Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2019

 

LE RELIGIONI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO: LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marco Polo e il califfo.

L’Umanesimo esportato a Est e Dracula al servizio del Papa Pio II contro l’islam.

La Verità sulla Sacra Sindone.

Il futuro è nelle religioni?

Ricetta e precetto. Religione, cultura e tavola.

La Madonna interconfessionale.

Oriana Fallaci: “Sono nata in un paesaggio di chiese, Cristi, Madonne”.  

Si commissariano i miracoli.

Senza Identità. La Guerra dei Trent'anni sul velo islamico. Ma l'Europa è ancora cristiana? Non per molto.

Il cristianesimo rischia di sparire.

Chiese sfregiate e profanate.

Chiese chiuse in attesa di miracolo.

Le chiese vittime di vandali e incuria.

Notre Dame de Paris. Il falò di una cultura: è l'11 settembre dell'Europa cristiana.

Le chiavi del Vaticano.

Quando è Pasqua...

L’Islam ed il Mondo.

Quella Guerra tra Mussulmani.

Arabia Saudita, caccia all’islam moderato.

Malesia, tolleranza zero contro i predicatori islamici radicali.

Il figlio del «Leone del Panshir» torna a casa per sfidare i talebani.

La Cina non dà tregua all’islam: così controlla gli uiguri.

Così la Russia di Putin combatte il terrorismo islamico.

Gandhi: il «traditore» degli indù.

Il Nobel per pace San Suu Kyi e l’Islam in Birmania.

Said Mechaquat, Brenton Tarrant e gli altri. Gli omicidi senza colore.

Ma l’Isis non era stato sconfitto?

Anti-islamista: Ecco il coraggio della paura.

La Mattanza silenziosa dei cristiani.

Fabrizio Quattrocchi ucciso dai jihadisti e ammazzato due volte da Pd e Anpi.

Terrorismo Islamico. I media? Dalla parte dei carnefici.

Terrorismo Islamico. La sinistra? Dalla parte dei carnefici.

Terrorismo Islamico. Il Papa? Dalla parte dei carnefici.

L’enclave dell’islam radicale nel cuore del Messico. 

In Germania porte aperte al jihadismo.

Libia 2011: quando la Nato supportò al Qaeda contro Gheddafi.

Il Vaticano e la Diplomazia.

Il Papa e l’invasione dei migranti.

"Sbarchi? Un nuovo schiavismo". Quelle voci in dissenso nella Chiesa del Cardinale Robert Sarah. 

Gli Ordini in difesa del Papato.

Il Papa Comunista.

«L’Archivio vaticano non è più segreto: ecco perché».

Il Vaticano ed il copyright.

Il Vaticano ed i Bilanci.

Il Vaticano e la Finanza.

Il Vaticano ed i poveri.

Il Papa Regnante, il Papa Emerito e la pedofilia.

Il Vaticano e gli scandali.

La messa in italiano.

Pio XII ed il nazi-fascismo.

Il Vaticano e l’Islam.

L’Italia e la nascita di Israele.

Gli ebrei, la Shoah e la Verità di Stato.

L’Italia ed il Vaticano.

Cara Chiesa, quanto ci costi!

L’Italia e l’Islam.

Quelli che non vogliono la Croce ed i Presepi.

L’Islam e l’Italia.

L’Islam ed il carcere.

La Sinistra e l’Islam.

«Musulmani schierati a sinistra? Un errore: sono identitari e sovranisti».

L’Ateismo arabo.

Liberté, egalité. E décolleté. Libera Tetta in libero Stato.

Il Vaticano e gli abusi sulle suore.

Il Femminismo in Vaticano.

I Gay ed il Vaticano.

I Gay e l’Islam.

Il Vaticano ed i sacerdoti “Padri”.

Le fidanzate dei Papi.

Preti sposati.

Le Dive di Dio.

“Churchbook”: quando la fede si fa social.

I Francescani.

Il Vaticano, i Gesuiti ed i complotti.

Il Vaticano e la Massoneria.

La Chiesa e la Santa Inquisizione.

La Chiesa ed i guru-santoni-guaritori-esorcisti.

L’Esoterismo.

I preti di (da) Strada.

Quanto guadagna un prete?

Ex preti ed ex suore: cosa fanno?

I no dei Testimoni di Geova.

Ecologia. Il climate-change tra religione e politica.

 

 

 

 

LE RELIGIONI

 

·        Marco Polo e il califfo.

Marco Polo, il califfo e il granello di fede che muove le montagne. A Mantova, ospite di Rinaldo dei Bonacolsi, il mercante narra del signore di Bagdad. Gianluca Barbera, Giovedì 30/05/2019, su Il Giornale. Su, parlateci del misterioso dono che tenevate in serbo per il khan, ripeté messer Butirone, curioso e grasso di risata, tutto scoppiettante di tosse. Non è ancora giunto il momento, feci quasi arrossendo, portate pazienza e sarete ricompensati.

E allora diteci del Gran Vecchio della Montagna. Esiste sul serio? È vero che l'avete conosciuto?

Pochi minuti e il gioviale Butirone entrava in confidenze con chiunque. Ero arrivato a Mantova due giorni prima, accolto con ogni riguardo dal duca Rinaldo, detto il Passerino, al quale era stato predetto che di lì a qualche anno sarebbe stato trucidato da Luigi Gonzaga e sistemato a cavalcioni di un ippopotamo in una sala del palazzo dopo esser stato gloriosamente mummificato. Sistemato in una delle stanze più gelose del palazzo Bonacolsi, ai piani alti, affacciata su un giardino pensile di rara meraviglia, mi sentivo di nuovo alla corte del Gran Khan. E a cena, dopo un soave spettacolo di danzatrici turcomanne fatte venire appositamente insieme a tante altre ricercatezze, tutti vollero che iniziassi a raccontare. Ero lì per quello. Non mi feci pregare. Madonna Alisa, sposa del Passerino, mi guardava con certi occhi grandi e lucenti che pareva volesse mangiarmi. I suoi tre figli, Giovannino, Francesco e Berardo, erano così attenti che si sarebbero detti sotto un incantesimo. Ma tutti i commensali, ed erano numerosi, non si sarebbero persi una parola, neanche in cambio di denaro sonante.

Ma certo, risposi tutto serio dopo aver ripulito il mio prezioso piatto (sono sempre andato matto per l'arrosto di fagiano e la galantina di pernici). E sono stato lì lì per lasciarci la pelle. Ma prima sono successe altre cose degne di nota. Mio padre e mio zio mi avevano raggiunto due settimane dopo, come devo avervi detto, nei pressi di Tauris, città di grandi mercati e di giardini fioriti, posta in una piana tra alte catene montuose coperte di neve. L'abitato aveva rigore geometrico, strade diritte, vicoli su cui si aprivano botteghe nelle quali si vendeva seta, cotone, sandalo, taffetà, perle, profumi. Ci trattenemmo alcuni giorni per commerciare. E poi insieme proseguimmo verso sud, attraverso il reame di Mosul, nelle cui montagne, tra inesauribili giacimenti di diamanti e serpenti velenosi, vivevano - e vivono ancora - cristiani di fede nestoriana. Soggiornammo dieci giorni in quella grande e nobile città per concludere un commercio in preziosi e drappi di seta. Poi ci rimettemmo in viaggio, diretti verso Bagdad, la città del califfo di tutti i musulmani, così come il Papa di Roma è il signore di tutti i cristiani. Passammo per Yezd, dove cacciai la selvaggina con la balestra e catturammo qualche asino selvatico. Dormivamo all'aperto, accanto al fuoco. La carovana procedeva lenta. Ed ecco finalmente Bagdad, solare, attraversata dal grande fiume Tigri, che si può navigare fino al mare d'India. Vi si mercanteggiavano oro e pietre preziose in quantità, e vi si producevano, e vi si producono ancora, meravigliosi drappi di seta istoriati con figure fantastiche di animali. Con nostra grande sorpresa, una volta preso alloggio all'albergo degli italiani, ci fu subito comunicato che tutti i cristiani residenti o anche solo di passaggio dovevano presentarsi la mattina seguente al palazzo del califfo, che si diceva avesse in odio la gente cristiana. Disobbedire non era possibile. Passammo la notte in ambasce. Quando venne l'ora, dopo averci radunati nella grande sala delle udienze, dal suo trono il califfo ci disse: «Ho letto nel vostro Vangelo che per un cristiano basta possedere un solo granello di fede per smuovere le montagne. È così?».

Nessuno rispose. Allora egli mostrò una copia del Vangelo e indicò col dito dove si diceva proprio questo. «Così è scritto qui. Avreste il coraggio di sconfessare il vostro Dio?».

Tra la folla si fece avanti un domenicano che, inginocchiatosi ai piedi del califfo a mani giunte, confermò che quello che si diceva nel Vangelo era vero, ma solo a patto che se ne comprendesse il vero significato.

«Ah, i soliti sofismi» sbottò il califfo. «Dunque, è vero o non è vero quello che si dice nel vostro libro sacro?».

«È vero, mio signore» rispose il monaco con un filo di voce.

«Bene. Allora dimostratemelo. Ci sarà tra voi qualcuno la cui fede supera per dimensioni un misero granello di senape... Tu, per esempio» disse indicando me.

Mi sentii gelare di paura. «Vieni avanti, ragazzo, non mordo».

Dopo aver scambiato un'occhiata con mio padre obbedii. «Più vicino» fece lui. «Ti voglio vedere bene. I miei occhi non sono più quelli di un tempo».

Avanzai ancora di qualche passo. «Sei molto giovane. Come ti chiami?». «Marco Polo» risposi.

