccoli pezzi. Esiste una questione non solo ecologica, è perfino mitologico il male che può derivare da questa situazione. Si ferisce un Dio, si viola una forza creatrice fondamentale».

Che impressione ti fanno i ponti dell' autostrada che crollano per incuria: rabbia, stupore, tristezza, impotenza.

«Dolore. L' immagine di quel camion verde sul bordo del ponte Morandi crollato è struggente, dolorosa, non si può non tentare di reagire, guardandosi intorno ragionando su quello che ognuno può fare nel suo ambito specifico per non contribuire al declino».

Qualcuno disse che sono i muri che devono essere abbattuti e non i ponti a crollare.

«Con me sfondi una porta aperta. Chiunque l' abbia detto ha il mio sostegno. Inoltre i ponti sono tra le opere più belle dell' ingegno dell' uomo, a me di fronte a certi ponti che ho attraversato in giro per il mondo scatta proprio l' applauso, la standing ovation, la gratitudine, la gioia nel cuore».

C' è un partito al governo che è scettico sulla costruzione di nuove infrastrutture. La chiamano decrescita felice.

«Per me non è mai "cosa" si fa ma è sempre soprattutto "come". Le infrastrutture sono fondamentali per il progresso, che è un concetto che mi sta personalmente più a cuore di quello puramente macroeconomico di crescita. Si tratta da fare le cose bene, non condivido l' atteggiamento di chi per paura di fare male preferisce non fare. Viviamo in un' epoca di sviluppo tecnologico vertiginoso, l' impegno di chi lavora nell' ambito delle immagini, e ci metto dentro anche la politica perché produce per sua natura anche visioni, vorrei che si concentrasse anche sul progresso di quello che generalmente si chiama umanesimo».

Quindi?

«L' uomo vuole crescere, è scritto nel nostro software, si tratta di aggiornare sempre il software ai tempi nuovi. La cosiddetta decrescita felice è una cazzata come progetto politico per un Paese, diciamocelo. L' obiettivo è una crescita più giusta».

Di che colore è il mare? Azzurro, verde, trasparente, purpureo scriveva Omero?

«Il mare è di tutti i colori, è come la mente di Ulisse, suo specchio. Piero Citati ha scritto un libro su Ulisse intitolato La mente colorata, una delle definizioni più belle non solo per l' uomo, ma per quasi tutto ciò a cui aspirare. Il mare è la mente colorata assoluta».

E ti piace più d' estate o d' inverno?

«D' estate. Soprattutto appena dopo la primavera, e prima che cominci l' autunno».

Ma è vero che vorresti Alessandro Baricco ministro della Cultura?

«All' Istruzione piuttosto: è un uomo colto che tenta una lettura audace e poliedrica del nostro tempo. E poi è appassionato di mappe, e agli appassionati di mappe vanno dati ruoli importanti, e qui cui vorrebbe l' emoji che sorride, ma sui giornali non usate gli emoji, peccato, dovreste iniziare a farlo».

Parliamo di Venezia sommersa dalle maree e del Mose fermo al palo?

«Non ho la minima competenza sulla questione Mose, davvero, perché sprecare parole?

Dai queste righe a chi ne sa qualcosa..»

Ci penserò, però piazza San Marco ridotta a palude qualcosa ti smuoverà.

«Venezia è una delle meraviglie dell' umanità, io so solo questo, ed è in Italia, quindi l' Italia deve fare tutto quello che può per salvaguardare una cosa che ha a che fare con il nostro futuro ancora più che con il nostro passato. E che è un patrimonio di tutta l' umanità».

Un tempo cantavi di un prete di periferia che va avanti nonostante il Vaticano. Cambiato qualcosa con Papa Francesco?

«Quel prete è diventato Papa, in un certo senso, e io sono contento. Per il mondo Francesco è una buona notizia. Lo è stata dal primo momento che si è affacciato a quel terrazzo su piazza San Pietro, una piazza che è stato il mio playground, non scherzo mica: il mio babbo lavorava in Vaticano, io da quella terrazza mi ci sono affacciato un sacco di volte da bambino, per davvero».

Torniamo al mare che hai girato con il Jova Beach Tour: sei per l' Adriatico con l' acqua alle caviglie o per il Tirreno profondo a due passi dalla riva.

«Devo scegliere per forza?»

Sì.

«Invece non scelgo, il bello dell' Italia è che li abbiamo tutti e due, da una parte vedi l' alba e dall' altra il tramonto, è bella l' Italia, l' unico Paese che è a forma di qualcosa. Oltre all' Africa che è a forma di cuore».

Ti fa paura il mare?

«È quel genere di paura che attrae più che respingere».

Volevo chiederti ancora degli ambientalisti, con cui hai avuto qualche attrito. Come spieghi che in Italia non esista un vero partito verde? In Germania hanno preso il 20,8%

«Io non ho avuto attriti, credimi, sono loro ad averne tra di loro casomai. Dovrebbero parlarsi, invece è un mondo diviso, dove molti, troppi stanno lì soprattutto a cercare di affermare il proprio brand. Spesso l' ambiente è solo una scusa e questo addolora, perché il Jova Beach Tour nasce anche per essere un cavallo di troia con cui portare certi temi alla luce, approfittando della festa».

Ovvero?

«Oggi ci riempiamo la bocca di parole vuote tipo impatto zero senza sapere di cosa parliamo, perdendo di vista l' obiettivo che è quello di accogliere una nuova cultura ecologica un passo alla volta, di darle spazio senza infondere sensi di colpa controproducenti. L' ecologia non è un' ideologia, è una scienza. L' uomo non è separato dalla natura, l' uomo è natura».

Quali sono le canzoni a cui sei più affezionato?

«Soprattutto quelle che sono entrate nelle vite degli altri, il massimo per me, sapere che nelle mie canzoni ci abitano le persone».

C' è anche Affermativo: non si può vivere in un mondo chiuso Un messaggio ai sovranisti stile Salvini e Meloni?

«Un messaggio alle persone.Sempre e solo alle persone, io non mando lettere con indirizzi specifici e se lo faccio lo dichiaro. La democrazia ha tante voci che parlano con cui non sono d' accordo in niente, ma finché è democrazia le idee si affrontano a colpi di idee».

Pensi ancora positivo 25 anni dopo?

«Molto più di 25 anni fa».

Il professor Jovanotti. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Maria Luisa Agnese su Corriere.it. «Ho visto quella cosa che spuntava sul braccio, era sicuramente il tatuaggio di una balena. E più su c’era una stella Marina, e un cavalluccio. Guardo l’altro braccio c’è un’isoletta, sembra proprio come la mia alle Maldive». Il professor Paolo Galli, che amando il mare e facendo il biologo, ha avuto il colpo di fortuna di dirigere un centro studi su un’isoletta maldiviana lunga ottocento metri, racconta che quando ha cominciato a studiare Jovanotti è andato su Internet come molti e lì nelle foto dei tatuaggi ha trovato l’ispirazione per capire come il mare fosse nel destino del cantante e come in fondo poteva non essere difficile spiegare la sua nuova sfida, il mirabolante Jova Beach Party, evoluzione del Concerto classico, un tour estivo in sedici spiagge d’Italia più Plan de Corones, dal 6 luglio alla fine di agosto, protagonista proprio il mare e quel luogo/non luogo di confine, di approdo e di partenza, che è la spiaggia. Siamo in Università Statale a Milano e la lectio Magistralis multipla, tema l’icona contemporanea Jovanotti, va in scena in aula Magna con l’accademico quarto d’ora di ritardo: per la prima volta insieme sei professori delle sei università cittadine — oltre alla Statale, Bocconi, Bicocca, Cattolica, Iulm e Politecnico — si avvicendano sul palco a raccontare, interpretare, sviscerare gli aspetti sfidanti del nuovo progetto del cantante. Workshop privilegiato per cinquecento studenti delle rispettive università.

È qui la festa? Come trent’anni fa con Lorenzo Cherubini di nuovo dj, ma non solo, con una vocazione fortemente ambientalista e l’appoggio del Wwf e con la voglia di vivere la musica in modo aperto, portando 63 cantanti da ventitré Paesi diversi, africani, balcanici, sudamericani, europei. Una carovana delle dimensioni di una mini cittadina, circa cinquecento persone, che arrivano a Lignano Sabbiadoro, a Rimini, a Roccella Ionica oppure a Castelvolturno e ne sconvolgono per una giornata— dalle 12 a mezzanotte — la vita. Snocciola divertito i numeri dell’impresa Marco Taisch del Politecnico: 150 tonnellate di zavorra (servono a mettere in sicurezza tutto quello che può volare sulla sabbia), trentamila metri quadri di spiaggia da addobbare e poi ripulire, un palco e due palchetti, così si presenta ogni volta la carovana. E conclude che soltanto una visione accompagnata da un lavoro di team può rendere possibile un’impresa del genere, «da ingegnere» e realizzare quello che lui chiama La Luna di Jovanotti.

Parte da qualche calcolo anche Francesco Massara della Iulm, che ha analizzato duecento canzoni del cantante a caccia del suo carisma e del segreto del suo brand personale: su 2.288 parole i sostantivi prevalgono sugli aggettivi, 37,5 per cento a 15, grande segno di concretezza, e conclude che Jovanotti è idolo di nuovo conio. Non di tipo narcisista, astratto, distante (tipo Ferragni, Ronaldo o Beckham) ma a vocazione comunitaria, capace di relazionarsi e di vivere esperienze insieme ad altri. E difatti quelli che Jovanotti chiama compagni di viaggio e che altri chiamano sponsor sono stati scelti con vocazione ambientalista e convinti a opere di sostenibilità. Così Coop si impegna a riciclare al 100 per cento le fatidiche bottigliette d’acqua che peraltro sono in Pet, plastica innovativa. E Corona mette a disposizione il suo know-how per lasciare le spiagge «meglio di come si erano trovate», secondo il claim di tutta l’operazione. Mentre e.on energia fornirà le cyclette che caricano i cellulari a impatto zero. Il futuro del pianeta è per Jovanotti la questione delle questioni, ma «il pianeta è un malato curabile». Lorenzo, che da buon non laureato si è preparato come uno scolaretto ed è arrivato quasi un’ora prima per fare il briefing preventivo con i professori, alla fine tocca le corde giuste per parlare a una generazione ancora in cerca di se stessa e dei propri atout. «Oggi si parla molto di Talent, ma il talento non è tutto. E io ne sono la dimostrazione. Quello che conta è la Vocazione. È una chiamata che si manifesta per sentieri misteriosi, ascoltate questa voce quando si manifesta, e altrimenti cercatela, e costruiteci intorno il vostro progetto, per farla vivere. Io ho capito che amavo la musica e che stavo bene quando la gente attorno a me balla e si diverte. Basta che il divertimento sia responsabile». Poi selfie per tutti. Anche gli studenti 2.0 sono umani.

Spontaneo e visionario. Il fenomeno Jovanotti spiegato all'Università. I sei atenei milanesi lo «studiano» alla vigilia del tour estivo. «Studio per non essere astratto». Paolo Giordano, Giovedì 16/05/2019, su Il Giornale. Era fin emozionato, Jovanotti, ieri a metà mattina quando ha debuttato sull'unico palco che forse non conosceva: quello di un'aula magna universitaria. Signore e signori, qui si spiega il jovanottismo. Università Statale di Milano: in platea, professori e studenti di tutti e sei gli atenei milanesi (Politecnico, Statale, Bicocca, Bocconi, Cattolica e Iulm) che per la prima volta si sono ritrovati con un unico obiettivo, ossia lo «studio» di questo artista e del Jova Beach Party che partirà il 6 luglio da Lignano passando per diciassette spiagge italiane. Obiettivo: divertimento e ambiente, nel senso che dopo la festa le spiagge saranno più pulite di prima: «Ballare e cantare con la gente che ha i piedi nell'acqua», come ha riassunto lui spumeggiante come al solito. Poi ha fatto lo sparring partner dei professori che parlavano di lui, intervenendo tra uno e l'altro, facendo battute («Sono andato a cercarmi sul dizionario che cosa volesse dire il termine protruso usato prima da un professore») e provando a dare qui e là qualche contorno in più di questo tour estivo che è obiettivamente inedito: «È qualcosa di nuovo che non è mai stato fatto prima. Il mio set principale è al tramonto, però la musica inizierà al pomeriggio e ci saranno 61 ospiti (finora) da 23 paesi: Africa, Sudamerica, Balcani, Europa». In pratica sarà un festival itinerante con quella obiettiva dimensione internazionale di cui spesso lamentiamo la mancanza.

Parlandone, Lorenzo Jovanotti Cherubini ha ovviamente diffuso il suo entusiasmo, si è perso in iperboli, ha enfatizzato il suo lato migliore: la capacità di suscitare convinzioni. Ad esempio, i ragazzi lo seguono convinti quando dice che «oggi si parla tanto di talento ma il talento non è tutto, l'importante è la vocazione, la chiamata. Sentirsi chiamati da qualcosa è fondamentale per poi poter puntare sul talento». E senza dubbio è stato più coinvolgente di molti professori, nonostante «io abbia preso il treno del lavoro a 18 anni, mi ero appena iscritto all'Università ma non ho mai dato neanche un esame». Insomma, mentre lui parlava del suo Jova Beach Party «che esce dalla categoria convenzionale dei concerti», i professori parlavano di lui. Spesso con definizioni spericolate. Andrea Borghini, professore di Filosofia dell'Università degli Studi, si è dilungato sulla «semeiotica della spiaggia» (addirittura) tornando poi a bomba su di una vecchia autodefinizione di Jovanotti come «50 per cento contenuto e 50 per cento movimento». Il professore di Marketing dello Iulm, Francesco Massara, ha identificato così il brand Jovanotti: spontaneità, concretezza, prossimità, relazionalità. Poi, per aggiungere altre cifre, ha addirittura distillato le 200 canzoni del suo repertorio per concludere che «il 37,5 per cento di sostantivi, il 37,5 di verbi, il 15 di aggettivi e il 15 di avverbi». «Neanche io avevo mai fatto questo calcolo, ma ne sono soddisfatto perché par di capire che il mio sia un linguaggio concreto. Una volta, nella stanzetta dove scrivevo i miei testi, avevo appeso un mio ritratto con sotto la scritta non essere astratto!», ha risposto Jova. E se Valentina Perissinotto della Bocconi ha ricordato che ieri era lo «Overshoot day del 2019, ossia il giorno in cui l'Italia ha esaurito le risorse sostenibili dell'anno, nonostante manchino più di sei mesi alla fine, Paolo Galli della Bicocca ha addirittura che «io e il mio gruppo di ricerca abbiamo chiamato una manta Jova che ha il suo Manta Jova Point a 5 km dal nostro punto di ricerca alle Maldive». «Mi tatuo la manta sul braccio, ho uno spazio apposta», ha scherzato «l'oggetto di studio». Poi Marco Taisch del Politecnico ha declinato il jovanottismo dal punto di vista dell'«operations management e infine Fausto Colombo della Cattolica ha notato come molti luoghi come Woodstock o Venezia con i Pink Floyd non erano «spazi per concerti» ma sono diventati teatri di eventi storici. Alla fine, un bel pacchetto di mischia per centinaia di ragazzi che, a dirla tutta, sono stati talmente tanto attenti da far dire a Jovanotti che «siete bravi, a me non capitava di stare seduto per ore almeno da quarant'anni, diciamo dalle elementari». In fondo il jovanottismo è anche questo.

·         Pilar Fogliati.

Pilar Fogliati. DA I LUNATICI RAI RADIO2 l'8 ottobre 2019. Pilar Fogliati è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice ha parlato delle sue parodie che sul web raggiungono milioni di persone: "Sono sempre stata quel tipo di ragazza che poi post cena si mette a fare imitazioni e battute. Di solito certi video non li preparo, il primo fu proprio rubato, il secondo è stato più studiato, anche se l'ho improvvisato dandomi due o tre linee. Sono personaggi che potrei far parlare per ore, ognuna di quelle ragazze mi ricorda persone che conosco". Sul suo lavoro: "Chi è davvero Pilar? Molto difficile dirlo, credo che nessuno possa rispondere. Sono nata in Piemonte per puro caso, i miei stavano festeggiando lì le vacanze di Natale e mia nonna ha pensato che sarebbe stato carino farmi nascere ad Alessandria. Ma in realtà sono romana. Ho studiato per anni recitazione, in teatro mi sono sempre divertita a giocare con i caratteri anche se ho fatto sempre ruoli drammatici. Ho un animo da buffoncella che con quei video viene fuori. Io sono tutti quei personaggi insieme. Esiste una Pilar che si aggira per le vie di Roma e che da un momento all'altro può diventare Tazia, Flami, Trezza Michela o la radical chic del centro. Verdone? Per il primo video mi ha fatto i complimenti, per me di tutte le reazioni che ci sono state è la cosa più bella. Sono una sua fan, lavorare con lui è il mio sogno. Chi lo sa, vedremo se ci sarà questa possibilità. Mi sono arrivati dei suoi complimenti personali e la cosa mi ha lusingato da morire, fare i caratteri e ricevere i complimenti dal maestro dei caratteristi, per me è il top. Verdone è anche un grandissimo regista". Pilar Fogliati, poi, ha rivelato: "Maniaci sui social? Instagram ho iniziato ad usarlo un anno fa. Ho un limite con le storie, non riesco a mettere la mia faccia, non ci riesco, è più forte di me. Mi chiedo comunque cosa abbiano i piedi agli uomini. E' pieno di gente che chiede foto di piedi. Sto pensando di farci un business. Scherzi a parte, mi sono accorta che i miei piedi sono finiti anche in un sito specializzato in cui vengono dati i voti ai piedi delle donne. Su una scala tipo da uno a dieci ai miei hanno dato sei. Ci sono rimasta quasi male. Mi sono detta che in fin dei conti i piedi me li curo. Ora li sto curando ancora di più".

Silvia Fumarola per la Repubblica il 16 ottobre 2019. Ha spirito di osservazione e un talento naturale, ma si capisce che Pilar Fogliati, 26 anni, conosce bene le ragazze romane di cui imita il modo di parlare. Le radical chic del centro «che hanno frequentato le scuole francesi, un po' nobili, che vanno a Capalbio e hanno un casale della nonna dove vendono tessuti indiani», quelle di Roma Nord, dei Parioli, «ma la ragazza di Guidonia col piccolo negozio di calzature uomo- donna-bimbo è la mia preferita ». Il video girato per gioco a Cortinametraggio è diventato virale, oltre 4 milioni di visualizzazioni insieme a un altro, di pochi giorni fa: Pilar, la cagionevole Emma della fiction Rai Un passo dal cielo, è l' attrice del momento e la regina del web. Seduta in un bar a Corso Trieste, «siamo a Roma nord» dice ridendo, si guarda intorno. È alta, sottile, grandi occhi verdi senza trucco. L' eleganza naturale è di famiglia: «Mamma e papà sono belli, non ho meriti. Mi piace far ridere, sono pop: adoro la commedia, la caratterizzazione dei personaggi ». È tra le protagoniste di Extravergine su Fox-Life, condurrà con Achille Lauro Extra Factor su Sky, Giovanni Veronesi l' ha invitata a Maledetti amici miei (giovedì su Rai2).

Pilar, da dove cominciamo?

«Dalla telefonata di Carlo Verdone che per me è un premio. Si è complimentato e ha voluto incontrarmi. È il mio mito, recito tutti i suoi personaggi. Chiacchieravamo e mi fa: "Posso provare a fare il padre della radical chic che abita in centro?". Ho capito che se ti diverte fare una cosa, ti diverte tutta la vita. Abbiamo iniziato a parlare da padre e figlia, con quel birignao».

Giù la maschera: quell' ambiente lo conosce bene.

«Ho frequentato la scuola americana, poi il San Giuseppe De Merode a piazza di Spagna e il Sacro Cuore a Trinità dei Monti. Conosco l' alta borghesia romana, le aristocratiche e le nobilastre, come le chiamo io. Ma abitavo in campagna».

Piccola storia familiare, partiamo dal nome Pilar.

«Mia nonna è argentina, lì si prega Maria, Nostra Signora del Pilar. A casa siamo tre sorelle e un fratello, mio padre è imprenditore nel campo della sicurezza sul lavoro, mamma si è occupata di Bioetica, ora di cure palliative. È una donna speciale».

Che hanno detto quando ha deciso di recitare?

«Mi hanno lasciato libera, ma a un patto: "Se vuoi fare l' attrice lo fai seriamente. Studi". Sognavo di recitare dal liceo, ma non l' ho mai detto. Frequentavo per passione una scuola di teatro, con allievi dai 12 agli 80 anni. L' insegnante Claudio Jankowski mi ha preparato per l' esame all' Accademia nazionale Silvio D' Amico: l' ho passato al primo tentativo».

Questo le ha dato fiducia?

«Se mi avessero bocciato non so se avrei ritentato. La Silvio D' Amico mi ha aperto la testa, ho frequentato persone diverse, cinefili, super bravi a teatro. Tanti fuorisede. Ero curiosa ma sa come succede, no? Lo snobismo è reciproco: alcuni con me erano più snob degli snob; mi sentivo inferiore, anche snobbata. E guardavo con occhi diversi quelli del mio ambiente».

Secondo lei perché il video sulle ragazze romane è diventato virale?

«Perché ci piacciono le categorie. Io dico "quelli di Capalbio", vacanze, idee, gusti, tutto per gruppi. I miei amici dopo il video mi chiedevano: ma io dove sto? Abitudine italiana. In America non importa di chi sei figlio, non ti chiedono: da dove vieni?».

Quando ha capito di avere successo?

«Grazie ai tassisti. Salivo sul taxi e mi dicevano: ahò, ma tu sei quella delle ragazze di Roma nord. Che bello. Agli inizi mi avevano etichettato: "Ha la faccia da film francese". Io che adoro il nazionalpopolare, siamo matti? Viva la tv».

Fa molti provini?

«Certo, è la parte più dura del lavoro. La cosa più difficile non sono i sì e i no, ma il tempo libero da gestire tra un lavoro e l' altro. L' attesa. Ho girato subito Fuoco amico TF45 con Bova e Forever Young con Bentivoglio. Poi sono arrivate le serie Rai: Che Dio ci aiuti, Non dirlo al mio capo e Un passo dal cielo con Daniele Liotti».

Con "Extravergine" trionfa l' ironia.

«Lodovica Comello è una trentenne che non ha mai fatto sesso, un' Alice nel paese delle sexy meraviglie. Io interpreto una sua amica, Samira, parlo milanese. Roberta Torre ha inventato un linguaggio da fumetto. Poi ho girato per Rai 1 Al posto delle stelle di Matteo Aleotto, commedia sentimentale con Alessandro Roja in cui sono una fricchettona. Gli spettatori della fiction chiedono di andare a dormire sereni, li capisco».

Ha un modello?

«Monica Vitti. E amo Paola Cortellesi. Sto cercando la mia strada: per ora seguo quella che mi diverte di più. Mi è piaciuto fare la radio con Veronesi, in Non è un paese per giovani abbiamo sempre improvvisato. Andare al suo show di Rai 2 è stato un altro regalo, interpreto vari personaggi nel pubblico».

Le ragazze di Roma nord fanno matrimoni "boho chic", lei che piani ha?

«Sono fidanzata. Lui tifa per me».

Sua madre che dice?

«Le piacciono gli uomini alti e perbene. Meno male, rientra nella categoria».

·         Philippe Daverio.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 7 ottobre 2019. L' Italia è un immenso museo all'aperto gratuito. E se si ha come guida turistica Philippe Daverio lo spettacolo diventa doppiamente interessante. L' ha capito Antonio Ricci che ha cucito addosso allo storico dell' arte, professore e saggista di origini alsaziane, la rubrica culturale con scadenza settimanale Muagg - Il museo aggratis. Daverio, ex politico dall' educazione ottocentesca, 70 anni il prossimo 17 ottobre, da questa stagione è dunque l' inviato di Striscia la notizia più intellettuale di tutti insieme ovviamente a Davide Rampello che cura lo spazio Paesi, paesaggi.

Come è nata la rubrica Muagg?

«La genialità non è mica la mia, sa? Antonio Ricci e mia moglie ogni tanto si sentono e hanno tramato alle mie spalle. Mi dispiaceva non fare più tv».

Che rapporto ha con Antonio Ricci?

«È molto simpatico, riesce a nascondersi dietro l' ironia. Questo progetto è ironico nel suo significato antico. L' ironia era un metodo della maieutica. Consiste nello spostare il punto di vista. Per chi si occupa di comunicazione artistica diventa una chiave molto interessante».

A Striscia mostra le bellezze italiane che si possono ammirare senza pagare. Cosa vedremo nelle prossime settimane?

«Mi concentro su Milano e Roma, perché non ho molto tempo. Il Duomo di Milano visto da fuori è uno dei miei mantra. Ma non solo. Saremo a Verona e in Piazza San Marco a Venezia, un grandissimo museo all' aperto gratis. In questi giorni vado a Bergamo, città lombarda praticamente a un passo da Milano ma che raramente un meneghino pensa come gita domenicale. Ma sbaglia. A Bergamo Alta è come se fossimo in una città toscana. Pensiamo alla basilica di Santa Maria Maggiore, con sculture e tarsie più belle del mondo, alla cappella del Colleoni. Sono sempre meno, oggi, le cose che si possono vedere gratis, ma cerco di spingere la gente a una psicologia diversa del viaggio».

Cosa ne pensa della decisione del ministro della cultura Franceschini di reintrodurre le domeniche gratis ai musei, tolte da Bonisoli?

«Sono pienamente d' accordo. Il ministro che c' era prima era vittima delle strutture interne del dicastero che tendono a un conservatorismo perenne. Franceschini, nel 2014, ha fatto una riforma innovativa. L' idea dei direttori di museo stranieri ha dato vitalità. L' esempio di Brera è molto buono. Ma rimane il problema annoso di Palazzo Citterio».

Con Striscia andrà anche al Sud?

«Sì. Voglio fare la Sicilia e un po' di Napoli. Io sono un "terronista". Faremo vedere luoghi totalmente ignoti, come ad esempio Cracco in Calabria, una città fantasma sui cui dovremmo fare dei ragionamenti. Dovremmo per esempio tirare le orecchie a Bruxelles: perché non ci danno i soldi per mettere a posto?».

Cosa dovrebbe fare di più la politica per la cultura?

«Innanzitutto, fare un pensiero nel bilancio nazionale, che dice? In cultura noi spendiamo un quarto rispetto ai tedeschi, e abbiamo molta più roba. I francesi spendono due volte e mezzo più di noi. Avendo molte più cose, noi abbiamo molti più dipendenti: la maggior parte dei finanziamenti vanno in spese per il personale. Dunque poco in investimento e promozione. Una volta, si ricorda?, la Rai faceva l' Intervallo, quello con le pecorelle e la musichetta. Oggi nemmeno quello».

Diceva che le manca avere un suo programma: Passepartout, su Raitre, era un gioiellino.

«Mi divertivo. La tv di Stato è una grande associazione benefica, una forma di redistribuzione politica in cui ora non rientro. Passepartout è stato uno dei programmi più replicati della storia, adesso hanno smesso dopo che io ho domandato: "Come la mettete con i diritti d' autore?'».

In tv c' è spazio per la cultura?

«Molto ridotto. Ci provano gli Angela, Piero e Alberto. Hanno un feudo di natura ereditaria, forse gli davo un po' fastidio. Non lo so, a pensare male degli altri si fa peccato ma a volte si indovina».

Lo diceva Andreotti.

«Forse non vogliono che altri vendano panini davanti alla loro pasticceria...».

Angela a parte?

«C' è Sky Arte che fa cultura all' inglese, il cui approccio è classista: la tv per loro deve essere pop, meno colta. L' approccio italiano è più trasversale, gli unici che la fanno di questo tipo sono quelli di National Geographic che però ha mezzi mostruosi: un' ora di trasmissione costa cifre molto alte».

Lei che si definisce «orgogliosamente non laureato alla Bocconi», cosa pensa dei ministri senza laurea?

«Non sono laureato in economia, ma sono ordinario universitario di architettura. La vita spesso è laurea più importante, ma non per questo i ragazzi non si devono iscrivere: ne abbiamo tre volte in meno dei tedeschi. Per me la scuola dell' obbligo, qualsiasi essa sia, anche professionale, dovrebbe durare fino ai 22 anni».

E la politica? Dopo la giunta Formentini e l' impegno con Filippo Penati, ha chiuso?

«Beh. Recentemente ho fatto la campagna per +Europa: sono europeista, penso di aver fatto guadagnare un bel pezzo di elettorato. Ho fatto una bellissima stagione negli anni Novanta con Formentini a Milano e sono molto fiero del lavoro svolto perché la città di oggi è quella che pensammo allora. I milanesi sono più felici rispetto ai romani perché sanno che domani staranno meglio di ieri. Come i bergamaschi».

Questione di fiducia nel futuro?

«Fiducia fortificata con lo scopo sull' onda del progresso. L' onda di regresso genera depressione». 

·         Alberto Angela.

9 cose che non sapete su Alberto Angela. Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Renato Franco su Corriere.it. Personaggio cult, icona sexy (per etero e gay), l’esordio in tv sulla Svizzera Italiana: quello che spesso non si conosce del conduttore tv. Che da tempo non più soltanto il figlio di Piero. Alberto Angela ha vinto per la seconda volta la sfida degli ascolti contro Maria De Filippi. Il suo «Ulisse, il piacere della scoperta» ha battuto «Amici Celebrities», ottenendo 3 milioni e 821 mila telespettatori pari al 19.7% di share, mentre il talent di Canale 5 è stato seguito da 3.271.455 (19.68%). Ma chi è, chi non è e chi si crede di essere Alberto Angela. Ecco la sua vera storia.

L’accusa più superficiale: è in tv grazie al padre, Piero. In realtà Alberto Angela non è un semplice divulgatore scientifico, ma un paleontologo. Per oltre 10 anni, negli anni Ottanta, ha svolto attività di scavo e di ricerca sul campo nell’ex Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), in Tanzania, Oman, Etiopia e Mongolia.

L’esordio in Svizzera. Volto della tv italiana, Alberto Angela era un capitale all’estero: il suo esordio in video vero e proprio fu grazie alla Televisione Svizzera Italiana nel 1990. Il debutto in Rai invece avviene tre anni dopo sui Rai1 con il padre con il programma Il pianeta dei dinosauri.

Il rapimento in Niger e l’isola di Pasqua. Nel 2002 Alberto Angela e la sua troupe sono stati vittime di un rapimento lampo in Niger, l’esperienza più brutta della sua vita: «Mitra puntato addosso, stavo per essere ucciso». L’isola di Pasqua invece il ricordo più bello: «Una piccola terra che emerge dal nulla, in mezzo all’Oceano, tra vento e silenzio, dove si innalzano queste incredibili statue alte 5-6 metri, unico lascito di una civiltà scomparsa e monito per gli esseri umani del XXI secolo. In qualche modo la Terra è un’isola di Pasqua nell’universo».

Collezionista di sabbia. Alberto Angela colleziona sabbia: «Ho iniziato anni fa, quando partivo per le mie spedizioni da paleontologo, prima di cominciare con la tv. Riempivo con la sabbia i rullini fotografici poi, tornato in Italia, travasavo il materiale nelle boccette di vetro. Ne ho più di una ventina, e dai colori riesco sempre a identificare il deserto di provenienza».

Un asteroide e una specie marina. Gli sono stati dedicati un asteroide (80652 Albertoangela) e una rara specie marina (Prunum albertoangelai) dei mari della Colombia. Il Museo di Storia Naturale di New York gli ha chiesto di prestare la sua voce per la versione italiana di un filmato sull’esplorazione dell’Universo. Per la versione inglese sono stati ingaggiati personaggi come Tom Hanks, Harrison Ford, Jodie Foster, Liam Neeson.

Caffé e piscina. Due i riti a cui non rinuncia. La mattina «due espressi, uno di seguito all’altro. E quando sono all’estero mi porto sempre il caffè dall’Italia, non riesco a farne a meno, ovunque mi trovi». L’altro rito è la piscina: «Pratico molto nuoto, con costanza, e mi faccio sempre un chilometro e mezzo».

Icona sexy. Gentiluomo colto ed educato, Alberto Angela piace a destra e sinistra, a etero e gay. Così ormai è diventato un personaggio cult. Si favoleggia anche sulle sue doti e i social network abbondano di gif animate («come rimorchia Alberto Angela») e meme.

Moglie e figli. Etero e gay però pare si debbano mettere l’anima in pace. Una fede al dito non è sicurezza di fedeltà, ma certo garanzia di impegno. Alberto Angela — per alcuni il Chuck Norris della cultura, per altri l’Indiana Jones della tv — è sposato con Monica dal 1993 e ha tre figli maschi: Riccardo, Edoardo e Alessandro.

Il suo credo: la tv non mente. «Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario e mi sono chiesto: perché queste cose devono rimanere confinate nei libri o nei circoli scientifici e culturali e la gente non le sa? Se vuoi fare divulgazione, su un qualsiasi argomento devi fare le stesse domande che farebbe chiunque: il tuo barista, il notaio. E a quelle devi rispondere, entrando nel cuore delle persone attraverso la mente. Certo, la credibilità devi conquistartela sul campo: né io né mio padre, ad esempio, abbiamo mai fatto pubblicità né ospitate in qualche programma per sparare sentenze. La tv non mente: se un conduttore è simpatico, lo è anche nella vita».

·         Giacobbo, misteri in tv e ossa rotte.

Giacobbo, misteri in tv e ossa rotte. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Renato Franco su Corriere.it. «Io non sono né un esperto, né un ricercatore, sono un trasportatore: prendo da chi sa e porto a chi non sa». Roberto Giacobbo sintetizza così il suo ruolo di divulgatore. Ex dj per Radio Dimensione Suono («non potevo farlo tutta la vita»), ex autore (per Frizzi, Conti, Bonolis, Castagna), la svolta della carriera arriva quando si avvia ai 40 anni grazie a un libro (Chi ha veramente costruito le piramidi e la Sfinge, scritto con Riccardo Luna): «Il libro ebbe successo e fui chiamato da Maurizio Costanzo a parlarne nel suo show, i 4 minuti a mia disposizione divennero più di 20. Il giorno dopo mi chiamarono da Telemontecarlo per fare un programma: pensavo mi cercassero come autore, invece iniziai a condurre Stargate - Linea di confine». Ventitré anni dopo è ancora qui, con l’Egitto e i suoi misteri, la civiltà migliore mai prodotta dall’umanità, una capacità unica di mescolare un’estetica imponente ma anche minuta, coniugare magnificenza e dettaglio, costruire al tempo stesso statue alte 15 metri e riempire pareti di geroglifici in modo certosino. Mercoledì Giacobbo torna su Rete4 con la seconda edizione di Freedom - Oltre il confine, 12 appuntamenti (interrotti solo dalla pausa estiva) in onda in prima serata per proporre divulgazione storica, scientifica e archeologica. «Questa civiltà è nel mio dna, la prima volta che vidi la Sfinge pioveva, un evento talmente raro la pioggia al Cairo che lo presi come un segno del destino».  Giacobbo ritrova l’archeologo Zahi Hawass per percorrere il tratto finale del tunnel nascosto dietro al sarcofago di Seti I nella valle dei Re a Luxor: «Dopo un primo tunnel lungo 100 metri, ce n’è un altro di 175, siamo arrivati a 275 metri sottoterra, riveleremo dove conduce questo tunnel e perché è stato costruito». In ogni puntata di Freedom non solo un reportage sull’Egitto, ma anche tanta attenzione all’Italia. Nel primo appuntamento si parla anche del Cenacolo Vinciano: «Quello che quasi nessuno sa è che anche Leonardo ha mandato un curriculum vitae per trovare un lavoro: lo prova la lettura del documento originale, uscito per l’occasione dalla cassaforte che lo custodisce». Per Giacobbo lasciare la Rai era stata una scelta personale («non volevo più lavorare da dipendente») tanto da rinunciare anche alla carica di vicedirettore di Rai2, ma nessun pentimento: «Essere proprietari di sé stessi vale più di qualunque poltrona». Giacobbo è la risposta di Mediaset a Alberto Angela, la divulgazione targata Rai. Invidioso? «Per carità, siamo così in pochi a fare divulgazione in prima serata che non c’è spazio per l’invidia. Non sono l’anti-Angela, ma un’alternativa: ci dovrebbero proteggere come i panda. Sento questo programma molto vicino al concetto di servizio pubblico: la divulgazione deve essere per tutti, raggiungere un pubblico largo, il mio compito è quello di spiegare cose a volte difficili in parole semplici, senza però banalizzare i contenuti. Il nostro è un lavoro a lento rilascio: per conquistare il telespettatore, per ottenere la sua fiducia ci vuole tempo». Un lavoro lento, ma anche meno comodo di quanto si possa pensare: «Non mi piace fare l’elenco dei miei infortuni, ma sul campo ho lasciato due caviglie, due ginocchia, una costola...».

·         Federico Fazzuoli, storico conduttore di “Linea Verde”.

Da Radiocusanocampus.it il 21 maggio 2019. Federico Fazzuoli, storico conduttore di “Linea Verde”, è intervenuto ai microfoni de “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul successo di Linea Verde. “Il segreto era la continuità, l’idea che settimana dopo settimana potevi avere un colloquio diretto con i telespettatori – ha affermato Fazzuoli -. E poi un momento di grande cambiamento sia nella percezione dell’agricoltura italiana, con l’Europa che diventava presente, sia nel cambiamento delle tecnologie. E poi un’intuizione: l’ambiente, messo in relazione con l’agricoltura e la qualità dei prodotti agricoli. Avevo proposto tre titoli: Linea Verde, Onda Verde e Potere verde. Potere verde poteva sembrare un titolo politico, ma allora c’era una Coldiretti fortissima e l’Europa si occupava soprattutto di agricoltura, quindi era un potere vero. Oggi potrei pensare a Potere dell’acqua, perché si fanno le guerre per l’acqua. Onda verde dava troppo l’idea dei semafori, quindi alla fine abbiamo scelto Linea Verde”. Fazzuoli andava in onda durante il periodo del disastro di Chernobyl. “La gente mi fermava per strada per chiedermi se il latte era sicuro –ha raccontato Fazzuoli-. Ci furono anche pressioni politiche in quel momento, forse perché si riteneva che su alcune cose probabilmente non c’era niente da fare. Certamente qualcosa è accaduto anche in Italia. Ma a un certo punto per ragioni economiche si è ritenuto che bisognava finirla con l’allarmismo e che gli italiani a un certo punto dovevano tornare a vivere e a mangiare normalmente. Mi dissero che l’emergenza doveva finire e bisognava che tutti gli organi di informazione prendessero atto di questo. Ma siccome non era realmente così, perché lo vedevo dai dati dei miei consulenti, ci fu una situazione molto tesa. In quell’occasione devo ringraziare il direttore di Rai Uno Emmanuele Milano che, quando gli andai a dire di queste pressioni forti, mi disse: tu sei sicuro dei tuoi consulenti? Io gli risposi di sì e allora mi disse: "Andiamo avanti, pensiamo alla gente, che al palazzo ci penseremo dopo". Quindi Linea Verde continuò a fare informazione come sempre”. Sui cambiamenti climatici. “Nel 1992 a Rio De Janeiro ci fu il grande summit sulla Terra, era già chiaro che i fenomeni sarebbero stati questi e si sarebbe inevitabilmente arrivati a questo. Solo che a quei tempi parlare di queste cose ti faceva apparire come allarmista. Il cambiamento climatico significa estremizzazione dei fenomeni in questa fase, poi desertificazione che avanza verso nord. Quest’anno fa freddo, è venuta la grandine. Dove è passata la grandine, quello che c’era non c’è più. Nel 2017 è venuta una gelata in Toscana che ha bruciato tutti i germogli. Il prossimo anno invece potrebbe esserci la siccità. Questa è l’estremizzazione dei fenomeni”. Su Greta Thunberg. “Se non ci fossero stati gli ambientalisti noi saremmo ancora più indietro. Se l’opinione pubblica non è preparata a certi temi e a certi sacrifici, la politica non va in quella direzione. Oggi le giovani generazioni prendono più coscienza di questi problemi e Greta serve proprio a dare ancora più coscienza ai giovani, perché sono proprio loro che devono intervenire. Anche se ci fosse qualcuno dietro a Greta, qualcuno che l’ha influenzata, bisognerebbe dargli una medaglia. La proposta in sé: "stiamo attenti che stiamo andando a sbattere", è vera”.

·         Daniela Martani.

“PROPOSTE OSCENE PER LAVORARE? MAGARI” - DANIELA MARTANI A “LA ZANZARA”. Da “la Zanzara - Radio 24” il 17 ottobre 2019. Proposte oscene per lavorare? Magari, la darei via volentieri. “Se ho mai avuto qualche proposta oscena per lavorare in tv? No, magari me l’avessero fatta. Purtroppo no, sennò stavo da un’altra parte”. La avresti data via senza problemi?: “Ma dipende pure cosa mi offrivano. Io ho sempre voluto lavorare in televisione sin da quando ero piccola. Non ho mai avuto un ruolo importante. Se tornassi indietro, l’avrei data proprio alla grandissima. Figurati. Fare la brava ragazza, quella con i principi, non ci guadagni assolutamente niente”. Ma non è un bel messaggio, dice Parenzo: “Ma chissenefrega. Alla fine bisogna sfruttare tutto quello che uno ha”. Essere vegana è stato un ostacolo per la tua carriera televisiva?: “Sì. Il fatto di essere vegana sicuramente in Italia ti limita moltissimo. Ci sono alcuni artisti italiani molto famosi che non dicono di essere vegetariani o vegani. Jovanotti è vegetariano e non lo sa nessuno, Giorgia uguale. Invece all’estero se sei artista e vegano, sei un grandissimo figo, sei molto più seguito”.

Cacciatori. “Dovrei chiedere scusa ai cacciatori? Assolutamente no. Manco morta. Mi vogliono denunciare per diffamazione, e rispondo così: chissenefrega. Non vedo l’ora di andare in tribunale perché voglio portare le prove di quello che fanno loro. Lo schifo che combinano loro. Ammazzano milioni di animali e si ammazzano tra di loro. Sapete quanti cacciatori sono morti finora? Dall’inizio della caccia saranno già morti una quindicina di cacciatori”. Hai detto che vuoi tagliare le gomme delle macchine ai cacciatori: “No, non è che io le voglio tagliare, però ci sono gruppi organizzati di animalisti che vanno a tagliare le gomme ai cacciatori. E fanno benissimo. Sono d’accordo. Atti di violenza? Macchè atti di violenza. Atto di violenza è che tu non puoi andare a farti una passeggiata in un bosco senza aver paura di esser colpito da un colpo”.

Carnivori. “Tutti questi fighi che dicono orgogliosi di mangiare la carne, voglio vedere quanti tra loro avrebbero il coraggio di ucciderlo, l’animale. Quanti di loro se avessero un coltello in mano avrebbero poi il coraggio di uccidere. Siete tutti ipocriti. Se l’animale non riuscite ad ammazzarvelo da soli, non dovete neanche mangiarlo. Perché io sono capace di andarmi a prendere una mela o sbucciarmi la banana. Se lo ammazzino l’animale, lo devono ammazzare”. “Basta con la carne – dice ancora – perché gli allevamenti intensivi stanno distruggendo il pianeta. Andatevi a documentare, altrimenti qua facciamo tutti una brutta fine”. Fossi premier vieterei di mangiare la carne. Se diventassi Presidente del Consiglio, elimineresti subito la carne?: “Subito. Proibirei di mangiare la carne e gli allevamenti intensivi, subito”. Che ne facciamo dei macellatori?: “Si convertano e vendano le zucchine. La caccia anche va abolita subito”. Dei cacciatori che facciamo, in galera?: “Per me possono tutti crepare”. E gli obesi?: “Li metterei a dieta obbligatoria”.  Essere umano peggio degli animali. “L’essere umano è peggio degli animali, assolutamente”. Meritiamo l’estinzione?: “Non tutti, ma la maggior parte sì. Se l’essere umano scomparisse sarebbe meglio. Gli unici che devono rimanere sul pianeta sono i vegani. Punto e basta. Gli altri se ne possono anche andare affan…”.

Mia Pappalardo per gossipetv.com il 24 ottobre 2019. Oggi lo studio de La Vita in Diretta si è letteralmente acceso. Lorella Cuccarini ha infatti ospitato Daniela Martani per parlare di quello che è successo con Fedez. Proprio ieri, il rapper italiano è apparso sui social molto deluso dalla giustizia del nostro Paese. Tempo fa, infatti, Fedez denunciò l’ex gieffina, amante dello stile vegano, per alcune offese che mosse nei suoi confronti e in quelle di sua moglie. A quanto pare però la Martani è stata assolta, l’accusa è dunque caduta. Ciò ha ovviamente scatenato un gran caos anche perché, al giorno d’oggi, sono tantissime le persone che offendono ed insultano i personaggi pubblici tramite i social. E le offese sono sicuramente un qualcosa di molto grave, impossibile da sottovalutare. Per questo motivo oggi se n’è parlato ampiamente a La Vita in Diretta.

Daniela Martani: “Si ho attaccato Fedez e Chiara Ferragni, ma non sapevo di essere stata denunciata”. Per quanto riguarda la questione ‘Fedez – Ferragni’, la Martani ha ammesso di non amare particolarmente la celebre influncer, rea di utilizzare spesso e volentieri pellicce vere. Daniela ha poi spiegato il motivo per cui ha attaccato, via social, il rapper e la sua consorte: “Ho attaccato Fedez per il suo compleanno (che venne festeggiato in un supermercato ndr). Io sono un personaggio un po’ pepato ed ho scritto la mia in un modo più colorito. […] Non sapevo di essere stata denunciata. Mi ha dato molto fastidio quello che è stato detto dai legali di Fedez e Chiara Ferragni. Inoltre io credo che ‘I….a e pallone gonfiato’ non è diffamazione ma è semplice diritto di critica”. Durante la chiacchierata, dove Matano ha poi preso il posto di Lorella, sono intervenuti Sgarbi e Selvaggia Lucarelli. E con quest’ultima è accaduto il finimondo.

La Vita in Diretta: è lite tra Daniela Martani e Selvaggia Lucarelli. La giornalista e la modella hanno finito per litigare. Si perché Daniela Martani, tempo fa ha atttaccato anche Selvaggia Lucarelli. “Daniela Martani, visto che poi fa la pecorella a La Vita in Diretta, – ha detto la scrittrice –  si dovrebbe ricordare del tenore delle cose che scrive che non ha nulla a che fare con il diritto di critica che io conosco molto bene. Ma che sono degli insulti particolarmente orrendi e schifosi.” La Martani ha poi detto che per lei la Lucarelli è l’ultima che dovrebbe avere la parola, “visto che è piena di denunce” e così le due donne hanno iniziato a litigare con Matano che cercava, in tutti i modi, di calmarle. La fiammeggiante chiacchierata si è poi spostata su uccelli e doppi sensi e il conduttore de La Vita in Diretta ha ricordato alla Martani che la Lucarelli non è un’ornitologa e che bisogna sempre distinguere la critica dall’offesa.

Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 18 ottobre 2019. Certe gieffine non finiscono mai, fanno dei giri immensi ma poi ritornano. O dei giri minuscoli. O non ne fanno nessuno. Restano ferme e aspettano. Aspettano un pensiero stupendo. O una molestia. O una proposta indecente. Così ha operato Daniela Martani e lo ha anche ammesso. «Magari mi avessero fatto una qualche proposta oscena per lavorare in tv: adesso sarei da un' altra parte», ha detto alla Zanzara, tuttavia rimproverandosi per non aver capito in tempo che il solo principio da seguire è «darla alla grandissima» - scusi, Martani, allora dobbiamo dedurre che qualche proposta indecente l'ha avuta? Essere belle e cedevoli, dopotutto, in questo tempo non conta molto e infatti il vero ostacolo che secondo lei l'ha fatta snobbare da produttori e registi eccetera è il regime alimentare sostenibile: «Essere vegana, in Italia, ti limita moltissimo. Alcuni artisti molto famosi, come Jovanotti e Giorgia, non dicono di esserlo». E già, non siamo mica nella Germania dei bei tempi andati, quando i vegetariani diventavano dittatori. Nel nostro Paese negazionista a giorni alterni, e che non ha più campanelli ma vacche e agnellini da macellare sì, la gloria è concessa soltanto a chi se ne fotte del cambiamento climatico, consuma sushi di tonno rosso e tartare di rinoceronte bianco e, se non basta, adotta la linea di Fantoni Cesira: «Per aver soldi, la fama e la gloria bisogna essere un poco puttana». Vi risulta? Non fate gli struzzi, non siate ipocriti, italiani, avreste proprio bisogno di un premier che abolisca la caccia e metta a dieta obbligatoria gli obesi, che sarebbe il programma dei primi 100 giorni di Martani, se solo la democrazia fosse diretta e ci consentisse di votarla immediatamente, pensionando Giuseppe Conte per raggiunti limiti di proteine. Detto tra noi, il fatto che una ragazza tanto spigliata non abbia trovato il giusto spazio lascia di stucco. Ne vediamo, in panni di quasi editorialiste, di assai peggiori, e molto meno autentiche. Vogliamo organizzare una raccolta firme per darle un ruolo che le si confaccia, prima che pur di avere qualcosa da dirci e rimproverarci diventi fruttariana e poi pure respiriana? Esiste il respirianesimo, signori, e dovreste sapere cos' è, ma forse non lo sapete, forse siete troppo felici, cioè irresponsabili, per essere a conoscenza del fatto che vivete in un mondo dove alcuni esseri umani campano d'aria - e speriamo che un giorno una legge li punisca per lo spreco.

·         Laura Chiatti.

Da leggo.it  il 16 ottobre 2019. Dopo il matrimonio con Marco Bocci e la nascita di due figli, Enea e Pablo, la vita per Laura Chiatti è cambiata molto. L’attrice infatti ospite a “Detto fatto”, condotto da Bianca Guaccero su Rai2, ha parlato dei cambiamenti di “abitudini” dato dall’arrivo dalla prole, anche dal punto di vista del sesso. La conduttrice durante la trasmissione infatti ha scherzosamente ricordato alla Chiatti che, in passato, relativamente alla sua vita sessuale aveva fatto sapere di farlo due volte al giorno. Laura, ridendo, ha fatto subito capire che la situazione è mutata con uno “Scordatevelo!”. L’affermazione in realtà era una battuta, ma Laura ha sottolineato che la frequenza si è molto ridotta, dati gli standard passati: “Vi dirò la verità, era una battuta, fu mal interpretata perché mi chiesero questa cosa ma io risposi: “Molto più di due volte al giorno”… Quando poi ci sono i figli tutto un po’ cambia, diciamo che invece di due al giorno diventano due la settimana, ecco”. Laura Chiatti, dopo una relazione col cestista Davide Lamma, ha ufficializzato l’amore col collega Marco Bocci: I due si sono sposati il 5 luglio 2014 a Perugia e hanno avuto due figli Enea, nato nel 2015 e Pablo, nato l’anno successivo.

·         Bella Hadid.

Sara Sirtori per amica.it  il 16 ottobre 2019". Semplicemente perfetta. O quasi. Bella Hadid, come ironicamente dice anche il suo nome, è la più bella del mondo. Lo dice la matematica. Perché il suo viso è quello che si avvicina di più alle misure perfette della sezione aurea. Lo annuncia un noto chirurgo plastico londinese. Che ha passato mesi a studiare i volti delle donne famose e a calcolarne la percentuale di perfezione. La sezione aurea, detta anche rapporto divino, è una costante matematica che dall’epoca classica dei greci in poi è stato associato alla bellezza e alla perfezione. Anche delle forme umane. E il volto di Bella Hadid si avvicina per il 94,35 per cento a quella proporzione perfetta. La fronte, gli occhi, il mento, le labbra: bellezza assoluta. Calcolando ogni elemento del volto, come spiega il Daily Mail, i risultati sono stupefacenti. Seconda, a pochissima distanza, c’è Beyoncé, con il 92,44 per cento. Sul terzo gradino del podio, Amber Heard, con il 91,85 per cento. Seguono poi Ariana Grande, Taylor Swift e Kate Moss. Ma per creare il volto di donna perfetto bisogna fare un mix. E prendere il naso di Amber Heard (perfetto al 99,7 per cento). Gli occhi di Scarlett Johansson (incredibili: 99,9 per cento). Le labbra e le sopracciglia di Cara Delevingne (rispettivamente il 98,5 e il 94 per cento). Il mento di Bella Hadid (99,7 per cento). La fronte di Kate Moss (98,8 per cento). E la forma del volto di Beyoncé (99,6 per cento). La sezione aurea è stata molto usata dagli artisti del Rinascimento per descrivere la bellezza. La utilizza anche Leonardo Da Vinci per il suo Uomo Vitruviano. Semplificando un po’, se il rapporto tra le misure della lunghezza e della larghezza di un volto si avvicina al numero 1,618, cioè la costante che si ricava dalla sezione aurea, si ha la bellezza ideale.

Candida Morvillo per il “Corriere della sera” il 18 ottobre 2019. L' ultima notizia diventata virale è che il viso di Bella Hadid è il più perfetto del mondo, il più prossimo ai canoni della sezione aurea, ovvero alla formula matematica e misterica della bellezza. Peccato che la modella, 23 anni e 26,3 milioni di follower su Instagram, avesse in origine tutt' altra faccia. Il naso non era alla francese, le labbra erano sottili. Insomma, sembra aiutata dalla chirurgia estetica e così la notizia, anziché certificare l' esistenza della perfezione, certifica che la perfezione non esiste o almeno è così rara che pure fra le celebrità si trovano solo dei fake. È una consolazione per chi spende ore a cercare il selfie ideale. E potrebbe essere un buon post-it da attaccare allo specchio per quando ci guardiamo scontenti. È poi una fake news anche che si tratti di una «ricerca scientifica di un team di scienziati» di Londra. Così viene presentata quasi ovunque, ma il Centre for advanced facial cosmetic & plastic surgery è lo studio di un chirurgo plastico, Julian De Silva, che non è primario d' ospedale né ricercatore universitario. La sezione aurea, già usata in Egitto e nell' Antica Grecia, fu codificata durante il Rinascimento come una sorta di «proporzione divina» e identificata dal numero 1,618. Il Partenone di Atene è costruito su questa proporzione e così l' Uomo Vitruviano di Leonardo e la sua Gioconda, il cui volto è incastonato in un rettangolo aureo immaginario. Per i visi, si tratta di mettere in proporzione due diverse distanze: se lo spazio fra bocca e mento è pari a uno, quello in altezza fra le linee orizzontali di bocca e coda dell' occhio dev' essere 1,618. Lo stesso rapporto si auspica fra linea degli occhi e linea delle tempie, fra larghezza delle guance e altezza del volto. E ancora: se il naso è largo uno, la bocca deve essere larga 1,618. Stando a De Silva, Hadid si avvicina alla perfezione per il 94,35%. Nella top ten del volto più armonioso, Beyoncé è seconda, Amber Heard terza. Seguono Ariana Grande, Taylor Swift, Kate Moss, Scarlett Johansson, Natalie Portman, Katy Perry e Cara Delevigne. Marco Klinger, responsabile della Chirurgia plastica di Humanitas Milano, però, crede poco alla formula applicata al millimetro: «Amo più il fascino che la bellezza regolare. Colpiscono prima uno sguardo o un sorriso e poi i lineamenti». Saveria Capecchi, sociologa specializzata in Media digitali e genere all' Università di Bologna, osserva che ormai nell' epoca degli influencer, non importa ciò che è vero o ciò che è falso: «La verità non è più un valore. Esistono influencer virtuali con le quali i follower interagiscono come se fossero reali». Sergio Givone, filosofo, professore emerito di Estetica a Firenze avverte: «Se bastasse una formula matematica per creare un capolavoro, ogni artigiano potrebbe riprodurre il David di Michelangelo. Ma la bellezza è fatta di grazia». Il consiglio del filosofo è riconoscersi nelle proprie imperfezioni, perché «l' imitazione della Hadid di turno produrrà sempre solo un' orribile maschera».

·         Patrizia De Black.

Patrizia De Black choc a Pomeriggio5: "Ho avuto una relazione con un prete". Patrizia De Black ha avuto una relazione con un prete senza sapere che fosse un ministro di Dio: è quanto ha raccontato a Pomeriggio5, dove ha spiegato anche come ha fatto a scoprirlo. Francesca Galici, Giovedì 17/10/2019 su Il Giornale. La contessa Patrizia de Blanck è una delle Nobil Donne più estroverse del nostro Paese. Discendente di due potentissime famiglie, cubana da parte di padre, è spesso ospite in tv dove non manca di raccontare aneddoti curiosi della sua vita extra ordinaria. Partecipa spesso ai salotti di Canale5 e ieri, a Pomeriggio5, ha raccontato di quando ebbe una relazione con un prete senza sapere che fosse un ministro di Dio. L'argomento del talk della seconda parte del programma di Barbara d'Urso – da sempre dedicata agli argomenti leggeri di attualità e di gossip – era il racconto delle storie di ex preti che, trovato l'amore, decidono di abbandonare l'abito talare. In studio, quindi, erano presenti due coppie (una eterosessuale e una omosessuale) in cui un componente era un ex prete. In collegamento da Roma c'era la contessa Patrizia De Blanck, che ha raccontato di aver avuto una relazione con un bellissimo uomo senza sapere che fosse un prete. “Ci siamo conosciuti per caso in un bar. Prendevamo il caffè e poi abbiamo iniziato a frequentarci. C’era un solo problema: la domenica scompariva”, ha detto la Nobil Donna. Questo dettaglio si rivela fondamentale per la prosecuzione del racconto perché, per capire i motivi di questa strana latitanza domenicale, la contessa decise di seguirlo: “L’ho visto entrare in chiesa ma non usciva più, così sono entrata e chi vedo sull’altare a dire la messa? Lui!” Inevitabile l'ilarità in studio per il modo in cui la contessa Patrizia De Blanck ha esposto il suo racconto, anche perché la donna ha spiegato che benché l'uomo vestisse sempre di nero non aveva mai il collarino. Secondo la socialite romana, la scelta del suo look derivava dal lavoro presso le pompe funebri o qualcosa di simile. In studio c'era anche Patrizia Groppelli, ex principessa d'Asburgo e Lorena per matrimonio, che ha messo in dubbio il racconto della Nobil Donna. Patrizia De Blanck, che è nota per essere una persona schietta e diretta, non si è però fatta intimidire dalle rimostranze dell'ospite in studio: “Ma a me non me ne frega niente, se io vado a letto con un prete lo dico, non ho niente di cui vergognarmi! L’ho scoperto dopo, ma anche dopo ho continuato a vederlo.” La tesi di Patrizia De Black è che per la loro formazione ed educazione, i preti siano uomini molto attenti con le donne. Dopo l'esperienza con la contessa, pare che il prete abbia rimesso i voti e si sia sposato con un'altra donna ma ancora oggi i due continuano a sentirsi e ad avere un rapporto d'amicizia.

Francesca Galici per Il Giornale il 18 ottobre 2019. La contessa Patrizia de Blanck è una delle Nobil Donne più estroverse del nostro Paese. Discendente di due potentissime famiglie, cubana da parte di padre, è spesso ospite in tv dove non manca di raccontare aneddoti curiosi della sua vita extra ordinaria. Partecipa spesso ai salotti di Canale5 e ieri, a Pomeriggio5, ha raccontato di quando ebbe una relazione con un prete senza sapere che fosse un ministro di Dio. L'argomento del talk della seconda parte del programma di Barbara d'Urso – da sempre dedicata agli argomenti leggeri di attualità e di gossip – era il racconto delle storie di ex preti che, trovato l'amore, decidono di abbandonare l'abito talare. In studio, quindi, erano presenti due coppie (una eterosessuale e una omosessuale) in cui un componente era un ex prete. In collegamento da Roma c'era la contessa Patrizia De Blanck, che ha raccontato di aver avuto una relazione con un bellissimo uomo senza sapere che fosse un prete. “Ci siamo conosciuti per caso in un bar. Prendevamo il caffè e poi abbiamo iniziato a frequentarci. C’era un solo problema: la domenica scompariva”, ha detto la Nobil Donna. Questo dettaglio si rivela fondamentale per la prosecuzione del racconto perché, per capire i motivi di questa strana latitanza domenicale, la contessa decise di seguirlo: “L’ho visto entrare in chiesa ma non usciva più, così sono entrata e chi vedo sull’altare a dire la messa? Lui!” Inevitabile l'ilarità in studio per il modo in cui la contessa Patrizia De Blanck ha esposto il suo racconto, anche perché la donna ha spiegato che benché l'uomo vestisse sempre di nero non aveva mai il collarino. Secondo la socialite romana, la scelta del suo look derivava dal lavoro presso le pompe funebri o qualcosa di simile. In studio c'era anche Patrizia Groppelli, ex principessa d'Asburgo e Lorena per matrimonio, che ha messo in dubbio il racconto della Nobil Donna. Patrizia De Blanck, che è nota per essere una persona schietta e diretta, non si è però fatta intimidire dalle rimostranze dell'ospite in studio: “Ma a me non me ne frega niente, se io vado a letto con un prete lo dico, non ho niente di cui vergognarmi! L’ho scoperto dopo, ma anche dopo ho continuato a vederlo.” La tesi di Patrizia De Black è che per la loro formazione ed educazione, i preti siano uomini molto attenti con le donne. Dopo l'esperienza con la contessa, pare che il prete abbia rimesso i voti e si sia sposato con un'altra donna ma ancora oggi i due continuano a sentirsi e ad avere un rapporto d'amicizia.

Massimo Giletti.

Massimo Giletti: “Per anni ho inscatolato balle di cotone”. Francesco Fredella il 19/10/2019 su Il Giornale Off. Combattere. Per Massimo Giletti, giornalista di punta di La7, è un motto. Un modo di interpretare la vita. Lui non molla mai. Ancora oggi, d’estate, quando i riflettori del suo programma sono spenti, Massimo lavora nell’azienda di famiglia. «Mio padre, che si chiama Emilio e ha 90 anni, continua la vita di sempre: va in ufficio al mattino e torna la sera. Da lui ho imparato a tenere duro e ad avere le spalle larghe. Ho fatto anche il lavoratore stagionale. D’inverno in Rai e d’estate in azienda da papà con la tuta da operaio».

Qual è l’episodio off della sua vita?

«Sicuramente il mio primo viaggio a Lourdes. Mia nonna Biancamaria mi disse: “Adesso conoscerai gli invisibili”. Erano i malati, quelli che non erano presi in considerazione nella nostra società. Da quell’episodio, nelle mie inchieste, ho deciso di stare dalla parte dei più deboli».

Ma non ha mai pensato, durante le difficoltà dell’inchiesta, di mollare tutto e fare una tv più leggera?

«Spesso ci penso. Ma non mi viene in mente di mollare. Spesso costruire battaglie, essere attaccati, è un peso psicologico duro da sopportare. Ma alla fine bisogna dar voce a chi fatica a trovare spazio. E’ questo il ruolo del giornalista: fare una tv di rottura».

In Rai si sentiva libero?

«La libertà in Rai me la sono guadagnata. Ho sempre fatto quello che sentivo e pensavo che i dati di ascolto della mia “Arena” della domenica fossero la mia carta di protezione. Mi ero sbagliato, ma ve l’assicuro: non ho mai avuto pressioni. Mi dispiace solo per il mio gruppo di lavoro in Rai».

Cioè?

«Spaziavamo dalla cronaca all’inchiesta passando per l’intrattenimento. Ho restituito alla Rai, negli anni, quello che avevo imparato da Minoli».

Urbano Cairo le aveva proposto un contratto di cinque anni. Perché ha preferito un biennale?

«E’ verissimo. Potete darmi del pazzo: perché con cinque anni di contratto sei più sereno sul lavoro Ma ho bisogno di stimoli: due anni ti permettono di essere sempre sul pezzo».

Ha iniziato questo mestiere tardi. Ma è vero che prima ha girato il mondo facendo tutt’altro?

«Lavoravo nell’azienda di famiglia. Si trova nel biellese e mi ha dato la possibilità di viaggiare e conoscere il mondo. Poi ho deciso di fare il giornalista: fino al 1999 d’estate lavoravo nell’azienda di papà ogni estate. A quei tempi facevo “I fatti vostri”. Ricordo la fatica di aprire 10 Mila kg di balle di cotone. Le sfilacciavo e le inscatolavo. I dipendenti di papà andavano in ferie».

Non ne aveva bisogno. Perché lo ha fatto?

«Soltanto in questo modo capisci cosa vuol dire guadagnarsi la vita».

Poi ha cambiato vita e ha virato verso il giornalismo.

«Sono nato con “Mixer” di Giovanni Minoli. Lui mi ha dato la vera opportunità. Gli dirò a vita, sempre, grazie. Ma devo ringraziare anche Michele Guardì: un grande maestro. Una volta, durante le prove, avevo la febbre. Uno svenimento mentre lui mi teneva sotto torchio. Mi sono risvegliato con la Perego che mi sventolava con un giornale».

Francesco Fredella. Pugliese doc. Francesco Fredella nasce il 6 maggio 1984 alle 20: orario del telegiornale della sera. Sin da bambino sogna di fare il giornalista. Un sogno che rincorre e realizza dopo il liceo classico frequentando radio e televisioni private. Una volta conseguita la laurea in Lettere a pieni voti, diventa giornalista professionista e si trasferisce a Roma.Attualmente collabora con il gruppo Cairo editore (Nuovo e Nuovo tv), con il Tempo e con Affari italiani. E’ opinionista di Rai1 e Pomeriggio5. Nel 2017 entra nella grande famiglia RTL102.5 e vi tiene compagnia su Radio Zeta. In passato ha collaborato per Skytg24, Mediaset (dalla Puglia), per la televisione di Stato svizzera e per Novella2000. 

·         Claudio Cecchetto.

Claudio Cecchetto, malore per il produttore trasportato in ospedale con un’ambulanza. Claudio Cecchetto è stato colto da un malore improvviso durante la presentazione del nuovo album di Benji e Fede: il produttore è stato soccorso e portato via in ambulanza. Luana Rosato, Venerdì 18/10/2019, su Il Giornale. Momenti di paura durante la presentazione del nuovo album di Benji e Fede: all’evento era presente anche Claudio Cecchetto che, come riportato da alcuni organi di stampa, è stato colto da malore improvviso e trasportato in ospedale. Il produttore e disc jokey si è sentito male nel corso della serata di ieri, 17 ottobre scorso, organizzata presso il Nhow Hotel di via Tortona a Milano, ma non si conoscono le cause del malore né le attuali condizioni di salute di Claudio Cecchetto. Al momento, infatti, non sono trapelate informazioni riguardanti quanto accaduto e tutti sono in apprensione per il fondatore di Radio Deejay. Per lui, tuttavia, questi ultimi giorni sono stati molto pesanti in seguito alla scomparsa dell’amata mamma di cui, proprio ieri, si sono tenuti i funerali. Claudio Cecchetto, 67 anni, è stato colpito dalla morte della madre Ines avvenuta qualche giorno addietro. Lui, sempre molto attivo sui social, aveva condiviso con i fan questo triste momento postando una immagine felice della mamma, e poi è completamente sparito. In tanti sperano che, proprio attraverso Instagram dove è spesso attivo, Cecchetto possa dare qualche notizia in più sul suo stato di salute, confortando, così, i più ansiosi e timorosi. Il silenzio da parte del suo entourage e da parte dello stesso produttore musicale, infatti, sta allarmando tutti coloro che lo seguono quotidianamente e che, quindi, sperano che il malore che l’ha colpito nella serata di ieri non sia stato causato da qualcosa di grave. Per il momento, dunque, l’unica cosa da fare è attendere notizie maggiori sullo stato di salute di Cecchetto, evitando falsi allarmismi.

·         Maria Teresa Ruta.

Maria Teresa Ruta: "Quella violenza a 19 anni mi ha segnata per sempre". Nella nuova puntata di Storie Italiane, l'ex naufraga ha parlato della brutale aggressione subita quando aveva 19 anni. Serena Granato, Venerdì 18/10/2019 su Il Giornale. Nella nuova puntata di Storie Italiane, trasmessa nella giornata di oggi, 18 ottobre su Rai 1, si è discusso in studio con la conduttrice Eleonora Daniele della tentata violenza sessuale avvenuta a La Spezia, che ha visto la cantante 26enne Susan Bonotti subire dei palpeggiamenti da un maniaco sessuale. E, tra gli ospiti in studio, nel nuovo appuntamento tv è apparsa anche l'ex concorrente de L'Isola dei famosi, Maria Teresa Ruta, che ha concesso un'intervista esclusiva alla padrona di casa Rai. Così, incalzata dalle domande della Daniele, l'ex isolana ha rilasciato alcune sconcertanti dichiarazioni sull'aggressione subita in passato: "Quando una donna viene colta di sorpresa, violentata, picchiata è devastante. Non riesci a metabolizzare immediatamente. Io ci ho messo 20 anni per tirare fuori questa drammatica vicenda. Mi vergognavo, mi sentivo colpevole, non volevo causare dispiaceri ai miei cari. Questo dolore mi ha cambiato la vita". La showgirl ha confidato al pubblico di indossare abitualmente jeans e di aver usato un soprabito lungo per anni, al fine di evitare qualsiasi tipo di violenza, dopo quando subito da adolescente. "Era il 14 agosto, non c'era nessuno... erano le 2 del pomeriggio... faceva caldissimo. Avevo 19 anni, sono passati 40 anni… -ha sottolineato visibilmente provata l'ospite in studio a Storie Italiane-. Mi devasta! Non ci devo pensare. Ero stata inseguita da alcuni ragazzi, mi hanno derubato borsetta, orecchini e collana. Mi avevano rinchiusa in un portoncino. Non c’era nessuno. Hanno notato che mi difendevo, si sono eccitati e hanno pensato di divertirsi con me. Ho dato calci e pugni. Non sono riusciti a violentarmi. Io gridavo. Ma nessuno interviene". La Ruta non ha nascosto, quindi, di essersi difesa con tutte le sue forze, durante l'aggressione. "Hanno continuato ad aggredirmi- continua- ed a un certo punto è scesa una signora che era in casa e ha iniziato a bussare al portone, ma io sono svenuta per un pugno subito, credo, perché io mi difendevo. Ero piena di lividi. Mi sono difesa finché ho potuto e anche violentemente e loro poi sono scappati. Credevo che avessero portato via anche la mia dignità. Da vittime si pensa sempre che la colpa sia propria. Mi sono comprata un pastrano lungo fino ai piedi e l'ho indossato per anni. Mi hai mai vista in giro con una gonna? (La Ruta chiede alla Daniele, ndr)".

Maria Teresa Ruta: "Dimenticai i figli in autogrill". Maria Teresa Ruta, ospite di Mattino Cinque, ricorda alcuni episodi riguardanti il rapporto con i figli e fa una confessione inaspettata. Luana Rosato, Lunedì 21/10/2019, su Il Giornale. Ospite di Mattino Cinque per dibattere, insieme alla figlia Guendalina, sul rapporto tra madri e figli, Maria Teresa Ruta ha raccontato alcuni aneddoti che hanno lasciato di stucco Federica Panicucci. Dopo aver parlato di uno dei suoi periodi familiari più difficili durante il quale decise di lasciare i figli con la tata e andare via perché “ero stressata e loro riuscivano a far venire fuori il peggio di me”, la conduttrice ha ricordato con il sorriso sulle labbra il giorno in cui dimenticò Guendalina e Gianamedeo Goria in autogrill. “Ero all’apice della mia notorietà – ha iniziato a raccontare lei - .Entro in autogrill e mi chiedono: "Signora Ruta facciamo una fotografia?". Allora io mi distraggo, faccio le fotografie e le ragazze dell’autogrill si occupano di Guenda e Gianamedeo...”. “Io faccio le foto e, siccome non sempre penso, mi avvio verso la macchina, metto in moto e parto – ha aggiunto - . Ad un certo punto, una macchina suona ed erano le ragazze dell’autogrill che mi avevano riportato Guenda e Gianamedeo”. “Ma eravamo abituati! A scuola mi hanno dimenticato un sacco di volte - è intervenuta la figlia della Ruta nel tentativo di sdrammatizzare - . Io ho dei ricordi di me come di una bambina molto paziente che aspettava nell’atrio della scuola pensando: ‘Prima o poi arriveranno’”. Ma i racconti di Maria Teresa Ruta non si sono fermati e, divertita, ha ricordato quando infilò la figlia di otto giorni in una borsa per portarla con sé all’estero: “Non avevo i documenti e dovevo partire per forza. Arrivata a Parigi feci la scena e dissi che avevo perso i documenti”. “Tutto sommato, Federica, è meglio che se ne sia andata da casa”, ha concluso Guendalina ironica davanti ad una Panicucci che si è detta "basita".

Maria Teresa Ruta lancia un appello a Storie Italiane. Nel corso del suo ultimo intervento, Maria Teresa ha voluto inoltre denunciare un episodio di violenza a cui ha assistito in prima persona, mentre era in un negozio: "Ieri ho sentito una ragazza urlare per un cellulare rubato e nessuno è intervenuto. Viviamo in una società dove tutti si fanno gli affari propri... perché hanno paura di intervenire". Infine, l'ex isolana ha voluto lanciare un appello alla sindaca di La Spezia: "Il vice-sindaco di La Spezia è una donna, le chiedo "Metta le telecamere"! Gli uomini non riescono a comprendere questo tipo di violenze. Non riescono a capire quanto sia devastante questo tipo di atto di violenza". "Mi hanno strappato la camicetta e i jeans. Sapete quanto tempo ci vuole a metabolizzare una violenza? -ha aggiunto la Ruta-. Noi mamme dobbiamo educare i nostri figli al rispetto e all'amore".

·         Vinicio Capossela.

Intervista a Vinicio Capossela: «Imparai a suonare in chiesa, per amore della nipote del parroco». Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it da Valeria Costantini. Il cantautore di Ballate per uomini e bestie: «Il mito di mio padre era Celentano: quando l'ho incontrato mi sono inchinato davanti a lui». «Ho imparato a suonare i primi accordi sull’armonium in parrocchia: ero segretamente innamorato di Maria Grazia, la nipote del parroco». Vinicio Capossela non è semplicemente un musicista, ma un po’ antropologo ed enigmatico filosofo. Le sue ballate sembrano riferirsi a mondi lontani, come la città dov’è nato, Hannover. «Sono stato pochissimo in quella città, non ho fatto nemmeno in tempo a imparare le parolacce in tedesco, perché poi sono cresciuto in Emilia Romagna. I miei genitori, originari dell’Irpinia, erano emigranti».

Che mestiere faceva suo padre in Germania?

«I lavori più umili e più faticosi, quelli che potevano fare solo gli emigranti. Ma era appassionato di musica, tanto che mi chiamo Vinicio in omaggio a un fisarmonicista degli anni ‘60, che mio padre apprezzava tanto. Un giorno si presentò a casa con un giradischi e con dei 45 giri che erano bellissimi, coloratissimi. Il suo mito era Adriano Celentano, se lo sognava di notte e, quando molti anni dopo io incontrai il famoso cantante in una trasmissione televisiva, dov’ero stato invitato, mi inchinai di fronte a lui come fosse una divinità: era l’omaggio che mio padre avrebbe voluto fargli».

Quando ha deciso che avrebbe fatto il musicista?

«L’ho desiderato sin da bambino. Ero attratto dagli strumenti a tastiera, così come i ragazzini della mia età amavano il pallone o la bicicletta... Amavo in particolare l’organo e, siccome ovviamente non ne disponevo, disegnai su una tavola i tasti, scrivendoci sopra i rispettivi suoni: blin, blon, blen... Non solo: prendevo le cassette di frutta vuote, le univo con lo spago per mimare un impianto di amplificazione».

I primi maestri?

«I maestri veri sono quelli che incontri nella vita, gli altri semmai sono dei punti di riferimento, che per me sono stati Luigi Tenco, Tom Waits, Fabrizio De André... Il mio primo incontro significativo nella vita è stato con un giovane insegnante di liscio, che sapeva suonare e mi insegnò i primi rudimenti al pianoforte. Però nei paesi dell’Emilia Romagna, come quello dove vivevo io, Scandiano, e dove sono tuttora residente, a quell’epoca dominava il ballo non solo nelle balere, ma nelle feste dell’Unità, ai matrimoni... Si mangiava tanto e si ballava allo sfinimento... E io guardavo ammirato quelle coppie che si scatenavano e sudavano, sudavano... si squagliavano di sudore... gli uomini, come spugne imbevute d’acqua, erano costretti a togliersi la giacca, poi la camicia...».

Tanta passione per la musica, ma lei ha studiato economia all’università di Parma...

«Questa materia mi interessava per il suo carattere sociale».

In che senso, scusi?

«Intendiamoci, non l’economia da ricchi, ma quella che parla dei salari, dei diritti dei lavoratori, delle disuguaglianze, delle rivendicazioni sindacali... insomma, volevo capirne i meccanismi per rendermi utile alla comunità».

Però ha cambiato strada e ha abbandonato gli studi economici. I suoi genitori sono stati contenti di avere un figlio musicista o lo avrebbero preferito impiegato magari in banca?

«Ogni genitore ambisce, per il proprio figlio, al posto fisso, ne è attratto come da un centro di gravità... Devo dire, però, che non ho avuto opposizioni particolari da parte loro, perché non avevo un’azienda familiare da portare avanti e il vantaggio di avere poco è che hai meno da perdere... sei più libero nelle scelte. Mio padre si limitò a dire una frase lapidaria: “Vinicio meglio di così non poteva venire. Peggio di così non poteva venire”».

Le prime esibizioni non riscossero grande successo...

«Dica pure fischi... nella Bassa padana mi capitava di suonare dappertutto, anche nelle osterie. Una volta andai a suonare insieme a un gruppetto in un circolo punk a Modena e un tizio, di cui ricordo solo gli anfibi che portava ai piedi, schifato dalla nostra esibizione, si alzò e, andandosene, esclamò: siete la morte».

Si è scoraggiato?

«Assolutamente no. Il rapporto con il pubblico è sempre rischioso. Il guaio è quando diventa condizionante e quindi, pur di compiacerlo, rinunci alle tue scelte per farne altre, cambi i tuoi programmi. Un artista deve intraprendere il suo cammino, tra fischi e applausi, accettando la fatica di farsi accettare per ottenere consenso. Non sono un elitario, tuttavia secondo me è peggio quando ci si adegua alle richieste del pubblico: il rischio, come canta Ivano Fossati, è di fermarsi ad ogni lampione. La stessa cosa avviene in politica».

Cioè?

«Non sono partitico, ma politico, ogni gesto che facciamo è politico. Il fatto di delegare, degradare la politica a una macchina del consenso, dove siamo tutti tirati per la giacchetta, è la maniera più limitata. Non si può ridurre la figura del politico a quello che si fa i selfie in piazza e non si può ridurre un cittadino a colui che mette una crocetta sulla scheda del voto. Ripenso alla figura di Enrico Berlinguer, che parlava da solo, davanti a milioni di persone ed era capace solo con le sue parole di porsi come un vero leader».

Altri tempi. La realtà attuale è un’altra.

«Purtroppo, ma il reale non coincide con il vero. La dittatura dell’attualità, che ci costringe a esprimere opinioni per esempio attraverso i social è ineludibile e insopportabile. Quello che mi preoccupa è l’abuso dell’immagine rispetto alla parola: le immagini che dilagano in rete, sono immagini che mettono in circolazione le pulsioni più basse e possono anche fare molto male alle persone. Ecco, io preferisco avere un rapporto mediato con la “bocca della verità” che è la rete, uno strumento meraviglioso che richiede un alto senso di responsabilità. E allora sopra a quelle immagini ci metto una tendina, così come facevano mia nonna o le mie zie in Irpinia che sul televisore ci mettevano la tenda, perché lo consideravano un intruso in casa: si sentivano osservate da quel catafalco che dominava in camera da pranzo».

Il suo ultimo album si intitola «Ballate per uomini e bestie». Chi sono gli uomini, e chi le bestie?

«Appartengono entrambi allo stesso genere umano. La bestia, infatti, non è solo l’animale selvaggio, quello destinato all’arena, bensì la persona che si comporta male, aggredendo il prossimo nella lotta per la sopravvivenza, facendo prevalere la legge del più forte. Bestia è un termine ampio, comprende anche il maleficio, non a caso è pseudonimo del diavolo».

Insomma, qual è il confine tra gli uomini e le bestie?

«Ciò che ci rende uomini è la cultura, il rispetto delle regole, il sapere stabilire dei limiti per stare insieme in una convivenza pacifica. Il confine, ovvero la differenza, è tra civiltà e barbarie».

Chi è «Il povero cristo», che dà il titolo a un brano dell’album?

«Non sono credente, non sono sorretto dalla Fede, ma sono sensibile al sacro, alla ritualità e leggo con attenzione le Scritture. La religione ci offre delle chiavi di comprensione più dell’uomo che di Dio. D’altronde, Dio stesso si è fatto uomo».

Posso farle una domanda impertinente?

«Dica pure».

Lei in palcoscenico è sempre provvisto di cappello. È una questione che riguarda il costume di scena oppure si tratta di pura e semplice civetteria, per nascondere la calvizie?

«È davvero un po’ impertinente questa domanda, che nessuno mi ha mai fatto... — ride —. Ora le spiego: non è civetteria, è una forma di travestimento, il più pratico che esiste da portare in giro nelle tournée. Di cappelli ne ho tanti, di varie fogge e diversi colori, ma sono facili da trasportare, perché occupano poco spazio, tranne alcuni che sono più ingombranti, insomma... un teatrino portabile! Però la loro funzione è soprattutto un’altra: con i cappelli si creano dei personaggi, si trasmettono delle suggestioni, rappresentano una vestizione delle mie canzoni... In altri termini, sono degli ottimi compagni di lavoro che accompagnano certe stagioni della vita. Dunque, non sono coperchi per la calvizie».

Nato ad Hannover, cresciuto a Scandiano, poi in giro per il mondo. Si sente un apolide?

«Non mi sento fuori dalla polis, dalla comunità. Credo di essere apolide come qualunque uomo contemporaneo. Semmai ho il vantaggio di essere pluripolide: di comunità ne ho parecchie».

·         Marco Ferradini ed il suo Teorema.

Dagospia il 20 ottobre 2019. Da I Lunatici del week-end.  Marco Ferradini è intervenuto nel corso della trasmissione I Lunatici del week end in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Andrea Santonastaso e Roberta Paris.

Sui cantautori: Quando si scende dal palco hai l’adrenalina che ti scorre nelle vene e fino alle 4 non riesci a dormire, anche se hai un testo che ti frulla in mente passi tutta la notte a pensare a quali parole mettere. Io sono uno di quelli che quando mi vengono in mente le parole di una canzone le scrivo dappertutto, a suo tempo ho avuto il famoso registratorino con le cassette che per me era fondamentale, adesso uso il telefonino e metto dentro tutte le mie idee nel telefonino. Io ho sempre fatto prima le melodie perché mi venivano più naturali, però dopo è dura mettere il testo sulle melodie perché le melodie sono sempre belle, infatti poi si mette sempre un testo in finto inglese perché suona sempre bene, poi quando vai a mettere il testo in italiano son dolori perché il testo in italiano lo capisci e allora deve essere intelligente, devi dire cose non banali.

Su Teorema: “Teorema” è nata da un’esperienza vera, perché io ero in crisi sentimentale quindi non nasce a tavolino, nasce insieme ad un grande artista che saluto e che era Herbert Pagani, con il quale sono andato in montagna nel 1980. Andando su avevo scritto delle musiche e dovevo metterci dei testi, allora mentre andavamo su in montagna camminando lungo i sentieri gli raccontavo la mia storia, il momento che stavo vivendo, poi di sera attorno a un fuoco abbiamo scritto le canzoni “Biciclette”, “Schiavo senza catene”, “Week end in montagna” e “Teorema”. Quindi sono tutte canzoni sulla mia storia che io raccontavo a lui a lui, infine abbiamo buttato giù questi testi con lui che era bravissimo a cogliere un linguaggio che era il mio e il suo. È una storia vera riportata su carta. “Teorema” è il dialogo tra due amici che dicono che se una persona, uomo o donna che sia, la tratti troppo bene questa ne approfitta e ti da per scontato, il famoso rischio zerbino. L’interpretazione della canzone è puramente strumentale, ci hanno marciato parecchio. A Roma mi è capitato entrando in un bar che il cameriere mi ha riconosciuto e mi ha detto “Mannaggia, per colpa tua ho 4 figli!”. A tal proposito mi viene da chiedere perché in Italia non si fanno più figli? Perché non si scrivono più le belle canzoni d’amore.

Sul panorama musicale attuale: La cosa che mi spaventa e mi intristisce delle canzoni di oggi e la mancanza di melodia, non c’è un punto melodico al quale aggrapparsi. Non è vero che la melodia è superata, la melodia è difficile da farsi quindi la musica è diventata una cosa semplice e comoda. Io ricordo che passavo intere giornate dietro a una melodia che non viene, a un testo che non viene. Adesso accendi il computer, prendi una base già fatta e ci parli sopra. Ma di quelle parole purtroppo non rimane niente perché sono parole che non hanno senso, nel senso che non hanno modo di attecchire dentro di te perché non c’è nessuna melodia che te le faccia ricordare. Per me queste canzoni non sono tanto delle canzoni ma sono della gag, arrangiate come sono adesso con i suoni dei videogame non c’è niente di emozionante. Quando ascolto una canzone io valuto la persona che canta in base all’emozione che riesce a darmi, se non mi dà emozione può anche cambiare mestiere. In musica ormai è stato detto tutto, non esiste più quella spinta comunicativa di un tempo, infatti sono anni che continuiamo ad ascoltare la musica del passato. Pensate a Vasco Rossi, ogni sua canzone era uno slogan, invece i ragazzi di adesso hanno meno passione e voglia di faticare, se non hai qualcosa da dire non può venire fuori una bella canzone. A me l’attuale sembra una generazione che ha perso la voglia di lottare, noi eravamo affamati, oggi hanno tutti la pancia piena.

·         Maddalena Corvaglia.

Maddalena Corvaglia affonda il governo: "Non fai lo scontrino? Vai in carcere. I clandestini spacciatori? In albergo". Maddalena Corvaglia sbotta sui social e critica i provvedimenti presi dal governo giallorosso. Anna Rossi, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale.  In questi giorni si parla parecchio del distacco fra Maddalena Corvaglia ed Elisabetta Canalis. Le due non si sono mai espresse in merito, ma quello che è certo è che non lavorano più insieme nella palestra negli States. Ma lasciato da parte questo genere di gossip, nelle ultime ore Maddalena Corvaglia ha voluto condividere con i fan un suo pensiero. Il tema? La manovra economica, le scelte (strampalate) di questo governo in termini fiscali. "Qualcosa non torna - scrive su Instagram -. Manovra: se non fai lo scontrino finisci in carcere. Se arrivi clandestinamente in Italia per spacciare finisci in albergo". La posizione di Maddalena Corvaglia è chiara: una critica nei confronti dei provvedimenti che il governo giallorosso sta prendendo e un attacco alla riapertura dei porti. Tradotto: no alla manovra del BisConte e no all'immigrazione selvaggia. Ovviamente, nel giro di qualche ora la storia condivisa da Maddalena Corvaglia è diventata virale. Maddalena, infatti, solitamente preferisce non dare adito a polemiche. Ma anche per lei evidentemente questa è troppo.

Da it.notizie.yahoo.com il 20 ottobre 2019. Maddalena Corvaglia nell’ultimo periodo è al centro della cronaca rosa nostrana. Le indiscrezioni, infatti, parlano di amicizia al capolinea fra lei ed Elisabetta Canalis. Tuttavia, da parte delle due ex veline non è arrivata alcuna conferma né smentita ufficiale. Intanto Maddy ha detto la sua sull’esecutivo giallo-rosso. La Corvaglia contro il governo sferra critiche riguardanti la manovra economica.  “Manovra: se non fai lo scontrino finisci in carcere. Se arrivi clandestinamente in Italia per spacciare finisci in albergo“. Queste le parole scritte da Maddalena Corvaglia in una storia pubblicata sul suo account Instagram. Così l’ex velina dello storico tg satirico ha criticato le decisioni di natura fiscale apportate dal governo Conte bis e attaccato il provvedimento riguardante la riapertura dei porti. Intanto è scoppiata la polemica: in molti si dicono concordi con lei, ma altri fan l’hanno criticata per le dure parole e per essersi così sbilanciata in tema politico. Le due, tra uno stacchetto e l’altro, sono diventate inseparabili. Dal bancone di Striscia la Notizia, dove sono state veline per 4 anni, all’essere socie in affari. Maddy, al Corriere della Sera, aveva raccontato la profonda amicizia che la lega alla Canalis da ormai 20 anni. “La motivazione più grande per cui sono andata a Los Angeles è proprio l’amicizia con Elisabetta. Poi ci sono anche tante altre cose come i motivi familiari”. Nella città californiana, infatti, hanno aperto una palestra. Spesso fanno rientro in Italia, ma la loro vita ormai è in America. Skyler Eva, figlia della Canalis, e Jamye Carlyn, figlia di Maddalena Corvaglia, nata dal matrimonio con il chitarrista Stef Burns dal quale si è separata,vivono proprio negli Usa. Le due hanno smesso di seguirsi su Instagram, dove da tempo non si vedevano foto insieme. Sarebbe questo un primo segno della crisi che riguarderebbe la loro amicizia. A tal proposito, in un’intervista rilasciata al settimanale Chi, la Canalis ha dovuto rispondere a una domanda sulla storica amica e collega. “Immaginavo che me l’avrebbe chiesto, ma è un argomento molto delicato. Onestamente di questa cosa preferirei non parlare, se non le dispiace”, sono state le sue parole. Sebbene non sia mai arrivata alcuna conferma, le dichiarazioni tanto sfuggevoli di Elisabetta Canalis lascerebbero presagire una possibile rottura fra le due. Anche il loro progetto a Los Angeles è definitivamente tramontato. L’esperienza ideata dalle due ex socie è giunta al capolinea e la Elisabetta Canalis ne ha dato la conferma. “Abbiamo dato in affitto la nostra palestra. Non sono una personal trainer e c’è una forte concorrenza nel settore, che richiede competenze specifiche. Sto comunque lavorando ad un altro progetto legato al fitness, ma non posso dire niente al momento”, ha spiegato.

·         Lucia Sinigagliesi: la donna del del Guinness World Records.

Nino Materi per “il Giornale” il 20 ottobre 2019. Jack, il fidanzato dell' ucraina Olga Liaschuk, è assai preoccupato. La sua ragazza detiene infatti un record inquietante: con la sola forza delle cosce è capace di schiacciare tre angurie in appena 14,65 secondi; se a ciò si aggiunge che Olga ha un'espressione piuttosto truce, capite bene come l' apprensione di Jack sia del tutto giustificata. Decisamente più rassicurante è invece l'aspetto dell' italiana Lucia Sinigagliesi che non possiede nessun record, se non quello di ratificare o meno i record altrui. La signorina Sinigagliesi, 38 anni, marchigliana, è infatti «giudice ufficiale Guinness Word Records». Elegantissima nella sua divisa d' ordinanza, Lucia gira il mondo col trolley a caccia di primati, preferibilmente stravaganti. Da lontano sembra un'hostess Alitalia diretta al gate del decollo, ma poi basta osservare il libro che ha tra le mani per capire che quello non è un «piano di volo» da consegnare al comandante, ma l' ultima edizione del Guinness World Records 2020 (Mondadori), il libro che tradizionalmente raccoglie il meglio fantasmagorico della «recod-mania» planetaria. E Lucia è tra le poche privilegiate che questo pazzo universo può esplorarlo in lungo e in largo, rilasciando (o ritirando) agli aspiranti recordman la patente di genialità. «I viaggi e i record sono sempre state le mia passioni -. Dopo la laurea in Lingue e cultura di impresa all' università di Urbino, inviai il mio curriculum alla sede Londinese del Guinness World Records (GWR). Inizialmente entrai nel settore commerciale, ma poi coronai il sogno di diventare giudice». Da 17 anni Lucia vive a Londra, città che ama: «Per questa storia della Brexit ho addirittura pianto, noi stranieri viviamo in una situazione di incertezza che non è piacevole». E a ben guardare anche questa della Brexit potrebbe essere - magari per la categoria «follie geopolitiche» - un record degno di entrare nella prossima edizione del celebre libro dei primati. Lucia ieri mattina era in una scuola elementare di Milano per descrivere il suo lavoro, ma soprattutto per spiegare ai bambini il piacere delle nuove avventure: «Dietro la ricerca dei record si nasconde la gioia di mettersi alla prova - spiega Sinigagliesi -. È questa emozione il filo conduttore che unisce le migliaia di protagonisti che ogni anno si cimentano in imprese solo apparentemente prive di senso». Ma che al contrario un senso ce l'hanno, eccome: e cioè il senso della libertà di confrontarsi con se stessi, ancor prima che con gli altri. L' album dei ricordi di Lucia è pieno di pensieri a colori. Lei li sfoglia e, per ognuno di essi, sfodera un sorriso smagliante: «Nel 2013 in Mongolia registrai il record della parata di cavalli più numerosa al mondo: 11.125 cavalieri al galoppo tra le strade della capitale. Uomini, donne, vecchi, bambini. Uno spettacolo indimenticabile. In Mongolia il cavallo è molto di più che un animale, in quel paese si dice che un uomo senza cavallo è come un uccello senza ali». Chiedere al giudice Sinigagliesi «a quale record è più affezionata», è come domandare a una mamma «a quale figlio vuole più bene»: inutile, la risposta è sempre «a tutti, indistintamente». E allora non resta che digitare su Google immagini le parole «Sinigagliesi» e «record», ed ecco allora venir fuori le foto di Lucia che misura il «piede più grande del mondo» o la «tavoletta di cioccolato più lunga della terra». Frammenti di un mondo che tra le pagine del GWR 2020 si disintegrano in un' esplosione di «nuove categorie di record e primatisti» che informano e divertono nello stesso tempo. Argomenti che vanno dalle classiche categorie come «animali eccezionali», «meraviglie geografiche» e «spettacolari successi sportivi», fino a quelle più attuali: «streaming», «sport virali» o «robot e intelligenza artificiale». Il nostro «guinnes» preferito? Quello dell'«adolescente con i capelli più lunghi». La sua storia in pillole: dopo aver subito un pessimo taglio di capelli a 6 anni, Nilanshi Patel (India), soprannominata Rapunzel, ha deciso di occuparsi personalmente della sua acconciatura, e a 16 anni si è fatta crescere i capelli fino all' incredibile lunghezza di 170,5 cm. Altro che Cesare Ragazzi...

·         Serena Enardu.

Serena Enardu dimagrata, fan in allarme: "Non sono stata bene, ho perso sei chili". L'ex concorrente di Temptation Island Vip ha ammesso di essere notevolmente dimagrita dopo la rottura con Pago, rassicurando i fan con una dichiarazione social. Novella Toloni, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. Serena Enardu è tornata a parlare del difficile momento vissuto dopo la fine di Temptation Island Vip, che l'ha portata alla rottura con il fidanzato Pago. Dopo l'ultimo falò, la bella sarda è rientrata a casa per riprendere la sua vita ma è apparsa, sin da subito, provata e deperita. La sua magrezza non è passata inosservata sui social, dove appare spesso. Per questo, fan e follower l'hanno inondata di messaggi e commenti preoccupati. Serena Enardu ha così voluto rassicurare i suoi sostenitori con un video, pubblicato nelle storie del suo profilo Instagram, dove ha confermato i sospetti, affermando di aver perso diversi chilogrammi: "Grazie per tutti i messaggi che mi mandate di sostegno. Volevo dirvi che sto bene, che sono tranquilla; mi mandate una serie di messaggi anche in privato dove mi chiedete di ingrassare e mangiare. Sto mangiando, ve lo assicuro, piano piano riprenderò. Diciamo che ho perso in tutto 6 kg, da 54 sono arrivata a 48 chili, però voglio tornare nuovamente a 50 quindi sto mangiando". La Enardu ha spiegato il motivo del suo deperimento, legato proprio alla fine della relazione con il cantante Pago e il difficile momento vissuto dopo la fine del programma: "Effettivamente c'è stato un periodo in cui ho mangiato molto poco, perché non mi scendeva proprio la roba da mangiare. Però adesso sto meglio, sto mangiando, sto recuperando ma con i miei tempi. Non ho fretta. Non mi interessa e non mi è mai interessato in maniera particolare il mio aspetto fisico. Però nel momento in cui una persona non sta bene, è un po' più debole di testa, è giusto che si occupi un po' più di quello. Quindi piano piano in grasserò. Per me l'importante è quello che c'è dentro e non quello che c'è fuori. Molte persone si fermano all'aspetto esteriore, io lo curo e mi fa piacere ma non è la mia priorità". Le sue priorità oggi, infatti, sono la sua famiglia, primo tra tutti il figlio Tommaso con cui si mostra spesso sui social, e la sorella gemella Elga, con la quale ha un rapporto strettissimo.  Serena Enardu confessa: "Sì sono ​dimagrita, non riuscivo a mangiare".

·         Gianluca Vacchi.

Olga Luce per style24.it il 18 ottobre 2019. Gianluca Vacchi continua a far parlare di sé attraverso le sue esibizioni a dir poco improbabili. L’ultimo video pubblicato sul profilo instagram ufficiale dell’imprenditore è una piccola messa in scena organizzata in una lussuosissima sala da pranzo che è diventata il set di un’esibizione quasi scandalosa del Vacchi. La reazione migliore? Quella del cane. Gianluca Vacchi: è proprio necessario? Imprenditore dall’enorme fortuna familiare, personaggio assolutamente al di sopra delle righe, dj, influencer e trend setter, Gianluca Vacchi è salito all’onore delle cronache mondane grazie al suo stile di vita esagerato e all’abitudine a prendersi molto o molto poco sul serio. Dopo aver pubblicato un video in cui sfamava il suo ippopotamo domestico, dopo aver fatto scuola agli influencer più giovani e meno esperti di lui, lanciando tendenze di stile e tormentoni, alcuni giorni fa Gianluca Vacchi ha deciso di esibirsi in un balletto sensuale in una camera da pranzo. Di scandaloso in senso stretto nel video non c’è molto: Vacchi veste con la sua solita disinvoltura un bellissimo completo grigio perla e non mostra nemmeno un centimetro di pelle. Nonostante questo ammicca alla telecamera, si esibisce in passi di danza che mimano sfregamenti hot e veri e propri atti sessuali che vengono “consumati” prima contro il tavolo e poi direttamente al di sopra di esso.

La reazione della donna e del cane. Nel video compaiono, oltre a Vacchi, altre due figure: una donna seduta al tavolo, vestita in maniera perfettamente formale con tailleur scuro e camicia chiara, e un grosso cane bianco accucciato sotto il tavolo intento a schiacciare un pisolino pomeridiano. Entrambe le “comparse” del video ignorano Vacchi e il suo dimenarsi: la ragazza abbozza un sorriso noncurante mentre il cane fa quasi finta che non ci sia un uomo nella stanza impegnato ad accoppiarsi con un grosso tavolo di legno.

Tutto organizzato nei minimi dettagli. Nel bel mezzo della sua esibizione su un brano latinoamericano Gianluca Vacchi ha anche preso in mano un martello e un chiodo di ferro con i quali ha cominciato a tenere il ritmo del brano fino a che il video non si è concluso. Questo dettaglio conferma che l’intero video fosse stato organizzato nei minimi dettagli, dal set alla scenografia fino agli improbabili “oggetti di scena” che erano stati preparati su una sedia, a portata di mano del protagonista. Il motivo per cui l’imprenditore e influencer continui a realizzare video di questo tipo, in cui si esibisce in balletti più o meno accettabili, è ancora piuttosto indefinito. L’unica ragione dietro agli sforzi mediatici del Vacchi sembra quella della continua costruzione del suo personal brand, cioè il costruire un’immagine dettagliata e sfarzosa del “gentleman” italiano che dedica tutte le proprie energie a godersi la vita in ogni sfaccettatura mantenendo sempre uno stile personale e impeccabile. Funziona? Pare proprio di sì: i follower continuano a commentare i post di Gianluca e moltissimi influencer o aspiranti tali continuano a ispirare a lui le proprie imprese sui social media.

·         Alberto Dandolo.

Barbara D'Urso, "il giornalista denunciato sono io". Clamorosa sorpresa: un nome super-vip. Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. Qualche giorno fa Barbara D'Urso ha pubblicato sul suo profilo Instagram un video nel quale rivelava di aver finalmente scoperto, grazie alle indagini della polizia postale, chi si nascondesse dietro al profilo fake, che per più di un anno le ha arrecato non pochi problemi. Senza fare nomi, Carmelita aveva dichiarato che legato a tale profilo ci fosse un noto giornalista. A breve distanza dalla pubblicazione del filmato, il misterioso giornalista ha deciso di uscire allo scoperto per difendere la sua posizione. "Sono io ‘quel giornalista’", ha fatto sapere il noto Alberto Dandolo. "Che io 'collaborassi' con il profilo "carmelitadurto" è una affermazione che per ora non ha alcun riscontro legale. Ma la cosa più incredibile che la signora si dimentica di divulgare è che la polizia postale, a seguito di una perquisizione e di un interrogatorio, ha accertato che il creatore e gestore del profilo è un ragazzo sardo. E sapete chi ha indicato alla polizia postale il ragazzo sardo che si celava dietro a quel profilo? Io stesso! Cosa che la signora sa bene. Pensate quanto mi sentissi corresponsabile di stalking nei confronti della signora", ha dichiarato. Nel mentre La Presse, che gestisce l'immagine della D'urso, attraverso un comunicato ha aggiunto dei dettagli più che rilevanti. "Basterebbe guardare il verbale delle sommarie informazioni rese da Alberto Dandolo, per rendersi conto che egli non ha affatto 'fornito spontaneamente' le generalità dell’autore del profilo Instagram denunciato da Barbara d’Urso, ma che invece – dopo insostenibili contraddizioni e tentennamenti, messo alle strette dagli elementi di prova raccolti nei suoi confronti dalla Polizia Postale – ha dovuto 'obtorto collo' cedere alla evidenza dei fatti ormai resa incontrovertibile ed ha così ammesso, non solo di conoscere il titolare formale del profilo Instagram, ma anche di essere in contatto con lui almeno sin dal febbraio 2018 con riguardo al predetto profilo. Non corrisponde poi al vero che il sito avesse solo contenuti giocosi e di presa in giro, poiché è evidente a tutti (e soprattutto ad un sito serio come Dagospia) che né la Polizia Postale, né tanto meno un Pubblico Ministero avrebbero ipotizzato il grave reato di stalking in assenza dei relativi presupposti di fatto. La stessa Polizia Postale e lo stesso Magistrato neppure avrebbero accusato Dandolo di concorso nel predetto grave reato, se davvero, come egli invece sostiene, si fosse limitato solo a scambiare un paio di tweet con il titolare formale del profilo. Comprendiamo, ovviamente, che egli ora abbia l’esigenza di difendersi, e dunque non intendiamo aggiungere altro a riguardo. Ci auspichiamo che dopo questa nostra, il giornalista Alberto Dandolo interrompa le sue esternazioni sulla nostra assistita. LaPresse."

Dagospia il 17 ottobre 2019. Alberto Dandolo sulla sua bacheca Facebook/Instagram: Riguardo l’accorato video di Barbara D’Urso, mi duole dire che evidentemente tale video non era sotto testata giornalistica, visto che la signora omette il succo della vicenda e ne narra solo i dettagli, decontestualizzandoli. Tanto per cominciare, come da me accennato giorni fa, il giornalista di cui “non fa il nome” sono io, quindi io gli atti li conosco. Che io “collaborassi” con il profilo “carmelitadurto” è una affermazione che per ora non ha alcun riscontro legale. Ma la cosa più incredibile che la signora si dimentica di divulgare è che la polizia postale, a seguito di una perquisizione e di un interrogatorio , ha accertato che il creatore e gestore del profilo carmelitadurto è un ragazzo sardo che ha ammesso di essere appunto il creatore e gestore del profilo. E sapete chi ha indicato alla polizia postale il ragazzo sardo che si celava dietro a quel profilo? Io stesso! Cosa che la signora sa bene. Pensate quanto mi sentissi corresponsabile di stalking nei confronti della signora se proprio io ho messo la polizia sulla strada giusta. Avrei potuto tacere e farmi i fatti miei dicendo “non so nulla”, e invece ho collaborato senza alcuna remora. Riguardo i contatti che io intrattenevo con questo ragazzo sardo, erano una goccia nel mare di rapporti che intrattenevo e intrattengo, visto il mio mestiere di giornalista di gossip. E a riprova di quello che dico, elenco quello che di così compromettente, nell’intervallo di tempo di un anno, mi viene addebitato a seguito di lunghe e costose indagini: Messaggio in cui scrivo al ragazzo sardo che se vuole può condividere un invito Mediaset inviato a tutti i giornalisti. Messaggio al ragazzo sardo in cui dico che se vuole può condividere un tweet il cui contenuto era: “mi sa che oggi dopo la visione degli ascolti della Dottoressa Gió ci vuole un dottore per Barbarella”. Nota vocale in cui spiego a questo ragazzo sardo che nella vita si possono avere problemi o contrasti con le persone ma poi uno si deve svegliare la mattina e capire che le cose importanti sono altre. Il “continua anche per me” non era certo riferito alla condivisione di contenuti diffamatori, anche perché come emerge dall’analisi dei telefoni e del computer, io non ho mai e dico mai chiesto a questo ragazzo di insultare o minacciare qualcuno. Questo accerterebbe la mia implacabile attività di stalker! Detto ciò, comprendo i ringraziamenti alla postale della signora D’Urso. Ma di questo ne scriverò a tempo debito. Nel frattempo faccio gli auguri a Barbara D’Urso per lo spostamento del suo programma il lunedì sera dovuto ovviamente allo sfolgorante successo di ascolti che riscuoteva la domenica. Col cuore. Alberto Dandolo 

Dagospia il 14 ottobre 2019. Alberto Dandolo su Instagram: Se da un lato sono indagato per stalking telematico ai danni della signora Maria Carmela D'Urso (con la "d" maiuscola?!) a seguito di una sua querela, dall'altro la stessa mi utilizza come fonte per una lunga fetta della sua trasmissione serale. Ieri sera infatti  sono andati in onda servizi in cui vengono ampiamente citati i miei articoli scritti su OGGI e rilanciati da DAGOSPIA relativi al mio scoop estivo sul triangolo Incorvaia-Sarcina-Scamarcio. Vengono addirittura letti interi stralci dei miei pezzi. Una bizzarra anomalia: la presunta vittima di staking che utilizza il suo presunto stalker come fonte autorevole e credibile  di una notizia che usa per imbastire un lungo blocco del suo programna???. Cose mai viste! La conduttrice ovviamente non mi cita... a citarmi però ci pensa la mitologica Clizia)! 

Dagospia il 5 ottobre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: A proposito della vicenda riportata dal sito Dagospia in relazione ad una mia denuncia, preciso di averla sporta, con l’assistenza dell’avvocato Salvatore Pino, nei confronti di IGNOTI per un account fake di Instagram. Leggo che sarebbero stati identificati i responsabili a me però' assolutamente ignoti in questa vicenda. Grazie. Barbara d’Urso

Dagospia il 5 ottobre 2019. Alberto Dandolo. Per chi fa il mio lavoro arrivare a dare per primo una notizia e' non solo una bella soddisfazione ma è anche, per lo meno per me, un piacere quasi fisico. Sulla notizia che vi sto per comunicare non potevo arrivare secondo. Giornalisticamente non me lo sarei mai perdonato. Ma in primis non lo avrei accettato umanamente. Perché per lavoro io scrivo della vita della gente. Quello che vale per loro io lo devo applicare prima di tutto a me stesso. E' una questione di dignita', trasparenza e rispetto verso il mio vero editore :il lettore. Io se avessi avuto in mano questa comunicazione giudiziaria riferita a una persona pubbica io ne avrei scritto, proprio come mi appresto a fare ora. Eh si, perché la notizia riguarda proprio il sottoscritto e il suo presunti coinvolgimento in un procedimento giudiziario relativo ad un profilo instagram che si chiamava @barbaracarmelitadurto. Vi scrissi già qualche tempo fa che fui interrogato a lungo dalla Polizia Postale. Ma la notizia del giorno è che in questi mesi sono stato indagato e che qualche giorno fa si sono pure chiuse le suddette indagini. Ovviamente io vorrei dirvi e darvi tanti dettagli che non posso rendere noti per opportunità legali. Ma vi giuro su ciò che ho di più caro che TUTTI, e dico TUTTI, gli atti che la legge mi permetterà di pubblicare li pubblicherò qualora sciaguratamente dovessi essere processato. Ieri ho ritirato alla Polizia Postale la notifica di comunicazione fine indagini e ho scoperto che sono stato indagato per stalking contro la signora Maria Carmela D' Urso. Solo da questo momento il mio avvocato avrà accesso agli atti. Una volta letti, scriveremo una memoria difensiva in cui dovrò far maturare al Pm la certezza di non essere uno stalker informatico seriale della signora Maria Carmela. Un persecutore ossessionato da lei a tal punto da creare molteplici profili fake con i quali stalkerizzarla, compromettendone la sua salute fisica e i suoi equilibri psichici. POI LE STRADE SONO 2 : O SI ARCHIVIA LA MIA POSIZIONE O MI SI RINVIA A GIUDIZIO. In quest'ultimo caso divento IMPUTATO.

·         Robbie Williams.

Ernesto Assante per “la Repubblica” il 19 ottobre 2019. Il "regalo di Natale" di Robbie Williams ai suoi fan è un doppio album in uscita il 22 novembre, intitolato The Christmas Present , con un bel gioco di parole visto che i due dischi, uno di classici e uno di inediti, hanno come sottotitoli Christmas Old e Christmas Future , richiamando Il canto di Natale di Dickens. «Non è stata una scelta facile» ci dice quando lo incontriamo, tutto in nero e pailletes, in una suite del The Berkeley Hotel trasformata in set. «Avrei potuto fare solo i classici mentre la cosa difficile è far ascoltare alla gente le canzoni nuove, non altrettanto evocative. Quindi appena finito il lavoro ho avuto un bell' attacco di panico. Ma sono molto fiero del risultato, ho speso tempo e energia per questo disco, per scrivere le canzoni. Diciamo che ho fatto il furbo: ho messo vecchie canzoni di Natale per costringere la gente a ascoltare quelle nuove».

Oltre venti anni fa, quando ha iniziato la sua avventura solista, avrebbe mai pensato di fare un disco di canzoni di Natale?

«Certo che no, detestavo solo l' idea. La verità è che andando avanti la strada si stringe, senza accorgertene diventi parte dell' establishment, ma credo che questo sia davvero un disco di Robbie Williams, quello che sono stato e quello che sono».

Chi è oggi Robbie Williams?

«Ho avuto una vita fortunata, opportunità straordinarie, ho fatto esperienze incredibili. Tutto questo mi ha portato dove sono adesso, ad essere uno che canta canzoni di Natale. Scherzi a parte è una responsabilità enorme quella di entrare nelle case della gente in un periodo come quello delle feste, essere ascoltato mentre le famiglie si riuniscono a pranzo, essere parte di quel tessuto emotivo è fantastico».

Ascoltando l' album sembra che lei ci creda davvero nel Natale.

«Ho scritto trentacinque canzoni, se l' avessi fatto solo per una logica commerciale non ci avrei messo tanto impegno, non avrei corso il rischio di metterci canzoni nuove. No, questa era una sfida che potevo affrontare solo in questa maniera, con un profondo amore per il Natale, un amore bambinesco, profondo. Che condivido con mia moglie, romantica e sentimentale, una professionista nella costruzione di momenti memorabili».

Intrattenitore lo è sempre stato, ma con questo disco il passo definitivo per essere showman è fatto.

«Non saprei dire esattamente cosa sono diventato. Di certo prima odiavo molte cose di me stesso e degli altri, oggi sono più tollerante, anche musicalmente. Forse mi sento come quegli attori che all' improvviso in un film cantano e tutti pensano "accidenti, sa fare anche questo". Ecco, sono un' attore che sa cantare un po'».

Molto modesto.

«No, non sono modesto ma so che posso fare ancora altre cose, che gli spettacoli che sto proponendo vanno sempre di più nella direzione del grande show in cui la musica è il centro ma accadono altre cose. So che devo fare ancora molto, sento che devo dare il meglio quando sono sul palco. Ma tutto accade con un piano, non è successo per caso, prima facevo le cose è basta, ora ho una visione, un progetto».

Un po' del vecchio Robbie Williams è rimasto da qualche parte?

«Si, e alcune delle canzoni nuove magari a qualcuno daranno fastidio, non sono molto tradizionali. Soprattutto una, Happy Christmas Jesus Christ : sono convinto che se i Monty Python avessero voluto scrivere una canzone natalizia per me, l' avrebbero scritta così».

Quando è scattato il clic che l' ha fatta cambiare?

«Quando ho detto di sì a mia moglie. Quando ho preso un impegno con lei. Darsi completamente all' altro, farlo entrare nella tua vita, cambia ogni prospettiva. E le canzoni sono cambiate per forza, io nello scrivere sono sempre stato autobiografico, scrivo quello provo, quello che vivo. Non riesco a fingere di essere qualcuno di diverso da me, nel bene e nel male».

Com' è nato il progetto di questo album?

«È nato tre anni fa, in studio, mentre stavamo provando delle cose nuove. Mi sono convinto, l' idea mi piaceva e ho proposto anche un titolo: "Achtung Bublè", perché io amo pazzamente Michael Bublè, ma adesso basta con le sue canzoni di Natale».

Ci sono molti ospiti nel disco.

«Alcuni sono vecchi amici, personaggi che amo e hanno ispirato il mio lavoro, come Bryan Adams e Rod Stewart. Altre cose sono nate per caso, come quella con Mike Tyson».

In un brano canta anche sua figlia Teddy. E in un'altra suo padre, che si esibisce nei suoi show.

«Mio padre è nel disco e ne sono fiero, molto fiero. E viene a tutti gli spettacoli, sale sul palco e canta, ha un gran carisma e mi ruba la scena».

Le piace la musica di oggi?

«Non molto, ma sono in un età in cui su posso permettermi di pensarla così perché faccio parte di una generazione diversa. Mi piacciono Ed Sheeran, Calvin Harris, ma la maggior parte di quello che ascolto alla radio pare evanescente. Sembra che la musica sia già stata scritta tutta, per i giovani autori è difficile fare canzoni che possano arrivare al pubblico e restare nel tempo».

E il mondo di oggi, le piace? L' album si apre con "Time for change".

«Sono in una bolla, io e la mia famiglia, attorno c' è il rumore, la pantomima, la sfiducia. Ci sono io, i miei cari, il mio lavoro. Il resto è fuori da me. La canzone ha un malinconico senso di speranza, senza la quale non si può vivere».

Ci sarà anche un grande show di Natale?

«Sì, farò un live a Wembley in dicembre, una "grande merda festiva". Era questo il vero titolo del disco. Ma non lo hanno voluto».

·         Bill Murray, l’outsider.

Bill Murray, l’outsider. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.it da Valerio Cappelli. L’attore arriva tardi per la sua premiazione alla kermesse. Fan arrabbiati col divo che con Wes Anderson ostacola la traduzione dell’incontro. «Perdonate, ma Bill Murray era ancora, per usare un eufemismo, in pigiama. L’incontro viene cancellato», dice alla platea di media il direttore della Festa del cinema Antonio Monda. Erano le 13, stava dormendo. «Ma ti ricordi quando al Festival di Berlino si presentò in ciabatte?», commentano due adoranti «orfane» temporanee. Temporanee perché più tardi, con «solo» mezz’ora di ritardo, l’eterno outsider, l’«altrove» di Hollywood, onora l’impegno di raccontarsi in pubblico, mentre riceve il premio alla carriera da Wes Anderson, il regista per il quale ha fatto nove film: «Bill, sei divertente in modo unico». Ecco l’attore, 69 anni, con i suoi capelli grigi ormai diradati, cammina felpato a piccoli passi. Alla fine dirà una frase che suona come l’ennesima legnata sul capo della sindaca Raggi: «Roma è una città bella, ma la parte più bella l’hanno fatta nell’antichità. Voi romani dovete averne cura, amarla». L’incontro, moderato dal direttore della rassegna Antonio Monda, si trasforma subito in happening. Frances McDormand, che ha un’antica complicità di set con Murray, è all’Auditorium, arriva di corsa, si fa sollevare sul palco dai fotografi, si siede in braccio all’attore: «Sono qui per lui. Bill può anche farti del male, una volta sul set mi lanciò rompendomi una costola». Succede un po’ un pasticcio perché Wes Anderson e l’attore non danno modo all’interprete di tradurre, la gente ha pagato 20 euro, c’è chi protesta e se ne va, apostrofato così dal festeggiato: «Vai via? Ti auguro una grande vita». Murray coi suoi modi corrosivi mima lo sbadiglio per la traduzione che arriva ma a singhiozzo, per lui fa perdere tempo: «Siamo americani aggressivi, sedetevi vicino a chi parla inglese. L’interprete è pagata per ogni parola che traduce». Arrivano videomessaggi, da Anjelica Houston a Jim Jarmusch che dice: «Hai rinvigorito il cinema indipendente USA con i tuoi incredibili personaggi, festeggio i tuoi folli successi». Bill Murray è qui da giorni, vestito come l’arcobaleno, giacca color senape, camicia viola, cappello blu. L’incontro procede a strappi, paradossi, ghirigori, nonsense, dettagli. Bill ricorda Sydney Pollack in Tootsie, «aveva avuto un figlio da poco, si alzava la mattina presto e c’era un bel tramonto da casa sua». Antonio Monda lo guarda perplesso: «E’ questo che volevi dire?». E Bill: «Sì, se un regista ti ricorda che sei vivo, anche vedere un tramonto è un dono». Wes Anderson, in completo a righe rosse e calze in tinta tirate giù, ricorda la scena in cui Bill «corre trasportando valigie, in realtà erano maniglie». Murray rivolto ai giornalisti: «Spero che i vostri articoli rispecchino la precisione. Una cosa seria la dice: «Sono fortunato. Nella prima parte della carriera mi ha aiutato John Belushi; nella seconda tre registi, Wes, Sofia Coppola e Jim Jarmusch». Torna in modalità sorniona, stralunata, imperscrutabile. Il volto pieno di punti interrogativi, schivo, quando parla non ride mai. Da ragazzo portava la sacca con gli attrezzi, ai ricchi golfisti di Wilmette, dov’è cresciuto, quinto di nove fratelli, il padre vendeva legname. Recitò in Palla da golf. Tilda Swinton appare in video mentre gioca a minigolf: «Dalla Scozia con amore». Il nome di Bill Murray apparve in una lista di personaggi influenti a Hollywood: Era il numero 26. Di tutti i film, il vero personaggio è lui.

·         John Travolta.

Valerio Cappelli per il “Corriere della sera” il 23 ottobre 2019. Ma lei, John Travolta, danza ancora? «Sì, mi piace di più che recitare, e mi manca anche se ho appena ballato il tango per un mio caro amico, il rapper Armando Perez». Bisogna cominciare dai suoi occhi, azzurri e lucenti, pieni di gratitudine per l' amore che riceve dal pubblico dell' Auditorium, ma rimangono come storditi da un dolore che, a dieci anni dalla perdita di Jett, il figlio avuto da Kelly Preston, non può scomparire. Eccolo alla Festa del cinema, in camicia col volant e mocassini senza calze, mentre riceve un premio all' incontro col direttore della rassegna Antonio Monda: «Siete voi, il pubblico, ad avermi consentito di essere così diverso in ogni ruolo, io non avrei mai immaginato di interpretare una donna, o il presidente degli Stati Uniti». La camicia rossa col colletto a punta e il ciuffo ribelle imbrillantinato di Grease sono un lontano, piacevole ricordo legato alla preistoria della discomusic. Ora, a 65 anni, ha la testa calva come una biglia. L' attore ripercorre la sua carriera, spaccata a metà come una mela: da una parte Tony Manero, il ragazzo spavaldo della Febbre del sabato sera, 1977, uno di quei film che escono dallo schermo segnando una generazione; dall' altra Vincent Vega, il sicario di Pulp Fiction per Tarantino («non lo ringrazierò mai abbastanza per la fiducia»), un petardo esploso 25 anni fa a Cannes: «A quei due film aggiungo Grease. Se è stato difficile gestire, da così giovane, quel successo? No, a volte le persone sono fatte per certe cose, e io vengo da una famiglia teatrale. Non so cosa vuol dire non essere famosi». Dice che ha rifiutato per quattro volte ruoli poi andati a Richard Gere, « I giorni del cielo, American Gigolò, Ufficiale gentiluomo, Chicago, a cui dissi no, sbagliando, perché nella piéce le donne odiavano gli uomini, come potevo sapere che il film sarebbe stato più soft. Ogni volta erano motivi diversi e Richard non mi ha mai ringraziato». Impersonò l' ex presidente Usa Bill Clinton in I colori della vittoria , «lui fu gentile anche se non lo trattammo bene». A 17 anni «un produttore mi scartò per il musical Jesus Christ Superstar , diceva che ero troppo giovane per interpretare Gesù, annotò che andavo tenuto d' occhio. Anni dopo mi mostrò il biglietto e mi ingaggiò per La febbre del sabato sera. Lo vediamo sovrappeso, capace di convivere con le ferite della vita, e qualche fallimento sui set: «Ho vissuto le crisi come opportunità, ho conosciuto persone straordinarie, nel 1985 ballai con Lady Diana alla Casa Bianca». A Roma porta The Fanatic , accolto con freddezza negli Usa: «Ma è un piccolo film, costato poco, in cui esploro il ruolo del fanatico di un attore. Di chi sono fan io? Sophia Loren, Fellini, Bertolucci, i Beatles, Marlon Brando e il film Cabaret». Sulla pista, scossi dalla febbre del martedì sera, scende lui, protagonista di un film, Grease , che ancora oggi raduna ogni anno a Los Angeles gente disposta a pagare 275 dollari per rivederlo, per poi ballare e cantare tutti assieme, vestiti da Sally e Danny. Da bambino, dalla sua stanzetta nella casa vicino all' aeroporto La Guardia, a New York, vedeva sfrecciare gli aerei («tutte quelle luci notturne, sembrava uno show»), immaginandosi un giorno pilota, cosa che è avvenuta. Si è reinventato una carriera, decollando e atterrando, seguendo traiettorie imprevedibili, come la vita. E ha ripreso il volo. A proposito: a Roma è arrivato pilotando il suo jet personale.

John Travolta: «Il mio viaggio nel cinema: dal ballo di Tony Manero al genio di Tarantino». Chiara Nicoletti il 23 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Intervista a John Travolta che presenta “The fanatic” alla Festa di Roma. «Ho avuto una carriera meravigliosa in cui non rimpiango nulla di ciò che ho fatto. Da ragazzo amavo Fellini, Bertolucci, Sophia Loren, I Beatles, Liz Taylor e Marlon Brando». In attesa di vedere il suo ultimo film alla Festa del cinema di Roma, John Travolta domina la scena in un incontro ravvicinato sul palco. In attesa di vedere il suo ultimo film The Fanatic, domenica 27 ottobre, alla Festa del cinema di Roma, nel sesto giorno della manifestazione, John Travolta domina la scena in un incontro ravvicinato sul palco con il direttore artistico Antonio Monda e in una conferenza stampa dove torna indietro nel tempo, dagli inizi di carriera fino a quest’ultima pellicola. Partendo da La Febbre del Sabato sera, John Travolta descrive il suo approccio alla vita, vivendo il presente «senza rimpiangere il passato».

In The Fanatic interpreta un ruolo diverso, incarnando la paura di essere vittima di qualcuno? È mai stata questa una sua paura?

«Questo ruolo innanzitutto è il personaggio che preferisco in assoluto rispetto a tutti quelli interpretati finora perché riflette alcune delle mie nascoste passioni. Capisco cosa significhi essere un fanatico quindi non è tanto la paura di essere un attore perseguitato da un fan ma il riflesso di quello che io apprezzo dell’essere posseduto dalla presenza di un’altra persona che ami, chiunque sia la persona che ti fa scatenare l’entusiasmo».

Che effetto le fa pensare di aver definito una generazione con alcuni suoi film?

«Sicuramente sono molto orgoglioso di aver realizzato film che hanno lasciato un segno e che questo segno rimanga nel corso dei decenni, per cui è molto importante per me fare un film che consenta al pubblico di goderne a prescindere da quando lo guarda. Se prendi La strada per esempio, puoi godertelo sempre, nel 1978, nel 1998, è senza tempo e per me è un privilegio far parte di film senza tempo. Pulp Fiction non ha tempo, puoi godertelo in qualsiasi momento».

Rispetto ai tanti film che ha fatto in passato, qual è quello a cui si sente più legato?

«Credo che i miei tre film più memorabili e senza tempo siano Grease, Pulp Fiction e La febbre del sabato sera, sono molto orgoglioso di tutti e tre. La verità è che la vita di una persona è un mosaico di arte, esperienza, un collage di molte cose e ci sono i pezzi che preferisci e quelli che ti danno la sensazione di essere senza tempo. Questi film hanno queste caratteristiche».

È stato difficile fare i conti da giovane con un grandissimo successo come La febbre del sabato sera?

«No! La mia famiglia veniva dal teatro, dall’arte e quando sono arrivato a una performance che ha consentito al mondo di entrare nella mia vita, l’ho accolto come avrebbe fatto la mia famiglia. Non voglio dire di non essermi sentito umile ma l’ho accolto chiedendomi cosa avrei potuto fare dopo e ho accettato il successo come un invito a fare di più, a creare di più. Tutto ciò mi ha permesso di fare cose tante e diverse. Prendete The Fanatic ad esempio, un film piccolissimo ma che mi ha dato la possibilità di affrontare tematiche interessanti».

Che rapporto ha con l’Italia, con le sue origini?

«Mio nonno nel 1922 è arrivato negli Stati Uniti su una nave dalla Sicilia, mia nonna qualche anno più tardi da Napoli. Travolta era il nome sul registro degli Stati Uniti ma in Sicilia, di Travolta non ne ho trovati anche se un certo senso questo mi rende unico».

Le piace ancora ballare e che ballo farebbe oggi Tony Manero?

«Di recente ho fatto un favore a un carissimo amico, il cantante e rapper Armando Perez e ho ballato il tango nel video della sua Free to tango. Se siete annoiati, andatelo a guardare. Tony Manero ballerebbe il tango oggi e sì, ballo ancora, anche perchè il video è recente, risale a tre mesi fa».

Può condividere con noi ricordi dall’esperienza sul set di uno dei suoi film memorabili?

«Il viaggio più interessante nella realizzazione di un film è stato. Pulp Fiction, Quentin era un regista nuovo, ispirato dai grandimaestri, ho percepito i suoi consigli come corretti, sofisticatie mi hanno consentito di essere libero nell’ interpretazione. A volte c’è la spinta a interferire ma se il regista fa ciò che deve fare e l’attore anche, non c’è interferenza ma simpatia e nel caso di questo film è stato così».

In cosa si sente diverso rispetto ai suoi primi film?

«Il pubblico mi ha consentito di essere così diverso in ogni ruolo. Non avrei mai pensato di poter interpretare una donna, il presidente o il ruolo in The Fanatic. Molti ruoli sono stati creati dagli sceneggiatori, io sono diventato la loro musa».

Visto che ha dichiarato di essere lei stesso un fan, quali sono i suoi miti?

«Sono fan di Jim Cagney che sapeva ballare e cantare. Amo Sofia Loren. Fellini mi piaceva tantissimo. Poi i Beatles, poi alcuni musical come Cabaret e Funny Girl. Il padrino e Marlon Brando che ammiravo tantissimo, poi Liz Taylor. Non mi sento imbarazzato ad ammettere che amo certe persone o che ne ero pazzo. Amo Bertolucci penso che fosse un fantastico regista. Potrei andare avanti per ore sulle persone che adoro».

Rimorsi rispetto a ruoli che ha rifiutato?

«Non mi sono mai dispiaciuto del “ieri” perchè la vita è oggi ma ho detto no a American Gigolò , Splash, Il miglio verde, Ufficiale Gentiluomo, questi sono tutti ruoli che non ho accettato per una ragione o per l’altra ma ho scelto altri ruoli che forse sono anche migliori».

Come sta vivendo questa nuova era cinematografica, fatta di remake o film di supereroi?

«Sono molto felice di poter interpretare ancora quei ruoli che fanno parte della vecchia Hollywood, storie e ruoli da attore. Non sono mai stato un tipo da film della Marvel, i miei figli si, quando ero piccolo guardavo Fellini, non parlate quindi con la persona giusta. Non è una critica ma la verità è che non è un cinema per me. Mi piacciono le storie, i personaggi,. Credo però che tutto l’intrattenimento sia valido se ha un effetto sulle persone, le ispira e le cambia».

·         Takagi & Ketra.

Takagi & Ketra: «Siamo i re delle hit, ma andiamo a letto alle dieci di sera». Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. I producer dei tormentoni estivi come «Amore e Capoeira»: «Se un pezzo piace alla mamma avrà successo. L’emozione più grande? Avere il cellulare di Maradona».

Topi da studio, architetti dei suoni, ignoranti musicali, psicologi, arrangiatori, producer, cuochi. In quale casella vi riconoscete?

Takagi: «Alcuni “fittano” bene. Mettiamo una certa dose di umiltà in quello che facciamo, ci piace fare canzoni al di là del fatto che poi diventino dei successi, e in questo “topi da studio” torna. Stiamo qui dalle 9 alle 19 dal lunedì al venerdì, quando serve lavoriamo anche il sabato o la domenica. La disciplina è molto importante».

E l’ispirazione?

Ketra: «L’ispirazione viene lavorando. Anche perché se aspetti di essere ispirato, hai voglia...».

Bastano queste prime risposte per inquadrare subito i due uomini che si nascondono dietro alle hit più fortunate degli ultimi cinque anni, dove le parole chiave sono: umiltà e disciplina. E ce n’è una terza, che loro non accennano, ma è il talento, coltivato ogni giorno. Takagi & Ketra, al secolo Alessandro Merli (ex Gemelli DiVersi), milanese di 46 anni, e Fabio Clemente (beatmaker dei Boomdabash), vastese di 33, firmano i tormentoni dell’estate da cinque anni a questa parte, e hanno appena superato i cento milioni di dischi di platino. Da Amore e Capoeira a Jambo, da L’Esercito dei selfie a La luna e la gattacon una incursione perfino tra le voci bianche del Coro dell’Antoniano (Come i pesci, gli elefanti e le tigri), quello che toccano diventa oro e ormai sono più i no dei sì a chi vorrebbe collaborare con loro. Di tutto questo parlano con misura nello studio di registrazione nella Chinatown di Milano, o piuttosto del nuovo Village, vista l’alta densità di musicisti e artisti che frequentano via Paolo Sarpi e dintorni.

Come vi chiamano le vostre madri?

Takagi: «Mia mamma, cucciolo».

Ketra: «La mia Fa’, neanche finisce il nome. Mamma è la mia vera discografica, azzecca tutte le hit. Anche quest’anno, prima dell’estate, mi ha detto: “Vedrai che quello di Fred De Palma sarà il disco dell’estate” (Una volta ancora è una produzione di Takagi & Ketra, ndr). Faccio sempre sentire le canzoni a una cerchia ristretta di amici e persone fidate che non fanno parte del mondo musicale: sono onesti e schietti, se piace a loro piace al popolo».

E voi lavorate solo con chi vi piace.

Takagi: «Cerchiamo di fare matrimoni felici».

Ketra: «È fondamentale stare bene. Poche volte abbiamo fatto session con persone con cui non le volevamo fare e non è stato produttivo».

Come vengono suddivisi gli introiti? Per esempio, come è andata con «Amore e capoeira»?

Takagi: «La fetta più grossa va alla Sony, che si occupa di distribuzione e vendite. Noi abbiamo ingaggiato Giusy Ferreri e Sean Kingston per cantarla: all’inizio con un contatto amichevole che si è trasformato in un contratto. Giusy guadagna molto dai live. Noi non facciamo i live e il nostro maggior guadagno viene dalla Siae».

Siete ricchi?

Ketra: «Se avessimo fatto queste cose negli anni Ottanta saremmo milionari!».

Qualche sfizio tolto?

Takagi: «Sono vent’anni che faccio questo lavoro e mi sono regalato un Rolex, come facevano una volta le aziende per premiare la fedeltà dei dipendenti».

Ketra: «Io vivo ancora in affitto in 60 metri quadrati e fino a un mese fa giravo con Enjoy: adesso mi sono comprato una Range Rover Evoque, ma con lo sconto. Però a noi piace soprattutto reinvestire su di noi quello che guadagniamo».

Takagi: «Questo studio lo abbiamo risistemato completamente: è importante lavorare in un ambiente che ti piace. E poi ci siamo aperti una piccola etichetta discografica indipendente, la Platinum Squad: il primo artista che lanceremo si chiama Enne».

Collaborate spesso con Tommaso Paradiso. Sapevate del divorzio dai Thegiornalisti?

Ketra: «No, non sapevamo nulla della divisione. Ma noi abbiamo lavorato sempre e solo con lui, gli altri non li abbiamo mai conosciuti. Si vedeva che era lui a scrivere le canzoni e comporre la musica».

Takagi: «Era inevitabile».

Cosa fate quando non siete qui a lavorare?

Ketra: «Esco con la mia ragazza. Non voglio dire il nome, non ho mai postato una sua foto sui social e lei non ha nemmeno Instagram. Andiamo al cinema, facciamo cose semplici. Ieri sera ero a letto già alle dieci meno un quarto: quando, come noi, ascolti tutto il giorno musica a volume altissimo, come se fossi sempre in discoteca, la sera hai bisogno di riposarti».

Takagi: «Io sto a casa, ho una figlia tredicenne che si chiama Nicole, due cani e una gatta. Amo molto il divano...».

Film preferito?

Ketra: «Bronx, di Robert De Niro».

Takagi: «L’odio, di Mathieu Kassovitz».

Libro?

Ketra: «Non leggo molto, ma direi Come funziona la musica di David Byrne».

Takagi: «Buon ultimo, Open di Agassi».

Cartone animato?

Ketra: «Holly e Benji».

Takagi: «Conan il ragazzo del futuro».

Quando eravate bambini cosa sognavate di diventare da grandi?

Takagi: «Il benzinaio. Mi piaceva l’odore della benzina, e poi anche il fatto che avesse tanti soldi nel portafogli!».

Ketra: «Io il calciatore, ero centrocampista in C1. Però il desiderio di vivere di musica era più forte ed è bello che ci sia riuscito».

Se vi chiamassero a fare i giudici in un talent?

Takagi: «Già successo, ma abbiamo declinato gentilmente. Non abbiamo l’appeal di Mara Maionchi quando stronca qualcuno... La verità è che noi siamo forti in quello che facciamo. X Factor è un grosso sforzo di tempo ed energie che noi preferiamo mettere nei nostri progetti. E poi ci fa piacere non essere riconosciuti al supermercato...».

Con quale straniero vi piacerebbe collaborare?

Takagi: «Alicia Keys».

Ketra: «Pharrell Williams».

E Mina?

Takagi: «Ormai è una gag, tutti sanno che ci ha rifilato un bel no. Avevamo immaginato per lei La luna e la gatta...».

Ketra: «Però è stato un bene perché siamo riusciti a mettere insieme Tommaso Paradiso, Calcutta e Jovanotti: la nuova e la vecchia scuola del cantautorato pop italiano. Comunque a noi basterebbe anche solo bere un caffè con Mina!».

Cosa cantate sotto la doccia?

Ketra: «Sono stonato, ma mi butto lo stesso con Vedrai vedrai di Luigi Tenco e L’immensità di Don Backy».

Scusate, ma come diavolo siete arrivati a comporre una canzone per il Coro dell’Antoniano?

Takagi: «Sono venuti a trovarci i dirigenti del coro e l’idea ci ha preso subito. Abbiamo chiarito però che non avremmo mai fatto una canzone tipo Il coccodrillo come fa? Poi Tommaso Paradiso ha scritto un testo dolcissimo ed ecco Come i pesci, gli elefanti e le tigri».

Ketra: «Per me è stata una rivincita: da piccolo mi avevano rifiutato!».

Qual è il numero di telefono che non avreste mai pensato di avere nella rubrica del vostro cellulare?

Ketra: «Quello di Maradona! Me lo ha dato Gigi D’Alessio. Eravamo a una cena epica a Malta, quando lui, vedendo quanto mi emozionava l’idea di sentirlo, lo ha chiamato e me lo ha passato. È tutto vero, c’è un video che lo documenta. Adesso ce l’ho in memoria come Diego Maradona, ma non lo userò mai».

·         James Senese.

Gianmaria Tammaro per lastampa.it il 21 ottobre 2019. Dopo 50 anni di carriera, James Senese - sassofonista, compositore e cantautore, mamma napoletana, papà afroamericano - si racconta. Al «MIA Market» di Roma è stato presentato il documentario di cui è protagonista, diretto da Andrea Della Monaca e prodotto da Arealive e Audioimage. «Il bilancio che posso fare - dice - è che io sono ancora qua, e stringo i denti. Questa è una società difficile. C' è voluto del tempo per farsi accettare».

Perché?

«Perché sono più estremo degli altri che fanno canzonette a tavolino. Chiaramente non parlo dei grandi autori. Io sono un musicista che ha sempre pensato al domani, ciò che faccio non lo faccio solo per me, ma per la parte di popolo che non riesce a sopravvivere».

In questi anni la musica che ascoltiamo è peggiorata o è migliorata?

«Sicuramente peggiorata. Fanno tutti le galline. Le gallinelle, anzi. Copiano. Fanno solo questo. Tolti i maestri, nessuno va dove dovrebbe andare: nessuno fa la sua musica».

Colpa dei nuovi o dei maestri assenti?

«Dei nuovi. Vogliono tutto e subito, ed è ancora peggio. E in questo senso i vecchi sono giustificati: hanno quello che hanno avuto con il tempo».

Manca spirito di sacrificio?

«Il sacrificio è una realtà molto precisa. Devi fare qualcosa per te stesso e allo stesso tempo per gli altri, e solo così puoi scoprire com' è fatta la vita. Volere tutto e subito significa essere una macchina».

Quando ha capito di voler essere un musicista?

«Avrò avuto 13 o 14 anni. Non parlo di realizzazione; la realizzazione è un' altra cosa, e si scopre più avanti nella vita. Parlo di passione. Mi piaceva lo strumento e la dimensione musicale. Questa scelta è stata giusta per me».

La musica è una via di fuga?

«Non dalla provincia, ma dal mio istinto di essere un nero americano. Mi hanno sempre fatto pesare molto l'avere la pelle di un altro colore; alcuni dicono che appartengo a un'altra razza».

E lei cosa risponde?

«Non ho mai negato chi sono; ho vissuto e vivo fino in fondo. Non è una cosa che posso dimenticare: le offese ricevute, le denigrazioni».

L'Italia è un paese razzista?

«Il problema esiste sempre; non cambia mai niente. La nuova generazione non attinge da sentimenti passati; la nuova generazione attinge dai suoi sentimenti. È sempre lo stesso. È una storia che si ripete. Chi non mi conosce, mi vede solo come un nero».

Cos'è Napoli per lei?

«È la mia città. È quello che sono. Gli odori, i sapori, i sentimenti: ogni cosa fa parte di me, non posso farne a meno».

Lei e la sua musica siete arrivati in un momento di rivoluzione in Italia.

«Con Napoli Centrale abbiamo rotto qualunque argine e limite, e nello stesso momento sono riuscito ad aiutare un fratello come Pino Daniele a trovare la strada giusta».

In che modo?

«L'ho aiutato a capire dove stava la musica. Pino all'inizio era solo rock'n'roll. Io, invece, ero da tutt'altra parte. Napoli Centrale è nata dalla musica di artisti come Miles Davis e John Coltrane».

La sua musica è stata sottovalutata?

«È stata rispettata. Il problema, forse, è il popolo che fatica a capire i sentimenti. Pino ci è riuscito, ma ci ha messo molto tempo. E se vede adesso, Pino è un po' dimenticato. Lo sentiamo troppo poco».

Che cosa cerca nel futuro?

«E chi lo sa. Futuro è una parola difficile. Le dico la verità: io passo tutti i miei giorni, tutte le mie ore, sulla musica. Ho ancora tanto materiale».

Alla fine, la musica cos'è?

«La musica è la vita. Mi ha dato una libertà che non avevo. Una libertà che vorrei dare a tutti gli altri».

·         Paolo Brosio.

Paolo Brosio, la confessione sul passato con Emilio Fede: "Due matrimoni naufragati". Libero Quotidiano il 21 Ottobre 2019. Paolo Brosio racconta la sua carriera tra amori e soddisfazioni. Il giornalista, che da anni ha fatto della fede la sua missione di vita, ricorda quando faceva l'inviato di Tangentopoli per il Tg4 di Emilio Fede. Il primo matrimonio era naufragato allora lui si butta sul lavoro. "Era la mia unica consolazione. Dopo essere stato cacciato di casa dalla mia consorte, Fede mi trovò una stanzetta a Milano 2, arredata con tristissimi mobili anni '70. Come vicino avevo Raimondo Vianello che inveiva contro le papere nel laghetto perché facevano troppo casino". Bilanci?  "Sono soddisfatto. Ho realizzato la mia ambizione: fare l'inviato. Grazie a Fede sono diventato famoso, ma sull'altare del successo ho sacrificato due matrimoni, compensati dai record di ascolti in trasmissioni Mediaset e Rai, soprattutto in Quelli che il calcio di Fazio. In bacheca conservo quattro Telegatti, due Tapiri e un Oscar tv".

Dagospia il 27 novembre 2019. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Comunque fai tanta fatica, eh…Perché prego il rosario dieci volte quando passa una bella ragazza…non è come prima che vedevo una bella ragazza e ci andavo a letto. Oggi sto cercando di fare un discorso diverso. E seguire Dio, vedere cosa ti dice Dio”. Cioè, prima di approcciare una ragazza fai un consulto con Dio?: “Con la mia coscienza, con la mia anima, con la preghiera. Se questa donna per me è importante, va bene. Ma per andare a letto, suonar la tromba, e poi dirle ciao arrivederci, non lo faccio più. Se dovesse capitare una roba del genere, e poi siamo fatti di ciccia, chiederò perdono a Dio”. Così Paolo Brosio a La Zanzara su Radio 24: “Il sesso così per trombare non è bello – dice Brosio – e per me viene prima Dio”. Dunque per te la trombata senza amore non è più ammissibile?: “Non è che non sia ammissibile, è per il Vangelo che non è ammissibile. Poi una caduta umana ci può stare”. Sei diventato pure antiabortista in questi anni?: “L’aborto è il più grande delitto che possa compiere l’uomo. Toglie la vita ad un bambino. Secondo te, Cruciani, è una libertà? No, è una schiavitù dell’uomo”. Ma è una grande conquista: “Ma quale grande conquista? E’ una grande cazzata”. Ma l’aborto ormai è legalizzato in tanti paesi…: “E tutti questi paesi sono contro Dio. E’ un diritto per la legge, per Dio è un abominio. L’aborto è una vita umana che si toglie. Ci preoccupiamo dell’estinzione dell’orso bianco, dei ghiacci che si stanno sciogliendo, però nessun osa dire che gli aborti provocano milioni di morti in tutto il mondo. Per voi è un diritto, ma diritto di chi? Un delitto contro le leggi della natura. Qui ci crolla in testa al mondo, i bambini vengono fatti fuori”. Se fossi coerente, dovresti essere contrario anche alla sodomia: “Basta che apri San Paolo e leggi cosa dice San Paolo. Poi ognuno fa quel che gli pare, ok? Ma nell’idea di Dio la sodomia non va bene, non nella mia idea. Io seguo il Vangelo. Io seguo Dio e Dio dice determinate cose”. Passiamo alla prostituzione, sei contro?: “Andare a letto con una donna e pagarla non è una cosa bella. Neanche per la donna. Perché tu riduci la donna ad un distributore automatico di divertimento. In questo momento si fanno tanti discorsi per rispettare la donna, non usare violenza sulla donna in alcuna forma, né psicologica, ne stalking, né violenza fisica, però poi chiudiamo un occhio sulla prostituzione. La prostituzione non è un atto d’amore verso la donna”. E cos’è, violenza?: “Ma secondo te la donna è fatta per far godere un uomo o perché nasca un amore, per creare qualcosa? Io nove anni fa non la pensavo così. Oggi sto cercando di capire il più possibile e non fare cose di questo genere”. Come lo consideri un uomo che va a prostitute?: “Dio ci lascia la libertà di fare ciò che vogliamo. Poi alla fine tira la riga e si fanno i conti. Io come collega ed amico, ti direi Giuseppe, pensaci”. Salvini ha detto che vuole andare a Medjugorie. Lo accompagneresti?: “Se fossi libero, perché no? Ma non solo per lui, ripeto, sarebbe bello per una rappresentanza di politici. Così si riconoscerebbe che Dio va messo al primo posto”.

·         Giulia Calcaterra.

Giulia Calcaterra: "La tv mi ha costruito, ma con il web sono rinata". Da personaggio tv ad imprenditrice, Giulia Calcaterra è un fiume in piena e grazie ai social è rinata. Jacopo D'Antuono, Martedì 22/10/2019, su Il Giornale. Da personaggio televisivo ad imprenditrice digitale, Giulia Calcaterra è rinata grazie ad Instagram. Di certo ha gli occhi che brillano a pochi minuti dal suo intervento sul palco del Marketers World a Rimini, dove interviene come ospite in qualità di influencer. Nelle tre giornate di formazione e networking dedicate ad aspiranti influencer, creators e freelancer si affrontano tematiche legate al business, ma per i partecipanti è anche l'occasione di creare connessioni con potenziali partner. Insomma l'ambiente ideale per Giulia che al digital dice di essere molto grata. Durante l'evento abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche parola con lei.

Giulia, da velina a imprenditrice: cosa è cambiato?

"Ero piccola, incosciente e inconsapevole del mondo digital. Convertirmi al web è stata la mia salvezza perché per come sono ora non riesco a rivedermi in una persona che si attiene alle regole della televisione. Vivo il web come il mio piccolo angolo dove poter esternare il mondo di Giulia e capire chi è interessato veramente a Giulia".

La tv ha dinamiche molto diverse dai social network?

"Giulia è stata costruita in televisione, la televisione è un prodotto predefinito che deve funzionare. Sul web non è così, devi gestire tu la tua immagine. Con le storie di Instagram ho mostrato il mio mondo ai miei follower, instaurando rapporti umani. In tv ballavo come velina ma non comunicavo niente".

Sei sempre in prima linea, sia nelle storie che nelle foto. Quanto è difficile metterci la faccia?

"Metto sempre la faccia, a volte potrei perdere share o farmi nemici ma il web a me ha dato solo cose positive. Mi metto in gioco senza fare la marionetta. E se sbaglio, sbaglio io".

Un semplice smartphone è solo un semplice smartphone?

"Abbiamo grandi strumenti tecnologici tra le mani. Con lo smartphone puoi svagarti oppure trovare nuovi stimoli, passioni. Oggi con uno smartphone hai una finestra con visto sul mondo. Questo oggetto mi ha salvato a volte, grazie al telefono ho coltivato una community che mi ha aiutato molto nel corso del tempo".

Con Nick è scoccato l'amore ma quanto incide questo sentimento nel vostro percorso imprenditoriale?

"Io e Nick ci siamo aiutati tanto perché abbiamo gli stessi obiettivi. Cerchiamo di non basare il nostro lavoro sulla vita sentimentale ma su quello che abbiamo da dare. Ad oggi, dopo due anni e mezzo, cerchiamo di andare avanti da soli sapendo che quando ci giriamo l'uno verso l'altro ci siamo. Ognuno dev'essere sempre indipendente".

Col tuo intervento al Marketers World puoi ispirare migliaia di giovani.

"Non voglio annoiare nessuno col mio intervento al Marketers World. Quindi mi farò fare delle domande (da Dario Vignali, ndr) non pianificate per mettermi alla prova. Sono pronta ad affrontare le difficoltà, seguo eventi come questi solo per imparare".

In realtà sei qui perché molte giovani vorrebbero seguire le tue orme. A loro cosa consiglieresti?

"Fermatevi un secondo e staccatevi dal sistema mediatico che ci comanda e che ci circonda. È tutto molto bello ma prima bisogna focalizzarsi su ciò che si ama. Domandatevi sempre chi siete, dove volete arrivare e seguite sempre quella strada. C'è influenza in ogni campo ma il segreto è seguire una sola strada e puntare a quello".

I saluti di Giulia Calcaterra

·         Guido Bagatta.

Bagatta: «Quella notte di panico in cui credevo di aver perso Margot. E grazie al cerca-animali l’ho ritrovata». Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 da Corriere.it. «Margot si era persa, o almeno io credevo così». Sono le 19.45 di un giovedì sera di maggio quando Guido Bagatta – scrittore, giornalista e conduttore radiotelevisivo – non trova più la sua amata bassottina. «Il suo istinto da cane da caccia, che non le aveva mai fatto prendere nemmeno una lucertola, l’aveva spinta sotto un groviglio di rovi tra i prati di Milano 2, dove abito», racconta al telefono, ricordando i momenti «di panico, trasformatosi poi in disperazione, nel non riuscire a ritrovarla, anche facendomi male per cercarla sotto i rovi. Come quando era stata attaccata dalle nutrie». Chi ama un animale lo sa, farebbe di tutto. In quel momento a nulla era servito urlare per chiamarla, offrirgli i croccantini allo speck di una vicina incontrata insieme alla sua setterina Laika («sono vegetariano, non glieli avrei mai dati», sorride ripensando a quella serata): Margot era sparita. E proprio in quel momento, Guido incontra uno sconosciuto che, presentandosi come Gianluca Baldon, professione “cerca-animali”, si offre di riportargliela sana e salva. All’inizio Bagatta è scettico, però capisce anche che, in fondo, non ha nulla da perdere a dargli fiducia. E infatti, poche ore dopo, può finalmente riabbracciare Margot. «Pochi minuti dopo le 8 di mattina, dopo una notte praticamente in bianco, passata a guardare le foto del mio cucciolo, è suonato il citofono... la portiera mi avvisava che un certo “Baldon” aveva provato a chiamarmi, ma il telefono si era scaricato. Aveva ritrovato Margot. Riconoscevo «la margie», scrive nel libro, dall’abbaiare di sottofondo, quello che tutta la residenza conosce quando lo sente la sera mentre siamo fuori. È più conosciuta di me: mi hanno anche fermato una volta dicendo: «Ah, è lei Margot, finalmente posso conoscerla!». Quella sera, in realtà, si era infilata in una buca e non riusciva ad uscire, «rischiando anche di soffocarsi», ricorda Bagatta. Proprio da questa vicenda personale, raccontata con la giusta ironia, nasce Chiama il cerca-animali, edito da Rizzoli: «Era da anni che volevo scrivere un libro su Margot e grazie a questo episodio, ci sono riuscito. Non si tratta di fiction, Baldon è una figura unica a Milano e credo anche in Italia: 50 anni, da 25 si occupa di “cacciare” i pets smarriti; non solo cani, anche gatti, criceti, pappagalli, galline, maiali da compagnia, tartarughe e serpenti. Li ritrova con metodo scientifico: si basa sull’approfondimento psicologico dell’animale e del suo proprietario. Un metodo praticamente infallibile, che lo ha portato a risolvere il 90 per cento dei casi», con calma, pazienza, nervi saldi, resistenza fisica, «intervistando il proprietario dell’animale scomparso per conoscerne le abitudini, facendo un sopralluogo dell’abitazione e anche delle aree esterne per verificare quali sono le vie di uscita». Pochi casi per seguirli con la giusta attenzione, ma – come si racconta nel libro – «senza rinunciare a uscire di casa anche nelle giornate di pioggia per occuparsi di un cucciolo smarrito». I racconti di Baldon, uniti alla penna di Bagatta, si sono trasformati in 13 mini-gialli a lieto fine, accompagnati da alcune riflessioni sul comportamento dei nostri amici a 4 zampe: così la storia del viaggio in treno di Bobbino si affianca a quattro chiacchiere sulla libertà felina, e alle vicende di Gino e Grigino fa seguito una riflessione sulla percezione di sé. Ma come è entrata a far parte della sua vita, come un figlio? «Margot è una bassotta (come i 3 amati cani di Diletta, ne L’amore è servito, sempre scritto da Bagatta, ndr) di 6 anni e 2 mesi, è arrivata il 6 ottobre del 2013 per caso», spiega. «Ho sempre avuto gatti per ragioni gestionali, ma sono caduto nella trappola della mia ex fidanzata che mi ha portato a visitare una cucciolata a Padova. Il padre della mia fidanzata ci aveva promesso di aiutarci anche quando non saremmo stati a casa, e così mi sono fatto convincere: autostrada Milano-Venezia, andata e ritorno, in poche ore siamo tornati con un bassotto di un mese e mezzo, genitori. Con un cucciolo che, come tutti i bambini, ha sempre sofferto della paura dell’abbandono», confessa con dolcezza. «Ha un ruolo centrale nella mia vita, è come un figlio a carico. Ogni mattina esco di casa, vado in ufficio, dove è regina incontrastata e dove c’è una gestione collettiva dei suoi bisogni». Il nome? «È puramente casuale, anche se oggi non faccio fatica a collegare il nome di Margot a quello della ladra di Lupin, che si ingegna in ogni modo per rubare qualsiasi cibo», come si legge nella prefazione scritta dalla stessa bassottina che, un Natale di alcuni fa, «aspirò – in 5 secondi netti, coi suoi 5 chilogrammi - 63 tortellini fatti in casa destinati agli ospiti». Una confessione? «Margot odia le biciclette e, in particolare, il Bikemi. Non so perché abbia questa idiosincrasia: sotto il mio ufficio c’è una rastrelliera con le due ruote, e lei appena qualcuno si avvicina abbaia. Ama stare sul mio terrazzo, non è mai stata in un’area cani. Respira, come i bambini, tutto. Anche perché – sorride – è alta come loro. Poi, abito nel verde, a 500 metri dal canile di Milano: una realtà incredibile a cui spesso porto asciugamani e coperte. Se ho delle donazioni da fare, anche agli amici consiglio loro per il prezioso lavoro che fanno». Cosa le dispiace ora? «Non essere sulla copertina, al posto del jack russell. Quando ci è venuta l’idea, era già stampata. Meno male, mi ha dettato la prefazione: mentre scrivevo il libro sul Mac, la sera, non mi vedeva più guardare serie su Netflix, e si è preoccupata. Non le tiravo nemmeno più la sua bananina di gomma. Un po’ come ora, mentre chiacchieriamo, che accoccolata dietro in macchina, si chiede quando tornerò a darle tutte le attenzioni che merita».

·         Claudio Lippi.

Claudio Lippi: “Quell’ultimo sms di Fabrizio Frizzi..”. Francesco Fredella il 30/10/2019 su Il Giornale Off. La buona tv è servita. Non ci sarebbe titolo migliore, preso in prestito dallo storico programma condotto da Corrado e poi Claudio Lippi, per raccontare la carriera di un artista garbato come pochi. Da oltre cinquant’anni sulle scene televisive con il suo sorriso e un sottile umorismo alla Vianello. «E’ il mio idolo», svela a Il Giornale Off Lippi, che va in onda tutti i giorni su Raiuno con Elisa Isoardi a “La prova del cuoco”. La tv non cancella assolutamente il suo passato da cantante. «Per me è fondamentale il rapporto con le piazze e con la musica dal vivo. Canto e mi esibisco ancora come quando ero giovane», dice Lippi.

Claudio, davvero nei suoi sogni c’è il Festival?

«Sarebbe un mio desiderio essere su quel palco. Non per forza in gara, mi interesserebbe poco. Mi piacerebbe, invece, portare le canzoni di Domenico Modugno a Sanremo»

Intende in una serata interamente dedicata alle cover?

«Esatto. Qualche edizione fa c’era. Poi è stata eliminata, ma era molto bello riascoltare grandi successi della vita sanremese. Lì, in quell’occasione, canterei Modugno. Ho inciso un disco con le sue canzoni».

Qual è la sua domanda Off?

«E’ riferita proprio a Modugno, visto che ne stiamo parlando. Quando ho avuto problemi con il cuore ho riscoperto nelle sue canzoni il valore della vita. Sono un vero inno alla felicità. Poi quando è scomparso Fabrizio Frizzi, il mio caro amico, ho pensato a tante cose che potrebbero essere definite Off che potrei raccontarvi».

Cosa intende, ce ne dica almeno una?

«Cose che ho visto quel giorno, durante i funerali. La chiesa era piena di gente. Fabrizio era amato da tutti. Ma quanti ipocriti c’erano lì pronti ad applaudire? Me lo chiedo ancora oggi».

Le manca molto Frizzi?

«Eccome. Avevo proposto di chiudere L’eredità per sempre, come avviene quando viene ritirata la maglia di un grande calciatore. Prima di andare in onda passo per lo studio de L’eredità e mi viene il groppone. Lo penso, lo ricordo. Dovevamo andare a cena insieme. Me l’aveva promesso e sto aspettando ancora il suo sms. Non riesco a credere che sia scomparso».

Tornando alla musica, nonostante i suoi successi in tv (negli indimenticabili anni di Buona Domenica), continua ad amarla come il primo giorno?

«Il primo amore non si scorda mai. Canto e lo farò fino all’ultimo giorno. Come vi dicevo lo faccio ancora girando l’Italia per le piazze, in mezzo alla gente».

Adesso è in onda tutti i giorni su Raiuno al mattino. Aveva voglia di un programma quotidiano?

«Sicuramente essere in video tutti i giorni è tutt’altra cosa. La gente non ti chiede più: “Ma che fine hai fatto?».

Ha fatto discutere, tempo fa, la fine del suo matrimonio. Poi c’è stato un ritorno di fiamma con sua moglie?

«Dopo una bufera torna sempre il sereno! Quando c’è amore succede anche di scontrarsi e di incontrarsi di nuovo. Mia moglie la definisco una crocerossina. Ovviamente perché sta al mio fianco (scherza ndr). Per il bene di tutti: figli e nipoti siamo insieme. Come prima, più di prima. Sono un nonno felice e vi assicuro che è meglio il Claudio nonno rispetto al Claudio papà».

Nei giorni scorsi si era diffusa la voce di un’aggressione subita dopo aver rimproverato un cittadino che aveva lasciato a Roma rifiuti lontano dal cassonetto. Come sta?

«Sto bene. Non sono stato minimamente aggredito, magari qualche brutta parola, ma niente di clamoroso. E’ un gesto di inciviltà. Ma non sono stato aggredito. Lo dico ai tanti che mi scrivono in privato e sui social: sto benissimo. Non stanno bene quelli che si comportano incivilmente».

·         Trio Medusa.

Gabriele Corsi debutta a Deal With it-Stai al gioco: "Ma non lascio il Trio Medusa". Gabriele Corsi del Trio Medusa, dopo tante trasmissioni, conduce ogni sera dal lunedì al venerdì “Deal With it - Stai al gioco” un programma diventato già cult. Roberta Damiata, Martedì 29/10/2019, su Il Giornale. Quando si pensa a lui, Gabriele Corsi, viene immediatamente in mente al "Trio Medusa", ma Gabriele è un volto conosciuto anche per quanto riguarda la tv. Ha infatti condotto molti programmi da “Reazione a catena”, a “Take me out” ed ora è alla guida di un nuovo divertentissimo programma “Deal With it - Stai al gioco” a metà tra “Scherzi a parte” con qualcosa de “Le Iene” di cui Gabriele e gli altri del Trio hanno fatto parte per lungo tempo.

Fare scherzi e far sorridere sono le cose preferite sue e del Trio Medusa. Ho idea che tra tutti questo sia il programma che le calza a pennello...

“Io attraverso la frontiera sempre con serenità, quindi, a volte ho anche sbagliato, magari ho fatto delle audizioni che non erano proprio nelle mie corde, di sicuro “Stai al gioco” è uno di quelli che mi divertono di più. Negli ultimi cinque anni, ho avuto la fortuna di fare sempre delle scelte, e di poter dire anche parecchi no. Ovviamente questo programma lo faccio in maniera più sciolta”.

Parliamo del programma…

“Da giugno sono stato letteralmente blindato nel retrobottega di alcuni ristoranti sia a Roma che a Milano. Ad alcune delle persone che arrivano chiediamo di fare uno scherzo al compagno o la compagna con cui sono a pranzo o a cena. Con me nel retrobottega c’è un co- conduttore che attraverso un auricolare dice cosa fare. Si tratta di una serie di prove che se superate arriveranno a far vincere fino a 2000 euro. Il programma va in onda dal lunedì al venerdì alle 20,30 sul Nove”.

È stato difficile riuscire a fare questi scherzi?

“È un programma in cui mi sono divertito tantissimo ma è stato molto complicato e faticoso. Ogni scherzo può durare delle ore. Ci sono state delle volte che in un’intera giornata non abbiamo realizzato neanche uno. Poi magari c’è anche chi viene scoperto e quindi il gioco finisce lì”.

Il programma sta ottenendo un grande successo...

“Siamo arrivati a fare mezzo milione di spettatori che sono un’enormità. E' un programma di cui si parla molto. Mi scrivono in tanti che fanno le scommesse a casa sui concorrenti. Quando succedono questa cose significa che il programma interessa”.

Che cosa ne hanno detto gli altri del “Trio”?

“Sono contenti, in alcune puntate ho portato anche loro a fare da complici”.

Ma non è che vi separate?

“No, assolutamente. Io nasco proprio come attore ho anche fatto il “Maresciallo Rocca”, a loro non interessa troppo questo mondo. Poi insieme facciamo anche altre cose: il programma in radio ogni mattina, abbiamo fatto “Le Iene”, siamo proprio come fratelli”.

Vi è mai capitato di litigare? Nel caso su cosa?

"Non è che proprio litighiamo più che altro discutiamo fondamentalmente di lavoro. Anche perché fortunatamente ognuno ha le sue idee, non è che siamo 'un'Idra' a tre teste, e con il fatto che ognuno percorra le proprie strade, garantisci una sopravvivenza e la possibilità di avere poi esperienze comuni. Noi facciamo la radio insieme, la televisione insieme, perfino le vacanze insieme, rischiamo veramente di avere una situazione soffocante quindi il fatto che ci siano anche momenti in cui non siamo insieme, non può che essere una cosa positiva".

Parlando di te, c’è un obiettivo che ti sei prefissato nella tua carriera o prendi le strade e poi le percorri?

"La mia passione sono i viaggi tutto quello che ho, lo spendo così... Ho una macchina in comodato d'uso, non fumo, la mia 'perverzione' è viaggiare, 'calpestare le strade' e nel lavoro è lo stesso. Se c'è la possibilità di buttarmi in avventure anche se molto folli a me piace tantissimo. Mai mi sarei aspettato di lavorare in radio per 19 anni è il matrimonio più lungo della mia vita. Stessa cosa alle 'Iene', noi siamo stati quasi padri fondatori di quel programma, e tutto questo non è che lo mettevo a preventivo: è successo. Io credo che la gente apprezzi la mia onestà, non mi sono mai spacciato per quello che non sono".

C'è anche da dire che sia in radio che nei programmi che conduce "cavalca la leggerezza" forse perché è così di carattere?

"L'ho sempre subita questa cosa. Chi è leggero, tranquillo a volte viene etichettato come superficiale, quindi un po' ne ho sofferto. Poi ho lavorato con Gigi Proietti che mi ha detto: "Guarda che la leggerezza è il contrario della stupidità". Mi ricordo che andai con lui a teatro a vedere uno spettacolo pesantissimo, una cosa mortale, poi io non sono uno superficiale, leggo tantissimi libri, guardo film anche abbastanza impegnati, ma ci sono delle cose che è proprio innegabile che siano davvero pesanti. Usciti da lì con molto imbarazzo dissi: "Sai Gigi, forse non posso giudicare, ma io l'ho trovato un po' lento" e lui mi disse: "Un po' lento? Se semo fatti due coglioni così". All'epoca io erro giovanissimo e questa cosa mi ha liberato. Per questo per me le 'Iene' sono state una liberazione, è stato come fare il bambino dispettoso con il potere. Però questo ha anche il rovescio della medaglia: una volta ero in aereo e leggevo Il Sole 24 ore e uno accanto a me mi ha detto: "Accidenti, da lei non me lo aspettavo!". La leggerezza è un tocco, e alla fine io vado dove posso averlo".

Si parla tanto degli hater, scrivono anche a te? Nel caso su cosa ti attaccano?

"Non sono molto social. Li uso in maniera oculata. Non condivido molto della mia vita privata, a parte la mia gatta. Fondamentalmente questa è tutta gente che vuole avere attenzione. Se mi scrivi cose violente o parolacce neanche ti rispondo, se fai delle osservazioni stupide o cattive lo fai perché vuoi attirare attenzione e soprattutto mi fai pensare che hai una vita veramente triste, per chiedere attenzioni in questo modo. Ovviamente noi del mondo dello spettacolo abbiamo delle responsabilità e dobbiamo esserne molto coscienti e stare attenti a quello che diciamo".

Sai già se ci sarà una seconda edizione del programma?

"È un po' prematuro dirlo, ma per come stanno andando le cose, ne stiamo parlando, abbiamo fatto degli ottimi ascolti, quindi è molto probabile”.

·         Isabella Ferrari.

Isabella Ferrari parla della malattia: "Ho capito che non devi avere paura di morire". Isabella Ferrari si mette a nudo, parlando per la prima volta della recente malattia che l'ha costretta ad una lunga terapia. Luana Rosato, Martedì 29/10/2019, su Il Giornale. “Oggi sono più tranquilla. Sul set. Nella vita. In tutto”: Isabella Ferrari descrive così il periodo della sua vita che segue la recente malattia, raccontata per la prima volta in una intervista a Vanity Fair per il quale l’attrice ha deciso di mettersi a nudo, col corpo e con l’anima. Lei, che a 55 anni posa senza veli perché “non ho nessuna intenzione di nascondermi in casa” e che rivendica il suo “corpo come oggetto del desiderio” sicura del fatto che “nessuno può né deve dirmi quello che devo o posso fare col mio corpo”, ha attraversato due momenti bui nella vita e, ad oggi, è riuscita a superare brillantemente entrambi. Il primo periodo difficile di Isabella Ferrari risale agli anni del suo successo, quelli che seguirono Sapore di mare. “Ho conosciuto la depressione – ha rivelato lei - . Non ero pronta a quel successo. Quando scendevo per strada, tutti mi chiamavano Selvaggia, non potevo più fare nulla da sola”. “Ero una bambina. Una bambina travolta dal successo – ha continuato a spiegare la Ferrari - .Ero arrivata a Roma coi soldi della Prima Comunione e della Cresima, tre milioni di vecchie lire. Mi muovevo con una 112 azzurra usata e iniziavo a guadagnare bene. Ma nonostante tutto ero infelice e turbata. Capivo che non riuscivo più a gestire la situazione. E i paparazzi. E i produttori. Dovevo fare qualcosa. Andai in analisi”. Da quel periodo buio, il primo della sua vita, la Ferrari riuscì ad uscirne quando maturò la consapevolezza che “sei tu a poter disegnare un destino tutto tuo”. “Io ci sono riuscita osando. Soprattutto col mio corpo, strumento che all’inizio avevo vissuto come un limite alla mia intelligenza o al mio talento – ha spiegato - . Il mio corpo è servito come un racconto. Della violenza dell’uomo sulla donna. Dell’amore del maschio per la femmina. Per narrare le donne che si separano, che sono troppo magre, che hanno bisogno di essere raccontate. Di fronte a una grande storia, di fronte a un grande regista il mio corpo è diventato una tela bianca su cui proiettare tutto. Senza se e senza ma”. Il secondo periodo buio, poi, è arrivato qualche anno fa, quando Isabella Ferrari si svegliò, all’improvviso, senza riuscire a muovere le gambe. Da quel momento un calvario fatto di visite, diagnosi e medici che non comprendevano quale fosse il reale problema, fino a quando il 2 giugno venne ricoverata in un ospedale vicino casa, a Roma. “Lì incontro il medico più importante per me. La diagnosi che fa non è per niente buona. Mi perdoni, ma non farò il nome di questa malattia rara perché appena l’hanno fatto a me sono andata su internet, ho digitato la patologia e mi sono spaventata – ha detto a Vanity Fair, ammettendo di aver inizialmente rifiutato di seguire la terapia suggerita – [...] Poi la situazione peggiora, mi riportano a Roma d’urgenza e inizio la terapia. Ogni mattina, per due anni, sono andata in quell’ospedale. E quando non potevo muovermi, dal letto della struttura chiamavo i miei figli via Skype per restare ancorata a loro e alla vita”. Quel momento, ad oggi, è superato e Isabella Ferrari è “di nuovo in pista” con una consapevolezza: “Ho avuto tanta paura di vivere quando avevo vent’anni. E mi sono fatta venire pure gli esaurimenti con la depressione. La recente malattia, però, mi ha fatto capire che non devi avere paura di morire. Perché è la paura di vivere a fregarti. Solo quella. Soltanto quella”.

Simonetta Sciandivasci per “La Verità” l'1 novembre 2019. Isabella Ferrari è bellissima e in copertina viene benissimo, almeno quanto veniva bene in Sapore di mare, e chissà quanto sarà splendida in Sotto il sole di Riccione, che sta finendo di girare - naturalmente - a Riccione (la regia è di Enrico Vanzina, e lei farà la parte della piacente signora molto saggia e molto triste, insomma la Adriana di Virna Lisi). A Vanity Fair ha raccontato molte cose già dette (che era triste a 20 anni, e che ha avuto la depressione dopo il primo successo, e che fare l' attrice era il sogno di sua madre e non il suo), e alcune che non aveva mai detto. «Ho sempre dato scandalo», suo epico cavallo di battaglia, pervenuto. E pensate che bello se, dopo lo scandalo, non ci avesse dato luoghi comuni, ora che è orgogliosamente signora di una certa età, visto che la prima cosa bella dell' avere una certa età è poter dire quello che si pensa e non quello che si deve. E invece no, niente. Torna in copertina, bella come sempre e forse ancor di più, per propinarci pure lei la minestra del quanto è favoloso essere over 50 e disporre di sé e del proprio corpo come si vuole, quando si vuole, solo se si vuole - e santiddio qualcuno le fermi queste vestali dello sbocciare da anziani, mica per niente, eh, ma qui c' è gente che non vede l' ora di arrivare a 50 anni per smetterla, un pochino, con l' ossessione del corpo, e del sesso, e della seduzione, e del piacere, e del liberi tutti, e del riscoprire, e fare, e rifare, e rivoluzionare; qua c' è gente che non vuole sfidare niente e nessuno, e vorrebbe invecchiare sul divano e pensare che se le forze e le voglie svaniscono è colpa della natura - benedetta natura che non ha fregole, beata lei! - e non del fatto che s' è arresa al tempo (oh, com' è rilassante anche soltanto scriverlo, arrendersi al tempo), senza che ogni tre giorni si levi la voce di una fica spaziale che racconta che la vita comincia dopo la menopausa. «Mi sento completamente in pista, con la voglia di essere nuda, amata, desiderata». Felicitazioni, dice la millennial stremata come se di anni ne avesse 100 e dovesse dimostrare che non è vero, e quindi fa yoga, psicoterapia, diete nipponiche, pur di dire che ci sta provando, a tenersi in piedi, attiva, desiderante. E ciò che più di tutto la motiva è sapere che non durerà ancora per molto, una finzione di un altro quindicennio al massimo. E invece no, povera millennial, poi le arriva Isabella Ferrari e le instilla che il senso della vita è non scendere mai dalla bicicletta. Quella di spinning, però.

Da Vanity Fair il 30 ottobre 2019. «È importante quello che è successo grazie al #MeToo. Ed è grandioso quanto sta accadendo nella nuova percezione del corpo femminile. Ma va fatto un distinguo, perché io rivendico il mio corpo come oggetto del desiderio. E nessuno può né deve dirmi quello che devo o posso fare col mio corpo. In queste foto, per esempio, mi sono presentata nuda. Che bisogno c’era, direbbe qualcuna. La mia risposta è semplice: a 55 anni non ho nessuna intenzione di nascondermi in casa. Non riesco proprio a sentirmi vecchia, anzi, mi sento completamente in pista, nel mondo, con la voglia di essere nuda, amata, desiderata. E di amare e di desiderare». Così Isabella Ferrari spiega a Vanity Fair, che le dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 30 ottobre, la decisione di posare nuda. L’intervista con il direttore Simone Marchetti avviene sulla riviera romagnola, dove sta girando il film che chiude il cerchio del suo primo, travolgente successo, il mitico ruolo di Selvaggia. «Sto girando Sotto il sole di Riccione, scritto da Enrico Vanzina e diretto dal duo Younuts. Non si può certo considerare un sequel di Sapore di mare (diretto nel 1983 da Carlo Vanzina, ndr). Però a me piace pensare che lo sia. Perché interpreto il ruolo che fu di Virna Lisi. E perché finalmente questa volta mi fanno fare la parte della vecchia. Una liberazione. Perché oggi sono più tranquilla. Sul set. Nella vita. In tutto». Quando uscì il film che la rese famosa, Isabella aveva appena 19 anni; a soli 17 era arrivata da Piacenza a Roma, dove era stata lanciata da Gianni Boncompagni e aveva avuto con lui una storia. «Scoppiò lo scandalo», ricorda. «Mia madre e la mia famiglia, però, non erano scandalizzati. Siamo contadini e l’unica vera eleganza che conoscevamo era lavorare la terra. Mi hanno sempre lasciato molto libera e non mi hanno mai giudicato. Il pregiudizio e lo scandalo, invece, li ho trovati fuori: nella società, nei media, nell’ambiente dello spettacolo. Sono sempre stata travolta dallo scandalo, fa parte del mio karma e ormai ho imparato ad accettarlo». Ma la popolarità, improvvisa ed esplosiva, non la rese felice. «Subito dopo l’uscita di Sapore di mare», racconta a Vanity Fair, «ho conosciuto la depressione. Non ero pronta a quel successo. Quando scendevo per strada, tutti mi chiamavano Selvaggia, non potevo più fare nulla da sola. Ricordo che avevo l’abitudine di andare in chiesa, per me cresciuta a Piacenza era normale entrare in parrocchia, era il nostro riferimento. Insomma, entro in una chiesa di Roma e il giorno dopo escono le foto su un giornale scandalistico travisando le mie intenzioni. Ero una bambina. Una bambina travolta dal successo. Ero arrivata a Roma coi soldi della Prima Comunione e della Cresima, tre milioni di vecchie lire. Mi muovevo con una 112 azzurra usata e iniziavo a guadagnare bene. Ma nonostante tutto ero infelice e turbata. Capivo che non riuscivo più a gestire la situazione. E i paparazzi. E i produttori. Dovevo fare qualcosa. Andai in analisi. Di quel periodo ricordo di aver lavorato molto sui miei sogni. Il sogno più ricorrente era di venir travolta da un tram, da un autobus mentre attraversavo piazze immense. Col tempo, ho imparato ad accettare il mio destino, un destino di tram e autobus che mi avevano travolta. La svolta, però, arriva sempre quando capisci che sei tu a poter disegnare un destino tutto tuo. Io ci sono riuscita osando. Soprattutto col mio corpo, strumento che all’inizio avevo vissuto come un limite alla mia intelligenza o al mio talento. Il mio corpo è servito come un racconto. Della violenza dell’uomo sulla donna. Dell’amore del maschio per la femmina. Per narrare le donne che si separano, che sono troppo magre, che hanno bisogno di essere raccontate. Di fronte a una grande storia, di fronte a un grande regista il mio corpo è diventato una tela bianca su cui proiettare tutto. Senza se e senza ma». L’altro periodo buio della sua vita, di cui non aveva mai parlato prima dell’intervista a Vanity Fair, è avvenuto in tempi molto più recenti. «Qualche anno fa succede che una mattina mi sveglio e non riesco più a muovere le gambe. Tutto è precipitato in fretta. Inizia il calvario delle visite e delle diagnosi. E le diagnosi si dimostrano sempre sbagliate, anche quelle fatte da medici e ospedali stranieri. Vado all’estero, mando il mio sangue per esami negli Stati Uniti. Poi arrivano i dolori accecanti, il cortisone. Una notte, era il 2 giugno, mi ricoverano in un ospedale vicino a casa, a Roma. Lì incontro il medico più importante per me. La diagnosi che fa non è per niente buona. Mi perdoni, ma non farò il nome di questa malattia rara perché appena l’hanno fatto a me sono andata su internet, ho digitato la patologia e mi sono spaventata. Insomma, il medico suggerisce una terapia importante e pericolosa, qualcosa che poteva funzionare solo in una percentuale di casi. Io decido di non farla e parto per Pantelleria. Ero lucidissima, quell’estate, per via delle dosi di cortisone. Dipingevo, mi sentivo molto illuminata e ogni tanto provavo a preparare al peggio i miei figli (Teresa, avuta dall’ex compagno Massimo Osti, e Nina e Giovanni, dal marito regista Renato De Maria, ndr). Poi la situazione peggiora, mi riportano a Roma d’urgenza e inizio la terapia. Ogni mattina, per due anni, sono andata in quell’ospedale. E quando non potevo muovermi, dal letto della struttura chiamavo i miei figli via Skype per restare ancorata a loro e alla vita. Piano piano, un passo alla volta, ce l’abbiamo fatta. Ed eccomi di nuovo in pista, appunto. (...) Ho avuto tanta paura di vivere quando avevo vent’anni. E mi sono fatta venire pure gli esaurimenti con la depressione. La recente malattia, però, mi ha fatto capire che non devi avere paura di morire. Perché è la paura di vivere a fregarti. Solo quella. Soltanto quella».

·         Giangiacomo Schiavi. Il regista che ha fondato la TV.