·        L’Umanesimo esportato a Est e Dracula al servizio del Papa Pio II contro l’islam.

L’Umanesimo esportato a Est e Dracula al servizio del Papa Pio II contro l’islam. Matteo Strukul, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Pensare di spendere l’espressione «Rinascimento Dark», con riferimento alle terre d’Ungheria, Valacchia e Transilvania, potrebbe avere il sapore dell’azzardo. Se non altro per quella che è la prima parte della definizione. Senza tenere inutili lezioni, osserveremo che sono però almeno due le direttrici che, in questo senso, uniscono l’Italia del Rinascimento con le terre dell’Est. Da una parte v’è il più che comprensibile valore militare dei guerrieri di quelle lande: János Hunyadi, ad esempio, il quale militò per almeno tre anni sotto le insegne del biscione al servizio del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. In seguito egli fu voivoda di Transilvania e reggente del regno d’Ungheria. Lo stesso potrebbe dirsi, sempre sotto il profilo squisitamente militare ma a parti invertite, di Filippo degli Scolari - noto anche come Pippo Spano e che fu cavaliere dell’Ordine del Dragone, fondato da Sigismondo di Lussemburgo - che aveva origini palesemente fiorentine. Non a caso proprio a lui Andrea del Castagno dedicò un magnifico ritratto. A quella stessa societas draconistrarum, peraltro, appartenne anche, giusto per esser chiari, Vlad Dracul II, il padre di Vlad Tepes, l’Impalatore, l’uomo che originò in seguito il personaggio letterario di Dracula creato da Bram Stoker. Insomma sotto questo primo profilo, l’idea di un rinascimento dark, diffuso nei Paesi dell’Est è tutt’altro che peregrino giacché molte e ribadite sono le interazioni fra i due territori in esame. Ma se da un punto di vista militare gli scambi e le condivisioni possono essere molteplici, diverso potrebbe sembrarci, a tutta prima, il comune terreno del mecenatismo e dell’arte. Non fu così. Anzi, quanto detto per il profilo militare vale in egual misura per quel che concerne l’aspetto delle architetture e dell’amore per la cultura e la bellezza. In quest’ottica, ad esempio, ricorderemo che, nella seconda metà del Quattrocento, il re ungherese Mattia Corvino, figlio di János Hunyadi e allievo dell’umanista János Vitéz, finanziò i primi monumenti di matrice palesemente rinascimentale in Transilvania, è il caso della loggia della fortezza di Vajdahunyad e della tomba di suo padre. A questo devono aggiungersi gli interventi presso il palazzo principesco di Alba Iulia, caratterizzato da decorazioni chiaramente ispirate alle residenze patrizie veneziane di quel periodo: i soffitti dipinti e dorati, le pareti ricoperte di carte da parati venete e di quadri raffiguranti imperatori romani. Nomi come quel li del veronese Giacomo Resti, del mantovano Giovanni Landi e del veneziano Agostino Serena, lo dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio. Da ultimo v’è da considerare l’apporto del sapere, plasmato principalmente presso l’università di Padova, da parte di una nutrita schiera di nobili ungheresi e transilvani che nel centro veneto del Rinascimento - si pensi a figure come Donatello che qui realizzò l’altare ligneo del Santo e il monumento equestre al Gattamelata o alla pittura di Andrea Mantegna - furono studenti delle discipline più diverse. Anche qui qualche nome può certamente confermare questa nostra tesi: Iohannis Megirnig da Sibiu, laureato in medicina, Stephanus Ungarus di Transilvania e János Vitéz, dottori in diritto canonico, Paul Benkner di Brasov, magister artium. Insomma, sostenere l’esistenza di un rinascimento, intriso dei cupi colori delle lande dell’est è posizione non peregrina, anzi è del tutto evidente che per differenti ragioni il rapporto fra le due aree geografiche era oltremodo stretto, complice il ruolo della Serenissima Repubblica di Venezia quale possibile cerniera geografica. Non a caso molti degli esponenti italiani dei cavalieri dell’Ordine del Drago furono veronesi o padovani in quanto appartenenti alle famiglie degli Scaligeri o dei Carraresi. Tuttavia, il campione di questa versione meticcia del Rinascimento, l’uomo che per certi aspetti ne unì vizi e virtù, in maniera estrema, fu proprio Vlad III di Valacchia, detto Dracula. A questo proposito, a integrazione di quanto da tempo si è sostenuto, ossia che l’Impalatore fosse un principe sanguinario e crudele, intendiamo raccontare in queste pagine un volto meno conosciuto del voivoda: quello del principe guardiano, del difensore della propria terra e del proprio popolo e protettore ultimo del Cristianesimo. A fugare immediatamente qualsivoglia smentita, ricorderemo infatti che Vlad III di Valacchia fu l’unico principe cristiano, seppur ortodosso, a rispondere e aderire alla crociata indetta da papa Pio II, nato Enea Silvio Piccolomini, che chiedeva disperatamente di organizzare una difesa cristiana contro lo strapotere ottomano di Maometto II, il Conquistatore. Convocati infatti, con la bolla Vocavit nos del 1459, i principi cristiani d’Europa a Mantova, il pontefice dovette ben presto affrontare una drammatica serie di rifiuti da parte di Firenze, Venezia, Milano e poi dai regni di Francia, Inghilterra e Spagna. Perfino il re d’Ungheria tentennò, aspettando. Solo Dracula, dunque, ebbe il coraggio di affrontare un nemico che, nei numeri, gli era almeno venti volte superiore. E lo fece in piena solitudine. Certo, le ragioni dell’opposizione di Vlad a Maometto II erano di vario ordine: religioso, naturalmente, ma il voivoda intendeva anche fare di Valacchia e Transilvania un unico voivodato indipendente, in grado di autodeterminarsi, cancellando la propria sudditanza all’impero ottomano che prevedeva un tributo annuale di mille bambini e una tassa di diecimila ducati da pagare alla porta di Costantinopoli. Rimane il fatto che questo ruolo di ribelle da un lato e di guardiano della fede cristiana dall’altro, venne grandemente apprezzato dal pontefice, al punto che Pio II nei suoi Commentarii ebbe parole di paura e di apprezzamento insieme per Dracula. Egli lo definì, fra l’altro, «uomo di corporatura robusta e d’aspetto piacente che lo rende adatto al comando. A tal punto possono divergere l’aspetto fisico e quello morale dell’uomo!». Il pontefice aveva infatti visto nel 1463 un ritratto del voivoda inciso sulla copertina di un incunabolo viennese giunto fino a lui. Marin Mincu, autorevole accademico, docente di letteratura presso l’Università di Costanza, ha addirittura sostenuto che Vlad III Dracul avrebbe conosciuto Cosimo de’ Medici e Marsilio Ficino, intrattenendo con loro rapporti epistolari, nutriti dalla sua passione per il Codex Hermeticum e la Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto di cui proprio Ficino era il massimo esperto del tempo. Una tale sete di cultura, da parte del voivoda, viene confermata dagli storici e dai cronisti del tempo, così come la perfetta conoscenza parlata e scritta di sette lingue: il tedesco, l’ungherese, l’italiano, il latino, il greco, il turco e lo slavo. Ma vi è di più. Nel 1462, finalmente, il pontefice riuscì effettivamente a mettere insieme una somma ragguardevole che poi, nell’impossibilità di destinare direttamente a Vlad, fece pervenire a Mattia Corvino, re d’Ungheria, con preghiera di utilizzarla per finanziare le imprese del voivoda di Valacchia e Transilvania. Ma Corvino si guardò bene dal farlo, nonostante da oltre un anno Dracula avesse impetrato il suo aiuto, e anzi si limitò a incamerare la somma messa a disposizione dal papa, volta a finanziare la campagna di Vlad, tradendo poi quest’ultimo. Per questo, dunque, nella saga a fumetti che ho scritto per i disegni di Andrea Mutti, ho cercato di far emergere il personaggio storico in una prospettiva molto più europea e molto meno hollywoodiana. Certo, non abbiamo rinunciato alla spettacolarità. Andrea, in questo senso, ha adottato una tecnica efficacissima e magnifica, ad acquerello, ispirandosi al lavoro di un grande maestro come Ivo Milazzo, e lavorando magistralmente con gli inchiostri, arricchiti dai colori plumbei e lividi di Vladimir Popov. Lo studio delle architetture dei castelli, dei palazzi, delle case giunge da una formidabile ricerca di carattere storiografico e iconografico e dai miei molti viaggi in Transilvania. Rovesciando la prospettiva, l’intento è stato quello di far comprendere che Vlad fu per il suo popolo ciò che per i Cubani sarebbe stato qualche secolo dopo Che Guevara: un liberatore, un difensore, un condottiero pronto a tutto pur di battersi per la propria terra e, aggiungiamo, la religione cristiana. Un’icona, dunque. E anche un personaggio molto più complesso di come lo abbiamo sempre conosciuto nella semplice, seppur affascinante, versione di principe delle tenebre. Inferiore nei numeri e nelle forze, egli condusse una campagna di guerra senza quartiere contro Maometto II, arrivando a fare terra bruciata non appena il sultano invase la Valacchia, avvelenando i pozzi, bruciando i boschi, trasformando le pianure in deserti di cenere. Nel famigerato attacco notturno del 17 giugno 1462, magnificamente immortalato nella tela del pittore rumeno Theodor Aman, che porta il titolo de La battaglia con le torce, Vlad assaltò a sorpresa il campo ottomano, sterminando una parte importante delle forze del sultano, fallendo nell’obiettivo d’ucciderlo perché Maometto II aveva disseminato il campo di alcuni sontuosi padiglioni che confusero Vlad, celando agli occhi di quest’ultimo la sua tenda. Tuttavia, quando il mattino successivo il sultano mosse con il proprio esercito verso Targoviste, sede della reggia di Vlad, venne accolto lungo la via da una foresta di ventimila impalati. La vista di un simile scempio lasciò sconvolto e ammirato Maometto II, il quale giunse alla conclusione che un uomo disposto a fare per la propria terra ciò che aveva compiuto Vlad non si sarebbe mai arreso. Decise dunque di ripiegare verso Costantinopoli, lasciando il comando al fratello di Vlad, Radu il Bello, che nell’inverno di quell’anno sarebbe riuscito a prevalere momentaneamente contro Vlad solo grazie al tradimento dei Sassoni di Transilvania, dei Boiardi e del re ungherese Mattia Corvino, ben felice di aizzare i propri baroni contro quel principe guerriero, decisamente fuori controllo. Vlad si consegnò infine a Mattia e rimase prigioniero presso il castello di Buda, in Ungheria, per una dozzina d’anni. Nel 1475, sarebbe riuscito a tornare libero e a riconquistare per la terza volta la Valacchia e la Transilvania. Ma questa è davvero un’altra storia.