«Ho fondato la Tv ma hanno detto no alla festa in Raiper i miei 90 anni». Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it da Giangiacomo Schiavi. Il regista: «Noi liberi di sperimentare, oggi mi addormento davanti al televisore. Ho diretto oltre 2 mila programmi e 500 Carosello. Regia di Vito Molinari. Impossibile dimenticare. La prima Rai del sabato sera. L’amico del giaguaro. Senza rete. Canzonissima. Lui e lei. Il suo nome è uscito in tv con i titoli di coda il 3 gennaio 1954: ha diretto la trasmissione inaugurale. Aveva appena 22 anni, il 6 novembre ne compie 90. Voleva festeggiarli nelle stanze dove ha passato più di mezzo secolo, in corso Sempione e viale Mazzini. I dirigenti Rai hanno tentennato per due mesi. Poi gli hanno detto no.

Scusi Molinari, com’è possibile che una memoria storica con 2 mila trasmissioni tv e 500 Caroselli non venga autorizzato a festeggiare in Rai?

«Non penso che oggi in Rai si ricordino di me. Sono cambiati dirigenti e funzionari e i nuovi non hanno interesse e tempo per informarsi di cosa è successo prima di loro».

Potevano dedicarle almeno una trasmissione...

«Un “padre fondatore della tv” non viene ricordato; non interessa a nessuno».

Sembra un po sgarbato questo rifiuto.

«Sono impegnati a difendere la loro poltrona e a non essere fatti fuori a loro volta».

Ma lei è un pioniere Rai.

«Siamo rimasti in pochi. Pochissimi vivi, magari smemorati. Dei sopravvissuti...».

Ne parla come di un’era preistorica.

«Oggi nessuno ricorda più la paleotelevisione o la neotelevisione. Techetechetèa parte, diventata un grande business Rai, dato che non pagano nulla a interpreti e autori, e neppure segnalano i registi».

Come è arrivato in Rai?

«Nel Dopoguerra lavoravo a Genova come attore in compagnie filodrammatiche, poi semiprofessionali, infine come regista...».

...e la tv non c’era ancora.

«Niente di niente. Con il Centro Universitario Teatrale ci siamo inventati I processi celebri dell’antichità, con il professor Della Corte. Un successone: sceneggiavamo Cicerone, Lisia, Eratostene... È partito tutto da lì».

Chiamato senza raccomandazione.

«A Milano venne a vedere Le Catilinarie il dirigente Eiar Sergio Pugliese: era stato incaricato di realizzare la Tv in Italia. Mi arruolò lui e mi propose di “fare la tv”».

Lei rispose: obbedisco.

«Gli chiesi di fare il presentatore di programmi».

Bocciato in partenza, a quanto pare.

«”Con quel naso”, mi disse. “I presentatori devono essere belli, biondi e con gli occhi azzurri. Lei farà il regista”».

E cosi andò.

«Eravamo un gruppo di giovani registi che avevano fatto solo teatro. Pugliese aveva chiamato anche quelli del cinema, risposero picche».

Perché?

«Pensavano che la scatoletta con piccole immagini in bianco e nero ballonzolanti sarebbe durata pochi mesi».

I nomi della compagnia in corso Sempione?

«Eccoli: Franco Enriquez, Mario Landi, Daniele Danza, Eros Macchi, Mario Ferrero, tutti giovani e io ero il più giovane».

Chi comandava in Italia e in Rai?

«La Dc con pieni poteri. Presidente della Rai era Antonio Carrelli, ma comandava l’amministratore delegato Filiberto Guala, fanfaniano doc, azione cattolica...».

Che fine ha fatto?

«Quando si è dimesso è andato in convento: è diventato frate trappista».

Continui con l’organigramma.

«Direttore generale Gian Battista Vicentini (dirigente vaticanista), direttore dei programmi Sergio Pugliese, ex Eiar, compromesso col regime fascista, grande organizzatore e sensibile alla cultura; primo direttore del Tg Vittorio Veltroni, padre di Walter».

Come si lavorava?

«Eravamo liberi di sperimentare, cercavamo di inventare un nuovo linguaggio. La Rai iniziale era didascalica, didattica, doveva creare le basi. Un terzo degli italiani era analfabeta; due terzi parlava solo in dialetto. Nacque allora Non è mai troppo tardi».

Si faceva poca cultura?

«Il primo soffio lo portarono i “corsari”, selezionati e seguiti da Pier Emilio Gennarini, cattolico di sinistra: tra loro Umberto Eco, Gianni Vattimo, Furio Colombo, Silva, Salvi... ma i migliori finirono per scappare dalla Rai».

Poche donne...

«C’erano le annunciatrici. Curiosamente potevano lavorare liberamente in tv le amanti ufficiali di dirigenti e registi, ma non le mogli...».

Stagione dei primi varietà: fu lei a lanciare «L’amico del giaguaro».

«Nacque a tavolino, a Milano. Volevamo mettere insieme due comici e una soubrette: Raffaele Pisu aveva già fatto Controcanale, Bramieri aveva fatto Leggerissimo. Con loro abbiamo chiamato Marisa Del Frate, recitava e ballava bene, spiritosa, divertente, sexy ma non troppo, amata anche dalle donne. A loro abbiamo aggiunto Corrado...».

Grande successo.

«Grandissimo. Per molti anni. Era un finto quiz, pretesto per presentare scenette comiche, balletti, cantanti. Abbiamo fatto anche spettacoli di rivista in teatro in tutta Italia».

Che cos’era Corso Sempione a Milano?

«Per noi era il centro dell’universo: un gruppo di ragazzi inventava la tv...».

Durò poco però...

«Pugliese spostò la direzione a Roma e molti lo seguirono: vicino al potere si tratta meglio, anche sui budget. Io rimasi a Milano, ridotta a provincia dell’impero. Il vantaggio era quello di essere meno controllati e censurati».

I copioni pero dovevano essere approvati da Roma.

«Usavamo uno stratagemma. Inserivamo battute molto forti, che venivano subito tagliate. Cosi si salvava il testo originale».

Andò male con «Canzonissima» di Dario Fo e Franca Rame: una censura storica...

«Della trasmissione ero regista e coautore con Leo Chiosso. La prova generale veniva vista a Roma da Ettore Bernabei e da Piccioni, figlio del ministro. Molti interventi di censura, ma fino all’ottava puntata si va avanti».

C’era stato lo scandalo delle gambe della Rame...

«Un parlamentare Dc aveva fatto un’interpellanza. La Rame non dovrebbe far vedere entrambe le gambe. Troppo sexy. Meglio una per volta...».

Ma lo scandalo fu un altro.

«Con Dario Fo volevamo mandare in onda uno sketch sulle morti bianche degli edili nei cantieri, per sollecitare misure di sicurezza. Veniva sempre censurato. Finché una settimana ci furono due morti bianche. Pensammo: è la volta buona. La censura Rai si oppose e ritirammo il copione: andarono in onda solo canzoni, senza presentatori e attori. Per Fo e Rame iniziò l’esilio».

Ha lavorato con Achille Campanile e Marcello Marchesi, colossi dell’umorismo.

«Persone eccezionali. Campanile diceva: l’umorismo è il solletico al cervello. Marchesi è stato come un fratello maggiore. Indimenticabile battuta: l’importante è che la morte ci trovi vivi».

Molinari lo troviamo anche in «Carosello».

«Ne ho diretti più di 500. Era amato dal pubblico, ma non dai pubblicitari: contestavano il troppo spazio dedicato allo spettacolo e il poco al codino pubblicitario».

È finito per questo?

«Sono stati i pubblicitari e le grandi agenzie americane a uccidere la trasmissione».

C’è un programma che rifarebbe?

«Atelier. Uno sceneggiato sulla moda, con la Martinelli, la Pitagora, Lino Capolicchio, la Venier, Jo Champa. Era il 1986 e la moda debuttava in tv. Avrebbe dovuto avere piu successo...».

E uno che vorrebbe fare?

«Ho già il titolo: Supergap. Per capire la differenza di gusti tra generazioni».

Che cosa guarda in tv?

«Spesso mi addormento davanti al televisore...».

Le pesa diventare vecchio?

«Per niente. Sono attivo, curioso, leggo di tutto, scrivo, sto preparando una storia personale: la mia Rai. E poi viaggio, ho fatto due volte il giro del mondo, non ho tempo per annoiarmi».

Deluso dalla dimenticanza della Rai?

«Un po’, ma pazienza. Farò da solo, il 6 e l’11 novembre a Roma e a Milano, con gli amici. Ricorda cosa diceva Marchesi? Siamo nati per soffrire e ci riusciamo benissimo».

·         Milly Carlucci.

LA VITA SEGRETA DELLA CARLUCCI. Dagonews il 27 ottobre 2019.

DIACO: posso chiederti i tuoi sabati di quando eri adolescente come li passavi?

CARLUCCI: Quando ero giovanissima facevo le gare, i miei sabati e le mie domeniche li passavo in trasferta. Ho sempre avuto questo destino dell’andare in giro, del cercare, del dire, dell’esibizione… Erano sabati e domeniche così di trasferte. Il pattinaggio artistico è uno sport molto povero, non ha grandi sponsor, non ha coperture finanziarie. Quindi autoprodotti e autofinanziati non tutti andavamo a fare le nostre gare.

DIACO: Chi ti accompagnava? I tuoi genitori immagino. 

CARLUCCI:  Papà, mamma. Certo.

DIACO: E sostenevano questa tua passione?

CARLUCCI: Assolutamente sì, la cosa meravigliosa della mia famiglia è stata quella di essere un clan che ha sempre fatto squadra: per la mia passione, per quella delle mie sorelle che sono arrivate dopo e hanno fatto anche loro pattinaggio. Abbiamo sempre condiviso tutto ed è stato il motivo per cui i miei genitori quando se ne sono andati in tardissima età hanno creato questo grande vuoto. È sparito il motore che ci trascinava in avanti, con tutto quello che loro hanno rappresentato nella mia vita e nella vita delle mie sorelle.

DIACO: L’Italia che hai girato in quegli anni rispetto all’Italia che conosci e incontri oggi con ballando on the road quanto è cambiata dal tuo punto di vista?

CARLUCCI: È cambiata e non è cambiata. Noi ora il 2 e il 3 incominciamo il giro d’Italia che ci porterà a contatto con l’Italia che balla che sembra un fenomeno di nicchia, collaterale e invece è un grande fenomeno di massa: sono 6 milioni i praticanti del ballo in Italia. C’è un pezzo d’Italia che crede nella possibilità di sognare, di evadere, di risolvere i piccoli problemi quotidiani di un’esistenza che spesso non è gloriosa, non è fatta di rose e fiori, attraverso il ballo. Quello che c’è sempre allora e oggi è il fatto che noi italiani sappiamo sognare. Questa è una cosa pazzesca che noi abbiamo: sappiamo proiettare il cuore oltre l’ostacolo e sappiamo credere nelle cose che facciamo. Poi l’Italia di allora era un’Italia più semplice, molto più ingenua. Questa Italia di oggi… Io vado dal nord al sud Italia e tu vedi, intorno alla pista dove noi facciamo i provini, gente di ogni estrazione sociale, dal luminare, al professore universitario che balla in un gruppo di country dance, al bracciante, disoccupato, ecc… Giovani e vecchi tutti con lo smartphone in mano. Allora dici siamo tutti uguali e tutti telematici ma non è proprio così: lo smartphone in mano dà una sensazione di modernizzazione ma permane un senso della famiglia diverso dal nord al sud, c’è ancora un senso della mamma chioccia che varia pure questo dal nord al sud, gli anziani si muovono in modo diverso: più evoluti in alcune parti, più indipendenti; più invece parte di un clan, di una famiglia e forse un po’ più fragili.

DIACO: Questo modo che tu hai aggraziato, sempre rispettoso, quasi in punta di piedi, mai ego riferito di rivolgerti ai telespettatori… Quanto assomiglia alla tua personalità?

CARLUCCI: Ti devo confessare una cosa: quando ho iniziato questo lavoro, il primo grande lavoro che ho dovuto fare è stato su me stessa e l’ho continuato a fare negli anni perché fa parte di un percorso che sto ancora compiendo, che è quello del superamento della mia timidezza iniziale. La mia timidezza iniziale non era solo timidezza, c’era anche il fatto molto importante che io sono cresciuta a Udine, in una società un po’ all’antica in quegli anni in cui la mia maestra delle elementari, Maria del Negro, diceva sempre: quando si presentano delle persone si dice sempre “Pierluigi, Maria ed io”. Tu sei sempre l’ultimo perché tu sei l’ultimo: prima gli altri e poi tu, che è un atteggiamento mentale. Prima gli altri e poi io. Ora questo fatto era diventato così connaturato in me che rischiava di essere controproducente per il lavoro che stavo intraprendendo. Io dovevo assumere la forza di stare al centro del palco e di essere “Io” lo dovevo prendere e quindi pian pian ho dovuto combattere questo essere ed “io in fondo alla fila”.

DIACO: Ma ci sono delle parti della tua personalità, del tuo carattere in questo percorso che hai fatto che magari ti sono piaciute meno, che sono diventate un complesso che magari hai tentato di combattere o di smussare o di armonizzare?

CARLUCCI: Il percorso che ho fatto tutta la vita è stato un percorso per fare pace con me stessa, arrivare ad accettarmi così come sono. Una delle cose che ho dovuto superare, sembra strano per uno che fa questo mestiere, è il fatto di non piacermi fisicamente.

DIACO: Tu non ti piacevi?

CARLUCCI: Mai piaciuta fisicamente. Non mi sono mai amata né mai sentita bella.

DIACO: Qual era un aspetto del tuo fisico che ti piaceva meno?

CARLUCCI: Tutto. Ma c’è un motivo preciso perché poi l’ho analizzato e ho cercato di chiedermi: “perché ti devi sentire sempre così in inferiorità?” e il problema è che il nostro mondo ha dei riferimenti stilistici molto forti. Nel periodo in cui io ho aperto gli occhi al mondo, durante l’adolescenza in cui ti vedi allo specchio, era il momento in cui andava la donna anoressica. La donna filiforme che io non ero, perché avevo due gambe muscolose, spalle potenti, ero proprio il contrario rispetto alle mie coetanee che avevano la minigonna e le gambe filiformi, con le spalle incurvate. C’è un certo momento della moda che è così, a cicli. Poi c’è un altro momento in cui torna di moda la donna fiorente. Io sono capitata nel momento sbagliato.

DIACO: Questo complesso a chi lo confidavi?

CARLUCCI: A nessuno.

DIACO: Quindi tu ti sei portata dentro di te questo conflitto interiore.

CARLUCCI: Mi sono portata una serie di conflitti perché non mi piacevo fisicamente, ero timidissima, avevo questa educazione per cui ero sempre l’ultima della fila. Poi considera che lascio Udine e arrivo a Roma e Roma è una città dirompente, Roma è una bomba atomica, intanto perché è una metropoli e io venivo da una piccola città di provincia e poi perché chi vive a Roma ha un modo di essere tutto estroverso, molto espressivo, tutto colorito, pittoresco che non mi apparteneva minimamente.

DIACO: Dove sei andata a vivere la prima volta che sei venuta a Roma?

CARLUCCI: Io da ragazza abitavo a Monte Mario.

DIACO: Ma da sola? 

CARLUCCI: No con tutta la famiglia. Noi ci siamo trasferiti perché mio padre, militare, ha lasciato l’aeroporto di Campoformido a Udine ed è stato trasferito  all’aeroporto dell’Urbe a Roma. Quindi ci siamo trasferiti che io ero una ragazzina, avevo 17 anni.

DIACO: ma hai vissuto la malinconia rispetto alle origini?

CARLUCCI: Ma certo…

DIACO: Chi ti mancava di più quando sei venuta a Roma?

CARLUCCI: Ma ero un pesce fuor d’acqua perché non capivo i punti di riferimento, non capivo come dovessi giudicare le persone. Ero proprio spaesata. Ho avuto un anno difficile perché venivo da una realtà profondamente diversa.

DIACO: Qual è il primo rapporto solido che sei riuscita a instaurare in questa città?

CARLUCCI: È successo un po’ dopo, all’università. Ed è un’amicizia che dura ancora oggi, è una persona a cui voglio molto bene che si chiama Angela, che da allora non ci siamo mai più lasciate. Lei poi ha fatto il percorso inverso perché da Roma è andata in Friuli. Siamo tuttora amiche in contatto ed è il mio grande rapporto di amicizia.

DIACO: Qual è il comune denominatore che fa sì che una persona possa diventare tua amica? Con Angela che cosa vi ha unito?

CARLUCCI: I valori, gli ideali. L’onestà nel prendere la vita. Il fatto di sapere che lei è una persona che era esattamente quel che vedevi, non c’era fregatura dietro le spalle, non c’era sovrastruttura non c’è stata né ci sarà mai. E io poi ho cercato di portare questo nel mio modo di essere.

DIACO: La cosa che colpisce di te è che sei inattaccabile, è come se la tua immagine fosse inattaccabile. Questo modo un po’ precisino di stare al mondo è una cosa tutta naturale?

CARLUCCI: Io sono proprio così e non posso farci niente.

DIACO: In gioventù con Angela, momenti ludici, meno ordinati ne avrai avuti?

CARLUCCI: Ascolta la mia gioventù com’è stata: io facevo pattinaggio quindi mi allenavo  5/6 ore al giorno ma dovendo studiare poi ad un certo punto da lì sono passata al fatto di non poter più fare le gare perché Roma non mi consentiva di tenere il livello di studi mentre facevo queste cose qua e allora io ho aperto una piccola scuola di pattinaggio. Quindi avevo il pattinaggio nella mia piccola scuola, il lavoro che nel frattempo era cominciato, lo studio all’università.     La mia vita era un inferno: io mi vestivo e mi cambiavo in macchina. Mi truccavo in macchina.

DIACO: Questo grande senso di responsabilità ti ha fatto perdere un pezzo della tua gioventù?

CARLUCCI: Chi fa questo tipo di scelte, chi sceglie uno sport agonistico si perde un pezzo della sua gioventù. Quelle cose che succedono a 13 anni, il muretto, l’appoggio con la bicicletta davanti al bar non lo puoi fare.

DIACO: Quindi neanche con i fidanzatini, con gli uomini avevi modo di dare troppo ascolto alla materia perché eri impegnatissima.

CARLUCCI: Le amicizie in genere nascono nel tuo stesso mondo. Il peccato peccatissimo era che alla mia epoca nel mondo del pattinaggio artistico non c’erano ragazzi, ce n’erano pochissimi per cui finché non sono diventata grande, non mi sono potuta fidanzare.

DIACO: Milly sei mai stata attratta dalle donne?

CARLUCCI: No no…

DIACO: Hai mai avuto lusinghe e corteggiamenti da parte del mondo femminile?

CARLUCCI: Non credo… Non in senso sexy diciamo. In senso di grande amicizia sì perché sono una che tende a fare clan sempre e poi io credo molto nella valorizzazione delle donne e quindi anche adesso che sono grande e posso fare un po’ da mamma chioccia verso quelle più giovani io cerco sempre di aiutare, di spingere e di spiegare. Senza essere quella rompiscatole che ti vuole spiegare la vita perché sicuro non la stai a sentire. In qualche modo cerco di dare una mano.

DIACO: Ti piace il disegno?

CARLUCCI: Moltissimo, io ho fatto architettura e quindi il disegno fa parte della mia vita, come ne fa parte l’arte, la pittura, la scultura…

DIACO: Disegni ancora?

CARLUCCI: Io scarabocchio, sai sono quelle cose un po’ di tic nervoso… Quando tu ascolti una conversazione e scarabocchi e fai dei disegnini. Un altro mio tic è fare le barchette, non mi chiedere cosa voglia dire.

DIACO: Come le barchette?

CARLUCCI: Faccio le barchette, c’è il pezzetto di carta e faccio le barchette.

DIACO: Mentri sei in riunione?

CARLUCCI: Sì… Siamo tutti umani!

CARLUCCI: (chiede a proposito del dito) che ti sei fatto?

DIACO: Pescando… Un anno e mezzo fa sono andato a pesca ad Alicudi, ho pescato dei ricci e gran parte delle spine sono entrate in maniera prepotente e quindi escono fuori piano piano e devo dire che mi fanno compagnia.

CARLUCCI: Sai che anche io andavo a pescare da ragazzina? Perché mio padre era un grande appassionato di caccia e di pesca. Soprattutto di pesca perché nell’anno in cui vivemmo a Palmanova che è un piccolo paese vicino Udine lì c’erano vari torrenti, ruscelli, corsi d’acqua e lui andava a pesca. Siccome noi tutte femmine adoravamo papà ma non potevamo fare tante cose con lui da maschi, perché che andavamo a giocare a calcio con papà? Andavamo a pesca. Ci portava a pesca alle 5, noi eravamo felici di svegliarci alle 5 del mattino e poi di metterci lì nell’umido, pensa la nebbia, noi imbacuccate con la canna da pesca ad aspettare che finalmente il sugheretto si muovesse.

DIACO: Hai pescato qualche cosa?

CARLUCCI: Qualche cosa veniva fuori ma perché erano pescosi i ruscelli…carpe trote.

DIACO: Quando pensi a questo momento con il tuo papà a pesca che immagine ti provoca, che emozione ti provoca?

CARLUCCI: Un’immagine di una tenerezza infinita perché mio padre è stato l’uomo che ci ha veramente plasmate, moralmente. Mio padre è un uomo che è nato nel ’27, un uomo dell’inizio del secolo scorso, quindi un uomo con un certo tipo di dirittura e di struttura e di solidità morale che faceva parte di una certa generazione. In tutto questo lui era modernissimo: lui è stato per noi il primo vero femminista, cioè quello che ci ha detto: “la prima cosa che dovete fare nella vita è studiare, trovare un lavoro e avere il vostro denaro che vi permetterà di essere indipendenti perché nessuno vi potrà dire cosa dovete fare se siete indipendenti”. Un femminista vero. Una lezione incredibile e noi abbiamo seguito ognuna di noi questa strada. È bellissimo avere compagni nella vita, è la cosa più importante ma non perché uno deve essere come una specie di cozza aggrappato all’altro diventando insicuro e poi soffocante. È bello se ognuno sta in piedi per proprio conto e poi si uniscono le strade, poi si va avanti insieme.

DIACO introduce immagine Carlucci con i pattini.

CARLUCCI: Sono entrata in televisione venendo fuori dall’università e dal pattinaggio, non sapendo nulla del mondo dello spettacolo. Motivo per cui poi sono andata a studiare, ho fatto altre cose per prepararmi ma ero proprio acerba.

CARLUCCI: Tante volte mi chiedono cosa ci vuole per fare il tuo lavoro. Devi avere i sogni la passione, il talento e poi ci vuole una buona stella: perché quella che mi ha permesso di incontrare Renzo e di iniziare con l’altra domenica è stata una stella cometa di quelle che passano una volta ogni mille anni. Io ho avuto modo di imparare da lui, di fare le riunioni di redazione con lui con Ugo Porcelli con tutto quel clan di matti che non erano matti, matti nel senso goliardi, simpatici, pieni di voglia di vivere, di voglia di andare a guardare cosa c’è dietro l’angolo, alzare la coperta e vedere cosa c’è sotto. Scoprire cose che non sono ovvie ma con una grandissima professionalità quindi tu hai preparato tutto, valutato tutto e quando è il momento vai libero e felice perché sai quello che devi fare.

DIACO: Come giudichi la Carlucci attrice?

CARLUCCI: È stato un momento in cui non sapevo bene in che direzione andare, avevo varie offerte. Questo sceneggiato fu molto voluto dalla Rai e quindi io accettai questa cosa ma sicuramente la mia indole è nella televisione, gli attori sono un’altra cosa.

DIACO: Tu rilasci poche interviste e non ti concedi al gossip.Questo tuo lavorare di sottrazione è stata una scelta?

CARLUCCI: mi viene spontaneo, ritorniamo sempre alla Milly timida del principio. Ci sono molti personaggi dello spettacolo che alimentano fama portando davanti ai riflettori la propria vita personale ma io non lo potrei mai fare, non mi verrebbe mai spontaneo, non mi sentirei a mio agio e penso che la più grande libertà sia quella di fare quello che ti senti di fare sentendoti felice, contento di come sei e di quello che fai. E aver raggiunto questo non dovendo fare quella che offre al gossip pezzi della propria vita è un grande privilegio.

DIACO: Ma nell’era digitale questo è ancora più difficile da fare.

CARLUCCI: È ancora più difficile io infatti uso moltissimo i social ma li uso per lavoro. Li uso per tutto quello che fa parte della mia vita. Poi io ho fatto una scelta di famiglia, ho fatto la scelta di avere un compagno che non fa spettacolo e quindi non ha voglia di essere esposto alla curiosità.

DIACO: È severo con te lui? 

CARLUCCI: Angelo che è un ingegnere è la persona più divertente, giocosa e piena di senso di humor che io abbia incontrato nella mia vita. Ed è un uomo che sa sdrammatizzare il mio lato da bilancia sognatrice ma anche malinconica, presa da questa poesia che a volte è rosa ma delle volte può essere anche grigia. Lui sdrammatizza tutto.

DIACO: Tu hai delle zone d’ombra, delle zone scure dentro di te?

CARLUCCI: Hai presente lo struggimento davanti a un tramonto? Una bilancia guarda un tramonto e dopo piange, piange di struggimento.

DIACO: Ballando quando torna?

CARLUCCI: Ballando tornerà a marzo, la prima puntata sarà il 28 marzo. Stiamo già facendo casting quindi non si può dire nulla… E nel frattempo sto preparando un altro programma che esordirà a gennaio.

DIACO: Cosa possiamo dire, una cosa sola al pubblico di Raiuno.

CARLUCCI: Il titolo: “Il cantante mascherato” vi farà divertire perché sarà una spy story quindi si canterà ma si dovrà scoprire chi si nasconde dietro e vi dirò poi a che cosa…

DIACO: Prima mi chiedevi di Ugo, anche tu hai un cane?

CARLUCCI: La mia si chiama Nina è un cavalier king quelli con le orecchie lunghe, lilly e il vagabondo. Lei è bianca e nera ed era il cagnolino di papà e quando papà è mancato io ho ereditato nina che è stata tristissima per alcuni mesi è stato un momento… E adesso è diventata la mia ombra e ogni tanto devo stare attenta perché ci inciampo, lei proprio si mette alla caviglia. Io la adoro perché non sai quanto erano legati. Noi avevamo preso il cagnolino perché purtroppo avevamo perso mamma, non è che un cagnolino può sostituire la compagna di 60 anni della tua vita però un cucciolo che ti arriva in casa ti distrae e così accadde. Lui alle prime diceva “voi mi volete far sorridere, mi volete far giocare e io non ho voglia di giocare” e però come fai? la tenerezza dei cagnolini è una cosa pazzesca. Papà abitava accanto a me però poi ci telefonavamo e mi diceva “non sai che ha combinato oggi!” Come se stesse parlando di un bambino piccolo e questo è stato una bella cosa.

CARLUCCI: Non c’è canzone più azzeccata. Lui faceva questo personaggio che era un personaggio di un cartone animato ma lui era un vero amico. Incontrare Fabrizio e avere la sua amicizia voleva dire sapere di poter contare su di una persona davvero. Lui era proprio generoso, altruista e poi una persona educata, una persona rispettosa del prossimo, una persona sempre preoccupata che tu fossi a tuo agio, non metteva se stesso davanti ma c’erano prima gli altri poi c’era lui… Tant’è vero che una delle sue cose tipiche (noi abbiamo fatto insieme tanti anni, vicini di camerino facendo scommettiamo che), e Michele Guardì lo rimproverava sempre, perché lui arrivava sempre in ritardo ma non perché fosse in ritardo ma dal momento in cui entrava doveva salutare tutti quanti stringendo a tutti la mano.

DIACO: C’è stato un momento della tua carriera in cui ti sei disinnamorata del mezzo televisivo?

CARLUCCI: No no, questo mai… È chiaro che una carriera non può essere fatta solamente di momenti positivi, di successi e di cose meravigliose. Però io trovo che questo sia un mezzo pazzesco che già solo nei primi anni in cui io l’ho vissuto, ha avuto una tale accelerazione, ha avuto dei cambiamenti… Ed è un tipo di lavoro in cui non puoi mai sederti sugli allori e pensare “ho capito che cos’è la televisione”. Cambia, è proteiforme, cambia continuamente c’è un rapporto sempre diverso con il pubblico e checché se ne dica che poi morirà perché la gente sul web si sceglie le cose  potranno cambiare  i modi di farla ma è un tipo di comunicazione troppo potente per potersi estinguere.

Diaco invita la Carlucci a ballare un lento nello studio di Io e te sulle note di Freddy Mercury, poi spiega la sua passione per i Queen.

CARLUCCI: Sono per me il gruppo numero uno. Poi io adoro Bono, adoro U2, Earth Wind and Fire, i Rolling Stones ma per me Freddy Mercury è il performer assoluto. Io l’ho visto dal vivo, ho avuto questa fortuna quando ero ragazzina di vederlo a Inglewood in California  e poi ho avuto la gioia di incontrare il resto dei Queen al Pavarotti and friends, naturalmente non c’era più lui e loro sono venuti a fare un omaggio a Luciano. Devo dire che vedere lui dal vivo sul palco fu una cosa… Che forza e che energia! Che capacità di catturare la gente e poi questa canzone è un’opera, ed è grandiosa. Poi ci sono tante storie che riguardano anche il testo perché lui dice “mama” che forse era rivolto a questa donna con cui lui aveva vissuto… Un grande artista. Quando si dice artista.

·         Lucia Bosé.

Laura Laurenzi per “il Venerdì - la Repubblica” il 18 novembre 2019. È stata più bella Lucia Bosè oppure Ava Gardner? Due bellezze assolute e probabilmente insuperate: alla classe, alla perfezione dei lineamenti e alla non omologazione si univano il carisma e una personalità forte. È passato oltre mezzo secolo, ma non è mai tardi per rendere omaggio a una grande rivale. Ecco dunque che a 88 anni, giovanile e svelta di pensiero come è sempre stata, bellissima nonostante i capelli blu, nel presentare il libro sulla sua vita scritto da Roberto Liberatori (Lucia Bosè. Una biografia, pp. 404, euro 18, Edizioni Sabinae), Bosè decreta: Ava Gardner, scomparsa nel 1990, «è stata la donna più bella che io abbia mai visto, era molto simpatica e naturale, molto selvaggia, era lei, e non io, il vero animale da cinema». Certamente Ava Gardner non le avrebbe reso l' onore delle armi, poiché era ancora innamoratissima di Dominguín quando, dopo un anno di eros e di passione, il torero più famoso del mondo la scaricò senza pietà per sposare la Bosé. Nel suo corpo nodoso Dominguín aveva 143 cicatrici. «Ogni ferita porta il nome di una donna: i tori lo sapevano ed erano gelosi» dirà lui stesso. Il suo flirt con Rita Hayworth fu così chiacchierato che i rotocalchi ribattezzarono l' infaticabile Dominguín "Gildo". L' irruzione sulla scena di Ava Gardner precede di pochi mesi il colpo di fulmine per Lucia Bosè. Ava usciva con le ossa rotte da un movimentato matrimonio con Frank Sinatra. È a Madrid, dove gira La contessa scalza, e dove il fotografo di corride Paco Cano la definisce «con il permesso della Vergine Maria la donna più bella che abbia mai incontrato». Lei è seduta al tavolo di un ristorante con Lana Turner e insieme scommettono su chi delle due riuscirà a conquistare per prima l' affascinante torero. Il resto è storia, anzi è cronaca rosa. La prima volta che Ava Gardner e Luis Dominguín fanno l' amore lui si alza velocemente, si riveste e ha una certa fretta di uscire. Dove vai? gli chiede perplessa Ava Gardner. E lui risponde senza esitazioni: «Corro a raccontarlo agli amici».

Arianna Finos per ''la Repubblica'' il 27 ottobre 2019. Una casa piena di colori, d’arte e di vita, immersa nel verde dell’Appia Antica. Lucia Bosè, 88 anni, è saldissima nel corpo e nella mente. Un mese per godersi Roma, prima di tornare nella sua Spagna. E la sua vita da consegnare alla Festa di Roma, rilegata in un volume bianco e nero: Lucia Bosé - Una biografia (firmato da Roberto Liberatori, Edizioni Sabinae), 389 pagine per raccontare la sua venuta al mondo, a occhi chiusi nei primi cinque giorni, per poi spalancarli al mondo e al cinema. La famiglia e la guerra, Miss Italia e i registi, da Visconti a Antonioni, Walter Chiari e l’ex marito Luis Miguel Dominguin, che durante l’intervista chiamerà sempre “il torero”. L’amato figlio Miguel, “abbiamo lo stesso viso e lo stesso brutto carattere. Lui è più famoso di me”, sorride. Nel prologo del libro si racconta di lei adolescente in Piazzale Loreto il 29 aprile del 1945.

“Avevo attraversato una guerra lunghissima, a Milano non arrivavano mai i liberatori. Tutti noi ragazzini andammo in piazza. Mi trovai a un metro dai corpi di Mussolini e della Petacci, a testa in giù, tutti lanciavano pomodori e cose tremende. Sono scappata via, spaventata dalla furia della folla. “Non voglio essere come questa gente”, pensavo. Era la mia ossessione, un approccio alla vita diverso dagli altri, anche da zii e parenti che nelle disgrazie che attraversamo urlavano e piangevano. Io volevo guardare alla vita con gioia, malgrado tutto. E ho sempre sofferto ad essere uguale agli altri. Volevo essere diversa. Infatti sono blu adesso” (indica la chioma colorata, ndr).

L’infanzia in guerra l’ha fortificata?

“Sì. Non ho mai avuto paura. A otto anni sentivo parlare di questo ragazzino, Sergio, che aveva la fama del coraggioso perché si era messo in bocca una rana e poi l’aveva sputata. Allora presi una raganella, la misi in bocca e la mandai giù. Mi raccontò anni dopo “lo sai che da allora ti ho odiato, ho odiato tutte le donne? Hai rovinato la mia immagine.”

Dolori ne ha avuti. Ha perso suo fratello a dieci anni, lei stessa ha rischiato di morire. E ci ha messo cinque giorni, da neonata, ad aprire gli occhi. 

“Ho fatto tutto il cinema con un polmone solo, l’altro era paralizzato dalla tubercolosi, non riuscivo a respirare ma ho superato tutto perché mi piace la vita”. 

Ha avuto anche incontri straordinari, a partire da Visconti che la scoprì nella pasticceria in cui lavorava, a Milano.

“Avevo 16 anni, entrarono lui e il regista Giorgio De Lullo, io servivo i marron glacé e lui guardava. “Lei è un animale cinematografico”. De Lullo poi mi disse: “Ma sai chi è? E’ Visconti”. E io “embé?”, non avevo idea di chi fosse. Fu lui, a Roma a parlare di me a Giuseppe De Santis. Io feci Miss Italia, i provini e fui presa per Non c’è pace tra gli ulivi”.

E’ iniziata una grande carriera. Cos’era il cinema per lei?

“Una cosa che se ci penso adesso mi chiedo: perché l’ho fatto? Non avrei voluto, mi sono trovata in mezzo e l’ho fatto con grande rispetto. Il primo giorno dissi alla macchina da presa: 'Vuoi mangiarmi? Sono io che mangio te. Ti darò il 50 per cento, il resto me lo tengo. Voglio vivere una vita, non una vita da attrice'. Non mi sono mai sentita diva, divina invece sì”. 

Non le piaceva il set?

“Allora alcuni set erano complicati e faticosi. Ti sparavano in faccia certi fari, li chiamavano 'i bruti, ti rendevano rossi gli occhi.. Si lavorava 24 ore su 24 e, come diceva sempre Mastronianni, 'ci giochiamo la vita tutti i giorni perché un bruto ti può crollare addosso'. Ci giocavamo la vita tra tubi, cavi, carrelli, luci... Intorno a noi c'era un traffico tremendo".

Il film a cui più legata?

“Tutti, li ho scelti tutti io, allora non c’era il manager, il regista veniva e parlava con te”.

Quello in cui si è piaciuta di più?

“Non mi sono piaciuta mai”.

Regista amato di più?

“Tutti, li ringrazio per la loro pazienza”.

Quello che la faceva ridere?

“Citto Maselli, quand’era aiutante di Antonioni. Su set di Cronaca di un amore, durante una scena drammatica, Citto mi fece ridere e Antonioni mi diete uno schiaffo”.

Lei è sempre stata indipendente e un po’ in conflitto con la famiglia.

“Specie quando decisi di sposarmi con il torero. Pensai: prima mi sposo, poi lo dico a mamma. Le mandai un telegramma dall’America. “Mi sono sposata”. Lei rispose: “Sono stata informata dalla stampa: sei impazzita?”. Mi sono sposata con due testimoni e basta, odio gli spettacoli degli sposalizi, dei battesimi, dei funerali, non ci vado”.

Cosa la fece innamorare di Dominguin?

“Mi fece sentire come Europa che Zeus rapisce trasformandosi in un toro bianco. A 25 anni non avevo ancora conosciuto un uomo, perché erano tutti gay i miei amici, ero la regina dei gay. Il primo uomo l’ho visto come un dio, fu un’esperienza intensa”. 

Prima c'era stato Walter Chiari.

“Gli ho voluto bene, era simpatico, vitale, eravamo ragazzini, una presa per mano, un bacetto”.

Con Dominguin la passione finì.

“Come ho avuto il coraggio di sposarmelo, ne ho avuto per dirgli vaffanculo”.

Lui non se l’aspettava, malgrado i tradimenti?

“No, soprattutto un torero, machista come sono gli spagnoli. Mi ero sposata per creare una famiglia ma non potevo andar avanti cosi. Ho preso coraggio, allora non c’erano separazione e divorzio. In Spagna tutti si schierarono con lui, “ti verranno chiuse tutte le porte”.

“Chiudete anche le finestre”, rispondevo. Mi sono trovata sola e mi sono ricordata di quando, bambina, durante un bombardamento, tutta la famiglia era partita su un carro scordandosi di me, per la disperazione mi attaccai alla corda del carro correndo per dieci chilometri prima che mamma chiedesse: “Dov’è Lucia?”. Capii che ci sono momenti nella vita in cui ti devi salvare da sola, a quella corda del carro sono attaccata ancora adesso. Dopo il divorzio Visconti mi chiamò: “Vieni in Italia da me, con i bambini, qui una casa ce l’hai. Ma i bambini volevano restare in Spagna, lo promisi a Miguel”.

Quanto è stato importante e come l’ha cambiata diventare madre?

“Non credo mi abbia cambiato molto. Questo fanatismo delle madri mi pare assurdo. Non è che mi sono sentita più importante, di mio figlio ho pensato “povero disgraziato”, perché l’attrice è un mestiere poco compatibile con la maternità”. Miguel da bambino era bellissimo, non ribelle ma chiuso, giocava da solo. In comune abbiamo la faccia e il caratteraccio. Trascorro ogni Natale in Messico da lui, bisticciamo ma siamo molto uniti”.

Le piace, il suo caratteraccio. 

“Sì. Mi rende libera. Non ho mai accettato consigli, da amici o parenti. Ho diretto io la mia vita e per questo a 88 anni sono felice”.

Che rapporto ha avuto con la sua bellezza?

“Sono nata bella, un dono che viene da lassù, ma non l’ho mai utilizzata troppo per conquistare il mondo, il lavoro, i figli. Ancora oggi, in Spagna, vivo in un paese con cinquanta persone circondata da amici veri. Ogni mese vado a Torino a trovare un mio amico gravemente malato. Vede questi orecchini? (indica i pendenti con l’immagine di Frida Khalo, ndr) Li prendo a Torino, Frida è il mio mito: lei non ha avuto bisogno della bellezza, ha costruito il suo meraviglioso personaggio”.

Come trascorre la giornata? 

“Faccio piatti mariconadas, decorati, e collages. Leggo fumetti (sul tavolo c’è un numero di Martin Mystère, ndr). Brandon non lo pubblicano più. 

Perché ha scelto il blu per i suoi capelli?

“Me li ha fatti mia nipote. Prima verdi, rossi, gialli. Al blu mi ha detto "rimani blu".

Il sogno realizzato?

“Il museo degli angeli. In Spagna pensano che gli angeli siano cose da bambini, e invece sono tra noi. Ho speso quasi tutti i miei soldi ma sono felice di aver mantenuto la promessa fatta quando, da ragazza, vidi gli angeli a Castel Sant’Angelo muoversi per me”.

Ha un angelo custode?

"Tutti lo abbiamo, basta sentirlo. Perciò dico che non son diva ma divina". 

La cosa che pensa quando si alza la mattina. 

"Lo Spirito Santo. Mi sveglio e dico: Spirito santo, ti do la mia vita, organizzamela. E lui me la organizza.”

Gennaro Marco Duello per fanpage.it il 27 ottobre 2019. "Ti rendevi conto di essere così bella?" "No, non mi rendevo conto di niente". È il senso della conversazione tra Mara Venier e Lucia Bosé, la grande attrice ospite della puntata odierna di "Domenica In". Alla Festa del Cinema di Roma è stata una grande protagonista attraverso la sua biografia, così come da Mara Venier c'è stata l'occasione per raccontare se stessa e i suoi ricordi.

Perché Lucia Bosé porta i capelli blu. Interessante la storia che risponde alla domanda che in molti, soprattutto sui social, si sono posti. Ovvero, perché Lucia Bosé porta i capelli blu: Perché ho i capelli blu? Perché mia nipote si è sempre divertita con me, un giorno mi ha fatto rosa, un giorno verde. Mia nipote mi disse: "Rimani blu". E sono rimasta blu. Ho sempre avuto la ribellione di non essere uguale a tutti, ho sempre desiderato essere diversa.

Lucia Bosé e gli amici gay. Lucia Bosé, divertita, parla del sesso e spiega che alla sua epoca non si pensava molto al sesso. Strappa un sorriso quando, senza alcuna malizia o forma di discriminazione, rivela di essere sempre stata circondata da amici gay. Alla mia epoca non si pensava il sesso, era l'ultima cosa. Ero circondata da tutti gay, poi. Tutti gay i miei amici e non ho mai avuto proposte a quell'epoca. Il costumista, il regista, l'amico dell'amico. Tutti gay. Sono arrivata a ottant'anni ancora sola. Tutti gay intorno a me. La colpa è delle donne perché sono sceme, una più scema dell'altra.

Le origini modeste. Lucia Bosé viene da origini modeste ne parla e ne racconta a Mara Venier, oltre a parlare delle ritrosie di suo padre per il mondo del cinema. Lei però era una donna molto ribelle: Nasco da famiglia modesta. Erano di San Giuliano Milanese, erano tutti belli. Tutti belli ma non pensavo di fare il cinema. Mi scoprì Luchino Visconti, ma a mia insaputa perché mi mandarono a fare un provino senza che lo sapessi. Mio padre non voleva che io facessi il cinema, ero abbastanza ribelle e gliene facevo di tutti i colori. Lui voleva che compissi almeno 18 anni.

L'amore con il torero Dominguin. "Mi ha dato tutto lui". Ne parla quasi come se fosse ancora innamorata di lui, Lucia Bosé. Il torero spagnolo Dominguin è stato l'amore della sua vita: "Cosa vuoi di più di un torero? Quello è un vero uomo". Scherza. L'infedeltà del torero però sfocia nel divorzio nel 1967. Dopo un certo punto però ho detto basta perché ho saputo che lui si era messo con una ragazza che avevamo cresciuto in casa. Quella cosa mi ha infastidito. Le altre corna, e vabbè. Chi non ha le corna in questa vita. Bisogna saperle portare. E sul divorzio ha raccontato un dettaglio su come è riuscito ad ottenerlo. Era una Spagna in cui il divorzio era contemplato solo se era l'uomo a richiederlo: "Gli ho detto, tu mi dai il divorzio e ti tieni tutto quello che ti sei guadagnato, perché lo hai rischiato con la vita. Ma mi dai i figli. Altrimenti ti sparo. E lui mi ha dato i figli". L'intervista si chiude con l'intervento Teo Teocoli in versione torero che dedica una canzone alla diva e poi balla un lento con lei sulle note di Besame Mucho. 

·         Mina.

Emanuela Longo per ilsussidiario.net il 16 dicembre 2019. Nel corso della puntata di ieri di Non è l’Arena, il programma condotto su La7 da Massimo Giletti, è stato riservato ampio spazio alla grande Mina, con un omaggio da parte del giovane Pierdavide Carone che si è esibito in studio sulle note di Insieme, storico brano cantato dalla grande artista. Tra gli ospiti del programma anche Red Ronnie che ha portato in studio le copertine dei dischi di Mina: “Dal 1978 ad oggi lei parla solo con i dischi e usa moltissimo la sua immagine. Cioè, lei nega la sua immagine però la usa”, ha commentato, commentando le sue copertine e ribadendo di aver iniziato ad un certo punto a giocare con la sua immagine “prima di Madonna, prima di Lady Gaga”. Sempre Red Ronnie ha poi portato a Non è l’Arena uno scoop, annunciato da Massimo Giletti che ha spiegato di essere all’oscuro di tutto: “Era il 1983”, ha esordito il giornalista musicale, “è incredibile perché fa le telefonate e ti chiede un pezzo agli artisti più disparati. Nell’83 io facevo Bandiera Gialla e verso le 4 del mattino è venuto a trovarmi Vasco Rossi con la chitarra. Abbiamo cantato le canzoni, poi mi ha detto che si trattava di una canzone scritta per Mina”. Si trattava come una sorta di canzone-intervista nella quale chiede perchè è andata via dalla scena. Si trattava di una canzone mai arrivata all’artista perchè Vasco si dimenticò di dargliela prima che chiudesse il suo album. La parentesi di Non è l’Arena dedicata alla grande Mina è andata avanti con la barzelletta sulla cantante raccontata dal padrone di casa, Massimo Giletti. Come spiegato dal conduttore, all’epoca vi era una grande rivalità tra grandi artiste come Ornella Vanoni e Iva Zanicchi. “C’era una barzelletta che faceva più o meno così”, ha esordito Giletti, “La Vanoni va in paradiso e a un certo punto sente cantare ‘Brava, brava…’. Dice ‘No! Pure qua! Anche Mina qui!’. le si avvicina San Pietro, la guarda e dice ‘Cara signora Vanoni, non è Mina, è il Padreterno che cerca di imitare Mina!'”. Una barzelletta che nasconde la sua grande forza nel corso delle generazioni. Infine, non poteva mancare l’intervento di un altro ospite del programma di La7, Roberto D’Agostino: “Lei massacra chiunque. Oggi abbiamo ste mezze sciacquette… Si fanno un tatuaggio sul cul* e poi cantano. Sai qual è la differenza? Lei sta nell’immaginario, se manca Fedez e non canta più, non se ne frega un cazz* nessuno!”.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2019. Davanti alla tv, con i capelli raccolti e gli occhialoni. Come una signora qualunque sul divano di casa, la domenica, ma lei è Mina, l'artista più straordinaria e irraggiungibile del panorama italiano. «Madre e mio fidanzato che guardano video di gangsta rapper venezuelani». Benedetta Mazzini, la figlia di Mina, pubblica su Instagram una foto della famosissima madre nella sua casa a Lugano. È di schiena, non si vede bene, ma lo scatto è un clamoroso scoop. Mina, da quell' ultimo concerto nel 1978 alla Bussola di Viareggio, non canta più in pubblico, non si fa più vedere. Ha continuato a lavorare e fare dischi, ma ha scelto di vivere un vita privata e ritirata in Svizzera, lontano dall' interesse mediatico. Salvo qualche paparazzata rubata, nessuno l'ha più vista in volto, a parte amici e famigliari. Ma lei resta un mito della musica che il pubblico non dimentica. Ha regalato emozioni uniche. La figlia Benedetta ha pubblicato uno scatto intimo autorizzato, l'unica foto che si vede della Tigre di Cremona da anni. E infatti i commenti sotto la foto di Instagram in cui Mina guarda rapper venezuelani ha fatto il pieno di like e commenti tra il commosso e l'incredulo. Alcuni di questi: «Che bel regalo, grazie... siete sempre avanti», «che foto fantastica», «Grande Mina, sei vita», «Che foto impagabile! Grazieeeee. Bene per averla condivisa!!!». Settantanove anni e due figli, interprete di canzoni leggendarie, dopo il matrimonio del 10 gennaio 2006 con Eugenio Quaini è diventata, per l' anagrafe elvetica, Mina Anna Quaini-Mazzini.

Marco Molendini per Dagospia il 26 novembre 2019. Sarà un caso, ma nel giorno in cui esce Mina Fossati, l'album che mette insieme l'ex Tigre di Cremona e il cantautore che si era autopensionato (ma non troppo), Venditti e De Gregori annunciano che rifanno ditta insieme (appuntamento ciclico con larghi intervalli) per scendere in campo allo stadio Olimpico. La vecchia guardia sceglie la trincea. Nella musica che fabbrica idoli con la stampante 3D, dove la canzone classica viene mandata in soffitta, non resta che unire le forze nell'ultima ridotta della memoria. Sappiamo già che Francesco e Antonello faranno ricorso al passato, a quasi cinquant'anni dalla nascita della loro Santa alleanza cantautoriale, rispolverando i reciproci successi e facendo appello alla mozione dei sentimenti perduti. Mina e Fossati hanno fatto di più: un disco alla vecchia maniera. Che oggi suona addirittura come un azzardo. Belle canzoni (non tutte), testi che hanno un senso, bei suoni, arrangiamenti curati, qualche piccolo vezzo autoreferenziale. E' un disco che suona da long playing in vinile, un po' meno adatto alle intemperie dello streaming. Ma soprattutto hanno fatto un album per loro stessi. Mina, che a marzo farà 80 anni, non ha nessuna voglia di fare la vecchia signora, altrimenti che si sarebbe ritirata a fare quando non aveva ancora 40 anni, e perché si farebbe fotografare dalla figlia (di spalle, naturalmente) mentre guarda alla tv dei gangsta rapper venezuelani? Mina sa di aver bisogno di qualcuno che le sappia scrivere e scegliere canzoni. I suoi album di inediti, a dispetto della sua celebrata voce, da anni peccano proprio sul fronte della qualità del repertorio (eppure riceve centinaia di provini). Meglio, allora, andare sul sicuro. Così, stavolta, a correre in soccorso è arrivato un cantautore solido, che conosce i segreti dello scrivere canzoni, che ha gusto, senso della misura, ha ascoltato molta musica e, da quando si è ritirato (ma comunque ha continuato a scrivere e distribuire pezzi), ha più tempo a disposizione. E infatti Mina Fossati è un album curatissimo, fatto di brani che si ascoltano, a cominciare dall'ottima ballad iniziale L'infinito di stelle dal cui ascolto si evince subito come hanno funzionato le cose: Mina ha inciso le sue parti, Ivano ha aggiunto i suoi interventi vocali plasmati su quelli dell'amica. Lo si capisce in modo ancora più evidente in Luna diamante, destinata al nuovo film di Ozpetek, dove Ivano lascia intatta la versione di Mina, con la paura di disturbarla, salvo aggiungersi solo nel finale, con un compiaciuto ricamo vocale. Fra le cose più riuscite il singolo Tex Mex (non a caso è stato usato come lancio dell'album) su un bel tempo che sa di Delta del Mississippi. Le cose meno azzeccate sono quelle in cui la voce di Mina si fa smorfiosa, prova a farsi ragazzina, curiosamente sono i momenti in cui maggiormente si avverte l'età, come in L'uomo perfetto e in Farfalle, brano giocoso che perfino nel testo cade nella trappola della banalità, con quella frase sui giornalisti che per fare rima con farfalle vengono invitati a «non romperci le balle». Antico vezzo degli artisti, i giornalisti vanno bene solo quando non rompono le balle. Il pezzo finale, Niente meglio di noi due, ha un vago sapore referenziale, ma del tutto perdonabile di questi tempi. Si diceva Mina sta per fare 80 anni e non ha nessuna intenzione di ritirarsi, un consiglio per il prossimo disco perché, invece che guardare in tv i gangsta rapper venezuelani, non prova a contattare un signore di Asti che si chiama Paolo Conte? Lui è un altro che sa scrivere canzoni.

Mina, ancora tu. La star invisibile ascolta il rap in tv. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Di Mina si vedono solo la nuca, con lo chignon rosso mogano acconciato alla buona e il profilo di grandi occhiali fumé. La foto è scattata di spalle. Lei è seduta su un divano bianco, indossa qualcosa di pesante e di blu. Sta guardando la televisione. Accanto a lei, un giovane in maglietta bianca, di spalle anche lui. La parete di fronte è spoglia, il tavolino da salotto è ingombro di libri. La figlia Benedetta Mazzini, sotto al post di Instagram, ha scritto «Madre e mio fidanzato che guardano video di gangsta rapper venezuelani #ilovemyfamily #minamazzini #mamy #lugano #homesweethome», più l’emoticon di un cuoricino, di una risata, di una scimmietta che si copre gli occhi. È bastato molto meno che quest’ologramma di Mina per rendere la foto virale: migliaia i like, oltre seicento i commenti in 24 ore e articoli ovunque sul web. La cantante, 79 anni, non sale su un palco dal 23 agosto 1978, dopo l’ultimo concerto alla Bussola di Viareggio. Da allora, circondata da un alone di mistero, vive a Lugano, con il marito Eugenio Quaini, chirurgo, sposato nel 2006, dopo 25 anni insieme. La foto postata domenica sera è la prima in 41 anni che la mostra in un momento di intimità. È niente ed è tutto. È abbastanza per provocare una valanga di messaggi emozionati: l’attrice Michela Andreozzi scrive «Sbam!»; lo scrittore Luca Bianchini «che bel regalo!». Il resto sono ricordi, testimonianze di persone comuni: «È un privilegio vedere questa foto»; «ogni volta, con mio padre, parliamo di quanto sia ineguagliabile la sua interpretazione de La voce del silenzio»; «è stata la colonna sonora della mia vita»... Tutto così. Parole, parole. Neanche un hater, per una volta, a guastare la festa. Ed è la prova che in un’era in cui tutti vogliono apparire, Mina è l’unica che non appare, ma permane; che per essere amati non è necessario essere guardati. La figlia Benedetta, 47 anni, declina la richiesta di un commento, dice solo che «in quello scatto c’è già tutto, non c’è niente da aggiungere». È uno sprazzo di vita familiare, di normalità, ci sono una suocera e un genero che guardano il video di un giovane rapper di cui non sapremo il nome, ma la cui immagine sfocata sta lì a dirci che Mina, ormai bisnonna, ha ancora curiosità da spendere. Non a caso, sul suo sito, compare un indirizzo postale dove gli aspiranti artisti possono inviarle i loro brani. La banalità di questa scena in un interno notte, in fondo, rivela di lei più del video in cui l’abbiamo rivista per la prima e unica volta. Era il 2001 e Mina appare mentre registra delle canzoni, con una lunga treccia, una sciarpa nera al collo. Canta, sorride, scherza coi musicisti e con il figlio Massimiliano Pani, che è il suo produttore. Il video era stato trasmesso su un sito web, che già quattro ore prima era in tilt per eccesso di contatti. Un mese fa, è stato proprio il figlio ad annunciare un nuovo album della madre, atteso per il 22 novembre. Evento doppio: si tratta di Mina Fossati, fatto con il cantautore che si è ritirato dalle scene nel 2012. Insomma, due assenze che si uniscono, le loro, come sulla cover del disco, con due profili in bianco e nero più evanescenti che mai. A febbraio, Mina aveva partecipato, ma solo in voce, allo spot di una compagnia telefonica trasmesso durante il Festival di Sanremo. C’era il suo cartoon in vesti di aliena e la voce dell’astronave era di Mauro Coruzzi, in arte Platinette. «Ho registrato con lei seduta accanto a me, mi tremavano le gambe», ha raccontato lui al Corriere, «ogni volta che apriva la bocca, era come rivederla divina in un TecheTecheTè della Rai». In quelle clip storiche, Mina fa ancora record di ascolti. Sono quelle in cui canta successi come Tintarella di luna, Il cielo in una stanza, Le mille bolle blu, E se domani, Una zebra a pois. E le canta in un modo che ha fatto dire a Sarah Vaughan, per molti la più grande jazzista del mondo, «se non avessi la mia voce, vorrei avere quella di Mina». Mina non ha mai amato la popolarità. Già nel 1963, in un’intervista, aveva spiegato a Oriana Fallaci: «Io non l’ho mai cercato, il successo, non ho lottato per conquistarlo e così non l’ho mai apprezzato. A una certa età, così come all’uomo viene la barba, a me è venuto il successo». E il successo non l’ha abbandonata neanche quando ha deciso di separare il corpo dalla voce: da «invisibile», ha pubblicato una quarantina di album, senza perdere il favore del pubblico.

Ivano Fossati e Mina, l’anteprima del dialogo esclusivo. Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. «Quando meno te lo aspetti, magari ti stai nascondendo, una canzone ti viene a cercare». Scrive così Mina a Ivano Fossati, nel dialogo esclusivo tra i due pubblicato sul numero di 7 da domani in edicola: «Maledette canzonette che dicono sempre la verità», continua la cantante, musa e interprete del disco Mina Fossati: «Sì ognuna ha la sua autenticità, è un riassunto, è memoria. Anche la più semplice, la più scema, la più oscena». Lei può dirlo. Lei così intatta nella nostra memoria, sparita come volto e divenuta pura voce, quando esce dal suo silenzio. Basta fare un salto indietro nel tempo e ricordare le sue prime canzoni, stralunate e semplici, capaci di arpionare a fondo ricordi, emozioni in chi le ascoltava. Nel 1959 Tintarella di Luna (tintarella color latte); nel 1962 Renato, Renato, Renato (così carino così educato) o La banda (quando la banda passò...) del 1967. Il segreto? Per Mina è nel silenzio, in come ci stimola: «Forse proprio chi tiene la musica circoscritta nel cuore, lungo anni di genovese silenzio, riesce a riposizionare l’assolutezza della canzonetta, a beneficio di noi diseredati di bellezza. Dal silenzio è più facile percepire lo spettacolo di immagini, suoni e pensieri che si incuneano nel cuore e trafiggono la mente». D’altronde ci sono cose, in un silenzio, che non ci si aspettava mai, come cantava con straziante dolcezza in La voce del silenzio (1968). Le risponde Fossati, il cantautore genovese che da anni sognava di fare un disco con Mina: «La musica leggera, le canzonette di cui parli tu, sono la vetrina di giocattoli avanti a cui perdevo i sentimenti e la ragione quando ero bambino. La gente si innamora e si sposa sulla musica di canzoni che tu forse oggi non ricanteresti e altre che io non riscriverei. Pensa a quanti matrimoni abbiamo sulla coscienza». Dall’amore per le canzonette alla paura per le tabelline. Nel numero di 7, lo scrittore pisano Marco Malvaldi, laureato in Chimica e ricercatore nella facoltà di Farmacia, spiega perché abbiamo il terrore della matematica. Un linguaggio che, in realtà, permette di comprendere (quasi) tutto. L’uomo ha inventato questi simboli non per raccontare i problemi, come si fa con l’alfabeto, ma per risolverli. I numeri ci servono per maneggiare in modo agevole e sicuro il mondo. Domanda: sapete quanti (ex) collaboratori Donald Trump ha licenziato in due anni di casa Bianca? Ben cinquantotto, come racconta Giuseppe Sarcina, corrispondente del Corriere della Sera dagli Stati Uniti. Un record feroce. E un metodo molto simile a quello che The Donald, da imprenditore, interpretava con sadismo nel programma tv di cui è stato a lungo protagonista, The Apprentice. In quel format, poi ripreso in Italia con Flavio Briatore nel ruolo del suo amico Trump, il vincitore era colui che riusciva a non farsi licenziare.

Ivano Fossati per “Sette - Corriere della Sera” il 25 novembre 2019. Ho incontrato Mina per la prima volta nel 1970. Io vidi lei ma lei non vide me. Ero fra il pubblico, in galleria, al teatro Margherita di Genova. Il programma di quella sera era un recital di Mina e Giorgio Gaber. Mi piacevano entrambi e ci andai da solo. Un po’ perchè i miei amici – venivamo tutti dalla periferia – erano intimiditi dai teatri e i cantanti andavano ad ascoltarli solo nei locali da ballo. E un po’ perchè di fronte alla musica mi piaceva stare concentrato, senza distrazioni, quindi da solo era anche meglio. In quel teatro ci avevo sentito Stan Getz, il Modern Jazz Quartet, Charles Aznavour e poi i Rokes e l’Equipe 84. La musica mi interessava tutta. La serata andò più o meno cosi: nel primo tempo Gaber spiazza il pubblico presentando per la prima volta il Signor G. Noi genovesi, che ci aspettavamo da lui qualcosa di colloquiale e leggero, ci trovammo faccia a faccia con il Gaber trasformato, profondo e teatrale che da li in poi avremmo sempre più amato. Era il momento giusto, Genova comprese al volo. Dopo un quarto d’ora di intervallo le luci si abbassano nuovamente e il sipario si riapre. Dietro il sipario, bellissima, alta, statuaria, fulva in controluce... Mina. Il pubblico ammutolito non applaude subito. Probabilmente qualcuno ha anche smesso di respirare. Passano forse tre, quattro secondi di assoluto silenzio che a teatro sembrano interminabili. Io che avrei applaudito al primo istante mi guardo intorno sgomento, e finalmente l’applauso scoppia. Lungo, corale, liberatorio. Bisogna comprendere: eravamo una platea di genovesi, il che spiega molte cose. E poi non l’avevamo mai vista cosi da vicino. Soprattutto non l’avevamo mai vista a colori.

Maestra internazionale. Mi piace da sempre. Insieme al jazz, al rock. In tutte le fasi della mia musica non ho mai smesso di ascoltarla. Mi sono sempre aspettato qualcosa di sorprendente da Mina. Era lei che ci aveva portato più vicini Chico Buarque, Juan Manuel Serrat, Tom Jobim, era lei che alle nove di sera in tv duettava con Toots Thieleman. Ci stava insegnando molto e dopo avrebbe fatto ancora di più. Ecco perchè per un paio di settimane mi ero conservato il biglietto del concerto piegato con cura nel portafogli. Ecco perchè quella sera non avevo voluto nessun amico seduto accanto a berciarmi nelle orecchie. Mina e amata da tutti i musicisti. A partire da quelli che si guadagnano da vivere suonando nei locali da ballo fino ai più raffinati jazzisti e compositori, in Italia e non solo. Io all’epoca facevo parte della prima categoria. Avevo ottenuto un ingaggio professionale come chitarrista in un’orchestrina, e non mi sfiorava neppure l’idea che un giorno l’avrei conosciuta, o le avrei anche solo parlato. Quando avevo dei soldi in tasca comperavo dischi dei Blood Sweat and Tears, dei Jethro Tull, di Ray Charles e Aretha Franklin, Mina e Lucio Battisti. Quelli degli Stones, dei Beatles, dei Beach Boys, degli Animals e degli Who li avevo consumati da tempo. Ho sempre ascoltato Mina con attenzione perchè fra i miei maestri c’e anche lei. Nessuno regola e governa il suono delle parole come lei fa. Nessuno guida e conferisce altrettanto bene, in tempo reale, significato a ogni singolo passaggio e pensiero. Nessuno, o forse pochissimi nel mondo, amplificano o smorzano le emozioni a loro piacimento con la sua stessa maestria, alzando o abbassando la temperatura dell’interpretazione nel corso di uno stesso brano. Fonetica, musica e pensiero si muovono insieme e Mina lo sa.

Il primo incontro. Ci sono voluti altri otto anni perchè lei e io ci incontrassimo davvero. Nel 1978 lei decide di non esibirsi più in pubblico, e nello stesso anno io passo giornate a scrivere canzoni che nessuno vuole cantare. In genere gli editori me le rispediscono indietro, trovandogli ogni sorta di difetti. E come se questo non fosse abbastanza per la mia autostima, pubblico un album, La casa del serpente, che non vende nemmeno mille copie. Ma improvvisamente nel suo doppio live Mina live ’78 lei, a sorpresa, reinterpreta due pezzi tratti proprio da quel mio disco di nessun successo. La vado a trovare alla Bussoladomani, il teatro tenda dove si esibisce per l’ultima serie di concerti. Non mi ricordo se in quel primo incontro ho l’ardire di abbracciarla ma spero proprio di averlo fatto. Anche perchè nello stesso tempo accade qualcosa: nel giro di un paio di settimane gli editori e i cantanti che avevano rifiutato le mie canzoni mi cercano, mi telefonano, chiedono se possono riascoltarle e se ne ho altre. Nei due anni seguenti non pochi dei brani prima rifiutati diventano successi da classifica. Sono tuttora grato a Mina, perchè sono sicuro che lei c’entra. Ma so altrettanto bene che se le accenno la vicenda sorride, minimizza e taglia corto.

Il disco mancato. Negli anni seguenti per me le cose andarono sempre meglio. I miei album finalmente avevano successo e i teatri erano pieni. Facevo anche il produttore e le canzoni che scrivevo non le rifiutava più nessuno. Mina non la perdevo di vista; ogni tanto lei reinterpretava qualcosa di mio, spesso le canzoni più particolari, e per me era una sorpresa e una gioia come la prima volta. Un filo sottile a cui tenevo che non si spezzava. Verso la fine degli anni Novanta lei mi fa sapere che vorrebbe registrare un disco insieme a me. Ha gia in mente la lista delle mie canzoni che dovremmo cantare insieme, perchè e veloce e mentre pensa una cosa e gia più avanti della successiva. Io invece fatico a riprendermi dalla sorpresa. Sono disorientato, e di nuovo sgomento come quella volta nel 1970 a teatro quando mi sembrava che l’applauso tardasse ad arrivare. Ci incontriamo in un ristorante di Milano e ne parliamo. Potrebbe venirne fuori un gran bel disco, adesso lo so. C’e entusiasmo, forse un po’ di timore da parte mia, ma lo supero, quindi abbiamo tutto quello che serve. I discografici pero, per motivi che mi sono ancora ignoti, raffreddano gli entusiasmi e insieme tutto il progetto (poi uno si chiede perchè la discografia ha fatto la fine che ha fatto. Non e tutta colpa di Internet). Mina e io per un po’ ci perdiamo, ma si fa per dire. Passa altro tempo. Otto anni fa sono io che decido di smettere coi dischi e le tournee. La routine mi ha stancato, quello che ho intorno non mi piace più come prima. Mi trasferisco a Nizza e vivo una vita tutta differente, viaggio molto con mia moglie e la musica la ascolto e basta; solo quella che mi piace, senza subire il resto. Suono sempre molto, ma lo faccio per me, perchè c’e comunque tanto da imparare. E perchè la passione di tutta la vita non la puoi spegnere col telecomando come il televisore. Poi, poco più di un anno fa, ero appena rientrato da un viaggio in Estremo Oriente, quando Mina mi fa sapere che a quel progetto di tanto tempo prima lei ci pensa ancora, e se fossi d’accordo... Resto disorientato ma me lo faccio passare subito. Uno sano di mente può dirle di no? Cosi butto all’aria i miei impegni, abolisco le distrazioni, affogo il cellulare dentro la vasca da bagno e comincio a scrivere. Lei dice che sa gia come chiamare l’album: Mina Fossati.

E ora in studio con lei. E adesso ci siamo. Proprio mentre scrivo queste righe il disco viene pubblicato. Ne Mina, ne io, pensiamo a come andra; nel farlo c’e stato tutto l’entusiasmo che c’era da aspettarsi, tutta la sorpresa e la meraviglia. Scrivere canzoni e interpretarle insieme a lei e appunto una fonte di meraviglia continua. Uno spostamento attraverso intuizioni diverse. Mina non e solo la grandissima cantante che conosciamo ma e pura intelligenza musicale. Qualsiasi cosa ti aspetti artisticamente da lei devi prepararti a riceverla migliore di come l’hai pensata. Devi essere pronto a imparare ancora. Non so nemmeno se sono in grado di descriverlo. Ogni tanto, durante i mesi di lavorazione, fra scrivere e registrare, mi sono sentito per brevi attimi come quella sera a Genova al teatro Margherita. Erano solo momenti, passavano veloci e non glielo dicevo. Dietro le lenti sfumate degli occhiali mi avrebbe fatto uno di quei sorrisi amabili e divertiti che fa, poi di sicuro avrebbe di nuovo tagliato corto.

Fossati racconta Mina: «Bellissima, statuaria, fulva in controluce». Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Un ritratto straordinario. E’ quello che Ivano Fossati traccia per 7 raccontando Mina. Ve lo anticipiamo qui. Nel 1978, reinterpretando due pezzi suoi, la regina della musica italiana aveva spalancato a Fossati la porta del successo. Non si sono più persi di vista. Quando lei gli ha proposto di registrare insieme, lui ha buttato all’aria tutti i suoi miei impegni. Ho incontrato Mina per la prima volta nel 1970. Io vidi lei ma lei non vide me. Ero fra il pubblico, in galleria, al teatro Margherita di Genova. Il programma di quella sera era un recital di Mina e Giorgio Gaber. Mi piacevano entrambi e ci andai da solo. Un po’ perché i miei amici - venivamo tutti dalla periferia - erano intimiditi dai teatri e i cantanti andavano ad ascoltarli solo nei locali da ballo. E un po’ perché di fronte alla musica mi piaceva stare concentrato, senza distrazioni, quindi da solo era anche meglio. In quel teatro ci avevo sentito Stan Getz, il Modern Jazz Quartet, Charles Aznavour e poi i Rokes e l’Equipe 84. La musica mi interessava tutta. La serata andò più o meno così: nel primo tempo Gaber spiazza il pubblico presentando per la prima volta il Signor G. Noi genovesi, che ci aspettavamo da lui qualcosa di colloquiale e leggero, ci trovammo faccia a faccia con il Gaber trasformato, profondo e teatrale che da lì in poi avremmo sempre più amato. Era il momento giusto, Genova comprese al volo. Dopo un quarto d’ora di intervallo le luci si abbassano nuovamente e il sipario si riapre. Dietro il sipario, bellissima, alta, statuaria, fulva in controluce... Mina. Il pubblico ammutolito non applaude subito. Probabilmente qualcuno ha anche smesso di respirare. Passano forse tre, quattro secondi di assoluto silenzio che a teatro sembrano interminabili. Io che avrei applaudito al primo istante mi guardo intorno sgomento, e finalmente l’applauso scoppia. Lungo, corale, liberatorio. Bisogna comprendere: eravamo una platea di genovesi, il che spiega molte cose. E poi non l’avevamo mai vista così da vicino. Soprattutto non l’avevamo mai vista a colori. Mi piace da sempre. Insieme al jazz, al rock. In tutte le fasi della mia musica non ho mai smesso di ascoltarla. Mi sono sempre aspettato qualcosa di sorprendente da Mina. Era lei che ci aveva portato più vicini Chico Buarque, Juan Manuel Serrat, Tom Jobim, era lei che alle nove di sera in tv duettava con Toots Thieleman. Ci stava insegnando molto e dopo avrebbe fatto ancora di più. Ecco perché per un paio di settimane mi ero conservato il biglietto del concerto piegato con cura nel portafogli. Ecco perché quella sera non avevo voluto nessun amico seduto accanto a berciarmi nelle orecchie. Mina è amata da tutti i musicisti. A partire da quelli che si guadagnano da vivere suonando nei locali da ballo fino ai più raffinati jazzisti e compositori, in Italia e non solo. Io all’epoca facevo parte della prima categoria. Avevo ottenuto un ingaggio professionale come chitarrista in un’orchestrina, e non mi sfiorava neppure l’idea che un giorno l’avrei conosciuta, o le avrei anche solo parlato. Quando avevo dei soldi in tasca comperavo dischi dei Blood Sweat and Tears, dei Jethro Tull, di Ray Charles e Aretha Franklin, Mina e Lucio Battisti. Quelli degli Stones, dei Beatles, dei Beach Boys, degli Animals e degli Who li avevo consumati da tempo. Ho sempre ascoltato Mina con attenzione perché fra i miei maestri c’è anche lei. Nessuno regola e governa il suono delle parole come lei fa. Nessuno guida e conferisce altrettanto bene, in tempo reale, significato a ogni singolo passaggio e pensiero. Nessuno, o forse pochissimi nel mondo, amplificano o smorzano le emozioni a loro piacimento con la sua stessa maestria, alzando o abbassando la temperatura dell’interpretazione nel corso di uno stesso brano. Fonetica, musica e pensiero si muovono insieme e Mina lo sa. Ci sono voluti altri otto anni perché lei e io ci incontrassimo davvero. Nel 1978 lei decide di non esibirsi più in pubblico, e nello stesso anno io passo giornate a scrivere canzoni che nessuno vuole cantare. In genere gli editori me le rispediscono indietro, trovandogli ogni sorta di difetti. E come se questo non fosse abbastanza per la mia autostima, pubblico un album, La casa del serpente, che non vende nemmeno mille copie. Ma improvvisamente nel suo doppio live Mina live ‘ 78 lei, a sorpresa, reinterpreta due pezzi tratti proprio da quel mio disco di nessun successo. La vado a trovare alla Bussoladomani, il teatro tenda dove si esibisce per l’ultima serie di concerti. Non mi ricordo se in quel primo incontro ho l’ardire di abbracciarla ma spero proprio di averlo fatto. Anche perché nello stesso tempo accade qualcosa: nel giro di un paio di settimane gli editori e i cantanti che avevano rifiutato le mie canzoni mi cercano, mi telefonano, chiedono se possono riascoltarle e se ne ho altre. Nei due anni seguenti non pochi dei brani prima rifiutati diventano successi da classifica. Sono tuttora grato a Mina, perché sono sicuro che lei c’entra. Ma so altrettanto bene che se le accenno la vicenda sorride, minimizza e taglia corto. Il disco mancato Negli anni seguenti per me le cose andarono sempre meglio. I miei album finalmente avevano successo e i teatri erano pieni. Facevo anche il produttore e le canzoni che scrivevo non le rifiutava più nessuno. Mina non la perdevo di vista; ogni tanto lei reinterpretava qualcosa di mio, spesso le canzoni più particolari, e per me era una sorpresa e una gioia come la prima volta. Un filo sottile a cui tenevo che non si spezzava. Verso la fine degli anni Novanta lei mi fa sapere che vorrebbe registrare un disco insieme a me. Ha già in mente la lista delle mie canzoni che dovremmo cantare insieme, perché è veloce e mentre pensa una cosa è già più avanti della successiva. Io invece fatico a riprendermi dalla sorpresa. Sono disorientato, e di nuovo sgomento come quella volta nel 1970 a teatro quando mi sembrava che l’applauso tardasse ad arrivare. Ci incontriamo in un ristorante di Milano e ne parliamo. Potrebbe venirne fuori un gran bel disco, adesso lo so. C’è entusiasmo, forse un po’ di timore da parte mia, ma lo supero, quindi abbiamo tutto quello che serve. I discografici però, per motivi che mi sono ancora ignoti, raffreddano gli entusiasmi e insieme tutto il progetto (poi uno si chiede perché la discografia ha fatto la fine che ha fatto. Non è tutta colpa di Internet). Mina e io per un po’ ci perdiamo, ma si fa per dire. Passa altro tempo. Otto anni fa sono io che decido di smettere coi dischi e le tournée. La routine mi ha stancato, quello che ho intorno non mi piace più come prima. Mi trasferisco a Nizza e vivo una vita tutta differente, viaggio molto con mia moglie e la musica la ascolto e basta; solo quella che mi piace, senza subire il resto. Suono sempre molto, ma lo faccio per me, perché c’è comunque tanto da imparare. E perché la passione di tutta la vita non la puoi spegnere col telecomando come il televisore. Poi, poco più di un anno fa, ero appena rientrato da un viaggio in Estremo Oriente, quando Mina mi fa sapere che a quel progetto di tanto tempo prima lei ci pensa ancora, e se fossi d’accordo... Resto disorientato ma me lo faccio passare subito. Uno sano di mente può dirle di no? Così butto all’aria i miei impegni, abolisco le distrazioni, affogo il cellulare dentro la vasca da bagno e comincio a scrivere. Lei dice che sa già come chiamare l’album: Mina Fossati. E adesso ci siamo. Proprio mentre scrivo queste righe il disco viene pubblicato. Né Mina, né io, pensiamo a come andrà; nel farlo c’è stato tutto l’entusiasmo che c’era da aspettarsi, tutta la sorpresa e la meraviglia. Scrivere canzoni e interpretarle insieme a lei è appunto una fonte di meraviglia continua. Uno spostamento attraverso intuizioni diverse. Mina non è solo la grandissima cantante che conosciamo ma è pura intelligenza musicale. Qualsiasi cosa ti aspetti artisticamente da lei devi prepararti a riceverla migliore di come l’hai pensata. Devi essere pronto a imparare ancora. Non so nemmeno se sono in grado di descriverlo. Ogni tanto, durante i mesi di lavorazione, fra scrivere e registrare, mi sono sentito per brevi attimi come quella sera a Genova al teatro Margherita. Erano solo momenti, passavano veloci e non glielo dicevo. Dietro le lenti sfumate degli occhiali mi avrebbe fatto uno di quei sorrisi amabili e divertiti che fa, poi di sicuro avrebbe di nuovo tagliato corto. Mina a Sanremo nel 1961 con «Le mille bolle blu». L’addio alle scene è datato 23 agosto 1978 a Bussoladomani, in Versilia. Alla fine degli anni 70 Mina si lega sentimentalmente al cardiochirurgo Eugenio Quaini, che sposa a Lugano nel 2006. Oltre al figlio Massimiliano, nato dalla relazione con Corrado Pani, è madre di Benedetta, nata nel 1971 dall’unione col giornalista Virgilio Crocco.

Mina con Alberto Lupo mentre cantano «Parole parole» nel corso del programma tv Teatro 10 (1972)Mina (Mina Anna Maria Mazzini, Busto Arsizio 1940) con Giorgio Gaber (il cognome originale è Gaberscik, Milano 1939 - Camaiore 2003) per le strade di Milano nel 1970. Ivano Fossati, nato a Genova nel 1951. Ivano Fossati, in piedi, con i «Delirium», nel 1972, anno in cui lasciò il gruppo di rock progressivo fondato nel ‘70. Fossati era voce, chitarra e flauto traverso.

·         Patty Pravo.

Patty Pravo: "Una volta il fumo era buono, ora fa schifo". Intervistata da Barbara d'Urso, Patty Pravo ha raccontato cose inedite della sua vita privata. Roberta Damiata, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. È senza freni, come nel suo personaggio, Patty Pravo una delle più grandi icone della musica italiana. Ospite a “Live non è la d’Urso”, parla a ruota libera di tutto, della sua vita, degli amori e anche delle droghe. E proprio su queste ultime che affiorano i ricordi più divertenti, come quella volta che era in una cinquecento insieme a Jimmy Hendrix, che si faceva una “canna”. “Con Jimi è nata un'amicizia che purtroppo è durata troppo poco. Era divertente, ci siamo ritrovati a Roma dentro una 500 perché eravamo andati a fare una passeggiata. Io portavo un grande cappello, lui un boa di piume. Aveva una ‘canna’ grande così. Per fortuna, quando ci hanno fermato, perché c’erano tanti blocchi di polizia visto che stavano cercando qualcuno, mi hanno riconosciuto e ci hanno lasciato andare”, racconta creando l’ilarità di tutti. “Allora si usava, era normale - dice sempre parlando di droghe -c’era roba buona, mica come adesso che fa schifo”. Inevitabilmente il discorso va su Ornella Vanoni che ha dichiarato di usare l’erba per addormentarsi la sera. Barbara d’Urso le chiede se le due abbiano mai “fumato insieme”, ma Patty ammette di non amare troppo l’erba, ma di essersi divertita molto di quello che la Vanoni ha raccontato di aver bisogno di trovare delle badanti che sappiano “rollare” le canne. La cantante ha anche ammesso di essere stata arrestata per droga: “Sono venuti a casa mia e cercavano Maradona, ma io neanche lo conoscevo, e poi mi hanno ingabbiato ed è stata un’esperienza fantastica. Sono stata lì 3 giorni, ho conosciuto delle persone bellissime. Mentre uscivo ho cantato "Ragazzo triste" con tutte le altre detenute e ho anche consegnato tutte le lettere che mi avevano affidato i carcerati". L’ultimo pensiero prima di lasciare lo studio va alla nonna morta che a detta della cantante si diverte a fare ancora degli scherzi, come spostare oggetti nella sua casa o anche a fare dispetti. “Come quella volta in cui -racconta - il mio segretario è scappato di casa urlando perché improvvisamente tutti gli armadi si sono aperti e tutte le cose che c’erano dentro si sono rovesciate per terra”. "Ma come fai a sapere che sia proprio lei?", le chiede la d'Urso. "Sono sempre cose mie personali, e quindi è proprio nonna Maria!” ,conclude. Un racconto che ha davvero mostrato un lato particolare di Patty una donna davvero più unica che rara.

Patty Pravo: «La droga a casa di Schifano, le canzoni e i miei sei mariti. E sono stata  anche trigama». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Candida Morvillo. L’interprete icona di trasgressione: io ho fascino, i giovani no.

«Sul passato, mi ricordo a decenni. So guardare non dico avanti, ma solo al momento. Vedo cosa mi va e, se voglio stare tranquilla, stacco e mi faccio un viaggio da sola».

Dove se ne va Patty Pravo, da sola?

«Ho anche fatto la traversata atlantica in solitaria. Dalla Spagna, ho beccato gli Alisei e in due settimane ero arrivata. Ne ho parlato con Giovanni Soldini e non si capacitava di come fossi viva, perché lui va super organizzato, io ero partita terra terra».

E come è stata la transoceanica?

«Sono quasi crepata dalla noia: dovevo solo tenere su le vele. I viaggi da sola li ho imparati, poco più che ventenne, negli anni 70, perché, al Cairo, seduta sotto la Sfinge, sono diventata amica di un cammelliere vecchiotto. Mi ha passato una canna, mi ha insegnato i cammelli, mi ha portato nelle oasi. Da lì, ho iniziato ad andarmene per deserti da sola. A Taroudant, in Marocco, arrivo, scendo dal cammello, trovo Yves Saint Laurent e scopro che si cenava in abito da sera. Negli 80, mi sono unita ai tuareg: tre mesi per prendere il sale nell’oasi di Bilma, in Niger, e tornare».

Non aveva paura, unica donna, fra i tuareg?

«No. Quando arrivi fra persone diverse da te, se sei un’anima aperta, ti accolgono. Nei primi anni 90, ho fatto da sola la Via della Seta, ci ho messo nove mesi, ho attraversato due Paesi in guerra. Sono partita dalla Turchia e arrivata in Cina. A Sajnšand, in Mongolia, non avevano mai visto una bionda, mi offrirono persino una casetta. In Cina, ho cantato alla tv in pechinese e mi hanno vista un miliardo e 300 mila persone. Sono rimasta tre mesi, andavo a sentire il rock che era vietato, ma proliferava nei locali. Allora, ho convinto il nostro ambasciatore a fare una serata rock, si sono esibiti giovani bravissimi e ballava anche il ministro della Cultura cinese».

Che libertà prova in quei viaggi?

«È qualcosa che mi si allarga in petto, un piacere diverso che stare sul palco, ma similare: il pubblico, quando canta con te, è come un’anima sola, una botta di solitudine bella che ti arriva».

Al Cairo, che ci faceva sola sotto la sfinge?

«Centoventi milioni di dischi li vendi solo girando: Australia, Giappone... Cantavo e magari prendevo due settimane per me».

In quale suo brano si riconosce di più?

«Forse nella frase “la cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me”».

La prima volta in cui s’è cambiata la vita?

«Bambina, a Venezia. Mi vestivano con l’abito di velluto blu, il fiocco sul collo. Una cosa tragica. Io volevo i pantaloni. Un giorno, tagliuzzo il vestito e i capelli. Tornano i nonni e dico: io mi voglio così. Si misero a ridere».

Deduco che non erano severi.

«Mi hanno dato una libertà che ti obbliga a responsabilizzarti. Mi hanno cresciuta loro: mamma aveva avuto un parto difficile e s’era ritirata in campagna. Nonna ha capito la mia essenza: mi ha fatto dare lezioni di piano a tre anni, poi di danza. A 14 anni, una mattina, invece di andare a scuola, sono andata a fare l’amore. Torno a casa felice. Dico: nonna, nonno, ho fatto l’amore e mi è piaciuto molto, posso tornarci nel pomeriggio? Mi ci hanno mandata».

Negli anni 60, lei era considerata un’icona di trasgressione, parlava di divorzio, libertà sessuale...

«Ero io così. Neanche avevo capito che ci fosse il ’68. Viaggiavo tanto, ero ovunque. Nel ’69, andai alla Nasa dagli astronauti scesi dalla Luna e, in Russia, cantai per l’Armata Rossa».

«La Bambola», nel ’68, passò per inno femminista.

«Io la percepivo al contrario: la parola “bambola” mi dava fastidio. Invece, le donne amarono quel “no ragazzo no, tu non mi metterai tra le dieci bambole che non ti piacciono più”».

Come diventa «La ragazza del Piper»?

«A 15 anni, finito il conservatorio, andai a Londra a imparare l’inglese. Arrivo, mi dicono che a Roma c’è un locale fighissimo. Con gli amici, parto in macchina la sera stessa. Il proprietario Alberigo Crocetta mi vede, mi chiede se so cantare come so ballare. E io, che a cantare non avevo mai pensato, dico subito sì. Sono salita sul palco, mi è piaciuto. Mi hanno detto che dovevo avere un gruppo, farmi un repertorio. Poi, Gianni Boncompagni scrisse per me il testo di Ragazzo triste e stavo già in giro a far serate».

Era il ’66, aveva 18 anni.

«Questa data me la ricordo perché andai a cantare a Firenze, provai una sensazione strana e dissi: torniamo indietro. La sera, venne l’alluvione. Mi è successo anche per un terremoto in Sicilia e un’alluvione in Piemonte».

Che spiegazione si dà?

«Senti le cose quando hai l’anima aperta».

Renato Zero se la ricorda al Piper con due levrieri e una Rolls bianca guidata da un autista di colore.

«Avevo preso in prestito dei costumi di Wanda Osiris in Rai: a tre anni dall’esordio, avevo già uno show in tv col mio nome. Ero ricca da schifo, infatti i soldi non li ho mai considerati e avrei fatto meglio a conservarne di più. Ma lavoravo tanto: ero abituata, venendo dal conservatorio. Ero diplomata direttore d’orchestra, perciò mi era facile comandare una band».

Il suo primo batterista, Gordon Fagetter, sarà anche il suo primo marito.

«Eravamo fanciulli. La mia felicità, quando ci sposammo da lui a Brighton, fu lavare l’auto con la pompa, in giardino. Ci sarebbe piaciuto un figlio, ma non puoi crescere i figli in tour e ci siamo promessi che non ne avremmo avuti».

Quanti mariti ha avuto? Quattro o sei?

«Il secondo era Franco Baldieri. L’unico non musicista, ma antiquario. Abbiamo passato la notte insieme, scoperto di essere anime uguali e, la mattina, ho messo la pelliccia sul pigiama e siamo andati in Campidoglio a sposarci. È durata poco. Non perché era gay, cosa che già sapevo, ma perché ho incontrato Riccardo Fogli».

Fogli era sposato con Viola Valentino e lei passò per la Yoko Ono dei Pooh. Come andò?

«Il loro manager gli disse di scegliere: o loro o me. Riccardo scelse me. Finì perché io dovevo lavorare e non è bello portarsi dietro uno che non lavora. Ci siamo sposati in Scozia, con rito celtico, per cui, non è con lui che divento bigama».

E con chi?

«Lavoravo con Vangelis all’album Tanto, entro nel suo studio e vedo un bellissimo ragazzo che suona il basso, Paul Martinez. Poi un altro, bellissimo, che suona la chitarra, Paul Jeffrey. Amarci in tre fu naturale. Abbiamo anche abitato insieme a Roma».

Perché sposa prima Jeffrey nel ‘76 e Martinez due anni dopo?

«Per errore. Partivo per Bali. Di notte, squilla il telefono. “Sono Paul”. Pensavo fosse Martinez e gli dico di partire con me. Invece, si presenta Jeffrey vestito di bianco, con la valigia. Però a Bali stemmo bene e ci sposammo».

Nozze valide o no?

«Queste no. Però sono vere quelle con Martinez. Il problema nasce quando sposo a San Francisco l’americano Jack Johnson, grande chitarrista. Dopo Pensiero stupendo, me n’ero andata a vivere lì per bisogno di normalità. Comunque, venne fuori che il matrimonio con Baldieri non era stato annullato bene. Dunque, ero bigama. Mi salvai perché scoprimmo che ero ancora sposata anche con Martinez e la trigamia non è contemplata dalla legge. In totale, fanno sei mariti, quattro veri».

Come finì a Rebibbia, nel ‘92, per droga?

«Ci sono stata tre giorni, rilasciata con tante scuse perché cercavano cocaina, ma io, se c’è una cosa che non ho mai preso è la coca. Il resto sì. Cominciai a casa del pittore Mario Schifano, anni 60. Aveva vasi pieni di pilloline, ci bivaccavano i Rolling Stones. Con Keith Richards, siamo ancora amici. Ero con lui quando cadde da una palma alle Fiji e i giornali scrissero che era ferito grave, ma fu solo una bottarella. Si fece un Jack Daniels e già non ci pensava più».

Droghe ne usa ancora?

«Non ora, con la roba che circola. Neanche la canna che Ornella Vanoni prende per dormire. Mi chiama sempre dopo mezzanotte».

Ornella denuncia ormai solo amori platonici. E lei?

«Neanche quelli. Mi guardo intorno e non vedo nessuno. Poi, mi piacciono i giovani e la gioventù di adesso non ha fascino».

Che cos’è il fascino?

«Una vibrazione, un magnetismo. Cammini e la gente lo sente. Io ce l’ho. I grandi ce l’hanno. Però puoi neutralizzarla: con Mick Jagger, abbiamo girato Parigi senza che nessuno ci riconoscesse. Gli ho detto: dobbiamo solo smettere di emanare quell’energia lì».

Quale sua canzone le è più cara?

«Album interi, come Biafra, Radio Station, Oltre l’Eden. Un brano:  Col tempo. Per la parte pop: La Viaggiatrice — Bisanzio, Captivity, e Sogno, che scrissi per Mine vaganti di Ferzan Ozpetek».

C’è un pezzo in cui credeva solo lei e che ha lottato per pubblicare?

«Pazza idea. Mi dicevano che la parola con due zeta era ostica, che il brano partiva male, ma ho lottato nove mesi per fare di testa mia e fu un successo».

Pensa mai a come vorrebbe morire?

«Sono nata sorridente e spero di morire sorridente».

·         Serena Autieri.

Da "I Lunatici Radio2" l'1 novembre 2019. Serena Autieri è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Serena Autieri ha parlato del suo rapporto con la notte: "Ci sono diverse fasi nell'arco dell'anno in cui accolgo la notte con grande entusiasmo. Quando sono settata sulla tournée teatrale vivo di notte. In quei periodi la notte mi aiuta ad entrare in contatto con quelle cose che durante il giorno non riesco a fare. Poi ci sono altre fasi in cui mi sveglio possibile, giro, sono sui set, mi sveglio all'alba e porto la bambina a scuola e quindi non vedo l'ora di andare a dormire". A proposito della sua carriera: "Amo quello che faccio, mi reputo molto fortunata, è una fortuna amare quello che si fai. Poi ovviamente la fortuna deve essere sorretta dallo studio, dalla curiosità, dalla voglia di non accontentarsi. Bisogna pretendere sempre di più da se stessi. Io ho iniziato abbastanza presto, i miei genitori mi portavano spesso a teatro. La musica ha fatto parte da subito della mia vita. Amavo la musica, ho scoperto presto la passione per il canto, ho iniziato presto a cantare nei locali a Napoli. Ho esordito così, con un disco fatto da giovanissima, prodotto a Napoli. Molto sofisticato, curato, con dei testi ben scritti e arrangiamenti molto internazionali. Un disco di nicchia, che per ora è il solo che ho fatto. Sono anni che metto insieme musica, testi, poi sono presa da tante cose e non do mai spazio alla musica. Ma un giorno mi piacerebbe fare un altro disco, ogni tanto vado in studio di registrazione, sento proprio la necessità di tornare alla musica. Rivedermi a Sanremo nei panni di una concorrente? Chissà...". Serena Autieri è la voce di Elsa in Frozen: "Tra poco uscirà Frozen 2. Fare doppiaggio su una cosa dove non vedono la tua faccia è diversa. E quando riconoscono la tua voce è una grande soddisfazione. Una cosa pazzesca, che non avrei mai immaginato. Fare doppiaggio mi ha allungato la vita artistica parlando cinicamente. Elsa ha preso il posto di tante altre principesse storiche della Disney. E' stato un grande successo, ora siamo pronti per accogliere il secondo capitolo. La storia è incredibile e le canzoni sono bellissime". Sulla sua bellezza: "Come gestisco il rapporto con il mio aspetto? Io non ho mai vissuto questa piacevolezza dell'aspetto fisico come una delle mie armi da utilizzare. Anzi. Quando ero piccola, quando ho iniziato a scoprire il mio lato femminile, mi dava quasi fastidio che gli uomini in qualche modo mi guardassero per altri motivi. Ci ho messo un po' di tempo per capirlo e accettarlo. E' stato quasi un fastidio. Non è l'aspetto che mi interessa che la gente veda di me. Forse ho faticato un po' di più a far capire certe cose. Ma alla fine ci ho fatto pace. Credetemi che non mi ha aiutato come uno può immaginare. Comunque ringrazio madre Natura, per carità". Su quella volta in cui le tremavano le gambe: "Sicuramente il Festival di Sanremo. Era il 2003, ero molto giovane, un po' incosciente. Il Festival è una macchina grossa, impegnativa, ne senti il peso. Incontrai tante persone, ci fu un bello scambio. Ci si supportava l'uno con l'altro. E' bello entrare in sintonia con le persone dal punto di vista umano. Porto nel cuore gli incontri. L'aver avuto un gran maestro come Baudo e una compagna come Claudia Gerini, che stimo moltissimo".

Antonello Piroso per “la Verità” il 6 Novembre 2019.

Serena Autieri: classe 1976, e una classe innata. Cantante. Attrice in tv (in onda su Rai1 con la fiction Un passo dal cielo), al cinema e a teatro. Doppiatrice. La ragazza che voleva essere «la Jennifer Lopez italiana» ha una versatilità non comune e già venticinque anni di onorata carriera alle spalle.

Partiamo dal suo essere una napoletana sui generis, almeno quanto all' aspetto: bionda, occhi azzurri, un mare di efelidi. Oltre al 40 di piedi, che una volta trovava «brutti».

(Ride). «Vedo che si è preparato. L' aspetto l' ho ereditato dal lato paterno della famiglia. Ma nonostante questo, per anni sono stata oggetto delle pressioni più disparate affinché in qualche modo mi affrancassi dalle mie origini, non enfatizzassi le mie radici, celassi l' essere venuta al mondo all' ombra del Vesuvio».

Un po' come nella gag di Massimo Troisi in Ricomincio da tre? Lui fa l' autostop, lo carica un automobilista che quando apprende che è napoletano, commenta: «Ah, emigrante». E lui: «Perché, un napoletano non può viaggiare per diletto?».

«Evidentemente una donna partenopea che canta o recita veniva considerata prima una napoletana e poi un' artista. E a Napoli chi canta o è un rapper arrabbiato o è un melodico o un neomelodico, anche se poi lì sono nati anche Pino Daniele e Eugenio Bennato».

Lei ha iniziato accompagnata al pianoforte da suo zio.

«Ma non sono figlia d' arte. Quando ero bambina, a Soccavo, ero una specie di maschiaccio, anche se la mamma mi regalava le Barbie. Una sera andai a cena con amici al Ranch al belvedere dei Camaldoli: avevo 15 anni. Canto Almeno tu nell' universo di Mia Martini al karaoke, e il proprietario mi offre un lavoro. Iniziai a fare lì pianobar, in duo con mio zio Franco alle tastiere, e con mio papà (non contento) che mi scortava nei locali. In repertorio avevo Whitney Houston e Luther Vandross».

1997. In primavera incide il suo primo album, Anima soul, e a settembre si ritrova sul palco all' incontro di papa Wojtyla con i giovani di tutto il mondo.Come c' era arrivata?

«Cercavano voci giovani e qualcuno, forse i miei stessi discografici, segnalò il mio disco. Che evidentemente fu apprezzato, visto che fui convocata».

Come andò l' incontro?

«Inizialmente un disastro. Lui era assiso sulla sua sedia, io vado al microfono emozionata e intimidita. Parte la base musicale e io muta, senza fiato. Non riuscivo a emettere suoni. Mi richiamano nel backstage, bevo un tè caldo e torno sul palco. Fu un piccolo trauma che fortunatamente ho subito superato».

Nel 2016, per la canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, ha indossato il sari bianco con i bordi blu della Missionarie della carità per leggere in Vaticano alcune pagine dei suoi diari. Però anni prima dichiarò di essersi avvicinata al buddismo...

«Nessun "avvicinamento". La mia era una curiosità culturale, ho grande rispetto per tutte le discipline che riguardano la spiritualità. Senza che questo offuschi la mia fede, che vivo senza bigottismi».

Com' è stato invece confrontarsi, a teatro con la pièce Diana & Lady D, con un personaggio così «iconico»? È vero che nel preparare lo spettacolo talvolta l' ha sognata?

«Vero. Ho lavorato moltissimo sulla sua storia e sulla sua personalità, con il prezioso supporto di una psicologa che mi ha permesso di entrare meglio in alcune complesse dinamiche emotive di Diana, ma anche di esaminare i miei nodi irrisolti e le mie fragilità. Mi sono così immedesimata che sono dimagrita tantissimo. Era una donna anticonformista, che credeva nell' amore: emotiva, passionale e istintiva. Ho ritrovato in lei molto del mio carattere».

2003. Il Festival di Sanremo con Pippo Baudo. La svolta.

«Nel 1998 ero entrata nel cast di Un posto al sole, interpretavo una cantante. Nel 2000 mi esibii nella Domenica in di Amadeus, dove fu lei a invitarmi, Piroso. Poi feci Stranamore al fianco di Alberto Castagna. Quindi mi ritrovai in teatro protagonista del musical Bulli e pupe. E fu nella tappa di Trieste che in sala si materializzò Baudo».

A Trieste?

«Fu convinto da Gino Landi. Prese l' aereo e arrivò. Dopo lo spettacolo, mi fece i complimenti in camerino, ma senza aggiungere altro. Poi a Roma mi invitò a fare un provino: mi riempì di belle parole, ma anche questa volta senza dirmi nulla dei suoi progetti. La sera eravamo in scena a Milano, arrivano i componenti del cast e mi dicono: "Maledetta, non ci avevi detto niente!". "Ma di cosa?". "Il Tg1 ha appena annunciato che farai Sanremo con Baudo e Claudia Gerini". Baudo mi aveva tenuto completamente all' oscuro. Senza quel Sanremo chissà che piega avrebbe preso la mia vita. Anche per questo, ho voluto Baudo testimone alle mie nozze».

Lei deve molto anche al grande maestro Armando Trovajoli.

«Ho fatto tesoro dei suoi insegnamenti e siamo stati davvero legati, al punto che sua moglie è la madrina di mia figlia, anche per una circostanza che per una che crede a certi "segni" come me non poteva passare senza conseguenze: Trovajoli è morto il giorno in cui Giulia Tosca è nata».

In Senato, presenti il presidente Elisabetta Casellati e quello della Rai Marcello Foa, ha cantato in napoletano.

«Siamo stati invitati Massimo Ranieri ed io per un "Omaggio a Napoli", e ho eseguito alcune canzoni dello spettacolo La sciantosa ovvero Elvira Donnarumma, "'a capinera napulitana", regina indiscussa dei cafè chantant d' inizio Novecento. Ma a teatro ho anche affrontato l' impegnativo Rosso napoletano, uno spettacolo incentrato sulle 4 giornate di Napoli nel 1943, che racconta quindi un momento storico molto importante, non solo per la città, con la sua gioia per la libertà riconquistata sul campo, ma per tutto il nostro Paese, ricordandoci la fierezza di essere italiani».

A questi appuntamenti con Napoli è arrivata solo dopo anni di collaudata professione.

«Dovevo essere pronta a presentarmi al pubblico della mia città al meglio. Ovviamente a Napoli avevo già fatto più volte tappa con gli altri lavori. Ma salire sul palco per impersonare un personaggio come Elvira, lì dove lei era diventata un simbolo, be', per me rappresentava un vero esame di maturità. È stato come un cerchio che si chiudeva, visto che la mia carriera è iniziata a Napoli con Un posto al sole».

È vero che quando portò in scena la commedia di Maurizio De Giovanni Ingresso indipendente disse: «Finalmente faccio la zoccocola»?

«Non mi sono espressa così, si sarebbe potuto equivocare. Dissi invece: "Questa volta niente moglie, niente principessa. Finalmente interpreto una escort. Anzi, come diciamo in scena, proprio una zoccocola". Rosalba, questo il nome della signorina mantenuta, ricordava un po' Irma la dolce di Shirley MacLaine. Fa la vita, ma ha studiato, è logopedista. Il testo, brillante, è una girandola di confronti ed equivoci in una specie di guerra dei sessi, in cui le protagoniste sono le donne».

Mai avuto proposte o pressioni «indecenti»?

«Credo che ogni donna sappia quali segnali può lanciare per indicare una eventuale disponibilità, e come invece comportarsi perché non ci sia possibilità di fraintendimenti. Parlo per me: io non ho mai ricevuto avance, pressioni o proposte indecenti forse anche perché, in presenza di ammiccamenti o battutine, ho sempre mantenuto le distanze circoscrivendo i rapporti all' ambito professionale. In questo, il mio apparire algida probabilmente mi ha aiutata».

Infatti: niente gossip, una ordinaria vita affettiva.

«Mi è stato trasmesso il senso della famiglia dai miei genitori, che stanno insieme da oltre 50 anni. Ho aspettato l' uomo giusto, e quando l' ho incontrato me lo sono sposato (il matrimonio con Enrico Griselli, produttore anche di altri artisti, risale al 2010, nda)».

Ha vinto la prima edizione di Tale e quale, facendo piangere Loretta Goggi con un' interpretazione da brividi di Maledetta primavera. Mi sarei aspettato di ritrovarla anche nell' edizione successiva.

«Non è successo ma non ho l' abitudine, per carattere, di soffermarmi su quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Convivo con un certo grado di fatalismo, che però non mi fa essere rassegnata o meno determinata, semmai il contrario: mi impegno ancora di più per farmi trovare pronta e preparata al momento giusto. Come si dice? "Fai quel che devi, accada quel che può"».

Visto che mi cita un politico della Primissima Repubblica, Pietro Nenni, le chiedo: come giudica la situazione italiana?

«Non voglio infilarmi in una disamina delle odierne dinamiche, anche perché talvolta si ha come l' impressione che la loro comprensione sfugga perfino agli stessi protagonisti. Quello che giudico preoccupante è il costante quadro di instabilità, ogni volta è come se si dovesse ricominciare da capo a mettere mano a problemi che sono quelli di sempre, e che nel frattempo si aggravano mentre tutti giurano di essere pronti a risolverli. E siccome la vita è quello che ti succede mentre tu sei lì a fare progetti, ecco che la situazione si avvita su se stessa. In peggio».

Lei ha una bambina di 6 anni e mezzo. Come vede il suo futuro?

«Mio marito ed io non siamo certo come certi genitori che annunciano: "Appena posso mando mia figlia a studiare all' estero". Per carità, ognuno si regola come crede. Ma mia figlia crescerà e studierà qui. Ecco, mi basterebbe credere in uno Stato pronto a investire di più in istruzione e cultura, e in un sistema pronto a riconoscere e praticare, e non solo a parole (perché a parole la predicano e rispettano tutti), la meritocrazia. Dando a tutti pari opportunità di partenza, ma alla fine premiando chi se lo merita davvero.

·         I Bastards Sons of Dioniso.

I Bastards Sons of Dioniso: «Noi dalle valli non ce ne andiamo». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 su Corriere.it da Barbara Visentin. Il gruppo musicale spiega la scelta di rimanere in Trentino anche dopo il successo a «X Factor». Dopo il secondo posto a «X Factor» nel 2009, quando è stato il momento di decidere se trasferirsi in una grande città, i Bastard Sons of Dioniso non hanno avuto dubbi: «Siamo rimasti nel nostro Trentino. Rinunciare all’aria, alle camminate e alle montagne era un prezzo troppo alto». Il legame con il territorio è fortissimo in tutti e tre i componenti della rock band della Valsugana, racconta il cantante e bassista Jacopo Broseghini, e si avverte anche nel loro ottavo e più recente album «Cambogia».

Che cosa amate dei vostri luoghi?

«Le montagne rappresentano la nostra radice, la base su cui poggiano i nostri piedi. Avremmo potuto spostarci a Milano e magari curare meglio le relazioni artistiche, ma qui ci sono le nostre famiglie, bambini e nipoti, e ci stiamo bene».

Per il video di «Venti tornanti» siete anche saliti a tremila metri...

«L’audio che si sente è proprio quello registrato là, fra la neve delle Dolomiti. Nel testo parliamo della montagna intesa anche come persona amata, qualcuno a cui aggrapparsi, ma che può anche farci male».

Dove nasce questo attaccamento?

«In città il vicino è spesso uno sconosciuto, neanche ci si saluta. Da noi, nei paesi, ciascuno è parte di una comunità e c’è una responsabilità morale verso gli altri».

Il paese non vi è mai stato stretto?

«Viaggiamo molto per i concerti, quindi poi ci piace tornare a casa. Probabilmente se fossimo sempre lì avremmo voglia di scappare».

Torniamo ai vostri esordi, nel 2003: come nasce un gruppo rock fra le valli isolate del Trentino?

«Ci siamo incontrati alle superiori, veniamo da tre valli diverse e amavamo il rock. Federico (Sassudelli, voce e batteria, ndr) aveva alle spalle una tradizione famigliare nelle bande di paese, Michele (Vicentini, voce e chitarra, ndr) aveva iniziato a suonare a scuola, io avevo un pianoforte in casa. La nostra prima sala prove è stata la stalla di un maso, come Gesù Bambino, ma se hai voglia e sei giovane gli spazi e i modi li trovi e poi almeno non davamo fastidio a nessuno col rumore. Facevamo un centinaio di concerti l’anno, tutti in Trentino, in tutti i bar possibili. Certo, uscire dalla regione sarebbe stato impossibile...»

Se non fosse arrivato «X Factor»...

«È arrivata questa occasione enorme che neanche avevamo del tutto capito. In tv entri ovunque e noi eravamo solo tre ragazzi che si divertivano. Poi è stato difficile uscire dalle dinamiche del programma, in cui la nostra attività autorale passava in secondo piano. Ma abbiamo fatto una scelta netta, anche con la casa discografica: abbiamo scelto di fare la nostra musica ed è un privilegio riuscire a portarla in giro».

Non avete mai discusso fra voi?

«Il massimo dei nostri litigi riguarda il colore con cui fare una copertina. Non abbiamo mai litigato perché parliamo chiaro e siamo onesti».

Eppure lo stereotipo vuole che la gente di montagna parli poco...

«Si dicono le cose che contano! E nel nostro caso c’è una comunicazione molto pulita».

L’altro stereotipo è che il Trentino sia incredibilmente efficiente.

«Ci sono buoni e cattivi dappertutto, ma in generale le cose funzionano perché la gestione del territorio parte dal basso. Le persone sanno che è la nostra fonte di ricchezza, con il turismo e l’agricoltura, e quindi ognuno se ne fa carico».

E si pagano le tasse.

«Siamo stati in mano agli austriaci che come efficienza erano già avanti. Non siamo degli stolti, ma abbiamo una cultura precisa: i servizi sono buoni e quindi le persone ritengono giusto doverli pagare».

Nel video de «Il Falegname» siete andati nelle zone della Grande Guerra.

«La canzone parla del nostro rapporto con i social, in cui tutti danno giudizi, e il video vuole creare un contrasto con quei luoghi da cui avremmo dovuto imparare qualcosa. Il nostro territorio ha vissuto divisioni fortissime e due guerre: la gente era povera quasi fino alla vergogna. Se non ci si dava una mano non si andava avanti».

A proposito di dare una mano: voi siete testimonial Admo.

«Non sapevamo nulla della donazione del midollo, ma quando ci è stato proposto di essere una voce e farci tipizzare, è stato scontato. Oggi andiamo anche nelle scuole a parlarne. Io, poi, ho avuto la fortuna di poter donare, un regalo pazzesco che la vita mi ha fatto. E pensare che ho paura degli aghi: il primo scettico ero io. Ma all’idea di salvare una vita, la paura diventa un vezzo. Tutti dovrebbero farlo».

·         Paolo Vallesi.

Vieni da me, Paolo Vallesi confessa il suo dramma privato: "Ho avuto il cancro, e ora...". Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. Paolo Vallesi protagonista delle “Domande al buio” di Vieni da me  su Rai 1 si lascia andare con Caterina Balivo ad una emozionante quanto toccante confessione sulla malattia vissuta proprio alla vigilia della partecipazione alla seconda edizione di Ora o mai più che l’ha visto trionfare. "Ora posso raccontarlo perché è finita e non è più un problema per i miei familiari e per chi mi sta vicino. È una cosa successa di recente, risale al periodo della mia partecipazione a Ora o mai più, e ho preferito il silenzio perché non volevo che in qualche modo una cosa del genere avesse a che fare con la mia carriera artistica. Mi sono rimesso in gioco con quel programma. E se il pubblico mi dava una chance di tornare a fare il cantante volevo fosse solo per meriti artistici. All’inizio la presi male. Non pensi mai che queste cose possano capitare a te. Ma ora sono felice di raccontarvi una cosa che non ha più nessun peso nella mia vita e non voglio che ce l’abbia mai più".

·         Stefano Zandri, in arte Den Harrow.

Da radiocusanocampus.it su Dago Spia il 28 ottobre 2019. Stefano Zandri, in arte Den Harrow, cantante pop-dance anni 80, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.

Sugli anni 80. “Gli anni 80 non se ne sono mai andati, siamo gli ultimi esponenti di una pop-dance che non c’è più. Il segreto del pop anni 80 era innanzitutto la generazione, era tutto nuovo e sfavillante. E poi la dance italiana aveva una melodia fantastica e una ritmica incredibilmente ballabile”.

Sugli inizi della sua carriera. “Non avrei mai voluto fare il cantante e il personaggio perché ho sempre odiato la popolarità. Avrei voluto fare il ballerino. Andavo a ballare in una discoteca di ragazzini e quando ballavo tutte le ragazzine si mettevano lì intorno a ballarmi. Un produttore mi diede una canzone già pronta da cantare e purtroppo andò bene. Se tornassi indietro non farei più Den Harrow perché mi ha tolto più di quello che mi ha dato. Mi ha tolto tutta la mia gioventù perché mentre gli altri andavano a ballare, io prendevo 4 aerei al giorno, ero guardato a vista in hotel, ho girato il mondo ma non mi ricordo niente delle città che ho girato a parte gli hotel. Inoltre quando sei popolare la gente ti invidia e ti cita, se non fossi stato Den Harrow nessuna delle mie mogli sarebbe andata in tv a inventarsi che io la picchiavo. Mi sono ritirato, sono andato a vivere a Malaga, perché sono rimasto molto deluso dall’Italia. Io ho combattuto ad armi pare con cantanti che avevano le major alle spalle, ho venduto milioni di dischi, dopodichè è bastato un pianto in un reality per farmi massacrare dalla gente che fino a un giorno prima mi adorava e ballava i miei dischi. Mi hanno preso per il culo per anni anche per strada, per tutti ero quello che piangeva all’Isola. La gente è frustrata, sta male e non è felice, appena vede qualcuno che sta meglio di lei gli butta contro di tutto. Ho visto gente andare contro Gerry Scotti perché aveva fatto un errore in un suo programma. Mi sono ritirato anche per questo. Negli anni 80-90 la gente stava un po’ meglio, poi i social hanno dato voce a tutti i deficienti e i rincoglioniti di questa terra, quando sei anonimo puoi dire di tutto”.

Sui rapporti con George Micheal e altri grandi artisti. “Con George abbiamo avuto una lunga frequentazione. A Londra si sapeva che fosse omosessuale. E’ una delle persone che mi ha affascinato di più, era bello e affascinante da morire. Ho fatto lunghi tour con Spandau Ballet, gli Europe. A un certo punto ho iniziato a fare gli strip tease a Las Vegas. Ho guadagnato un sacco di soldi, anche perché lavoravo 365 giorni l’anno, per ogni spettacolo prendevo 25 milioni di lire a sera e ne facevano 7-8 a settimana. A 29 anni volevo ritirarmi, non ho mai amato le luci dello spettacolo. Ho scoperto che il mio commercialista non mi aveva mai pagato le tasse, mi tolsero tutto, mi ritrovai con 10 milioni in tasca e c’era mia madre che stava morendo, per questo mi trasferii in California. Ora ho scritto un libro e i proventi andranno ai terremotati, dato che qualcuno non ci crederà, prenderò una troupe televisiva e andrò in giro a darli in mano alle persone”.

Sui problemi economici di Morgan. “Questa è la fine di tutti quelli che credono nelle persone e mettono le persone prima dei soldi. Gli artisti non sono dei commercialisti purtroppo”. Se mi sono rimasti amici? “Di quei tempi pochi, anche perché i cantati anni 80 sono come quelle belle donne che diventano delle cesse e pensano ancora di essere belle. Sono ridicoli. Sono ancora amico di Gioiello e pochi altri. Con Sabrina Salerno ci salutiamo, ci sentiamo”.

Sui cantanti trap. “Non li ascolto. Ogni tanto sento qualche pubblicità con delle metriche assurde che neanche vanno a tempo. Dicevano che gli anni 80 erano finti, ma questi sono quattro cialtroni. Sono sporchi brutti e cattivi e non sono neanche artisti, non li considero neanche”.

·         Ndg (acronimo del suo vero nome, Nicolò Di Girolamo).

Ndg, l’ascesa del rap senza eccessi, nei brani niente droga e sesso. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessio Lana. Ndg (acronimo del suo vero nome, Nicolò Di Girolamo) con «Panamera» ha superato i 20 milioni di stream. «Non amo i social». Ha 19 anni, non segue i social e con la sua «Panamera» ha superato i 20 milioni di ascolti. Ndg è il rapper che non ti aspetti, un ragazzo che per emergere ha messo da parte l’immagine e puntato solo sulle note musicali. Una scelta vincente visto che l’ha portato a firmare con un’«etichetta vera», la Sugar Music di Caterina Caselli. «C’è voluto un po’ per salire alla ribalta ma credo che nella mia vita tutto sia collegato», racconta Nicolò Di Girolamo, nome da cui ha tratto il proprio acronimo, «Da bambino tutti i miei amici erano appassionati di calcio, io invece preferivo la musica di Michael Jackson e il ballo. Alle elementari scrivevo poesie sul diario, alle medie i primi testi e poi nell’adolescenza è arrivato il rap». La sua storia parte il 17 gennaio 2018 con «Fammi ripiare», il primo pezzo pubblicato online, su YouTube. Qui Ndg dimostra subito il suo talento. La voce è chiara, pulita, anche quando accelera il ritmo non perde una battuta. Nei suoi testi ci sono i temi tipici del rap, storie ordinarie, il confronto con i genitori, gli amici, la scuola, l’amore. Non è però una traccia fatta in casa: Nicolò vuole fare le cose per bene. «Fin dal primo pezzo ho registrato al Beatmaster studio di Roma, all’inizio pagavo e i miei mi davano una mano. Mio padre non approvava ma oggi è il mio fan numero uno». Qui viene notato dal titolare, Marco Meschini, già produttore di Achille Lauro, e insieme a lui nasce «Panamera», la canzone che è diventata virale su Spotify. Oggi conta 20 milioni di stream ed è onnipresente in Tik Tok, l’app musicale dei nati nei Duemila. Il titolo si riferisce alla vettura della Porsche, una supersportiva che però ha quattro posti, per la «modalità famiglia», come aggiunge ridendo Ndg. Una canzone d’amore dal ritmo incalzante. «L’ho droppata (pubblicata, ndr) il 25 marzo e ha subito scalato le classifiche... Ai più piccoli è piaciuta perché ha sonorità molto semplici, agli adulti perché è “un botto clean”». Si riferisce ai testi puliti. Effettivamente Ndg è diverso da tanti rapper. Non parla di gang e droga, sesso estremo e armi. Le parolacce sono al minimo. Anche il suo retroterra è differente. Il padre è radiologo, la madre ufficio stampa di un senatore e lui è cresciuto ai Parioli, non in periferia. Figlio di papà gli direbbero i colleghi, solitario risponde lui. «Vengo da una zona dove non c’è una cultura hip-hop, ero solo io a rappare, l’unico a portare al parchetto le sue cose per farle sentire agli amici. Mi è pesato parecchio», ricorda. Altra peculiarità è l’assenza dai social. Ha solo sei foto su Instagram. «Volevo portare al pubblico solo la mia musica e poi c’è l’insicurezza. Non volevo metterci subito la faccia perché mi vergognavo», rivela, «Però devo dire che questo ha creato un alone di mistero». Il contratto con la Sugar ha portato con sé un nuovo brano, «Troppo Tempo», in uscita oggi. «Prosegue la storia d’amore di Panamera ma è più introspettivo, parla di come la mia vita è cambiata da un momento all’altro», spiega Ndg. L’artista sta già pensando a un minitour. «Sono più attivo nell’organizzare date che sui social», ammette con il sorriso di chi è determinato a vincere.

·         Eleonora Giorgi.

Eleonora Giorgi: “Dopo quel provino diventai la Lolita d’Italia..” Salvo Cagnazzo il 02/11/2019 su Il Giornale Off. 38 film al cinema e 14 per la tv e un David di Donatello nel 1982 per il film “Borotalco”. Oggi Eleonora Giorgi, in attesa di un grande ruolo da protagonista, ha una vita piena, insegna recitazione e si diverte “come una pazza” in tv. E, nei giorni del 7 e 8 dicembre, sarà una dei giurati del CineFuturaFest, il festival di cortometraggi realizzati dagli studenti italiani dai 14 ai 25 anni, prodotto da Accademia Artisti e da ANCEI.

Una delle tue prime avventure cinematografiche fu “Roma” di Federico Fellini. Come andò?

«Allora avevo 16 anni ed ero fidanzata da due anni con Gabriele Pogány: eravamo sempre in moto, sulla sua Honda 750, e ci trovavamo con altri motociclisti nella romana Piazza Euclide. Fellini per il suo “Roma” cercava delle supermoto per la scena iniziale, quindi ci assunsero per 10 giorni di scena. Con noi anche mia sorella, Renato Zero e Loredana Berté».

Negli anni Settanta sei stata considerata un sex-symbol, eppure eri davvero giovanissima.

«Ho esordito per caso, non volevo fare l’attrice. Stavo preparando l’esame di ammissione per l’Istituto Centrale del Restauro Pittorico. Il regista Tonino Cervi vide una mia foto: non ero una modella, ero piccoletta e sovrappeso, ma gli piacqui tantissimo, e mi volle incontrare per un provino. Diventai così la Lolita d’Italia. E pensare che avevo fatto l’amore solo con un ragazzo. Questo debutto sconvolse la mia vita: mi lasciai col ragazzo, persi peso, ebbi problemi di droga… »

Tra i tanti ruoli che hai coperto, a quale film sei più affezionata?

«E’ triste dirlo perché ha più di trent’anni, ma si tratta di “Borotalco”. Carlo Verdone ha scritto una commedia intramontabile, un ruolo straordinario per me e un personaggio maschile di grande tenerezza. Insomma, tutto incredibilmente immedesimatorio per i giovani. E ad ogni generazione si rinnova questa magia. Sono legata indissolubilmente anche al personaggio di Mia moglie è una strega: è stato bellissimo avere un ruolo di fantasia».

A quale favola eri affezionata tu da piccola?

«Per quanto riguarda i ruoli, impazzisco per le regine, quelle buone. Non amo i personaggi cattivi, anche se i miei occhi azzurri consentono una grande freddezza. E amo i lieto fine».

Cosa ti manca oggi?

«Interpretare una regina, ad esempio. Sai, nonostante sia stata buttata in un fossato per la sola colpa di essere la moglie di Angelo Rizzoli, sono andata avanti comunque. Oggi, dentro di me, rivendico il diritto a un grande ruolo. Nonostante non esistano donne di sessant’anni nel cinema italiano: ci sono gli uomini, non le donne. C’è un problema in Italia ed è parecchio grosso. Comunque ho una vita molto piena, completa. E l’insegnamento è una grande opportunità, una revisione costante della nostra materia. E poi mi diverto come una pazza a fare la tv, quella fatua e frivola».

Un ritorno nel cinema, quindi, è possibile?

«Solo da protagonista, altrimenti non torno. E voglio fare una regina, davvero. Ma non italiana, perché qui non ci sono regine come piacciono a me».

Caso Weinstein, Eleonora Giorgi contro Asia Argento: Vuole farsi pubblicità. L’attrice e regista attacca la figlia di Dario Argento, colpevole di aver frequentato Weinstein per cinque anni, anche dopo le violenze subite e denunciate a inizio ottobre 2017: Cosa vuole Asia Argento? – si chiede Eleonora Giorgi in una lunga invettiva su Facebook – forse semplicemente che si parli di lei, scrive Fulvia Leopardi il 20 Ottobre 2017 su "Nano Press". Eleonora Giorgi attacca Asia Argento in merito alle violenze e molestie subite da Harvey Weinstein (e non solo) e denunciate dalla figlia del regista di Profondo Rosso. Perché definisce stupro una sua libera scelta, protratta per altro per cinque lunghi anni?, si chiede la Giorgi, citando l’intervista della Argento a un giornale americano in cui l’attrice e regista spiegava come, dopo le molestie subite dal producer americano oggi accusato da decine di donne, fosse diventata quasi amica di Weinstein. Cosa vuole dunque Asia Argento? (…) Forse semplicemente che si parli di lei. Parola di Eleonora Giorgi, che in un post su Facebook (visibile solo agli amici ma screenshottato da qualcuno) parte da una considerazione di carattere generale per poi colpire la Argento. Per Eleonora Giorgi, alcuni uomini hanno una vera ossessione nei confronti del sesso, in alcuni casi arrivando a molestare anche delle bimbe. In alcuni casi, però, ci sono donne che accondiscendono, un comportamento assimilabile al meretricio. Perché quindi stupirsi di Weinstein, che ha sempre ripagato in maniera sonante l’oggetto delle sue, talvolta violente e sempre disgustose, attenzioni: ragazze desiderose – per la Giorgi – di ottenere un ruolo importante nel mondo dello spettacolo?. Segue la domanda diretta ad Asia Argento, che per la Giorgi è solo in cerca di pubblicità. In Italia, dove il cinema è finanziato con denaro pubblico, e anche se non si esclude che ci siano produttori molesti, per l’attrice molte carriere sono cominciate (e magari continuano tuttora) con prestazioni a politici e loro incaricati. La Giorgi racconta di come anche lei sia stata molestata, non tanto con prestazioni private, ma con una ‘prestazione’ che era compresa nei suoi personaggi, ninfette e lolite che si spogliavano con facilità. La rampogna della Giorgi si chiude con un appello alle colleghe ad avere un minimo di dignità, e ad indignarsi per altri tipi di ricatti e molestie, come capi del personale nei posti di lavoro, primari e professori nel mondo della sanità e nel mondo degli avvocati. Ah – conclude la Giorgi – che afflizione il desiderio sessuale in alcuni uomini. Ah, che deprecabili donne quelle che ne approfittano. 

·         Aiello.

Aiello, il nuovo talento della canzone d'autore. A 28 anni voleva smettere. Oggi a 34 è uno dei debuttanti più ascoltati in radio e in streaming. Paolo Giordano, Sabato 02/11/2019 su Il Giornale. Lui lascia il segno. Da qualche tempo in radio o sulle piattaforme streaming si ascolta una voce fuori dal coro che porta con sé la modernità dei testi e anche una forza interpretativa ormai sempre più rara. Sarà che Antonio Aiello, in arte semplicemente Aiello, cosentino di 34 anni, ha fatto per molto tempo quella cosa che ultimamente sembra sparita, ossia la sacrosanta gavetta, fatta di sogni smisurati e porte chiuse, di promesse (non mantenute) e progetti (soltanto sperati). «A 28 anni ho pensato di mollare e in quel momento ho smesso di voler diventare famoso», ha ricordato a Silvia Gianatti su Vanity Fair. Oppure il merito di tutte queste «vibrazioni positive», che si sentono nell'ambiente e si leggono sui social per Aiello, è semplicemente della qualità dei brani del suo disco Ex voto, che dice di aver composto tutto per terra perché «la mia casa è piccola e la pianola è sul pavimento» e che rimane lontano dai cliché ai quali quasi tutti i suoi colleghi si sono abbonati. C'è indie, c'è pop, c'è qualche venatura black ma è tutto filtrato dal suo talento e da una voce che nei toni acuti talvolta ricorda, si parva licet, quella di Lucio Battisti. Ad esempio Arsenico, il singolo che la scorsa estate ha girovagato per i principali network italiani, ha una costruzione cantautorale addirittura tradizionale che però risulta totalmente attuale. Non a caso, ha superato abbondantemente i sei milioni di streaming. Ed è questa probabilmente la chiave vincente di questo calabrese che a sedici anni scriveva già le prime canzoni e poi, dopo l'ennesima delusione alle selezioni del Festival di Sanremo, ha fatto le valigie ed è andato a vivere e suonare per sei mesi a Sydney in Australia. Era il 2011, un'era geologica fa. Oggi Aiello (che sarà dal vivo a Milano il 28 novembre e il 7 dicembre a Roma per poi partire in tour a marzo) è il nuovo fenomeno che con La mia ultima storia sta rinnovando il boom di Arsenico e magari al Festival di Sanremo potrebbe finalmente arrivarci presto. A dimostrazione che il talento non ha età. Basta semplicemente che ci sia.

·         William Shatner.

"Come il Capitano Kirk racconto in tv i misteri senza soluzione". A 88 anni il protagonista di «Star Trek» spiega in «The Explained» su Blaze casi strani e irrisolti. Sara Frisco, Sabato 02/11/2019 su Il Giornale. Non poteva che essere l'ex Capitano Kirk di Star Trek a condurre di The UnXplained, in onda ogni domenica alle 23,30 su Blaze, canale 124 di Sky. È infatti l'attore e produttore canadese William Shatner, 88 anni portati benissimo, protagonista negli anni Settanta della più famosa serie televisiva a tema fantascientifico, a esplorare insieme al pubblico i misteri dell'Universo e i casi di cronaca più strani e misteriosi avvenuti nel mondo, come quello dell'uomo che, dopo un grave incidente e il coma, al risveglio si è ritrovato perfettamente capace di suonare il piano, pur non avendo mai toccato un pianoforte in vita sua. Ogni episodio si avvale dei contributi di scienziati, storici, testimoni ed esperti, per cercare di dare spiegazioni razionali a tutto ciò che appare inspiegabile.

Signor Shatner, perché questo progetto?

«Quando mi è stato offerto sono rimasto incuriosito dalle basi concrete su cui si poggia una trasmissione che parla di mistero. Nel corso della serie non analizziamo episodi leggendari o sentiti dire, ma fatti realmente accaduti e ad essi cerchiamo di trovare una spiegazione scientifica».

E il Capitano Kirk era il personaggio perfetto per questo progetto.

«Immagino di sì, in fondo sulla Enterprise ne sono accadute di cose inspiegabili».

Ci spiega esattamente in cosa consiste la serie?

«The UnXplained tratta dei misteri che ci circondano, della vita e della morte. I misteri del nostro cervello. Quelli dello spazio e degli Ufo. I misteri dei luoghi in cui sembrano accadere spesso cose terribili. I misteri delle persone che hanno avuto lesioni cerebrali e ne escono facendo qualcosa di completamente estraneo a loro. Conduciamo le nostre vite nel mistero e The UnXplained cerca di esaminare alcuni di questi eventi straordinari.

Non crede che alcune di queste domande dovrebbero rimanere senza risposta?

«Le grandi domande rimarranno sempre senza risposta. Cosa ci facciamo qui, perché siamo sulla terra, c'è vita dopo la morte? Queste domande non otterranno risposta ma i misteri più piccoli possono essere risolti. Io trovo affascinante provarci. E sto ancora imparando. Più invecchio, più mi rendo conto di non sapere nulla».

Non è un mistero invece che lei faccia televisione da 70 anni, cosa la fa andare avanti?

«Il fatto che è quello che amo fare. Mi piace l'atto creativo. Mi piace rimanere in gioco e mi piace essere curioso. Penso che mi mantenga giovane e vitale».

Fra le domande irrisolte ce n'è una particolarmente azzeccata per il Capitano Kirk: riuscirà mai l'uomo a vivere su altri pianeti?

«La promessa di Elon Musk o Jeff Bezos di portare le persone nello spazio è ragionevole, un giorno i turisti andranno nello spazio, ma colonizzare Marte, così che le persone possano sfuggire alla distruzione sulla Terra, mi sembra un sogno impossibile. Non penso che accadrà mai. Ciò che deve accadere è prendere coscienza e utilizzare la scienza per cercare di evitare la catastrofe sul nostro pianeta, catastrofe che si sta avvicinando rapidamente».

Sta pensando ai cambiamenti climatici?

«Esattamente. Dobbiamo concentrare la nostra energia sul salvataggio del nostro pianeta, non sulla colonizzazione di luoghi lontani».

Si considera una persona spirituale?

«Credo di essere essenzialmente un agnostico in attesa che mi arrivi l'illuminazione sulla vita dopo la morte o sulle altre domande esistenziali che tutti, prima o poi, ci facciamo. L'unica esperienza che ho avuto in questo senso è stata durante un viaggio ai piedi dell'Himalaya. Dormimmo all'aperto perché eravamo in un posto che i monaci tibetani considerano la confluenza del mondo degli spiriti. Aspettavo l'incontro con gli spiriti, l'illuminazione, notte dopo notte. L'ultimo giorno, mentre raccoglievo il sacco a pelo per andarmene, l'illuminazione è arrivata: non ho bisogno di essere in un posto specifico per capire i misteri della la vita».

E fra i misteri della vita c'è la formula della felicità. È felice?

«Certo, sono in salute, i figli e figli dei miei figli lo sono e sono intorno a me, mi mantengo attivo nuotando in piscina e andando a cavallo. Ho i miei cani e i miei cavalli e quando respiro profondamente nulla mi fa male. A 88 anni. Sarei un ingrato se non fossi felice».

Alla morte ci pensa?

«Solo quando me lo chiedono. Ecco! Ne stiamo parlando. Non voglio morire, mi sto divertendo troppo».

·         Gregoraci e Briatore.

Dal “Fatto quotidiano” il 4 novembre 2019. Gentile Selvaggia, vedo un gran parlare di Flavio Briatore, anni 69, e della sua nuova fiamma di 20 anni, una ragazza bionda e molto bella che parrebbe essere anche una che studia legge e che sa il fatto suo. Non ne so molto di più perché ho solo letto la storia su Dagospia e non compro giornali scandalistici. Quindi scusa se sarò approssimativa, ma mi perdonerai se rifiuto di comprare "Novella 2000" per approfondire. Sai perché questa vicenda apparentemente "rosa" mi colpisce? Quando avevo 23 anni sono stata la compagna molto giovane di un imprenditore molto vecchio nel ramo alimentare; queste dinamiche mi sono chiare. Credimi, si reggono tutte su equilibri simili, lo so perché ai tempi frequentavo amici del mio compagno, con fidanzate altrettanto giovani. Le conoscevo, ci parlavo, alcune sono diventate amiche (una lo è ancora, solo che lei è rimasta con il marito, io no). Il mio uomo all' epoca aveva 63 anni, 40 più di me. Siamo rimasti insieme 5 anni. Ero innamorata? Sì. Di lui, della sua solidità e perché no, anche della bella vita che facevamo in giro per il mondo con vacanze di lusso. Io non studiavo, volevo imparare le lingue e capire cosa c'era fuori dall' Italia, per me stare con lui era una grande occasione di crescita personale, oltre che di una vita agiata, comoda e stimolante. Un coetaneo difficilmente avrebbe potuto offrirmi tutto questo. Lui era innamorato? Io credo di sì. Gli piacevano la mia curiosità, il mio entusiasmo e la mia elasticità di tempo, luoghi, abitudini. Certo, ero anche bella. Però vedi, il fatto che io potessi seguirlo e aspettarlo quando c'era da aspettarlo, faceva la differenza. Lui con una donna realizzata, lavoratrice, impegnata, non avrebbe potuto avere nessuna relazione. Stava fuori 300 giorni l'anno circa, con chi avrebbe potuto legarsi, se non con una ragazza giovane con una vita semplice, elastica e a lui dedicata? Siamo stati felici, poi io ho iniziato a pensare al mio futuro, a sentirmi attratta dai miei coetanei, è finita. Non credo che la vita di Flavio Briatore sia tanto diversa da quella del mio ex e di sicuro a 70 anni quasi compiuti non ha neppure voglia di complicazioni. Sempre su Dagospia ho letto che la sua ex Elisabetta Gregoraci si è stizzita, ha scritto cose tipo "sono inorridita" per l'età della ragazza. Il mio vecchio orgoglio di ragazza fidanzata con un uomo più vecchio di lei si è risvegliato. Mi ricordo questi commenti, ai tempi. Delle mie amiche, delle amiche di mia madre, di mia madre, all' inizio. Di tantissima gente. Li accettavo, perché dal di fuori era difficile capire senza giudicare, me ne rendevo conto. E poi un po' avevano ragione, era chiaro che io stavo con un uomo più vecchio e ricco perché mi piaceva lui, ma "lui" era anche il suo potere economico e sociale; così come lui stava con me perché gli piacevo io, ma "io" era anche il potere della giovinezza. Da una come la Gregoraci però quell'"inorridisco" non lo accetto. La signora si è sposata Briatore a 29 anni, lui ne aveva 60 (ho controllato sul web), ma stavano insieme già da qualche anno. Lei non è certo diversa da quella ragazza che oggi si accompagna col suo ex marito, o da me (ai tempi) o da tante altre come noi. Cos' è? Siccome ora è madre e ha quasi 40 anni, crede di poter passare dall' altra parte, quella dei giudicanti? Per carità, lo faccia pure, ma le andrebbe ricordato, come diceva De Andrè, che è solo una che "dà buoni consigli perché non può più dare cattivo esempio". Sono cresciuta e invecchiata pure io, non sto più col mio fidanzato/papà, ho un compagno quasi coetaneo, ho un figlio. Però in due cose mi differenzio dalla Gregoraci: dopo la fine della mia storia ho studiato, e non mi scordo chi sono stata. Lei farebbe bene a imitarmi. Laura

Risposta di Selvaggia Lucarelli: Cara Laura, ammiro l'onestà intellettuale con cui descrivi quello che era il collante nella relazione con un uomo più vecchio. Senza retorica, senza ipocrisia. E non avevo ragionato su quanto poco, in effetti, la Gregoraci si possa permettere di giudicare una relazione del genere. Ora, per coerenza, mi aspetto anche che critichi i mega yacht e i locali per ricchi con nomi cafoni.

Roberto Alessi per Novella 2000 il 4 novembre 2019. Il settimanale Chi ha pubblicato le foto di Flavio Briatore a Malindi, nel suo resort Lyon in the Sun, Leone al Sole, con la bellissima Benedetta Bosi. Lei studia Giurisprudenza, ha 20 anni, 49 meno di Flavio, 19 meno di Elisabetta Gregoraci, 11 più di Nathan Falco, il loro bambino. La notizia è data per certa: Flavio non è più single. Ed eccoci con lui al telefono da Malindi.

Briatore, finalmente ti sei fidanzato.

«Ma va, è solo un’amica».

Un’amica? Mano malandrina, baci a fior di labbra, le foto parlano.

«Ma no...».

Quanti ma. “Ma”, leggo dal dizionario, “Conferisce valore avversativo-limitativo a una frase o sequenza di discorso rispetto a quanto detto in precedenza”.

«Benedetta è solo un’amica, poi si fa presto a dire altro».

Altro? Mi sembra che guardando le foto non ci sia altro.

«Ci siamo conosciuti ed è venuta qui nella nostra compagnia a Malindi».

Dove siete arrivati con il volo privato.

«Io ci vengo anche per lavorare».

E per fare politica. Leggo spesso dell’impegno nel tuo “Movimento del fare”.

«Abbiamo avuto tante adesioni. Hanno cercato anche di plagiarci».

Ne so qualcosa: uno mi ha fatto un’intervista presentandosi come aderente al tuo Movimento...

«Appunto, neanche il tempo di nascere e già qualche furbo si intromette».

Da corriere.it il 4 novembre 2019. Sessantanove anni lui, soltanto 20 lei. Quasi mezzo secolo di differenza. Quella tra Flavio Briatore e Benedetta Bosi, studentessa di Giurisprudenza alla Statale di Milano, è una relazione che ha fatto storcere il naso a molti. In primis a Elisabetta Gregoraci, ex moglie dell’imprenditore nonché madre di suo figlio Nathan Falco. A un utente che su Instagram le ha scritto «non è il problema avere un altro rapporto, ma l’età. Questo sì destabilizza», la showgirl 39enne ha infatti replicato: «Più che destabilizzare fa rabbrividire». Aggiungendo poi, a chi le faceva notare come l’ex marito abbia «scombussolato gli equilibri di età tra uomo e donna»: «Me lo auguro che se ne renda conto, ma non ne sono sicura».

Le critiche social. Vittima di un simile fuoco incrociato, la nuova fiamma del patron del Billionaire ha deciso di esporsi per la prima volta a difesa della sua liaison. «Come puoi stare con uno che potrebbe esserti nonno?», le ha domandato un utente, sempre su Instagram. «L’intelligenza non invecchia mai», ha commentato lei. «I soldi li hanno in tanti, l’intelligenza no», ha concluso.  Bosi, che è nata e cresciuta in Versilia, vanta oltre 34 mila follower. Dopo la diffusione della notizia della sua relazione con Briatore ha però reso il profilo «privato». La pagina Facebook, invece, è stata eliminata del tutto. Alle presentazioni ufficiali, insomma, ci penserà più avanti.

Flavio Briatore e Benedetta Bosi, altro che amica: spuntano le fotografie inequivocabili. Libero Quotidiano il 5 Novembre 2019. "Ma va, è solo un’amica". Così Flavio Briatore definisce la 20enne Benedetta Bosi con la quale è stato immortalato dal settimanale Chi. L’imprenditore ha parlato con Roberto Alessi al telefono, trovandosi ancora a Malindi dove sono state scattate le foto. Il direttore di Novella 2000 ha insistito: "Un’amica? Mano malandrina, baci a fior di labbra, le foto parlano", ma Briatore ha confermato che la ragazza era lì solo per passare qualche giorno nel resort. Nelle ore scorse le dichiarazioni della ex Elisabetta Gregoraci avevano fatto il giro dei giornali di gossip: "Fa rabbrividire. Non è il problema avere un altro rapporto, ma l’età. Questo sì, destabilizza". E ora la stessa Bosi ha deciso di dire la sua rispondendo a un commento su Instagram: "L’intelligenza non invecchia mai. I soldi li hanno in tanti, l’intelligenza no". Il profilo della ragazza è stato chiuso dopo l’uscita delle foto pubblicate da Chi.

Azzurra Della Penna per “Chi” il 5 novembre 2019. Flavio Briatore è ancora in Kenya, a Malindi, all’ombra di una palma e soprattutto di una fanciulla molto... in fiore. Comunque, già da lì, dal suo magnifico resort, il Lion in the Sun, presto dovrà fare appello a tutte le sue doti di top manager (e non sono poche) per gestire l’attuale amica e la ex moglie. Infatti, mentre Briatore si gode gli ultimi scampoli di una vacanza fatta di sole, di mare e, soprattutto, della compagnia di Benedetta Bosi, già sente arrivare il freddo dei commenti social che, da Los Angeles, dove Elisabetta Gregoraci è stata in vacanza con il figlio Nathan (lei tiene a sottolinearlo), rimbalzano fino in Africa. E non passano certo con indifferenza lungo la nostra Penisola: insomma, di questa storia si parla molto. Lui ha quasi cinquant’anni più di lei, cosa che sdegna l’ex moglie, che scrive su Instagram: “Rabbrividisco”. E dire che Elisabetta Gregoraci è più giovane dell’ex marito di trent’anni tondi. In ogni caso, fino a qui (seppure tacere sarebbe la regola aurea) il copione, alla pagina rimostranze di chi c’era prima è sempre il solito. Ma quello che forse più potrebbe impensierire Flavio Briatore è il fatto che a rispondere ai follower ci si è messa anche la Bosi. La sua parte, quella della new entry, di solito non prevede battute, è un ruolo silenzioso. Dunque, la “Benedetta ragazza” si prende la briga di rispondere a chi le domanda: “Come puoi stare con uno che potrebbe essere tuo nonno?”, che, “l’intelligenza non invecchia mai”. E a chi le scrive che “i soldi non invecchiano mai”, risponde (ancora?) che, “i soldi ce li hanno in tanti, l’intelligenza no”. Segue un “l’intelligenza è posseduta anche dai poveri” e... e vai col liscio. Forse è vero che l’intelligenza non invecchia, ma è più vero che il silenzio è espressione di maturità. E Briatore? Lui per prudenza smentisce, anzi, afferma di essere single. Peccato che le foto dimostrino il contrario e che alle sue smentite non creda proprio nessuno.

Azzurra Della Penna per “Chi” il 29 ottobre 2019. C’è un follower speciale fra i 3.749 del profilo Instagram (chiuso da qualche giorno) di Benedetta Bosi. Si chiama Flavio Briatore. Manager, imprenditore, uomo spesso controverso, soprattutto un tipo assai coraggioso. Fino a sembrare - in qualche caso - persino spericolato. Certamente Briatore è uno che, fra molto altro, non teme la giovinezza. Anzi, la sfida. E nel suo caso - come in quello di chiunque altro - siccome il tempo non va a ritroso, non si può che alzare la posta ogni volta. E Benedetta Bosi, che oggi lo bacia teneramente sulle labbra sulla spiaggia più candida di Malindi (come dimostrano le immagini che “Chi” vi mostra in queste pagine in esclusiva), quella antistante al suo Billionaire Resort, ha 20 anni. Appena 20 anni. Meravigliosi 20 anni. È così giovane che potrebbe essere... ma no, non sua figlia. Piuttosto la figlia di una delle sue ex. Esclusi un paio di flirtini recenti (Taylor Mega e Vittoria Di Flavio), anche dell’ormai ex moglie Elisabetta Gregoraci. È vero, Eli avrebbe dovuto diventare madre a 19 anni (visto che ne ha 39). Comunque sarebbe stato possibile. Briatore, invece, per un soffio non stacca Benedetta di 50 anni giusti giusti (sono “soltanto” 49). L’imprenditore, però, non è tipo da scommesse del tutto al buio: conosciuta Benedetta, non molto tempo fa, l’ha subito invitata a cena a Monte Carlo. Solo lui e lei. Semplice e diretto. Ha inviato una macchina a prenderla a Milano dove lei vive (come pure la sorella maggiore di Benedetta, Diletta), l’ha accolta da Cipriani, dove lui è letteralmente di casa, l’ha fatta riaccompagnare dopo il dessert (chapeau, che signore) fino a casa. In quella lunga serata ha scoperto che oltre a studiare Giurisprudenza all’Università Statale di Milano - Benedetta si è iscritta nel 2017 - poco prima di scegliere questa facoltà (la Bosi sogna di diventare magistrato, ma magari cambierà presto idea) è stata Miss Carnevale a Pietrasanta, in provincia di Lucca (è originaria della bellissima frazione di Strettoia). Titolo che quella notte ha dedicato alla sua amatissima mamma, Valentina. E prima ancora aveva seguito un corso di giornalismo. Mentre oggi, al fianco dello studio universitario, non le dispiacerebbe calcare la passerella, entrare, come top model magari, nello sfavillante mondo della moda. Tutte storie che, in effetti, Flavio Briatore conosce a memoria. Fra le sue ex fidanzate ci sono, giusto per fare un paio di nomi, Naomi Campbell e Heidi Klum. Eppure questa “Benedetta ragazza” deve averlo colpito al cuore quella sera. Perché ora lui l’ha invitata nella sua Malindi. Anzi, prima i due sono volati a Roma con il jet privato (di lui, ci mancherebbe). Hanno trascorso la serata in un hotel romano a cinque stelle (e ci “ri-mancherebbe”), ma meno frequentato dai vip (compreso Briatore) rispetto ai più classici Hotel De Russie oppure l’Hassler. Parliamo del Westin Excelsior di via Veneto. Poco dopo i nostri “B&B”, Briatore e Benedetta, sono usciti, stavolta con una coppia di amici, per cenare sui tetti di Roma nel ristorante più cool della capitale: il giapponese Zuma, in via della Fontanella di Borghese, nel cuore della città. La mattina dopo, sveglia relativamente presto per prendere ancora una volta il jet privato dell’imprenditore e volare alla volta di Malindi, in Kenya. Dove Benedetta, nonostante una giornata uggiosa, ha fatto il bagno nella fantastica piscina a sfioro del lussuoso Billionaire Resort di Briatore. Quindi lui le ha mostrato le meraviglie della sua dimora, campo da bocce compreso, dove alla fine l’ha.

Elisabetta Gregoraci, l'ex di Lindsay Lohan pazzo per lei: ricoperta di rose rosse. Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Al centro del gossip ci finisce anche Elisabetta Gregoraci. Non solo l'ex Flavio Briatore con la giovanissima Benedetta, insomma. La bomba sulla showgirl la sgancia Chi di Alfonso Signorini, che fa sapere che Matteo Baldo, ex di Lindsay Lohan, la ha letteralmente ricoperta di rose rosse. Insomma, nel mirino di Baldo ci è finita la Gregoraci. Passionaccia vera e propria. Sul rotocalco, come accennato, si legge che "Elisabetta Gregoraci è sommersa di rose rosse dal cavalier Matteo Baldo, ex di Lindsay Lohan e corteggiatore per lungo tempo di Diletta Leotta". Nel fratemmpo, lei, mantiene un basso profilo oltre che la guardia alta sul gossip. Ma Baldo non demorde: Chi conclude dicendo che Baldo vorrebbe riprovarci. Ancora rose rosse per lei?

·         Andrea Roncato.

Dagospia il 7 novembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Andrea Roncato è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Roncato ha raccontato alcuni aneddoti sulla sua vita e sulla sua carriera: "Ho avuto una storia con Moana Pozzi quando ancora non faceva la pornodiva. Ci siamo conosciuti sul set di 'Pompieri'. Non l'ho corteggiata, fu lei a chiedermi come fossi a letto. Ci siamo frequentati per sei mesi. Era una persona speciale, con cui potevi parlare di tutto, dalla letteratura alle politica, oltre ad essere una donna bellissima. Poi ha intrapreso la carriera da pornodiva. Nella vita ognuno fa quello che vuole. Il primo periodo della mia carriera è stato quello più alto. Facevamo gag insieme ai più grandi. Una sera andai a cena con Gigi e Alain Delon. Quella sera andai con tutte le donne, ma non perché ero bravo io. Semplicemente perché ero con Delon". Sul rapporto con Gigi: "Con Gigi ci siamo conosciuti in parrocchia. Io ero figlio del sacrestano, suonavo l'organo in chiesa. Lui suonava la chitarra. Facevamo le prime messe cantate moderne. Poi abbiamo iniziato a fare cabaret nell'osteria di Guccini. Ci vide la Mondaini, lavorammo tre anni con lei e fu lei a portarci in televisione. Io e Gigi non abbiamo mai litigato. Sarebbe impossibile. Ho fatto film con le più belle donne del cinema italiano. Ho buttato l'amo con molte. Qualcuna ha abboccato, qualcuna no. I miei mi volevano avvocato. Hanno fatto molta fatica per mandarmi all'università". Sul mondo dello spettacolo: "Io sono assolutamente privo di invidie. Godo del successo altrui, mentre nel nostro ambiente spesso c'è gente che è felice se qualcuno fallisce. E' molto difficile litigare con me, a meno che non tocchi mia moglie, la mia famiglia o i miei animali. Allora sarei pronto a sparare. Anche sul lavoro, devo andare d'accordo con le persone. Devo avere un rapporto di amicizia. Rimpianti? Ho scritto un film che non riesco a farmi produrre. E' la storia di uno che raccoglie cani randagi per strada. Ora quello del randagismo è un argomento cui la gente è più sensibile, ma io questo film l'ho scritto dieci anni fa. Spero che prima o poi qualcuno mi dia due soldi per farlo. Ho una grande passione per gli animali. Ho quattro cani, due gatti, un coniglio, un tacchino, tre galline e due cavalli". Il suo legame con Stefania Orlando: "E' un po' che non ci sentiamo. Lei si è sposata, io anche. Abbiamo entrambi la nostra famiglia. Ma ho sempre affetto per lei. E' stata la mia prima moglie. Se hai voluto bene a una persona, poi le resti legato".

·         Flavio Insinna: "Grazie a Fabrizio Frizzi sono un conduttore".

Flavio Insinna svela: "Grazie a Fabrizio Frizzi sono un conduttore". Il presentatore de "L'Eredità", ospite a "Da noi a ruota libera", ha ripercorso in uno struggente racconto il primo incontro con Frizzi, spiegando come il collega lo abbia aiutato ad approdare in televisione. Novella Toloni, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. È toccante il ricordo che Flavio Insinna ha fatto del collega e amico Fabrizio Frizzi nel corso dell'ultima puntata di "Da noi a ruota libera". Intervistato da Francesca Fialdini nel programma della domenica pomeriggio, Insinna ha ricordato come la sua carriera di conduttore televisivo sia nata proprio grazie a Fabrizio Frizzi, che in lui anni fa intravide la verve del presentatore. Nel corso della puntata andata in onda ieri di "Da noi a ruota Libera" su Rai 1, il celebre attore e conduttore de "L'Eredità" ha raccontato, con commozione, il primo incontro con Fabrizio Frizzi, avvenuto diversi anni fa: "Lui è una persona straordinaria. Se sono qua è anche per lui. Vado a ritirare un premio importante per i telefilm, presentava lui e io lo conoscevo solo in quanto Fabrizio Frizzi. Lo conosco fisicamente sul palco, all'una di notte quando avevano premiato tutti, pure le sedie e i divani, ero rimasto solo io. Fabrizio, da uomo veramente accogliente, di un'intelligenza straordinaria, raffinata…un uomo sottile, coltissimo dove la risata era il terminale di tutta una serie di capacità di Fabrizio, mi accoglie sul palco e cominciamo a scherzare come fossimo Ric e Gian. Anche se non c'eravamo mai visti e conosciuti. Cominciamo a giocare e scherzare...". Flavio Insinna, che al funerale di Fabrizio Frizzi dedicò al collega e amico un toccante messaggio di addio, ha svelato poi come è approdato alla conduzione del quiz preserale "Affari tuoi", lui che fino ad allora aveva vestito i panni di attore per il teatro e le fiction: "La mattina dopo quella premiazione, mi chiamano dalla mia agenzia e mi dicono: 'Che hai combinato ieri sera che da Canale 5, Rai1 e varie reti vogliono farti dei provini per la conduzione?'. Io se sono qua è perché poi da lì ho fatto il provino per Affari tuoi. Ma non me lo avrebbero mai fatto se non fosse stato per lui. È stato grazie a Fabrizio". Il destino ha legato con un filo conduttore i due presentatori Rai che, da quel momento, hanno iniziato un'amicizia profonda conclusasi, solo fisicamente, con il passaggio di testimone alla conduzione de "L'Eredità". Dopo la sua morte, infatti, il celebre game show preserale di Rai uno è passato nelle mani proprio di Insinna, dopo che per due anni era stato condotto da Frizzi con stile ed eleganza.

·         Stefania Nobile e Wanna Marchi.

Stefania Nobile e Wanna Marchi: "In carcere volevano che ci suicidassimo". Stefania Nobile e Wanna Marchi raccontano la loro esperienza in carcere e lanciano pesanti accuse. Luana Rosato, Mercoledì 06/11/2019, su Il Giornale.  Stefania Nobile e Wanna Marchi sono state per diverso tempo protagoniste della cronaca e, dopo svariati processi, condannate a 9 anni e 6 mesi per bancarotta fraudolenta, truffa aggravata e associazione per delinquere finalizzata alla truffa. Le due, che negli anni Ottanta-Novanta erano considerate delle star del piccolo schermo per il loro modo, teatrale quanto colorito, di vendere alle persone da casa oggetti di qualunque genere finalizzati alla cura del proprio corpo, sono state smascherate da Striscia la notizia. Da lì, quindi, una serie di indagini e processi che le hanno portate a scontare una lunga condanna in carcere. Oggi, che sono nuovamente due donne libere, hanno scelto di abbandonare l’Italia per trasferirsi in Albania e, ospiti della trasmissione Seconda Vita su Real Time, hanno svelato retroscena inediti riguardanti il periodo trascorso dietro le sbarre. “Se ci davano la pena di morte, forse era meglio”: con queste parole, Stefania Nobile ha commentato la condanna a 9 anni e sei mesi inflitta a lei e la madre per i reati commessi. Il loro periodo in carcere, però, non è stato facile. “In carcere han provato in tutti i modi, in tutte le maniere a farci suicidare – ha spiegato Wanna Marchi, che ha resistito in attesa della scarcerazione - .Suicidatevi voi, pezzi di m...a”. Proprio la detenzione, però, ha causato dei seri problemi di salute ad entrambe e, in particolar modo, a Stefania Nobile. “Io oggi ho l’invalidità al 100%, non mi hanno permesso di fare le mie cure per 3 mesi – ha detto - .Questo non glielo perdono, non ho chiesto la pietà di nessuno, ho chiesto solo di essere curata”. “Abbiamo truffato, abbiamo accettato la pena. In carcere ci hanno accolto con i mitra e non ci hanno curato a dovere e abbiamo rischiato la vita – hanno continuato a raccontare le due ai microfoni di Gabriele Parpiglia - .La gente non comprava i nostri prodotti, ma comprava noi. Lo sciogli pancia nemmeno esisteva. È nato per caso in autostrada, una sera, di notte. Lo compravano tutti dall'Italia alla Spagna”.

Scontata la pena, le due hanno abbandonato l’Italia. “L’Albania ci ha ridato una nuova dignità – hanno detto - . L’Italia ci odia ma noi abbiamo pagato il nostro debito con la giustizia e non abbiamo paura di nessuno. Se il diavolo ci incontra, si sposta”. La Marchi, inoltre, potrebbe tornare al suo vecchio mestiere di venditrice di cosmetici: “Sto creando altre creme e profumi da mettere sul mercato”.

·         Achille Bonito Oliva.

Roberto D’Agostino per Dagospia il 6 novembre 2019. Nella vita nulla vi deve spaventare, tranne Achille Bonito Oliva. Anche oggi, che festeggia 80 primavere, il Genio Convinto dell’arte volteggia rapace e sarcastico sull’orbe della critica sgallettata, degli omologati del pensiero, delle mezzecalze del pennello, dei replicanti e degli zombie intercambiabili con la loro faccia di saponetta. Un carciofino sott’odio. Quando l’ABO-dramma si sposta con la sua attorialità totò-napoletana nelle gallerie e nelle cene, l’Abo-rigeno dell’arte raggiunge lo sbulinamento implacabile, allucinato, psicotico. Gli habitué dell’arte conoscono bene il dramma di averlo davanti. Bum Bum Bum , arrivano cannonate cattive, colpi a destra, fendenti a sinistra. E poi punzecchia sarcastico, non lesinando polemiche e critiche dure, con nomi e cognomi, ed è chiaro che con questi sistemi si raccolgono più antipatie che simpatie. Ma sono l’antipatie giuste. Sempre con l’espressione di un idraulico che ti sfila 200 euro per sturare un lavandino. Ecco: in un’epoca così bancarellista, barista, macchiettistica, pagnottista, sono più di 40 anni che inseguo ABO. Per un decennio ci siamo visti ogni sera, al Bar della Pace di Bartolo, come due naufraghi a caccia di salvagenti mentali nel mare del bla-bla intellettuale. Mai dimenticando il “corpo” a casa. Sera dopo sera, ho tentato di scippare tutto dal suo cervello, dalla sua cultura, dal suo stile; piaceri e sorprese dalla sua vita megalomane, paradossale, scandalosa, irritante al punto di aver dato cerebrità e celebrità internazionale all’ultima corrente dell’arte italiana (Transavanguardia). Sostenitore di se stesso, spacciatore di aforismi acidi (“La banalità è la cura dimagrante della cultura”), Gran Premio Antipatia (al punto di teorizzarla in un volume come sentimento portante dell’Arte), invece di essere funzionario del gallerismo e burocrate del conformismo e “rotellina” di un qualche Sistema, è diventato agente di critica di dogmi e di dubbi su certezze. Brevilineo, quasi il riassunto di un Genio, Achille “Bollito” Oliva è un critico d’urto, spesso anche ‘’critico d’arto’’ (quando c’è di mezzo una donna), che innesca furori e il disprezzo di tanti colleghi e artisti. “Cialtrone”, “esibizionista, espone più se stesso che i suoi artisti”, “uno dei tanti pagliacci nazionali”: ok, “Mens vana in corpore nano”. Da totoista napoletano, “Akiller” è un rinomato dispensatore di invettive e sottigliezze sulla società culturale: “Impara l’arte e mettilo nei party”, “Critici si nasce, artisti si diventa, pubblico si muore”, “L’artista passa alla storia, il pubblico alla geografia”, “Il critico d’arte è un critico d’urto: fa deragliare il gusto corrente”…Il mio “Basso Napoletano” è riuscito in un’impresa quasi impossibile, che ho sempre invano invidiato: il critico come artista. La migliore opera illustrata e lanciata da Achille Bonito Oliva è Achille stesso. E sono stato davvero fortunato nella vita di averlo incontrato e amato. Auguri per i tuoi primi Ottanta! 

·         Da Vasco a Loren, storie (famose) dal carcere: quando attori e cantanti finiscono dietro le sbarre.

Da Vasco a Loren, storie (famose) dal carcere: quando attori e cantanti finiscono dietro le sbarre. Tra storie di droga e (presunta) evasione fiscale: i personaggi famosi che hanno avuto guai con la giustizia italiana. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 daArianna Ascione su Corriere.it. L'ex attrice Paola Senatore, che oggi ha intrapreso un percorso di rinascita attraverso la fede dopo una vita tormentata, è tra i tanti personaggi del mondo dello spettacolo che nella loro vita sono finiti dietro le sbarre (per qualche giorno o per un periodo di tempo più lungo).

Vasco Rossi. A Vasco Rossi la «vita spericolata» da lui tanto cantata ha presentato il conto per la prima volta il 3 aprile 1984: alle 3 di mattina gli trovarono addosso 26 grammi di cocaina. Finì nel carcere di Pesaro, dove trascorse 22 giorni di cui cinque in isolamento: «L'unico a venirmi a trovare fu Fabrizio De André, con Dori - ricordava ad Aldo Cazzullo per il Corriere - Pannella mandò un telegramma. Il carcere fu un modo per disintossicarmi, e anche per resettarmi. Fino ad allora ero convinto di bruciare in fretta, di morire giovane. Mi dissi che dalla sofferenza non si fugge, ed era meglio andare sino in fondo alla vita, per vedere come va a finire questa bella storia. E sono ancora qua».

Sophia Loren. Avvolta in un completo semplice firmato Valentino il 19 maggio 1982 Sofia Scicolone, alias Sophia Loren, varcò la soglia del carcere di Caserta dopo essere stata arrestata all'aeroporto di Fiumicino: su di lei pendeva l'accusa di evasione fiscale legata alla dichiarazione dei redditi del 1974. L'attrice, rimasta dietro le sbarre per 17 giorni (doveva scontare un mese di reclusione), si è sempre proclamata innocente. E aveva ragione: «Dopo 40 anni la Cassazione ha stabilito che fu un errore del commercialista - ha raccontato al Corriere e, a proposito dell'esperienza carceraria - Sapevo di non meritarlo, ma l'ho fatto quasi per esperienza».

Enzo Tortora. Il 17 giugno 1983, alle 4 e un quarto del mattino, i carabinieri di Roma arrestarono Enzo Tortora all'Hotel Plaza di Roma. Il nome del popolare conduttore televisivo, in quel periodo impegnato nelle registrazioni di un programma condotto da Pippo Baudo, era stato fatto da alcuni pregiudicati. A causa dei pesanti addebiti a suo carico (traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico) Tortora finì in carcere e agli arresti domiciliari. Dopo una prima condanna a dieci anni di carcere nel 1985 il presentatore fu assolto con formula piena prima dalla Corte d'Appello di Napoli poi dalla Cassazione perché quanto raccontato dai suoi accusatori era privo di fondamento. «È stato atroce, Francesca. Uno schianto che non si può dire - scriveva alla compagna dell'epoca Francesca Scopelliti - Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella 16 bis, con altri cinque disperati, non so capacitarmi, trovare un perché. Trovo solo un muro di follia».

Walter Chiari. Mentre si stava recando negli studi radiofonici Rai per registrare una puntata del programma «Speciale per voi» il 20 maggio del 1970 Walter Chiari fu arrestato con l'accusa di consumo e spaccio di cocaina. Anche il cantautore Franco Califano e Lelio Luttazzi vennero fermati nell'ambito della stessa vicenda: la posizione di quest'ultimo, che aveva soltanto girato telefonicamente ad un uomo - che si rivelò essere uno spacciatore - un messaggio di Chiari, in seguito fu stralciata ma l'attore e il musicista finirono rispettivamente 70 e 27 giorni a Regina Coeli (il breve periodo trascorso dietro le sbarre danneggiò la carriera di entrambi). Al termine del processo a suo carico l'attore fu prosciolto dall'accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale.

Laura Antonelli. La carriera di Laura Antonelli, tra le principali protagoniste della commedia sexy all'italiana negli anni Settanta (la consacrazione arrivò con «Malizia»), nel 1991 subì una brusca battuta d'arresto: nella notte del 27 aprile vennero trovati 36 grammi di cocaina nella sua villa di Cerveteri. Iniziò così un lungo calvario giudiziario: fu arrestata per spaccio di stupefacenti, portata al carcere di Rebibbia (vi rimase tre giorni prima di passare ai domiciliari) e condannata a tre anni e sei mesi per illecita detenzione di stupefacenti. Nel 2000 invece venne assolta dalla Corte d'appello di Roma perché il fatto non costituiva più reato. In ogni caso l'intera vicenda la segnò profondamente e la fece sprofondare nella depressione. Il Ministero della Giustizia nel 2007, a causa della «durata irragionevole» del processo che la vide coinvolta le assegnò 108mila euro di risarcimento, ma ormai l'attrice - che versava in difficili condizioni economiche - voleva soltanto essere dimenticata.

Paolo Calissano. I guai con la giustizia di Paolo Calissano, uno dei volti più amati della soap «Vivere», sono iniziati nel 2005 quando una ballerina brasiliana, Ana Lucia Bandeiera Bezerra, fu trovata morta - stroncata da un'overdose di cocaina - nel suo appartamento genovese. L'attore è stato arrestato con l'accusa di averle ceduto gli stupefacenti, ed è stato condannato a quattro anni di reclusione (ha finito di scontare la sua pena nel 2007 grazie all'indulto).

Domenico Diele. Domenico Diele, che ha prestato il volto al personaggio di Luca Pastore nelle serie televisive «1992» e «1993» (e prima ancora ad Adriano Costantini nel film «ACAB - All Cops Are Bastard»), il 23 giugno del 2017 è stato arrestato all'uscita Montecorvino Pugliano dell'autostrada A2 con l'accusa di omicidio stradale: alla guida della sua auto - nonostante la patente sospesa - ha travolto e ucciso la 48enne Ilaria Dilillo che viaggiava sul suo scooter. Al narcotest è risultato positivo ad oppiacei e cannabinoidi, ma Diele ha attribuito la colpa dell'incidente ad una distrazione: «Sono dipendente da eroina, questo sì, ma la droga non c'entra con l' incidente - aveva detto al Corriere - Mi sono distratto con il cellulare. Ho un telefonino che funziona male, c'è un tasto che non va, e io per cercare di fare una telefonata ho abbassato gli occhi». Dopo aver trascorso dodici giorni nel carcere di Salerno è stato trasferito - fino alla scadenza dei termini della custodia cautelare - ai domiciliari. In primo grado l'attore è stato condannato a 7 anni e otto mesi di reclusione, ma in appello nel 2019 la pena è stata ridotta a 5 anni e 10 mesi.

·         Amanda Lear: 80 anni d’arte tra Disco music, pittura e teatro.

Sara Sirtori per "iodonna.it" il 19 novembre 2019. Amanda Lear compie 80 anni. Forse. Perché nella definizione di ambiguità, sul vocabolario, bisognerebbe dedicare una riga solo a lei. Mai nessuna come l’artista francese ha infatti saputo giocare con le sfumature dell’essere e del non essere. Protagonista, musa, icona fin dalla sua improvvisa comparsa sulla scena pubblica alla metà degli anni 60.

Il mistero della data di nascita. Il segreto meglio custodito del Novecento è la data di nascita di Amanda Lear. Non v’è certezza nemmeno nel giorno, anche se quasi tutti concordano che sia il 18 novembre. Sull’anno, invece, le scommesse sono aperte. Wikipedia francese, per evitare di intrufolarsi in un ginepraio senza uscita, sostiene che è nata in una anno imprecisato tra il 1939 e il 1950. Se vi state chiedendo da dove arrivino tutte queste informazioni contrastanti, la risposta è nella stessa Amanda:  che a più riprese ha comunicato date di nascita diverse. Secondo la Società degli autori tedesca, dove era iscritta in quanto cantante, è il 18 novembre 1939. Il suo sito personale riporta il 1950. Nelle interviste, lei ne ha ammesse almeno altre 3 diverse. «Vi autorizzo a utilizzare il carbonio 14 quando sarò morta per scoprirlo», è una battuta che fa spesso. «Quando sento dire che sono bella per l’età che ho, beh… Non si può eliminare quel riferimento all’età?! La verità è che non festeggio più il mio compleanno da una vita, sul serio, non m’interessa».

Tra Salvador Dalí e David Bowie. Le uniche certezza nella vita di Amanda Lear sono gli anni passati accanto a uno dei più celebrati artisti del Novecento: Salvador Dalí. Ispiratrice, compagna di giochi, amica. Non musa, quello no. «Non mi piace il termine “musa”. E mi piace ancor meno quando mi definiscono “icona”: l’icona sta al cimitero!», raccontava proprio a iODonna. In effetti la Lear è stata questo e molto di più per il padre del Surrealismo. È lui che la fa conoscere al mondo nella metà degli anni Sessanta. Amanda, che alterna con tutto ciò il lavoro di modella, si trova così nel bel bezzo della Swinging London. Qui conosce David Bowie. Che la spinge al canto e con il quale ha anche una relazione. Sono anni intensi, dove inizia a nascere il mito dell’ambiguità, suggeritale proprio da Bowie, che continua a circondarla. E con la quale le piace ancora giocare. «Ho fatto tutto io. Non sapevo cantare e mi serviva pubblicità. Con la mia voce particolare si poteva credere che fossi un uomo e ci ho giocato. Ha funzionato», raccontava non tanto tempo fa a Mara Venier ospite a Domenica In.

Amanda e Peki D’Oslo. Chi sia Amanda Lear prima del 1965 e di Dalí è un altro grandissimo mistero. Come sempre le versioni dell’artista sono discordanti. Se non completamente opposte. Pare sia nata in Oriente, a Hong Kong o in Vietnam. Che sia cresciuta a Nizza solo con la madre. Della sua famiglia non si sa altro. Una delle storie che continua a girare con insistenza in Francia è legata alla sua ambiguità sessuale. C’è chi sostiene che Amanda Lear sia nata uomo. E che si sia mantenuta a Parigi, da ragazza, esibendosi nei locali per travestiti con il nome di Peki D’Oslo. Fino all’incontro con il grande Dalì, che le ha cambiato la vita. «L’ambiguità? È quando la gente normale non riesce a capire bene cosa sei, chi sei. Io ho sempre dato l’immagine di una donna aggressiva, un po’ maschile nell’atteggiamento. E la gente pensava: “una donna non si comporta così. Non è una donna vera”».

Cinema, musica, tv, teatro. Donna poliedrica e poliglotta, non è mai stato possibile definire Amanda Lear nemmeno in campo lavorativo. Negli anni Settanta e Ottanta il suo successo è legato alla discomusic. E a brani come Tomorrow. Poi è arrivata la televisione, soprattutto in Italia e in Francia. Dove ha mostrato un lato di sé diverso e interessante, legato a trasmissioni come Ars Amanda del 1989. Senza mai abbandonare la musica, si è data anche al cinema e, ultimamente al teatro. Un successo, quest’ultimo clamoroso. Eclettica e anche un po’ eccentrica, quando Amanda è apparsa in una serie di spot dove dichiarava che si sarebbe candidata alle elezioni presidenziali francesi, in molti le hanno creduto. In realtà era la pubblicità dello spettacolo La Candidata che stava per portare in scena.

Un solo grande amore. Della vita sentimentale di Amanda Lear si è detto tanto. Con Dalí è stata un’affinità elettiva, perché notoriamente il pittore era impotente. Con David Bowie la storia è durata poco, «perché lui non era innamorato di me, ma della mia fotografia». Mentre con l’aristocratico francese e produttore musicale Alain-Philippe Malagnac d’Argens de Villèle, invece, è stato un grande amore. Si sono sposati a Las Vegas nel 1979. Si sono lasciati nel 2000, quando lui è morto nell’incendio della loro casa in Provenza. «Io penso che nella vita abbiamo un solo grande amore. E per me è stato mio marito», raccontava alla Venier. Da allora ha sempre avuto fidanzati molto più giovani. Come il modello italiano Manuel Casella, nato nel 1978 e suo compagno dal 2002 al 2008. Dal 2014 al 2015, invece, ha avuto una relazione con l’attore Anthony Hornez.

Tanti auguri, Amanda. Oggi Amanda Lear si definisce single («la boutique è chiusa. Il prossimo uomo che mi vedrà nuda sarà il medico legale sul tavolo dell’obitorio»), vive a Parigi con i suoi gatti e spesso appare alle sfilate di moda dei suoi amici, come Jean-Paul Gaultier. Sempre circondata da giovani aitanti, si dedica al teatro e, soprattutto, dipinge. «Mi aiuta a scacciare via le tensioni, a rilassarmi. C’è chi si droga, chi va dallo psicoterapeuta, chi lavora all’uncinetto: io dipingo. Mi calma, mi dà equilibrio, ci metto tutto quello che ho dentro, sfogo la rabbia, mi fa stare bene», ci ha raccontato. Anche se dice che non festeggia più il suo compleanno, se davvero è oggi, lo facciamo noi per lei. Con una carrellata di immagini per ripercorre la sua incredibile vita.

Amanda Lear: 80 anni d’arte tra Disco music, pittura e teatro. Dalla Swinging London alla TV. Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 su Corriere.it da Sara Sirtori. Tutto ciò che la riguarda prima di Dalí nella metà degli anni 60 è avvolto dal mistero. Come la sua data di nascita. Storia di una donna eclettica e mai banale. Amanda Lear nasceva oggi 80 anni fa esatti, ed è stata una cantante, attrice, scrittrice, pittrice, modella, doppiatrice e presentatrice televisiva e, insieme a questo, anche qualcosa e molto di più. Per lei vale infatti più che mai la definizione di 'icona' nell'accezione più classica e nel senso più antico possibile, etereo, che avvicina l'icona alla musa e più che a una rockstar fa venire in mente personaggi che hanno smosso l'anima, il pensiero e il talento di grandi artisti, figure femminili d'avanguardia come per esempio Lou Salomè. Di Amanda Lear si sa poco, si sa cioè molto di ciò che ha fatto ma l'ordine delle cose, i tempi, i reali spostamenti lungo l'arco dei decenni, nel mondo, sfuggono ai più e questo fa di lei, in modo ancor più evidente, un figura ammantata di mistero e magia. Da sempre nota per la sua estetica androgina e per il gossip nato intorno alla sua identità, ancora oggi c'è chi la vuole originariamente uomo e ancora non è data per certa la sua città natale. 

Piero Degli Antoni per Il Giorno - Quotidiano Nazionale - Intervista del 2 marzo 2017.

Lei è in tournée in Francia con la commedia. La candidate in cui impersona la prima candidata donna alla presidenza della Francia. Ha mai avuto a che fare con un presidente vero?

«In modo indiretto sì. A una cena avevo conosciuto Ivana Trump, che cercava di convincermi a esporre i miei quadri a Maralago, una residenza di Donald Trump in Florida. Ma io trovavo Trump molto rozzo, molto grossier, per carità!, non avrei mai esposto i miei quadri da lui. Ivana però mi ha anche raccontato che, quando era sposata con lui, prima di fare l' amore Donald metteva sul giradischi la mia Follow me. Quella voce così bassa e sexy lo arrapava tantissimo. Pensi che responsabilità!»

La sua trasmissione W le donne fu un caposaldo della tv italiana. Cosa ricorda?

«Prima di darsi alla politica Berlusconi era un imprenditore televisivo molto bravo. Mi ripeteva sempre che entravamo nelle case degli italiani, e quando vai a casa di altri ti presenti al meglio. Perciò facevamo uno show elegante, con tanti bei vestiti, tanti trucchi, tante belle donne che mettevano in mostra seni e gambe. Era tutto bellissimo e luminoso. Fu una rivoluzione, dopo anni di Rai polverosa e censurata. E pagavano benissimo. Avevo persino l' autista personale, non come adesso che non ti pagano neanche il taxi».

Tutte quelle donne non facevano girare la testa anche a Berlusconi?

«Tra le ballerine c' era Sabrina Salerno. Si diceva che lei gli piacesse molto. Per fortuna io, così alta, bionda, magra, piatta, non ero il suo tipo. Infatti siamo sempre andati d' accordissimo».

Con Andrea Giordana invece le cose non erano così rosee...

«Questione di gelosia. Allora gli show avevano come protagonista l' uomo che era al centro - Pippo Baudo, Corrado, Mike - e che veniva affiancato da una bella ragazza che aveva un ruolo di contorno. Giordana si aspettava la stessa cosa. Io invece gli rispondevo, lo prendevo in giro, insomma gli rubavo la scena. Dopo l' ultima puntata, quando ci siamo salutati, gli ho chiesto: tu adesso cosa farai? E lui: "Torno al cinema". E io: "A vedere cosa?"».

Lei è sempre stata una donna spiritosa e brillante...

«È da tanti anni che esiste il progetto per trarre un film dal mio libro La mia vita con Salvador Dalì. Forse adesso ci siamo, devo approvare la sceneggiatura, per il protagonista si pensa a Adrien Brody o Johnny Depp. Anni fa si era pensato di farlo interpretare, nel ruolo femminile, a Claudia Schiffer. Quando l' ho incontrata, mi ha detto: "Bel libro, chi te l'ha scritto?", e io: "E a te chi l'ha letto?"»

Nel suo curriculum televisivo c' è anche Stryx, la prima trasmissione Rai che mostrò un seno nudo...

«Enzo Trapani, il regista, ebbe un gran coraggio. C' eravamo io, Patty Pravo, Grace Jones, facevamo le streghe. Dietro di me, in una puntata, si vede una bella ragazza che mostra il seno nudo. Era Barbara D' Urso. Ma io non la ricordo assolutamente. Sa di recente chi mi ha parlato di Stryx? Rocco Siffredi! Mi ha detto che lo guardava da ragazzo "e si eccitava moltissimo"! Ci pensa? Rocco Siffredi che si eccita con una mia trasmissione!»

La sua prima ospitata televisiva in Italia fu con Pippo Baudo...

«Era il 1977 ed eravamo a Campione d' Italia, lui aveva ancora i capelli. Mi presentò come una ragazza che viene dalla Germania'. Anche di recente sono andata da lui a Domenica in. Con me è sempre stato molto affettuoso, gli ho anche regalato un mio quadro. Lo sa? Credo che la pittura sia il segreto del mio equilibrio, della mia serenità. Invece di drogarmi, o andare dallo psicologo, io dipingo».

Vogliamo parlare del "nano ghiacciato", uno spot che è diventato un modo di dire? «Pensi che il regista era Mauro Bolognini! Un uomo adorabile, mi diceva che ero una star, che avrebbe voluto dirigermi in teatro, che ero un' attrice nata. Mi faceva ridere la circostanza che facessi pubblicità a un vino, io che sono sempre stata completamente astemia... Comunque mi hanno strapagato».

Nella sua vita italiana ha incontrato anche Fellini. Come è andata?

«Mi ha fatto venire a Roma, sul set di un suo film. Gli sono piaciuta, ma mi ha detto che non aveva un ruolo per me. Stava cercando una donna grossa, di 300 chili e un seno enorme, una cosa mostruosa. Poi siamo andati a mangiare con sua moglie, Giulietta Masina. Insisteva che dovevo mangiare di più e continuava a ordinare piatti. "Basta, non ce la faccio più", gli dicevo, ma lui continuava. Voleva che ingrassassi».

Lei è stata a lungo la compagna di Salvador Dalì. Ci racconta un aneddoto?

«Dalì era amico di Picasso, fin da quando da giovani vivevano a Barcellona e frequentavano insieme i bordelli della città. Ed erano rimasti amici anche quando Picasso era diventato comunista e Dalì era rimasto monarchico. Ogni anno si scrivevano una cartolina. Una volta dovevamo andare a New York in nave, perché Dalì non voleva volare, ed eravamo a Cannes. Gli ho detto: ma sai che Picasso abita qui vicino? Così Salvador gli ha telefonato. Era molto tempo che non si vedevano, e Picasso ci ha invitato a prendere un tè. Io ero eccitatissima, coronavo il sogno della mia vita - avrò avuto 18 o 19 anni. Poi però c'è stato un sabotaggio da entrambe le parti: Dalì aveva paura che Pablo lo prendesse in giro perché aveva perso i capelli, e forse Picasso temeva i giudizi dell' amico. Insomma, non se ne è fatto niente. Ma la telefonata la ricordo bene: avevo immaginato che parlassero di pop art, di Andy Warhol, dell' evoluzione dell' arte moderna, invece parlavano soltanto di caz... e cu... Si chiedevano l' un l' altro se riuscivano ancora a eccitarsi... chi l' avrebbe detto?»