La Verità sulla Sacra Sindone.

Possibili tracce di monete di epoca bizantina rilevate sulla Sacra Sindone. Il risultato di una ricerca dell'università di Padova contraddice quelli dell'esame al carbonio 14. La Repubblica il 3 settembre 2019. Tracce di possibili monete bizantine sono state rilevate sulla Sindone. Il lavoro dei ricercatori dell'Università di Padova e statunitensi, pubblicato sul Journal of Cultural Heritage, e presentato alla Conferenza sulla Sindone in Canada, ipotizza la possibilità che, anche prima dell'anno 1000, varie monete auree bizantine col volto di Cristo siano state strofinate con la Sindone. L'ipotesi potrebbe essere quella di produrre reliquie per contatto. Lo studio di Giulio Fanti e Claudio Furlan ha individuato dell'Elettro, una rara e antica lega di oro e argento con tracce di rame. L'analisi è stata eseguita utilizzando un microscopio elettronico a scansione ambientale accoppiato ad uno spettroscopio operante in fluorescenza di raggi X. In parallelo è stata misurata la percentuale degli elementi contenuti nelle antiche monete auree bizantine coniate nell'XI e XII secolo. È stata trovata una piena corrispondenza nella composizione della lega fra micro-particelle sindoniche e monete bizantine, arrivando a ipotizzare una contaminazione da parte di queste ultime sul tessuto di lino. Secondo Fanti ciò contraddirebbe il risultato della radiodatazione al Carbonio-14, eseguita nel 1988, che ha datato la Sindone intorno al XIV secolo. È quindi l'ipotesi che i fedeli bizantini possano aver strofinato le loro monete auree, raffiguranti il volto di Cristo sulla Tela di lino, al fine di produrre reliquie per contatto di secondo grado ad uso di venerazione personale. La Sacra Sindone è un tessuto di lino lungo 4,4 metri e largo 1,1 metri contenente la doppia immagine accostata per il capo del cadavere di un uomo morto in seguito ad una serie di torture culminate con la crocefissione. Risalgono al XIV secolo le prime notizie storicamente certe sulla Sindone oggi conservata nella cappella a lei dedicata nel Duomo di Torino, quando il cavaliere francese Geoffroy de Charny fa costruire una chiesa nella piccola città di Lirey - nei pressi di Troyes - per custodirvi la Sindone. Prima di allora le tracce sono più vaghe. Al V-VI secolo risalgono testi in cui si afferma che a Edessa (oggi Urfa, in Turchia) era conservato un ritratto di Gesù (indicato con la parola greca Mandylion) impresso su un telo. Nel X secolo il Mandylion viene trasferito a Costantinopoli, all'epoca capitale dell'Impero Bizantino. Con il sacco di Costantinopoli e il furto di innumerevoli oggetti preziosi, s'ipotizza che la Sindone fosse stata portata dai latini in Grecia, dove la famiglia Charny era presente. Nella prima metà del '400 Marguerite de Charny ritirò la Sindone dalla chiesa di Lirey. Nel 1453 avvenne il trasferimento della Sindone ai Savoia che rimarranno proprietari fino al 1983, quando passò per lascito testamentario alla Santa Sede.

·        Il futuro è nelle religioni?

Quando le religioni si sostituiscono alla politica. Nell’era delle grandi insicurezze globali, il pensiero laico e illuminista sembra non riuscire più a fornire una risposta alle coscienze. Luigi Vicinanza il 24 novembre 2019 su L'Espresso. Il grande disordine ci sovrasta e ci sgomenta. Penetra nelle nostre case attraverso il Web, le tv, i giornali. Alimenta un senso di insicurezza che si dipana lungo linee immaginarie da Nizza a Cleveland, da Istanbul a Tripoli, da Londra a Milano. È la globalizzazione della paura. L’instabilità come motore delle vicende umane. Il Grande Disordine è il titolo di copertina di questa settimana. Una bussola per provare ad orientarsi in un’estate, questa del 2016, segnata da una sequenza di avvenimenti internazionali impressionanti. Apparentemente sconnessi gli uni dagli altri; eppure destinati a tratteggiare la mappa del futuro prossimo. Le forze irrazionali della Storia, avrebbe detto Benedetto Croce, si stanno impadronendo del campo. E non c’è più una nazione guida, un blocco di Stati alleati in grado di costruire un nuovo ordine mondiale. Così come invece accadde dopo la Seconda guerra mondiale con la competizione Usa-Urss e il duraturo equilibrio del terrore, secondo la celebre definizione coniata negli anni della corsa agli armamenti nucleari. Siamo immersi nell’era dall’assenza. Mancano modelli di società in grado di supplire il crollo degli schemi novecenteschi. Il welfare occidentale “dalla culla alla tomba” e il comunismo sovietico affamatore ma con un tozzo di pane per tutti sono stati entrambi sostenuti per decenni, prima ancora che da teorie economiche, da un pensiero forte. Dall’una e dall’altra parte della cortina di ferro. Scrittori, filosofi, artisti, scienziati, registi, cantanti, giornalisti hanno dato corpo a una visione, individuale e collettiva al tempo stesso. Che facessero sognare l’ american way of life o che evocassero il sol dell’avvenire, gli intellettuali sono stati determinanti nel dare una coscienza di massa all’era industriale. Non sembra più così ora. L’ultimo quarto di secolo ha segnato il trionfo della globalizzazione dei mercati e della finanza internazionale, divinità inique di una società ingiusta. Poteri opachi e irresponsabili, molto più potenti dei governi nazionali, fuori da qualsiasi controllo che abbia una parvenza di democrazia. Totem intoccabili e vendicativi davanti ai quali si è prostrato il pensiero debole delle élite sia in Europa che in America. Ce ne siamo già occupati, sottolineando il paradosso delle nostre democrazie: stanno entrando una dopo l’altra in crisi attraverso l’esercizio più democratico che vi possa essere, il voto popolare. È già accaduto con il referendum britannico, può accadere negli Stati Uniti di Trump, è in incubazione nella Francia di Marine Le Pen. Altro che sistemi elettorali e riforme costituzionali, intorno a cui ci arrabattiamo noi italiani.

Siamo nel pieno di una crisi epocale. E paradossalmente, nello sbandamento provocato da tumultuosi cambiamenti, quali sono i campioni di un pensiero forte? Non prendetela come una bestemmia, ma le religioni monoteiste del Mediterraneo sono le forze capaci di mobilitare masse enormi di esclusi. Sia pure con obiettivi completamente diversi. C’è papa Francesco, con il suo cristianesimo pauperista ed egalitario, capace tuttavia di trattare da posizione di forza con Castro e Obama, con Erdogan e Putin sulle grandi questioni di geopolitica. Unico vero leader mondiale in grado di emozionare anche chi, al dono della fede, antepone l’esercizio del laico dubbio. C’è poi l’Islam dispotico ed espansionista, elemento identitario per popoli sparsi in almeno tre continenti, Africa, Asia, Europa. È lo spettro che agita le nostre coscienze occidentali, disabituate a confrontarsi con il timore e il tremore che il mistero della religiosità suscita nelle masse. Se l’orrore dell’autoproclamato Stato islamico è il frutto avvelenato di un dio senza pace né misericordia, l’islamismo - per quanto lo si possa definire moderato - assume i caratteri della reazione popolare contro le élite occidentalizzanti. Il moderno sultanato di Erdogan è il distillato di una società con radici profonde. Sovversivo e autoritario per volontà popolare. Né si può dimenticare Israele dove, pur nella laicità delle istituzioni statali, l’identità religiosa è questione consustanziale alla sua esistenza. Insomma, nel nostro smarrimento, le identità religiose ci costringono a ripensare la realtà. Non è un caso se proprio sulla Francia, culla della cultura illuminista e del pensiero libero, si accanisca l’odio del fanatismo islamico. Facciamo fatica a capire e dunque a reagire. Il sonno della ragione ancora una volta genera mostri.