·         Nina Moric.

riappare sui social ma le sue parole impensieriscono i fan: "Ho un problema sorto dopo il rientro da Zanzibar". La bella croata Nina Moric dopo oltre due mesi di assenza è riapparsa sui suoi profili social. Ma la modella, interloquendo con i suoi fan, ha raccontato nelle sue IG Stores che un problema la sta affliggendo dopo il suo rientro da Zanzibar. Monica Montanaro, Domenica 08/12/2019 su Il Giornale. Ma dov'era sparita l'avvenente croata Nina Moric? Da oltre due mesi la modella latitava dai suoi proili social. Da alcune ore finalmente è riapparsa su Instagram per la gioia dei sui fan, ma alcuni segnali hanno fatto trasparire che la Moric non stia attraversando una fase favorevole della sua vita. Era da settembre scorso, infatti, che la bella croata era scomparsa dal web, specificamente da quando si era recata in vacanza a Zanzibar. Durante quei giorni lieti aveva postato molti scatti in cui appariva felice accanto a suo figlio Carlos Maria. Si, perchè Nina Moric finalmente, aveva realizzato il suo sogno di riottenere l'affidamento di suo figlio dopo anni di una dura battaglia giudiziaria. E proprio per festeggiare il buon esito del processo aveva organizzato tale vacanza in Tanzania per trascorrerla in compagnia del suo amato Carlos e del suo attuale partner Lugi Maria Favoloso. Dopo quella felice parentesi di vita l'ex moglie di Fabrizio Corona si era eclissata senza dare più notizie di sé. I fan sono stati per settimane in trepida attesa chiedendosi cosa fosse accaduto alla loro star preferita. Ecco che la loro apprensione è stata placata quando poco fa Nina Moric ha fatto capolino su Instagram per avere un contatto virtuale con essi. Ma la gioia iniziale dei follower è stata disattesa nel momento in cui la modella ha rivelato di essere assediata da un problema che inficia la sua serenità. E i fan si chiedono cosa mai le sia successo in questi ultimi tempi...

Il problema di Nina Moric. I molti dubbi che assalgono i suoi fan sono stati dissipati parzialmente quando Nina Moric ha deciso di intrattenere con loro una chat online tramite le sue Instagram Stores per un tempo prefissato. Le domande giunte all'indirizzo della modella sono state copiose e vertenti sul motivo della sua assenza e sul suo stato in generale. Ma le risposte pervenute loro li hanno preoccupati poiché l'ex del re dei paparazzi ha confidato di vivere un momento difficile a causa di una problematica sorta immediatamente dopo il suo rientro dall'isola di Zanzibar. Ma l'attraente balcanica non ha fornito molti dettagli e si è limitata a dire che non demorde e che sta tentando di dirimere l'inconveniente nella speranza di riacquistare la sua serenità di qualche tempo fa. Dichiarazione che ha sconcertato ulteriormente i suoi ammiratori, i quali non riescono a immaginare quale possa essere la reale motivazione che sconvolge la tranquillità della Moric. Ma cosa sara accaduto veramente a Nina Moric in questi ultimi mesi? Un accenno lo fornisce ai suoi follower nelle sue storie di Instagram la stessa Moric. Durante un interscambio di messaggi sono emersi alcuni particolari: "Vi regalo 15 minuti di domande e risposte". "Cosa ti è successo? Ti ho seguita tutti i giorni quando eri a Zanzibar, sembravi felice", le domanda un utente. "Lo ero... - rivela la Moric -al mio ritorno c'è stato un problema che sto facendo di tutto per risolvere". Senza disvelare la natura del problema incombente ha fornito altri dettagli generici: "Se potessi vi racconterei tante cose, ma non è ancora arrivato il momento. Arriverà il giorno, per me, per voi, per tutti, soprattutto per mio figlio". Ma i fan non sentendo appagata la loro sete di curiosità sono rimasti a bocca asciutta e la loro angoscia è accresciuta non conoscendo ancora il motivo che affligge Nina Moric. Il problema che attanaglia la longilinea Nina Moric atterrà forse a suo figlio Carlos? O alla sua salute? Certamente è da escludere a priori che concerna la sua sfera sentimentale poiché la modella croata ha confermato di essere felicemente fidanzata con l'ex gieffino Luigi Favoloso. Proprio rispondendo ad un quesito di un suo follower sulla sua vita privata ha affermato: "Mai detto di essermi lasciata, certo che ci sto ancora con lui". Probabilmente riguarderà ancora la vicenda di suo figlio Carlos Maria che la Moric ha generato con il suo ex compagno Fabrizio Corona. Auspichiamo che la problematica contingente che sta attanagliando la bellissima Nina Moric si risolva nel migliore dei modi e ricompaia il sorriso sul suo incantevole volto.

·         Silvio Orlando.

Silvio Orlando: «Sono un insicuro cronico, voglio piacere a tutti». Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 su Corriere.it da Candida Morvillo.

«Io ho la sindrome dell’impostore. La conosce?».

In che consiste?

«Che, anche se hai successo, pensi che derivi da colpi di fortuna o dall’essere lì al momento giusto, ma che prima o poi ti scopriranno».

Silvio Orlando ha 62 anni e il dono di sublimare l’autoflagellazione nell’autoironia. Ha girato 50 tra film e serie tv. Ha vinto una Coppa Volpi, due Nastri d’argento, due David e molti altri premi. Ha incarnato tanti personaggi in dubbio fra mediocrità ed eroismo che hanno raccontato chi siamo: dall’insegnante idealista della Scuola a quello cinico del Portaborse, dal giornalista di sinistra di Ferie d’agosto allo strozzino sentimentale di Luce dei miei occhi fino al disilluso produttore del Caiman odi Nanni Moretti, col quale ha girato otto film, avendo con lui, dice, «un rapporto sadomaso: ne sono stato il martire volontario». Ora, in oltre 200 Paesi lo conoscono come il cardinale Voiello del celebrato The Young Pope di Paolo Sorrentino mentre The New Pope, in onda su Sky Atlantic dal 10 gennaio, è già stato venduto in più di cento Paesi. Gli snoccioli i numeri e lui si ritrae: «Non voglio saperli: la dimensione mi spaventa. Quando mi ferma un greco, un lituano, penso che ormai rischio di essere smascherato nei posti più inattesi». Silvio Orlando si racconta mentre è in teatro con Si nota all’imbrunire, una commedia su vecchiaia e solitudine. L’ha allestita con la compagnia fondata con la moglie Maria Laura Rondanini in onore di un’idea, «quella che sono io che mi autodetermino e non devo aspettare che qualcuno mi chiami».

Dunque, quando e come si verifica la sindrome dell’impostore?

«Quando leggo dieci che parlano bene di me, poi, l’undicesimo neanche parla male, ma così così, eppure, penso che è l’unico sincero».

Basterebbe non leggere le recensioni.

«Al contrario. Su Voiello c’era unanimità di consenso, ma io cerco, cerco finché non trovo il cinquantesimo che parla male».

Perché lo fa?

«Da ragazzo, ero insicuro, poi sono cresciuto ed ero insicuro e ora lo sono più che agli inizi. Ho l’ansia di piacere a tutti, cosa impossibile. Penso sempre che gli altri hanno più risultati di me e provo una sana o insana invidia».

Invidia per cosa?

«Se, come me, hai fatto tanto il protagonista e poi vedi un altro che lo fa al posto tuo, la senti come una cattiveria».

Quando le è successo?

«Ho avuto dieci anni in cui sembrava che il cinema non potesse fare a meno di me, dopodiché, fa a meno di me. Ti chiedi: com’è possibile? Eppure, sai che è normale, dipende da cosa il cinema racconta, dall’età che hai. Ora sto invecchiando, entro in una fascia buona».

Perché Sorrentino ha chiamato lei?

«Non mi ha chiamato lui. Prima, aveva fatto dieci film, aveva chiamato tutti, anche mia moglie, e a me mai. Uno si fa delle domande. Stavolta, mi ha cercato una casting disperata che non trovava il cardinale. Sa? La mia generazione fa a pugni con l’inglese. Anch’io sono nato in un giorno diverso dall’inglese, però accetto il provino e loro mi mandano una scena di 13 pagine. Dico: vi sbagliate, queste sono tre scene. Non mi ero mai reso conto di quanto fossero lunghe le scene di Paolo. Mi sono messo a studiare facendo fuori una lunga serie di coach. Una beffa, dato che il Vaticano è l’unico luogo dove per fare carriera devi parlare italiano. Poi, Paolo mi ha visto e ha detto subito sì».

Com’è andata fra lei e il «nuovo papa» John Malkovich?

«Per una distrazione, non me l’hanno presentato. Provavo una scena e l’ho visto arrivare, come sfumando dalla nebbia, elegantissimo, meraviglioso. Me lo sono trovato di fronte. Abbiamo iniziato a recitare, lui con la sua voce ipnotizzante, io povero e piccolo nel mio saio. Dopodiché, è stato il primo anglosassone di cui sono diventato quasi amico».

Jude Law non è un «quasi amico»?

«Jude è anche un ragazzo semplice, gli piace il calcio, ma resta una divinità».

Che regista è Sorrentino?

«È gentile, premuroso, poi viene posseduto dal suo dark side: ha in testa un film già fatto che tu devi rifare e puoi solo rovinare. Allora, a te viene l’ansia e in lui senti la minaccia di uragano in arrivo. La differenza con Nanni Moretti è che Nanni esplode, tutti si fanno piccoli piccoli e questo fa gruppo. Invece, Paolo sta sempre per esplodere e non esplode mai. Però sai anche che è un’occasione irripetibile e che lui sta chiedendo a sé e a tutti una cosa mai fatta. Lui ti costringe a rompere i tuoi automatismi».

Lei quali ha rotto?

«Mi sarei allargato sul comico, ma lui come indicazione di regia mi ha dato solo una parola per serie. La prima: robotico. Mi voleva inespressivo, senza intonazione. La seconda: ieratico. Ho dovuto controllare l’enciclopedia».

Di suo, cosa sapeva dei preti?

«Vivo a Roma in un complesso del ‘700 in cui c’è un seminario inglese. E, ogni giorno, come elemento più forte dell’essere umano che si fa prete, sento la solitudine».

Di solitudine tratta ora anche in teatro.

«È una specie di epidemia. C’è una tendenza a chiudersi fino all’isolamento totale, specie nell’adolescenza e nella vecchiaia, negli anni in cui hai più paura di affrontare le sfide o in cui, se puoi, le sfide le eviti. La depressione è una risposta anche politica: non esistono più le masse, gli studenti, gli operai, ma solo individui che si sentono irrilevanti e, da soli, sono meno attrezzati per sopravvivere».

Lei la solitudine la cerca o la fugge?

«Io sento fortissimo il richiamo verso il buco nero. La maschera del mestiere mi costringe a essere sociale, ma sono perennemente sotto attacco. Per fortuna, ho una moglie che mi tutela, mi pedina, è il mio cane da guardia, mi costringe a non fare cretinate».

Tipo chiudersi in casa?

«È il desiderio. Poi, magari mi annoierei. Tendenzialmente, con l’età, è come se mi restasse sempre solo la coda amara delle cose. Ma ormai uno psicanalista non mi accetterebbe: mi chiederebbe dove sono stato finora».

Che «cane da guardia» è sua moglie?

«Mi ha messo davanti allo specchio e costretto a fare i conti con quello che sono, non con quello che vorrei essere. Mi ha fatto vedere l’elemento commovente della normalità, la commozione delle piccole cose, continua, reciproca. È come se illuminasse cose che mi sembravano grigie che sono la vita quotidiana. Questo mi ha consentito di ritrovare il senso».

State insieme da 20 anni, sposati da 11, come vi siete trovati?

«Come dico sbaglio... Avevo ideato una formula che mi sembrava bella, dicevo: non l’ho trovata, mi è stata data. Ma lei se l’è presa, mi fa: vabbuo’ vuoi dire che ti so’ capitata? Maria Laura è napoletana come me. Quando torni a casa, in fondo, torni sempre nella casa dove sei nato, dove si può scherzare in dialetto, capirsi al volo, litigare nella stessa lingua».

Lei che bambino è stato?

«Ho perso mia madre a nove anni. Dopo, ha contato la mancanza, ma, prima, la malattia. Lunga tre anni. Quando mi interrogo su cosa ha fatto di me l’attore che sono, devo rispondermi che è stato solo quello. Quei tre anni. Se chiudo gli occhi, vedo ancora la decadenza del corpo, l’essere solo male che ti rende spietato. Da lì, l’idea che il peggio che può succedere è niente, se non uno spunto per ribaltamenti comici. Avere un padre simpatico mi ha aiutato: quando il prete dava a mamma l’estrema unzione, mi ha fatto una faccia buffa delle sue».

Sorrentino ha perso i genitori presto e così Jude Law. Essere orfani che cifra narrativa è?

«Una cosa che ti definisce come uomo. Anche il nuovo papa ha un rapporto agghiacciante coi genitori. Nella serie, c’è il tema di come fai il padre del mondo se non sei stato figlio».

Massimo Gramellini ha appena raccontato in un libro che, da orfano di madre, ha creduto di poter essere solo orfano di figli. Lei figli non ne ha, che percorso ha fatto?

«È il tema dei temi e non lo aprirei».

Ricorda la prima volta sul palco?

«Fu come trovarmi nel mio brodo primordiale. Sentivo che nel pubblico c’era voglia di me, che mi volevano e che, finito lo spettacolo, mi avrebbero voluto ancora».

Nel’85 entrò nella compagnia dell’Elfo a Milano, che periodo fu?

«Quello della faticosa raccolta dei frutti».

Com’era la Milano da bere?

«La vivevo cercando di realizzare lo scopo della vita: divertirmi. Ma da piccolo borghese, la paura era perdere la brocca. A Milano potevi perderla e diventare vittima di Lucignolo».

E lei cercava o evitava Lucignolo?

«Era un lotta e fuggi, lotta e fuggi».

Pensa mai a che epitaffio vorrebbe?

«Sconfitto, a volte. Rassegnato mai».

·         Richard Gere.

Richard Gere di nuovo papà a 70 anni: la moglie Alejandra incinta del secondo figlio (9 mesi dopo Alexander). Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Simona Marchetti. Secondo la rivista spagnola Hola!, molto vicina alla coppia, il bambino arriverà la prossima primavera (9 mesi dopo Alexander). Altra cicogna in arrivo per Richard Gere e la terza moglie, Alejandra Silva, che a febbraio di quest'anno hanno già accolto in famiglia il piccolo Alexander. Come infatti scrive Hola!, il 70enne attore e la pubblicitaria galiziana sono in attesa del secondo figlio, che arriverà la prossima primavera, e anche se per ora non ci sono state conferme (ma neppure smentite) all'indiscrezione, il fatto che a rivelarla sia stata proprio la rivista spagnola (da sempre molto vicina alla coppia, al punto da avere pubblicato per prima la notizia della nascita del primogenito e le foto del matrimonio, celebrato nel 2018) lascia supporre che sia tutto vero. E chissà che anche stavolta l'attore e la 36enne Alejandra non decidano di fare come in occasione della prima gravidanza, quando affidarono la lieta novella a un post sull'Instagram di lei, accompagnato da una foto del Dalai Lama che benediceva il pancione della donna. Sia per Gere che per la moglie si tratta del terzo figlio: oltre ad Alexander, nella famiglia allargata della coppia ci sono infatti il 19enne Homer James (nato dal secondo matrimonio di Gere con Carey Lowell) e Albert (il bimbo di sei anni che Alejandra ha avuto dall'ex marito Govind Friedland): che sia la volta buona di una femmina? 

·         Irina Shayk.

Irina Shayk: dopo il #MeeToo le donne hanno quasi paura a sentirsi sexy. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 su Corriere. da Maria Teresa Veneziani. «Il momento più difficile della mia vita? La perdita di mio padre quando avevo 14 anni e quella di mia nonna, 5 anni fa».  «Sono stata scoperta da Intimissimi molti anni fa: è stato il mio primo contratto da modella e oggi che ho quasi 34 anni eccomi ancora qui... È un prodotto che amo davvero, di ottima qualità a un ottimo prezzo, sexy e casual, sono russa e amo spendere i soldi in modo consapevole». Irina Shayk, i capelli tirati dietro la nuca, sembra pronta per un ritratto rinascimentale, se non fosse che sul corpo statuario indossa solo una camicia ricoperta di paillettes sopra le gambe inguainate in uno stivale a metà coscia. È una donna di sostanza, Irina. E forse anche per questo è rimasta fedele al brand di Sandro Veronesi, che continua a far sfilare le sue collezioni in azienda, a Verona, nonostante gli show siano ormai diventati internazionali per l’investimento su scenografia, modelle (dall’ex fidanzata di Leonardo Di Caprio Lorena Rae a Madison Headrich) e parterre di ospiti. Sedute in prima fila, accanto a Irina ci sono Sarah Jessica Parker, Chiara Ferragni con Fedez, Cristina Parodi, Diletta Leotta e decine di influencer da ogni dove. In un’atmosfera da «White Cabaret», sotto le luci di grandi lampadari in cristallo hanno sfilato i reggiseni a triangolo portati con le culotte di pizzo bianco — grande ritorno del reggicalze —, i balconcini a fiori con slip coordinati, e poi gli stampati, animalier e pitone, Principe di Galles e piccoli pois neri impressi sul tulle color cipria. «Intimissimi, però, non è soltanto lingerie, ma anche pigiami di seta e ciniglia», sottolinea Veronesi nel saluto pre-sfilata ai mille ospiti del brand del Gruppo Calzedonia (fatturato 2018: 2.303 milioni di euro). In passerella ci sono pure i modelli palestrati con pigiama e boxer di Intimissimi Uomo, settore spinto dalla vanità maschile. E per la prima volta sfila anche la modella curvy, perché anche la lingerie è inclusiva.

Dopo il MeeToo la parola sexy è superata?

«Oggi le donne hanno quasi paura a sentirsi sexy — chiarisce Irina Shayk — ma è ben più di un push up o un rossetto, si tratta di qualcosa che hai dentro e nessuno ti può togliere». Il momento più difficile della sua vita?«Sono figlia di un’insegnante di musica russa e di un minatore. I momenti più difficili della mia vita sono rappresentati da due perdite: quella di mio padre, quando avevo 14 anni, e di mia nonna, cinque anni fa. Ancora non riesco a credere che sia accaduto, ma anche questo fa parte della vita e mi ha portato ad essere quello che sono».

Oggi che è mamma di una bambina di due anni, Lea De Seine, avuta due anni fa dall’attore-regista Bradley Cooper), che consiglio che si sente di dare a una ragazza?

«Di sentirsi bene nella propria pelle, essere sé stessa, inseguire i sogni e mai accettare un no come risposta». E lei, sognava di diventare modella?«Veramente no. Da piccola ho studiato musica, suonavo il pianoforte e pensavo che sarei diventate musicista, oppure insegnante «perché mi piace scrivere. Fare la modella non era il mio sogno, ma la vita mi ha dato questa opportunità...».La sicurezza in se stessi è innata o si può migliorare?«Quando ero adolescente ero magra e alta e i ragazzi mi prendevano sempre in giro. La vita è fatta di stadi ed è una cosa bella perché possiamo conoscerci, apprendere, migliorare. Quando cadi, ti alzi e continui a camminare». Intimissimi l’ha scoperta Mosca... «Stavo girando una campagna per un grande magazzino e sono arrivati sul set perché stavano cercando un sostituto di Ana Beatriz Barros per la campagna. Sandro Veronesi mi ha proposto di essere il volto del suo brand e io ho risposto “Certo”. Ho firmato per sei mesi e sono passati circa 12 anni». Su Instagram ha oltre 12 milioni di follower, ma è molto riservata sulla vita privata. Qual è il suo rapporto con i social?«I social sono uno strumento di comunicazione molto forte, utile anche per promuovere le iniziative charity, il privato per me resta privato». Difficile essere tanto belli? «Capita anche a me di trovarmi dei difetti, per esempio, di vedermi il doppio mento, siamo umani. Cerco di fare del mio meglio lavorando sulla mia personalità. Incontro persone che si lamentano perché non hanno questo o quello. Come essere umano devi arrivare a un punto della vita in cui comprendi che la felicità è qualcosa che tu stesso sei incaricato di cercare, senza incolpare gli altri. È un tuo compito». Come porta la lingerie Irina? «Mi piacciono pizzo, seta e cotone nei colori classici e chic: nudo, bianco e nero». 

·         Paola Senatore.

Paola Senatore, una vita tormentata: dai film erotici al carcere fino alla conversione. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. Di film ambientati in un carcere femminile ne girò parecchi. Ma un giorno in cella ci si trovò per davvero. Era il 13 settembre 1985: una data spartiacque nella vita dell’ex attrice Paola Senatore, uno dei sogni erotici ventennali per migliaia di italiani (musa di Brass, D’Amato, Lenzi e fra le regine indiscusse della commedia di genere). Ma chi pensa che da lì sia iniziato il baratro, forse si sbaglia. È la stessa Paola a tirale le somme di un’esistenza piena che oggi, da quello sfregio d’immagine in pieni anni Ottanta, può definire “una vera vita”. Che piano piano, e soprattutto nel silenzio, in questi anni ha rimontato con fede, ordine e riavvicinamento ai propri affetti.

Come si definisce, oggi, Paola Senatore?

«Felice, serena, gioiosa ma con la testa sul collo»

Che infanzia ha avuto?

«Difficile. Mia madre mi raccontava continuamente della sua vita e della sua influente famiglia. Ero una bambina ansiosa con tutti quei racconti che ascoltavo, anche se piccola! Lei doveva sposare un barone molto più grande di lei come deciso dalla famiglia. Erano tempi difficili. Anni difficili. La guerra finì nel 45: lei proprio sotto i bombardamenti conobbe un ragazzo e si innamorarono, fu un colpo di fulmine: la mia vita iniziò lì, concepita sotto quelle bombe. Ma in quel momento iniziarono anche le complicazioni: mia madre si era ribellata ai piani matrimoniali che i nonni avevano per lei. Si rifiutò di entrare in convento e di darmi in affido, come si conveniva».

Come andò a finire?

«Fu mandata da lontani parenti romani che in effetti si presero cura di lei. Ma volle staccarsi ad un certo punto. E per essere più libera mi mise in un collegio. Il distacco fu atroce»

Che ricordi ha di quegli anni?

«Parliamo di un collegio della Roma bene. Eppure i miei ricordi sono ombrosi: mi raccontavano di strani riti, di storie misteriose che accadevano lì dentro, mi sentivo impaurita. Stiamo comunque parlando di esperienze e suggestioni vissute con gli occhi dell’infanzia. Ricordo un bimbo di cinque anni, ma che si dimostrava già un ometto, che un giorno arrivò a dirmi: “Ti proteggerò io”. Stavamo sempre insieme, mi dava forza. Finalmente a sei anni uscii: ero felicissima, era la Pasqua del 1952. Conobbi finalmente zie e nonni e la mia vita prese una piega diversa, morbida e dolce».

Cosa sognava di fare da grande? È riuscita a realizzarsi, secondo lei?

«Si, ci sono riuscita. Io sognavo soprattutto di viaggiare ed ho realizzato il mio sogno. Il viaggio era dentro di me, mi apparteneva. Sarei diventata pilota se il brevetto fosse costato di meno. Volevo scalare monti, attraversare deserti, scandagliare mari, attraversare cieli, di tutto e di più. Ci riuscii. Volevo incontrare il sole questo desiderio mi spaccava in due. Mi mancava molto mio padre: mia madre mi diceva che era morto, ma sapevo che non era vero. Lo capivo dal tono che usava. I vicini di casa dicevano che somigliavo a lui ogni giorno di più: lì mi si bloccava il respiro dall’emozione. Purtroppo non riuscivo mai a chiedere nulla, ma sapere che gli somigliavo per me era qualcosa di stra-mega galattico. Ricominciavo a respirare dopo un quarto d’ora quando ci pensavo. Lo cercavo ovunque. Ecco, per questo amavo il viaggio».

Il suo primo provino?

«Lo ricordo benissimo, dovevo interpretare un film a Parigi, “L’amore quotidiano”, del 1973. Mi fecero fare delle foto da un bravo fotografo: piacquero tantissimo, e così andai in Francia, a Parigi. Avevo 21 anni, fu un’esperienza fantastica. Ricordo che rimasi davanti al quadro di Adamo ed Eva non so quanto. Tanto. Mi colpì, mi avvolse, e quel giorno finii lì il mio peregrinare nei musei. Stordita dalle bellezze che vedevo»

C’è un aneddoto divertente che si ricorda durante gli anni del cinema?

«Ce ne sono tanti, soprattutto legato ai cavalli. Allora: li amavo tanto da adolescente, una mia cugina mi insegnò a cavalcare a 16 anni. Ero affascinata dal galoppo, come dalle corse in auto, faceva parte sempre della mia “inclinazione al viaggio”. A 18 anni andai a Indianapolis, in Florida, per vedere la Formula Uno con degli amici. Fantastico. Ho ancora nelle orecchie il grido dei motori»

Nel 1975 fu diretta da Tinto Brass: lo ha più sentito?

«No. Lavorai un po’ con Tinto, con “Salon Kitty” e “Action”. Poi smisi perché il mio compagno era molto geloso. Ricordo che non sapevo l’inglese, doveva doppiarmi sempre. Mi dispiace che Tinto ora non stia molto bene, non ero aggiornata su questo. Un messaggio per lui? Caro Tinto, posso dirti che pregherò per te per una pronta guarigione e una ripresa. Tu e la tua famiglia siete stati tutti affettuosi con me. Grazie ancora per quello che hai fatto per me, ti voglio bene».

Con che colleghi strinse amicizia in quegli anni?

«Helmut Berger: bellissimo ragazzo, con una grande sensibilità, tenerezza, un bel cuore. Capiva il mio imbarazzo in certe scene. Si era creato un bel rapporto sul set. E anch’io capivo lui, sentivo dei vuoti e alcune sofferenze che mi trasmetteva. Anche se tutti si fermavano sulla nostra bellezza esteriore».

Ha mai subito molestie sul set?

«No, mai subito molestie o subito maltrattamenti. Ero chiara e trasparente. Il marito me lo sceglievo io. Non amavo richieste di matrimonio né tantomeno altri escamotage per arrivare a me. Dicevo: “tu mi paghi, e io ti dò la mia immagine e il mio lavoro, ok. Poi se mi innamoro ti telefono io”. A quel punto qualcuno si infuriava. E il ricatto era sempre lo stesso: ti taglio il ruolo. A me non importava nulla, se accadeva. E poi a volte facevo finta di non capire: mi riusciva bene la parte della ritardata».

Arriviamo al giorno dell’arresto: 13 settembre 1985

«Ricordo dolente. Ero appena tornata da Riccione, mio figlio aveva 11 mesi. Avevamo trascorso una vacanza serena. Ero finalmente una mamma felice. Alle 21 qualcuno suonò il campanello di casa con tale veemenza che non ci volle molto per capire chi fosse. Il mio compagno era uscito verso le 16 e non vedendolo arrivare pensai a un incidente automobilistico. Invece fu trovato qualcosa in auto: pochi grammi di stupefacenti. L’auto era intestata a me e vennero a cercare me. Mi portarono in caserma: per interrogarmi, dicevano. Invece mi ingannarono e iniziarono già tutte le pratiche per l’arresto. Fortuna che prima di andare con loro passai da mia madre e le lasciai in custodia mio figlio: di questo la ringrazierò per sempre».

La sua carriera, poi, subì un tracollo: di lei non si seppe più nulla. L’impressione è che sparì di proposito, anche dopo essere rilasciata e dopo aver scontato i domiciliari. È così?

«Il mio lavoro e il successo diventarono l’ultimo pensiero per me. Mio figlio era al primo posto, solo lui, era molto più importante di ogni cosa per me. Anche se sulla sottoscritta leggevo e sentivo cose pazzesche».

Cosa la ferì, di più, di quello che si diceva di lei in quel periodo?

«Che ero una spacciatrice internazionale, che facevo servizi osè per pagarmi la droga: per due, tre grammi di stupefacente trovati in auto, messi non so da chi ancora. Comunque, decisi di troncare io la carriera. anche se mi offrirono cifre da capogiro, negli anni successivi alla mia disavventura. Dissi sempre no. Sempre e solo no».Finì anche in cella di isolamento, giusto?

«Sì. Quando mi arrestarono soffrii molto. Pensavo a mio figlio e all’assurdità della situazione che stavo vivendo. Era tutto così insensato. Non sapevo come fosse un carcere, né come funzionava, come comunicare, come chiamare il personale in caso di bisogno, se poteva venire mia madre a trovarmi, se potevo vedere la famiglia. Avevo un groviglio nella testa, un cuore lacerato. Non potevo continuare senza sapere niente. Appena arrivata mi affacciai dallo spioncino blindato per chiedere se ci fosse qualcuno. Silenzio. Non sapevo cosa pensare, cosa fare. Ebbi subito una crisi di nervi. Cominciai ad urlare a piangere, ma non vidi comunque nessuno. Passai attimi che non auguro a nessuno».

Poi cosa successe?

«Dopo aver pianto, mi girai. Vidi un volto amico nella cella. Subito pensai: “Sarà entrato mentre urlavo”. Lui mi guardava e non parlava, pensai che gli facevo pena. Non mi ricordavo dove l’avevo conosciuto. Aveva capelli lunghi, barba, baffi, una tunica bianca con un mantello rosso. Allora per non fare una brutta figura cominciai a riflettere su dove l’avessi mai visto. Pensai “è venuto dall’India” basandomi sul suo l’abbigliamento. O forse dall’Inghilterra. Non riuscii a ricordarlo. Ad un certo punto sentii una voce potente che diceva questo: “Non tutto il male viene per nuocere. Di lì a poco sentii tremare tutto, poi un gran senso di pace».

Un “tipo” che poi ha rivisto spesso.

«Una settimana dopo l’interrogatorio col giudice, lasciai la cella d’isolamento per andare al terzo piano con tutte le altre detenute. Appesa sul muro scorsi l’immagine di quel tipo che era venuto a trovarmi. Allora chiesi chi fosse. “E’ Gesù”, mi fu risposto in coro. Scusate, dissi io, ma “Gesù non era un bimbo piccolo in braccio alla Madonna?”. “Sì, certo ma poi è cresciuto” mi risposero le detenute, mettendosi tutte e ridere. Lì mi prese uno sgomento. Volli andare dalla psichiatra per chiederle se fossi impazzita, magari con il trauma dell’arresto. Parlammo tre ore, mi fece sentire normale. E mi diede delle pillole»

Fu quello l’inizio della sua conversione?

«Ripensando intensamente all’incontro fatto in cella d’isolamento, capii che quel tipo era davvero Gesù. E a volte quella che può sembrare una disgrazia è una salvezza. Da quel giorno mi trovai sempre al posto giusto, con la persona giusta. E alla fine pensai che l’arresto era stata, la fortuna più grande che mi era mai capitata perché da lì iniziò la mia vita. Quella vita finalmente dal senso profondo. Lasciai definitivamente lo spettacolo e iniziai il mio cammino spirituale. Dissi addio a tutto: ricchezze gioielli, firme, feste, festini, saloni di bellezza, vita sregolata, follie, false luci, discoteche, palestre e un miliardo di altre cose per incontrare spiritualmente colui che mi aveva consolato quando ne ebbi bisogno. Oggi sono 35 anni che lo seguo. Insomma, sì, la mia fede è iniziata in un carcere femminile e in un momento inaspettato e atroce della mia vita. Dal 1985 sono cattolica praticante”»

Che progetti ha, oggi, Paola Senatore?

«Vorrei tradurre la mia esperienza in qualcosa da far vedere agli altri. Vorrei dargli voce attraverso un film, curandone la regia. Una storia di vita dentro un piano celeste. Le testimonianze arricchiscono ogni persona e quando c’è una vera conversione vuoi solo raccontarla a tutti perché vuoi che tutti siano felici. Vorrei che altri si confrontassero con quello che ho vissuto io. E sa perché? Perché il mio vissuto, la mia conversione, possono essere di tutti».

·         Antonio Albanese Cetto La Qualunque.

Antonio Albanese Cetto La Qualunque diventa il re dei sovranisti. Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 su Corriere.it da Luca Mastrantonio. Albanese torna col terzo episodio della satira contro chi vuol nobilitare l’illegalità: «I giovani devon capire che abbrutisce». E a 7 racconta i momenti più tristi e allegri della sua vita. Cetto La Qualunque è tornato e si è nobilitato, diventando Re: dei qualunquisti, però. Dal 21 novembre al cinema Antonio Albanese reindossa i panni dell’imprenditore-politico meridionale corrotto fino all’inverosimile: diventa monarca grazie a una manovra di nostalgici della Corona e a un referendum online. Primo Cetto Buffo di Calabria: sovranista, familista, populista e piluista... Perché Re Cetto non perde certo il vizio del pilu... Antonio Albanese, comico lucido e raffinato, di fronte a una politica sempre più surreale ha alzato l’asticella, portando alle estreme conseguenze la somma di due dati reali: la sfiducia nella democrazia parlamentare e la tentazione di un sovranismo totalitario. Risultato? Il ritorno alla monarchia. Ma non dei Savoia, già auto-parodia, bensì dei Borbone. Il film è una satira feroce dell’Italia che non sa come uscire da Seconda e Terza Repubblica, e la risata che Albanese suscita fa pensare: «Oggi la risata è stonata, si ride per disperazione», racconta a 7. «Ma io credo che la comicità possa educare, facendo emergere aspetti nascosti. Mi piace mostrare con brutalità i lati negativi di Cetto. Voglio mostrare alle nuove generazioni, anche con la fiction I topi, che i delinquenti sono bestie, l’illegalità spegne la vita, non c’è nulla di glam». Altro che Gomorra — La serie. Oltre ai retroscena del film, dai soggetti abortiti alla collaborazione con Gué Pequeno, Albanese racconta l’amicizia con i suoi maestri, da Gaber a Villaggio, i momenti più tristi (il servizio militare) e i più felici (i panini imbottiti sul treno verso il Sud) della sua vita. Il sovranismo è anche al centro dell’analisi di Cas Mudde, politologo olandese intervistato da Massimo Gaggi, che lancia un allarme: le destre estreme che stanno emergendo in varie parti del mondo non sono un fenomeno passeggero, hanno messo radici nella cultura popolare e hanno imposto la propria agenda politica. L’altra grande minaccia per la democrazia è negli strumenti digitali, potenti nell’influenzare il voto dei cittadini e poco trasparenti. Come racconta l’ex ragazza di Cambridge Analytica, Brittany Kaiser, già tra i manager della società di consulenza fondata dal miliardario trumpiano Robert Mercer, quella finita al centro degli scandali per manipolazioni elettorali in occasione della Brexit o del voto in Nigeria. Infine, un altro dei passaggi-chiave del numero lo trovate in apertura della sezione senape: uno speciale di 30 pagine dedicate alla neve. Le campionesse olimpiche Sofia Goggia e Michela Moioli parlano di vittorie, velocità e social. A seguire tanti consigli per chi scia, da solo o in famiglia, e per chi sceglie di salire in quota anche solo per gustare piatti stellati, stare in relax, scalare pareti di ghiaccio.

Amorale, familista e populista: con Albanese Cetto La Qualunque si fa Re. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 su Corriere.it da Luca Mastrantonio. Albanese torna col terzo episodio della satira contro chi vuol nobilitare l’illegalità: «I giovani devon capire che abbrutisce». E a 7 racconta i momenti più tristi e allegri della sua vita. Antonio Albanese protagonista di «Cetto C’è senzadubbiamente», scritto con Piero Guerrera, regia di Giulio Manfredonia. Prodotto da Wildside di Mario Gianani e Lorenzo Mieli, da Fandango e da Vision Distribution (foto Claudio Iannone) Trasuda orgoglio da figlio di operai Antonio Albanese mentre gira per gli studi torinesi della Rai dove le maestranze hanno ricostruito i sotterranei dove vivono i protagonisti di I topi, la fiction tv che sta girando: «Sono artisti, non artigiani, guarda questo muschio, gocciola davvero!». Fuori da quei cunicoli, andiamo nel camerino per parlare di Cetto C’è senzadubbiamente, terzo episodio della saga cinematografica dell’imprenditore politico calabrese, campione di illegalità, Cetto La Qualunque. Scritto con Piero Guerrera, per la regia di Giulio Manfredonia (e prodotto da Wildside), sarà nei cinema dal 21 novembre. «Il percorso di Cetto non era finito, ma serviva un’idea spiazzante», racconta Albanese: «Abbiamo provato con Cetto presidente della Repubblica, Cetto golpista sudamericano, Cetto impotente, Cetto prete... Poi una mattina, finalmente lo spunto giusto. Con Piero Guerrera stavamo leggendo che in Italia sta crescendo la nostalgia verso la monarchia! Non solo tra vecchi presunti nobili, ma tra gli italiani, i potenziali sudditi!».

Penso a Pino Aprile e altri neoborbonici, sovranisti...

«Sì. Una cosa assurda, ma è anche comica. Fare qualcosa di più surreale della realtà è oggi molto difficile. Portiamo alle estreme conseguenze la sfiducia nella democrazia. Nasce così Primo Cetto Buffo di Calabria. Quest’idea, un criminale che si nobilita a fini politici, ci ha dato una spinta mostruosa a scrivere».

Cetto, che all’inizio vediamo biondo come Trump, è Re grazie a un referendum online, ama le armi più del vecchio Savoia, via web parla del Paese che ama e manda affanculo Cavour. C’è di tutto in questo Re giullare: Pantalone travestito da Arlecchino?

«Amo le maschere, sono fuori dal tempo, e nella comicità non devi mai essere in ritardo. Cetto-Trump l’ho fatto 5 anni fa da Fazio! E la comicità che mi folgorò da bambino è la tv di Oggi le comiche: sono del ‘63, avevo 10 anni e Stanlio e Ollio, Buster Keaton mi ipnotizzavano con quella comicità muta, che fa parlare il corpo. Poi all’Accademia ho studiato la comicità nobile, difficile e rischiosa: Brecht e Karl Valentin. Mi affascina l’ironia che arriva dalla sofferenza, dal dolore, che lacera i corpi ed è seria anche nei non sense. Non amo il demenziale, il non sense deve essere rigoroso, come nel monologo di Valentin L’acquario, dove per uccidere un pesce preso dall’acquario, lo si butta nel fiume, inquinato. Capito? Così si può affogare un pesce! Ucciderlo in un fiume! Questa ambiguità è stringente, come nella poesia. O in certa pittura, penso all’espressionismo tedesco legato a Brecht, di Grosz e Otto Dix. Colleziono alcuni disegni, costano meno dei quadri e mi piace lo schizzo, c’è il germe dell’idea: in uno dei miei disegni preferiti c’è un uomo, orribile, che si fa la barba con una mano e con l’altra disegna una donna nuda, ma lo fa a partire dal culo. C’è un’ironia potente».

Non la vedo, dov’è l’ironia?

«Nel mostrare brutalmente quanto sia ridicolo quell’uomo, che disegna, sa fare qualcosa di bello, ma parte dal culo della donna, è volgare. Io faccio lo stesso con i miei personaggi, Cetto guarda così le donne, lo disegno così. Mi piace indebolire, rendere ridicoli e mostrare quanto sono brutali i personaggi cattivi. Credo sia un modo efficace per contrastare questo mondo».

Facciamo i sovranisti. Torniamo a qualche maschera italiana.

«Dovrei dire Totò, che con un corpo anarchico e un volto unico ha creato una maschera senza tempo. Ma per me Fantozzi, il primo libro, è un capolavoro e Paolo Villaggio un genio. Amo la brutalità di come racconta i vizi e i virus inconfessabili del boom economico. Lui accettò di farmi un cammeo in Tutto tutto niente niente in cambio di una promessa: “Se muoio mi devi bollire”».

Fantozzi è umiliato dal lavoro, Cetto si nobilita non lavorando.

«In Cetto c’è il lato infame del lavoro: lavoro nero, criminale, lo sfruttamento. Fantozzi è un fannullone ora vittima ora carnefice, c’è il ribaltamento tipico della comicità».

Se si fossero incontrati?

«Sicuramente si creavano dei silenzi enormi, tanto è grande la distanza. Uno non poteva commentare l’altro né viceversa. Cetto è il diavolo, Fantozzi al confronto un eroe».

L’umorismo di entrambi castiga i costumi, mettendoli a nudo.

«La comicità può educare, facendo emergere aspetti nascosti, rimossi. Anche I topi, la mia fiction, parla di illegalità. Voglio mostrare alle nuove generazioni che i delinquenti sono bestie, hanno depositi di soldi ma vivono nell’ignoranza totale, nell’infelicità: l’illegalità spegne la vita. Vale anche per Cetto, che ha questa capacità terribile di portare il figlio, un bravo ragazzo, dalla sua parte: è una mia fissazione, sporcare il racconto della criminalità».

Il movente è autobiografico?

«Sì. Mio padre è andato al Nord, costretto a lasciare la Sicilia, un territorio bellissimo e meraviglioso, perché alcune persone non hanno saputo gestirlo e anzi l’hanno fatto in maniera criminale. Non è un problema solo meridionale, ovvio».

Lei è un estimatore del libro e del film di Gomorra. La fiction però rende glam il crimine.

«Gomorra film è un capolavoro. La fiction è vero, è glam, è show. Vale anche per il cibo, il glam fa perdere il contatto con la realtà. Per me è una festa il cibo, come i panini imbottiti e le frittate che invadevano l’aria nei vagoni dei treni da Milano al Sud. Altro che chef».

Albanese nel ruolo di Cetto La Qualunque nel film «Qualunquemente»

Nel monologo alla nazione, Cetto invita tutti a ridere. Abbiamo avuto un premier barzellettiere, un comico leader e oggi i politici fanno a gara di battute su Twitter. Le risate ci stanno seppellendo vivi?

«In quel monologo la risata è stonata, segna un momento di grande disperazione e rassegnazione. Viviamo un momento delicato, drammatico, io ho un po’ di paura».

Cosa la spaventa?

«L’egoismo e la stupidità, l’individualismo menefreghista. Si sta perdendo il rispetto, la gentilezza, il valore dei rapporti veri. Parlo delle piccole cose. Un esaurimento nervoso non arriva per una notizia, ma da una somma. Se butti un mozzicone per terra o nel posto sbagliato, stai facendo un danno non solo agli altri, all’ambiente, ma anche a te stesso. La città è anche tua».

Che rimedi si possono attuare? A parte i posacenere portatili...

«Bisogna ripartire dai fondamentali. Pratico e ho insegnato ai miei figli gentilezza, garbo, rispetto. Salutarsi, non stare al cellulare se sei in compagnia di qualcuno... Serve più serenità, saper individuare a chi credere per non farsi travolgere dalla centrifuga: fermarsi, capire cosa ci è finito dentro. Bisogna ascoltarsi, sentirsi di più, fidarsi del proprio istinto e del proprio gusto, farsi condizionare il meno possibile».

Un manifesto monarchico alla vigilia del referendum istituzionale con cui l’Italia scelse la Repubblica: si votò domenica 2 e lunedì 3 giugno 1946. Non farsi condizionare. Come?

«Coltivando una sana semplicità. Se hai un’idea, prova a vedere a cosa porta prima di esporla o di abbracciarla, pensa alle conseguenze. Cetto dice: prima vota e poi rifletti; no, noi dobbiamo fare il contrario».

Oggi il ritmo è social, nevrotico.

«Si scrive prima e poi si pensa. Si insulta e poi si ragiona. Follia»

Un paradigma del successo oggi sono i video virali, contagiosi.

«Questione di gusti. E di tempo. Non voglio perderlo, amo lavorare, leggere, studiare. Che senso ha vedere assieme ad altri milioni di... un cane che suona il pianoforte? Invasi da miliardi di micronotizie, patiamo la noia, ci ferma, ci blocca».

È molto duro il suo giudizio.

«Non c’è bisogno di giudicare, basta osservare, farsi domande. Mi han mostrato un video con due che fanno l’amore sugli scogli: erano isolati per chilometri. Vengono filmati con un superzoom da una barca lontana, da dove commentano “guarda che zozzoni!”; aumenta lo zoom, e quelli “proprio zozzoni!”. Ma chi sono gli zozzoni? Nessuno a bordo s’è chiesto: “Siamo noi?”»

Quali sono gli effetti collaterali?

«Perdiamo dimestichezza con la bellezza, il senso della vita. Due che fanno l’amore, in un posto isolato, non vicino alla scuola, è una cosa bellissima, per loro, per tutti. Non è da zozzoni. E c’è anche la volgarità della cultura come show. Ieri è partito un quiz con i miei amici, su chi ha scritto sul giornale: “Nel nostro tempo il carisma etico del padre ha lasciato il posto all’apologia scientista del numero. Anche la pratica delle cure risente di questo mutamento di paradigma. Diagrammi, costanti biologiche rischiano di alimentare un feticismo della cifra”».

Massimo Recalcati?

«Indovinato. Puoi essere colto ma se non hai l’intelligenza di farti capire diventi una brutta persona. Hai la tecnica, ma la tecnica è puttana, può tradire e ti tradisce. Terribile, come il cane che suona il pianoforte. Come il video di quella che si denuda e ha un trafilato nel culo».

Cos’è un “trafilato”?

«Un pezzo di ferro... è un termine tecnico, chi ha lavorato in fabbrica come me lo sa. Vedi, ho nascosto la volgarità dietro la tecnica. Ma resta volgarità. Amo la comicità perché è popolare. Nel mio pubblico c’è l’operaio e l’amico latinista».

Tra gli estimatori, c’era Gaber.

«Nel 1995 mi consegnò il premio Bernardini. Era garbato, pareva sereno ma era inquieto. Conversando, ti ascoltava riflettendo. Gli piaceva vivere e raccontare la vita, con talento naturale, una serietà incredibile e un’onestà enorme. Mi propose dei testi, mi chiese di fare Il grigio, ma era troppo suo il testo, una seconda pelle. Dissi no, non volevo sporcarlo. Non puoi rifare il gesto di un grande, è ridicolo: se tagli una tela non stai rifacendo il Concetto spaziale di Fontana, l’ha già fatto lui. Forse dopo 50 anni puoi re-interpretarlo. Magari lo farò».

Con Gaber, Jannacci, Celentano e Fo avete cantato in tv Ho visto un re . Nei titoli di coda del suo nuovo film canta un rap sovranista con Gué Pequeno: “Io sono il Re / Dio salvi me”.

«Gué è stato molto simpatico, ed era perfetto. Ha le catenozze da rapper, gli piace u pilu come a Cetto».

E molti tatuaggi. Le piacciono?

«Ho una cicatrice che mi son fatto in fabbrica. Ma tatuaggi non ne farei, non mi piace avere qualcosa che poi nel tempo io non possa togliere. Mi terrorizza l’idea di stancarmi».

Lei cos’ha in comune con Cetto?

«Nei personaggi comici metto poco di mio. Sono più vicino a me stesso nei personaggi drammatici».

In quale si riconosce di più?

«Antonio Pane, in L’intrepido di Amelio. Mi sono chiuso nel mio io, ho cercato ricordi, emozioni per arrivare alla temperatura giusta. Per esempio, il militare. Avevo 19 anni, 35 anni fa, è stato un momento davvero triste della mia vita, orribile, prendere in mano le armi, fare 4 ore sull’altana di guardia, poi due ore riposo, di nuovo la guardia, uscire ma rientrare la sera... È triste costringere un giovane uomo a non fare le cose che vorrebbe fare».

Lei ha una figlia di vent’anni e un figlio più piccolo. Da padre è flessibile sugli orari?

«Conta il rispetto. Ho una figlia meravigliosa di 25 anni, che ha seguito il suo percorso, di giovane donna, studentessa. Da adolescente le dicevo così: rispetto la tua energia, la voglia di uscire, amare, i tuoi sentimenti, ma devi rispettare la mia ansia da genitore. Se vuoi ti accompagno, ti prendo, se non c’è il tram devi prendere il taxi, ma non puoi. Quindi torna all’ora stabilita».

Altrimenti?

«Altrimenti prendevo il magnesio per l’ansia. Ma chili di magnesio».

·         I Ghini.

Camilla Ghini tra radio e tv: "Mai un favore da papà Massimo". Protagonista della nostra rubrica “Figli d'arte” è Camilla Ghini, figlia dell'attore di successo Massimo. Classe 1994, Camilla partecipa al programma “Forum” con Barbara Palombelli e si divide in due per la radio: conduce su Radio Zeta e RTL 102.5. Andrea Conti, Mercoledì 13/11/2019, su Il Giornale. “Ormai dormo dalle tre di notte alle otto del mattino, considerando poi che da una parte e l'altra di Roma ci metto un'ora in macchina. Poi devo essere pronta per 4 trasmissioni per andare in onda per 7 ore consecutive”. Una vita senza freni e la voglia di esplorare a tutto tondo il mondo della comunicazione. Camilla Ghini, classe 1994, è la figlia di Massimo Ghini. Grintosa ma anche fragile, comunicativa, bel sorriso e incurante della valanga di haters che riempiono i suoi social: “Non ne vale la pena prendersela”, ci rivela. Camilla partecipa al programma “Forum” con Barbara Palombelli e si divide in due per la radio: conduce su Radio Zeta (dalle ore 19 “Aperizeta”) e dall'una alle tre di notte è in onda su RTL 102.5 con Armando Piccolillo.

Come nasce la tua passione per la radio?

“Mi piace molto la radio, ho iniziato per diletto perché lavorando in tv, non ho avuto molto tempo per fare corsi di speaker e dizione. Così ho mandato una mail a RTL 102.5 quasi per gioco e ad un certo punto mi hanno chiamata per un incontro. Non avevo nessuna esperienza radiofonica, appena si è aperto uno spiraglio ho subito detto: 'A me va bene qualsiasi cosa, qualsiasi orario!'. Dopo qualche giorno di prova, sono entrata nella squadra di Radio Zeta. Poi, un po' a sorpresa, mi hanno chiamata per coprire la fascia notturna di RTL 102.5 con Armando Piccolillo”.

Quanto l'ambiente familiare ti ha influenzata nelle scelte professionali?

“Ho sempre avuto la passione per la comunicazione e l'intrattenimento, anche se ho cambiato molto spesso idee nella vita. A 16 anni volevo fare il medico, ho iniziato anche i corsi per la preparazione agli esami di Medicina poi sono passata alla facoltà di Scienze giuridiche. Tra i 19 ai 21 anni ho passato momenti difficili, così ho iniziato a lavorare in tv con una casa di produzione che collaborava con Disney Channel. Ad un certo punto, alcuni amici mi hanno spinta ad andare oltre – visto che sono sempre stata la leader del gruppo – dicendomi 'dovresti fare qualcosa, condurre ad esempio!'. Non sono mai stata una ragazza sicura, ma mai avrei pensato di fare tv. Ho anche recitato in un film, mi sono divertita e, ad un certo punto, mi hanno chiamata a 'Forum' perché cercavano nuovi volti. Da quel giorno ho capito che sarebbe stata la mia strada. Vorrei anche completare gli studi, perché non si sa mai nella vita. Anche se il mondo dello spettacolo è un mondo bellissimo, quello della radio mi piace molto di più perché riesco a sentirmi a mio agio e ad esprimermi liberamente”.

Hai accennato al fatto che hai avuto momenti difficili, cos'è successo?

“Tra i 19 ai 21 mi sono un po' persa. Sono stata male, non è una cosa di cui parlo volentieri e ancora oggi mi critico molto per quei momenti. Non sapevo cosa volessi studiare e quella situazione mi ha mandata un po' in crisi. Mi sono rimessa in carreggiata grazie all'aiuto di un medico e il fatto di aver trovato una cosa che mi stimolava, ossia la tv, che mi ha rimesso al mondo. Mi sono detta 'ok, la fortuna mi ha voluta su questa strada, vediamo che succede'. Se non va, cambio strada, non sono disposta a finire nei salotti televisivi e farmi vedere. Piuttosto se dovessi pensare ad un'opportunità lavorativa mi piacerebbe l'idea di raccontare storie e un talk che rappresenti storia dell'Italia e degli italiani. Faccio diversi viaggi enogastronomici in giro per l'Italia e ci sono delle storie bellissime in giro”.

Come l'ha presa papà Massimo, la tua voglia di entrare nel mondo dello spettacolo?

“Papà era preoccupato per me perché avevo cambiato idea un'altra volta e aveva ragione. Oggi è sempre un po' preoccupato, ma non per me, quanto piuttosto per i pregiudizi che pesano sulla testa dei figli d'arte. Lui lo sa bene perché questo è un molto difficile. Oggi è un attore affermato e di successo, ma anche papà ha patito momenti difficili. Si augura per tutti noi figli, la stabilità”.

Qual è stato il suo consiglio?

“Lui mi ha sempre detto 'sii sempre te stessa, impegnati, non lamentarti mai' e quando gli ho detto della radio, che avrei condotto di notte pensavo mi avrebbe detto 'mamma mia! Piccola mia, ma è troppo tardi, mi preoccupo'. No! Invece ha detto 'è giusto fallo! Sii sempre determinata, devi faticare il doppio' (ride, ndr). I pregiudizi ci sono soprattutto in tv, in radio meno... Mio padre non mi ha mai aiutato, ogni tanto glielo dico scherzando 'dammi una mano se puoi' e scoppiamo a ridere. Sono anche più che sicura che se mai dovessi chiedergli un favore mi direbbe no. Per me comunque tutto questo è una soddisfazione doppia perché ho fatto tutto da sola”.

Che rapporti hai con il tuo fratello gemello Lorenzo?

“Mio fratello Lorenzo vive lontano dal mondo dello spettacolo, siamo molto diversi caratterialmente. Però più cresciamo, più ci stiamo avvicinando. Quando si è piccoli, soprattutto nella fase adolescenziale, essere ribelli è normale. Ho avuto diversi screzi con lui, perché non mi capiva in tante cose. Quando gli dicevo che stavo male, lui non mi capiva. Ora ci cerchiamo molto più di prima”.

Hai più detrattori o ammiratori?

“Ho tantissimi haters e mi hanno massacrata. Per la prima puntata 'Forum', quest'anno, mi sono presentata con un outfit che non è stato gradito in Rete, non vi dico i commenti... Però mi sono fatta una corazza. Oggi quando leggo certe cose mi verrebbe da rispondere male, poi scopro che sono le stesse persone che incontrano per strada e ti chiedono la foto. Quindi non ne vale la pena”.

·         Alessandro Gassmann.

Le regole green di Alessandro Gassmann: «Piccoli sacrifici per salvare il Pianeta». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Ornella Sgroi. Essere ed esserci. Presenti a se stessi e per la comunità. È importante per Alessandro Gassmann (nella foto), che con il suo impegno civile e sociale crede nella difesa del Pianeta e dell’essere umano. Ci crede in quanto persona e cittadino del mondo. E in quanto personaggio pubblico, con quasi 240.000 follower su Twitter, ai quali dà il buongiorno ogni mattina e la buonanotte ogni sera. Divulgatore di conoscenza e coscienza per il bene dell’ambiente, come copertina del suo account Alessandro Gassman ha tre parole che riassumono il suo spirito green come un mantra: Reduce, Reuse, Recycle. Traduce: «Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Dovremmo fare tutti dei piccoli sacrifici, dovremmo consumare meno, riusare per non produrre altra plastica, riciclare per mettere un freno agli sprechi che il pianeta sta producendo, potrebbe essere la salvezza del pianeta stesso. Se lo facciamo tutti non sarà così terribile. Il contributo di noi cittadini è fondamentale. Bisogna pensare a chi resterà dopo di noi e attuare un mutamento concreto affinché l’economia diventi circolare e la società ecosostenibile». Questo significa essere lucidi sul presente e proiettati nel futuro che sembra invece non interessare quanti - pare strano ma ancora ce ne sono molti - vivono e operano anche nella sfera pubblica come non avessero un valido motivo per guardare dopo di sé. A differenza di Alessandro Gassmann: «Io lo faccio per mio figlio e, se lui avrà un giorno dei figli, per i miei nipoti. Per essere ricordato come un nonno che, pur avendo fatto parte delle generazioni che hanno utilizzato fossili per andare avanti togliendo aria a chi veniva dopo di lui, a un certo punto ha fatto di tutto, nel suo piccolo, per evitarlo. Non è un eccesso di generosità, ma una questione familiare. Poi, se ci riesco, meglio pure per gli altri!» ride. Anche come ambasciatore di buona volontà dell’Unhcr, Gassmann continuerà la sua campagna per l’ambiente, mettendo al servizio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati il suo sguardo da regista e autore, come aveva fatto nel 2015 con il documentario Torn, in cui raccontava i «fiori che nascono tra le macerie» dei campi profughi in Giordania e Libano. «L’Unhcr - spiega - ha anche dei progetti sull’ecosostenibilità nell’Africa equatoriale. Grazie al loro aiuto intere popolazioni stanno ripiantando milioni di alberi per combattere la futura desertificazione di quelle aree. Muri di verde per bloccare il deserto e per produrre più ossigeno, con la speranza che chi è costretto a migrare non abbia più bisogno di farlo». Salvandosi così da una contemporaneità «un po’ troppo ricolma di odio, tra razzismo e xenofobia, rigurgiti di disumanità che stanno sempre più violentemente venendo fuori», non a caso al centro del film Non odiare, opera prima di Mauro Mancini, che Gassmann ha appena finito di girare. «In questo momento ci sono capi di Stato e primi ministri populisti, che puntano solo a guadagnare consensi a discapito della qualità delle proprie proposte. La politica dovrebbe essere una cosa altra e alta, creare società dove vivere sia più semplice e promettente, più remunerativo per tutti. Ma non sta succedendo. Abbiamo dittatori alle porte di casa, in Turchia stanno avvenendo cose terribili, la stampa viene imbavagliata, imprigionata, torturata, e questo non fa parte della democrazia. Restare indifferenti è altrettanto pericoloso». Arte, politica, sociale e impegno civile. Alessandro Gassmann li mette insieme destreggiandosi abilmente tra cinema, televisione e teatro, fra dramma e commedia. Da attore ha affrontato la sindrome di Down nel film Mio fratello rincorre i dinosauri usando il sorriso, perché «è molto più utile raccontare una storia su un disagio facendo anche sorridere, con empatia e senza patetismi o piagnucolii». Ha disarmato i pregiudizi sull’omosessualità in Croce e Delizia perché è contro le etichette, «che spesso i social alimentano semplificando tutto per mancanza di cultura e tendenza alla banalizzazione, in una società francamente molto migliorabile». Da regista ha esplorato la paternità con Razzabastarda e Il premio, legato a doppio filo con Il silenzio grande diretto a teatro su testo di Maurizio De Giovanni:«Essere padre incide sul mio percorso umano come su quello di chiunque altro, solo che io lo esprimo attraverso il mio lavoro. Siamo tutti figli. Molti di noi sono anche genitori, quindi siamo tutti interessati all’argomento, che qui diventa parola, emozione, divertimento». Parlando di silenzi e del tempo che «alla mia età scorre ancora più veloce e accelera il ritmo» dice che «ci sono due tempi nella mia vita». Così divisi: «C’è il tempo del lavoro, che mi piace tantissimo, frenetico, dispendioso dal punto di vista fisico, e creativo. E il tempo della vita, che è la mia famiglia, mia moglie, mio figlio e anche me stesso». Un po’ a Roma, la sua città, che ama al punto da combatterne in prima persona il graduale degrado. E un po’ a Napoli, sua città onoraria dopo il successo dei Bastardi di Pizzofalcone: «Napoli in questo momento è il centro culturale del Paese e sta reagendo meglio delle altre città alla crisi generale perché è da sempre abituata a cavarsela. Roma invece è sempre stata protetta dalla politica e dal turismo e non sta reagendo perché i romani sono viziati, seduti, osservano basiti il decadimento ormai decennale di questa meraviglia. Sono curioso di vedere come si evolverà la situazione in questo Paese. La sensazione è che si stiano accantonando i problemi come le molliche sotto il tappeto. Ma toglierli alla vista non è la soluzione».

·         Silvio e Gabriele Muccino, fratelli-coltelli.

Silvio e Gabriele Muccino, fratelli-coltelli: cosa è successo in questi anni, tra accuse e querele. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 su Corriere.it da Arianna Ascione. Le tappe della guerra in atto tra il regista e suo fratello, che va avanti da più di dieci anni tra recriminazioni private e accuse pubbliche. A dispetto di quanto riportato dal settimanale Chi Silvio Muccino non lascerà il mondo del cinema per dedicarsi alla falegnameria in Umbria, novello Harrison Ford agli esordi, nonostante si sia da tempo trasferito lì per ritrovare un po' di pace e soprattutto rimettere insieme i pezzi della sua vita: la guerra con il fratello Gabriele infatti (che il prossimo anno tornerà al cinema con il film «Gli anni più belli») va avanti da più di dieci anni, tra recriminazioni private e accuse pubbliche.

Gli attacchi di Gabriele. Le prime avvisaglie di una forte tensione in casa Muccino sono trapelate per la prima volta in un'intervista del 2010 rilasciata da Gabriele a Repubblica. Il regista in quell'occasione aveva raccontato di non parlare con Silvio da tre anni: «Il cruccio più grande è che ho un fratello che si è isolato dalla famiglia e naturalmente da me. Certo, non lo vedo da tre anni, non risponde se cerco di contattarlo, non si fa vivo». Su Twitter invece, meno pacatamente, aveva attribuito la colpa di quel prolungato silenzio a Carla Vangelista, scrittrice e sceneggiatrice con cui Silvio collaborava da tempo, che a suo avviso avrebbe plagiato suo fratello allontanandolo dalla famiglia (salvo poi chiederle scusa a distanza di qualche anno, dopo aver anche ricevuto da lei una querela per diffamazione).

Lo scontro a distanza da Daria Bignardi. A distanza di qualche anno, nel febbraio 2015, Silvio aveva deciso di rompere pubblicamente il silenzio sulla vicenda a «Le Invasioni Barbariche», seduto alla stessa scrivania dove a gennaio dello stesso anno era stato seduto suo fratello Gabriele: «Il problema di questa dichiarazione così violenta, aggressiva e spregiudicata - aveva detto in riferimento all'accusa di plagio - è che non si tratta di una affermazione corroborata dai fatti, ma è un'affermazione detta da lui a una donna che nemmeno conosce e che non ha mai visto. Per questo rimango basito davanti alle dichiarazioni di Gabriele che mi violentano ogni volta. Io non lo chiamo perché ho chiesto il silenzio, basta avere rispetto per il dolore dell'altro. Io ho avuto sempre molto rispetto per il dolore di Gabriele, infatti non ne ho mai parlato. Quello che vorrei ora è il rispetto».

Le accuse a «L'Arena». L'intervista a «Le Invasioni Barbariche» era stato soltanto un preambolo di quello che sarebbe successo dopo. Nel 2016 in diretta a «L'Arena», Silvio ha lanciato una serie di accuse molto pesanti: «Sua moglie Elena spesso mi raccontava che lui veniva alle mani ed era violento e aggressivo. Ci sono stati ripetuti episodi di violenza domestica». In un'occasione, ha raccontato, Gabriele con uno schiaffo le avrebbe anche perforato un timpano, e quando si è trovato davanti ai giudici per fornire la sua versione dei fatti avrebbe reso una falsa testimonianza: «Sono stato indotto a mentire e ho negato questo schiaffo davanti ai pm. La mia famiglia ha fatto figurare che fosse un incidente avvenuto in piscina. E alla fine io ho reso falsa testimonianza. Era una mia responsabilità e scelsi la mia famiglia anziché la verità, non me lo sono mai perdonato, avevo 24 anni e feci crac». Risale a quel preciso momento la decisione di allontanarsi dalla famiglia.

Il processo per diffamazione. «Prima di denunciare ho sopportato troppo». In seguito alle forti dichiarazioni di Silvio anche Elena Majoni, che è rimasta sposata con Gabriele dal 2002 al 2006, ha voluto dire la sua in un'intervista al Corriere: «A seguito di quell'episodio la cui verità è stata volutamente occultata durante il processo di separazione, Gabriele Muccino ha cavalcato l'onda mediatica definendomi come arrampicatrice sociale con la sola finalità di ottenere soldi e pubblicità e sostenendo come io rivelassi menzogne». Nel frattempo però il regista (che aveva replicato su Facebook «La vanità, ahi la vanità! Ex mogli che infangano ex mariti omettendo, mistificando, imbrattando. Quante ne abbiamo viste di queste storie...» alle accuse dell'ex) ha denunciato il fratello per diffamazione. Silvio è stato così rinviato a giudizio dal gup del tribunale di Roma: la prima udienza è stata fissata per il 14 gennaio 2020 per cui si dovrà attendere ancora qualche settimana prima di poter scrivere la parola fine (forse) su questa guerra fratricida.

Da corriere.it il 15 novembre 2019. Diminuire lo stress. Trasferirsi in campagna. Cambiare lavoro. Chi non ha mai pensato a una svolta radicale? Silvio Muccino lo avrebbe fatto davvero e avrebbe scelto la bella collina umbra per la sua nuova professione da falegname. Ma dalla sua agenzia, CDA, Studio di Nardo: «Non si è mai ritirato, non ha aperto una falegnameria e sta valutando molti progetti cinematografici».

Francesca Galici per ilgiornale.it il 15 novembre 2019. Il mondo dello spettacolo attira a sé moltissima curiosità e sono tanti quelli che vorrebbero lavorarci, diventare famosi e importanti. Sono pochi quelli che ci riescono e ancor di meno quelli che sono in grado di trovare costanza. C'è chi cerca in tutti i modi di stare a gala e chi, invece, capisce che il suo destino non è quello. Tra questi ultimi pare ci siano due volti molto noti, che hanno deciso di cambiare vita e voltare le spalle al mondo dello spettacolo. Loro sono Silvio Muccino e Ariadna Romero, che in contesti diversi e in modo diverso hanno intrapreso la stessa strada. Di Silvio Muccino si sono perse le tracce da ormai diverso tempo. L'ex bambino prodigio del cinema, fratello di Gabriele, sembrava destinato a una carriera scintillante nel mondo dello spettacolo. Dopo alcune pellicole di successo, sia come regista che come attore, alcune delle quali con suo fratello Gabriele in regia, Silvio Muccino pare abbia deciso di dire addio alle scene. Non è chiaro se in questa decisione abbia influito la lunga “faida” tra i due fratelli, il cui ultimo atto si è consumato in un tribunale italiano per l'accusa di diffamazione mossa da Gabriele nei confronti di Silvio. Come riportato dal settimanale Chi, Silvio Muccino per il momento ha deciso di smettere con il cinema e si è trasferito nella quiete dell'Umbria, dove ha aperto un mobilificio artigianale. Qui, il più piccolo dei fratelli realizza a mano mobili per la casa, che pare abbiano un discreto successo, tanto che i prodotti col suo marchio vanno letteralmente a ruba. Silvio Muccino non ha mai nascosto la sua grande passione per la lavorazione del legno e pare che abbia trovato il suo angolo felice dove coltivarla. Ariadna Romero non ha deciso di lavorare il legno ma in un certo senso ha seguito la stessa strada di Silvio Muccino e per il momento ha lasciato il mondo dello spettacolo. Anche la sua storia trova spazio nel numero in edicola del settimanale Chi, che ha beccato l'ex naufraga in una filiale alla moda di un noto brand di automobili sportive di lusso. Al contrario di quello che potrebbe sembrare, la modella non ha deciso di acquistare un nuovo bolide ma quella è la sua nuova sede di lavoro. Pare, infatti, che Ariadna Romero sia stata assunta come addetta marketing del brand italiano. Dopo l'esperienza all'Isola dei Famosi, pare che la ragazza abbia deciso di dare una svolta alla sua vita e di provare a cambiare lavoro. La modella è anche recentemente tornata single ma ha trovato un nuovo equilibrio con Pierpaolo Pretelli, modello e padre del suo bambino.

·         Mauro Pagani racconta Guccini.

Mauro Pagani: «Nella prima raccolta di canzoni di Guccini volevano cantare tutti L’avvelenata». Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. «Erano gli inizi degli Anni 90. Prima chissà, perché avevamo giri diversi non c’eravamo mai incrociati. Una sera, al premio Tenco di Sanremo, Guccini mi passa vicino e mi dice: “Te’, che sei una trrroia - arrotando la erre come fa lui -, hai suonato con tutti e con me no! Ti sto sul c...?!”. Risposi: “Ma tu non me l’hai mai chiesto!”». Mauro Pagani, 73 anni, uno dei grandi musicisti italiani, ex PFM, ex collaboratore principe di Fabrizio De André (con cui ha realizzato gli album Crêuza de mä e Le nuvole ), compositore di canzoni e di colonne sonore (quest’anno per il film di Salvatores Tutto il mio folle amore ), concertista («Ho contato duemila esibizioni alla fine degli Anni 80, poi ho smesso di contare») ride, con la sua aria sorniona. È seduto in quella che chiama la sua tana: una stanza piena di chitarre e di ricordi sopra le Officine Meccaniche, il suo studio di registrazione, il più grande di Milano «e forse d’Italia». Sparse per la grande camera, chitarre elettriche rosse, nere, color legno, una testa di Buddha, quadri del ponte di Brooklyn: «Ho avuto casa a New York, per un periodo. Andavo lì a far respirare la testa: suonavo nei locali a dieci dollari a sera. Funzionava così: ti convocavano, arrivavi e nessuno dei musicisti conosceva gli altri. Non potevi neanche metterti d’accordo sulla tonalità. Suonavi e basta: certe volte era una schifezza, ma certe altre era magnifico».

Alla fine con Francesco Guccini non avete mai suonato ma ora lei ha prodotto e arrangiato Note di viaggio , la prima raccolta delle canzoni più belle del cantautore che l’anno prossimo festeggerà 80 anni: tra gli altri, Elisa canta Auschwitz , Ligabue Incontro , Brunori Sas Vorrei , Giuliano Sangiorgi Stelle , Manuel Agnelli L’avvelenata , la canzone del «Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto...», che con le sue parolacce ha liberato il linguaggio - e non solo - dei teenager di un paio di generazioni.

«Ognuno ha scelto la preferita. Ma questa, a dire il vero, la volevano fare tutti! Avevo pensato di farne una canzone corale. Poi era troppo complicato metterli insieme. Così, con Manuel, la canto io».

Perché Guccini, perché ora.

«Le sue canzoni erano state una folgorazione, quando ero ragazzo. Ricordo Auschwitz, che qui Elisa canta da dio e ha scelto ricordando uno zio deportato a Buchenwald».

Cosa dicevano?

«Da ragazzo suonavo musica da camera di Mozart: io al violino, mio padre al flauto - bravissimo - e un calzolaio del paese al sax tenore al posto del violoncello. I brani di Francesco, proprio come Mr Tambourine man di Bob Dylan, mi fecero pensare: “Allora si possono fare anche canzoni belle e intelligenti!” Il repertorio di Francesco era più ricco di quanto la gente ricordi».

Molto politico.

«Questa è finita per essere la sua condanna: più la canzone è diventato svago, più chi faceva riflettere era da emarginare. E poi la sua erre - una volta gli dissi che era moscia e lui precisò “ È gutturale”... - marcava le canzoni così tanto da impedire di pensarle con altri interpreti».

Chi ha cantato in questo album come ha scelto il proprio brano?

«Per alcuni Guccini è stato importante nel periodo formativo. Malika mi ha detto subito: Canzone quasi d’amore è stata la colonna sonora della mia adolescenza. Molti lo conoscevano attraverso i fratelli maggiori. Sangiorgi l’ha spiegato: “A casa era appiccicato ai muri, i miei lo ascoltavano di continuo”».

Un grande cantautore e grandi interpreti, a loro volta cantautori. «L’obiettivo di questo lavoro era fare in modo di rispettare il pezzo originale ma anche che ogni pezzo sembrasse un brano del repertorio del cantante che l’ha eseguito».

Oggi però si tende spesso a lavorare insieme per il mercato. Tante collaborazioni nascono per questo.

«Negli Anni 60 e 70, ognuno aveva molto da dire, e anche se labili, i confini fra gli artisti erano marcati. Difficile nascessero unioni. Adesso, sul modello anglosassone, il featuring ( l’ospitata di un altro artista in una canzone, ndr) è organizzato dalle case discografiche: a parte il caso di alcuni equipaggi, come quello di Salmo, molto unito, spesso si tratta di fare oggetti confezionati. Prendiamo lo spandersi a macchia d’olio delle mode musicali: deriva dal desiderio di ricerca di un’identità di gruppo, in sostituzione di quelle individuali, che tutti fanno fatica a trovare».

Può produrre comunque qualcosa di positivo?

«Le collaborazioni sono sempre fondamentali per la crescita. E comunque il mercato discografico sta lottando per sopravvivere: non ci si rende ancora conto di quanto sia difficile vivere di musica, a parte per alcuni privilegiati. C’è gente che fa dischi che ha un doppio lavoro, che fa fatica a pagarsi il disco».

Quindi, che fare?

«Bisogna far capire alla gente: ti piace quel cantante? Compragli il disco, così ne farà un altro. Se lo fai sopravvivere, lo difendi anche dai condizionamenti dell’industria».

Alla musica italiana cosa manca?

«La crisi generalizzata è una crisi di ispirazione. Intanto la società, che è sempre il motore degli stimoli, manda segnali confusi. Così siamo pieni di talent show che creano interpreti e non autori: vanno avanti per mesi a suonare musica d’altri e poi cadono sul pezzo loro, peraltro spesso scritto da autori che hanno un contratto con la casa discografica proprietaria del marchio. In rari casi è di giovani con una loro personalità: questi sono i pochi che si affermano. Ma noi non abbiamo bisogno di così tanti interpreti!».

Negli anni forti di Guccini la società aveva spinte più intense.

«Soprattutto aveva capacità di sognare. Di immaginare un mondo diverso da questo. Ecco il problema. Beati gli uomini sfiorati dall’utopia. La cosa che chi ascolterà il disco percepirà è quanto Guccini non sia un autore barricadero e basta. E invece è capace di profonda poesia. E infatti, l’inedito che contiene il disco è una poesia in dialetto di Francesco - Natale a Pàvana - che ho musicato io. Una sorpresa».

«Mai comunista, ma voto Pd. La destra? In Emilia non passa. E ora Grillo dia una mano». Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Ascione, inviato a Pavana.  Il cantautore: le «sardine» non c’entrano con chi aveva l’eskimo. È un fenomeno divertente. È bello riappropriarsi della piazza.

Francesco Guccini, la sua anima è comunista, anarchica o libertaria?

«Comunista? Macché. Ero pure antisovietico. Cinque anni fa feci un endorsement per un consigliere di Leu, Igor Taruffi. Una persona che stimo molto. È di Porretta. Lui sì, viene dal Pci. Una sera gli ho detto che non sono mai stato comunista. Ha fatto una faccia...».La parlata del Maestrone è lenta. Le parole non si buttano, lui le cesella con quel tono profondo. Un impasto d’Emilia con affaccio toscano: all’incrocio tra Modena, l’Appennino, e via Paolo Fabbri 43. E un’eco pregnante di donne, eroi, amori e politica. Queste sono le storie del bardo. Guccini è seduto a capotavola, nella cucina della dimora antica: la casa di Pavana, scrigno di memorie, dove si è ritirato vent’anni fa, sulle montagne tra Bologna e Pistoia. Sono venuti fin quassù per incidere il nuovo album: Note di viaggio, in cui anche il Maestrone, a sorpresa, torna a cantare. Alla sua sinistra, incastrata nella vetrinetta, c’è una vecchia cartolina: quattro compagni davanti a una sezione del Pci, «inviata da un caro amico che lavora alla Bce».

Insomma Guccini, se non comunista, un po’ anarchico lo sarà stato. La Locomotiva, «trionfi la giustizia proletaria»...

«Che cosa c’entra? Quella è una storia che ho voluto raccontare. La storia del macchinista Pietro Rigosi. E poi l’anarchia non esiste più. De André è stato anarchico».

E allora: libertario?

«Forse libertario... Io sono sempre stato un azionista. I miei riferimenti erano Giustizia e libertà, i fratelli Rosselli».

E oggi qual è il suo partito.

«Il Pd. Meglio Zingaretti, ma lo votavo anche quando c’era Renzi. La sinistra ha sempre questo dramma, seimila correnti, è così dal congresso di Livorno».

A gennaio si vota in Emilia-Romagna. Vince la Lega?

«Non credo, questa è una Regione governata bene. C’è un’ottima sanità e anche la scuola... Beh, quella lasciamola perdere, la scuola è un problema nazionale. Ma certi sondaggi, persone più addentro di me mi dicono che può andare bene».

Lei scommette sul Pd, però intanto Salvini ha conquistato Ferrara.

«E io ci sono rimasto male. Anche se non mi ha del tutto stupito. In fin dei conti pure il fascismo fu subito molto forte a Ferrara».

Paragona il fascismo alla Lega?

«Il fascismo ha molti modi di presentarsi. È ovvio che non può essere quello di allora. Ma questa destra è feroce, cattiva. Una destra che ha chiesto pieni poteri. C’è un’anziana signora sopravvissuta ai campi di concentramento, come Liliana Segre, costretta a girare con la scorta».

Salvini e Meloni hanno comunque dichiarato la loro solidarietà alla Segre. Non sarà che l’ex popolo di sinistra trova più risposte a destra?

«Ho un amico che è stato sindaco pci a Ceriano Laghetto. Adesso c’è un sindaco della Lega. Molti evidentemente erano già leghisti dentro. Non si può dire: io sono comunista ma i neri non li voglio».

Lo sa che per questa affermazione le hanno dato del «sedicente intellettuale pervaso da snobismo»?

«Ringrazio per intellettuale».

Forse anche in Emilia il ceto più benestante nelle città voterà Bonaccini e la provincia più profonda e impaurita sceglierà Borgonzoni. È il modello Brexit.

«Io non direi il ceto più benestante, ma quello più acculturato. Più informato».

Ha definito i 5 Stelle degli impreparati che parlano come Testimoni di Geova. Conferma?

«Diciamo che hanno l’entusiasmo dei giovani che abbracciano completamente una causa ma che una volta al governo scoprono di non poter fare più i duri e puri. Certo, sarebbe meglio se qui dessero una mano».

Però ci sono le «sardine». Riempiono le piazze come fece Grillo a Bologna con il Vaffa day.

«È un fenomeno divertente. È bello riappropriarsi della piazza. Una piazza può gridare libertà».

Negli anni 70 avrebbero indossato l’eskimo?

«Quelli erano duri. Qui ci sono anche tanti ragazzi che provengono dall’area cattolica, dai Boy Scout».

E se la invitano è pronto a farsi anche lei sardina?

«Potendo, perché no».

Grillo lo conosce?

«L’ho incrociato una volta. Vorrei far notare che piazza Maggiore con il mio concerto dell’84 l’ho riempita più di lui. E anche il PalaDozza. Vedo comunque che sta svoltando. Mi ha colpito una sua frase: bisogna fermare i barbari. I 5 Stelle devono stare attenti a non fare la fine dell’Uomo qualunque. Anche Guglielmo Giannini, in fin dei conti, era un uomo di spettacolo».

Guccini, si può affermare che è tornato in scena con la sua ultima canzone, «Natale a Pavana»?

«No, hanno fatto questa operazione gustosa, interessante. Non c’è alcun ritorno. Io mi sento uno scrittore. Quando iniziai a scrivere a vent’anni per la Gazzetta dell’Emilia, questo volevo fare: lo scrittore. Così è anche ora, che a causa dei miei occhi quasi non leggo più».

·         Gianni Fantoni.

Armando Sanchez per “Novella 2000” il 12 Novembre 2019. Raggiungiamo Luca Ward durante le prove di The Full Monty, spettacolo teatrale diretto da Massimo Romeo Piparo che ripropone in chiave attuale e italiana la trama dell’omonimo film inglese del 1997. La voce profonda, calda e maschia è quella che doppia Russell Crowe, il Gladiatore che dice “scatenate l’inferno” e scatena davvero un inferno di ormoni. Nello spettacolo Ward però non si limita a usare la voce per stupire: tutti sanno che si spoglia e tutti aspettano la scena di nudo integrale prevista dal copione.

Sul palco con Paolo Conticini, Gianni Fantoni, Jonis Bascir e Nicolas Vaporidis, a un certo punto apparite completamente nudi. Imbarazzati?

«Nessun imbarazzo! Ci siamo decisamente divertiti. Dal mio canto, non trovo nulla di male a mostrarmi come mamma mi ha fatto. Inoltre, credo che pur non essendo più giovanissimo, di avere ancora un corpo prestante...».

E il pubblico come reagisce allo spogliarello?

«Dalla platea partono risate, ma anche applausi. La gente si diverte, anche perché, non essendo provetti ballerini ci muoviamo in modo goffo. Questo ci rende inevitabilmente comici».

E le donne? Apprezzano o si imbarazzano?

«Abbiamo notato che al momento dello strip integrale tutte le signore si sono coperte gli occhi, ma secondo me, e sfido chiunque a pensare il contrario, hanno allargato le dita per sbirciare. Trovo la cosa molto divertente!».

Si dice che il suo collega di scena Paolo Conticini là sotto sia superdotato. Confessi, è vero?

«(Scoppia a ridere, ndr) A dire il vero siamo tutti nella media, tranne uno!».

Fuori il nome, subito.

«Gianni Fantoni. Nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato e invece quando si è tolto il tanga per la prima volta durante le prove dello spettacolo siamo rimasti senza parole! Enorme!».

Uomo fortunato.

«Fortunato sì! Fantoni già faceva parte del primo cast di The Full Monty sette anni fa e dopo quella prima esibizione ha trovato l’amore tra il pubblico in platea. Sarà un caso...».

Siete una compagnia di attori molto diversi, come vi siete trovati a lavorare insieme?

«L’idea del regista Massimo Romeo Piparo è stata proprio quella di mettere insieme tutti attori differenti, non di età, perche più o meno siamo vicini, tranne Vaporidis che ha 40 anni, ma con delle esperienze variegate in ambito artistico. Il segreto del nostro successo è che ce n’è per tutti i gusti. Lo spettacolo fa ridere, ma affronta anche argomenti di attualità, come la disoccupazione, le diversità e l’affidamento dei figli. Diciamo che è un show completo».

Aveva già fatto scene di nudo?

«Certo. Nella fiction Elisa di Rivombrosa, dove interpretavo il duca Ranieri, avevo una scena erotica con Jane Alexander. La bravissima regista Cinzia Th. Torrini pensò di mettere in risalto i miei glutei durante tutta la sequenza. La cosa mi piacque molto. Dopotutto ho da sempre un sedere invidiabile».

Cosa che non passò inosservata neanche agli uomini, ricordo.

«Sa quanti ragazzi omosessuali mi incontravano per strada e si complimentavano anche in maniera appassionata per le mie forme? Che ricordi! Questo mi ha sempre fatto piacere, perché un apprezzamento fatto da un uomo ha un valore aggiunto».

·         Emily Ratajkowski: "È difficile essere sexy".

Emily Ratajkowski dichiara: "È difficile essere sexy". La top model ha affermato di essere stata considerata da sempre una donna sexy e di come ciò le abbia portato sia vantaggi che svantaggi. Biagio Carapezza, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Emily Ratajkowski ha dichiarato di avere un "complicato rapporto" con il suo aspetto fisico e con l'essere un sex symbol. La 28enne top model statunitense ha rilasciato alcune dichiarazioni in merito durante un episodio del Pretty Big Deal, il podcast settimanale curato dalla modella curvy Ashley Graham. Nel corso dell'intervista, la conduttrice ha chiesto alla Ratajkowski se fosse stata da sempre considerata una "ragazza sexy". La modella ha dato una risposta affermativa confermando che da sempre è conosciuta come "quella sexy". Questa etichetta ha avuto per lei sia risvolti positivi che negativi. La Ratajkowski ha infatti spiegato: "Penso di avere una relazione complicata con l'essere sexy. Sicuramente ci ho trovato un incredibile potere per me stessa. Mi sento più forte, non in termini di soldi o di carriera. Intendo che mi sento bene e potente nel mio corpo". Quindi ha proseguito affermando: "Però c'è anche un'altra parte di me e, come capita a tutte, vorrei far capire che io sono molto di più che solo quello". La Graham ha chiesto allora se non si sentisse "messa in una scatola". Dopo aver annuito la Ratajkowski ha aggiunto: "Quando sei nella scatola della moda, sei bloccata lì dentro ed è molto dura mettersi in luce in ambiti editoriali o affaristici". La modella già in passato aveva parlato dei pregiudizi derivati dal suo aspetto fisico: "Se sei un'attrice sexy, è difficile che otterrai ruoli seri. Ti verranno offerte sempre le stesse cose, cose già viste. Le persone sono come pecore e si dicono 'Oh, è questo che lei sa fare'". Riferendosi forse in maniera indiretta alla sua stessa carriera di attrice che stenta a decollare e limitata ad oggi a ruoli secondari in film tutt'altro che memorabili.

·         Valentina Dallari.

Valentina Dallari: "Per abbattere i pregiudizi, mi sono ammazzata in tutti i sensi". Valentina Dallari si racconta in una intervista: dalla partecipazione a Uomini e Donne alla rinascita dopo la malattia che le ha dato la possibilità di migliorarsi con una "versione 2.0" di se stessa. Luana Rosato, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. Ex tronista di Uomini e Donne, oggi dj ed autrice del libro “Non mi sono mai piaciuta”, Valentina Dallari ha deciso di aiutare con la sua esperienza tutte le persone che, come lei, soffrono di disturbi alimentari. Ora, ad aver imparato ad accettarsi ignorando completamente gli attacchi degli hater e prendendo in considerazione solo i giudizi delle persone a cui vuole bene, Valentina racconta di essere “tornata quella che era prima della malattia, ma in versione 2.0”.

Era il 2015 quando sei approdata sul trono di Uomini e Donne. Cosa conservi di quella esperienza arrivata quando avevi solo 20 anni?

"Avevo 20 anni ed è stata un’esperienza un po’ forte: mi ha dato tanto, ma mi ha tolto anche tanto. Io sono sempre stata convinta che fossi un pochino troppo giovane per essere così esposta. Sono stata sempre una ragazza troppo matura, ma forse non ero arrivata ancora a certe consapevolezze. Essere lanciata in mezzo tanti commenti, persone, situazioni... Ci sono stata bene, è stata una esperienza che mi ha permesso di iniziare ciò che sto facendo ora, è una cosa che ringrazio, ma ha avuto il suo prezzo".

Uomini e Donne ti ha regalato la notorietà, ma c’è stato un rovescio della medaglia: l’esposizione sui social ai commenti di chiunque, anche di chi non ti amava o di chi ha voluto rovesciare su di te l’ odio che covava dentro.

"A 20 anni non hai neanche le basi per avere un certo tipo di corazza per l’esterno. Ero abituata ad una realtà cittadina bolognese, ma non ero abituata ad essere così esposta. Quando l’ho fatto ci ho pensato, ma non lo potevo immaginare quanto fosse grande anche perché è un programma seguitissimo".

Terminata la partecipazione a Uomini e Donne hai deciso di lasciare da parte il mondo dello spettacolo per dedicarti alla musica. Era una passione che coltivavi da tempo o è nata col passare degli anni?

"Io sono sempre stata una ragazza atipica nel senso che il mondo dello spettacolo mi ha sempre interessato il giusto. A Uomini e Donne mi ci sono trovata, avevo 20 anni e ho pensato di provarci. A 25, ad esempio, non lo avrei fatto. L’ho vissuto come esperienza, poi con il tempo ho deciso di seguire i miei più veri interessi: la musica e altro. Quel mondo lì non so se mi appartiene così tanto, io sono più musicale. Adesso ho fatto pace con la televisione: lo scorso anno ho fatto "All Together Now", era un programma diverso e ho capito che a quel livello lì mi piace molto. Mi è servito per fare pace con il mondo della tv".

Nel mondo della musica hai mai dovuto fare i conti con i pregiudizi di chi pensava fossi “arrivata” solo perchè “ex tronista” e quindi personaggio con un certo numero di seguaci dovuti alla notorietà televisiva?

"Assolutamente. Quell’ambiente è come tutti, ha i suoi pro e contro, si sa che è un ambiente un po’ sessista, più maschile. Se sei una ragazza che entra in questo mondo, non ti accolgono a braccia aperte, poi se sei una ragazza che arriva dal mondo della televisione per loro sei proprio il 'diavolo'. Pregiudizi li ho avuti da persone che hanno iniziato a sentirmi suonare e per me è stato frustrante. Io, però, non mi ci sono improvvisata. Ho studiato, mi sono allontanata e ho messo in stand by tutto tanto da non avere più entrate, perché volevo farlo bene. Adesso sono stata ripagata. I pregiudizi, però, sì, ci sono stati, ma non mi è mai capitato di sentire ad una serata che 'ho fatto schifo'".

Il successo nel lavoro, però, è coinciso con un periodo molto difficile della tua vita: ti sei ammalata di anoressia e anche in quel caso la rete non è stata gentile nei tuoi confronti. Quali sono stati i commenti e le offese che ti hanno fatto più male?

"Alcuni commenti tra i peggiori li ho tenuti: "Mangia invece di alcolizzarti", "Sei una scema", "La sposa cadavere". Ero malata, è stato squallido. Mai mi permetterei di insultare una persona malata anche perché questa malattia è molto sottovalutata, si pensa che dipenda da una questione estetica, ma è anche una questione psicologica. Ora sono incazzata nera, non so perché, forse sta uscendo fuori tutto adesso. È stato veramente squallido perché finché non ho detto che mi andavo a curare, prima ero una persona su cui sparare addosso. E non ne capisco il motivo, forse la gente cerca qualcuno da bullizzare. Il successo nel lavoro è arrivato in concomitanza a questo perché sono una perfezionista. Mi sono dedicata anima e corpo per far sì che superassero i pregiudizi che avevano nei miei confronti. Per far vedere, per dimostrare, mi sono ammazzata in tutti i sensi".

Quando eri ricoverata per curare i disturbi alimentari, cosa ti ha spinto a farcela e a non lasciarti travolgere da tutto?

"Quando mi sono andata a curare non è stata una mia scelta, mi ha mandato mia sorella. Io non me ne rendevo conto, ma ero ad un livello basso e sono rimasta lì per lei. Il mio percorso è durato un anno, ma dura tutt’ora perché è una cosa con cui convivi. Io sono arrivata con zero voglia di guarire. È stato vivere vivendo. Ho iniziato a capire dopo 4 mesi che qualcosa non andava. Ho iniziato a fidarmi dei medici, mi sono sentita accolta e in un ambiente protetto: così fai uscire il meglio di te, loro ti fanno fare attività e torni un po’ bambino. Queste cose mi hanno aiutato ad apprezzare di nuovo la vita e, piano piano, ne esci. Come ho scritto nel libro, "il passo emotivo è il passo clinico" perché è una malattia tutta psicologica. La partenza migliore è quella di farsi aiutare".

La tua storia è diventata un libro, “Non mi sono mai piaciuta”. Hai raccontato che sin da bambina non amavi guardarti nelle foto tanto da cancellarti con la penna nera. Oggi, guardando la Valentina di allora, cosa ricordi?

"Ora sono la stessa, sono tornata quella che ero prima della malattia in versione 2.0. Ero piccola, non potevo avere la consapevolezza che ho ora. Avrei dovuto parlare un po’ di più, se mi fossi fidata un po' di più degli altri, mi sarei sentita meno sola, avrei sofferto meno la solitudine. Quella Valentina mi fa tenerezza, ma sono sempre io, solo migliorata".

Non hai mai pensato di abbandonare i social dopo gli insulti, i commenti degli hater e poi le recenti accuse ricevute dopo l’annullamento di una serata in discoteca in Abruzzo e la polemica con Giulia De Lellis?

"Certo! Arrivo da un’epoca in cui social c’erano, ma erano dei posti quasi ludici. Di recente mi sono accorta che le persone hanno voglia e bisogno di storie vere, di conoscere la verità. Le persone non sono sceme, non credono a tutto, percepiscono il finto. Con il libro, raccontando la mia storia, sono entrata in una parte emotiva delle persone e ora, quando mi trovo a postare una foto, mi sembra inutile. Non riesco a trasmettere come trasmetto con il libro. Ho voglia di contenuti diversi. Diverso, invece, quello che succede nelle Instagram story: l’altro giorno ho scritto alcune cose riferite a quello che Giulia (De Lellis, ndr) ha detto in televisione non per creare discussione, ma perché volevo far capire a chi mi segue che questa roba non deve esistere nel vocabolario. Non sarò io a cambiare il mondo e il pensiero sul fisico, ma almeno in quella fetta di persone che mi seguono voglio lasciare qualcosa quindi cerco di andare verso l’autenticità dei social a costo di risultare un po’ scomoda. Dopo quello che ho avuto, ho deciso di aiutare le persone che mi seguono mandando un certo tipo di messaggi. Migliaia di volte ho pensato di cancellarmi dai social poi, però, le persone in direct mi mandano tanti messaggi che mi fanno piangere, e cambio idea. La storia in Abruzzo? Mamma".

Hai mai pensato di tornare in tv, magari in un reality show, per raccontare la tua storia e lanciare un messaggio alle ragazze che stanno vivendo il tuo stesso calvario?

"Mi sono fatta più volte questa domanda. Non lo so, dopo questa esperienza sono cambiata tanto e questa è per me una nuova vita, sono cambiata nel profondo sotto certi aspetti. Ora, in alcuni programmi dove parlo della malattia, mi prendono in considerazione per passare questo messaggio positivo. Sarebbe bello, farei un reality show solo se mi sentissi bene in un certo ambiente. Mai dire mai, però dovrei sentirmi veramente pronta".

·         Marco Mengoni.

Marco Mengoni: «Noi trentenni felici di essere instabili. E fluidi in amore». Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Maria Luisa Agnese. Il cantante racconta la sua generazione «senza muri». Si sente fortunato, non privilegiato. «Pesavo 105 chili, mi vedo ancora così. Mi tiene in guardia. Trent’anni compiuti da meno di un anno mentre girava il mondo, in solitaria, con un sacco da 60 litri in spalla, Marco Mengoni non si riconosce come il rappresentante perfetto della sua generazione. Quella generazione della terra di mezzo, nata a cavallo della caduta del Muro, orfana delle ideologie e non ancora abbastanza figlia delle nuove tecnologie per essere definita nativa digitale. Generazione sfigata per alcuni, o per dirla più nobilmente, la nuova classe disagiata, come l’ha definita il brillante sociologo Raffaele Alberto Ventura anche lui trentenne, generazione allevata fra speranze illimitate e trovatasi a fare i conti con possibilità e sogni mozzati. Lui, Marco Mengoni, ha una storia diversa, fuori dalle gavette lunghe come quelle dei suoi compagni di generazione e di canto, il fenomeno indie per esempio; lui è fuori dalla trappola bamboccioni, con dieci anni di carriera alle spalle, da X Factor a Sanremo: quest’anno festeggia con oltre 50 dischi di platino e un lungo tour sold out in Italia e in Europa. Intanto dopo il successo delle date estive a emissioni zero, il 6 novembre è ripartito il suo Atlantico Tour che proprio questa sera (8 novembre) sarà a Milano. Impegnato per l’ambiente, e ambasciatore (volontario) per National Geographic, Mengoni è ormai artista multimediale, è il primo con podcast personale, il riff di Marco Mengoni, una serie da lui progettata con Beppe Sala primo ospite. Corteggiato anche dai regi sti per un salto attoriale, si roda con il doppiaggio: dopo essere stato protagnista del film di animazione Lorax e Simba nel Re Leone, darà voce a Jasper in Klaus, primo film di animazione di Netflix. Condivide, dunque, Mengoni, le insicurezze e le fragilità della generazione (quasi) mancata, ma rifiuta l’etichetta di privilegiato, lui quello che ha se lo è guadagnato, per quanto con gavetta lampo. E ci tiene a raccontarla, questa gavetta, mentre ti accoglie nel suo studio - al pianterreno di un palazzone moderno milanese, tana di pensieri e di registrazioni - in quasi disarmo: pantaloncini al ginocchio, similciabatte e capelli a modo loro, «un po’ anarchici in questo periodo: chissà cosa direbbe mia nonna Jolanda, il mio riferimento di immagine che dice che bisogna essere sempre in ordine anche se non si deve uscire». Ma sempre pronto ad arrovellarsi sui suoi presunti privilegi.

Cominciamo da qui: trentenne a metà?

«Io sono un po’ un’eccezione proprio perché a trent’anni ho già 10 anni e passa di carriera...».

Fortunato?

«Sì me lo ripeto sempre. Però è anche vero che quando avevo 16 anni me ne sono andato via da casa ed è iniziato il mio cambiamento, sono andato a cercare altro da quello che non mi dava più il mio paese di 8 mila anime, Ronciglione, anche se è un bellissimo borgo medievale in Alto Lazio, anche se mi ha dato tantissimo e radici forti. Mi sono buttato, ci ho provato e tutti i giorni mi sveglio e penso come sono stato fortunato! Non ho cercato quello che è avvenuto, cercavo di seguire la mia passione, non la fama».

Non cercava la fama, il piccolo Mengoni, ma era affamato parecchio, di vita, come predicava Steve Jobs. Insomma, non è rimasto lì a vivere con i soldi dei nonni, come dice Ricolfi nella Società signorile di massa, e neppure è stato a piangere sulla vita agra come dice Ventura parlando della sua generazione, “non siamo stati preparati per questa vita agra ma per una vita meravigliosa che non esiste”. «Sentivo che dovevo andare», riprende Mengoni, «e un giorno ho detto a mio padre e mia madre: voglio andare via. Mamma, mamma italica doc, si è messa a piangere, papà ha detto: “Se passi da quella porta devi mantenerti, io non ti darò niente”. Adesso lo ringrazio. Vivevo in una casa umile, al Tuscolano, pagavo mi pare 250 euro. Facevo il fonico in uno studio registrando pubblicità, e facevo il barista in un pub a Frascati. Già al paese lavoravo, a 14 anni facevo il cameriere, i turni d’estate; ero un solitario, lo facevo per combattere la timidezza. Mio padre mi ha insegnato a faticare e poi io sono de coccio, Capricorno ascendente Vergine: ho vissuto la prima parte della vita più testardo, come il Capricorno, ora sono più preciso, Vergine. Sono stati anni di fatica, ma ho imparato come fare la spesa, come arrivare a fine mese. Ancora oggi faccio quasi tutto io, in casa, e metto a posto prima che arrivi la signora che viene per le pulizie».

Gavetta dunque ci fu, anche se lampo, non lunga come quella dei cantanti indie...

«Ma mi pare che Calcutta abbia la mia età. Non credo che conti un anno in più o in meno di gavetta. Conta cosa una persona pensa di fare della propria vita. E poi questa cosa indie mi fa strano, è la ghettizzazione di una cosa libera come la musica. Indipendenti o non indipendenti, non importa se parti da un’etichetta piccola o meno: De André, Dalla, Battisti che cosa erano?».

Comunque anche se Mengoni è partito presto, una famiglia alle spalle c’era, e bella tosta. A cominciare dai nonni...

«Il nonno paterno si chiamava Sestilio, è vissuto con me da quando avevo 2 anni perché nonna morì giovane, mi ha fatto quasi da genitore, di più: oggi è la mia comfort zone, quello che in psicologia chiamano punto di pace. Con lui andavo a funghi, al lago di Vico, facevo passeggiate al Fontanile e oggi spesso torno là con la mente. Quando vai verso il buio, la comfort zone ti riporta a galla, ti porta via da là: sorrido sempre quando penso a mio nonno».

Questo è il nonno della natura, che le ha insegnato l’amore per le piante, e da lì viene anche l’idea del tour Fuori Atlantico e dell’impegno per il clima?

«Io nasco con questa cosa del rispetto della natura dentro. Mio nonno non sapeva niente della plastica, ma aveva rispetto per la natura. Sapeva che la terra può dare tanto ma devi rispettare i suoi tempi, lasciarla riposare».

Pensieri e passioni verdi prima di Greta, dunque?

«Per me è bello vedere questa ragazzina piccola, giovane, che accusa “voi fate grandi bilanci, ma qui fra 50 anni non esistiamo più”. Qualsiasi cosa ci possa essere dietro. Io poi nel mio piccolo con questa campagna Planet or Plastic? di National Geographic non obbligo nessuno a fare nulla, mi piace instillare un minimo di pensiero nelle persone, è così difficile in questo mondo che va veloce. C’è grande generalizzazione nella velocità di pensiero, che non è velocità intelligente, ma semplicemente sorvola. Io sono nato nel rispetto verde, nei vivai prendo sempre le piantine che stanno male, le più brutte, quelle che devo salvare. È egoismo pulito, mi fa star bene come le bugie bianche: riscattando le piantine sto bene».

Con i limoni sul suo terrazzo non è andata proprio così, che quasi morivano, come ha raccontato a settembre al Tempo delle donne in Triennale, la festa-festival del Corriere, parlando di clima e ambiente con l’architetto Stefano Boeri...

«Si, ho preso una pianta di limoni, e per proteggerla, l’ho messa dentro casa; poi mi hanno detto che non si fa, che i limoni devono stare fuori... ma ora splendono di nuovo».

Prima ha parlato di psicanalisi.

«Sì, perché non dedicarsi un’ora a settimana a giocare con i propri pensieri, le paure, le immagini? Insieme a un’altra persona che può tirare fuori, è un aiuto, uno sport mentale, una disciplina, un’ora di lezione».

Ops, lapsus... sarebbe un’ora di terapia. Lei a 16/17 anni era un altro Marco, con chili in più, che adorava la Nutella...

«Sono arrivato a pesare 105 chili, forse mangiavo per combattere l’insicurezza, sì anche la Nutella... poi quasi naturalmente, forse per un cambiamento ormonale, sono arrivato a 62, ho perso quasi 40 chili. Ora sono 83».

In quale immagine si ritrova di più, nel Marco di oggi o nell’adolescente?

«Mi vedo come con i chili in più, mi è di aiuto, mi porta a fare sempre di più, sempre meglio, a non mollare la guardia mai, a non tornare là. È una fase della mia vita che mi porto dietro e con la quale combatto meglio il mostro che non c’è più. Se voglio una cosa la raggiungo con tutti i mezzi possibili».

Come per tutti quel periodo non è stato facile. È stato anche vittima di bullismo?

«No, semmai io il bullismo me lo facevo da solo, io con me stesso. Mi privavo di tutto, di uscire, di mettere gli occhiali da sole; sempre stato un lupo solitario, poco sociale: molto forte la parte animale ma quella sociale meno, mi vergognavo a fare tutto, anche a mettere una maglietta».

E gli occhiali?

«Pensavo: poi mi guardano. Ora chiamo il taxi e prenoto al ristorante, sono migliorato! Ma all’inizio quel che mi ha aiutato molto è stato lavorare fuori 24 ore a contatto con il pubblico. Fare il cameriere è stata la prima forzatura».

E poi?

«Mi sono messo in situazioni scomode, come viaggiare da solo: prima dell’ultimo album Atlantico sono partito da solo con il mio zaino, certe volte ho anche avuto paura, facendo l’autostop a Cuba un signore che mi aveva dato un passaggio imbrocca una stradina, entra in un cancello, mi sono detto è finita, chiamo la Farnesina, ma in realtà poi quel signore era veramente alla ricerca di benzina (di contrabbando!) ed è ripartito».

In questi dieci anni Mengoni è stato anche chiamato da Lucio Dalla che, colpito dalla sua voce, ha voluto incidere con lei la meravigliosa ballata Mary Louise.

«Tutto è iniziato con una terribile gaffe da parte mia. Mi chiama questo numero sconosciuto, alla prima non ho risposto, alla seconda uno mi dice sono Lucio e io dico Lucio chi? e ho riattaccato. Poi mi hanno chiarito che mi cercava davvero Dalla e non mi trovava, e sono andato a Bologna in questa casa bellissima e parliamo, parliamo, e io friggevo perché erano venute le sette di sera e alle nove avevo il treno. Abbiamo registrato in mezzora. Oggi l’avrei fatta diversa, forse meglio, ero giovane. Ma mi spiace che i 12enni di oggi non avranno modelli di riferimento come Dalla, De André, Gaber ma anche Lauzi, Endrigo... Non sanno chi è Michael Jackson! Meglio o peggio non so, mi dispiace per loro perché non gli insegnano ad ascoltare questi capolavori, molti di loro dovrebbero essere nei libri di scuola».

Lei è nato a X Factor , ma oggi non lo segue neppure in tv?

«Non guardo la tv: in salone ho lo schermo, ma la tengo bassa inchiodata su tre canali, mi fa compagnia quando dipingo, ma non voglio distrazioni».

Dipinge anche?

«Ho fatto l’istituto d’arte e mi piace, mi appassiona vedere le cose prendere forma. La pittura a olio mi permette di non chiudere mai un quadro, perché non asciuga, lo posso riprendere dopo un mese o un anno, dipende dal diluente».

La canzone invece va chiusa...

«La verità è che ho un problema con gli abbandoni, come ho un problema con il sonno, di abbandonarmi all’inconscio. Anche a scuola non finivo mai, avevo tante idee, ero carico ma poi non volevo finire e il professore mi diceva: chiudi, Marco! Ma anche nella musica si può riaprire tutto. Anche ora che riparto con il tour mi sono permesso di fare cambi assurdi in alcuni pezzi. Mille lire è nato digitale ed è tornato a essere acustico, quasi rhythm and blues».

Lei è un esempio raro di trentenne non attaccato al cellulare...

«Fa parte della mia vita, ma lo uso, non lo subisco: è un più».

Sulla scala che va dall’analogico al digitale lei dove si piazza?

«Io mi sento nel mezzo; e voglio rimanere lì, in equilibrio».

Per un trentenne privilegiato come lei, niente vita agra?

«In un certo senso vale anche per me. La società va veloce e non esiste più quella consacrazione lì dei nostri punti di riferimento, alla Dalla o alla De André. Devi metterti alla prova di continuo. Non è detto che il mio prossimo disco vada bene. Chi nasce oggi, o è nato da un po’, la sente da subito l’instabilità, non voglio usare la parola precarietà. Ma questa instabilità, dovuta a un’evoluzione che coinvolge tutta la società, la senti. Niente ora è in equilibrio. Sono nato con le cassette, durate poco, poi sono venuti i cd, poi il digitale e poi chissà».

Tra due trentenni come lei, Chiara Ferragni e Luigi Di Maio, chi sceglie?

«Loro sono più forti di me nella comunicazione, troppo forti nell’autocomunicarsi».

Dunque?

«Ferragni».

La conosce?

«No».

La vuol conoscere?

«Non c’è mai stata l’occasione ma se capitasse le farei tanti complimenti. Lode a una giovane che si interessa di queste cose, mi genufletto: io non ci sarei mai arrivato con la dedizione alla tecnologia che mi contraddistingue. Un genio, la Ferragni».

Quindi assolve il fenomeno influencer?

«Mi sento vecchio, più che 30 anni ne sento 50, e quando ragiono su questo fenomeno, capisco di essere controcorrente. Capisco tutto, capisco mia cugina più piccola che segue queste persone che influenzano superficialmente — con trucchi, parrucchi, abiti — ma in altri casi si spingono oltre. Condizionano le persone in modo più profondo, acquisiscono un gran potere. Io vado in punta di piedi, per paura di condizionare gli altri. È molto più debole la sensibilità reattiva, diciamo la capacità critica che c’è dietro uno schermo, ed è troppo facile tutto oggi, anche distruggere le persone. Io sono sicuro che, se si dovesse pagare per un commento, la gente ci penserebbe di più».

È una proposta?

«Diciamo una proposta di riflessione. Io ho 30 anni e mi sono aiutato, analizzato, fatto analizzare, fatto gavetta più o meno lunga, ai like e dislike sono vaccinato. Per questo la mia vita privata sui social non mi va di mettercela, se è privata non mi va di mettere in mezzo persone che non c’entrano con la mia fama. Io faccio questo mestiere e io devo essere fucilato in piazza, ma non voglio che i miei cari siano massacrati. Ci tengo a proteggere le piante, figurarci le persone che mi stanno accanto!».

Torniamo alla generazione precaria e post ideologica e ai punti di riferimento che non ci sono.

«È la società che si è posizionata nel mezzo del nulla. Mi sembra tutto coerente nell’incoerenza. Dalle idee nette, dai punti di riferimento siamo passati alle tante possibilità, per cui si può far tutto e forse non si può far niente. Siamo in una nuvola che ci sta traghettando in un pianeta di concretezza, che speriamo arriverà. C’è transizione su tutto. Non dico che sia negativo in assoluto, l’evoluzione per andare avanti ha bisogno di periodi di stallo. E come se noi stessimo guardando il blocco di marmo della Pietà: prima o poi costruiremo un braccio definito, apparirà il panneggio michelangiolesco. Ci avviciniamo, spero che sarà più o meno così».

Però c’è molta fluidità, anche di genere.

«Noi qui siamo messi meglio di chi ci ha preceduto, la mia generazione è più aperta in tutti i sensi e mi dispiace per le persone che ci governano non si aprano alla natura. Io sono un 30enne antico, ma anche oltre, avanti anni luce. Sono aperto a tutto, sarò l’ultimo naif ma non vedo barriere, confini, per me la Terra non è di nessuno. Non contemplo paletti e muri, non mi accorgo della tonalità della carnagione o della scelta di amare un uomo o una donna. Ma la mia vita privata è mia, se ti va di sentire la mia gioia, il mio dolore, ti senti i miei dischi. Io voglio vivere questa vita il meglio possibile, purtroppo noi trentenni, anch’io, abbiamo difficoltà a viverla, con questo tempo che corre troppo veloce. L’unico consiglio che do ai ragazzi come me è: vivete. Domani può succedere tutto».

Fino a quando le piacerebbe vivere?

«Il più a lungo possibile per vedere come va a finire».

Fino a quando?

«Facciamo 180 anni».

Carriera — Marco Mengoni ha iniziato la carriera nel 2009 vincendo X Factor e firmando un contratto discografico con la Sony Music. Ha partecipato due volte al Festival di Sanremo: nel 2010 è arrivato terzo con il brano Credimi ancora, nel 2013 ha vinto con L’essenziale, brano che lo ha portato all’ Eurovision Song Contest, classificandosi in settima posizione

Il Tour — Il 19 ottobre 2018 ha pubblicato in contemporanea i singoli Voglio e Buona vita, che hanno anticipato il suo quinto album registrato in studio: Atlantico. All’album è seguito il tour Fuori Atlantico, tutto a impatto zero, che ha preso il via lo scorso 14 luglio al Labirinto della Masone a Fontanello (Parma). Il 6 novembre è invece partito l’ Atlantico Tour, che l’8/9/10 novembre porterà Mengoni al Forum di Assago e che ha visto l’uscita del doppio album live Atlantico on tour.

·         I Negramaro.

«Ho visto l’aldilà». Il racconto di Lele Spedicato e il ritorno coi Negramaro. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Corriere.it. Giuliano Sangiorgi, Danilo Tasco, Andrea “Pupillo” De Rocco, Emanuele Spedicato, Andrea Mariano, Ermanno Carlà: i Negramaro sono nati nel 2000. Lele Spedicato, 39 anni, insieme con la moglie Clio Evans, coetanea. I due hanno un figlio, Ianko. «È stato un miracolo». Nonostante l’ottobrata romana diffonda una luce intensa e calda, Lele Spedicato, il chitarrista dei Negramaro finito in coma per un ictus il 17 settembre dello scorso anno, ti guarda dritto negli occhi. Non ha bisogno degli occhiali da sole. Il suo racconto è fatto di sorrisi e non di lacrime. È il momento di celebrare. Lele festeggia il compleanno assieme alla moglie Clio Evans, nata il suo stesso giorno, e agli amici-fratelli Negramaro al party per l’anteprima del loro documentario «L’anima vista da qui»: «Sono 39 anni». «O forse 13 mesi, visto che facciamo come con neonati...», sottolinea Clio. Dieci giorni di buio. Ci è voluto un anno prima che Giuseppe Pulito, primario del reparto anestesia e rianimazione del Vito Fazzi di Lecce dove era stato ricoverato, trovasse le parole per raccontargli che aveva sfiorato il peggio. «Un colpo emotivo. C’è stato un momento in cui in prospettiva, se le cose fossero andate per il peggio, si parlava di espianto degli organi. Contemporaneamente io stavo in un’altra dimensione, quella che auguro a tutti di vivere, magari fra 100 anni...». La dimensione è quella di cui aveva parlato solo con le persone più vicine, quella cui Giuliano Sangiorgi ha dedicato la canzone Cosa c’è dall’altra parte. «Ero in un piccolo giardino, con un cancello e un ulivo. Lì ho incontrato mia nonna Nella e Gianfranco, il papà di Giuliano. Mi sembrava incavolato. “Vattene via, qui non c’è posto per te” mi diceva. Così mia nonna mi ha preso per un braccio per accompagnarmi: appena uscito dal cancello, ho aperto gli occhi ed ero nella rianimazione dell’ospedale». Lele è certo. «Non era un sogno. Era reale. Non ho paura di quello che ho visto. La paura l’ho provata dopo. Sentivo qualcosa dentro che non riuscivo a riconoscere: era la paura di non sapere perché fosse successo, del fatto che potesse ricapitare. La mia vita spirituale si è amplificata: ho sempre pregato, da allora lo faccio due volte al giorno». L’incidente non ha lasciato lesioni permanenti, né al fisico né al cervello. Lele ricostruisce il rullino del 17 settembre, scatto dopo scatto. «Avevo mal di testa, quindi sono iniziati degli spasmi, prima di perdere conoscenza ricordo la voce di Clio che dice “amore sono qui”... Le coincidenze mi hanno salvato la vita. Se fossi stato da solo in casa, se non abitassimo a 5 minuti dall’ospedale, se fosse stata domenica...». Dopo il risveglio è iniziata la riabilitazione. «Non potevo più camminare. Non riuscivo a stare seduto: mi dovevano legare, altrimenti mi chiudevo a libro». In 10 mesi altro che rimettersi in piedi: quest’estate ha corso per 10 chilometri alla maratona di Galatina. «Sono sempre stato attento alla forma fisica, ma è stato difficile: ho dovuto reimparare a camminare, a correre, a saltare...». La preoccupazione erano le mani. Il suo legame fisico con la musica. Mentre parla gioca con le dita, un tic da chitarrista... «Erano fuori uso. Una delle conseguenze era l’ipertono, la sinistra restava serrata e il braccio attaccato al corpo. Quando mi hanno detto che sarebbero stata l’ultima cosa a riprendere una funzionalità regolare è stato un secondo choc».

Fondamentale l’incontro con Giorgio Pivato, luminare della chirurgia della mano: «Lo vedevo due volte alla settimana via Skype, mi dava esercizi da fare e valutava i progressi. Confrontarmi con la realtà è stato un disastro. Nella mia testa c’era tutto, ma era come se ci fosse un muro prima delle mani. Sono tornato indietro di 25 anni. Sono ripartito da zero, dal giro di Do. A febbraio ho suonato una canzone al debutto del tour di Rimini. Scendere dal palco è stato difficile. Il prossimo traguardo è tornare lassù, mi ha fatto male seguire i concerti da fuori». Quando Lele è stato male, Clio era incinta al settimo mese. Due mesi dopo, il 15 novembre, è nato Ianko. «Un altro miracolo. Ero a Roma, 2 mesi di riabilitazione alla Fondazione Santa Lucia IRCCS e altri 3 di day hospital. Avrei voluto assistere al parto, ma i medici mi hanno consigliato di evitare le emozioni forti. Mezz’ora dopo il parto ero al Gemelli, sulla sedia a rotelle, e me lo hanno messo in braccio: indescrivibile. La sua energia mi aiuta, mi regala momenti di gioia e felicità».

Interviene con leggerezza e dolcezza Clio. «Nei giorni più bui, quando i monitor degli strumenti cui era collegato segnalavano un’anomalia, gli prendevo la mano, la mettevo sulla mia pancia e i valori tornavano nella norma». A spingere il chitarrista verso la ripresa anche l’affetto dei fan. «Mi è arrivata una valanga di amore. La moglie, la famiglia, gli amici, i compagnifratelli Giuliano, Andrea, Ermanno, Danilo e Pupillo (ogni volta che ne parla li cita tutti per nome, non sono mai “la band” ndr) e anche le persone che non conosco. È fondamentale sapere che non sei solo. La depressione è dietro l’angolo». Il miracolo gli ha cambiato la prospettiva. «Non vale la pena arrabbiarsi per le piccole cose. Se perdi tempo per quello ti fai del male. Non è scontato dire quello che pensi ai tuoi cari, ma devi sapere che potresti non avere il tempo di farlo».

·         Francesco Incandela.

Francesco Incandela: "Con il violino suono la bellezza di Pantelleria". Il giovane violinista presenta il suo nuovo progetto musicale dal titolo "Gadir", ispirato a Pantelleria. Il brano fa da apripista al nuovo disco "Flow Vol. 1". Andrea Conti, Venerdì 01/11/2019 su Il Giornale. Si intitola “Gadir”, il nuovo brano del violinista palermitano Francesco Incandela che anticipa l’album “Flow Vol. 1”, in uscita a breve. Francesco Incandela, nato a Palermo classe 1983, nel 2006 si diploma in violino al Conservatorio di Musica “V. Bellini” di Palermo e nel 2009 consegue la laurea specialistica di II° livello in “Discipline Musicali” indirizzo Interpretativo/compositivo presso il Conservatorio di Musica “S.Cecilia” di Roma. È un musicista sempre in bilico tra cultura classica, musica pop e improvvisazione.

Come nasce “Gadir” e perché hai preso spunto proprio da Pantelleria?

“Gadir nasce due anni fa, durante un viaggio sull’isola di Pantelleria. Gadir dall’arabo 'conca d’acqua' è un piccolo villaggio sul mare sulla costa nord orientale dell’isola. È uno di quei posti in cui arrivare in punta di piedi, dove l’uomo è il vero ospite e deve muoversi con assoluto rispetto e può solo assaporare il silenzio, quello vero. Da questo silenzio nasce la prima cellula ritmica affidata ai pizzicati di violino che fanno da fondamenta per la costruzione di tutto il brano, che via via si sviluppa con un carattere molto mediterraneo sia nelle ritmiche che nelle melodie. Come tutti i brani del disco, 'Gadir' è un brano circolare, in cui l’uso dei loop ossessivi detta il passo alla composizione. Come la costa pantesca anche il brano alterna momenti di quiete in cui chiudere gli occhi e lasciarsi attraversare dal suono, ad atmosfere granitiche, dure, ostili, in cui il suono dei violini disturbati e inaciditi lancia una coda rock a tratti psichedelica”.

Cosa dobbiamo aspettarci dal disco “Flow Vol.1” e ci sarà anche un volume due?

“Questo lavoro racconta sicuramente il mio approccio alla musica e al mio strumento che nel corso degli anni ho sempre più visto come un mezzo per sviluppare idee e e per indagare un linguaggio. È un disco che segue un flusso di emozioni, scritto con lo strumento in mano e mai a tavolino. Quando suoniamo i brani con i miei musicisti, Vincenzo Lo Franco alla batteria e Luca La russa al basso, abbiamo il timore di dilatarli troppo, proprio perché la scrittura ti spinge ad andare oltre, a seguire il 'Flow'. Dal vivo un brano potrebbe durare anche il doppio rispetto alla versione disco. Dentro c’è l’idea del viaggio legato al sogno che si scontra con una realtà concitata, contraddittoria e imperfetta. Lo ritengo un disco libero per scrittura e produzione, che nell’ultima traccia ci regala un lieto fine, sognante, melodico ed emozionale. Un volume due ci sarà, alcuni brani sono già in cantiere”.

Com'è stato collaborare con Morgan e Pagani?

“Li ho incontrati la prima volta al Premio Tenco, eravamo ospiti con le Cordepazze, band con cui ho suonato per più di dieci anni. Da subito ci siamo ritrovati a 'jammare' sul palco con loro, momenti indimenticabili. Da lì un concerto al Forum di Assago con Morgan, un tributo a De André registrato per la Rai e un EP registrato alle Officine Meccaniche di Pagani con gl Hysterical Sublime, insieme ad Angelo Di Mino violoncellista e produttore che oggi ha prodotto Flow nei suoi studi. Che dire, due maestri! Pagani in particolare per me rappresenta un riferimento per tutto quello che ha fatto per la musica in Italia”.

Sei rimasto in Sicilia e insegni, oltre a suonare. È un investimento su te stesso e il futuro dell'Isola, in un periodo storico in cui tutti scappano dal Sud?

“Dopo aver vissuto per cinque anni a Roma per studio e lavoro, nel 2011 sono tornato in Sicilia per una pausa estiva. Davanti a me ho trovato una Palermo cambiata, ricca di fermento. Molti amici e colleghi alle prese con progetti e scommesse per il futuro. Ho capito che forse era possibile ripartire da casa per cercare di creare bellezza e che i siciliani hanno bisogno di tutto questo. Da quel momento non ci siamo più fermati, sia nella formazione con il Centro Artistico Musicale, sia nella produzione. Da Palermo sono maturate diverse collaborazioni con artisti tra i più interessanti della scena indipendente nazionale come Dimartino, Cesare Basile, Alessio Bondì, Simona Norato, Pippo Pollina e molti altri”.

Come nasce la tua passione per il violino e a quando risalgono le tue prime composizioni?

“Ho iniziato lo studio del violino molto piccolo. Alle prime lezioni mia madre appuntava sul quaderno gli esercizi assegnati dal maestro, non sapevo ancora scrivere. Ancora non so come sia iniziato tutto, all’improvviso ho cominciato a rompere le scatole in casa perché mi comprassero un violino. Durante il periodo di studi in Conservatorio, ho sempre affiancato le attività e i concerti con orchestre e gruppi da camera a serate nei locali con band tra le più diverse. Qui era necessario oltre a suonare lo strumento dare un apporto creativo e metterci del proprio. Queste esperienze sono state fondamentali per sviluppare in me una visione più aperta della musica e di conseguenza del mio strumento. Quando devi creare le tue parti da suonare all’ interno di una canzone, stai componendo”.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

“Non ho un sogno mio personale, ma mi piace pensare che se ognuno di noi riesce a vivere il proprio lavoro con passione, tutte queste passioni sommate possono creare un luogo migliore in cui vivere, soprattutto da noi al Sud, dove la gente ha bisogno di fiducia e di spazio per esprimersi. Un posto in cui la bellezza diventi un alimento essenziale per vivere. Altrimenti poi la buona musica a chi la vendi? (ride, ndr)”.

·         Giulia Accardi, la modella curvy.

Giulia Accardi, la modella curvy che lotta contro il body shaming: «Ora voglio scrivere un libro». Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it  da Paola Caruso. Da Miss Italia alla moda. Siciliana, taglia 44, ha creato il movimento «Perfectly imperfect» per aiutare le ragazze con l’accettazione del corpo. Giulia Accardi, 27 anni, siciliana, 173 centimetri di altezza in una taglia 44, è una modella curvy battagliera, con il sorriso sempre sulle labbra. Nel fashion system porta avanti la lotta contro il body shaming attraverso il movimento «Perfectly imperfect» (perfettamente imperfetta, ndr) che ha creato due anni e mezzo fa, per «l’accettazione del proprio corpo». Obiettivo: aiutare tante ragazze che «non si sentono mai abbastanza» perché non sono magrissime. Grazie a un «tour» di eventi in diverse città italiane, la modella veste i panni dell’imprenditrice e dà una mano alle donne che pensano di essere inadeguate a causa dei canoni fisici dettati dalla società e dalla moda. Canoni di perfezione, spesso irraggiungibili, che si stanno sgretolando piano piano. «Il tour Perfectly Imperfect consiste nell’organizzare un meeting, in genere in uno studio fotografico, con un talk sul body shaming, una sessione di makeup, un piccolo rinfresco per lo scambio di opinioni e infine un servizio fotografico — spiega Giulia —. All’inizio ho investito i miei risparmi in questo progetto al quale credo tanto, adesso ci sono gli sponsor che coprono le spese più grosse». E dopo aver toccato le tappe di Marsala (la sua città), Napoli, Verona, Bologna e altre piazze in Italia, il prossimo appuntamento è a Milano il 24 novembre in una location ancora top secret (sarà comunicata sui suoi canali social).

Come è nata l’idea del movimento?

«Nell’agosto del 2017 ero a casa, a Marsala, e mi è venuta l’ansia, come tutte le estati precedenti. Ero stanca di svegliarmi triste ogni mattina perché non ero una taglia 40. I miei pensieri erano: “Devo fare ginnastica? Abbronzarmi di più? Cambiare colore di capelli?”. Soltanto per togliermi dalla testa l’idea di non sentirmi giusta. Ero stanca. Volevo reagire. Così mi è venuto in mente il progetto Perfectly imperfect».

La sua infanzia non è stata felice per via di qualche chilo in più, tutto è partito da lì?

«Ero paffuta già a 10 anni, in una famiglia di tre fratelli, tutti magri. Alle elementari mi chiamavano “balena” oppure con altri nomignoli poco carini. Ne soffrivo e mi isolavo. Anche se i miei genitori non mi hanno mai fatto pesare i chili in più. Mai privazioni o giudizi. Avevo soltanto un’amica che è ancora la mia migliore amica».

Poi cosa è successo?

«A 11 anni ho smesso di mangiare. La mia dieta era pasta in bianco e yogurt magro. Ho perso peso e in terza elementare ero una taglia 40 su un’altezza di un metro e 70. Mi sentivo invincibile, corteggiata. Poi, ho ripreso a mangiare e ho rimesso i chili che avevo perso più altri nuovi. E così al liceo ero punto e a capo. Fino a quando qualche anno fa, appunto, ho deciso di dare una svolta alla mia vita».

Nel 2015 ha partecipato a Miss Italia.

«Mi sono iscritta per la fascia curvy e sono stata chiamata a Roma per il casting con altre 200 ragazze. Adesso sono una taglia 44, ma all’epoca ero una 46 piena. Alle prime selezioni mi guardavano le gambe in modo strano, come se fossero brutte, e questo mi innervosiva. Quando mi altero divento antipatica. Comunque, ho passato la selezione, ho superato il voto online e mi sono ritrovata a Jesolo dove sono stata eliminata alle prefinali. Non è stata un’esperienza che ricordo con piacere, ma mi è servita per capire che il cervello conta più del corpo. Alla fine, ero lì perché cercavo un trampolino di lancio per il mondo della moda e dello spettacolo e devo dire che ha funzionato, dato che subito dopo sono stata presa da un’agenzia e ho iniziato i primi lavori da modella».

Ha pensato di diventare stilista.

«Più o meno. Dopo il liceo classico mi sono iscritta all’Accademia di Moda a Roma, ma ero negata. Non sapevo fare i cartamodelli (e ride). Poi ho avuto problemi di salute, operata due volte, e anche un’esperienza traumatica di violenza. Ricordi che vorrei mettere nero su bianco in un libro, per raccontare la mia storia portando una testimonianza alle ragazze che hanno vissuto momenti difficili come me. Ho provato a scrivere qualche pagina anni fa, ma non sono in grado di sviluppare un libro da sola: spero di trovare qualcuno che mi aiuti».

Un’esperienza che ricorda volentieri?

«Le poche battute da attrice nella fiction “Il commissario Maltese” nel 2016. Facevo anche la comparsa nella serie ed è stato bellissimo. Mi alzavo alle 4 del mattino, guidavo per un’ora e mezza da Marsala a Trapani, ma ero felice. Il set, il cast... bello».

Con chi vorrebbe lavorare nel cinema?

«Woody Allen. Lo so, punto in alto. Mi do obiettivi ambiziosi perché penso che così magari mi ci avvicino, anche se non ci arrivo davvero. Mi piacciono pure Benicio del Toro e Dario Argento. Adoro gli horror».

È innamorata?

«Al momento non c’è nessuno nella mia vita e le esperienze del passato, un amore violento, mi hanno resa diffidente nei confronti degli uomini, ma voglio credere nel principe azzurro. Non sono sdolcinata, sono romantica. Un giorno mi piacerebbe portare un futuro fidanzato in Sicilia per mostrargli i miei posti del cuore, come le saline di Marsala, un luogo che amo».

Non ha haters sui social?

«Qualcuno. Ai commenti negativi rispondo con ironia. Ci scherzo su. Quelli volgari, mi scivolano addosso. Ecco, questo per quanto riguarda me, perché se dovessero toccare la mia famiglia, diventerei una iena».

·         I Ristoratori Vip. Abbasso i cuochi d'artificio. Chef Rubio & compagni...

Gérard e gli altri. Quando la fama presenta il conto ai ristoratori vip. Dépardieu chiude il suo celebre locale a Parigi Com'è difficile per le star il successo in cucina. Andrea Cuomo, Mercoledì 10/07/2019 su Il Giornale.  Domani sarà messo all'asta tutto, in 250 lotti: pentole, fornelli, sedie, arredi. Forse anche la statua di Obélix a grandezza naturale che campeggiava in un corridoio. Anche se è probabile che i lotti più ambiti saranno quelli contenenti le migliaia di bottiglie pregiate che componevano la fastosa cantina: decine di Château Latour, di Haut-Brion, di Saint-Émilion, di Meursault e dei migliori Champagne. Si daranno appuntamento i più facoltosi enoappassionati di Parigi domani nella casa d'aste dove Gérard Dépardieu venderà ciò che resta del suo ristorante La Fontaine Gaillon, chiuso qualche settimana fa. Si trovava al numero 1 di rue de la Michodière, tra la Borsa e l'Opéra Garnier, in un crocicchio dominato da una fontana neoclassica dentro una nicchia attorno la quale nella bella stagione si stipavano i piatti, stretti stretti come da tradizione francese. L'attore ha chiuso il locale dopo sedici anni (lo aprì nel 2003 con l'allora compagna Carole Bouquet e altri soci con un party a cui partecipò anche Johnny Hallyday) di buoni successi. Già, perché alla Fontaine Gaillon sembra si mangiasse bene davvero. Le guide gastronomiche tenevano in buon conto quell'indirizzo, in una città dove peraltro le insegne stellate sono più di cento (a Milano, per dire, sono 18). La cucina, diretta dallo chef Pascal Lognon-Duval, era classica e ben eseguita, il piatto forte era il Merlan Colbert, una spigola fritta con testa e coda ben in vista, i prezzi tutto sommato contenuti considerando la location, il lusso e la fama del patròn. Il quale peraltro pare fosse davvero molto munifico e generoso di consigli con i suoi dipendenti e molto presente tra cucina e sala. Del resto Dépardieu è uno dei pochi casi di vip con il phisique du rôle del gourmet, con la sua pancia tonda e il suo sguardo da Pantagruel della vita. Quindi nel suo caso più che di investimento può parlarsi dell'espressione di una vera filosofia di vita. Dépardieu pssiede ancora il bistrot Le Bien Décidé nel Quartiere Latino, che con una pescheria e a una gastronomia fanno di rue du Cherche-Midi un vero distretto del Dépar-food. Dépardieu non è certo il primo vip a chiudere il suo ristorante, anche se il suo non può certo essere raccontato come un insuccesso. Tra gli «osti della malora» si annoverano Kevin Costner, che nel 2009 chiuse il suo The Clubhouse in California, che languiva da anni dopo il lancio nel 1997 ed Eva Longoria, che escogitò a Las Vegas un format innovativo di ristorante al femminile (non a caso si chiamava She) nel quale le porzioni erano piccole e sul menu c'era uno specchio con il quale controllare il trucco: durò solo due anni, tra il 2012 e il 2014. Durò qualche anno in più Madre di Jennifer Lopez a Los Angeles, locale di cucina portoricana che non sbancò i bottegini gourmet. Tra i vip che se la cavarono meglio sulle scene che in cucina anche Justin Timberlake, Britney Spears, Ashton Kutcher e il quartetto formato da Christy Turlington, Claudia Schiffer, Elle MacPherson e Naomi Campbell, che nel 1995 aprirono il Fashion Café al Rockfeller Plaza di New York per chiudere i battenti pochi mesi dopo. In Italia si ricorda la disavventura di Serena Grandi, che si beccò anche una denuncia per aver portato via del materiale dalla sua Locanda di Miranda a Rimini dopo averlo venduto.

Di rimarchevole successo invece la vicenda del ristoratore Robert De Niro, che aprì nel 1994 il primo locale con Nobu Matsuhita. Oggi Nobu è una catena con decine di locali fusion nelle maggiori città del mondo (ce n'è anche uno a Milano). E a proposito di Milano tra i vip ristoratori ci sono l'attore Antonio Albanese, socio di Ratanà, Diego Abatantuono, che mette i soldi e la faccia in Meatball Family, piccola catena di polpetterie, e gli ex calciatori Rino Gattuso (Bistrot ittico Gattuso&Bianchi a Gallarate), Pietro Paolo Virdis (Il Gusto di Virdis), Clarence Seedorf (Finger's) e Javier Zanetti (El Gaucho).

E' insopportabile l'esaltazione della cucina come filosofia ed etica. Mario Giordano il 7 novembre 2019 su Panorama. Ma lo chef Rubio, di grazia, quand’è che fa lo chef? L’ha mai fatto? Lo sa fare? Perché non dimostra le sue doti dietro i fornelli, ammesso che ne sia capace? Perché, invece, continua a mettere in forno soltanto dichiarazioni violente? Perché non fa altro che friggere polemiche politiche e rosolare gli zebedei altrui, con polemiche oggettivamente inaccettabili?  Il personaggio è incredibile: si chiama, in realtà, Gabriele Rubini e nella sua vita non ha mai aperto un ristorante, né una trattoria, neppure un’osteria. Niente di niente. Mai provato cosa vuol dire preparare una pastasciutta al sugo da servire ai clienti. Però è bravissimo a servire la polemica del giorno: appena vede uno spazio, ci si butta e attacca. Contro Salvini, contro la Lega, contro i poliziotti uccisi a Trieste, contro Israele, contro Selvaggia Lucarelli, contro chiunque possa dargli, a contrasto, un minimo di visibilità. Lui è fatto così: un vero e proprio cuoco d’artificio. Insopportabile, come tutti i cuochi d’artificio. Che sono sempre di più. E sempre più urticanti. Ma sì, diciamolo: non se ne può più di questi spadellatori mediatici che si ergono a nuovi maître à penser, guru del pensiero, filosofi della politica, sociologi, psicologi, ideologi, moralisti, soloni, intellettuali, punti di riferimento dell’etica e della società. Ormai incapaci di stare in cucina perché sono troppo abituati a stare in cattedra: si sentono in dovere di darci lezioni su ogni cosa, in virtù del fatto che nella loro vita sono riusciti a impiattare due uova come si deve o un risotto particolare. Ammesso che l’abbiano fatto davvero e non siano passati direttamente, come nel caso di Chef Rubio, dal campo di rugby alla popolarità mediatica. Senza mai fare davvero la prova del cuoco. Lo diciamo con l’amaro in bocca, nonostante la gran quantità di leccornie che passano sotto i nostri occhi nei vari programmi tv, colpevoli fra l’altro proprio di aver creato questi mostri sacri del pensiero culinario. Anzi, forse lo diciamo con l’amaro in bocca proprio per quello: non se ne può più dei filosofia del pentolone, dell’ermeneutica alla cipolla di  Tropea, soffritto presocratico con spruzzata di Heidegger al mirtillo rosa. Non se ne può più di cuochi che si sentono intellettuali, che si comportano da intellettuali, che vengono considerati intellettuali. Che usano la popolarità regalata loro dai programmi tv per ergersi a guide politiche e spirituali. E spargono sentenze in ogni dove, anziché spargere, come dovrebbero, soltanto il cacio sui maccheroni. Non se ne può più di quelli del bollito/non bollito come filosofia di vita. Non se ne può più del Vate del raviolo. Non se ne può più della cucina  che si trasforma in «filosofia concettuale». Non se ne può più dell’estetica dei fornelli, del «dovere dell’etica che obbliga noi chef a trasmettere valori». Non se ne può più degli chef che salgono in cattedra ad Harvard, che vengono indicati come «più importanti ideologi italiani» (Massimo Bottura, copyright Vittorio Sgarbi), che si sentono parte «di un gruppo di scienziati che guardano al cibo da un nuovo punto di vista» (Heston Blumenthal). Non se ne può più degli gnocchi molecolari, dell’azoto liquido in tavola, del menù Autoritratto che trasforma in un’opera d’arte il pomodoro essiccato con rugiada di aceto di riso (Quique Dacosta). Non se ne può più di questi «percorsi sensoriali» che dicono di volerti far provare emozioni, salvo poi scoprire che l’emozione principale è quando arriva il conto. «Dio fece il cibo, il diavolo i cuochi», disse James Joyce. Eppure non aveva ancora conosciuto la sferificazione delle fragole e la frantumazione dei marroni, due pratiche su cui i nuovi guru si sono invece assai esercitati negli ultimi tempi, prima trasformando la loro esperienza ai fornelli in una missione magico-esoterica e poi esondando in tutti i campi della vita con la prosopopea di chi pensa di avere in mano sempre la ricetta giusta. Ma non è così. La vita è diversa dalla tempura di verdure miste e dal gambero viola in zuppa di grano saraceno. Magari questi cuochi d’artificio hanno davvero la ricetta giusta per estasiare il nostro palato: ma allora lo dimostrino dedicando un po’ di più di tempo al loro ristorante e un po’ di meno ai social e alla Tv. Ci guadagneremmo tutti. A cominciare dal nostro stomaco.

Inizia la "battaglia" tra chef all'Academy di Cannavacciuolo. Nel «talent» del cuoco più famoso della tv nessuna corsa contro il tempo ma una gara a colpi di qualità e perizia. Ferruccio Gattuso, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Finire dietro i fornelli stellati di Villa Crespi sul Lago d'Orta, il regno di Antonino Cannavacciuolo. Per dieci talentuosi giovani cuochi in competizione (tutti tra i 18 e i 22 anni) è riduttivo chiamarlo sogno: perché dai sogni prima o poi ti svegli, mentre in questo caso la vittoria significa un anno di contratto nella brigata del fuoriclasse napoletano. È questa la linfa di Antonino Chef Academy, il nuovo format di cucina prodotto da Endemol e Sky che - da oggi ogni martedì per sei puntate in prima serata su Sky Uno (canale 108, digitale terrestre canale 455) - propone una nuova formula, presto spiegata dal grande chef (grande per talento e per stazza, coi suoi 191 centimetri d'altezza per 140 chili di peso): «Si tratta di una vera e propria accademia, dove ci sarà teoria e pratica ma la prima è sempre finalizzata alla seconda. Insomma, qui vincono i fatti e le chiacchiere stanno a zero. Anche da parte dei coach ospiti che verranno in ogni puntata, tutti colleghi della ristorazione che stimo, non necessariamente conosciuti dal grande pubblico: in breve diranno la loro storia, poi si passa ai fornelli». E per chi ha il tic dei confronti con altri talent show culinari, a cominciare dal pioniere MasterChef, si sappia che nell'Accademia competono giovani che già lavorano in brigate e cucine, nessun autodidatta ammesso: il gioco è duro ed è per duri. «Non ci saranno corse contro il tempo, nessun fiato sul collo: non sarà una gara di velocità, ma di qualità», spiega lo chef stellato. Nella location del Castello Dal Pozzo di Oleggio Castello, Chef Tonino («così mi ha sempre chiamato mia mamma, e così mi piace che mi chiami la gente») guida i dieci aspiranti chef in un percorso formativo, tra tre tipologie di prove: tecniche di cucina, test fuori sede e un test di approfondimento individuale condotto da un professore ospite. Dopo ogni prova, un voto: chi avrà ottenuto il peggiore abbandonerà l'Accademia. «Era il programma che volevo da tempo - spiega Cannavacciuolo - Con il mio team abbiamo selezionato questi dieci giovani provenienti da tutta Italia, ai quali l'Accademia fornirà un'occasione speciale: perché lavorare in una brigata diversa apre la mente, ogni esperienza per un cuoco finisce in valigia. Solo successivamente puoi scegliere una strada tua. Alla mia scuola potranno cimentarsi con cose che già conoscono, ma le vedranno dal mio punto di vista. Un fondo di carne da me non è il solito fondo di carne». Antonino Cannavacciuolo è forse il più amato chef della tv: oltre al prestigio e all'applicazione nel lavoro, il suo lato umano, il suo essere asciutto e antiretorico, fa sì che gli spettatori trovino in lui quella serietà e genuinità che, ad esempio, non trovano nei politici. Lui, all'idea, sorride: «La gente ha capito che, con i miei rimproveri, le pacche sulle spalle e gli abbracci, non recito. Se mi arrabbio è perché a perderci, quando fanno gli errori, sono i concorrenti». L'ultimo insegnamento è quello che dà a tutti i concorrenti di ogni talent, aspiranti o professionisti: «Quando si esce dalla tv, serve fare gavetta, misurarsi su vari fronti. Non aprire subito un ristorante».

Guida Michelin 2020, un nuovo tre stelle: con Enrico Bartolini i ristoranti top in Italia salgono a 11. La presentazione al Teatro di Piacenza incorona tra i migliori il ristorante del Museo Mudec a Milano. Sono in tutto 374 i locali stellati della Penisola. LA REAZIONE In casa Vissani contro la perdita di una stella. Eleonora Cozzella su La Repubblica il 6 novembre 2019. La notizia dell'anno è la terza stella Michelin a Enrico Bartolini nella guida 2020, per il suo ristorante all'interno del Mudec a Milano. Esce come un atleta olimpico che fa il pieno di medaglie dalla presentazione della 56esima edizione della mitica "Rossa", la più attesa della stagione delle guide. Lo chef toscano, originario di Pescia, si conferma sempre più un Re Mida della ristorazione: tutto quello che tocca diventa luccicante e si accende della luce dei macaron. Con l'abilità di scegliere nel suo team collaboratori che alzano il livello dell'asticella. Così può anche vantare due stelle Michelin appena assegnate al Glam by Enrico Bartolini (con lo chef Donato Ascani) a Venezia. Che si aggiungono ai suoi altri stellati: il Casual Ristorante, di Bergamo Città Alta, La Trattoria Enrico Bartolini, all’Andana Resort di Castiglione della Pescaia (GR) e la Locanda del Sant’Uffizio, Relais del Sant’Uffizio, Cioccaro di Penango (AT). Per un totale di 8 stelle che portano la sua firma. Entra nel ristretto novero con: Dal Pescatore Santini di Canneto sull'Oglio, Enoteca Pinchiorri a Firenze, Le Calandre di a Rubano, Uliassi a Senigallia, Osteria Francescana a Modena, La Pergola di Roma, Piazza Duomo ad Alba, Il Rosa Alpina di San Cassiano, Da Vittorio a Brusaporto dei fratelli Cerea e Reale di Niko Romito a Castel di Sangro.

Enrico Bartolini, classe 1979, ha conquistato la sua prima stella nel 2010 a le Robinie e poi nel 2011 al Ristorante Devero, la seconda nel 2014. Nel 2017 approda al MUDEC, confermando la seconda stella e guadagnando oggi la terza. "Mi sento come se avessi vinto un oro olimpico – continua Enrico – un risultato così non si pianifica: si ambisce da sempre, ma non ce lo si aspetta mai… e come nello sport ai massimi livelli, ci si deve allenare ogni giorno, con fatica e sacrificio, senza mai perdere di vista la visione generale, nel rispetto di una filosofia e di un’etica ben precise. Io non posso che condividere questo meraviglioso momento con Remo e Mario Capitaneo e Sebastien Ferrara per Milano, e con Donato Ascani a Venezia: hanno dato prova di grande impegno e costanza. Ringrazio Michelin, e tutto il mio team, dal Monferrato alla Maremma, passando per Bergamo Città Alta, per la passione e il lavoro quotidianamente profusi, ma anche i nostri ospiti che con i loro stimoli ci hanno aiutato a migliorare e a crescere sempre di più". E in effetti Bartolini sta alla ristorazione in Italia come Michael Phelps al nuoto, macina medaglie. "E' un onore aver riportato le tre stelle a Milano" dice, ricordando che la città le perse quando nel 1993 Gualtiero Marchesi chiuse il locale di via Bonvesin de la Riva per andare in Franciacorta. "Mi ha fatto molto piacere che sia stato infranto un tabù... prima le tre stelle si davano a cadenza quasi decennale" dice Roberto Restelli, già direttore della Rossa italiana. "Mi dispiace sinceramente per chi ha perso le stelle - continua il critico -  ma la guida non nasce per essere celebrativa, deve essere appunto una fotografia della ristorazione, quindi ha anche la forza di fare scelte impopolari. I riconosimenti dati sono belli e validi. Unica cosa che vorrei dire, e che auspico uno scatto culteriore, la forza di vedere in quesya fotografia anche il valore di molte pizzerie". Se nei giorni scorsi, come anteprima della presentazione della 65 edizione italiana della mitica guida francese, erano stati preannunciati i nuovi Bib Gourmand, ovvero i locali che propongono una piacevole esperienza gastronomica, con un menu completo a meno di 35 euro, adesso l'attesa è finita. Ecco svelata la borsa delle stelle, chi sale chi scende, chi guadagna nuove stelle nella costellazione italiana che l'anno scorso ha brillato su 367 ristoranti della penisola. Marco Do, responsabile della comunicazione della guida in Italia, nel salottino del dietro le quinte si dice "emozionato per tenere in mano la nuova edizione", che ha definito un volume "che scotta". Voleva riferirsi a eclatanti novità? Ora sappiamo di si. Tra le cose che sottolinea, l'anonimato degli ispettori, che sono tutti dipendenti della Michelin, che si comportano da clienti come tanti altri ("non sono critici gastronomici ma fotografi della situazione di un locale" dice ), che sono "cercatori di stelle", che sempre di più sono internazionali (quindi un ispettore italiano non valuterà solo locali italiani e in Italia arrivano anche dall'estero) e che per valutare un ristorante si basano sui criteri di: qualità dei prodotti, tecniche di cucina utilizzate, stile personale dello chef, costanza della qualità dell'offerta. L'anno scorso la più corposa novità della guida, diretta da Sergio Lovrinovich, era stato l'arrivo di Uliassi nel novero delle tre stelle. Il che ha portato a dieci il numero dei locali che si fregiavano del massimo riconoscimento. Parla di soddisfazione la sindaca della città Patrizia Barbieri secondo cui "Michelin è un'ottima occasione e vetrina per valorizzare tutti i prodotti e le tradizioni di Piacenza". La prima cittadina sottolinea che è un orgoglio poter ospitare l'evento, risultato reso possibile "grazie anche alla collaborazione con Reggio Emilia e Parma, con le quali si può parlare di una fantastica grande Food Valley". D'altro canto è facile capire come entrare in guida sia sempre più appetibile: il business dei ristoranti stellati vale 98 milioni di euro, di cui il 42 per cento diretto per i ristoranti, il resto come indotto nel territorio.

Il primo premio, "Passion for wine",  del Consorzio Brunello di Montalcino va allo stellato Rino Billia, di Le Petit Restaurant, a Cogne.

Il premio per il "Servizio di Sala" di Coppini Arte Olearia, va a Sara Orlando, Locanda di Orta, Orta san Giulio.

Il premio Chef Mentor va a Gennaro Esposito della Torre del Saracino a Vico Equense, per la "capacità di insegnare valori culturali e gastronomici, tra rigore e disciplina, ben dosati come gli ingredienti di un grande piatto". Riconosciuta insomma la sua capacità di farsi maestro di una schiera di giovani chef. E a proposito, il premio Giovane Chef sponsored by Lavazza va a Davide Puleio del ristorante l'Alchimia di Milano (e secondo la guida autore del piatto dell'anno, il merluzzo al vapore). Mentre per la chef Donna, già annunciata in anteprima settimane fa, è Martina Caruso.

E mentre si conferma che la regione più fortunata dal punto di vista dei bib gourmand è l'Emilia Romagna, seguita dal Piemonte, arrivano anche le notizie amare, cioè di quei locali che non confermano la stella.

Ben 13 i locali che perdono l'unica che avevano. Ci sono poi quei ristoranti, che subiscono una retrocessione da due a una stella. Tra questi suscita in sala molto scalpore il declassamento di Gianfranco Vissani - che poi tuona contro la Rossa - con il suo ristorante a Baschi. Subiscono la stessa sorte Al Sorriso di Soriso, Locanda don Serafino a Ragusa e Locanda Margon in provincia di Trento (ma in quest'ultimo caso si registra un atto dovuto per il recentissimo cambio di chef, dopo che Alfio Ghezzi ha aperto al Mart di Rovereto).

Ecco le nuove stelle, una pioggia:

Da Gorini, Gianluca Gorini, Bagno di Romagna

Iacobucci, Agostino Iacobucci, Castel Maggiore

Apostelstube, Bressanone

L’asinello, Senio Venturi, Casrtelnuovo Berardenga

Santa Elisabetta, Rocco De Santis, Firenze

Osteria Gucci, Anna Karime Lopez Kondo, Firenze

Virtuoso, Antonello Sarpi, Lucignano

Lunasia, Luca Landi, Viareggio

Petit Royal, Paolo Griffa, Courmayeur  

Glicine, Giuseppe Scansione, Amalfi

Monzù, Luigi Lionetti, Capri

Lattuga, Adriano Dentonilitta, Ischia

George Restaurant, Domenico Candela, Napoli

Il Flauto di Pan, Lorenzo Montoro, Ravello

Josè Restaurant, Domenico Iavarone, Torre del Greco

Idylio by Apreda, Francesco Apreda, Roma

Atelier, Giorgio Bartolucci, Domodossola

Fre, Bruno Melati, Monforte d’Alba

Condividere, Federico Zanasi, Torino

Casamatta, Pietro Penna, Manduria

Memorie, Felix Lo Basso, Trani

Zash, Giuseppe Raciti, Riposto

Impronte, Cristian Fagone, Bergamo

L’aria, Vincenzo Guarino, Blevio

Villa Nai, Alessandro Proietti, Refrigeri Stradella

L’Alchimia, Davide Puleio, Milano

It, Ritrovato, Milano

Storie d'Amore, Borgoricco

Il Parco di Villa Grey, Nicola Gronchi, Forte dei Marmi

Addirittura, e l'anno scorso non era successo, ci sono due nuove due stelle. Entrambi gli chef arrivano sul palco visibilmente commossi:

Glam di Enrico Bartolini, chef Donato Ascani, Venezia

La Madernassa, Michelangelo Mammoliti, Guarene

Un commento sulle due stelle arriva da Fausto Arrighi, un altro grande nome legato alla storia della Guida francese in Italia, che ha diretto per anni. "Sono felice per le nuove stelle - ha detto - ben distribuite a livello territoriale, quindi rappresentative di tanti territori. Anche se mi aspettavo qualche due stelle in più, penso ci fossero buoni candidati. Le due stelle sono un ottimo indicatore della nostra ristorazione. Infatti se la prima stella per un locale è un buon momento e ne testimonia la qualità, la quantità di due stelle, quelle che si identificano con la mano dello chef, sono elemento di prestigio per tutto il Paese".  Che, per riassumere, adesso è a quota 11 tre stelle, 35 due stelle, 328 una stella per un totale di 374 stellati in Italia.

Enrico Bartolini, chi è lo chef da 9 stelle Michelin. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Gabriele Principato, Tommaso Galli. Sono 30 le new entry della «Rossa» e due i nuovi bistellati., 17 le stelle perse, fra cui una lo chef umbro Gianfranco Vissani. Classe 1979, originario di Castelmartini (piccolo paese della Toscana), Enrico Bartolini è il nuovo tristellato italiano, l'undicesimo per l'esattezza. Il «Pirlo dei fornelli», come lui stesso ama definirsi, ha conquistato oggi la terza stella Michelin nel suo ristorante milanese al Mudec e la seconda nel locale veneziano «Glam». Toccando una vetta raggiunta prima solo da Gualtiero Marchesi a Milano. Nel suo palma res, si contano così ben nove stelle distribuite nei suoi sei locali in Italia. Ma com'è iniziato tutto?

Eleonora Cozzella per repubblica.it il 6 novembre 2019. La notizia dell'anno è la terza stella Michelin a Enrico Bartolini nella guida 2020, per il suo ristorante all'interno del Mudec a Milano. Esce come un atleta olimpico che fa il pieno di medaglie dalla presentazione della 56esima edizione della mitica "Rossa", la più attesa della stagione delle guide. Lo chef toscano, originario di Pescia, si conferma sempre più un Re Mida della ristorazione: tutto quello che tocca diventa luccicante e si accende della luce dei macaron. Con l'abilità di scegliere nel suo team collaboratori che alzano il livello dell'asticella. Così può anche vantare due stelle Michelin appena assegnate al Glam by Enrico Bartolini (con lo chef Donato Ascani) a Venezia. Che si aggiungono ai suoi altri stellati: il Casual Ristorante, di Bergamo Città Alta, La Trattoria Enrico Bartolini, all’Andana Resort di Castiglione della Pescaia (GR) e la Locanda del Sant’Uffizio, Relais del Sant’Uffizio, Cioccaro di Penango (AT). Per un totale di 8 stelle che portano la sua firma. Bartolini entra nel ristretto novero con: Dal Pescatore Santini di Canneto sull'Oglio, Enoteca Pinchiorri a Firenze, Le Calandre di a Rubano, Uliassi a Senigallia, Osteria Francescana a Modena, La Pergola di Roma, Piazza Duomo ad Alba, Il Rosa Alpina di San Cassiano, Da Vittorio a Brusaporto dei fratelli Cerea e Reale di Niko Romito a Castel di Sangro. Enrico Bartolini, classe 1979, ha conquistato la sua prima stella nel 2010 a le Robinie e poi nel 2011 al Ristorante Devero, la seconda nel 2014. Nel 2017 approda al MUDEC, confermando la seconda stella e guadagnando oggi la terza. "Mi sento come se avessi vinto un oro olimpico – continua Enrico – un risultato così non si pianifica: si ambisce da sempre, ma non ce lo si aspetta mai… e come nello sport ai massimi livelli, ci si deve allenare ogni giorno, con fatica e sacrificio, senza mai perdere di vista la visione generale, nel rispetto di una filosofia e di un’etica ben precise. Io non posso che condividere questo meraviglioso momento con Remo e Mario Capitaneo e Sebastien Ferrara per Milano, e con Donato Ascani a Venezia: hanno dato prova di grande impegno e costanza. Ringrazio Michelin, e tutto il mio team, dal Monferrato alla Maremma, passando per Bergamo Città Alta, per la passione e il lavoro quotidianamente profusi, ma anche i nostri ospiti che con i loro stimoli ci hanno aiutato a migliorare e a crescere sempre di più". E in effetti Bartolini sta alla ristorazione in Italia come Michael Phelps al nuoto, macina medaglie. "E' un onore aver riportato le tre stelle a Milano" dice, ricordando che la città le perse quando nel 1993 Gualtiero Marchesi chiuse il locale di via Bonvesin de la Riva per andare in Franciacorta. Guida Michelin 2020, un nuovo tre stelle: con Enrico Bartolini i ristoranti top in Italia salgono a 11 Mario Capitaneo, Enrico Bartolini, Remo Capitaneo "Mi ha fatto molto piacere che sia stato infranto un tabù... prima le tre stelle si davano a cadenza quasi decennale" dice Roberto Restelli, già direttore della Rossa italiana. "Mi dispiace sinceramente per chi ha perso le stelle - continua il critico - ma la guida non nasce per essere celebrativa, deve essere appunto una fotografia della ristorazione, quindi ha anche la forza di fare scelte impopolari. I riconosimenti dati sono belli e validi. Unica cosa che vorrei dire, e che auspico uno scatto culteriore, la forza di vedere in quesya fotografia anche il valore di molte pizzerie". Se nei giorni scorsi, come anteprima della presentazione della 65 edizione italiana della mitica guida francese, erano stati preannunciati i nuovi Bib Gourmand, ovvero i locali che propongono una piacevole esperienza gastronomica, con un menu completo a meno di 35 euro, adesso l'attesa è finita. Marco Do, responsabile della comunicazione della guida in Italia, nel salottino del dietro le quinte si dice "emozionato per tenere in mano la nuova edizione", che ha definito un volume "che scotta". Voleva riferirsi a eclatanti novità? Ora sappiamo di si. Tra le cose che sottolinea, l'anonimato degli ispettori, che sono tutti dipendenti della Michelin, che si comportano da clienti come tanti altri ("non sono critici gastronomici ma fotografi della situazione di un locale" dice ), che sono "cercatori di stelle", che sempre di più sono internazionali (quindi un ispettore italiano non valuterà solo locali italiani e in Italia arrivano anche dall'estero) e che per valutare un ristorante si basano sui criteri di: qualità dei prodotti, tecniche di cucina utilizzate, stile personale dello chef, costanza della qualità dell'offerta. L'anno scorso la più corposa novità della guida, diretta da Sergio Lovrinovich, era stato l'arrivo di Uliassi nel novero delle tre stelle. Il che ha portato a dieci il numero dei locali che si fregiano del massimo riconoscimento (resteranno tali?). Vediamo cosa succederà al Teatro Municipale di Piacenza, tra i più amati da Stendhal che lo definì il più bello d'Italia. Parla di soddisfazione la sindaca della città Patrizia Barbieri secondo cui "Michelin è un'ottima occasione e vetrina per valorizzare tutti i prodotti e le tradizioni di Piacenza". La prima cittadina sottolinea che è un orgoglio poter ospitare l'evento, risultato reso possibile "grazie anche alla collaborazione con Reggio Emilia e Parma, con le quali si può parlare di una fantastica grande Food Valley". D'altro canto è facile capire come entrare in guida sia sempre più appetibile: il business dei ristoranti stellati vale 98 milioni di euro, di cui il 42 per cento diretto per i ristoranti, il resto come indotto nel territorio. Il premio per il "Servizio di Sala" di Coppini Arte Olearia, va a Sara Orlando, Locanda di Orta, Orta san Giulio. Il premio Chef Mentor va a Gennaro Esposito della Torre del Saracino a Vico Equense, per la "capacità di insegnare valori culturali e gastronomici, tra rigore e disciplina, ben dosati come gli ingredienti di un grande piatto". Riconosciuta insomma la sua capacità di farsi maestro di una schiera di giovani chef. Guida Michelin 2020, un nuovo tre stelle: con Enrico Bartolini i ristoranti top in Italia salgono a 11 Condividi E a proposito, il premio Giovane Chef sponsored by Lavazza va a Davide Puleio del ristorante l'Alchimia di Milano (e secondo la guida autore del piatto dell'anno, il merluzzo al vapore). Mentre per la chef Donna, già annunciata in anteprima settimane fa, è Martina Caruso. E mentre si conferma che la regione più fortunata dal punto di vista dei bib gourmand è l'Emilia Romagna, seguita dal Piemonte, arrivano anche le notizie amare, cioè di quei locali che non confermano la stella. Ben 13 i locali che perdono l'unica che avevano. Guida Michelin 2020, un nuovo tre stelle: con Enrico Bartolini i ristoranti top in Italia salgono a 11 Condividi Ci sono poi quei ristoranti, che subiscono una retrocessione da due a una stella. Tra questi suscita in sala molto scalpore il declassamento di Gianfranco Vissani con il suo ristorante a Baschi. Subiscono la stessa sorte Al Sorriso di Soriso, Locanda don Serafino a Ragusa e Locanda Margon in provincia di Trento (ma in quest'ultimo caso si registra un atto dovuto per il recentissimo cambio di chef, dopo che Alfio Ghezzi ha aperto al Mart di Rovereto). Ecco le nuove stelle, una pioggia: Da Gorini, Gianluca Gorini, Bagno di Romagna Iacobucci, Agostino Iacobucci, Castel Maggiore Apostelstube, Bressanone L’asinello, Senio Venturi, Casrtelnuovo Berardenga Santa Elisabetta, Rocco De Santis, Firenze Osteria Gucci, Anna Karime Lopez Kondo, Firenze Virtuoso, Antonello Sarpi, Lucignano Lunasia, Luca Landi, Viareggio Petit Royal, Paolo Griffa, Courmayeur Glicine, Giuseppe Scansione, Amalfi Monzù, Luigi Lionetti, Capri Lattuga, Adriano Dentonilitta, Ischia George Restaurant, Domenico Candela, Napoli Il Flauto di Pan, Lorenzo Montoro, Ravello Josè Restaurant, Domenico Iavarone, Torre del Greco Idylio by Apreda, Francesco Apreda, Roma Atelier, Giorgio Bartolucci, Domodossola Fre, Bruno Melati, Monforte d’Alba Condividere, Federico Zanasi, Torino Casamatta, Pietro Penna, Manduria Memorie, Felix Lo Basso, Trani Zash, Giuseppe Raciti, Riposto Impronte, Cristian Fagone, Bergamo L’aria, Vincenzo Guarino, Blevio Villa Nai, Alessandro Proietti, Refrigeri Stradella L’Alchimia, Davide Puleio, Milano Casamatta, Pietro Penna, Manduria It, Ritrovato, Milano Storie d'Amore, Borgoricco Il Parco di Villa Grey, Nicola Gronchi, Forte dei Marmi.

Un commento sulle due stelle arriva da Fausto Arrighi, un altro grande nome legato alla storia della Guida francese in Italia, che ha diretto per anni. "Sono felice per le nuove stelle - ha detto - ben distribuite a livello territoriale, quindi rappresentative di tanti territori. Anche se mi aspettavo qualche due stelle in più, penso ci fossero buoni candidati. Le due stelle sono un ottimo indicatore della nostra ristorazione. Infatti se la prima stella per un locale è un buon momento e ne testimonia la qualità, la quantità di due stelle, quelle che si identificano con la mano dello chef, sono elemento di prestigio per tutto il Paese". Che, per riassumere, adesso è a quota 11 tre stelle, 35 due stelle, 328 una stella per un totale di 374 stellati in Italia.

Enrico Bartolini, lo chef 8 stelle Michelin: «Io, nato per tirare rigori». Pubblicato giovedì, 19 dicembre 2019 da Micol Sarfatti su Corriere.it. Quarant’anni e otto stelle Michelin, tre solo nel ristorante Mudec di Milano. Lo chef Enrico Bartolini, protagonista della copertina del numero di 7 in edicola e su digital edition domani, è l’uomo dei record della cucina italiana. Intervistato da Angela Frenda, “Enrico il saggio”, come lo chiamano gli amici, racconta: «Non conosco l’ansia, sono nato per tirare calci di rigore. Non sono stupido, ho visto alcuni colleghi che mi salutano più freddamente, però io dico che c’è spazio anche per loro. Non ho mai provato invidia. Serve più generosità e serve pensare: la prossima volta toccherà a me. A volte si pensa di meritare le stelle e invece non si è ancora pronti». Bartolini confessa di «Vivere pensando al lavoro», si lascia andare solo quando parla dei tre figli e della sua separazione «La carriera ha influito molto sulla mia vita privata». L’incontro con lo chef è l’occasione per riflettere sul meccanismo di assegnazione delle stelle della guida più famosa del mondo. Un riconoscimento di grande prestigio, delizia per chi lo riceve, croce per chi ne resta escluso. Da anni scuote il mondo dei grandi cuochi con polemiche, rinunce e persino suicidi, come quello di Bernard Loiseau nel 2003 a Saulieu in Borgogna. Il caso sollevò polemiche sulla pressione a cui sono sottoposti gli chef sia per gli orari di lavoro che per il sistema di giudizi. Gwendal Poullennec, Direttore internazionale delle guide, spiega: «I nostri famosi ispettori, tutti ex professionisti usciti dall’ambito della ristorazione e dall’accoglienza e con alle spalle come minimo dieci anni di esperienza, percorrono i Paesi per scoprire e far emergere i talenti migliori. Sono inflessibili, prendiamo decisioni collegiali». Nella sezione rossa, dedicata all’attualità, Ferruccio de Bortoli dialoga con Vittorio Colao, Cavaliere del Lavoro, ex Ceo del gruppo Vodafone. Il manager bresciano riflette sulla Rete, l’anonimato, il fisco, l’ambiente e il lavoro. Il più grande effetto della rivoluzione digitale? «La condivisione di beni e l’utilizzo di servizi che prima erano solo appannaggio di pochi. Case, auto, pasti cucinati da altri».Sul futuro dell’Europa è fiducioso. «Viaggio molto. Incontro ovunque imprenditori che non hanno nulla da invidiare a quelli della Silicon Valley. Sono orgogliosi di essere europei, fiduciosi nelle regole comunitarie, consapevoli che, da soli, tedeschi, francesi, italiani, non contano molto. Abbiamo però poche grandi aziende e dovremmo favorire le concentrazioni. Cina e Stati Uniti hanno competitori di taglia decisamente superiore in molti settori». Sull’Italia, però, si dice neutrale. «Siamo pieni di creatività, imprenditorialità e altissima qualità produttiva. Ma il divario tra Nord e Sud è troppo ampio. Lo dico con sofferenza, da mezzo calabrese di origine e da italiano all’estero». Nelle pagine blu, quelle sulle vite private, le scrittrici titolari della rubrica 4 x7, Silvia Avallone, Teresa Ciabatti, Chiara Gamberale e Rosella Postorino si cimentano con racconti dedicati al Natale. Le suggestioni di una festa in famiglia che c’era e non c’è più, una bimba immigrata che ritrova la magia nelle luce di un supermercato, la moglie frustrata di Babbo Natale, un narcisista disinteressato ai bambini, e il ricordo di una casa dei nonni. Massimo Gaggi intervista il campione di sci americano Bode Miller, che racconta la tragica morte della figlia Emeline, affogata a 19 mesi in piscina e la nascita, lo scorso ottobre di due gemelli. «Ho aiutato mia moglie a partorire, le ostetriche erano bloccate nel traffico. È stato un momento magico». Infine, come sempre, le pagine color senape, dedicate al tempo libero. Consigli per libri, spettacoli e viaggi. In questo numero una guida ai cocktail e agli aperitivi perfetti per le feste. Dallo Smoking Bishop, un punch da servire in tazze resistenti al calore, al Chambrod Kir, a base di liquore francese al lampone.

Michelin, lo chef Bartolini: «Io come Yuri Chechi nel ’96. Gli invidiosi? Non ci penso». Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Corriere.it. «Mi sento come Yuri Chechi nel ’96. Ho vinto la medaglia più importante». Enrico Bartolini, 40 anni tra 15 giorni, è stordito. Tre stelle per il suo ristorante al Mudec riconsegnano a Milano un primato perso nel 1993, quando Gualtiero Marchesi andò via. Da allora, la squadra di allievi del Maestro è cresciuta e ha creato una nuova generazione di cuochi. Eppure, a riprendersi questo premio è stato un toscano, originario di Castelmartini. Non a caso il «Pirlo dei fornelli», come amano definirlo — 8 stelle Michelin in tutto, tanto che si parla di «sistema Bartolini» — ha avuto subito un pensiero: «Mi sono ricordato di quando ho visto Milano la prima volta. È stato per venire a cena da Carlo Cracco. Inizio 2000. Lui era il più grande riferimento creativo di cui leggevo in Italia. Gli anni sono passati, ma questo collega rimane un faro in città».

Lei lo sa che da oggi scatterà il paragone con Marchesi...

«Che responsabilità. Lui ha disegnato l’inizio di una nuova era. È stato molto coraggioso. Non tutti ne hanno capito la grandezza. Io ho avuto i suoi libri davanti al letto fino a 18 anni. I suoi e quelli di Vissani. Erano i miei maestri».

Tre stelle a Milano, cosa significano?

«È un messaggio internazionale grandissimo. Non ne beneficiano solo il ristorante e lo chef. Dopo Expo la città è esplosa, è rinata. E oggi è sempre più bella. Sa, quando avevo un ristorante in Oltrepò, in molti mi dicevano: se tu fossi a Milano... Ma mi veniva male entrare in tangenziale. Amavo il verde. Poi ho iniziato a frequentare il Trussardi di Berton, esperienza pazzesca. E nel 2016 ho vinto le mie paure e ho scelto il Mudec: aveva una visione contemporanea che trovavo affine alla mia cucina. È cominciata così, questa storia».

Si sente un fortunato?

«No. Anche se so che ci sarà chi è rimasto male. Chi è invidioso».

Che cucina è la sua?

«Buona (ride). Sì, mi hanno detto di scrivere contemporary classic, ma poi finiamo per dire tutti la stessa cosa. Più che altro, ogni giorno mi auguro di cucinare meglio di mia nonna. O anche di Fulvio Pierangelini. Nel 2009 ho fatto una cena a Villa d’Este con lui. Io dal pomeriggio avevo pesato tutto, previsto ogni minimo dettaglio. Lui arrivò alle 19 e 30 e si era solo fatto spiumare dei piccioni. In un attimo appoggiò le padelle fredde con una noce di burro, accese il fuoco, e cucinò il piccione più buono che abbia mai assaggiato. Si chiama talento».

C’è un segreto della formula Bartolini?

«Scegliere e motivare il team ogni giorno. È con loro che condivido questo premio, affrontano con me quotidianamente la parte più faticosa. Quando ho aperto il primo ristorante eravamo tre cuochi e un lavapiatti occasionale. Adesso siamo tanti e stare insieme è un mestiere. Tutto serve a rassicurare le persone che stanno facendo la cosa giusta. E poi, forse, l’altro segreto è la corsetta del mattino: mi aiuta a fare tutto. Possibilmente bene».

Lo chef fa causa alla Michelin: ​"Non volevo quella stella". Eo Yun-gwon, chef di cucina italiana in Corea, attacca: "La Guida pensa solo ai soldi, non ha una filosofia". Francesca Bernasconi, Mercoledì 27/11/2019, su Il Giornale. Per gli chef il più grande riconoscimento che possano ricevere è una stella Michelin. La sognano tutti, o quasi. Non è così, infatti, per Eo Yun-gwon, chef di formazione italiana, tornato poi in Corea, che ha iniziato una battaglia legale per farsi togliere dalla Guida Michelin. Secondo quanto racconta La Nazione, Eo, che in Corea ha aperto un ristorante di cucina italiana contemporanea, avrebbe chiesto più volte di non essere inserito nella guida rossa: "Ho chiesto chiaramente di non esserci- ha detto al quotidiano- ma loro lo hanno fatto lo stesso a loro piacimento". Ma Eo era tenuto sottocchio dalla Michelin, a cui non era sfuggito il suo talento. Nel 2016, infatti, il suo ristorante era stato inserito nella guida e poi, nel 2017 era arrivata la prima stella, confermata l'anno successivo. Poi, quest'anno, il passo indietro: lo chef perde il riconoscimento. Già nel 2017 Eo aveva cercato di rifiutare il prestigioso riconoscimento. Il motivo lo ha spiegato lui stesso, come riferisce La Nazione: "Molti ristoratori sprecano soldi, anima e tempo per perseguire il miraggio di una stella, ma la Guida è accecata dal denaro e manca di una filosofia". Lo chef non approva le stelle perché chi lavora alla Guida "inserisce forzatamente i locali contro la loro volontà, qui ci sono migliaia di ristoranti dello stesso livello o migliori e più onesti, ed è curioso che solo 170 rappresentino Seul". Così, ora, lo chef fa causa. Nonostante la notizia desti stupore, Eo non sarebbe il primo a voler rimandare al mittente la stella Michelin. L'ultimo chef a rifiutarla era stato, nel 2017, Sebastien Bras, ma prima di lui l'elenco non è indifferente: da Oliver Roellinger a Gualtiero Marchesi. C'è chi rinuncia alla stella perché non ne approva la filosofia e chi perché non vuole essere costretto ad aumentare i prezzi e lavorare maggiormente sotto pressione. Il riconoscimento, infatti, mette a dura prova gli chef, che devono costantemente reggere il ritmo e mantenere alta la qualità, soprattutto alla luce delle nuove tendenze social, che comprendono i ristoranti stellati. Non solo. Le stelle, a volte, possono portare con sé anche depressione: "Sono esausto, non dormo, mangio poco, piango, mi sento male", aveva detto Marc Veyrat, cui era stata tolta una delle tre stelle. E, all'estero, c'è anche chi si è tolto la vita, per aver perso il prestigioso riconoscimento o perché sottoposti a una pressione eccessiva. È la parte oscura che si nasconde dietro le stelle, perché non sempre tutte le loro facce luccicano.

Gianfranco Vissani perde una stella: «La Michelin? Una vergogna italiana». Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Alessandra Dal Monte. La rabbia dello chef umbro: «Per loro è un gioco. Ma la domanda da porsi è: da chi veniamo giudicati?»Gabriele Principato, Tommaso Galli. Sono 30 le new entry della «Rossa» e due i nuovi bistellati., 17 le stelle perse, fra cui una lo chef umbro Gianfranco Vissani. «Per loro è un gioco, per noi no». Gianfranco Vissani ha appena saputo di aver perso una delle due stelle che la Michelin aveva assegnato al suo ristorante «Casa Vissani» di Baschi (Terni). «Ma a questo punto ce le potevano togliere entrambe, no? La Michelin è una vergogna italiana, un discorso solo commerciale. Guardi, aveva ragione Gualtiero Marchesi: ma da chi siamo giudicati?». Il cuoco umbro, classe 1951, negli anni Novanta grande star della cucina nazionale — è stato il cuoco di riferimento di politici come Massimo D’Alema e uno dei primi chef ad andare in televisione — ora spara a zero sulla guida Rossa. «Bisognerebbe chiedersi chi è in grado di giudicare un ristorante oggi. Io dico solo che il mio è pieno e funziona, mi basta questo. Non voglio confrontarmi con altri chef né essere giudicato da ispettori messi in piazza dai francesi». 

Alessandra Dal Monte per cucina.corriere.it il 6 novembre 2019. «Per loro è un gioco, per noi no». Gianfranco Vissani ha appena saputo di aver perso una delle due stelle che la Michelin aveva assegnato al suo ristorante «Casa Vissani» di Baschi (Terni). «Ma a questo punto ce le potevano togliere entrambe, no? La Michelin è una vergogna italiana, un discorso solo commerciale. Guardi, aveva ragione Gualtiero Marchesi: ma da chi siamo giudicati?». Il cuoco umbro, classe 1951, negli anni Novanta grande star della cucina nazionale — è stato il cuoco di riferimento di politici come Massimo D’Alema e uno dei primi chef ad andare in televisione — ora spara a zero sulla guida Rossa. «Bisognerebbe chiedersi chi è in grado di giudicare un ristorante oggi. Io dico solo che il mio è pieno e funziona, mi basta questo. Non voglio confrontarmi con altri chef né essere giudicato da ispettori messi in piazza dai francesi».

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 10 novembre 2019. «Non gioco più, me ne vado, non gioco più davvero», cantava Mina. Non gioco più, canta amareggiato Gianfranco Vissani. Quando ha saputo di aver perso una delle due stelle che la Michelin Italia aveva assegnato al suo ristorante, il pioniere dei cuochi in tv ha sbroccato: «La Michelin è una vergogna italiana, un discorso solo commerciale Bisognerebbe chiedersi chi è in grado di giudicare un ristorante oggi. Io dico solo che il mio è pieno e funziona, mi basta questo È una guida di compromessi». Può darsi che la Michelin sia una guida di compromessi, che alcuni sponsor abbiano un loro peso, che in passato siano stati premiati ristoranti chiusi, ma queste cose bisognerebbe denunciarle prima, non dopo. Altrimenti l' accusa sa solo di risentimento. Vissani assomiglia a quegli autori che bramano il successo di pubblico e di critica. Le vendite non bastano e alla prima recensione negativa vomitano fiele. Viva quei ristoranti che non hanno bisogno di guide, anche perché l' incoronazione spesso diventa un incubo gravoso. Fra gli undici chef premiati con le tre stelle, non uno passa tempo in tv o fa pubblicità a qualche prodotto: un criterio, forse, che ha avuto il suo peso. «È un cattivo cuoco quello che non sa leccarsi le dita», dice un servo in Giulietta e Romeo. È un cattivo cuoco quello che non sa leccarsi le ferite.

Anticipazione stampa da “Oggi” il 4 dicembre 2019. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, Gianfranco Vissani torna, seppure di malavoglia, sulle guide gastronomiche, dopo che la Michelin gli ha tolto una delle due stelle. «Io credo che non bisogna dare ascolto alle guide, bisogna fare di testa propria. Mangiare dalla mamma che cucina. Oppure andare in ristoranti dove ci sono pochi piatti. Lei ce la vede una buona cucina quando in un ristorante c’è la grande carte, con molti piatti e cento coperti?». Vissani consiglia però le guide di Repubblica sotto la direzione di Giuseppe Cerasa e quella di Massobrio, e boccia anche TripAdvisor: «Ci sono tante persone cattive che mangiano male in un ristorante e ne parlano male, mangiano bene in un ristorante e ne parlano male ugualmente». E non lo smuove il fatto che sul suo ristorante ci siano solo 19 recensioni negative su centinaia di eccellenti: «Quei 19, sa, erano degli stranieri, i più grandi coglioni della storia perché volevano mangiare in fretta».