Mariolina Iossa per il “Corriere della Sera” il 23 novembre 2019. Non ci si sposa più giovanissimi, si rinvia, si aspetta la conquista della stabilità economica ma poi, sempre più spesso dopo i 30 anni, arriva il giorno in cui si convola a nozze. Il fascino del matrimonio non perde vigore anche se ci si sposa più tardi. E sulla scia della tendenza inarrestabile da decenni a preferire il comune alla chiesa, il 2018 è stato l' anno dello storico «sorpasso»: i riti civili hanno superato quelli religiosi, sono stati il 50,1 per cento, pari a 92 mila 182 sul totale di 195 mila 778. I matrimoni aumentano, ci racconta l' Istat nel suo report su matrimoni e unioni civili, ma ci si sposa sempre più tardi: gli uomini arrivano al primo matrimonio con una età media di 33,7 anni (nel 2017 era 32,1), e le donne di 31,5 (ed era 29,4). Per l' Istat il motivo è l'«invecchiamento del Paese»: il numero di figli è drasticamente diminuito e in dieci anni la fascia della popolazione tra i 16 e i 34 anni è scesa di 12 milioni. Ci sono sempre meno giovani, quindi meno matrimoni e unioni civili tra giovani. Ma c' è anche l' aspetto economico che incide: la «prolungata permanenza dei giovani in famiglia» dovuta per buona parte al lavoro precario, ma anche a scelte di vita in netta controtendenza rispetto a 40 anni fa. Il 67,5% dei maschi (+1,3% rispetto a 10 anni fa) e il 56,4% (+3%) delle femmine tra i 18 e i 34 anni vive con i genitori. Molti giovani poi, decidono di convivere prima di convolare a nozze, e anche questo spiega il rinvio. Se i matrimoni sono aumentati nel 2018 (4.500 in più rispetto al 2017), crescono, e in misura maggiore, anche le libere unioni. Il trend decennale delle nozze infatti resta in discesa (nel 2008 furono 246 mila 613, nel 2018 sono state quasi 196 mila) mentre costante è la crescita delle convivenze, che sono più che quadruplicate dal 1998, passando in 20 anni da 329 mila a 1 milione e 368 mila. Aumentano anche i figli nati fuori dal matrimonio: nel 2017 furono uno su tre 3. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso costituite nel corso del 2018 sono state 2 mila 808, con una prevalenza di uomini, 64,2% del totale. Il 37,2% nel Nord ovest e il 27,2% al Centro, ma è soprattutto nelle grandi città che si registrano queste unioni. A Roma e a Milano una su tre, rispettivamente 10,1 e 18,7 ogni centomila abitanti. A Napoli e a Palermo invece, il dato si attesta su una unione civile ogni 100 mila abitanti. I dati Istat rilevano dunque un' Italia spaccata a metà: al Sud ci si continua a sposare con rito religioso; è il Nord che alza la media dei matrimoni civili. Nelle regioni settentrionali le nozze con rito civile sono il 63,9% mentre nelle regioni meridionali, dove due coppie su tre preferiscono varcare la soglia della chiesa, sono meno della metà (30,4%). Vero è anche che il balzo dei matrimoni civili è in buona parte dovuto alle seconde nozze e alle successive, che sono aumentate in dieci anni dal 13,8% al 19,9%, e che il boom negli ultimissimi anni di secondi e terzi matrimoni è dovuto al divorzio breve (le seconde nozze e successive sono quasi sempre civili, 94,6%). Scelgono di sposarsi in comune anche la stragrande maggioranza delle coppie in cui almeno uno degli sposi è straniero (89,5%); nel Nord e nel Centro, dove la presenza degli stranieri è più radicata, parliamo di un matrimonio su quattro. Alla tradizione delle nozze in chiesa sono più legati i giovani, gli under 30, che scelgono il rito civile per il 24,8%, molti meno dei 35-40enni che per il 37,8% dicono «sì» all' ufficiale di stato civile.

Flavio Bini per repubblica.it il 20 novembre 2019. Nel 2018, per la prima volta nella storia, i matrimoni con rito civile hanno superato quelli con rito religioso e oggi rappresentano il 50,1% del totale delle unioni, a fronte del 49,5% dell'anno precedente. È quanto mettono in evidenza i dati aggiornati diffusi oggi dall'Istat. Il "sorpasso", emerge dai numeri, non è ancora scattato per quanto riguarda le prime nozze, dove l'altare batte ancora saldamente la cerimonia in Comune, ma si registra comunque se si guarda il totale delle persone che si sono unite in matrimonio lo scorso anno. Molto forte il divario territoriale: al Nord la quota di matrimoni con rito civile è del 63,9%, al Sud meno della metà (30,4%). La crescita del rito civile, rileva l'istituto di statistica, è trainata dall'aumento dei secondi matrimoni (erano il 13,8% del totale nel 2008, saliti al 19,9% nel 2018) e dalle unioni in cui almeno uno degli sposi è straniero, passate dal 15% del 2008 al 17,3% del 2018.

Primi sposi sempre più "vecchi". Guardando ai dati complessivi, in totale lo scorso anno stati celebrati in Italia 195.778 matrimoni, circa 4.500 in più rispetto al 2017, ma in generale l'età delle prime nozze si sposa sempre più in là nel tempo. In media gli sposi hanno 33,7 anni e le spose 31,5. A incidere in maniera determinante è soprattuto il calo della natalità avviato registrato a partire dagli anni 70 e che a distanza di tempo ha portato a una progressiva riduzione dell'ampiezza della fascia di popolazione tra i 16 e i 34 anni. "Al 1° gennaio 2018 sono quasi 12 milioni, un milione e 200 mila in meno rispetto al 2008", ricora l'0istituto di statistica. "Questa contrazione ha contribuito alla diminuzione dei matrimoni dei giovani tra i 16 e 34 anni. Infatti, mentre nel 2018 l’incidenza delle prime nozze dei giovani è del 59,7% tra gli sposi e del 72,5% tra le spose, nel 2008 era di circa 10 punti percentuali in più".

Meno unioni civili, forti divari Nord-Sud. In calo invece rispetto al 2017 il dato sulle unioni civili. Nel 2018 si sono unite 2.808 coppie dello stesso sesso contro i 4376 dell'anno precedente. Netta la prevalenza di coppie di uomini (64,2%) e più marcata la concentrazione nel Nord-ovest (37,2%) a fronte di dati sensibilmente più bassi al Sud (8,6%) e nelle Isole (5,5%).

La Repubblica si batterà sempre in difesa della Scommessa cattolica? Tanti dubbi...Pubblicato martedì, 20 agosto 2019 da Corriere.it. La recensione di Ferruccio de Bortoli («Corriere» del 14 agosto scorso) del libro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti La scommessa cattolica (il Mulino) sollecita alcune riflessioni.

1. La domanda vera non è tanto se la Chiesa cattolica abbia un futuro. Bisogna invece chiedersi se sia giusto rintracciare il senso del nostro vivere solo affidandoci al messaggio di una religione apparsa circa 2 mila anni fa. Ci siamo ristretti a scrutare un orizzonte limitato. Come se la storia dell’umanità fosse racchiusa nell’arco di appena un paio di millenni.

2. La nostra origine biologica non ci parla di esseri soprannaturali, non allude a una trascendenza. Non è certo la storia di Adamo ed Eva che, secondo William King, «altro non era che una burla e una ben congegnata turlupinatura». La nostra storia comincia circa 40 milioni di anni fa, quando compaiono i Primati, da cui si sviluppa poi il ramo umano. Tralasciando tutti i passaggi, arriviamo a noi, all’Homo sapiens, che comincia a calcare il suolo terrestre almeno 200 mila anni fa. 

3. Per secoli la Chiesa cattolica ha utilizzato le teorie di pensatori pagani per far credere che gli umani abbiano il privilegio di vivere su un pianeta creato apposta per loro. Un pianeta fermo al centro di uno spazio circoscritto. In realtà il nostro pianeta non è fermo e naviga in uno spazio praticamente infinito. La fisica dei cieli non è diversa dalla fisica della Terra e immaginare un aldilà paradisiaco nell’alto dei cieli non ha più senso. Vendere il Cielo è diventata un’operazione quasi disperata, la Chiesa può sopravvivere solo concentrandosi sulla vita terrena, hic et nunc, privilegiando forme di assistenza sociale.

4. Dal punto di vista mentale, siamo ancora connessi a schemi di pensiero antichi. Dobbiamo imparare a pensare la nostra esistenza in una realtà molto più vasta di tempo e spazio. Non possiamo prescindere dal fatto che la vita ribolliva in varie forme ben prima di noi e se 65 milioni di anni fa non si fossero estinti i dinosauri, forse la vita umana nemmeno sarebbe emersa.

5. Leggo che «la questione religiosa non è mai stata importante come in questo momento storico». In realtà nei secoli passati la questione religiosa aveva un’importanza ben maggiore di adesso. Condizionava la vita degli esseri umani e formava lo spirito dei popoli. Sorretti dall’indomita fede di camminare col Signore al fianco, i Puritani fondarono le colonie americane. Ma oggi la domanda da porsi è: quale religione? Il grande studioso Mircea Eliade diceva che in ogni epoca e in ogni angolo della Terra nel cuore degli esseri umani arde uno spirito religioso. Ma le religioni evolvono e muoiono. Toccherà anche al Cristianesimo.

6. Dice de Bortoli che l’uomo sembra voler bastare a sé stesso e che l’io si sostituisce a Dio. A me sembra il contrario. Un bel libro di Keith Hopkins, docente del King’s College, a Cambridge, è intitolato A world full of Gods. L’invenzione delle divinità segnala la disperazione del vivere e il terrore della morte. Per rendere i giorni sopportabili è un bel sollievo sognare una realtà ultraterrena. Ma il problema è che l’uomo fa le domande e l’uomo dà le risposte.

7. Moderni teologi scrivono libri usando antiche immagini rivestite con parole moderne. Sempre i soliti termini, sacro, anima, soprannaturale, di cui in realtà non saprebbero dare una spiegazione plausibile. Chiusi i libri, ripensi al contenuto e ti sembra un ben confezionato esercizio dialettico che non ti lascia assolutamente nulla. Già il filosofo Francis Bacon all’inizio del Seicento avvertiva che un certo linguaggio, un sapere verboso, crea mondi fittizi spacciandoli per autentici.

·        Ricetta e precetto. Religione, cultura e tavola.

GLI ESORCISTI DELLA PANZA. Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 20 Agosto 2019. Vade retro, grasso. Nella battaglia contro i chili di troppo che avanzano inesorabilmente nessun colpo viene escluso. Neppure l' intervento divino, con tanto di diete ispirate direttamente da versetti biblici o dai sermoni dei padri della Chiesa, e persino da invocazioni contro le tentazioni maligne della gola. Ma non bisogna illudersi. Il demonio dell'obesità non si vince facilmente, la battaglia continua, a suon di dollari e di sermoni. Anche perché alla crociate contro il cibo abbondante, cristianamente parlando, si contrappongono i numerosi richiami alla convivialità, alla bellezza del mangiare insieme e ai doni della terra. Negli Usa, sempre all'avanguardia per quanto riguarda mode, tendenze e a volte sciocchezze madornali, la caccia alla linea perduta è spesso un'ossessione, che si traduce, fatalmente, in ottimi affari per nuovi guru. Com' è successo per Mary Ascension Saulnier, divenuta famosa per una tecnica talmente innovativa da attingere addirittura alla tradizione cristiana dell' esercito. Si rivolge infatti alle cellule adipose con una formula ad hoc per "convincerle" a mollare la presa su pance, glutei, cosce. Non tira in ballo il Maligno (fa troppo Medioevo) ma agisce sulle membrane cellulari, di cui si sono impossessate sostanziose energie negative trasformate in grasso. Per il modesto compenso di 230 dollari a seduta (tariffa base). Ci credono in molti, anche le vip che accorrono in massa, come Paris Hilton o Kate Hudson. La guru in questione non fa riferimento esplicito alla religione, nei suoi trattamenti, ma la guerra santa contro la ciccia affonda le radici negli anatemi lanciati dai profeti biblici e poi dai padri della Chiesa: uno fra tanti, quel San Girolamo campione dell' ascetismo e del digiuno.

PIATTI VUOTI. Ma ancora prima i filosofi greci si esprimono contro il peso fisico che inchioda alla terra lo spirito, come spiega Platone nel secondo libro della Repubblica. Mentre Seneca, quando i suoi contemporanei romani gozzovigliavano da mattina a sera, scriveva riflessioni sulla autentica dieta del saggio, basata essenzialmente sulla frugalità. Tornando in terra americana, bisogna ricordare che i primi fondamenti della dietologia moderna li hanno individuati uomini di chiesa. Il pastore presbiteriano Charles W.Shebb nel 1957 scrisse il bestseller Pray You Weight Away, "Prega per ridurre il peso", un programma dimagrante proveniente direttamente dalla Bibbia, avente come perno centrale l' equazione tra grasso e peccato. Da allora si sono moltiplicate le diete di ispirazione cristiana, che usano la preghiera come strumento di lotta contro le legioni del Male materializzate nel cibo delle tavole imbandite, poi trasformate in grasso grondante dai corpi di poveri peccatori. «Dovete imparare a respingere Satana in modo che il vostro corpo sia degno dello Spirito Santo», tuona George Malkmus, profeta della Hallelujah diet, la dieta dell'Alleluia. Si è creata una macchina che macina concetti scientifici mal divulgati, ciarlatanerie varie, principi salutisti, religione deragliata, che impasta tutto questo e sforna profitti, grandi interessi economici legati alla fortunata industria della magrezza. Che si regge proprio sul fatto che i risultati non siano mai radicali, mai definitivi. Che la battaglia sia continua, senza tregua. Del resto, il fronte della crociata al sovrappeso si basa su principi religiosi deragliati, come si accennava. La smodatezza nel mangiare e bere è sempre stata stigmatizzata da profeti, santi, teologi e da Gesù stesso. Perché segno di intemperanza, di egoismo, di scarso rispetto verso gli altri, verso se stessi e verso Dio. Ma Cristo sedeva volentieri a cena con i discepoli e gli amici, e proprio durante una cena, l'Ultima Cena, ha istituito l'Eucarestia, come gesto supremo di donazione di se stessi.

IL POVERELLO DI ASSISI. San Francesco d' Assisi, ovviamente contrario alla crapula e ascetico in ogni aspetto della vita, desiderava che a Natale, con i suoi frati, si mangiassero cibi "ricchi", che si preparassero per i poveri e gli abbandonati sostanziosi pasti e che anche per gli animali si provvedesse a sfamare con razioni doppie. La Regola di San Benedetto impone che i monaci alternino giorni di magro e di digiuno con pranzi e cene da gourmet in occasione delle varie festività e ricorrenze. E le ricette di conventi, monasteri e abbazie sono ricercatissime. Perché il cibo diventa misura dell' amore per la vita e si lega al sentimento di riconoscenza per i doni elargiti dall' Onnipotente, segno di fede e di carità.

LA DIETETICA ABBRACCIA L’ETICA.  Marino Niola per “la Repubblica” il 17 agosto 2019. Ci sono culture che a tavola hanno più totem che tabù e altre che hanno più tabù che totem. In entrambi i casi a fare la differenza è la religione. Perché prescrizioni e proibizioni, passioni e ossessioni, tradizioni e trasgressioni hanno quasi sempre un' origine sacra. Nel senso che le diverse confessioni usano il cibo come materia prima per costruire identità e comunità, per distinguere purità e impurità, per misurare appartenenza e indifferenza. Un millenario filo doppio lega cibo e devozione. Dietro ogni ricetta c' è un precetto, un obbligo o un divieto. Cosa mangiare, cosa non mangiare, quando, quanto, in quali giorni banchettare, in quali digiunare. Per noi cristiani, di fede o di cultura, è ormai difficile cogliere il nesso tra religione e alimentazione. Ma per gli ebrei e per i musulmani, il rispetto dei comandamenti è ancor oggi il vero termometro dell' osservanza. Basti pensare ai divieti che li caratterizzano.

Primo fra tutti quello di consumare carni al sangue, espressamente vietato dalla Torah e dalla Sharia. Al contrario, disco verde per gli animali che ruminano e al tempo stesso hanno l' unghia spartita. Capre, pecore e mucche. Ma niente coniglio, porco, cammello, lepre, cavallo e asino. Sì invece ai pesci, ma a condizione che abbiano pinne e squame. Quindi zero molluschi e crostacei. Altrettanto proibite sono le specie striscianti, come i serpenti, o zampettanti come lucertole, tartarughe e rane. Nel caso ebraico, questo vademecum gastronomico è sancito direttamente dalla legge mosaica, che nel Levitico, il terzo libro dell' Antico Testamento, distingue rigorosamente i cibi consentiti, kasher , da quelli proibiti, taref. Esattamente quel che fanno molte sure del Corano, soprattutto la quinta e la sesta, opponendo gli alimenti permessi, halal , a quelli vietati, haram . In questo senso il popolo di Israele e quello di Maometto hanno più tabù che totem.

Il cristianesimo, invece, a differenza delle altre due religioni del Libro, si caratterizza per uno scarsissimo numero di tabù. I seguaci del Messia sono assolutamente onnivori. E anche questo è scritto nei testi sacri. A cominciare dai Vangeli, dove non c' è praticamente traccia di interdizioni alimentari. Fino a San Paolo, il grande intellettuale della Chiesa, che nella Lettera ai Corinzi afferma che ogni animale o vegetale in vendita sui banchi del mercato può essere mangiato senza problemi, perché "del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene". Insomma, niente è cattivo e impuro in sé stesso. L'unico precetto cristiano è la temperanza, la modica quantità come antidoto all' egoismo bulimico. E adesso il detto paolino ritorna, in forma laica, nel mantra dietetico contemporaneo che prescrive di mangiare di tutto un po'. Con la differenza che noi non lo facciamo per timore del giudizio di Dio, ma per paura del verdetto inesorabile della bilancia. Il paradosso è che ora anche noi, figli della secolarizzazione, torniamo ad affidarci alla religione e a domandarle la salvezza, questa volta però del corpo e non più dell' anima.

Così si spiega il recente boom planetario del mangiare kasher, e in misura minore di quello halal, che conquistano anche i palati più laici. È una domanda in crescita esponenziale e trasversale, che ha poco a che fare con i sacri comandamenti, tranne quello della genuinità e della pulizia. Così anche chi non prega Javeh o Allah, abbraccia il nuovo credo nutrizionale che sta riempiendo i supermercati di tutto il mondo di alimenti a marchio religioso. Milioni di consumatori si convertono all' azzimo, al falafel, alla carne dissanguata e perfino al sale mosaico, cioè senza additivi. Secondo uno studio del Penn State University College, l' 80 per cento degli acquirenti di cibi ebraici non ha nulla a che fare con la Torah. A motivare la scelta, infatti, non è l'appartenenza confessionale, ma il rigore del controllo di rabbini e imam sulla preparazione e sulla confezione dei prodotti che rassicura i consumatori. Evidentemente l'autorità religiosa è considerata più credibile dell' authority alimentare. Chi mangia alla giudia, insomma lo fa per ragioni un po' etiche un po' dietetiche. Finendo per caricare la religione di Mosé di funzioni improprie, come quella di tracciare i nostri alimenti. Trasformando il capo spirituale in certificatore materiale. Risultato, un business colossale. Se alla fine degli anni Settanta i prodotti a marchio kasher erano 2.000, adesso sono almeno 150.000, in crescita costante. E visto l' appeal di questa denominazione d' origine consacrata, tutti i grandi marchi alimentari, italiani compresi, si mettono in fila per ottenere il sospirato bollino OU, concesso dalla Orthodox Union, la prima holding planetaria di certificazione ebraica. Nella sede centrale di Broadway opera un inflessibile pool rabbinico coadiuvato da un esercito di tecnologi alimentari, in uno scenario da film di Woody Allen. Morale della favola, siamo in pieno cortocircuito tra fiducia e fede, tra sicurezza e salvezza. Un mondo in preda a mille paure - pesticidi, sostanze cancerogene, Ogm, diossina, grassi idrogenati - non sapendo più a chi credere si raccomanda a Dio. Ecco perché il cibo diventa la nuova religione e la tavola l' altare laico dove si celebra il culto del corpo.