Er Murena per puntarellarossa.it il 6 dicembre 2019. Vissani e le donne, lo show rivoltante del re del mansplaining e della misoginia in cucina. Succede così, che c’è un programma sugli chef, in tv o in radio, si invita qualche rappresentante “femmina”, come allo zoo, e poi zac, entra in scena Gianfrancone Vissani, l’uomo dalle scarpe rosse papali, lo chef già dalemiano, attualmente al soldo di chi offre di più, il re del mansplaining (uomini che spiegano alle donne). E Vissani fa il suo spettacolo, lancia la frusta a destra e manca con battutacce rozze e di una volgarità che neanche il buon Bombolo riusciva a raggiungere. L’effetto è ottimo e abbondante, grandi ascolti, risatissime e pacche virili sulle spalle. Eppure, non c’è niente da ridere. Personaggi come Gianfranco Vissani sono deleteri per il mondo del food (e non solo) e danno un esempio pessimo. Ne parlammo già nel 2012 e la situazione non fa che peggiorare. Prendi la trasmissione di ieri di Radio Radio. In studio con Francesco Vergovich ci sono le chef Iside De Cesare della Parolina e Barbara Agosti di Eggs. Seguirà Manuela Zennaro. In collegamento telefonico ecco spuntare prezzemolino Vissani, pronto a ripetere la sua teoria per cui le donne in cucina non ci possono stare perché è un lavoro di fatica e lo devono fare gli uomini. L’esordio è complicato, perché Vissani non padroneggia alla perfezione la lingua italiana e quindi si barcamena a fatica. Ecco la prima frase trascritta come è stata pronunciata: “Vedi questi locali che sono diciamo gourmet che fanno i soprammobili fanno i pentolini piccoli ci vuole agilità chi non è stato mai in cucina non lo può sapere chi fa i nummeri ci vogliono i pentoloni non è che la tecnologia  fa male anche alle persone un concentrato di induzione che poi le persone che sono vicine cioè ci vuole sempre il gas perché le induzioni fa male è un concentrato”. Vabbè, ci siamo capiti, più o meno.  Il seguito, purtroppo, è più chiaro: “Tutti quanti noi ce la prenderemo nel culo, non si rendono conto. Nei Paesi Scandinavi lo usano. E infatti non trombano più“. Passiamo alle donne: “Io ce le ho solo in pasticceria. Non ci sono più le tedesche. Loro hanno due cosce che sembrano due tamburelli“. Il concetto è chiaro, il seguito sono le chef che cercano, con rara civiltà, di spiegare a Vissani quel che è elementare. E cioè che la cucina non è una palestra per sollevare pesi, non è fare i manovali. Fare lo chef non vuol dire portare sulle spalle i pentoloni, ma saper gestire sapori, cotture,  materie prime, brigata. La Agosti per un attimo perde simpaticamente la pazienza, quando Vissani ripete che le donne non sono in grado di gestire i pentoloni: “Ora i pentoloni cominciamo a tirarli“.  Ma è solo un attimo. Con una pazienza di Giobbe, le chef ripetono delle banalità di buon senso che il maschilismo becero di Vissani non capisce. Intervengono anche Federico De Cesare Viola e Enrico Camelio. Tutti a criticare Vissani, sia pure in punta di fioretto, perché il mondo del food è piccolo e non è il caso di tirare davvero pentolate a persone importanti. Vissani spiega: “Ho una brigata di 30 cuochi, ho 8 donne in pasticceria, ma crollano tutte e se ne vanno. Le donne non gliela fanno fisicamente sulle spalle. Ma dove lavorate, dentro una sala operatoria?”. Non è la prima volta che Vissani parla di donne in cucina e altre volte ha dato motivazioni anche peggiori. Il seguito del discorso, se così vogliamo chiamarlo, segue la stessa linea, trita, triste e penosa. Le chef, sante donne, hanno l’accortezza (qualcuno direbbe la tipica “sensibilità” femminile), di non ricordare che Vissani quest’anno ha perso una stella Michelin. Lui però ci pensa, tanto che si incarta, quasi si commuove ricordando di un premio preso a Parigi, “una cosa vera, governativa, non con le acque minerali”.

Er Murena per puntarellarossa.it – pubblicato da “il Fatto quotidiano” il 21 dicembre 2019.

Chef Vissani, parliamo di quello che ha detto sulle donne che non possono stare in cucina: in molti si sono sentiti offesi. Perché sono tutti dei pirla. Non chiede scusa, quindi.

«Neanche per idea. Abbia pazienza, di cosa dovrei chiedere scusa, poi? Mi dica le parole esatte delle quali dovrei scusarmi».

Testuali: "Le donne non ce la fanno fisicamente in cucina. Da me stanno in pasticceria". E ancora: "Io sono 50 anni che sto dentro le cucine e non capisco ancora le donne dove sono".

«Leonardo da Vinci, che era gay, diceva sempre che una donna non può stare in pasticceria perché non ce la fa a sollevare una forma di marzapane. La verità è che ho citato Leonardo, altroché».

Ma è cucina o sollevamento dei pesi?

«Le donne sono bravissime, creative, sanno mettere bene un piatto, renderlo bello. Ma le donne non sono Superman».

Se fossero Superman, cosa farebbero?

«Guardi, mia sorella ha 50 anni e sta in pasticceria. Mi dice sempre: ma lo sanno questi cosa vuol dire sollevare un sacchetto di farina 23 chili?»

Va bene, ci vogliono spalle grosse, virili.

«Pensi che prima la misura standard dei sacchi di farina per cucine professionali era da 50 chili. Non abbiamo i facchini, dobbiamo fare da soli. E le donne non ce la fanno. Da me ho il 50 per cento di personale composto da ragazze e ne sono molto felice. Ma non ce la fanno. Perché la cucina è tosta».

Le chef che le hanno risposto dicono che ce la fanno. Per prenderla in giro, hanno fatto un calendario riprendendosi mentre sollevano pentolini e pentoloni.

«Se prendiamo una casseruola di alluminio, per carità. Ma se parliamo della "piatta" col doppiofondo d' acciaio, buona fortuna. Nella mia cucina dico sempre ai miei: date una mano alle ragazze».

Politically correct

«La cucina professionale non è un gioco. La ragazza si stanca e produce meno e se ne va».

Insiste?

«Un conto è la cucina di casa. Un conto è il lavoro duro».

Ma come spiega il successo anche internazionale di grandi chef donne? Penso alla Bowerman.

«E chi è la Bauer?»

La Bowerman, chef con una stella. Proprio come lei, visto che una l' ha persa.

«Non ho mai saputo che fosse affermata».

Ok, si è distratto.

«Ma le concedo che ci sono grandi chef donne. Penso a Nadia Santini del Pescatore di Canneto sull' Oglio o a Pina Beglia dei Balzi Rossi E come se lo spiega? Parli con gli anziani del mestiere. Sono tutti con me».

Quando eravamo ragazzini, a stare vicino ai fornelli ci venivano le vene varicose per il calore.

«Negli anni 60, quando si aprivano i forni sotto la cucina, si stava tutti in difficoltà e le donne avevano problemi alle ovaie. E infatti stavano lontane dai forni».

Alle ovaie? Comunque, c' è la tecnologia ora.

«Oggi mica è diverso. Nei ristoranti grossi chi lava le casseruole? Le donne? O gli uomini, anzi gli extracomunitari?»

Ho paura della risposta.

«E fa bene. Gli extracomunitari. Maschi. Io ne ho avute venti di donne in cucina. Fanno un mese, due mesi, poi se ne vanno. Perché è pesante. Ripeto: non parlo di capacità. Ma un conto è fare un piatto e metterlo fuori decorato, impiattarlo, magari con il bisturi o i fiori di campo. Un conto è stare lì a caricare pesi dalla mattina alla sera. Non dovete guardare i grandi ristoranti, dove in brigata ci sono 20-30 persone. Guardate quelli da quattro, cinque: il decoratore non sposta i sacchi di farina».

Le donne decoratrici?

«Le donne sono la colonna portante della società, anzi, della vita. E poi guardi, mi si può dire di tutto, tranne che non mi piacciano le donne».

Che c' entra? Questo è sessismo.

«Perché? Non ho detto nulla contro di loro. Mi sono solo chiesto quante volte in una giornata possano tirare fuori una casseruola bollente. Per farlo ci vogliono due uomini, belli grossi. E mi creda, non ce la fanno manco loro. Le donne sono sensibili, hanno una mano delicata. E dunque confermo: la pasticceria è un luogo più adatto a loro della cucina».

Veramente Leonardo diceva che nemmeno in pasticceria.

«Sicuramente è un luogo più adatto della cucina».

A proposito di Leonardo, prima ha sottolineato che era gay. Perdoni, ma che dice dei gay in cucina?

«Con uomini omosessuali io ci ho lavorato. Sono molto bravi e puliti».

Puliti? Uomini omosessuali?

«Sì certo, puliti. Io ho lavorato con omosessuali e mi hanno colpito: sono di una pulizia che fa paura. Un uomo che vive da solo non è ordinato e preciso. Io, per esempio. Un omosessuale o una donna in cucina sono più puliti».

La guida rossa Michelin punisce Vissani perché vota a destra. Il Secolo d'Italia giovedì 7 novembre 2019. La guida rossa di Michelin ha deciso di punire un monumento della cucina italiana, Gianfranco Vissani. Chef stellato da oltre 25 anni, si è visto togliere una stella dalla guida Michelin edizione 2020. Come mai? Dubitiamo che la scelta sia dovuta a ragioni culinarie, se perfino uno chef tre stelle come Enrico Bartolini, nel ringraziare la Michelin per il riconoscimento conseguito, ha messo Vissani nell’olimpo della cucina italiana, insieme al compianto Gualtiero Marchesi. E allora? La guida rossa Michelin forse è troppo rossa. O due volte rossa. E così avrà poco gradito il recente endorsement di Vissani in favore del centrodestra e di Matteo Salvini. Nella sua Umbria, ha esultato per la recente vittoria del centrodestra, salutata come “una vittoria annunciata. Sono contento e spero che ci sia finalmente un cambiamento”. Da Civitella del Lago (Terni) il famoso chef italiano ebbe a spiegare all’ADN-Kronos di non essere “schierato politicamente, ma sono contento perché l’Umbria aveva bisogno di un cambiamento forte che noi aspettiamo come manna dal cielo”. Dulcis in fundo, Vissani si prese addirittura l’ardire di confidare che ”Con il suo modo un po’ burbero credo che Salvini potrà riuscirci. Bisogna risollevare non solo l’Umbria ma anche l’Italia”.

Puntuale è così arrivato il bastone rosso. Via una stella a Vissani, colpevole non solo di essere uno dei pochi chef al mondo stellati da oltre due decenni, ma soprattutto di non essere più “rosso”. Come la guida Michelin. In questi tempi bui, dove il pensiero unico politicamente corretto sovrasta ogni ambito dell’attività umana, anche in cucina bisogna essere progressisti. Pena la perdita di una stella e la minaccia di uscire dal firmamento delle guide culinarie, pur se decadute.

Da “la Zanzara - Radio 24” il 29 ottobre 2019. “A me Salvini piace, è il mio idolo. Ho votato per la Lega e anche nella mia famiglia penso che hanno votato tutti per lui. Sono umbro e sono orgoglioso di esserlo, e in questo momento dico Viva Salvini cazzo per quello che sta facendo!! In questo momento dovrebbe bloccare altro che porti, tutto, mettere una rete alta cinquanta metri!!!”. Lo dice lo chef Gianfranco Vissani a La Zanzara su Radio 24. “Voi lo sapete come stiamo in questo Paese - dice Vissani - stiamo soffrendo, non c’è lavoro. Bisogna riportare tutto all’anno zero. Ho votato Salvini a spada tratta. Prima ero democristiano, poi socialista con gli anni e ancora vicino a Partito Democratico. Ma se quelli della sinistra non vanno in campagna, nelle periferie delle città, questi radical chic, con le loro borsette nei corsi, tutti all’ultima moda, non hanno capito come funziona”.

E l’amicizia con D’Alema?: “L’amicizia è una cosa, posso essere amico di persone che la pensano diversamente da me. Io non sono schierato con nessuno”. Ma secondo te Mussolini ha fatto delle cose buone?: “Mussolini ha fatto tutto. Pensate al Tevere che era il terzo fiume d’Italia. Partiva dalle Marche, ma il terzo fiume d’Italia deve partire dalla Romagna diceva, e ha spostato i confini. Troppo forte. Ha fatto di tutto e di più, dai su”.

E gli immigrati?: “Aiutiamo prima le famiglie che hanno bisogno di lavorare, a cinquant’anni non li vuole più nessuno”. Ma la figa ti piace ancora?: “Ma è una vita che non tocco una topa. Ma non mi fidanzo, non basta alle donne portarle fuori a cena, vogliono di più. E’ ormai quasi un anno che non trombo”.

Guida Michelin, Vissani tuona per la perdita della stella. Il figlio Luca: "Noi andiamo avanti". Il patron Gianfranco parla di vergogna, il figlio replica che "andrebbe rivisto il modo di comunicare delle guide". Eleonora Cozzella su La Repubblica il 6 novembre 2019. Toni diversi in casa Vissani nella reazione alla notizia della perdita nell’edizione 2020 della Guida Michelin di una delle due stelle dello storico locale di Baschi. Da una parte il patron Gianfranco Vissani, come è tipico del suo carattere, spara a zero e affida espressioni durissime ad alcuni siti, nei momenti successivi all’annuncio, parlando di “vergogna italiana”, di un “gioco” sulla pelle degli chef, e ricordando anche le prese di posizione di Gualtiero Marchesi ( “Ciò che più m'indigna - disse il maestro lombardo - è che noi italiani siamo ancora così ingenui da affidare i successi dei nostri ristoranti a una guida francese”). Dall’altra il figlio Luca, restaurant manager di Casa Vissani, si dimostra più diplomatico, da esperto uomo di sala qual è. “Va bene così – dice – adesso tocca ai clienti giudicare se facciamo bene o ha ragione la Michelin. Siamo sereni. Sono molto fiero della mia squadra, di cucina e di sala, e orgoglioso del progetto che stiamo portando avanti”. Luca specifica che “non c’è alcun problema con la Michelin. Prendiamo questa decisione con spirito costruttivo anche perché siamo orgogliosi dei nostri ragazzi”. “Probabilmente il nostro progetto non viene compreso da tutti perché è molto avanguardista. Con questo tanto di cappello ai colleghi che hanno preso una stella, due e tre. Noi cercheremo di dare come sempre il meglio”. La serenità che Luca Vissani dimostra, non è però esente da una critica: “bisogna ripensare il modo di comunicare delle guide perché altrimenti si rischia di procurarsi visibilità solo sulle sfortune degli altri. Noi faremo i nostri esami di coscienza ma i giochi si fanno in due.”

Andrea Cuomo per ''il Giornale'' l'8 novembre 2019. Franco Pepe è probabilmente il migliore pizzaiolo del mondo. Il suo locale, Pepe in Grani, a Caiazzo, è meta di pellegrini del gusto che per nessun'altra ragione capiterebbero mai in questo paesino del Casertano in cui, dice lui stesso, «il lunedì sera quando siamo chiusi non incontri nessuno da salutare». Eppure se cerchi Caiazzo nella guida Michelin presentata mercoledì a Piacenza non la trovi. Guardi bene, controlli l'ordine alfabetico, poi ti arrendi. Non solo Pepe non ha una stella come secondo noi e secondo molti meriterebbe visto che a Bangkok e a Singapore ci sono baracchini di street food che possono esibire la mitica targa rossa di latta, ma per la Michelin proprio non esiste. Roba da crisi di identità.

Ma lei esiste, Pepe?

«Mi ascolti. La Michelin non guarda alle pizzerie, non le prende in considerazione. Rispetto questa scelta ma mi chiedo: che cos'è la pizza per la Michelin? Faccio fatica a capirlo, sono stato a Hong Kong in posti con la stella in cui non volevo rimanere. E poi, segnalano solo pizzerie napoletane, a parte Simone (Padoan dei Tigli di San Bonifacio, ndr). Non ha senso, oggi esiste la pizza italiana, non più solo quella napoletana».

E quindi?

«E quindi rispetto e sto a guardare. Noi siamo qui, sanno dove trovarci. Non mi aspetto la stella, io non mi voglio paragonare a uno chef stellato, se un giorno la Michelin mi riconosce anche con un altro simbolo io sono lusingato».

Ma un altro simbolo non sarebbe solo una presa in giro?

«Ma ognuno poi decide come fare il suo prodotto, la Michelin fa il suo e io il mio».

E il suo qual è?

«Dal 2012 al 2017 ho fatto evolvere il concetto del mio prodotto e della mia location in funzione dell'ascolto del cliente. Io nella mia pizzeria ho tre sommelier, ho sale degustazione, ho posti letto in due stanze molto curate che ho voluto per lanciare un messaggio: la pizza è slow. Non è più solo un disco di pasta condito in qualche modo, che mangi e scappi via. Oggi c'è una cucina che lavora a supporto della pizzeria, un team, le pizzerie non si chiamano più Da Mario, Da Giovanni».

Alcuni questa cosa la chiamano pizza gourmet.

«Ma non io. Io preferisco parlare di evoluzione della pizza. Che deve restare un prodotto democratico».

Democratico o pauperista?

«Democratico. Tu puoi entrare da me e mangiare una pizza a libretto a 2 euro. Nelle sale tradizionali il coperto è in media di 15-16 euro. Poi c'è una sala degustazione con tre tavoli da otto in cui la pizza è servita a spicchi secondo un percorso di degustazione con sommelier a proporre vini e bollicine. Un belvedere con pochi posti dove garantisco la privacy. E da due anni la sala Authentica, la pizzeria più piccola al mondo, dove io cucino a contatto con il pubblico: otto persone che mi guardano negli occhi, che guardano le mie mani. E che pagano anche cento euro a persona».

In questa sala lei ha creato Authentica stellata.

«Sì, una rassegna che da novembre a giugno ospiterà trenta chef stellati e no, che io voglio ringraziare per quello che mi hanno insegnato».

Lei affronta anche gli aspetti nutrizionali della pizza.

«Mi dicevano: la pizza si può mangiare solo una volta a settimana. Ma perché? Così, essendo anche ambasciatore della Dieta mediterranea, con l'aiuto di una nutrizionista ho creato un menu funzionale di pizze, con carboidrati ridotti e il giusto apporto di proteine, lipidi e di fibre, grazie all'accostamento con le erbe spontanee. Propongo un nuovo piatto con un dressing destinato ad accompagnare il cornicione, così evitiamo anche di buttare il 10 per cento del nostro lavoro».

La critica la esalta. Che rapporto ha con essa?

«Nel locale, appena entri, vedi un cartello in cui spiego al mio cliente che non leggerò mai una recensione scritta su qualsiasi blog. Chi vuole dirmi delle cose, me le dica in faccia prima di pagare il conto».

Questo per i giudizi dei clienti. Ma per la critica-critica?

«Dipende chi me la fa. Ci sono 5 che valgono tanto e 10 che arrivano da chi ti sopravvaluta. So bene che come si può creare un personaggio lo si può distruggere. Mio padre faceva le stesse file che faccio io oggi ma non c'era nessuno a raccontarle. Comunque a tutti dico: voi non mi potete giudicare se non venite da me e non capite chi è Franco Pepe».

Sulla pizza si è detto tutto o c'è ancora da dire?

«Io e altri abbiamo fatto un miracolo ad alzare l'asticella. Ma ora al mondo pizza si può chiedere di più se ci sarà un giorno una scuola istituzionale che formi i pizzaioli non solo da un punto di vista degli impasti ma anche da un punto di vista scientifico. Evitiamo che i pizzaioli li crei la comunicazione, facciamoli creare dalle scuole».

Edoardo Dallari per “la Verità” il 23 novembre 2019. Chissene importa della stella persa, oggi si festeggia. Gianfranco Vissani, chef appena «defraudato» dall' illustre Guida Michelin, spegne le sue prime 68 candeline senza rancore, ma con qualche spunto di riflessione in più. Lo ricordano sempre per il risotto cucinato con Massimo D' Alema, ma lui di cose ne ha fatte (e viste) tante. E ora la sinistra, un po' come la Michelin, la vede chiusa in un santuario che ha in spregio «il popolino» e si dimentica dei veri affamati. Di cibo e di lavoro.

Chef Vissani, come si sente a 68 anni compiuti?

«Non si dicono mai gli anni! Oggi tutti cercano di nasconderli, però ci siamo. Sto bene, la mia vita la sto vivendo, tra amori e lavoro, con grandi soddisfazioni e risultati».

Si sente davvero il Che Guevara della cucina italiana?

«Mi hanno definito cosi, come una volta c' era il "divino" Gualtiero Marchesi. Che Guevara era un idealista, uno che credeva in quello che faceva, che ha fatto la rivoluzione perché vedeva oppressione nel suo popolo.

Tutti questi leader maximi prendono il sopravvento quando vedono la gente dalla loro parte. Non dico che avremmo bisogno di un' elezione bulgara, ma in questa Italia dove ci sono politici che non sono politici, e dove il governo non governa perché si è trasformato in ufficio delle tasse, un Che Guevara può capitare.

Ci stanno trasformando in numeri. I ragazzi che cercano lavoro mi chiedono: quanto mi dai?, io rispondo: ma tu che cosa sai fare? Non sono pronti».

Come mai, dopo 20 anni, le hanno tolto la sua stella?

«Si vede che non eravamo più all' altezza».

Ha detto che la Guida Michelin è anti italiana.

«Ho usato questa espressione, ma dal profondo della mia esperienza, 50 anni, dovevo evitare. Ero uscito da un ricovero ospedaliero di otto giorni e mi è venuta spontanea. Avrei dovuto contare fino a dieci. A Casa Vissani abbiamo sempre fatto le cose per bene, ma a qualcuno non va a genio».

La guida sbaglia?

«Tutti hanno le loro faide, le loro correnti. Come si fa? Per me ci vogliono 15, 20 giornalisti - ma giornalisti, non proprietari di aziende - che vanno nei ristoranti, mangiano e votano. Se io sono il direttore di una guida ho i miei interessi Questo c' è sempre stato. Però la grande ristorazione è in un mare di merda, se non arriva qualcuno a darci una mano possiamo chiudere tutto perché ci sono costi inumani».

Aldo Grasso sul Corriere della Sera l' ha accusata di risentimento, di non sapersi leccare le ferite e di bramare solo il successo.

«Aldo Grasso non è mai stato da me in Umbria. Lui parla per sentito dire. È piemontese e i piemontesi sono falsi e cortesi, no? Perché non ricorda quando mangiava al mio ristorante all' Hotel Bellevue di Cortina d' Ampezzo e diceva che era tutto ottimo? Facile picchiare su un animale ferito».

Lei si sente ancora il numero uno della cucina italiana?

«Io sono stato numero uno? Faccio quello che posso, mi diverto, non cucino con l' azoto e a basse temperature. In quel modo non si sa neanche quello che si mangia. La cucina italiana è un' altra cosa. Tutti cercano il prodotto vero. Vogliamo strapazzare il mondo, dire che è tutto uguale, che non esiste più niente di valore? Basta».

Il made in Italy è sotto attacco?

«Sì, perché Donald Trump fa il coglione con i dazi. Ma il problema è strutturale. Una volta ero con altri chef attorno a un tavolo con l'allora ministro dell' agricoltura Maurizio Martina, e con il senno di poi ho sbagliato ad andarci perché quello è un radical chic puro.

Gli ho detto: guardi che il prodotto italiano fatica molto. Lui mi ha risposto: ma va, facciamo parlare Massimo Bottura per piacere (chef pluristellato, noto per la cucina solidale, ndr). A quel punto mi sono alzato e me ne sono andato via. Bottura? Ma di che cazzo stiamo parlando? È uno che non sa neanche come si chiama. È tutto combinato, alcuni possono parlare e altri no. È una vergogna, molti hanno paura, ma non io. Sarò penalizzato, ma chissene importa».

Negli ultimi mesi fa molto parlare chef Rubio, che l'ha attaccata dicendo di sapere cose su di lei che «quando fa lo splendido in televisione non racconta».

«Io non conosco questo Rubio, né mi interessa. Ancora lo chiamate chef? Può dire quello che vuole, ma l' unica cosa che sa fare è attaccare la gente per farsi popolarità. Recita la parte dell' anti Salvini».

Le piace il popolo delle sardine?

«Ma che cosa vogliono? Matteo è una bravissima persona. Se la sinistra, la destra o il centro esistono ancora e riescono a fare qualcosa lo devono a lui. Ha smosso le acque. In generale, però, è ora di renderci conto che quei pochi che stanno in Parlamento non possono dirigere un Paese come l' Italia. Benito Mussolini diceva che l' Italia è ingestibile.

Mio padre mi ricordava che il popolo è quello che porta l' acqua con le orecchie. Sono i lavori umili che fanno andare avanti il Paese. Ormai è tutto difficile. Arrivano qui i romeni, i bulgari, la gente dell' Est? Allora formiamo delle scuole, istruiamoli. Magari delle scuole di bon ton».

Che cosa le piace di più di Salvini?

«Tutto, ma a tutti noi piace Salvini. Bisogna ripartire dall' anno zero, bisogna azzerare i conti di tutta l' Europa. Non è l' Italia ad avere il deficit e il debito pubblico più alto. La Spagna, la Germania, la Francia, l' Inghilterra? Mettete il cash nelle tasche degli italiani».

E D' Alema come l' ha presa questa sua simpatia per il leader della Lega?

«Io non ho mai detto di essere di sinistra. Finché c' è stato Massimo D' Alema ho cercato di stargli dietro. Ricordo però che lui è stato il primo a voler parlare con la Lega perché capiva che c' era un epicentro che si stava spostando verso le campagne e le periferie. Cara sinistra, fai come Matteo, non chiuderti in te stessa, vai nelle stalle, sui territori, chiedi alla gente quello di cui ha bisogno».

Il Pd si sta riprendendo?

«Nicola Zingaretti sta veramente messo male. Io spero per lui che ce la faccia, ma non lo so, la vedo molto dura. Il Pd deve raccogliere voti se vuole essere al comando, non dividersi. Quell' altro pariolino che se n' è andato Carlo Calenda, è sempre incazzato. In politica ci vuole stabilità, ma ce li ricordiamo i vari Andreotti, Fanfani, Forlani, Cossiga?».

E Matteo Renzi ha fatto bene a fondare Italia viva?

«Ma è vero che si allea con Silvio Berlusconi? Mi sembrerebbe assurdo. Renzi ha sbagliato tutto. Sta creando le frattaglie della sinistra. Vuole prendere il 4%? E poi?».

Contro vegani, astemi e puritani Jack Nicholson ha detto: «Io credo nella carne rossa, nel vino e nelle donne». In che cosa crede lei?

«In tutt' e tre le cose. Nel 1944, in Inghilterra, sei vegetariani si sono dissociati e hanno creato il veganesimo. Non li sopporto, sono una setta, mi danno fastidio. E poi ultimamente hanno perso ancora più punti. Adesso vogliono far fare le loro diete anche ai figli, che però hanno bisogno di altri alimenti. I bambini così stanno male, è una cosa pesante da accettare. Ma poi, vegani? I vegetariani posso capirli, anche Umberto Veronesi lo era, anche Pitagora. Non mangiano carne, anche se poi mangiano il pesce».

Come procede il suo anno sabbatico lontano dalle donne e dal sesso?

«Benissimo. Ho rispettato tutte le previsioni».

E quindi come festeggia questo compleanno?

«Con gli amici a Baschi, a Casa Vissani. Gettiamo le basi per tutto l' anno successivo. Mi piace essere sempre in continuo movimento. Morta una stella... se ne fa un' altra».

Ridate a Vissani una stella Michelin. Anzi, due... Che ingiustizia vedere lo chef penalizzato dalla Guida e deriso senza ragione dal «Corriere». Vittorio Sgarbi, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Due asterischi. O punti esclamativi! Da molti anni non polemizzo con Aldo Grasso, ma questa volta non posso tacere, per il suo maramaldeggiare nei confronti di un uomo esuberante, appassionato e generoso: Gianfranco Vissani. Aldo Grasso scrive in prima pagina del Corriere in virtù delle sue capacità e della sua esperienza; e ha mantenuto costanti il suo spirito critico e la sue verve. Se domani il direttore, o il proprietario del Corriere, senza una buona ragione ma per motivi di gusto o di interesse, decidesse di pubblicare la sua rubrica Padiglioni d'Italia non in prima pagina come è ma a pagina 2 o 52, probabilmente si risentirebbe. E siccome (diversamente dallo spazio della prima pagina di un giornale, che deve scegliere e alternare i corsivisti) non c'è limite alle stelle - una, due o tre - che indicano la bontà di un ristorante e le capacità del suo titolare, Vissani ha ben ragione di dolersi di una mortificazione ingiustificata. Non si degrada un generale se non per alto tradimento, o per gravi colpe, che nessuno può ravvisare nell'impegno di Vissani. Vissani ebbe una stella nel 1998, due stelle nel 1999, vent'anni fa. Come, nell'ultimo anno, sia potuto decadere della metà è incomprensibile, oltre che ingiusto. Non si è macchiato di alto tradimento rispetto alla cucina e al suo magistero. Vissani non è un cattivo cuoco, più di quanto Grasso non sarebbe un cattivo giornalista se protestasse per essere stato spostato alla seconda o alla cinquantaduesima pagina del suo giornale. La decisione della Guida Michelin è arbitraria e lesiva: una inutile mortificazione per un uomo che non è certamente peggiorato; né poteva parlar male della Guida, come pretende Grasso prima di questo incidente, come nessuno parlerebbe male di un club di cui è membro prima di essere cacciato. Vissani è uno dei più bravi cuochi italiani, si è perfezionato negli anni e ha maturato un'esperienza che non si è mai espressa in modo limitativo o diminutivo. Tanto meno, per negligenza o altro, nell'ultimo anno, al punto di essere dimidiato (diviso a metà, ndr). Non poteva essere: è una delle assurdità e ingiustizie contro cui è giusto ribellarsi. Vissani non può che crescere. Oggi è in debito di due stelle. Quella rubata e quella che deve avere. Non avrà minor merito per l'arte italiana della cucina di Bottura! Un'altra situazione merita un commento: sul Corriere abbiamo letto la notizia che il portavoce del sindaco di Ferrara Alan Fabbri, Michele Lecci si chiama, ha un cane di nome Rommel che il Corriere identifica esclusivamente come il «famigerato comandante nazista». Come se Adolfo fosse solo Hitler. Rommel in realtà è sempre stato considerato uno dei più abili ed esperti militari della Prima e della Seconda guerra mondiale, tanto da essere chiamato Volpe del deserto. Inoltre si uccise per dissidi con Hitler. Che una persona chiami «Rommel» il suo cane non è né un elogio per Rommel, tra l'altro degradato da volpe a cane, né una promozione per il cane. Si penserebbe a una esaltazione del fascismo se qualcuno chiamasse il suo cane Duce o Mussolini? E magari, essendo a Ferrara, Balbo? Quello che è certo oggi è che Vissani è solo come un cane. E non è giusto infierire. Restituiamogli la stella caduta. Lo dico io che ho fatto passare una firma di Repubblica dalla prima pagina alla trentaduesima. E non si è piu ripreso. Sì, lo ammetto, fu una ingiustizia! All'ultimo minuto, un ulteriore asterisco merita la vicenda della casa abusiva del ministro Trenta. Non entro nel merito del diritto ma osservo, come nessuno ha fatto, che l'edificio nel quale è stato attribuito l'alloggio di servizio (secondo lei, oggi a servizio del marito) appare di così infetta bruttezza da essere non solo indegno di un ministro, ma da richiederne l'immediata evacuazione per ragioni estetiche e di conveniente dimora, perfino da parte di un extracomunitario nigeriano. Non voglio pensare come sarà stato dentro, e quale l'arredo e quale gli oggetti e i soprammobili; osservo semplicemente che l'incidente, interpretato, come sempre, in chiave criminale dai compagni di partito dello sventurato ministro, è un'occasione fortunata per fuggire da un luogo che non lascia scampo a chi si occupa di difesa! Anche dal brutto, ovviamente, e per autotutela. Andate a vedere, con la Guida Michelin, la Locanda Vissani a Baschi in Umbria. Una casa felice e accogliente. Lì conviene vivere. Nell'appartamento destinato al ministro Trenta si può solo morire.

Cristiana Lauro per Dagospia il 14 Novembre 2019. Il direttore delle guide de L’Espresso Enzo Vizzari è andato giù pari contro la Guida Michelin durante la puntata di "Porta a Porta" che Bruno Vespa dedica ogni anno alle Stelle assegnate dalla Rossa ai ristoranti italiani. Se pure l’abbia pubblicamente riconosciuta come unica guida in grado di cambiare la vita di un ristorante, Vizzari ha riscontrato diversi “strafalcioni”. Si riferiva alle ultime assegnazioni di stelle, molto discusse non solo dal direttore. Con tutto rispetto per chi festeggia il traguardo raggiunto con le Tre Stelle Michelin - che mette d’accordo buona parte della critica gastronomica anche italiana - bisogna dire che, fuori da questa limitatissima zona della classifica, gli altri risultati fanno riflettere e qualche volta anche incazzare. Un esempio su tutti è CasaVissani a Baschi che è stato penalizzato con la revoca di una delle Due Stelle che gli erano state assegnate negli anni passati. E già sul fatto che Casa Vissani non ne meriti addirittura tre lascia qualcuno perplesso, a partire dalla sottoscritta. Lo chef Gianfranco Vissani sarà rustico e scomodo finché vi pare quando apre bocca, ma che sia un gigante assoluto della cucina non credo sia tema discutibile. A meno di avere delle visioni condizionate da aspetti personali come le antipatie, ad esempio, e in quel caso si farebbe meglio a tacere. Quindi Vissani, al momento, ha una Stella Michelin. I francesi la vedono così. Anche i ristoranti più esclusivi e lussuosi Cracco in Galleria (Mi) e Del Cambio (To) restano al palo con una sola Stella Michelin che fa storcere il naso a parecchi. Lido 84 (Gardone Riviera, Bs) si ferma a una Stella mentre per il pubblico e la critica gastronomica italiana è un’altra valutazione troppo severa. Ma i francesi la vedono così. A guardare bene la situazione in maniera orizzontale e non solo verticale, credo che nel campionato dei ristoranti cui viene assegnata una Stella Michelin ci siano parecchie discrepanze. Sia sulla valutazione delle cucine che dei servizi di sala, ovvero al contesto più o meno piacevole che la squadra crea per il cliente che deve sentirsi a suo agio in un ambiente di sicuro conforto. Insomma “la Guida Michelin è di manica larga con la Francia e strettissima con l’Italia”, afferma Antonio Scuteri di repubblicasapori.it e questo” è abbastanza curioso, anche perché la cucina italiana tradizionale - assieme a quella cinese - nel quotidiano è la più presente nelle famiglie del mondo anglosassone. Quindi occupa uno spazio molto importante non soltanto entro i nostri confini”. E allora, se la nostra cucina tradizionale raccoglie così tanti consensi in tutto il mondo e nel quotidiano, quella d’autore dei grandi chef - che da lì nasce e si realizza in tutta la sua creatività - può stare così indietro rispetto alla Francia? Il numero di stelle assegnate nel nostro Paese è nettamente più basso rispetto alla Francia. Quindi noi siamo più scarsi? No, non lo siamo. Ogni anno con l’uscita dell’edizione italiana della Guida Michelin, si ha quasi l’impressione che ci sia una sorta di timore nel dichiarare e riconoscere quello che meritiamo. Nell’ammettere attraverso le valutazioni la vera grandezza della nostra cucina. E del nostro personale di sala, aggiungo, che non ha nulla da inviare a nessuno in giro per il mondo, ve lo garantisco.

"Ne chiediamo la punizione". Ecco la querela contro Chef Rubio. L'esposto presentato dai consiglieri comunali di Fratelli d'Italia: "Apprezzamenti gravemente diffamatori nei confronti degli umbri" Giuseppe De Lorenzo, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Il Tweet di Chef Rubio aveva già sollevato diverse polemiche. Erano i giorni delle elezioni regionali in Umbria, della vittoria di Donatella Tesei, del crollo della roccaforte rossa governata dal dopoguerra dal centrosinistra. Il cuoco, noto per la sua trasmissione tv e per gli aspri scontri con Matteo Salvini, sui social s'infuriava contro Conte, parlava di "razzisti umbri" e evocava "peracottari" che avrebbero dato "le pizze" al presidente del Consiglio. Un mese dopo, il cinguettio è finito all’interno di una denuncia presentata dai consiglieri FdI del comune di Perugia che lo accusano di aver "diffamato" gli elettori della regione senza mare. L’atto, che ilGiornale.it ha letto interamente, è stato depositato in Procura dall’avvocato Nicola Di Mario. A firmarlo Michele Nannarone, Paolo Befani, Fotinì Giustozzi, Federico Lupattelli e Ricardo Mencaglia. Per i consiglieri, Gabriele Rubini (nome di battesimo dello chef) avrebbe espresso sui social "apprezzamenti gravemente diffamatori nei confronti degli umbri" facendo "specifico riferimento alle ultime elezioni amministrative". Il Tweet in questione risale al 29 ottobre, giorno del via libera del governo Conte II allo sbarco della Ocean Viking. L’imbarcazione dell'Ong in quelle ore riceve il via libera all’ingresso in acque nazionali "dopo 11 fottuti giorni". In effetti, nonostante il Pd non sia più all’opposizione e Matteo Salvini abbia ormai lasciato il Viminale, l’esecutivo giallorosso non aveva ordinato l’immediato approdo della nave umanitaria. Ma l'aveva lasciata in mare aperto, più o meno come avrebbe fatto il leghista da ministro dell’Interno. Il motivo di tanto ritardo sarebbe stato dovuto alle elezioni regionali imminenti: perdere l’Umbria sarebbe una brutta botta per la neonata (e poi morta) alleanza M5S-Pd alle amministrative. Così Conte "sperando d’avere qualche voto in più dai razzisti umbri", avrebbe "preferito attendere per dare l’ok". Solo che poi le elezioni sono andate male e si è "preso le pizze comunque da quei peracottari e fatto ciò che doveva, in ritardo". L’odore di "diffamazione" i consiglieri FdI lo sentono sia in quel "razzisti umbri" che nella parola "peracottari", di solito non certo usata per rivolgersi alla regina Elisabetta. My Lord. Va detto che, successivamente, il cuoco ha provato a spiegare meglio la propria posizione a tutti quegli "analfabeti funzionali" che gli stavano "frantumando le palle": "Razzisti umbri - ha detto - sta per quei razzisti tra gli umbri, sennò avrei detto umbri razzisti. Peracottari se il soggetto è Conte è ovvio che mi riferisco ai suoi avversari politici e non agli abitanti umbri…". Bene. Per chi denuncia, però, i "contenuti linguistici" usati da Rubini contengono "un inequivocabile valore offensivo" che lede il loro "decoro, onore, dignità e reputazione". La "tardiva rettifica" dello chef, inoltre, non avrebbe migliorato le cose: "In ragione della loro appartenenza politica in contrasto con la coalizione che sostiene l’attuale Presidente del Consiglio - si legge nella querela - risultano dunque apostrofati come razzisti umbri". Secondo l’avvocato, che cita una sentenza della Suprema Corte, la "specificazione fornita dall’autore" non fa altro che "attribuire" ai consiglieri firmatari "la qualifica" di vittime della presunta diffamazione, "legittimandoli, per l’effetto, alla formalizzazione della presente querela". Ecco un sillogismo: per chef Rubio gli "avversari politici" di Conte sarebbero "peracottari"; i consiglieri sono avversari politici del premier; dunque sarebbero "peracottari". Per il legale è da escludersi che il tweet possa apparire come "legittimo esercizio del diritto di critica". E visto che i consiglieri non hanno intenzione di farsi definire "razzisti" o "peracottari" da nessuno, ora la palla passerà al pm. Che dovrà decidere se scomodare lo chef per portarlo dalla cucina alla sbarra.

Chef Rubio finisce denunciato per istigazione a odio razziale e diffamazione. A intraprendere le vie legali è stato un membro della comunità ebraica di Treviso. Nel mirino un tweet di Rubio dello scorso ottobre. Gabriele Laganà, Domenica 17/11/2019, su Il Giornale. È un periodo decisamente amaro per Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio. Dopo la fine del rapporto lavorativo con Discovery Channel, le cui motivazioni non sono ancora del tutto chiare, e il siluramento dalla Rai, il presentatore tv ha un’altra gatta da pelare. Questa volta, però, non per questioni di ascolti e share bensì legali. Come riporta il Corriere del Veneto, Rubio è stato denunciato per istigazione all’odio razziale e per diffamazione dal dottor Ilan Brauner, medico legale trevigiano e membro della comunità ebraica locale, tra i fondatori della Federazione Italia-Israele. Il medico ha deciso di intraprendere le vie legali dopo aver letto le parole contenute in tweet scritto da Rubio. Il cuoco, infatti, in un tweet dello scorso ottobre ha ripreso un video del maggio 2016 in cui si mostra un giovane a terra colpito, secondo quanto si legge nell'account originale citato, dai militari israeliani. A commento del filmato il presentatore tv aveva scritto: “Tu tirare sasso per fare resistenza a occupazione, occupazione sparare in testa perché non approvare. Esseri abominevoli”. Per enfatizzare il concetto, l’affermazione era stata accompagnata dalla bandiera di Israele. Il cuoco, in risposta ad alcuni utenti che lo avevano criticato per le parole usate, aveva rincarato la dose aggiungendo: “Free Palestine. Loro saranno sempre liberi, nonostante siano schiavi a casa loro. Non dimenticatelo mai. Israele non è una democrazia“. Un testo che aveva scatenato accese polemiche e al quale aveva replicato anche il leader della Lega Matteo Salvini: “È ufficiale: bisogna riaprire i manicomi!”. Il tweet, anche per il clamore che aveva suscitato, era stato notato anche da Ilan Brauner. Secondo il medico, le parole di Gabriele Rubini istigherebbero alla violenza e alimenterebbero l’odio nei confronti del popolo ebraico. Una situazione aggravata dall'importante seguito social dello chef. Sarà ora il Tribunale a decidere sulla responsabilità o meno di Chef Rubio. Rubio non è nuovo nello scatenare polemiche sui social. Il suo bersaglio preferito è Matteo Salvini. Quando l’ex ministro dell’Interno accusò un malore mentre era diretto a Trieste per partecipare ai funerali di Matteo Demenego e Pierluigi Rotta, i due agenti di Polizia uccisi dagli spari del dominicano Alejandro Augusto Stephan Meran, mentre erano in servizio in Questura lo scorso 4 ottobre, il presentatore tv scrisse su Twitter:"Ogni volta che fa una figuraccia il giorno dopo magicamente arriva qualcosa: proiettili in busta, coliche etc etc. Visto che ti fai le foto pure quando te fai le analisi del sangue per far vedere quanto sei bravo, perché non ci fai vedere il referto medico? Non vale postdatarlo". Senza dimenticare le parole scritte sul social poco dopo i drammatici fatti avvenuti proprio a Trieste: “Inammissibile che un ladro riesca a disarmare un agente. Le colpe di questa ennesima tragedia evitabile risiedono nei vertici di un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente. Io non mi sento sicuro in mano vostra”.

Chef Rubio è "er Monnezza dei palinsesti più profondi": il ritratto del noto cuoco tv.  Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. Continuo a pensare che, televisivamente, Gabriele Rubini in arte Chef Rubio sia il Thomas Milian del docureality d' Italia, er Monnezza dei palinsesti più profondi. Rubio possiede autoironia, tempi televisivi e tatuaggi in quantità industriali; e sin dai tempi di Unti e bisunti fino a Camionisti in trattoria (i migliori programmi sul cibo di strada e cibo tout court) è stato la vera novità di una tv riempita di cuochi e fornelli all' imbarazzo. Poi ha dilatato a dismisura il suo personaggio pop da vigoroso fijo de 'na mignotta, e si è messo alla prova in campi inimmaginabili. E il problema, ora è proprio questo. Finché duelli con Costantino Della Gherardesca la cosa conserva un suo fascino. Ma nessuno avrebbe, appunto, immaginato che in Rubio, le opinioni politiche su sicurezza interna, immigrazione, antisalvinismo e antisionismo avrebbero prevalso sul personaggio da video. Non è un caso che la sua ospitata a #RagazziContro (Raidue, mercoledì, seconda serata, dove si parlava di haters e cyberbullismo) sia saltata all' ultimo momento, o che il suo feroce e silente fantasma sia stato evocato nella diatriba a voli di stracci tra Lilli Gruber e Giorgia Meloni a Otto e mezzo. Perché Rubio, sfruttando la sua popolarità, via social esprime il suo dissenso da uomo di sinistrissima contro i fascisti sdoganati in tv, contro gli ebrei israeliani, contro la polizia, Selvaggia Lucarelli, Belen e Salvini in generale.  E la sua è una posizione legittima, a volte non condivisibile, a volte no. Ma il problema è il linguaggio con cui la suddetta posizione viene espressa. Definire gli israeliani «esseri abominevoli, cancro dell' umanità» non è, semioticamente, un atto che può passare inosservato. E se compi quell' atto ti devi aspettare che la Raidue diffonda una nota in cui fa sapere che ti cancella «per questioni di opportunità»; e, certo appare inutile che l' amico Carlo Freccero si giustifichi dicendo che Rubio poteva «in qualche modo vampirizzare il programma». Come scrive Simone Cosimi su Wired «il cuoco sembra volersi opporre al linguaggio dell' odio con altro linguaggio dell' odio». E questa è una cosa che il servizio pubblico deve aborrire in automatico. Rubio ha, strategicamente, fatto una puttanata, ed è fuori da viale Mazzini. E da Discovery. Anche se nulla toglie al talento dell' artista, la politica è un' arma a doppio taglio... Francesco Specchia

Massimiliano Parente per Il Giornale il 24 settembre 2019. Non ho mai sopportato gli chef, se non quelli che stanno nei ristoranti, ormai ce ne sono rimasti pochi. Sono tutti in tv, sono dei nuovi guru, dei paraguru, tutto fanno tranne che stare in cucina. L'esempio più eclatante: Chef Rubio. A vederlo sembra un galeotto in libera uscita, a sentirlo parlare anche, gli piace cucinare piatti che neppure in una caserma, per i camionisti (con tutto il rispetto per i camionisti, poveri loro), il suo slogan è Unti e Bisunti, che rende molto l'idea, io nella mia cucina non lo farei mai entrare. Non so come abbiano fatto i migranti a salvarsi quando è andato a cucinare per loro a Lampedusa, ovviamente per mettersi in mostra come tutti, come Saviano che va sulla Open Arms per vendere il suo libro, così Rubio va a vendere se stesso, la sua supposta umanità. Forse è stato ingaggiato da Matteo Salvini per sterminarli tutti, i migranti, mi è venuto il dubbio, anche perché chef Rubio dice di odiare Salvini, di volerlo morto, letteralmente morto, mi sembra un po' eccessivo per non essersi messi d'accordo. Comunque immaginate un migrante che arriva in Italia affamato e si trova Rubio che gli serve uno dei suoi piatti rozzi, unti e bisunti, era meglio morire di fame in Africa. Basterebbe lasciarlo a Lampedusa in pianta stabile per ridurre a zero l'immigrazione. Nonostante l'unto e bisunto sia un dichiarato ambientalista, a tal punto da twittare  «ELIMINA LA CARNE, SALVA LA FORESTA!», mentre il suo piatto preferito è uno stufato polacco a base di manzo e trippa. Il tweet è stato poi cancellato perché continuava così: «Se volete salvare il pianeta spendete meno, consumate meno e eliminate fisicamente i sovranisti». Nonostante sia un fan della femminista Michela Murgia (non so come si possa essere fan della Murgia), sulle donne ha pensieri molto diversi e in linea con se stesso: il sapore che più si avvicina a una donna è un'ostrica o uno scampo crudo. Non oso immaginare con quali donne sia stato, forse si accoppia sui banconi delle pescherie. Sebbene la rivista femminile Elle gli abbia chiesto quale è il posto dove fa più l'amore, e lui ha risposto «nella mia testa». Chissà che succede dentro quella testa visto quello che manifesta fuori. Ha insultato anche la mia adorata Selvaggia Lucarelli, che lo ha definito «solito vigliacchetto finto amico del popolo che scrive sempre le sue offese con la privacy chiusa», e l'unto e bisunto da gran signore ha risposto: «Questa cosa che non gliel'ho dato non le va giù». Cosa in realtà poco plausibile, sarà Selvaggia che non gliel'ha data, figuriamoci se c'è un uomo che non lo darebbe a Selvaggia. Tra l'altro Selvaggia è fidanzata da anni con Lorenzo Biagiarelli, anche lui uno chef ma molto elegante e carino, un gran figo, non sarebbe immaginabile vederla con Chef Rubio. A proposito, se volete leggere un bel libro di chef, lasciate perdere Mi sono mangiato il mondo dell'unto e bisunto, piuttosto è appena uscito un libro raffinato proprio di Biagiarelli, Qualcuno da amare e qualcosa da mangiare, edito da De Agostini. Comunque ogni giorno l'unto e bisunto ne ha una, ogni giorno una stronzata da postare, da twittare, per far parlare di sé, per dimostrare quanto è buono e filantropico, infatti l'unto e bisunto parla di tutto tranne che di cibo, e le rare volte che parla di cibo ti fa passare la fame. Non si può neppure definire un radical chic, perché di chic ha molto poco. Odia Giorgia Meloni, ma mi sembra molto più a destra di Giorgia Meloni, visto che invita a boicottare gli ebrei di Israele. Più di destra anche in tema di omofobia: sul referendum costituzionale l'elegante Rubio ha pubblicato una foto di Nichi Vendola con la scritta «Se vince il sì faccio un pompino a tutti». Nella sua nuova trasmissione sul Nove (iniziata il 15 settembre) va a cucinare in Cambogia, in Vietnam, in Cina, in Thailandia, ecco, mi sembrano posti adatti a lui (se non lo schifano pure loro), e si chiama Alla ricerca del gusto perduto (di certo lui non ne ha mai avuto uno), per «sdoganare piatti come la zuppa di sangue di maiale, grilli fritti e girini crudi». Se li mangi lui, ho l'impressione che l'unto e bisunto digerisca di tutto, è difficile solo digerire lui.

Marco Pasqua per ilmessaggero.it il 22 ottobre 2019. Chef Rubio, sempre meno chef "unto e bisunto" e, ormai, campione di polemiche (e offese) virtuali, a caccia di visibilità (e click). Questa volta - e non la prima - a finire nel mirino del volto televisivo, sempre più in crisi di ascolti, è Israele. Nessuna notizia di stringente attualità, Gabriele Rubini, ovvero Rubio riprende un video del maggio 2016, in cui si mostra un giovane a terra colpito, secondo quanto si legge nell'account originale citato, dagli israeliani (senza nessuna altra spiegazione sul contesto in ciò è avvenuto e sulle conseguenze di quell'azione). «Tu tirare sasso per fare resistenza a occupazione, occupazione sparare in testa perché non approvare - twitta Rubio - Esseri abominevoli», affermazione accompagnata dalla bandiera di Israele. Nel pomeriggio gli ha replicato anche Matteo Salvini, leader della Lega: «È ufficiale: bisogna riaprire i manicomi!» Tanti i commenti anti-israeliani e antisemiti, molti da parte di estremisti di destra: «Gli israeliani di adesso e di allora hanno sempre sfruttato l'Olocausto per giustificare le loro nefandezze. Questi sono sionisti non soltanto ebrei», sostiene l'utente Fidelsgimarigen. «Io non ho più pietà, questi sono le SS del 2000' e ancora con i giorni della memoria? E su cosa dobbiamo riflettere, se le vittime di ieri sono oggi carnefici?», attacca PierluigiSh. Qualcuno cerca di protestare: «Mi dispiace, ma qui siamo all'antisemitismo bello e buono». Successivamente, Rubio ha rincarato la dose: «Free Palestine. Loro saranno sempre liberi, nonostante siano schiavi a casa loro. Non dimenticatelo mai». E ancora: «Israele non è una democrazia». In un'altra occasione, Discovery dovette prendere le distanze da Gabriele Rubini, che aveva condiviso una foto modificata che lo ritraeva nei panni di un rabbino. Attualmente, è in onda sul canale 9 del digitale terrestre, con "Alla ricerca del gusto perduto".

Chef Rubio: «Il mio rapporto con il cibo? Mi piace mangiare da solo». Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessandra De Tommasi. L’ex rugbista che scandalizza con le abbuffate pantagrueliche in tv tratta la cucina in modo meno dissennato di quanto si possa pensare. È quasi mezzanotte ma Chef Rubio non ha fretta di alzarsi da tavola in un ristorante a picco sul mare di Fluminimaggiore, in provincia di Cagliari. Il paesino di appena tremila abitanti è in agitazione per la sua presenza come super ospite dell’Andaras Traveling Film Festival, primo evento dedicato al cinema di viaggio. I bambini gli regalano sughi locali e formati di pasta tipici, mentre lui conclude la cena con la «seada», un formaggio sardo fritto nel miele che ha spazzolato con entusiasmo. «Bisogna onorare la tavola», commenta prima di andare a ringraziare lo staff di cucina e brindare con il mirto.

Crede nelle «nuove leggi» dell’alimentazione?

«Parecchie mi sembrano sciocchezze. Il punto è che oramai non esiste più la dieta mediterranea, ci stiamo “americanizzando” con caffetterie e take away e ci affidiamo alla peggiore qualità di cibo. Se un popolo vive solo di olio di palma non puoi imporgli di eliminarlo perché abbiamo deciso che è dannoso, magari macina chilometri e chilometri al giorno e lo assimila come se stesse bevendo un bicchier d’acqua. La “buona alimentazione” consiste nella giusta quantità di calorie rapportata allo stile di vita. Credo sia importante ascoltare il proprio corpo».

Lei però con le sue trasmissioni televisive a volte si lancia in autentiche follie nutrizionali...

«E infatti in pochi mesi di riprese ho messo su 12 chili e ho iniziato ad avere problemi di salute. In quella fase di sovrappeso mi sono ritrovato in difficoltà fisica ma non sono ricorso a una dieta specifica magari scegliendola su internet. Molto meglio rivolgersi a un nutrizionista quando è necessario. Le diete pret-a porter fruttano miliardi a chi le studia ma possono essere deleterie, in poco tempo offrono l’illusione di perdere peso ma non fanno che confondere il corpo. Se fai la paleolitica per sei mesi, appena rientri a regime normale il fisico ti presenta il conto. Secondo me è importante fare attenzione alle dosi: dieci chili di pesce azzurro al giorno fanno male lo stesso perché l’organismo deve smaltirli. La privazione assoluta in campo alimentare poi la dice lunga sul rapporto che una persona ha con il piacere. L’unica vera condanna è non fare moto».

Lo ha imparato con il rugby?

«A quei tempi ero allenato e potevo permettermi molte più chilocalorie, prendevo aperitivi tutte le sere e facevo la grigliata un giorno sì e uno no, ma se non avessi fatto tutta quell’attività fisica sarei diventato un grande obeso nel giro di due mesi».

Che cosa intende lei per buona cucina?

«Il boccone giusto al momento giusto e non solo una cucina che abbia un buon gusto».

Un sapore d’infanzia?

«Ricordo i finocchi cotti al sugo o la frittata di patate al pomodoro che la nonna preparava per le cene della domenica e di cui non le ho mai chiesto la ricetta. Non amo le emulazioni, preferisco qualcosa di mio».

Da ragazzo, a causa di una crescita improvvisa di 15 centimetri, è stato affetto da scoliosi, il che l’ha reso bersaglio dei bulli. Ha sfogato la frustrazione sul cibo?

«Ho sempre mangiato per piacere, ma non so se il cibo abbia anche compensato una carenza. Mi sono sempre concentrato sul piatto e, per rispetto di quello che avevo davanti, a tavola non ho mai parlato. Devo dire che anche oggi amo molto pranzare o cenare da solo, rispettando i miei tempi».

Il senso d’impotenza di allora l’ha spinta ad abbracciare iniziative sociali?

«Forse sarei stato così anche senza le prese in giro subite alle medie, sapevo che erano ingiuste ma non avevo il fisico per ribellarmi».

A scuola aiuterebbe fare educazione alimentare?

«Servirebbe più a casa, dove certi genitori dicono ai figli che il cous cous è roba da scimmie. Io non sono padre, ma vedo il figlio di mio fratello e cresce di certo meglio di me, perché attualmente esiste una consapevolezza alimentare maggiore. Quando io ero bambino mia mamma lavorava 24 ore al giorno e non sapeva - come del resto tutti, all’epoca - che le merendine non erano nutrienti».

Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio, 36 anni, di Frascati, ex rugbista, inizia la carriera in cucina dopo il ritiro dallo sport. Dal 2013 ha condotto «Unti e bisunti» su DMax. Ha sposato varie iniziative sociali (Censimento arboreo e #SaveGorillas di Wwf) oltre a realizzare «Segni di gusto», con le ricette nella lingua dei segni. Lo chef globe-trotter torna con una nuova serie tv: «Rubio, alla ricerca del gusto perduto» (da domenica 15 settembre in prima serata su canale Nove di Discovery Italia), in cui esplora la gastronomia orientale. Rubio viaggerà tra megalopoli e villaggi di Thailandia, Cina e Vietnam per scoprire i segreti della millenaria cucina locale. «Sarà un viaggio intimo e dai toni “meno caciaroni” rispetto a quelli a cui siete abituati» racconta. Che voglia sfatare qualche pregiudizio culturale legato alle abitudini alimentari altrui? «Se ci fosse la moda di mangiare gli insetti sono sicuro che verrebbe abbracciata con gioia, ma intanto resta la diffidenza verso il diverso nel piatto. Se proponi una nostra prelibatezza come gli scampi crudi o il polpo arricciato ad un popolo che mangia le larve infatti ti dice che fa schifo».

Chef Rubio, il sospetto di Nunzia De Girolamo: "Insulti prima i poliziotti morti, poi Salvini. Forse..." Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. Altra porcheria di Chef Rubio, il quale ha dubitato del fatto che Matteo Salvini abbia effettivamente avuto un malore, dovuto a una colica renale, a Trieste, dove avrebbe dovuto presenziare al funerali dei due poliziotti uccisi in questura. Per lo chef che ormai ci ha abituato ai suoi deliri, sarebbe stata una scusa per non farsi vedere dopo quella che reputa una "figuraccia", ovvero quella del leghista a Porta a Porta contro Matteo Renzi, martedì sera. Un delirio, appunto, al quale Annalisa Chirico ha replicato dando a Rubio del "cogl***". Ma anche Nunzia De Girolamo rivolge un "gentile pensiero" allo chef. Lo fa su Facebook, dove pubblica un video in cui si interroga: "Chef Rubio, ma ci sei o ci fai?". Dunque l'ex deputata di Forza Italia ricorda: "Prima insulti i poliziotti uccisi a Trieste, poi, nel giorno dei funerali, metti in dubbio il malore di Matteo Salvini". Infine, la De Girolamo avanza il sospetto: "Ma non è che cucini con i funghetti sbagliati? Cambiali", conclude. E chi ha orecchie per intendere, intenda.

Chef Rubio: «Da questo governo mai nulla di utile. A cena con Salvini? Non saprei cosa dirgli». Lo chef Gabriele Rubini testimonial di «Cous cous Clan (destino)», serata a favore dell’ integrazione e anti-razzismo alla Darsena di Milano - di Raffaella Cagnazzo /Corriere Tv 4 luglio 2018. Cus cus Clan(destino) in Darsena a Milano. Un’iniziativa aperta di cibo e solidarietà a favore dell’integrazione e dell’antirazzismo con lo scopo di raccogliere fondi per garantire una borsa di studio alla figlia di Soumaila Sacko, il bracciante attivista del sindacato Usb ucciso a fucilate a Gioia Tauro, e per ricordare Abba, il migrante ucciso in via Zuretti a Milano nel 2008. Ai fornelli, il testimonial della serata Chef Rubio che spiega: «Siamo nel Mediterraneo. Abbiamo sempre accolto chiunque. In tempi in cui ognuno pensa troppo a se stesso, c’è odio e disinformazione e le informazioni vengono travisate e manipolate per incutere paura, bisogna farsi sentire». E punta il dito contro il governo, azioni e dichiarazioni e politica del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: «Miro ai figli di chi ha votato Salvini. Loro possono ascoltare una versione diversa di quella che viene raccontata. Da questo governo credo non ci possa essere nulla di utile. A cena con Salvini non ci andrei, non saprei nemmeno di cosa parlare con lui».

Federico Garau per il Giornale il 24 agosto 2019. Fa discutere uno degli ultimi post su Twitter di Gabriele Rubini, in arte "Chef Rubio", che nel commentare gli incendi che stanno affliggendo la foresta dell'Amazzonia, non ha mancato di lanciare un attacco contro i nemici sovranisti. Il tweet dello chef televisivo inizia con un tono saccente: "Me fa ride chi dice “ELIMINA LA CARNE, SALVI LA FORESTA!”, commenta. "Se stanno bruciando #Amazonia è anche per monocolture di mais, canna da zucchero e soia ( #Monsanto #Bayer )!". Poi la stilettata: "Se volete salvare il pianeta spendete meno, consumate meno, ed eliminate fisicamente i sovranisti (seguono bandierine di Israele, Usa e Brasile) e co". Insomma, l'attacco contro certi governi è sempre garantito, ma non tutti i commenti che hanno seguito il cinguettio di chef Rubio sono positivi. Anzi. "Veramente i sovranisti che lei vorrebbe eliminare fisicamente sono i primi ad essere contrari al neoliberismo e alla globalizzazione, così amata dalle multinazionali", puntualizza un utente. "Questo tweet è istigazione all'odio", fa notare un'altra persona. E dopo alcuni che invocano l'arrivo di un'ambulanza per lo chef, ecco la secca considerazione di un altro utente: "Un caso disumano, difficile essere così coglioni da incitare alla 'eliminazione fisica' di chi la pensa in un determinato modo. A questi i nazisti gli fanno na' pippa! Papà cos'è il fascismo? È questo". A rispondere a Rubini anche l'avvocato Marco Mori, che da tempo si batte per la riaffermazione dell'Italia e l'uscita dall'Euro. "Certo, perché Bolsonaro adesso è sovranista... Bolsonaro è un liberista!" fa notare allo chef.

Meloni contro Chef Rubio: questo è scemo, siamo allo slogan “uccidere un sovranista non è reato”. Il Secolo d'Italia sabato 24 agosto 2019. Clima teso sui social in questi giorni di crisi di governo, ma non solo a causa della politica italiana. C’è anche l’incendio poderoso della foresta amazzonica a surriscaldare il dibattito. Soprattutto se a fare commenti è Chef Rubio, da sempre scorrettamente fazioso. “Mi fa ride chi dice ‘elimina la carne, salvi la foresta’. Se stanno bruciano Amazonia (con una zeta, badate) – scrive Chef Rubio su Twitter – è anche per monoculture di mais, canna da zucchero e soia. Se volete salvare il pianeta spendete meno, consumate meno ed eliminate fisicamente i sovranisti & co”. Questa la versione guerrafondaia dunque della decrescita felice secondo Chef Rubio. Gli replica Giorgia Meloni: “Questo “cuoco tronista” che fa spesso ospitate (a pagamento) su TV pubbliche e private invita a “eliminare fisicamente i sovranisti”. Con ogni probabilità è troppo incolto e troppo scemo per sapere che in anni passati in Italia a parole come quelle sono poi seguiti gli anni di piombo e le uccisioni di molti ragazzi. Chi predica l’odio e la violenza non dovrebbe trovare spazio e pubblicità sui media, in particolare su quelli pubblici. Oppure si vuole cominciare col sostenere che “uccidere un sovranista non è reato” e che anzi è un dovere per ogni buon cittadino?”.

Alessandro Borghese chiede verità e giustizia per i bambini di Bibbiano. Lo chef più amato della tv lancia una petizione sui social per chiedere una Commissione di Inchiesta sugli affidi illeciti nel comune emiliano. Alessandro Zoppo, Mercoledì 31/07/2019, su Il Giornale. Alessandro Borghese si è aggiunto alla schiera di volti noti del mondo dello spettacolo che hanno voluto esprimersi sul caso Bibbiano, l’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi dei minori nel comune in provincia di Reggio Emilia che è diventata un caso politico nazionale. Lo chef più amato della tv ha usato i social per sostenere la petizione #MaiPiùBibbiano, che chiede una seria riforma degli affidi dei minori in Italia. “Never again!”, il messaggio di Borghese, affidato ad una foto che racconta lo choc provocato dal venire a conoscenza della storia dei bambini di Bibbiano. La petizione, lanciata dal Moige (il Movimento Italiano Genitori) sul sito ufficiale della onlus, chiede l’attivazione di una Commissione di Inchiesta che faccia luce sulle responsabilità dirette e indirette e sulle eventuali complicità degli amministratori locali.

Alessandro Borghese appoggia il Moige sul caso Bibbiano. Il Moige chiede inoltre al Parlamento italiano una modifica sostanziale al “sistema degli affidamenti dei minori, mettendo al centro il diritto del bambino a stare con i suoi genitori e rafforzando le verifiche e i controlli indispensabili per la tutela puntuale del minore”. “Il rapporto mamma-figlio-papà – si legge nel documento presentato dal Moige – va tutelato, protetto e salvaguardato con il massimo rigore e per questo chiediamo a gran voce al Parlamento italiano una riforma delle norme che regolano gli affidi dei minori, prevedendo, modalità chiare e stringenti unite a severe verifiche delle professionalità e dei potenziali conflitti di interesse”. Boghese è soltanto l’ultimo tra i tanti attori, cantanti e personaggi tv che si sono espressi, prendendo una posizione netta su un caso che presenta diversi lati oscuri. Prima del noto chef star del piccolo schermo, erano stati Nek, Rita Dalla Chiesa, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni e Laura Pausini ad affrontare la vicenda, scatenando spesso e volentieri violenti scontri verbali e insulti a pioggia sui social.

"Chef Rubio messo alla porta da Discovery Channel", il web esulta. Una voce è esplosa sul web e riguarda il presunto allontanamento di Chef Rubio da Discovery Channel: il canale avrebbe licenziato il famoso cuoco al centro di tantissime polemiche secondo quanto riportato da Dominique Antognoni. Francesca Galici, Sabato 09/11/2019, su Il Giornale. Starebbe per volgere al termine l'avventura di Chef Rubio a Discovery Channel, stando almeno a quanto si mormora nelle ultime ore. A scatenare i rumors è Dominique Antognoni, un noto critico che ha lanciato la bomba nel suo blog, ripresa poi centinaia di volte attraverso i social, fino a diventare una notizia. “Chef Rubio è stato amorevolmente accompagnato alla porta da Discovery Channel. So anche il nome del sostituto, però una notizia buona alla volta. Oggi godiamoci questa. Cin cin. Comunque al suo posto ci va un vero e proprio chef”, ha scritto Antognoni, che evidentemente non nutre molta stima nei suoi confronti. Chef Rubio è attualmente impegnato nella sua storica trasmissione Unti e Bisunti, che ha un buon riscontro di pubblico. Ultimamente Chef Rubio si è occupato molto di politica e le sue posizioni sono piuttosto nette e definite verso una direzione, in alcuni casi estremista, tanto da suscitare fortissime polemiche. Il suo territorio di rivolta preferito sono i social, dove con i suoi post esprime spesso le sue opinioni in maniera vivace e veemente, senza risparmiare toni forti e talvolta poco edulcorati. Da ormai diverso tempo si è esposto con ardore contro Matteo Salvini, con il quale ha avuto spesso scontri animati suoi social senza esclusione di colpi. Hanno destato molto clamore le sue parole sui poliziotti barbaramente uccisi all'interno della Questura di Trieste. Nel mirino dello chef, sempre più oratore politico, anche il comportamento degli italiani, a suo dire “pecora tricolore del diabolico e mafioso pastore”, come ha scritto in un tweet non troppo tempo fa. E dopo essersi sfogato col giuoco del pallone e aver assistito alla fucilazione, il mite italiano torna alla sua vita. Bisbigli, sospiri e mesta accettazione della triste condizione: pecora tricolore del diabolico e mafioso pastore. Tutti uniti nel nome della gloriosa Nazione. La notizia della sua presunta cacciata da Discovery è stata accolta con numerosi tweet contro Chef Rubio, visto da molti come un personaggio negativo e non adeguatamente informato. “Ti hanno scaricato, quanto mi dispiace, adesso il tuo bambino a forma di #mortazza come lo mantieni, sono addolorato e me dispiace molto...”, ha scritto un utente commentando la notizia. “Il cuoco sputa veleno è stato licenziato”, “Ottime notizie, anche se ora farà la vittima da censura re griderà al complotto”, “Chissà se adesso darà domanda per il reddito di cittadinanza”, sono solo alcuni dei tweet che hanno accompagnato la voce del suo presunto allontanamento. Al momento ne Chef Rubio né Discovery Channel hanno voluto commentare la notizia.

David Parenzo elogia Chef Vissani, Luca Bizzarri lo smaschera: figuraccia atroce e... dà la colpa a Salvini. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. Altra figuraccia per David Parenzo, il quale non può fare a meno di indulgere alla "leccatina", in questo caso allo chef Gianfranco Vissani, di cui era ospite nel suo ristorante. Pochi giorni fa, infatti, la Guida Michelin ha tolto una stella al locale di Vissani. E Parenzo, in calce a una fotografia in cui si fa ritrarre con lui, su Twitter scrive: "Solidarietà al Maestro G. Vissani per il complotto stellato di Michelin! Lottiamo tutti con te contro le multinazionali della gomma. Sempre al tuo fianco, Maestro". Peccato però che il tweet non sfugga a Luca Bizzarri, il quale risponde: "Stavo giusto sentendo il podcast della Zanzara dove, in assenza di Vissani, dicevi il contrario". E colto con le mani nella proverbiale marmellata, Parenzo che fa? Semplice, tira in ballo Matteo Salvini: "Classico trasformismo all’Italiana! Come Salvini mi metto la felpa con la geolocalizzazione del luogo nel quale mi trovo!". Che disastro, David Parenzo...

Chef Rubio licenziato perché anti-Salvini? «No, scelta già presa». Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Renato Franco. La replica a chi dice che sia stato fatto fuori da Discovery. Tanti tweet, poco share, Rubio, lo chef anti-Salvini messo alla porta dalla tv. La notizia (pur smentita) continua a circolare, è il sistema di un’informazione che prima scrive una cosa e poi la verifica. Perché se è vero che Chef Rubio non condurrà più Camionisti in trattoria, la decisione era già stata presa. Rubio voleva prendersi una pausa. Discovery lo conferma, nessun licenziamento. Che poi questa coincidenza possa cadere in un momento «opportuno» è un altro discorso. Perché i tweet militanti e diretti di Rubio possono dare fastidio a quel perbenismo che è uno dei pilastri fondanti della tv. Chef Rubio ora è in Iran, ma attraverso le stories di Instagram ha voluto precisare di non essere stato messo alla porta: «I motivi per cui ho deciso di interrompere Camionisti in trattoria sono molteplici e non starò qui a motivarli visto che di certe cose si è già parlato. Di certo posso dirvi che è stata l’unica cosa giusta da fare, e per correttezza nei vostri confronti che sempre mi sostenete con fiducia, e per coerenza nei confronti del percorso professionale e di vita che sto facendo. Vi basti sapere però che non avevo più la serenità, le motivazioni e l’energia per continuare a girare qualcosa in cui sentivo di aver già dato tutto. Continuare a girare per gli ascolti non è mai stata né mai sarà una mia peculiarità e farlo per inerzia mi avrebbe reso infelice e ancor più nervoso di quanto già non fossi alla fine della terza stagione». La quarta infatti non era prevista, Rubio lo aveva già anticipato: «Di Camionisti ho fatto tre serie e direi che pure basta». Al lavoro c’è sì una nuova edizione ma Rubio e Discovery avevano già consensualmente deciso che l’avrebbe fatta un altro conduttore, il cui nome sarà annunciato nei prossimi giorni. Vero nome Gabriele Rubini, 36 anni, ex rugbista diventato fenomeno televisivo con Unti e bisunti (un brand del suo modo di porsi), prima volto di DMax poi passato al Nove (ma sempre gruppo Discovery), Rubio non ha niente a che vedere con gli chef che popolano la tv, del resto ha sempre difeso la scelta di non avere un suo ristorante «perché preferisco raccontare il mondo lì fuori al di là delle sovrastrutture che stiamo subendo. Finché campo voglio imparare dalla strada e dai suoi interpreti che purtroppo stanno scomparendo». E infatti Rubio ha chiuso così — duro e puro — il suo post su Instagram: «Chiudo dedicando un pensiero ai bifolchi e alle caciottare che scrivono di me: da sei anni a questa parte mi hanno proposto le conduzioni di quasi tutti i programmi televisivi che conoscete e se non mi ci avete mai visto e mai mi ci vedrete è solo perché nel nome della coerenza so dire “no grazie”. Queste scelte mi hanno fatto rinunciare a una fracca di soldi (che sinceramente mi avrebbero pure fatto comodo) ma al contrario vostro mi posso guardare ogni giorno allo specchio senza sputarmi in faccia, quindi quando parlate di me o vi informate meglio oppure tacete perché altrimenti fate solo delle ricchissime figure di merda. Ah quando non mi vedrete più in tv sarà solo perché non ho voluto io e non il vostro Dio». Amen.

Chef Rubio, via da Discovery: "I motivi per cui ho deciso di interrompere Camionisti in trattoria sono molteplici". L'annuncio con una storia sul suo profilo Instagram dopo le polemiche cominciate nelle scorse ore: "Di certo posso dirvi che è stata l’unica cosa giusta da fare". La Repubblica il 10 novembre 2019. "I motivi per cui ho deciso di interrompere Camionisti in trattoria sono molteplici e non starò qui a motivarli visto che di certe cose si parla (e si è già parlato) nelle apposite sedi": Chef Rubio pubblica una 'storia', mentre è in trasferta in Iran, sul proprio profilo Instagram per mettere fine alle voci di un suo presunto licenziamento da parte di Discovery Channel. "Di certo posso dirvi che è stata l’unica cosa giusta da fare, e per correttezza nei vostri confronti che sempre mi sostenete con fiducia, e per coerenza nei confronti del percorso professionale e di vita che sto facendo. Vi basti sapere però che non avevo più la serenità, le motivazioni e l’energia per continuare a girare qualcosa in cui sentivo di aver già dato tutto", continua, sottlineando che "continuare a girare per gli ascolti non è mai stata né mai sarà una mia peculiarità e farlo per inerzia mi avrebbe reso infelice e ancor più nervoso di quanto già non fossi alla fine della terza stagione". Le indiscrezioni su un suo brusco addio a Discovery erano già cominciate nelle scorse ore quando il critico Dominique Antognoni aveva pubblicato un post in cui parlava, in effetti, di licenziamento: "Il figuro nella foto (scrive, riferendosi a un'immagin di Rubio, ndr), aspirante cuoco, aspirante opinion leader, mancato cuoco e mancato opinion leader, è stato amorevolmente accompagnato alla porta da Discovery Channel. So anche il nome del sostituto, però una notizia buona alla volta. Oggi godiamoci questa. Cin cin. Comunque al suo posto ci va un vero e proprio chef. Auguriamo al figuro…". Rubio, da parte sua, fa "un grosso in bocca al lupo" augurando il meglio al suo sostituto precisando che "da sei anni a sta parte mi hanno proposto le conduzioni di quasi tutti i programmi televisivi che conoscete e se non me c'avete visto e mai me ce vedrete è solo perché nel nome della coerenza so dire 'NO GRAZIE'. Queste scelte mi hanno fatto rinunciare a na fracca de soldi... ma al contrario vostro me posso guarda ogni giorno allo specchio senza sputammenfaccia quindi quando parlate di me o vi informate meglio oppure tacete perché altrimenti fate solo delle ricchissime figure dimmerda". Infine, aggiunge: "Ah quando non mi vedrete più in tv, sarà solo perché l'avrò voluto io e non IL VOSTRO DIO".

Marco Pasqua per ilmessaggero.it il 10 novembre 2019. Chef Rubio licenziato da Discovery. Troppe prese di posizioni offensive (a partire da quelle contro Israele e i suoi cittadini fino a quelle contro Matteo Salvini) e troppi insulti sui social, da Twitter a Instagram: alla fine l'emittente tv avrebbe preferito voltare pagina e chiudere l'esperienza dell'ex rugbista originario di Frascati diventato conduttore. Dopo che la notizia si era diffusa, ieri, oggi lo chef - sempre più polemista di professione ed esperto di like e condivisioni dettate dalla rabbia per le sue dichiarazioni - conferma lo stop ma fornisce la sua versione dei fatti: «Sono io ad essermene andato», la replica di Gabriele Rubini, 36 anni, il cui programma non ha mai brillato dal punto di vista degli ascolti. Più che tweet e share, quindi. Possibile dunque che, di fronte alla richiesta di un maggior impegno, sul lato degli ascolti, Rubini abbia preferito andarsene. Quel che è certo, è che la nuova serie di "Camionisti in trattoria", sarà affidata ad un altro conduttore. «I motivi per cui ho deciso di interrompere "Camionisti in trattoria" sono molteplici e non starò qui a motivarli, visto che di certe cose si parla (e si è già parlato) nelle apposite sedi - ha scritto su Instagram lo chef diventato guru anti-salviniano - Di certo, posso dirvi che è stata l’unica cosa giusta da fare e per correttezza nei vostri confronti che sempre mi sostenete con fiducia, e per coerenza nei confronti del percorso professionale e di vita che sto facendo. Vi basti sapere però che non avevo più la serenità, le motivazioni e l’energia per continuare a girare qualcosa in cui sentivo di aver già dato tutto. Continuare a girare per gli ascolti non è mai stata e mai sarà una mia peculiarità e farlo per inerzia mi avrebbe reso infelice e ancora più nervoso di quanto già non fossi alla fine della terza stagione. La cosa sarebbe ricaduta sia sul prodotto che sulla mia incredibile troupe. Loro meritano solo il massimo e io quel massimo non avrei più potuto garantirlo». «Chiudo dedicando un pensiero ai bifolchi e alle caciotta che scrivono di me: da 6 anni a questa parte mi hanno proposto le conduzioni di quasi tutti i programmi televisivi che conoscete e se non me c’avete visto e mai me ce vedrete è solo perché nel nome della coerenza so dire ‘No Grazie’. Queste scelte mi hanno fatto rinunciare a na fracca de soldi (che sinceramente m’avrebbero fatto pure comodo) ma al contrario vostro me posso guarda ogni giorno allo specchio senza sputammenfaccia, quindi quando parlare di me o vi informate meglio oppure tacete perché altrimenti fate solo delle ricchissime figure di merda. Ah, quando non mi vedrete più in tv, sarà solo perché l’avrò voluto io e non il vostro Dio».

Joe Bastianich su Chef Rubio: "Assumerlo in mio ristorante? Non so neanche chi sia". L'imprenditore italoamericano, in un'intervista su Radio2, ha detto la sua sul tanto criticato Chef Rubio ammettendo di non conoscerlo ma la replica del cuoco romano non si è fatta attendere. Novella Toloni, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. Joe Bastianich e Chef Rubio non se le mandano a dire. E pensare che tutto è nato da una frase all'interno di un'intervista. Joe Bastianich si è raccontato, nelle scorse ore, ai microfoni della trasmissione "I Lunatici" su Radio2. Durante la lunga chiacchierata, tra riferimenti musicali e culinari (le due grandi passioni di Bastianich), i conduttori chiedono all'imprenditore italoamericano un parere sul tanto discusso Chef Rubio. "Chi è Rubio? - risponde sorpreso Joe Bastianich - Se assumerei mai Chef Rubio in un mio ristorante? Non so neanche chi sia. L'ho sentito nominare, ma non ho mai visto un suo programma. Non so chi è". Decisamente strano visto che Chef Rubio, negli ultimi tempi, è finito in mezzo a non poche polemiche. Una stoccata mal digerita (per restare in tema) dal cuoco romano che, attraverso i social network, ha replicato all'ex giudice di MasterChef: "Ahahahahha bitch please. I tuoi autori lo sanno benissimo visto che vi facevano fare le cose che io trattavo con spontaneità e cuore anni addietro. Comunque se non mi hai mai visto ti conviene fare un ripassino". Sul suo profilo Twitter Chef Rubio ha così rinfrescato la memoria a Joe Bastianich che su Chef Rubio e gli altri ha ancora qualcosa da dire. "La tv è invasa dagli chef - ha spiegato su Radio2 - Forse dobbiamo tornare al classico. Lo chef alla fine è una persona che cucina per gli altri, dà sostanza e piacere ad altri. Lo chef è un pò insicuro, deve essere sempre giudicato su ogni singolo piatto e sempre apprezzato e lodato per le cose che fa. E' il momento che lo chef torni in cucina".

Chef Rubio insulta Salvini e Meloni? "Unico nemico di te stesso, rimetti il grembiule e torna in cucina". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano l'11 Ottobre 2019. Chissà che fine hanno fatto i cuochi di una volta, quelli che - per intenderci - confezionavano manicaretti invece di stare quotidianamente in tv o lanciare invettive ogni quarto d' ora sul web. Unti e bisunti di acredine sono i post che chef Rubio pubblica di continuo sui social network. Egli si scaglia ora contro Matteo Salvini o Giorgia Meloni, ora contro l'esecutivo colpevole, a suo dire, di avere causato l' ultima strage di migranti in mare («Bambini dispersi in mezzo al mare. E la colpa è solo dei cani che sono al governo»); ora inveisce contro i giornalisti, i quali «non sviluppano mai un' analisi della notizia: ne riportano solo degli stralci dando vita a titoli fuorvianti su cui massa e sciacalli si avventano». Non ha trascurato nemmeno di affermare la sua riguardo l' uccisione dei due giovani poliziotti a Trieste la scorsa settimana, agenti che - a giudizio del cuoco afflitto da ciclo mestruale perenne - sarebbero stati «impreparati sia fisicamente che psicologicamente», ragione per cui egli «non si sentirebbe sicuro nelle loro mani». Paladino dei clandestini - «Per servire il Paese bisogna essere virtuosi, viverla come missione e non come lavoro, essere impeccabili, colti, preparati così da gestire qualsiasi imprevisto», aveva aggiunto il signor Sotuttoio, paladino dei clandestini. Insomma, l' uomo è inarginabile, ingestibile, irrefrenabile, più pesante di una carbonara fatta male. Tanto che il pubblico, il quale ne ha fatto indigestione e non ha gradito gli attacchi alle forze dell' ordine, ha deciso di boicottare il programma televisivo dello chef romano, Rubio alla ricerca del gusto perduto, in onda dal 15 settembre nel prime time del canale Nove. Il format sta registrando un calo progressivo e costante degli ascolti: ha esordito con 373 mila spettatori e l' 1,82% di share e domenica scorsa era già calato a 242 mila e all' 1% di share. Più che alla ricerca del gusto perduto Rubini dovrebbe andare alla ricerca del senno smarrito, ma dubitiamo che abbia chance di recuperarlo. Sarebbe stato meglio se egli avesse continuato a spadellare e divorare cibi grassi davanti alle telecamere invece di spalmare i suoi giudizi su ogni vicenda politica e non. I cuochi predicatori, che dal pulpito si ergono a moralizzatori, convinti di essere detentori di verità che ad altri sfuggono, alla gente stanno sulle palle. Del resto, preparare bocconcini deliziosi è un gesto d' amore per eccellenza: viene fuori un pasticcio quando anziché essere animati da buoni sentimenti si è incazzati neri come Rubio, che trasuda veleno da tutti i pori. Non è escluso che Gabriele Rubini, dopo avere toppato ai fornelli, si dia alla politica scendendo in campo. Mercoledì, commentando la manifestazione messa in piedi dal leader della Lega per il 19 ottobre a Roma, ha twittato quella che sembra essere una minaccia: «Un giorno organizzerò tante persone anch' io, e sarà bello vedervi increduli e impauriti». Eh sì, mamma mia che paura! Temiamo tutti Gabriele nonché i luoghi comuni di cui è intriso, come quello che vuole che i politici siano tutti «capre che negano il futuro ai giovani», o quello che vuole che i clandestini scappino in massa dalle guerre e occorra accoglierli e mantenerli, ché tanto in Italia c' è posto per tutti. «Muoiono gli operai e non fate un cazzo, muoiono i detenuti e non fate un cazzo, muoiono le guardie e non fate un cazzo, muoiono gli studenti e non fate un cazzo, muoiono le donne e non fate un cazzo. Nessuno di quelli che dovrebbero fare qualcosa fa un cazzo. E noi paghiamo», ha tuonato due giorni fa il trentaseienne. Inoltre Rubio ritiene che nel nostro Paese «il confronto utile al popolo non esista e si vomitino solo odio e stronzate», proprio lui che definisce gli italiani «popolazione di cacasotto» ed i giornalisti «senza palle» e «giornalai». «Giorgia Meloni, so che mi leggi e rosichi perché da solo metto in difficoltà te e tutti quelli come te, mentre tu spendendo soldi nostri e miei in comunicazione annaspi», ha scritto lo chef, che è strasicuro di essere un brillante comunicatore nonché di essere invidiato e temuto per codeste prodigiose abilità. «Buongiorno a tutti i giornalisti cani, a tutti i politici sciacalli e ai conduttori televisivi privi di contenuti che sfruttano le tragedie per riempire di odio e analfabetismo funzionale le loro trasmissioni». profeta perseguitato Gabriele Rubini discetta spesso di «sistema marcio», «porci e capre» che ci governano, e promette di «continuare a lottare per la fratellanza, l' unione e un Paese migliore». Insomma, il cuoco pretende di esortare all' amore verso il prossimo seminando acredine. Si sente una sorta di profeta perseguitato. Persino da noi di Libero. «Libero e Il Giornale che me odiano e potessero farmi scomparire dalla faccia della Terra lo farebbero, dicono la stessa cosa: "Omicidio di Stato". Chi è lo stronzo? Ah no, loro so fasci e lo possono dire», ha scritto a proposito delle critiche ricevute per il post sui poliziotti massacrati a Trieste. Vorremmo rassicurarlo, calmarlo, se possibile. Caro Gabriele, non ti faremmo mai scomparire dalla faccia della Terra, ci fai pure ridere. Stai tranquillo, nessuno ce l' ha con te. Sei tu l' unico nemico di te stesso. Fai respiri profondi, disconnettiti. Indossa il grembiule e torna in cucina. Azzurra Barbuto

Dagospia il 13 Novembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Barbara Castiello, Pr manager e ufficio stampa di Chef Rubio. Salve, in merito a quanto pubblicato oggi  su dagospia.com a firma Alberto Dandolo riporto di seguito una serie di rettifiche: Chef Rubio non è stato defenestrato da Discovery Channel - i rapporti di lavoro si sono conclusi consensualmente al termine della messa in onda di 'Alla Ricerca del Gusto Perduto', ultima produzione TV che ha visto Chef Rubio in onda sul canale Nove fino al 20 ottobre. Come da accordi tra le parti e su esplicito desiderio di Rubio, al termine delle riprese di “Alla ricerca del gusto perduto” (31 maggio) e della promozione per il lancio televisivo, sarebbe seguito un lungo periodo di pausa dalla televisione. Rubio è infatti all'estero dove rimarrà per mesi  per dedicarsi ad altri impegni di lavoro come la fotografia e la documentaristica. Chef Rubio lo ha raccontato in diverse interviste. La prima in ordine di tempo su Vanity.it il 15 settembre con  Fabiana Salsi. Per quanto riguarda Amnesty - Rubio è stato ambassador delle campagne Write for Rights 2016 e  5x1000 (2017 e 2018). Non si trattava di  campagne contro il bullismo ma per i diritti umani. Rubio ha portato a termine tutte le campagne come da accordi previsti con Amnesty Italia. Le segnalazioni sono giunte  al termine dell'ultima campagna 2018, a termini scaduti. Non abbiamo mai ricevuto alcuna comunicazione ufficiale di Amnesty d'interruzione dei rapporti ma abbiamo appreso dai giornali che su segnalazione di Selvaggia Lucarelli, Amnesty Italia riteneva opportuno non proseguire con altre collaborazioni. Amen. Selvaggia Lucarelli, dicevo. Dopo la presentazione di un libro di Rubio con la signora Lucarelli in veste di presentatrice e un paio di piacevoli interviste (radiofonica e cartacea) i rapporti si sono incrinati a seguito di commenti incrociati sui social. Tutto sempre sul filo della goliardia social fino a che i livelli sono diventati sempre più personali e la Lucarelli ha indicato  Rubio come un bullo parte attiva di gruppi Facebook discutibili come "Sesso Droga e Pastorizia".  Rubio non è mai stato una parte attiva ma può aver inizialmente apposto like a post prevalentemente trash/goliardici, per poi presto eliminare questi gruppi dai suoi contatti per ovvia presa di distanza da alcuni contenuti pubblicati. Non  ci sono mai stati post espliciti di Rubio contro Selvaggia Lucarelli. Forse cadute di stile. Contrariamente Selvaggia Lucarelli a ogni occasione pubblica non ha mai smesso di puntare il dito contro il secondo lei 'bullo Rubio' . Sebbene condivisibili molte delle battaglie, la signora Lucarelli non si distingue per tatto e toni interlocutori. Ricordiamo alcune sue cadute di stile nei confronti di Belen, Morgan o il caso della mamma di Ravenna. Il meme di Vendola invece era un trending topic disponibile sul web e non una creazione di Rubio. Parafrasava la notizia (che in quei giorni ebbe eco globale) di Madonna che prometteva pompini a tutti se Hillary Cinton avesse vinto le elezioni. Infine il post che riportate riferito a Belen era una chiara critica di Rubio alle notizie morbose dei giornali - si può leggere @gazzetta.. - che riprendono post social di celebrities mezze nude per il clickbait e usano le donne come mera merce di scambio per i clic. Sulla complessa questione israelo - palestinese portata avanti da Rubio non c'è alcun accanimento antisemitico ma di sola natura politica. Rubio allontanandosi dalla TV potrà essere forse più libero di esprimere le sue posizioni e di chiarire il suo punto di vista. Per quanto riguarda Dandolo, la prima volta che scrisse di Rubio - vado a memoria nel 2015 - insinuò che frequentava gli spogliatoi del rugby per sue tendenze sessuali particolari. Ah saperlo!