Gavage, ragazze costrette a ingrassare per piacere agli uomini. Alessandra Frega su it.insideover.com il 18 Agosto 2019. In Mauritania, uno Stato dell’Africa nord-occidentale, vige il rito del “gavage”, secondo cui le giovani ragazze, per potersi sposare, devono essere grasse fino a sfiorare l’obesità.

Ricchezza ed obesità. A partire dalla tenera età di sei anni, le bambine mauritane subiscono la crudele pratica del “gavage” e vengono costrette a mangiare enormi quantità di cibo al solo scopo di dover trovare marito. Più saranno grasse e più “appetibili” appariranno agli occhi dei ragazzi che incontreranno. Secondo la cultura mauritana, le donne in sovrappeso sono anche le più ricche. Le ragazze magre – ma anche quelle normopeso – vengono percepite, al contrario, come una vergogna dalla comunità che le ospita: povere, e magari maltrattate, all’interno di famiglie prive dei mezzi di sostentamento necessari per poterle crescere. Molte ragazze mauritane accettano spontaneamente di sottoporsi al rito del “gavage” per la buona riuscita di un matrimonio mangiando giorno e notte ininterrottamente per poter arrivare a pesare anche 100 in vista delle nozze. E se le più piccole rifiutano la pratica, esistono vere e proprie strutture dedicate: ostelli dove – sotto il controllo vigile delle anziane donne del villaggio che li gestiscono – le bambine vengono indotte (anche con la violenza) ad ingozzarsi di cibo e bevande ipercaloriche, con il benestare delle famiglie.

Effetti collaterali e morte precoce. Anche le smagliature vengono esibite sul corpo delle mauritane con grande orgoglio: sarà per via dei tanti benefici materiali e spirituali che se ne traggono, seppur a discapito del proprio benessere psico-fisico. E quando reperire grosse quantità di cibo in natura diventa un problema, soprattutto per le famiglie più povere dei centri rurali, si ricorre all’utilizzo di farmaci ed ormoni ad uso veterinario. Le ragazze, in casi estremi, scelgono deliberatamente di ingurgitare sciroppi in grado di stimolare l’appetito o medicine dopanti per animali (ben più nocivi di un’alimentazione naturale). Inevitabile il sopraggiungere di problematiche cardiovascolari, del diabete o di altre gravi disfunzioni renali che causano ictus ed infarti, provocando la morte prematura delle ragazze che ignorano i danni di uno stile di vita insano. E se anche una legge vieta da qualche anno in Mauritania la vendita di farmaci considerati nocivi per l’uomo, il business illecito del mercato nero è molto fiorente. Le ragazze – nel rispetto di un indottrinamento che ha inizio in età infantile – arrivano a pesare decine e decine di chili e per poterlo fare sono disposte a subire ogni genere di supplizio, cagionandosi una salute precaria.

“Il Corpo della Sposa”. “‘Verida, alzati e mangia!'”, inizia così Il Corpo della Sposa, il primo film di genere che affronta la pratica dell’ingrasso forzato delle future spose mauritane. La protagonista è una giovane attrice che ha subito all’età di 16 anni il rito del “gavage”). La storia si svolge sullo sfondo di una Mauritania ancora oggi paradossalmente incastrata tra tradizione e modernità. Verida è socievole, lavora in un salone di bellezza, ama divertirsi con le sue amiche e ricorre all’utilizzo dei social network come qualunque altra ragazza moderna. Fino a quando – un giorno – viene svegliata all’alba dalla madre che le comunica che si sposerà. Da quel momento, Verida avrà tempo tre mesi per poter ingrassare di venti chili e soddisfare i canoni estetici del futuro marito che la considera ancora troppo magra per l’ideale di bellezza tradizionale. Il film inizia con l’inquadratura di Verida che beve da una ciotola di latte, come a voler enfatizzare la drammaticità di un atto imposto, come quello del “gavage”. Gli unici momenti di spensieratezza sono quelli che ritraggono Verida insieme ad Amal (la sua migliore amica) oppure complice del romanticismo puro e genuino di Sidi (il ragazzo incaricato al rito della misurazione del peso). “Un tempo il ‘gavage’ era estremo, veniva compiuto nell’arco di una sola notte: molte donne morivano dopo la pratica del ‘leblouh'”. La tecnica è attualmente impiegata nei villaggi del deserto per anticipare il menarca di bambine e giovani ragazze. “In città vanno di moda i festini ‘wangala’: merende a base di cibo tra amiche”. Il film è un atto di denuncia contro rituali arcaici e criteri di bellezza ormai obsoleti. È un lungo viaggio interiore che ha inizio nel preciso momento in cui Verida si ribella all’educazione ricevuta.

·        La Madonna interconfessionale.

Roma, il Papa all’Immacolata, la tradizione iniziata da Giovanni XXIII nel 1958. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. I fiori dei Vigili del fuoco, la fanfara della Polizia che esegue l’Ave Maria di Gounod in piazza Mignanelli per poi accompagnare la Messa delle 12 nella Chiesa degli artisti in piazza del Popolo, i 100 disabili dell’Unitalsi accompagnati da 15o volontari che deporranno ai piedi della colonna sormontata dalla statua della Vergine Maria, una corona di fiori che riproduce il logo dell’associazione cattolica. In attesa dell’arrivo di Papa Francesco, che come ogni anno, sarà in piazza alle 16 per un momento di preghiera con i fedeli. La festa dell’Immacolata è da sempre molto sentita a Roma. Altri omaggi floreali, come da tradizione, saranno portati da rappresentanze delle Acli di Roma, Cotral-Atac, Acea, Inps-Inpdap e i dipendenti di Roma Capitale. E ancora la presenza dei frati francescani della basilica dei Santi Apostoli che «con canti e momenti di preghiera – spiega il parroco frate Agnello Stoia – accolgono confraternite, gruppi di laici e parrocchie che portano il loro omaggio floreale alla Madonna. Con alcuni confratelli che offrono la “Medaglietta miracolosa” e ne spiegano la devozione e confessano i fedeli che lo chiedono, dalle 6,30 alle 20». Oltre ai frati della basilica in piazza ci saranno alcuni giovani chierici studenti del Seraphicum, il gruppo di evangelizzatori di strada della Sveglia francescana e alcuni laici della Milizia dell’Immacolata, l’associazione di fedeli fondata da san Massimiliano Kolbe. Insomma, una ricorrenza molto importante per i romani: ma come e quando è nata? Il dogma dell’Immacolata Concezione fu proclamato da Pio IX nel 1854 con la bolla «Ineffabilis Deus», sulla preservazione della Vergine dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento. Nella devozione cattolica l’Immacolata è collegata con le apparizioni di Lourdes del 1858, quando Maria apparve a Bernardette Soubirous presentandosi come «l’Immacolata Concezione». Tre anni dopo la proclamazione del dogma, l’8 dicembre del 1857, sotto papa Pio IX, fu inaugurato a Roma il monumento dell’Immacolata in piazza Mignanelli, adiacente a piazza di Spagna, tanto che molti le confondono. Il monumento, firmato dall’architetto Luigi Poletti (noto anche per la ricostruzione della basilica di San Paolo fuori le Mura dopo l’incendio del 1823) fu offerto a Roma dal re di Napoli Ferdinando II e realizzato da circa 220 vigili del fuoco, all’epoca pontifici: è composto da una colonna romana di marmo alta quasi 12 metri e ritrovata nel monastero di Santa Maria della Concezione nel Campo Marzio nel 1777, un basamento e 4 statue sempre di marmo che raffigurano David (opera di Adamo Tadolini), Isaia (di Salvatore Revelli), Ezechiele (di Carlo Chelli) e Mosè (di Ignazio Jacometti), mentre la statua della Madonna è opera di Giuseppe Obici. Il luogo non fu scelto a caso: si trova davanti al palazzo dell’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, perché dalla Spagna erano venute moltissime richieste per la proclamazione del dogma. Papa Pio XII ogni 8 dicembre inviava dei fiori alla statua, ma fu il suo successore, papa Giovanni XXIII, che per la prima volta nel 1958 visitò il monumento e depose ai piedi della Vergine Maria un cesto di rose bianche, per poi recarsi alla basilica di Santa Maria Maggiore, che contiene l’icona mariana «Salus populi romani» molto venerata a Roma. La visita è poi diventata tradizione di tutti i Papi, con un momento di preghiera, quale espressione della devozione popolare, la presentazione dei fiori, la lettura di un brano della Sacra Scrittura e di uno della Dottrina della Chiesa, preghiere litaniche e alcuni canti mariani, tra cui il «Tota pulchra». Intanto all’Angelus in piazza San Pietro Francesco ha pregato per la pace in Ucraina orientale. «Domani si svolgerà a Parigi un incontro dei Presidenti di Ucraina, Russia e Francia e della Cancelliere Federale della Germania, noto come ”Formato Normandia”, per cercare soluzioni al doloroso conflitto in corso ormai da anni: accompagno l’incontro con una preghiera intensa e vi invito a fare altrettanto, affinché tale iniziativa di dialogo politico contribuisca a portare frutti di pace nella giustizia a quel territorio e alla sua popolazione». Prima aveva ricordato la beatificazione in Guatemala di Giacomo Miller, religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, ucciso in odio alla fede nel 1982, nel contesto della guerra civile: « Il martirio di questo esemplare educatore di giovani, che ha pagato con la vita il suo servizio al popolo e alla Chiesa guatemalteca, rafforzi in quella cara Nazione percorsi di giustizia, di pace e di solidarietà». E ancora, l’elogio della discrezione delle opere di misericordia, sulle orme dell’«atteggiamento di consapevole umiltà della Madonna, che alla chiamata dell’Angelo si definisce Serva del Signore»: «Le opere di misericordia si fanno in silenzio, di nascosto. La disponibilità verso Dio si riscontra nella disponibilità a farsi carico dei bisogni del prossimo. Tutto questo senza clamori e ostentazioni, senza cercare posti d’onore, senza pubblicità, perché la carità e le opere di misericordia non hanno bisogno di essere esibite come un trofeo. Anche nelle nostre comunità, siamo chiamati a seguire l’esempio di Maria, praticando lo stile della discrezione e del nascondimento».

La Madonna siciliana di Tunisi non riesce a uscire dal sagrato. Pubblicato mercoledì, 14 agosto 2019 da Francesco Battistini su Corriere.it. Con tutto il rispetto, è una statua uguale a mille altre. Manco bellissima. È pure una copia: la chiamano ancora la Bedda Madri di Trapani e la Madonna originale, quella bella davvero, sta in Sicilia. A Tunisi però non hanno altra Vergine all’infuori di lei. I cristiani. Ma anche i musulmani. Gli ebrei. E gli arabi e gli africani tutti. E i discendenti dei trapanesi che qui migrarono un secolo e mezzo fa. E i figli dei francesi che qui rimasero dopo l’indipendenza. Una Madonna interconfessionale, interculturale, internazionale. Custodita da due secoli nella chiesa della Goulette, la Petite Sicile, il sobborgo a 10 chilometri dalla Medina dove nacque anche Claudia Cardinale: «Questa statua la prega chiunque — racconta una vecchia siciliana —. Quand’ero piccola, ricordo che ogni 15 agosto veniva una nostra vicina musulmana, ci dava un dinaro e ci chiedeva d’accendere una candela per suo fratello malato». Una volta era normale che a Ferragosto, per la messa dell’Assunta, la statua fosse agghindata di collane, coperta di baci e di fiori, illuminata di ceri, accompagnata dalle avemaria e dagli youyou festosi delle donne berbere, portata in processione giù giù al mare. Fu così fino al 1962. Fino a Bourghiba. Poi basta: con gli anni della laicizzazione, poi del regime di Ben Ali, infine della Primavera tunisina e della minaccia d’un certo Islam, per diktat e per prudenza la Madonna non è mai più uscita per le strade della Goulette. «Questo poteva essere l’anno buono per rifare la processione — dice l’arcivescovo di Tunisi, Ilario Antoniazzi —. Ma è appena morto il presidente Essebsi, non vogliamo si pensi che noi cristiani approfittiamo del vuoto di potere per affermare un nostro diritto. Sarebbe una provocazione. Ci limiteremo a portare la statua fuori dalla chiesa». Una processione di 5 metri. Dopo 57 anni. Blindatissima. «Motivi di sicurezza», spiegano le autorità. Come l’estate scorsa e quella del 2017, la Bedda Madri uscirà pochi minuti sul sagrato e a scortarla ci saranno anche i goulettois musulmani devoti alla Maryam del Corano. I più ansiosi di portarla in spalla: è stata la sindaca islamista di Tunisi a insistere con monsignor Antoniazzi, perché s’avesse il coraggio di rifare la processione solenne d’una volta. «Questa festa della Goulette dura dal 1915 ed è sopravvissuta a tutto — spiega Habib Kazdaghli, storico dell’università di Tunisi —. Islamici ed ebrei vi s’uniscono da sempre, perché è un segno d’unità. Oltre le fedi». La Tunisia è il Paese che ha dato più volontari all’Isis. E il partito islamico che sostiene il governo, Ennahda, pur professando moderazione, è affiliato ai Fratelli musulmani egiziani. In ogni caso, qui c’è una formale libertà di culto, i cattolici non hanno problemi nemmeno coi salafiti. Mai una chiesa profanata, mai una minaccia o una violenza. Le prove di dialogo non si limitano alla Goulette: nella sinagoga di Djerba, è usuale che i cattolici partecipino alla Pasqua ebraica e a Nabeul, per festeggiare l’Eid musulmano, si danno ai bambini i pupi di zucchero delle nostre feste dei morti. Eppure, eppure. «L’opinione diffusa — dice monsignor Antoniazzi — è che questo sia un Paese tollerante. In gran parte è vero. Però a livello religioso non è proprio così: ci ascoltano più che in passato, certo, ma la porta per noi non è affatto spalancata». Due anni fa, quando si decise la prima e timida uscita della Madonna della Goulette, l’arcivescovo tremava: «Avevo paura. Molti spingevano perché la processione si facesse per intero. Ma noi cristiani sappiamo quali sono i limiti che ci vengono dati. Meglio essere prudenti. Prima o poi ce la faremo. Perché questa statua è anche un simbolo: ha attraversato il Mediterraneo da Trapani a Tunisi, l’inverso del viaggio che oggi fanno i migranti sui barconi. È lei che protegge chi va per mare, chiunque sia». Allora l’anno prossimo bisognerebbe invitare un noto politico italiano, devoto alla Madonna, che s’occupa tanto dei barconi… «Vedremo chi sarà ancora al potere».

·        Oriana Fallaci: “Sono nata in un paesaggio di chiese, Cristi, Madonne”.  

Oriana Fallaci: “Sono nata in un paesaggio di chiese, Cristi, Madonne”.  Giornale Off 27/05/2019. L’ Italia, è un paese molto vecchio, ma io non la regalo a nessuno. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimé c’entro. Che mi piaccia o no, c’entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all’epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos’è l’ architettura, cos’è la scultura, cos’è la pittura, cos’è l’ arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos’è il Bene, cos’è il Male, e perdio… Ecco: vedi? Ho scritto un’ altra volta «perdio».

Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m’ accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m’ ha imposto per secoli incominciando dall’Inquisizione che m’ ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d’ accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica.

La bisnonna valdese non l’ ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand’ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de’ Benci a Firenze, e… Dio, quanto m’ annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso… Mi mancava perfino il puzzo dell’ incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c’ erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v’ è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer). Santiddio! (Ci risiamo).

Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c’ è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l’ Italia. E io l’Italia non gliela regalo. (Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, 2014, 161 pagine)

·        Si commissariano i miracoli.

Lourdes, il Papa commissaria i miracoli. Francesco invia un delegato anche in Francia: "Non prevalga l'aspetto finanziario". Fabio Marchese Ragona, Venerdì 07/06/2019, su Il Giornale. Dopo Medjugorje, Papa Francesco commissaria anche Lourdes e invia un suo delegato per curare l'aspetto pastorale del centro mariano francese, dove ogni anno milioni di pellegrini arrivano per pregare nella grotta dove nel 1858 la Madonna sarebbe apparsa alla contadina quattordicenne Bernadette Soubirous. Il Pontefice, come ha annunciato ieri a mezzogiorno da Lourdes monsignor Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione e delegato per i santuari, ha scelto come suo inviato monsignor Antoine Hérouard, vescovo ausiliare di Lille che, pur non lasciando la guida della propria diocesi, si occuperà anche del santuario dedicato alla Madonna. Dietro la scelta di Francesco, oltre alla necessità di restituire un aspetto più spirituale a quel luogo, c'è anche una motivazione legata alla gestione del santuario, considerata ormai troppo manageriale. Come spiega la Santa Sede, in un articolo pubblicato sul proprio portale web Vatican News, «Francesco vuole inviare un suo delegato perché si torni ad accentuare il primato spirituale nel luogo sacro senza cadere nella tentazione di sottolineare troppo l'aspetto gestionale e finanziario». In effetti, negli ultimi anni, la gestione del vescovo di Lourdes, Nicolas Jean René Brouvet, legato agli ambienti più tradizionalisti della Chiesa, aveva creato non pochi malumori anche nelle sacre stanze poiché orientata più a una visione imprenditoriale che pastorale. Non a caso il monsignore già nel 2016 aveva chiamato un manager per risanare i bilanci del santuario, scelta che pur avendo riportato i bilanci in positivo, aveva però tralasciato la cura dei pellegrini che arrivano da ogni parte del mondo. Con la novità voluta da Francesco, adesso il santuario mariano sarà affidato totalmente al delegato papale Hérouard. «Lourdes è uno dei primi santuari al mondo», spiega uno stretto collaboratore del Papa a Il Giornale, «e dev'essere rilanciato in questa nuova fase di evangelizzazione perché era stato trasformato quasi in una SpA e questo non va affatto bene». Lo stesso Papa Francesco nella sua lettera affidata a monsignor Fisichella, che negli scorsi mesi aveva effettuato delle «visite» a Lourdes, afferma: «A seguito delle verifiche desidero comprendere quali ulteriori forme il santuario di Lourdes possa adottare, per divenire sempre di più un luogo di preghiera e di testimonianza cristiana corrispondente alle esigenze del Popolo di Dio» La scelta di Bergoglio su Lourdes richiama quanto già fatto a Medjugorje, dove Francesco ha inviato nel 2017 un suo delegato, monsignor Henryk Hoser, arcivescovo emerito di Varsavia-Praga, nominato visitatore speciale a tempo indeterminato e a disposizione della Santa Sede per la parrocchia della cittadina bosniaca. Anche in questo caso, Bergoglio era intervenuto in prima persona sottraendo la gestione del luogo di culto mariano alla diocesi d'appartenenza (in questo caso quella di Mostar), dove il vescovo Ratko Peric da anni conduce una battaglia contro i presunti veggenti, bollando come false le apparizioni da loro raccontate. E proprio qualche settimana fa, Francesco ha dato il via libera ai pellegrinaggi senza però esprimersi sulle presunte apparizioni che si verificherebbero dal 1981 e diventate oggetto di studio in Vaticano. Nel caso di Lourdes, a differenza di quanto deciso per Medjugorje, il mandato del delegato papale, monsignor Hérouard, sarà limitato nel tempo e principalmente dedicato alla cura spirituale dei pellegrini.