Alberto Dandolo per Dagospia il 12 Novembre 2019. Qualcuno avverta la croce verde che al settimo piano di un condominio di Viale Mazzini, quello che all'ingresso ha una statua di un fiero puledro, c'è urgente bisogno di assistenza e sostegno. I condomini dei piani alti infatti sembrano essere in stato confusionale, con totale perdita del principio di realtà. Udite, Udite : il defenestrato (da Discovery Channel) chef Rubio sarà ospite domani sera in seconda serata su Rai 2 come testimonial contro il cyberbullismo del programna #Ragazzincontro. Chef Rubio testimonial contro il bullismo? Basta andare sui suoi social o ricapitolare le sue gesta 2.0 negli ultimi anni per capire che Rubio andrebbe sì mostrato agli studenti, ma perché è la rappresentazione esatta di come non si deve essere e cosa non si deve fare sui social. Perfino Amnesty International che lo aveva ingaggiato tempo fa come testimonial contro il bullismo dopo alcune segnalazioni su suoi tweet e post gli diede il benservito con un comunicato pubblico in cui prendeva le distanze da lui. Qualche esempio? Gli ebrei per Rubio sono “esseri abominevoli”, ha scritto “Israele nazista , “sionisti cancro dell’umanità” e “se volete spendere meno eliminate fisicamente i sovranisti “ (con la bandiera di Israele accanto al tweet). Poi non a caso  fa attacchi continui a Saviano che lui definisce “finto giornalista” come se lui invece fosse un vero chef. Ha pubblicato  un meme rigetto al referendum con la foto di Nichi Vendola e la scritta “se vince il sì faccio un pompino a tutti”. Vendola lo denunciò. Pubblicò una foto sexy di Belen commentando su Instagram “poi dici le violenze, se i maschi li imboccate a tette e culi grazie Ar cazzo”. Sempre in tema di sessismo scrisse pubblicamente a Selvaggia LUCARELLI che aveva fatto notare i suoi atteggiamenti da bullo “sta cosa che non gliel’ho dato non gli va giù”. Ma la cosa più assurda è che proprio in fatto di bullismo ha dichiarato sui social che prima il bullismo faceva crescere perché agli insulti si rispondeva con le pizze o si chiamavano fratelli, amici e parenti, aggiungendo che la colpa del bullismo è dei genitori definiti COGLIONAZZI. Ha anche scritto dei tweet in cui dichiarava che parlare di bullismo nelle scuole è banale, che il bullismo c’è sempre stato in strada e fortificava i giovani. Insomma, insulta ebrei, donne, omosessuali e minimizza la gravità del bullismo e viene usato come testimonial anti bullismo dalla Rai. Quando si dice servizio pubblico.

Chef Rubio approda in Rai: domani a #Ragazzicontro parlerà di cyberbullismo. Marco Leardi per davidemaggio.it il 12 Novembre 2019. Nemmeno il tempo di siglare il divorzio con Discovery e Chef Rubio è già in Rai. Il conduttore, noto per le sue irruenti invettive via social, domani in seconda serata apparirà su Rai2, come ospite di #Ragazzicontro, il programma di Daniele Piervincenzi. Il focus, come sempre, sarà sul mondo giovanile, con interviste e testimonianze agli studenti di un istituto scolastico. Ma attenzione, il tema della puntata sarà il cybebullismo e qui l’ironia è facile: Rubio parteciperà forse in qualità di hater? Nella seconda puntata di #Ragazzicontro, il reportage sarà ambientato sarà a Milano tra i ragazzi del Curie Sraffa, un Istituto di Istruzione Superiore nel quartiere Baggio, vicino allo Stadio San Siro. Con loro, si parlerà soprattutto di social network, di come influenzano e modificano la vita degli adolescenti, di quanto male può fare il cyberbullismo, e di come ci si difende dagli haters. Tra le testimonianze, un’intervista a Paolo Picchio, padre di Carolina, la 14enne di Novara che 2013, dopo essere stata vittima di episodi umilianti da parte di alcuni compagni, non ha retto alla gogna mediatica e si è tolta la vita. Poi, per l’appunto, ci sarà Rubio, che sulle sue pagine social innesca quotidiane contese contro chi non gli garba, con toni a dir poco ruvidi. Piervincenzi, che dello chef è amico (ad accomunarli la passione per il rugby), lo inviterà a parlare delle sue tanto discusse intemerate da sollevatore di polemiche?

Marco Leardi per davidemaggio.it il 12 Novembre 2019. Indietro tutta: la Rai ci ripensa e fa fuori Chef Rubio. In una nota per la stampa, l’azienda fa sapere che “per questioni di opportunità“, l’ex rugbista e campione di polemiche sui social non sarà presente – a differenza di quanto previsto inizialmente – nella puntata di #Ragazzicontro in onda domani su Rai2 e registrata il 9 ottobre scorso. A deciderlo, il direttore di rete Carlo Freccero. Per primi su queste pagine avevamo evidenziato il paradosso: Chef Rubio, infatti, avrebbe dovuto apparire in una puntata – quella in programma per domani – in cui si parlerà di cyberbullismo e di haters. Proprio lui, che negli ultimi tempi si era fatto distinguere per una serie di post aggressivi pubblicati sui propri social, contro tutto e tutti. Una presenza che ritenevamo inopportuna e addirittura fuori luogo, la sua, visto che la trasmissione darà voce anche al padre di una ragazza che si è tolta la vita proprio per il peso delle umiliazioni mediatiche subite. Apprendendo della partecipazione di Rubio (di cui – ci comunica lui stesso – non sapeva nulla!), il direttore di Rai2 Carlo Freccero si è reso conto che il chiacchierato chef avrebbe potuto deviare l’attenzione rispetto ai temi del programma. E così ha optato per una scelta drastica. Al riguardo, in una nota, il professore precisa quanto segue: “L’intervento di chef Rubio è stato registrato il 9/10. Oggi è il 12/11. Chef Rubio è abituato liberamente a vivere sui social e a commentare i fatti del giorno. Tutto questo potrebbe in qualche modo vampirizzare il programma, distogliendo l’attenzione sui contenuti da servizio pubblico delle storie narrate con grande intensità e forza in cui i ragazzi sono i protagonisti assoluti. Non vorremmo che il testimonial potesse in questo caso divorare, sovrapporsi, nascondere, schiacciare l’intero programma“. L’ex conduttore di Discovery, di conseguenza, non sarà presente a #Ragazzicontro con alcun contributo audiovisivo che lo riguardi.

Alberto Dandolo per Dagospia il 13 novembre 2019. Rispondo punto per punto alle precisazioni del solerte ufficio stampa di Rubio.

a) Chef Rubio è stato testimone di Amnesty International prestando il suo volto anche per la campagna contro il bullismo, qui il video in cui lui stesso parla di bullismo a nome di Amnesty: Come per il caso Discovery, Rubio ci tiene a far sapere che “non è stato lasciato” ma ha lasciato lui Amnesty. Peccato che Amnesty fece un comunicato ufficiale sul suo sito in cui annunciò che avrebbe interrotto ogni rapporto con Rubio. Queste le parole esatte: “Chef Rubio è stato testimonial di Amnesty International Italia. Nel corso di questa collaborazione ha preso parte a iniziative e attività sui diritti umani che abbiamo molto apprezzato. Negli ultimi giorni ci sono state segnalate diverse sue dichiarazioni, sui social, dai toni e dai contenuti offensivi e inaccettabili, nonché misogini. Per questa ragione, Amnesty International Italia ha deciso di sospendere ogni collaborazione con Chef Rubio”.

b) Riguardo la frase: “Il meme di Vendola invece era un trending topic disponibile sul web e non una creazione di Rubio”, è evidente che Rubio ha un’idea bizzarra del web. Se io ora condividessi un meme in cui si insulta Rubio, sarei meno colpevole di chi l’ha creato? Non penso. E penso che Rubio, alla sua età, se vuole dare lezioni sul bullismo, dovrebbe saperlo.

c) Su Belen, non si capisce come un giornale che pubblica una sua foto sexy o lei stessa che la pubblica dovrebbe istigare la violenza. Su Selvaggia Lucarelli, contestare una sua affermazione rispondendo “Sto fatto che non gliel’ho dato non le va giù”, resta una frase orribilmente sessista, non certo una caduta di stile. Anche qui i tentativi di difesa di Rubio sono ammirevoli, ma poco riusciti.

d) La complessa questione israelo-palestinese è così complessa che Rubio crede di poterla affrontare in tweet da 280 caratteri in cui si rivolge a persone che difendono Israele con espressioni come “Rabbì”, con affermazioni quali “avidi e pulciari dalla notte dei tempi”, “jewish idiot” e “eliminiamo fisicamente i sovranisti”con tanto di bandiera israeliana a corredo. Fortuna che “non c'è alcun accanimento antisemitico”, chissà cosa scriverebbe se ci fosse. Probabilmente condividerebbe un meme su Auschwitz. Un meme creato da qualcun altro, ovviamente.

Chef Rubio versione rabbino indigna la comunità ebraica. Discovery si dissocia. David Monachesi per davidemaggio.it (4 maggio 2017). La comunità ebraica insorge contro Chef Rubio. I panni da rabbino indossati nei giorni scorsi, seppur per gioco, dal volto di punta di DMAX hanno suscitato la disapprovazione sul web. Attaccato dalla politica Carla Di Veroli, il cuoco non ha indietreggiato, lasciandosi andare via social ad affermazioni alquanto aspre. “Ma davvero avete bisogno sempre di un capro espiatorio e di lamentarvi che il mondo vi vessa?”, ha tuonato senza mezzi termini il protagonista di “È uno sporco lavoro”. Procediamo con ordine. Lo scorso 25 aprile l’ex rugbista romano ha preso posizione su Twitter nei confronti della questione israelo-palestinese, scagliandosi contro Israele. Questo il suo intervento, che ha dato il via alla faida: “Rabbì, la storia è ciclica: prima pecore ora lupi. E lo sanno tutti che il terrorismo non ha la Kefiah ma va in giro coi Tank”. Rabbì, la storia è ciclica: prima pecore ora lupi. E lo sanno tutti che il terrorismo non ha la Kefiah ma va in giro coi Tank #freepalestina. L’indignazione, originata dal post sopraccitato, è poi andata lievitando ulteriormente a causa di un fotomontaggio pubblicato dallo stesso Rubio sulla sua pagina Instagram, in cui lo chef di Frascati ha assunto le tipiche sembianze di un rabbino, il capo spirituale della comunità ebraica, con tanto di cappello e barba lunga. Il post – corredato da hashtag come #livelikeawarrior #peace #and #love #inshalla #Soffiamoviagliabusi – ha fatto in breve tempo il giro del web suscitando un groviglio infuocato di polemiche e malcontenti. Fra coloro che si sono sentiti offesi dall’immagine in questione, l’ex delegata alla Memoria del Comune di Roma, Carla Di Veroli, ha voluto esprimere, tramite social, tutto il suo dissenso: ”Ecco come #ChefRubio ci prende per il culo su Instagram. Che pezzo di merda“, ha tuonato senza peli sulla lingua la politica. Pronta e pungente è stata la replica dell’ex rugbista via Facebook: “Avete rotto voi e i vostri complessi. Ma davvero avete bisogno sempre di un capro espiatorio e di lamentarvi che il mondo vi vessa? A sto giro s’è scomodata anche la Drama Queen della comunità ebraica romana, detta” ‘A Contessa” per la classe che la contraddistingue. Belle parole d’elogio e fraternità.” Proseguendo, Chef Rubio si è difeso sottolineando come alla base della foto incriminata vi fosse null’altro se non un atteggiamento autoironico. Nessuna volontà di offendere, dunque. Queste le sue parole: “Se solo non guardaste solo il vostro ca*zo di orticello sapreste che sono autoironico e prendo per il culo in primis me stesso e poi tutto ciò che mi fa sorridere o stimo (te e quei quattro gatti che non se staccano dai social no di certo). Se non avete voglia di andare indietro nelle gallery dei miei social per vedere che mi sono fatto fotomontaggi col Papa, Dalai e Richard Benson allora appena avrò modo farò un collage in cui vedrete solo la vostra tristezza. Get a life or get a knife. #jewish #jewishdoit”. Una replica dura, questa, che non ha lasciato indifferenti. A seguito di numerosi messaggi di protesta inviati via social a DMAX, il canale che attualmente ospita la prima stagione della docu-serie “È uno sporco lavoro”, di cui Chef Rubio è protagonista, il gruppo Discovery Italia ha sentito il bisogno di dire la propria, prendendo le distanze dalle affermazioni di quello che è ad oggi uno dei suoi volti di punta. Questo il comunicato pubblicato su Facebook: “In riferimento alle affermazioni di Chef Rubio nei confronti della comunità ebraica, rilasciate attraverso i suoi account social, Discovery Italia precisa che si tratta di opinioni del tutto personali da cui il network televisivo si dissocia“.

Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano” il 14 Novembre 2019.  Per raccontare chi sia Chef Rubio senza giudizi contaminati dal tifo politico, bisogna partire dal nome d' arte: Chef Rubio. Il termine chef se ne sta lì appiccicato al cognome ritoccato (si chiama Rubini). Senza che "chef", Rubio, lo sia stato mai. È un po' tipo Mamma Ebe, Mastro Geppetto, Babbo Natale, che tu non sai più perché si chiamano babbo, mastro e mamma, ma ormai ti sei abituato così e amen. Il vero problema di Rubio sta proprio nel suo continuo provare a depistare, forse più se stesso che gli altri, su quale sia la sua reale natura. Che è quella del bullo mascherato da capopopolo. Da bandiera della sinistra con i modi dello smargiasso di CasaPound. Ed è in questa zuppa densa di contraddizioni che lo smargiasso si sbraccia da anni cercando di restare a galla, sostenuto da una certa sinistra a cui basta che dia dello stronzo a Salvini per farselo stare simpatico. A proposito di Salvini, Rubio ne è nemico pur ricalcandone gli stessi schemi, dal linguaggio carico d' odio ("Prima o poi ti incontro", "Vigliacco senza palle") alle fake news buttate lì per armare seguaci (memorabile il tweet in cui insinuò il dubbio che Salvini, ricoverato, si fosse inventato un malore). E ne ricalca gli schemi tipici degli arruffapopoli mascherati da amici del popolo, quando si lancia in analisi politiche semplificate all' osso, e gettando benzina su questioni che chiederebbero prudenza. Se Salvini lo fa con i migranti, lui lo fa con la questione israelo-palestinese. Ci sono decine di tweet feroci in cui Rubio, convinto che il tema possa essere compresso in due slogan insultanti, si schiera coi palestinesi senza porsi il problema del "come". Nello specifico, definendo Israele uno stato neonazista con "esseri abominevoli" e scrivendo "per salvare il pianeta eliminate fisicamente i sovranisti" con accanto una bandiera di Israele. Quando qualcuno gli fa notare che istiga l' odio contro Israele, lui risponde che ce l' ha con i sionisti-cancro-del-mondo, mica con gli ebrei. Peccato che qualche tweet più in là scriva "Ah Rabbì" o "jewish idiot" o "Israele tra le tante cose di merda che offre al mondo deporta i filippini. Pulciari e avari dalla notte dei tempi". E peccato, anche, che manifesti un' ostilità implacabile nei confronti di Roberto Saviano, di origini ebraiche, definito "finto giornalista" e "zerbino dei bancarottieri di Londra". E invece Saviano, per sua fortuna, continua a lavorare per Repubblica. Un giornale che, alla notizia del licenziamento di Chef Rubio da parte di Discovery, pubblica un articolo piccato il cui passaggio più emblematico è: "Veder spadellare con la vacua leggerezza di Nonna Papera riesce molto più rassicurante per autori e spettatori". Quindi chi non insulta sui social è Nonna Papera. Ne deduciamo che Cracco sia Paperino, un vacuo sfigato che cucina senza chiamare "rabbì" chi gli toglie una stella Michelin. E parliamo dello stesso giornale che dedica servizi su servizi a "Odiare ti costa" e "Parole Ostili" sui social. Rubio non vuole essere Salvini ma è Salvini, vuole spacciarsi per anti-sionista ma fa battute antisemite, cosa manca? Ah già, vuole farci sapere che è contro il bullismo e presta il suo volto a campagne e programmi tv (come quello su Rai 2 da cui è stato escluso). Peccato che lo stesso Rubio abbia scritto su Facebook "Il bullismo c' è sempre stato, solo che si chiamava strada. Si incassava muti, si restituiva e a casa 'tutto bene'". Dunque il suo saggio insegnamento è rispondere alla violenza con la violenza e non dire nulla ai genitori. Tra parentesi, Amnesty interruppe ogni collaborazione con Rubio proprio per queste frasi. Del resto, che a lui piaccia prestare il volto a onlus di ogni tipo è risaputo. È stato testimonial di quasi tutte le campagne del pianeta, da #salvaungorilla a salva un albero a salva un boscaiolo albino. Spesso auto-proponendosi, e non mancando di far inviare dal suo ufficio stampa decine di email ai giornali sulle iniziative benefiche. E guai a contestargli qualcosa, perché potrebbe rispondere con battute sessiste. A me ha scritto che io ce l' ho con lui perché "sta cosa che non gliel' ho dato non je va giù". Su Belen aveva twittato che a furia di tette e culi "poi dici le violenze". Devo rinfrescare la memoria a Rubio e rammentargli che non ce l' ho lui, ma è lui ad avercela con me per il mio lavoro sul Fatto. Nel 2016 ho condotto una lunga inchiesta su gruppi Facebook chiusi in cui milioni di odiatori (alcuni perfino arrestati tempo dopo) condividevano contenuti razzisti, sessisti e la nota cartella denominata "Bibbia", con centinaia di foto e video di minorenni. Tra questi "Welcome to favelas" e "La fabbrica del degrado", in cui per anni si è praticato cyberbullismo. Dalla mia inchiesta iniziarono, con mia grande sorpresa, i post insultanti di Rubio. Mi venne spiegato che lui era attivo su quelle pagine. Lo contattai e lui mi disse: "Hai spaventato miei amici amministratori". In pratica, la mia colpa era quella di aver rivelato i nomi di chi era a capo di quei gruppi in cui, tra le altre cose, si insultavano donne, ragazzi down, persone di colore, minorenni, ebrei. Tutto questo prima che Rubio scoprisse la sua vocazione da testimonial anti-bullismo e difensore dei deboli, ovviamente. Va ricordato a un certa sinistra, prima che scomodi di nuovo la teoria dell' editto bulgaro per uno che, più che vittima della censura, è vittima di se stesso.

Alessandra Menzani per “Libero Quotidiano” l'11 dicembre 2019. Un film-documentario in cui potrà sentirsi semplicemente Carlo? O in cui sarà a tutti gli effetti Carlo Cracco? Un dilemma che toglie il sonno, di cui al momento non è dato avere risposta. Quello che invece abbiamo appreso è che la tv online Amazon Prime Video dopo il documentario Chiara Ferragni Unposted ha intenzione illuminare le vite di due italiani che, in ambiti diversi, hanno lasciato il segno. Il sito del sempre bene informato DavideMaggio.it rivela che la divisione "Unscripted" di Amazon Prime Video, guidata da Nicole Morganti, sta lavorando a due progetti che punteranno i riflettori su Carlo Cracco e Tiziano Ferro. Lo chef stellato, ex MasterChef, e il cantante di Latina sono in trattativa per due produzioni firmate Banijay Italia. Se da un lato per Cracco e per la stessa Amazon si tratta di un colpaccio, dall' altro non si può non ricordare la più recente delle imprese televisive del George Clooney del soffritto. In fuga da MasterChef, dove il ruolo di giudice l' aveva stufato, lo chef era planato su Raidue con uno show da protagonista assoluto, ma gli ascolti avevano fatto cilecca. Il cooking show Nella mia cucina non aveva convinto il pubblico. Gli ascolti delle prime puntate del programma, tra il tre e quattro per cento di share, gli sono stati fatali e la trasmissione era stata spostata. Cracco, che ha appena lanciato il suo terzo ristorante a Milano (Carlo e Camilla in Duomo) non ne fa sicuramente una malattia. Anche perché ha ben altri progetti. Tipo sparire come una rockstar, in stile Mina, Lucio Battisti, Syd Barrett. Anche lui vuole lasciare all' apice della carriera. «Starò via almeno quattro anni, la volta dopo otto, fino a scomparire», aveva detto pochi mesi fa, «ho accettato di fare questo programma perché il produttore è Scavolini, brand con cui collaboro da anni». Mica scemo. Cinquantaquattro anni, tre Stelle Michelin, vicentino figlio di un ferrotranviere, Cracco lavora nelle cucine da quando ha 16 anni. Inizia con la gavetta nel ristorante di Gualtiero Marchesi, poi va in Francia, dove vive per tre anni, ottiene due stelle Michelin all' Enoteca Pinchiorri a Firenze, torna con Marchesi, ottiene una terza stella al ristorante Le Clivie di Piobesi d' Alba, lancia a Milano il "Cracco Peck", che oggi si chiama solo "Cracco". Diventa una star in Italia grazie a Masterchef. Pochi sanno che da giovane voleva iscriversi al seminario, ma non aveva i soldi. E' sua moglie Rosa Fanti, una sveglia romagnola che gli fa da manager, a consigliargli di tenere la barba lunga. Un look che è stato per lui la ciliegina sulla torta.

Fiorello: «Bastianich da giovane era Renzi!». E l'ex presidente del Consiglio: «Come direbbe Benigni, non mi somiglia per niente». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. «Guardo al mio passato per capire chi sono oggi»: queste le parole con cui Joe Bastianich ha accompagnato, su Instagram, una sua foto d’infanzia, che lo vede abbracciato ai suoi genitori, Felice Bastianich e Lidia Matticchio. Uno scatto all’insegna della nostalgia, quindi. Se non fosse per un dettaglio che non è sfuggito ai fan del ristoratore ed ex giudice di MasterChef, messo poi nero su bianco da Fiorello: la somiglianza tra il giovane Bastianich e un certo politico italiano... «Incredibile! Bastianich da giovane era Matteo Renzi!!»: lo ha scritto Fiorello su Instagram, rilanciando la fotografia postata dal ristoratore italo-americano. Tantissime persone si dicono d'accordo, divertite, con l'osservazione dello showman. Compreso lo stesso ex presidente del Consiglio, che ha risposto a Fiorello con un tweet in cui si legge: «Ma è fantastico, Fiore! Come direbbe Benigni: non mi somiglia per niente». Non è la prima volta, però, che Bastianich condivide scatti della sua infanzia o giovinezza. Nato a New York nel 1968 e figlio di due emigrati istriani, è cresciuto nei ristoranti di famiglia (prima il Buonavia, poi, il Villa Seconda e, dal 1981, il celeberrimo Felidia a Manhattan). Dopo una breve esperienza a Wall Street, si è lanciato a sua volta nel mondo del food come imprenditore: negli Stati Uniti ha fondato, insieme a Mario Batali, una delle catene di ristorazione più famose di New York, che negli anni si è espansa in tutto il mondo. Poi la fortunatissima carriera in tv: prima negli Usa, e, dal 2011, anche in Italia con MasterChef. Nel 2017, Bastianich attraversa un momento difficile quando il suo socio e amico Batali, accusato di molestie sessuali, ammette le sue responsabilità e viene allontanato dalla società. «Per me è stato uno choc», ha spiegato qualche mese dopo al Corriere. Da allora, sono cambiate molte cose. Bastianich ha deciso, dopo ben otto edizioni, di appendere al chiodo il grembiule di giudice di Masterchef e di dedicarsi alla musica, sua passione da sempre (organizza da anni un festival di beneficenza nelle sue tenute in Friuli, il Bastianich Music festival). «Non è stata una decisione facile ma sento che è arrivato il momento per dedicarmi a nuove avventure», ha spiegato. Senza mai dimenticare, però, il suo passato, l'infanzia a New York e il legame con la sua famiglia.

Da I Lunatici Radio2 il 16 ottobre 2019.  Joe Bastianich è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Bastianich ha raccontato: "Sono nato in America da migranti italiani, ho suonato, vissuto e conosciuto la musica per sentirmi un americano vero. Poi nella vita ho fatto tutt'altro, ora ho riscoperto la gioia di tornare a suonare. Era la fine degli anni 70, la mia era una famiglia italo-americana che si era trasferita a New York, vivevamo in periferia, eravamo tutti migranti, cercavamo la possibilità di vivere un'altra vita. In America c'era una grande meritocrazia. Se ti impegnavi ed eri più bravo degli altri, avevi la tua occasione. La mia prima grande occasione? Nella musica quando mia nonna mi comprò la prima chitarra. Nella vita, quando mia nonna, sempre la stessa, mi prestò 80.000 dollari per aprire il mio primo ristorante nel 1991. Avevo 23 anni, non potevo fallire, ho lavorato tantissimo, 18 ore al giorno. Ho avuto fortuna, ma la fortuna c'è quando la preparazione incontra l'opportunità. Tante volte la sera quando sei solo nel letto ti viene paura. Ma poi ti alzi, vedi l'alba, e capisci che è arrivato un altro giorno". Sull'imitazione di Maurizio Crozza: "Sono passati quasi otto anni. All'inizio non capivo, non ero inserito nel mondo italiano, poi un giorno dei ragazzi che giocavano fuori a una scuola mi urlarono le sue frasi. E lì mi sono reso conto di cosa era accaduto. Niente male. E' bello quando le espressioni che usi entrano poi a far parte dell'immaginario collettivo. Anche se non sono così cattivo. Magari all'inizio non conoscevo bene la lingua e usavo uno slang aggressivo per coprire il fatto che non avevo la capacità grammaticale per entrare bene nel discorso. Non avevo mai lavorato in televisione, ho avuto tre quattro vite in una, sono consapevole della fortuna che ho avuto nel fare ristorazione, televisione, musica. Non tutti hanno questa opportunità". Sugli chef che oggi fanno tendenza: "Forse dobbiamo tornare al classico. Lo chef alla fine è una persona che cucina per gli altri, dà sostanza e piacere ad altri. Lo chef è un po' insicuro, deve essere sempre apprezzato e lodato per le cose che fa. Però è il tempo che lo chef torni in cucina. Se assumerei mai Rubio in un mio ristorante? Non so neanche chi sia Rubio. L'ho sentito nominare, ma non ho mai visto un suo programma. Non so chi è".

Joe Bastianich: quando imbraccio la chitarra volo su un altro pianeta. Il rock and roll nel cuore, un passato da teenager punk al CBGB di New York e un album, il primo, intitolato Aka Joe. Gianni Poglio il 9 ottobre 2019 su Panorama. L’altro Joe, quello che non indossa i panni dell’imprenditore della ristorazione o dell’inflessibile giudice gastronomico in Tv, è un uomo stregato dal rock and roll e dal sound dei Led Zeppelin, che a 51 anni ha realizzato un sogno, quello di incidere un album tutto suo tra rock, funk e blues: Aka Joe. “La musica è terapeutica. Ovunque mi trovi, quando imbraccio la chitarra e inizio a cantare, sono in un altro mondo, non esisto per nessuno, non rispondo nemmeno al telefono” racconta entusiasta a Panorama. “Dopo anni di stroncature in cucina, ora sono io quello che viene giudicato come musicista dalla giuria di Amici Celebrities. Fa un effetto strano e spiazzante stare dall’altra parte…” racconta dopo le nemmeno troppo velate critiche di Platinette alla sua esibizione (“Freddino e senza un briciolo di passione”) nella puntata d’esordio dello show. “Evidentemente non ha colto l’ironia della mia performance… Mi sono presentato con una versione fighissima di Stayin’ Alive dei Bei Gees in chiave country-rock. Se vuole un artista-karaoke, ha sbagliato concorrente. Io sono altro… Non gli ho risposto a caldo, ma Maria De Filippi mi ha detto che posso farlo e quindi non mi farò mancare l’occasione per replicare” sottolinea, prima di perdersi nei ricordi di una New York in bianco e nero, quella di fine anni Settanta, la capitale mondiale della musica d’avanguardia che andava in scena tutte le sere sul palco scassato di un club leggendario che ora non esiste più: il Cbgb di Bowery Street. “A 12 anni mi presentavo lì con il mio “chiodo” punk per vedere dal vivo i Ramones. Un’emozione indimenticabile… Mi esaltava vivere il mondo alternative della metropoli, era quanto di più lontano ci fosse dai valori della mia famiglia, molto cattolica e tradizionale” ricorda. “Ero pur sempre il figlio di emigranti italiani che vivevano nel Queens. La musica era un lasciapassare per essere accettato dai miei coetanei, per diventare un vero ragazzino americano. Sempre lì, nelle strade tra Queens e Bronx, ho assistito in diretta alla nascita dell’hip hop. I primi breakdancers accompagnati da deejay che rappavano a ruota libera sulle loro acrobazie… La scintilla di qualcosa che poi ha conquistato il mondo”. I Led Zeppelin nel cuore, un futuro da businessman della ristorazione e, in mezzo, un impiego in banca alla Merrill Lynch di Wall Street: “Non era la mia strada, era un lavoro troppo poco imprenditoriale per me. Non mi piaceva per niente il fatto che qualcun altro potesse controllare il mio destino e decidere quanto carriera sarei riuscito a fare. Capii i miei genitori: avevano un ristorante e il successo o l’insuccesso di quell’attività dipendeva esclusivamente da loro” spiega. Ottantamila dollari: questa la cifra che gli consegnò per aprire il primo ristorante Nonna Erminia (99 anni, a lei è dedicata una delle canzoni più intense di Aka Joe), la stessa nonna che lo ha cresciuto e che gli ha regato la prima chitarra da 29 dollari… “Quando partii con il Becco a Manhattan mi era chiaro un concetto: il fallimento non era un’opzione. Avevo deciso che non volevo trascorrere una vita in povertà e quella era l’occasione per provarci seriamente. Venti ore di lavoro al giorno hanno pagato: Becco è stata un grande successo e ancora oggi, dopo 27 anni, funziona molto bene. Capii di avercela fatta quando all’inizio degli anni Novanta la serie televisiva Friends, la più seguita in quel periodo, volle utilizzarlo come set per le riprese di una puntata”. Si sente un ragazzo fortunato Joe Bastianich, ancora di più da quando c’è un suo album nei negozi e sulle piattaforme streaming: “Sto già scrivendo le canzoni per il prossimo che sarà decisamente più country e con i testi in italiano”. Un rischio? “Cosa vuole, io ce l’ho nel DNA. Vengo da una famiglia che ha rischiato tutto, che negli anni Cinquanta ha abbandonato case e terreni in Istria per salire su una nave e cercare fortuna in America. Nella vita ci vuole un pò di sana follia per andare lontano. Credetemi…”. 

·         Oliviero Toscani.

Dagospia l'8 novembre 2019.Da I Lunatici Radio2. Oliviero Toscani è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il fotografo ha raccontato alcuni passaggi della sua vita: "La fotografia è il più bel mezzo di comunicazione moderno. Ma non sono un fanatico di macchine, obiettivi, cose così. Il fotografo moderno deve essere un autore, non un esecutore di immagini catturate con la macchina fotografica. Quella è un'altra cosa. Fotografare è come guidare l'automobile. Tutti sanno guidarla. Poi ci sono i piloti di formula 1 e quelli che invece usano l'automobile per spostarsi o andare in vacanza. La fotografia è uguale. Ormai tutti hanno fatto una fotografia, tutti sanno fotografare. E' più facile fotografare che parlare. Essere fotografi è semplicissimo".

Sul Toscani studente: "Come ero a scuola? Al liceo è stato un periodo brutto. Invece di andare a scuola andavo al cinema per fortuna. Mi sono fatto una cultura cinematografica enorme. Se fossi andato a scuola non avrei imparato così tanto. Avevo un po' di senso di colpa, ma capivo che imparavo di più andando al cinema che a scuola. Ma mio padre era perfetto: pensava anche lui che imparavo di più al cinema che in classe. Sono nato durante la guerra, quelli della mia generazione si stanno estinguendo, siamo patrimonio dell'umanità. Alla mia epoca la scuola era tremenda, non era il futuro. Io ho 77 anni, ma divento sempre più lucido. Ho una sorella che ha undici anni più di me. Ma siamo simili: resta curiosa, vuole andare alle mostre, al cinema. Mi lamento che viaggio troppo ma se per tre giorni non prendo un aereo mi preoccupo. Ho più ore di volo di un pilota professionista".

Sui ragazzi: "Non bisogna generalizzare. Ce ne sono di fantastici. Sono soffocati dalla tecnologia. Non hanno più tempo per immaginare, sperare. Si dedica poco spazio all'immaginazione. Nessuno pensa al futuro. Manca la progettazione del domani. I social sono moderni campi di concentramento del cervello e del cuore. Lì si creano i grandi problemi moderni. I social hanno messo tutti gli stupidi in ordine alfabetico. Non servono a niente. Io non so nemmeno come si accede. Non mi interessa. Non voglio perdere tempo con i social. Se c'è una cosa che non è social sono i social".

 Sulla foto più significativa: "Non è mia, ma di un grande maestro. August Sander ha fatto questo scatto nel 1928. E' il ritratto di un muratore che ha una serie di mattoni sulle spalle e guarda dritto nella macchina. E' l'immagine più bella che conosca. Spiega alla perfezione la condizione umana. Sander è stato il mio grande maestro. La mia opera è provocatoria? Ma provocatorio cosa vuol dire! Se l'arte non provoca non serve a nulla. Il problema ora è che tutto è appiattito. Niente provoca davvero interesse, tutto viene fatto in base al mercato e al profitto". 

Sulle donne: "Sono stato fortunato. Le venti donne che vale la pena conoscere al mondo le ho conosciute. Ho avuto delle donne speciali. Mia moglie è la numero 1. Ora è in atto una unificazione del genere. Gli uomini stanno diventando più donne. Mentre le donne diventano anoressiche. C'è una insoddisfazione del proprio essere. Si tende a non volersi bene, a non piacersi. Questo è molto male. Chi non si piace non è mai bello. E' bello chi si accetta indipendentemente dalle proprie forme. Ogni essere umano è un'opera d'arte. Nessuno è brutto. Si è brutti in rapporto a un conformismo estetico che in realtà non dovrebbe esistere. Le donne più belle fotografate? Tante, tante. Io portai Monica Bellucci da Milano a Parigi. Era una modellina di terza categoria, poi da lì è rimasta in Francia. Aveva 17 anni. Per me la donna più bella in assoluto è stata la Ingrid Bergman. Ci sono personaggi che irradiano luce. L'estetica è una questione di carisma. Ci sono persone che riflettono la luce. Lei era una di queste. Io l'ho conosciuta a New York, era molto vecchia e malata. Ma la sua personalità mi impressionò".

Insulti e offese per Salvini: ora la toga condanna Toscani. Il fotografo dovrà risarcire Salvini per l'invettiva in radio in cui dava sfogo al suo livore. Angelo Scarano, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Adesso Oliviero Toscani dovrà risarcire Matteo Salvini. Il fotografo pagherà a caro prezzo un suo "delirio" ai microfoni di Radio 24 a La Zanzara. Toscani nel dicembre del 2014 intervenendo alla trasmissione condotta da David Parenzo e da Cruciani non aveva usato giri di parole per attaccare il leader del Carroccio: "Ma poverino - disse, commentando alcuni scatti su Salvini pubblicati dal settimanale Oggi - non ha proprio niente da fare. In quelle foto sembra un maialino sotto il piumino. Uno che dice di uscire dall’Europa e poi si fa fotografare così". Ma non era finita qui. Sempre nel corso della stessa trasmissione, Toscani aveva rincarato la dose con parole pesantissime: "Salvini fa i p..., va benissimo per quello. A chi li fa? Salvini fa i pompini ai cretini, fa anche rima. Prende per il c... chi vota". Adesso per quel durissimo attacco è arrivata una condanna in Appello con 8mila euro di multa. Somma che lo stesso Toscani dovrà versare a Salvini. Per lo stesso caso Toscani era stato già condannato in primo grado nel luglio del 2017. Adesso è arrivata la conferma in Appello. Ma nel corso di questi ultimi anni i battibecchi tra Toscani e Salvini sono stati frequenti e con toni duri. Il fotografo ha più volte attaccato l'ex ministro degli Interni. Solo qualche tempo fa ai microfoni di Radio Capital non aveva usato parole morbide per Salvini: "Io non sono nemico di Salvini - dice Toscani - è lui che è nemico dell'Italia! Gli italiani che votano sono il 40%, di quel 40% lui prende una percentuale inferiore a quella del PD. Smettiamola di fare i frignoni, noi non salvinisti". Qualche settimana fa invece era stata archiviata dal giudice l'ultima sua invettiva contro il segretario del Carroccio: "È un fascista? No, di più. Peggio, dopo aver visto ciò che si è visto. Chi è che parla di castrazione? E lui dice no, non possono sbarcare...non sono clandestini sui barconi c'è della gente. Salvini è un incivile". Anche in questo caso è scattata la querela da parte di Salvini. E proprio il fotografo, qualche giorno dopo, all'Adnkronos aveva rivendicato quella denuncia: "Sono andato persino al palazzo di giustizia per i commenti che faccio. La penso così e pago per questo, i soldi servono per dire quello che uno pensa, questo è il mio commento". Infine aveva concluso così: "È il mio pensiero, il pm mi ha detto 'va bene' - conclude Toscani - quello che ho detto è quello che penso". Ora però quello che "pensa" gli costerà almeno 8000 euro.

Alisa Toaff per adnkronos.com il 28 novembre 2019. "I soldi servono per dire quello che uno dice, in questo caso sono soldi ben spesi. Salvini vale come una Panda usata e se insultarlo mi costa 8mila euro ne vale la pena''. Così ironico il fotografo Oliviero Toscani all'Adnkronos commentando la sentenza della Corte d'Appello di Milano che ha confermato la condanna a 8mila euro di multa nei confronti del fotografo per avere diffamato Matteo Salvini. "Lui voleva 800mila ma ne becca solo 8mila - racconta il fotografo - ringrazio la sentenza perché sono uno che passerà alla storia per aver speso soldi per dire la verità su questo personaggio. Io farò comunque ricorso in Cassazione'', conclude Toscani.

·         Raoul Bova.

L’addio di Raoul Bova alla mamma «Ironia, ciuffi rosa: eri rock». Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Emilia Costantini su Corriere.it. Su Instagram l’addio di Raoul Bova alla mamma: «Ironia, ciuffi rosa, eri rock». «Mi prendeva sempre in giro: controllava se avevo la barba troppo lunga o corta, se era troppo bianca o scura... e poi i capelli, per carità... dovevano essere di una certa lunghezza. Ci teneva molto all’estetica ed era una mamma rock». Raoul Bova ricorda mamma Rosa, scomparsa l’altro ieri, con tenerezza, dolore, ma anche con il sorriso. «La definizione di mamma rock, in realtà, gliela aveva data Rocio (l’attrice, attuale moglie dell’attore ndr), perché mamma era tanto colorata». In che modo? «Aveva la casa piena di fiori, pupazzi multicolori, oggetti curiosi, divertenti... e poi si era fatta fare una frezza rosa sui capelli. D’altronde, era nata ad Acerra e quindi, essendo appartenente alla terra napoletana, tendeva sempre a sdrammatizzare a non prendersi troppo sul serio, a cogliere il lato comico, ironico delle cose». Una madre divertente, ma qualche volta severa? «Certo! Quando, dopo la mia attività atletica nel nuoto, ho cominciato a lavorare nel mondo dello spettacolo, lei all’inizio non era molto d’accordo, mi ripeteva: devi studiare, proseguire con l’Isef e laurearti... Poi, dopo il mio primo successo in tv, aggiungeva: non ti illudere, è un colpo di fortuna, ma nella vita la fortuna e le medaglie non bastano, ci vuole altro per costruirsi un futuro... Insomma, anche lei, come tanti genitori, aveva il chiodo fisso del pezzo di carta. E ho dovuto portare a casa almeno quattro film per convincerla che era la mia strada: si è arresa davanti all’evidenza ed è diventata una mia fan sfegatata, perché si sa... ogni scarrafone...». Una mamma con la frezza rosa, ma senza grilli per la testa e con i piedi per terra, insomma. «Esattamente. Prima di tutto una donna che era stata un collante fondamentale nella famiglia: aveva cresciuto tre figli, curava la casa dove si occupava di tutto, non aveva mica la domestica... Ricordo quando da ragazzino ogni tanto mi portava con sé a fare la spesa in un mercato che era molto lontano da casa: prendevamo l’autobus e, arrivati a destinazione, tutti i commercianti la conoscevano, le facevano assaggiare le primizie, lei sceglieva e si caricava di buste piene di roba. In quanto a fatica non si faceva mancare niente». Poi ci sono i rimproveri. «Quando si arrabbiava, perché avevo combinato qualche pasticcio, mi rincorreva con la scopa, il battipanni o quello che le capitava in mano... E quando ho cominciato a crescere in altezza, la faccenda per lei si è complicata: mi inseguiva lo stesso, ma a me veniva da ridere e forse, in quei momenti, le volevo persino più bene... Ero molto legato a mia madre e una volta, ero ancora bambino, la raggiunsi in cucina in preda a un furore d’amore e le dissi: mamma non voglio che tu muori! E lei, cucinando, rispose: “Perché dovrei morire tesoro mio?”». Impegnato a Torino, sul set della fiction di Canale 5 Giustizia per tutti dove interpreta un fotografo vittima di un errore giudiziario, Bova non solo ha perso la madre, ma è anche caduto nei giorni scorsi in una delle solite buche romane, rompendosi malleolo e perone. Papà Giuseppe lo ha perso un anno fa: «Negli ultimi tempi mio padre si era ritirato in campagna: coltivava l’orto e cresceva i suoi polli. Mamma non lo aveva seguito, perché voleva dedicarsi ai 7 nipoti che adorava, finché non si è ammalata di bronchite cronica. Ma papà aveva costruito in campagna anche una cappella dove ora riposano entrambi. Mi piace pensare che lui, da gentiluomo, l’abbia preceduta nell’aldilà per preparare bene l’accoglienza e che poi l’abbia chiamata vicina a sé in paradiso».

Malika Ayane.

X Factor, Malika Ayane contro i pregiudizi: "Se sei un giudice donna, ti dicono che non sc... abbastanza". Malika Ayane ha rilasciato delle dichiarazioni al vetriolo, a margine della sua esperienza a X Factor come coach degli Uomini under 25. Serena Granato, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. Archiviate le prime fasi della rinnovata gara musicale di X factor, è recentemente giunta la volta dei Live show. E, nelle ultime ore, a far discutere del noto talent-show condotto da Alessandro Cattelan - oltre alle prime anticipazioni sulla semifinale e la finale in arrivo- sono alcune inaspettate dichiarazioni rilasciate da Malika Ayane. La cantante nata a Milano e classe 1984 ha concesso un'intervista a Vanity Fair, in cui si è lasciata andare a delle riflessioni molto dure, tracciando così un bilancio della sua ultima esperienza televisiva, che l'ha vista coprire i ruoli di giudice e coach degli Uomini under 25 per la tredicesima edizione del format di Sky. A margine del percorso intrapreso al fianco dei colleghi di giuria, Mara Maionchi (coach degli Over 25, ndr), Sfera Ebbasta (coach delle Donne under 25, ndr) e Samuel Romano (coach delle Band, ndr), Malika non ha nascosto tutta la sua rabbia provata per i pregiudizi che - a suo dire- in generale, si nutrirebbero nei riguardi di un giudice donna, che esprima giudizi critici e/o assuma una condotta severa. “A X Factor per una donna è più difficile mostrarsi dura con gli altri -ha, infatti, dichiarato la Ayane, incalzata dalle domande della nota fonte-. Se lo fai ti dicono e ti scrivono che sei isterica, che hai le mestruazioni, che non scopi abbastanza…c’è un'enorme letteratura al riguardo. Non ho mai sentito nessuno dei miei colleghi uomini essere messi nella condizione di dover spiegare i loro atteggiamenti più decisi”. Alludendo poi ai suoi tre colleghi di giuria, il giudice aggiunge: “Non è un giudizio su di loro, anzi: sono adorabili. Ma evidentemente sono più liberi di Mara e me (nello specifico, la Ayane parla dei giudici uomini, ndr). È come non conoscere la sensazione di uscire di casa in minigonna e ricevere fischi per strada”.

Malika Ayane parla della sua emotività. Nonostante alcuni accesi battibecchi l'abbiano ad oggi vista protagonista, a X factor 13 -che sta per volgere al termine- Malika Ayane si dimostra particolarmente coinvolta dall'esperienza intrapresa in qualità di esperto di musica, quando confida che, per assicurarsi di poter controllare la sua emotività in tv, è solita sottoporsi ad una sessione di yoga prima di registrare una diretta: "Devo arrivare molto concentrata davanti alle telecamere. Sono esageratamente empatica. Ho sempre le antenne alzate su ciò che mi circonda, anche se sono molto più serena rispetto a un tempo ". Infine, la cantante si lascia scappare anche delle peculiarità del suo carattere, quali l'emotività e la diplomazia: "Se mi danno un resto sbagliato, non protesto mai. Mi sento in colpa se un cameriere non mi porta l’ordinazione giusta o un piatto che non è buono. Se entro in un negozio ,a volte compro per non dare dispiacere alla commessa, perché poi magari ha il mutuo, c’è Natale, come farà? Ecco. A parte gli scherzi, essere fatta così può impedire di mettermi al centro”. 

·         Ricky Gianco.

Antonio Lodetti per “il Giornale” il 4 dicembre 2019. “Quando sbarcai a Milano ero un ragazzino malato di rock and roll e incontrai subito le persone giuste. Giampiero Reverberi mi portò alla Ricordi dove incisi tre 45 giri che però non comprò nessuno. Cantavo ma avevo un brutto problema, non pronunciavo la erre, non mi usciva proprio. Infatti incontrai Celentano che non mi filò neppure. Il primo ad aiutarmi fu Mike Bongiorno, era molto generoso. Mi faceva cantare ai suoi spettacoli e mi fece fare anche qualche Carosello. Così andai a scuola di dizione: mi feci un mazzo così. Una cosa pesantissima, gli sforzi mi procuravano nausea e giramento di testa, ma ce la feci...Una sera, mentre strimpellavo in un bar, Adriano mi rivide per caso e disse: Ueh, ma tu non sei quello che non aveva la erre? Adesso ce l'hai, canti bene, vieni a trovarmi che devo farti una proposta». Così decollò la carriera di Ricky Gianco - che a tutt' oggi ha una voce profonda e potente in stile rock - autore e cantautore dalle mille svolte artistiche. Lui c' è sempre, anche se non si fa vedere spesso le sue canzoni parlano per lui... Autore di classici come Pregherò (la versione italiana di Ben E. King), Ora sei rimasta sola, Il vento dell' Est, Pugni chiusi, Nel ristorante di Alice, Pietre, tedoforo della canzone impegnata anni Settanta (con la casa discografica L' ultima spiaggia di Nanni Ricordi) con Un amore, A Nervi nel '92, Fango che sono brani simbolo del cantautorato impegnato dell' epoca. Gianco si è fatto conoscere anche a livello internazionale incidendo con i Toto (l' album È Rock' n'Roll), e con le stelle del country rock (Non si può smettere di fumare),ha reinventato con Gianfranco Manfredi il teatro-canzone di gaberiana memoria (sempre negli anni Settanta il corrosivo spettacolo Zombie di tutto il mondo unitevi a Nervi nel '92 fu in cartellone per diverse stagioni). La sua carriera si può riassumere nel triplo cofanetto Ricky Gianco Collection: tutti i successi, alcuni brani acustici inediti su disco e interpretazioni di classici jazz e swing. Baffoni a nascondere il suo sorriso sornione, fa dell' ironia, spesso caustica, il motore con cui forgia la sua arte popolare e al tempo stesso racconta la sua vita. Quando guarda indietro a tratti li suo sguardo si illumina («perché è stata una grande avventura»), a tratti s' incupisce («quanti amici se ne sono andati, da Tenco a De André»). Lui, lodigiano di origine sarda, è cresciuto a Milano (il 7 dicembre riceverà dal Comune di Milano l' Ambrogino d' oro) ma con un piede a Genova. «Come dimenticare le giornate a Sampierdarena con Paoli, Tenco, De André: discorsi, fiumi di alcol e sogni. Un mondo che non c' è più, ci si divertiva anche con le monetine». Amicizie coltivate e ricambiate per decenni. «Con Paoli ogni tanto ci invitano in tv a suonare qualche rock scatenato come Bye Bye Love degli Everly Brothers. Siamo sempre in sintonia. Abbiamo inciso insieme Parigi con le gambe aperte, il seguito di Quattro amici al bar, che ha avuto un buon successo, e non ha mai saltato un Festival di Mantova di cui io ero uno degli organizzatori. De André ha duettato con me in un mio album nel pezzo Navigare. Era pigro: ci misi un mese a convincerlo. Il giorno della registrazione andai a prenderlo a casa, lui mi invitò a prendere un caffè, a chiacchierare e a scherzare, arrivammo in studio con tre ore di ritardo con tutti i tecnici che ci stavano aspettando. Ma quando iniziava a cantare si faceva perdonare tutto». Ricky va ancora molto fiero del periodo del Clan. «Fummo il primo gruppo di lavoro indipendente. Con Adriano sono in buoni rapporti e ho un ottimo ricordo di quel periodo. Anche se volle interpretare lui Pregherò e a me lasciò il seguito: Tu vedrai, che non ebbe altrettanto successo. Fu un gran periodo, anche se certe cose non le capivo, come il diktat di far firmare tutte le canzoni a Miki Del Prete. Comunque non si può negare che Adriano ha avuto delle grandi intuizioni». Quando Gianco entrò nel Clan si chiamava ancora Ricky Sanna, il suo vero cognome. «Una mattina alle 5 squillò il telefono e Adriano dall' altra parte del filo disse: Ueh, ti piace Gianco come nome d' arte?. Io mezzo addormentato dissi ok e da allora quello fu il mio nome». Adriano gli fece cambiare nome perché la Ricordi se l' era presa perché Ricky Gianco aveva cambiato casa discografica. Tra le prima canzoni Unchained My Heart, poi portata la successo decenni dopo da Joe Cocker. L' idillio con il Clan però finì presto. Gianco era ed è uno spirito libero. «Adriano amava circondarsi di una corte. Così quando andò a Capri per girare un film e disse: Dovete accompagnarmi tutti, io decisi di mollare». E si dedica da solo al rock, il suo primo amore. «Tornai allo stile dei miei primi brani, tipo Dubbi, un brano con frasi onomatopeiche tipo abbi dubbi ubbidabodeio per cui alla Ricordi mi presero per matto». Riscosse un buon successo e nel 1964 fu invitato a Londra al Christmas Show dei Beatles. «Che emozione! Non mi sembrava vero. Mi proposero di suonare in apertura dei loro concerti italiani ma non me la sentii. Si vedeva che Paul e John erano i leader, ed erano anche simpatici. Solo George Harrison mi chiamò con aria sarcastica italiano pizza e mandolino». In quei giorni conobbe anche Brian Jones: «Era completamente fuori di testa. Comunque nella diatriba Beatles contro Rolling Stones io sto con i primi. Gli Stones hanno rinnovato il rock blues; i Beatles hanno rivoluzionato la musica e il costume». Nel suo cuore però ci sono i Toto: «Ero troppo giovane ai tempi dei Beatles, la mia esperienza più emozionante è stata incidere con i Toto e soprattutto con James Burton, il chitarrista di Elvis. Ho imitato a lungo i suoi assolo». Ma nei favolosi Sixties in Italia il rock è ancora roba per pochi «capelloni»... Così Gianco colpisce la platea di Sanremo con Pietre: «Non ci credevo molto, era una canzoncina ironica e ricca di doppi sensi. La sua forza sta nell' interpretazione di Antoine. Lui non sapeva l' italiano, prima di entrare in scena gli dissi: Hai imparato le parole?. Lui rispose: Non preoccuparti le ho scritte su un foglietto. Lì cominciai a tremare; infatti lo perse immediatamente, così cominciò a inventare le parole, a saltare e ballare in mezzo al palco. Fu il successo, eliminata la prima sera, fu ripescata in finale e vendette milioni di copie». Qualcuno disse che Pietre era un plagio di Rainy Day Women di Bob Dylan ma Ricky ha la coscienza tranquilla. «La mandammo ai suoi avvocati che dissero: Tutto regolare. In realtà riprendeva una marcia tradizionale di New Orleans di pubblico dominio». Anche Ricky Gianco, a sua volta, ha fatto causa per plagio. Il ritornello di Questo piccolo grande amore secondo lui è copiato dalla sua È impossibile. Il tribunale gli ha dato torto in prima istanza e lui, sempre sicuro di avere ragione, ha deciso di non ricorrere in Appello. «Tanto mi toccherebbe aspettare ancora più di dieci anni». Tornando alle Pietre, ne ha più tirate o più ricevute nella sua vita? «Non ho nemici, le ho ricevute al Cantagiro del 1965 a Pesaro». Critico con tutto e con tutti, Ricky Gianco ha scritto Zimmerland, un brano che prende in giro causticamente Bob Dylan paragonandolo a Gesù. «Per carità lo amo ancora oggi. Il brano l'ho scritto quando aveva smesso di fare il poeta». Proprio in quel periodo infatti Gianco incontrava l' impegno politico e sociale: «Nel '68 ho trovato la risposta a tante domande e ho smesso con le canzoncine. Quando ho sentito O' sole mio cantata da Elvis ho capito cosa fosse il sistema, che aveva risucchiato un idolo ribelle trasformandolo in una marionetta. Il rock è nato da una generazione di ragazzini che nessuno ascoltava, ma poi il mercato lo ha fatto suo inventando la musica per teen ager. Così ho cercato di creare in Italia un suono indipendente. Ho prodotto Demetrio Stratos, Il Canzoniere del Lazio, Albero Motore». E ha cominciato con le canzoni scomode come Fango, che adesso interpreta nei concerti, sempre a scopo sociale e politico, che tiene un po' in tutta Italia. Il nuovo disco? L' anno prossimo: «Conterrà nuove ballate e forse, per la prima volta, la mia versione di Pregherò. È il momento di farla sentire».

·         Raf e D’Art.

Samuele Riefoli: "Travolto dall'arte di papà Raf e le sue 20 chitarre!" Il figlio dell'artista con il nome d'arte D'Art duetta con il padre nel brano inedito “Samurai”. Amante della trap americana, Samuele musicalmente si sposterà in quella direzione e non solo, tra i suoi artisti italiani preferiti ci sono thaSupreme, Mahmood e Ultimo. Andrea Conti, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. Samuele Riefoli in arte D'Art è il figlio di Raf. Ha 19 anni ed è iscritto all'Università Luiss di Roma. Il giovane cantante ha deciso di duettare con il padre sulle note di “Samurai”. È il loro primo lavoro insieme. Il brano è il singolo inedito con cui Raf e D’Art hanno presso parte al nuovo progetto interamente dedicato alla musica “Ringo – Insieme si Vince!”. “Samurai nasce da uno spunto musicale che mi ha fatto ascoltare un mio collaboratore, bassista degli Apres La Classe, Valerio Bruno, in arte Combass – racconta Raf - che io poi ho sviluppato, mentre per il testo io e Samuele ci siamo ispirati alla The Lone Wolf un telefilm degli anni 90 che parla di un samurai che non era al servizio di nessun padrone e girava insieme a suo figlio e affrontavano insieme una serie di vicissitudini, sempre a favore di ciò che ritenevano giusto”.

D'Art, anzitutto perché questo nome d'arte?

“Quando avevo 13 anni portavo i capelli lunghi e il pizzetto perciò mi chiamavano D'Artagnan. Tra l'altro proprio con questo nome ho pubblicato le mie prime cose su Youtube, che poi ho cancellato perché erano campionamenti su basi di altri e non avevo i permessi per poterli incidere. Oggi ho deciso di recuperare quel nome d'arte, accorciandolo in D'Art”.

“Samurai” cosa rappresenta per te?

“È un brano biografico, ma è anche una metafora che invita a lottare e superare i problemi di tutti i giorni”.

Quali sono le tue difficoltà oggi?

“Ho solo 19 anni e probabilmente le difficoltà vere della vita dovrò ancora affrontarle. Diciamo che a scuola ci ho messo un po' per terminare gli studi, non ero molto bravo. Ora mi sono iscritto alla Luiss in Economia. Chissà come andrà, di certo non sono un fan numero 1 di Economia (ride, ndr). La maggior parte degli studenti si iscrivono a questa facoltà perché pensano sia un settore che poi porta a far soldi, però a me muove la passione della musica”.

Il tuo piano A rimane la musica?

“Spero proprio di sì. Mi piacerebbe poter rivivere un po' la storia di mio padre, che studiava Architettura a Firenze poi nella sua vita è entrata prepotente la musica. Successivamente è arrivato talmente tanto successo che si svegliava ogni giorno in un Paese diverso”.

Quanto ha inciso tuo padre nella tua passione musicale?

“Ti dico solo che sin da piccolo a casa abbiamo 4 pianoforti e 20 chitarre. Quindi gli strumenti ci sono sempre stati in giro e li ho sempre avuti davanti. Ricordo che ero ancora bambino e mio padre mi ha regalato una chitarrina personale per imparare a suonarla. Da lì ho cominciato, poi ho preferito quella elettrica, mi faceva lezioni il suo chitarrista Adriano, veniva tutti i weekend. Ho fatto lezioni in una scuola, ho smesso per due tre anni. Ora ho ripreso a suonare la chitarra acustica per accompagnarmi mentre canto. Mio padre mi sta spingendo a studiare anche il pianoforte”.

Hai scritto dei pezzi?

“Ho tante idee in testa e ho inciso 'Samurai' con papà, anche per distaccarmi dalla sua figura e creare un pubblico mio, fatto di coetanei. Stiamo cercando la gente giusta con cui lavorare e lanciare un progetto bello a febbraio del prossimo anno”.

Febbraio, quindi, hai in mente Sanremo Giovani il prossimo anno?

“Facciamo a marzo allora dai, (ride; ndr)”.

Ti senti un peso di responsabilità addosso per essere “figlio d'arte”?

“Di certo quando c'è papà devo stare più attento alle interviste, adesso però lui non è qui con me (ride, ndr). Quando canto con lui, sto attento a non stonare... Detto questo per essere figlio d'arte ovviamente mi aspetto di tutto, di essere giudicato in tutti i modi... Però, ad esempio, c'è il figlio di Gianni Morandi, Tredici Pietro, che non solo è molto bravo ma è riuscito a creare una sua immagine, totalmente distaccata da quella del padre. I giovani oggi lo identificano con la sua personalità e la sua musica. Ecco a me piacerebbe proprio accadesse lo stesso con me”.

Ascolti Hip Hop, trap americana, sarà questo il tuo mondo?

“Non mi piace definirmi trapper, non è quello che vorrei essere. Mi vedo più sulla scia della musica di Post Malone oppure Coez e Gazzelle. Anche se nella trap italiana c'è thaSupreme che è un vero genio, penso che sia uno dei pochissimi se non l'unico a poter spaccare in America. Sul fronte del rap però si sta verificando un fenomeno strano. Sta aumentando la quantità di chi vuol fare rap, ma si sta abbassando la qualità generale”.

Però il pop italiano gode ancora di buona salute, se si considera che Tiziano Ferro ha conquistato il disco d'oro in una settimana...

“Certo il pop italiano sta bene, ma anche perché ci sono tanti artisti innovativi come Mahmood. Ultimo poi mi è sempre piaciuto, anche se il suo comportamento a Sanremo l'ho trovato un po' infantile, quando non ha accettato la vittoria di Mahmood. Lo ascoltavo molto prima che diventasse famoso, quando aveva 5mila views sui suoi video. Lo feci sentire a mio padre e mia madre, dicendo loro 'questo ragazzo, Ultimo, diventerà qualcuno'. Così è andata!”.

Hai anche un futuro come talent scout?

“Perché no? (ride, ndr)”.

·         Francesco Nuti.

Francesco Nuti, ecco quali sono le condizioni di salute dell’attore. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it. Marilyn disse: «Ricordati di chi c’era quando stavi male, perché saranno quelli che vorrai accanto quando andrà tutto bene». E vicino a Francesco Nuti c’è sicuramente Giovanni Veronesi. Amici da sempre, Veronesi ha filmato per il programma prodotto da Rai2 «Maledetti Amici Miei» la serenata che, con Giovanni Nuti (il fratello di Francesco) e con la sua bella figlia Ginevra, gli ha dedicato appostandosi sotto la finestra della clinica romana in cui si trova il regista e attore toscano. I tre gli hanno dedicato una versione commovente di «Puppe e pera», canzone che Nuti cantò per la prima volta in «Madonna che silenzio c’è stasera».

Giovanni Veronesi: «Serenata per Francesco Nuti: quando ero ragazzo si è preso cura di me». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Corriere.it. «Ci pensavo da tempo, aspettavo solo l’occasione giusta per farlo». Per Giovanni Veronesi, l’occasione giusta per ricordare a tutti il bene che vuole a Francesco Nuti è arrivata l’altra sera. Durante il suo programma, Maledetti amici miei, in onda su Rai2, il regista è andato nel giardino della clinica dove è ricoverato il suo amico. E, sotto quell’unica finestra illuminata, accompagnato dal fratello di Nuti, Giovanni, e dalla figlia — ormai una bellissima giovane donna —, Ginevra, gli ha cantato Pupp’a pera, canzone con cui proprio lui divertiva il suo pubblico.

Ha detto che voi due sarete amici per sempre.

«Lui per me è più di un amico, è un fratello. Mi ha insegnato tutto, mi ha accudito quando ero un ragazzo, mi ha preso con sé quando sono andato a stare nel suo residence a Roma. Mi ha voluto bene con una generosità incredibile. E quando una persona, che non è nemmeno tuo parente, si comporta così, la gratitudine non è mai abbastanza».

Perché lo aveva fatto?

«Evidentemente gli stavo simpatico. Ha otto anni più di me, magari si rivedeva quando era più ragazzo... di fatto mi aveva adottato. Lui a me piaceva molto. Oltre che regista, è stato uno degli attori più bravi: veramente superlativo, aveva tempi comici suoi».

Ma il vostro sodalizio artistico è stato causa o effetto del legame che vi univa?

«Quando c’è il bene vero, profondo, tutto il resto non conta. Non conta se hai lavorato, se hai scritto tanti film assieme... non era un sodalizio, la nostra è stata una specie di avventura vissuta fianco a fianco, piena di sentimento. Ci siamo voluti davvero bene, per questo mi andava di fare questa cosa. E ho rischiato».

Come mai «rischiato»?

«Perché lo so che si rischia di andare sul patetico, ma me ne sono fregato. Volevo fargli un omaggio vero, anche per tutta quella gente che mi scrive, mi chiede di Francesco. Ha ancora tanti fan. Volevo omaggiarlo non solo per me ma anche per le tante persone che gli vogliono bene».

Con lei ha voluto sua figlia e suo fratello. Perché?

«Sono le due persone che gli sono più vicine. Io poi Ginevra non risco a guardarla troppo negli occhi perché è uguale al padre, proprio identica: mi viene da abbracciarla tutte le volte, lei penserà “ma che vuole questo”, però a me sembra lui, la guardo e mi si allarga il cuore».

Sa come ha reagito Nuti?

«Gli è stato detto cosa abbiamo fatto. Ma non può parlare. Alle volte è anche vantaggioso non dover per forza dare delle risposte. Ci vado spesso in quel posto lì, ma la comunicazione con lui è un po’ cambiata. Bisogna saper interpretare i suoi sguardi. Abbiamo un altro modo di comunicare, se vogliamo anche più raffinato rispetto alla volgarità delle parole: sono convinto che esistono gli amici e poi gli amici che sono parte di te. Io dentro di me ho lui, solo lui, e lo tengo stretto».

Per come lo conosce, però, cosa avrebbe detto di questa vostra serenata?

«Per come lo conoscevo io, ormai 25 anni fa, sono convinto che in cuor suo avrebbe apprezzato... ma poi si sarebbe affacciato e ci avrebbe detto: “Fate poco casino”».

·         Anna Galiena.

Dagospia il 29 novembre 2019. Da "I Lunatici Radio2". Anna Galiena è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'attrice ha raccontato alcuni aspetti di se: "Avevo quattro anni quando è entrato il mondo dello spettacolo nella mia vita. Fui scelta tra una serie di bambini per fare la Madonna. Facevo la Madonna nelle recite della scuola. Ero una ribelle, mi si preparava un futuro borghese che non mi interessava. Ma non sapevo bene cosa volessi fare. Un po' balbettavo, questa cosa era diventata un complesso terribile. Non ero sicura di me stessa. Ho iniziato a dire un sacco di no". Sulla sua carriera: "Provo sempre paura ed emozione prima di uno spettacolo. Se un attore non ha questa cosa, meglio che cambi mestiere. Il nostro è un lavoro di rischio. Si addice al mio temperamento. Ricordo che una volta firmai una serie di contratti per serie televisive, film e teatro, tutti firmati in anticipo e io ero depressa all'idea di sapere già cosa avrei fatto per due anni. Una cosa che dovrebbe dare sicurezza a me dava ansia". Sul film "La scuola": "Piangevo dopo ogni scena. Avevo il ruolo più serio di tutti, gli altri facevano tutti ridere, andavo sempre dal regista a dire che avevo fatto male la scena e lui mi rassicurava. Ero un po' sofferente mentre lo facevo, ma quando l'ho visto pensai che era davvero un film stupendo". Sul #metoo: "Certi problemi hanno sfiorato anche me. Ci sono stati quelli che ci hanno provato ma nel mio piccolo ho sempre detto 'vaffa'. Non mi interessa, ce la devo fare per meriti miei, non perché qualche imbecille pensa di potermi comprare. Ma ho visto il sistema come funziona. Lo fanno alle donne ma anche agli uomini". Sul film fatto con Tinto Brass, Senso '45: "Non lo rinnego, però non è stata l'esperienza della mia vita. Ne parlo poco perché non mi piace parlare di ciò che non mi è piaciuto e quindi non dico niente. Il progetto era partito molto bene nella scrittura e nelle intenzioni. Poi...".

·         Claudio De Tommasi, vj storico.

aolo Travisi per leggo.it il 28 novembre 2019. Quando la musica suonava in tv. Erano gli anni del boom dei videoclip e della televisione commerciale, e nel 1984 nasceva Videomusic, il primo canale italiano in cui la musica era la protagonista del palinsesto. I Veejay, figure scomparse dal piccolo schermo, raccontavano – tra sperimentazione, competenza e video musicali – le tendenze da Stati Uniti e Regno Unito. Scoprivano nuovi talenti italiani e facevano sognare intervistando i big della scena mondiale. Claudio De Tommasi, vj storico della rete - oggi a Radio 1 nel programma Viva Voce - racconta quel periodo a Leggo. «Arrivai agli inizi in quel posto fuori dal mondo in Garfagnana e notai subito la passione che c’era dietro VM. Chi la faceva era un appassionato di musica».

Parlavate lo stesso linguaggio del vostro pubblico, i giovani?

«Gli spettatori ci percepivano come parte di loro, per questo Videomusic ha segnato almeno tre generazioni. Ci seguivano i quindicenni per i Duran Duran ma anche i quarantenni, perché c’era una perfetta sintonia nel linguaggio, nei vestiti, nella visione del mondo. Erano anni avventurosi per la tv, in cui si poteva sperimentare».

Infatti è rimasta nell’immaginario collettivo...

«VideoMusic è durata appena 12 anni, ma è stata diversa da qualsiasi altra tv. Ora ognuno si fa la sua televisione e la sua playlist su Spotify. All’epoca la musica dovevi andarla a cercare, eravamo molto attenti a quello che succedeva all’estero e a quello che le radio non passavano. Siamo stati un punto di riferimento, oggi c’è moltissima musica, ma si veleggia sulla superficie».

Nelle sue rubriche, come Hot Line, ha lanciato anche cantanti emergenti. Un nome?

«È vero, siamo capitati nel momento giusto. Ligabue è stato con noi una settimana a presentare le sue canzoni per avere visibilità».

Videomusic riprendeva i concerti, e lei faceva le interviste, tra cui quella a David Bowie.

«Nel 1987 venne a Firenze, lo incontrai, ero un suo fan e mi tremavano le gambe. Si muoveva come un coatto londinese e parlava in dialetto, ma quando iniziammo l’intervista, cambiò completamente, parlando un inglese da Oxford. Mi colpì la sua brillantezza e acutezza nelle risposte».

Le classifiche dei video si facevano con le lettere dei telespettatori?

«Ne arrivavano molte, così come i fax con cui le case discografiche mandavano le loro proposte. Oggi sembrano cose della preistoria».

Le sue figlie riescono a capire cosa faceva suo padre negli anni 80?

«In parte (ride, ndr). Loro guardano solo le serie tv, ma cercano artisti meno conosciuti. Ho portato ad aggiustare il giradischi per far ascoltare loro il vinile, e per la prima volta, il fruscio di un disco».

Perché VM è finita?

«Fu comprata da Cecchi Gori, che uccise Telemontecarlo e poi VM, le cui frequenze furono vendute, però credo che la tecnologia digitale avrebbe comunque cambiato tutto».

·         Beatrice Venezi.

Rita Vecchio per leggo.it il 21 ottobre 2019. Se si potesse catapultare nel mondo pucciniano, non solo con la bacchetta di direttore d’orchestra, Beatrice Venezi vestirebbe i panni di Minnie. E come l’impavida eroina della Fanciulla del West del suo conterraneo (stessa città di nascita, Lucca), il giovane maestro - che a ventinove anni sale sui podi con bellezza eterea e abiti sognanti, fisico statuario, occhioni grandi e lunghi capelli biondi, amante di pilates e di viaggi, cresciuta a pane e Puccini (e a sorpresa anche della band britannica dei Massive Attack), menzionata dalla rivista Forbes tra gli under 30 leader del futuro, attiva in campagne contro le discriminazioni, e scelta da Andrea Bocelli (con cui si esibirà a novembre a Miami) per il suo Teatro del Silenzio - venerdì 18 ottobre pubblica il primo disco MY JOURNEY - Puccini’s Symphonic Works con l’Orchestra della Toscana. «Per me dirigere è una missione: voglio sdoganare il preconcetto che c’è attorno a questo ruolo».

Come pensa di fare?

«Con il consenso del pubblico, lavorando perché la musica classica sia sinonimo di libertà, perché torni a essere pop e non solo appannaggio dell’élite».

Questa Italia è pronta?

«È indietro. Ci vorrebbero tante riforme, prima su tutte quella dell’educazione musicale nelle scuole. Come è adesso, è inaccettabile».

Come è essere donna in un mondo di maschi?

«Non facile. Ma chi lo dice che il direttore d’orchestra debba essere maschio? Sono stata la prima donna a dirigere in paesi chiusi come l’Azerbaigian. A Teheran la tappa è saltata (sarei stato il primo cattolico occidentale in orchestra ambo-sessi) e in Giappone volevano che indossassi il tight, mi rifiutai e vinsi».

Discriminazione nei teatri?

«Vorrei conoscere i cachet di colleghi maschi. Credo ci siano discrepanze. D’altronde, quando si dice fare “leadership”, non si allude sempre e solo agli attributi “maschili”?».

Si parla di MeToo e avance. Ha subito anche lei?

«La battuta ci sta, ma si deve fermare lì. E l’orchestra, per fortuna, premia il merito e non la bellezza».

C’è invidia tra colleghe?

«Quella c’è ovunque… In più, siamo legati allo stereotipo che la donna di cultura sia brutta e non curata».

Scelga una donna pucciniana che le somiglia.

«Minnie: la più combattiva di tutte. Quella forte e decisa, che tiene a bada gli uomini, che se la cava da sola».

Puccini potrebbe essere oggi un trapper?

«No (ride). Ma un influencer, sicuramente».

Dirigerebbe al Festival di Sanremo?

«Io sì, ma il giorno dopo non lavorerei più. In questo paese? Ci si prende troppo sul serio. L’Italia è il mercato più chiuso e difficile per me in questo momento».

Sarà alla prima della Scala con Tosca diretta da Chailly?

«Purtroppo non potrò. Ma mi piacerebbe molto confrontarmi con il Maestro, soprattutto su questo repertorio che lui stesso ha inciso negli anni Ottanta»

Antonello Piroso per “la Verità” il 18 ottobre 2019. Beatrice Venezi, 29 anni, pianista e compositrice, ha debuttato sul podio sette anni fa, ha già all' attivo un libro, Allegro con fuoco (Utet editore), ma solo oggi firma il suo primo album: My journey. Puccini' s symphonic works con l' orchestra della Toscana, per Warner Music. Tra le poche donne al mondo a dirigere orchestre a livello internazionale (un carnet da globetrotter: tra gli altri, Giappone, Argentina, Bielorussia, Canada, Libano, Portogallo, prossimamente gli Usa), è direttore principale dell' orchestra Milano classica e della Nuova orchestra Scarlatti young di Napoli. Di recente, monsignor Gianfranco Ravasi l'ha voluta nella Consulta femminile del pontificio Consiglio per la cultura. Lei vuole essere chiamata direttore. «Direttrice fa un po' scuola d' infanzia, un po' signorina Rottermeier, e non è certo attraverso il politicamente corretto delle definizioni che si realizza una vera parità di genere».

Direttore, ma - lei dice - non «dittatore».

«Ho incarichi di direzione stabili ma sono anche freelance, il che significa confrontarsi con, mi passi il termine, materiale umano variabile, orchestrali che si conoscono tra di loro, ma con cui io come direttore devo entrare in sintonia in solo due giorni di prove. È necessario che si crei un clima di complicità e fiducia con il direttore, che deve saper instaurare una relazione empatica e quindi non deve risultare una persona dai modi autoritari e dallo sguardo perennemente accigliato, per arrivare a far dare a ciascuno il meglio nell' esecuzione di una partitura, così come lui ritiene - perché questo sì è di sua esclusiva pertinenza - debba essere interpretata».

Dispotico e altezzoso: ha in mente un identikit preciso?

«Quella è l' immagine standard, cristallizzata. Uno dei tanti cliché. E poi no, guardi: una volta, per essermi permessa di dissentire da un grande direttore d' orchestra che aveva sentenziato: "Non si può dirigere Mozart prima dei 50 anni", mi sono ritrovata il titolo: "Venezi sfida..."».

Chi?

«Niente nomi, non voglio alimentare polemiche che potrebbero sembrare pretestuose o presuntuose».

Il Franti che è in me si è messo alla caccia dell' articolo in questione: l' unico trovato in Rete, sulla base del labile indizio, è del 29 luglio 2016, La Stampa: «La mia sfida a Riccardo Muti».

Vuole essere appellata direttore, ma sul podio va in abito lungo.

«Perché non dovrei? Ci sono colleghe - ancora sempre troppo poche, rispetto ai direttori uomini - che vestono in frac. Nulla in contrario. Ma siccome attraverso l' immagine si veicolano messaggi molto potenti, se mi vestissi da uomo continuerei a legittimare la convinzione che quello sia un mestiere per uomini. Se abdico alla mia femminilità per essere considerata seriamente, porto solo acqua al mulino di quel pregiudizio. E comunque il mio stile non è certo "esibito" come quello di Yuja Wang (pianista in genere microgonnata, nda)».

Questo album è un atto dovuto, essendo lei nata nella stessa città del grande compositore, Lucca, e quindi immagino cresciuta a pane e Puccini?

«Nessun atto dovuto. Puccini è l' ideale per avvicinarsi all' opera e alla musica classica: è moderno, è contemporaneo, lui stesso ha avuto una vita intensa, un tombeur che amava le donne e le auto veloci, un dandy capace di restituire attraverso lo spartito la gamma e il turbinio di sentimenti anche contrastanti. Nelle opere di Giuseppe Verdi, i protagonisti ci mettono 20 minuti per dirsi "Ti amo", mentre nella Butterfly manco te ne accorgi e lei è già incinta! Forse anche per questo a lungo alla Scala non lo misero in cartellone: troppo "pop"».

In un pianeta a trazione maschile, dai capelli brizzolati, lei quali pregiudizi ha dovuto affrontare: l' essere giovane, donna, o avvenente?

«Soprattutto quest' ultima circostanza. Purtroppo siamo legati ad alcuni stereotipi, uno dei quali, ancora molto radicato, è quello per cui se tieni al tuo aspetto, curi la tua persona, hai un aspetto gradevole, vuol dire che sei di poco spessore, una donna davvero intelligente non perde tempo con il look».

O bella o intelligente.

«Appunto. Se posso rivolgere un invito alle donne di qualunque età, professione, status: non rinunciate mai alla vostra femminilità, è un valore aggiunto che fa la differenza. Mai imitare o scimmiottare gli uomini per essere accettate o cooptate. Poi naturalmente il rispetto te lo devi guadagnare con lo studio, il sacrificio, il dedicarsi completamente a un mestiere che ho l' enorme fortuna di veder coincidere con una passione coltivata fin da bambina».

Figlia d' arte?

«Per nulla. E non sono stata raccomandata, non ho mai avuto protettori altolocati, non sono dovuta diventare amante di qualche uomo potente».

Visto che ha toccato il tema, cosa pensa della campagna Me too? Ci sono stati presunti casi anche nel suo mondo, penso a Placido Domingo.

«Non ci può essere alcuna indulgenza per la violenza, ma non si può neppure generalizzare. Se una donna non lascia spazio a fraintendimenti, chiude subito la porta agli ammiccamenti, facendo capire di non essere "disponibile", non si crea neppure l' occasione. La denuncia delle molestie deve però essere tempestiva, perché se non ti sei ribellata alla pressioni indebite per raggiungere certi traguardi, non è che ti puoi svegliare d' incanto dopo dieci o vent' anni e gridare allo scandalo. Tra l' altro nell' intervallo hai consentito a quell' uomo di coltivare la sua illusione predatoria: poter continuare a fare i suoi comodi senza problemi».

Lei quando ha avvertito il sacro fuoco per la classica?

«A 7 anni, era il momento delle Spice girl e dei Backstreet boys, ma io avevo cominciato a suonare pianoforte e sentivo che la classica era davvero musica immortale, giunta fino a noi attraverso l' oceano del tempo. Ho frequentato le scuole ordinarie e contemporaneamente il Conservatorio. Due giorni dopo la maturità ero già in Germania come maestro preparatore per un' esecuzione della Butterfly (come vede, sono sempre stata destinata a incontrare Puccini, fin dal luogo di nascita). Il direttore mi ha proposto di fare una prova, mi sono buttata, e alla fine mi ha detto: "Well, you can do it", lo puoi fare, e gli orchestrali mi hanno regalato la mia prima bacchetta. Tornata in Italia ho iniziato a studiare con Piero Bellugi, il maestro e il mentore cui devo tutto».

Quali sono le barriere che ancora devono essere abbattute nel suo mondo?

«Per esempio, la rigida divisione tra generi ancora imperante in Italia: se dirigessi al Festival di Sanremo non potrei più mettere piede in alcun teatro della Penisola. E poi tutto quello che rende ancora la classica un prodotto ritenuto elitario, riservato alle élite e da loro gestita. Vorrei popolarizzarla, senza scadere nel facile populismo: ma se il sapere è monopolio di pochi, il popolo senza cultura è più facilmente controllabile o manipolabile».

Allora una domanda sull' attualità s' impone: come ci vedono all' estero?

«Sono confusi, ed è difficile spiegare loro meccaniche celesti che sono incomprensibili anche a noi: Tizio alleato di Caio contro Sempronio, si allea con Sempronio, ma poi Sempronio scarica Tizio e si allea lui con Caio. Aggiunga che le leggi, il carico fiscale, i tempi della burocrazia e della giustizia sono quelli che sono, e mi dica lei se un imprenditore straniero può essere invogliato a investire da noi. E invece cosa ci hanno raccontato?».

Dica lei, c' è solo l' imbarazzo della scelta.

«Il taglio non del costo del lavoro, ma del numero dei parlamentari, una goccia nel mare del bilancio dello Stato. Per forza che poi a qualcuno viene in mente di trasferirsi oltre frontiera, se anche questo poi non fosse un omaggio a quella stessa esterofilia per cui in Italia non esisterebbero direttori di museo all' altezza, e quindi li importiamo dall' estero. Certo la tentazione talvolta è forte: io vivo a Milano, mi sono attivata ad agosto per fare il rinnovo della carta d' identità, alla fine l' ho avuta a ottobre. Nelle ultime due settimane mi hanno rotto due volte il finestrino della macchina per rubare quello che non c' era, perché in auto non lascio nulla».

C' è un problema di sicurezza? Anche e soprattutto, come sostiene la destra, a causa di un' immigrazione non regolata?

«Non ho difficoltà ad ammettere che quando mi sposto da sola e in treno, e arrivo di sera alla stazione Centrale di Milano, ho paura. Non voglio entrare in un dibattito complesso, però inviterei a uscire dalla retorica perché un conto sono i richiedenti asilo, in fuga da zone di guerra (la Germania in questo è stata bravissima: si è accaparrata i migliori medici, scienziati e ingegneri siriani), e un altro i migranti "economici". Sa cosa mi urta davvero? Il tono di certe esternazioni: "Anche noi italiani siano stati emigranti". Vero, ma noi siamo andati a contribuire alla crescita dei Paesi in cui arrivavamo, lavorando nelle miniere e morendoci, costruendo strade o senza orario alle catene di montaggio, senza che nessuno ci regalasse nulla, dopo averci trattenuto come bestie in quarantena».

Abbiamo contribuito pure all' esportazione della mafia, purtroppo.

«Giusto, ma proprio per non fare di tutta un' erba un fascio, bisognerebbe strutturare un' accoglienza non indiscriminata, in base a un' integrazione che sia realistica, consentendola a chi, a prezzo anche di sacrifici, se la merita sul serio. È come per la musica e la cultura: perché la loro promozione non sia un enunciato astratto, tutti devono avere le stesse opportunità di accesso, ma poi può andare avanti solo chi, con la preparazione, l' impegno, la fatica e le rinunce, ne risulta all' altezza».

·         Susanna Torretta e il giallo della morte della contessa Vacca Agusta.

Susanna Torretta e il giallo della morte della contessa Vacca Agusta. La verità a Libero: "Potevo salvarla". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 24 Giugno 2019. Arrivo a Rapallo per l' appuntamento con Susanna Torretta e la scorgo da lontano. La chioma leonina la contraddistingue inequivocabilmente; il tempo pare essersi fermato per lei a quando l' abbiamo vista, oramai più di dieci anni fa, in giro per qualche trasmissione televisiva. Non è stato facile avere il suo contatto e tanto meno strapparle un' intervista.

«Ho accettato di fare l' intervista con te perché sei il fidanzato di Simona Ventura e di lei mi fido ciecamente».

Grazie Susanna, una bella responsabilità per me, non pensi?

«Penso di sì ma non ho dubbi che riporterai fedelmente il mio pensiero perché molte volte la stampa mi ha fatto del male».

A cosa ti riferisci?

«Lasciando stare la morte di Francesca (Vacca Agusta, ndr) anche quando si è suicidato un medico ginecologo di Rapallo, pochi anni fa, i giornali mi hanno tirato in mezzo ipotizzando un mio aborto o altre cose terribili e false; per questo sono molto attenta e non voglio rilasciare interviste anche perché adesso da tanti anni sono felice e appagata».

Felice di che cosa?

«Mio marito, Giorgio Ranieri, mi ha salvato la vita. Ci siamo conosciuti e messi insieme l' 8 dicembre del 2011 e il 9 giugno del 2012 ci siamo sposati. Sono innamorata di lui, è il mio porto sicuro e suo figlio Alessio, che oggi ha tredici anni, è come se fosse anche mio figlio. Per carità Alessio ha una mamma, Laura, bravissima e con cui vado d' accordo, ma l' armonia all' interno della nostra famiglia è tale che non ho più interesse di farmi vedere o di rilasciare interviste. Vivo serenamente la mia meravigliosa quotidianità».

Ma che lavoro fai adesso Susanna?

«Lavoro con mio marito Giorgio e controllo l' avanzamento della produzione della sua azienda e, ripeto, mi ha salvato la vita».

Perché mi ripeti questo?

«Perché ho collezionato tanti insuccessi sotto il profilo umano; io mi fido, non vedo il male e mi sono sempre lanciata in ogni tipo di avventura. Sbagliando. Dai miei errori ho imparato tantissimo pagando però, sempre, un prezzo altissimo.

Ho sempre regalato la mia fiducia e mi sono trovata di fronte a persone che mi hanno trattata con viltà, abusando di me».

Parli di tradimenti?

«Guarda, non esiste soltanto il tradimento fisico che certamente è importante; ma anche quello umano, psicologico che ti devasta e ti rende insicura nelle relazioni. Il tradimento umano crea delle ferite che sono lunghe e difficili da rimarginare soprattutto con l' andare avanti degli anni».

Fammi un esempio di che cosa intendi per tradimento umano.

«Intendo quando una persona si pone in modo diverso da come è. Ti circuisce con modi apparentemente gentili ma che in realtà sottendono a una indole diversa, spesso narcisista e cattiva. E sai chi mi diceva sempre questo?».

No, Susanna chi?

«Francesca (Vacca Agusta, ndr). Naturalmente lei viveva in un mondo diverso in cui ero entrata per l'amicizia profonda che mi legava a lei. Ma proprio per questo, in modo ostinato, quasi a volermi sempre tutelare, mi ripeteva di stare attenta a chi si pone senza difetti perché spesso nasconde qualche cosa d' altro».

Che mondo era quello della Contessa Agusta?

«Un mondo non paragonabile a quello di oggi; un mondo fatto da una ricchezza che aveva un fondamento nell' industria del nostro Paese. Potrei paragonarlo, per ricchezza ma non per stile, a quello degli arabi di oggi».

Un mondo poco leale?

«Le persone fanno "il mondo" e spesso i comportamenti sono sleali. Io, per esempio, sono una donna sempre a favore delle donne, mentre spesso nasce tra persone dello stesso sesso una competizione irrefrenabile che necessariamente porta alla non lealtà».

Come mai sei una "donna per le donne"?

«Perché ho sempre avuto al mio fianco donne forti, a partire da mia madre. Per non parlare poi di Francesca».

La nomini spesso la contessa Agusta.

«Sì, la nomino spesso e la penso tutti i giorni. È stata per me una donna eccezionale che mi ha regalato la sua amicizia e a cui ero profondamente legata. Il dolore per la sua scomparsa non mi passerà mai».

Che tipo era la contessa Agusta?

«Una donna apparentemente molto forte, ma in realtà fragile. Innamorata dell' amore e una donna pura. Dopo la separazione da suo marito ha sofferto tantissimo per il rapporto con il figlio Rocky; e poi ha avuto il colpo finale da Tangentopoli».

In che senso parli di "colpo finale"?

«Perché Francesca era una donna apprezzata e con Tangentopoli la sua reputazione si è rovinata. La sola idea di essere alla mercé della gente e non più amata la dilaniava, la faceva molto soffrire. Lei era abituata a dirmi: "tanti soldi non servono a niente se vivi senza amore"».

Detto da una donna così ricca è facile, non credi?

«Lei lo diceva perché ci credeva e questa frase aveva un ragionamento condivisibile: di quando uno ha tutto e non trova più il desiderio per alcuna cosa. Un esempio è quando le ho regalato una borsetta, lei si è emozionata perché non abituata a ricevere qualcosa da qualcuno. Il pensiero di Francesca è il contrario di quello di Patrizia Gucci che diceva "meglio piangere su una Rolls Royce che su una Cinquecento"; in realtà quando piangi sei triste e basta!».

Mi hai detto che la pensi tutti i giorni, l' hai mai sognata?

«La sogno, e con gioia, tutte le settimane e mi dico sempre "che bello se Francesca fosse ancora qui"».

La tua vita è una grande avventura passata tra le luci della ribalta e, adesso, la ricercata riservatezza. Quali sono gli insuccessi da ricordare?

«Un insuccesso è stato quello di non finire l' università».

E invece un episodio da ricordare?

«La prima edizione dell' Isola dei Famosi (era il 2003, ndr) è stata straordinaria e mi ha formato e insegnato tantissimo. Era davvero un esperimento di sopravvivenza e non sapevamo nulla di che cosa ci sarebbe potuto accadere. Ho conosciuto persone che erano lontane dalla mia vita e ho capito quale fosse il mio grado di sopportazione con gli altri».

Nella tua vita hai incontrato tante persone: c' è qualcuno che ricordi con piacere e che ti è sempre stato accanto?

«Su tutte ci sono tre persone: Alfonso Signorini, che con me è sempre stato gentile e presente, Ringo, e naturalmente Simona Ventura, che in qualsiasi momento si è sempre fatta trovare pronta ad ascoltarmi».

Sono passati tanti anni Susanna, non pensi mai che magari tu avresti potuto salvare la contessa Agusta dalla sua drammatica fine?

«Sì, ci penso. E per come sono fatta ora sicuramente le avrei potuto dare un sostegno maggiore; ma diciotto anni fa ero poco più che una ragazzina che si trovava per caso in un mondo che non le apparteneva». Giovanni Terzi