Bergoglio commissaria Lourdes: "Santuario gestito come azienda". Papa Francesco, per combattere l'aziendalismo diffuso, ha deciso d'inviare un delegato speciale nel santuario di Lourdes: curerà le anime, ma forse è stato scelto pure per bilanciare l'azione del vescovo tradizionalista. Giuseppe Aloisi, Giovedì 06/06/2019, su Il Giornale. Questa d'inviare delegati vaticani per la "cura delle anime" nei luoghi di pellegrinaggio sembra essere divenuta una prassi. Papa Francesco aveva già predisposto qualcosa di somigliante per Medjugorje, località attorno alla quale si misurano punti di vista distanti, ma sulla quale la Santa Sede non pare disposta a cedere poi molto: non c'è ancora un pronunciamento, che rimane eventuale, del pontefice argentino sull'ufficialità del culto e sull'autenticità delle apparizioni. Il Santo Padre, in una circostanza, ha pure parlato di "mancanza di discernimento". Lì, in Bosnia-Erzegovina, risiede da qualche tempo il vescovo Hoser, che è poi stato incaricato da Jorge Mario Bergoglio in maniera permanente. Se c'è stata una svolta rispetto a quel santuario, insomma, è stata parziale. A Lourdes, invece, opererà mons. Antoine Hérouard e anche in questo caso di tratta di una riforma limitata. Trattasi di una sorta di commissariamento. La "gestione aziendale" dello storico santuario non soddisfa le aspettative del pontefice, che rivendica per quei luoghi il primato della fede. Lourdes, quindi, non deve perdere di vista la sua missione, cedendo al materialismo commerciale. La notizia, come si può apprendere su La Stampa, è arrivata poco fa. C'è una differenza sostanziale: Lourdes, in maniera diversa da Medjugorje, occupa un posto preciso nella gerarchia dei luoghi sacri del cattolicesimo. Dunque la disposizione papale rischia di far discutere più del consueto. Vedremo se ci saranno reazioni di sorta da parte di chi non ama i cambiamenti. Per ora, stando sempre alla fonte citata, è possibile annoverare almeno due fattori che hanno suggerito all'ex arcivescovo di Buenos Aires di modificare, in parte, l'assetto dei consacrati.

Intanto gli attuali ecclesiastici deputati a prendersi cura dei fedeli avrebbero smarrito la retta via, derogando, come detto, all'aziendalismo. Il vescovo di Roma, nella missiva che ha inoltrato per comunicare la sua decisione, rimarca la volontà tesa a far sì che Lourdes torni a essere soprattutto un "luogo di preghiera". Poi c'è quell'aggettivo, "tradizionalista", che viene associato all'attuale vescovo incaricato, che può indicare o no l'esistenza di logiche ecclesiastiche sullo sfondo. Ma cambia poco: papa Francesco ha inviato un delegato tra i Pirenei. E questo prescinde da ogni dietrologia.

Lourdes, santuario sottratto al vescovo "troppo" cattolico. Nico Spuntoni 07-06-2019 su lanuovabq.it. Il vescovo ausiliare di Lille, Hérouard, nominato delegato pontificio a tempo determinato per la cura pastorale del santuario, è noto per le sue posizioni molto "liberal" in fatto di liturgia e dottrina, e recentemente è stato protagonista di interventi politici contro i populismi e contro Marine Le Pen. La comunicazione della Santa Sede accusa il vescovo Brouwet, che resta titolare della diocesi, di aver dato troppo spazio «all'aspetto gestionale e finanziario», ma egli, nominato giovane da Benedetto XVI, è conosciuto piuttosto per la sua ortodossia in fatto di dottrina morale e per lo spazio concesso a chi arriva a Lourdes celebrando nella forma straordinaria del rito romano. In oltre 150 anni, è la prima volta che la Santa Sede interviene su Lourdes. Lourdes come Medjugorje. Seguendo l'esempio della nomina di monsignor Hoser fatta un anno fa per la situazione della cittadina bosniaca, papa Francesco ha scelto di inviare un suo delegato per la cura pastorale dei pellegrini anche nel centro mariano francese. In quest'ultimo caso, però, a differenza del noto precedente, l'incarico non sarà a tempo indeterminato. La decisione del papa, in un articolo scritto su VaticanNews dal direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, Andrea Tornielli, viene attribuita alla sua intenzione di "accentuare il primato spirituale rispetto alla tentazione di sottolineare troppo l’aspetto gestionale e finanziario". Come chiarito dal vaticanista veneto, il mandato del delegato sarà limitato soltanto al santuario, mentre la diocesi rimarrà sotto la guida di monsignor Nicolas Brouwet. Una precisazione sottolineata dallo stesso vescovo che, in una nota ufficiale, ha ricordato come questa nomina non cambierà nulla nella vita diocesana ed andrà a toccare solamente la vita del santuario. Per rafforzare ulteriormente questa distinzione, il presule ha anche fatto notare che "la cura pastorale dei santuari e la pastorale delle diocesi sono due cose diverse". Non c'è dubbio, però, che il santuario mariano rivesta un ruolo più che importante nella vita della diocesi di Tarbes, attirando nel centro sui Pirenei oltre un milione di pellegrini ogni anno. Fino ad oggi il vescovo ha ricoperto la funzione di responsabile spirituale, detenendo nelle sue mani, inoltre, il potere di nomina del rettore. Con la decisione presa da Francesco sarà, invece, il delegato “ad nutum Sanctae Sedis” ad assumere la cura pastorale dei pellegrini. Per l'incarico è stato designato monsignor Antoine Hérouard, attualmente vescovo ausiliare di Lille e presidente della Commissione affari sociali della Comece, la Commissione degli episcopati dell'Unione europea. La sua nomina appare indebolire non di poco, dunque, il peso del vescovo di Tarbes. Quello di Hérouard, inoltre, è un profilo non poco diverso da quello di Brouwet. Il neo-delegato, ex rettore del Pontificio seminario francese a Roma, si è distinto anche nel passato molto recente per un orientamento piuttosto "liberal": lo ha dimostrato con il suo attivismo prima e dopo le elezioni europee, partecipando ad incontri (in due occasioni con Enrico Letta e Francois Hollande) e rilasciando dichiarazioni in cui si metteva in primo piano il timore per la crescita dei populismi, si attribuiva la vittoria del partito di Marine Le Pen in Francia ad una visione distorta sull'immigrazione e si sottolineava il ruolo delle comunità religiose per sensibilizzare i cittadini sull'importanza dell'Unione Europea. In una recente intervista a "La Croix", monsignor Hérouard ha anche sostenuto che il dibattito sulle radici cristiane dell'Europa "non è più di attualità". Un profilo piuttosto distante da quello di monsignor Nicolas Brouwet, formatosi all'Istituto Giovanni Paolo II per il matrimonio e la famiglia e più attento a riaffermare l'insegnamento della dottrina morale cattolica nell'esercizio del suo ministero episcopale. Il vescovo di Tarbes e Lourdes, inoltre, nominato giovanissimo nel 2012 da Benedetto XVI, ha dimostrato in questi anni una sensibilità liturgica tradizionale e si è fatto apprezzare anche dai gruppi che curano la celebrazione della Santa Messa nella forma straordinaria del rito romano, accogliendo con benevolenza i loro pellegrinaggi presso il santuario di Lourdes. Monsignor Hérouard, invece, non ha problemi a mostrarsi in pubblico in giacca e cravatta e sembra prediligere la modernità nella scelta dei paramenti, caratteristiche notoriamente poco gradite ai gruppi d'impostazione liturgica più tradizionale. Il tempo dirà se il cambio di guardia nella guida pastorale dei pellegrini comporterà delle modifiche rispetto a quanto si è visto fino ad oggi. Intanto, dall'articolo di Tornielli a commento della nomina del nuovo delegato pontificio sembrerebbe emergere che all'origine della decisione ci sia l'eccessivo spazio attribuito all'"aspetto gestionale e finanziario" nella conduzione del santuario. Un rilievo che non trova riscontro nelle testimonianze di chi frequenta assiduamente Lourdes; c'è da ricordare invece che proprio la gestione di monsignor Brouwet è riuscita a raggiungere risultati importanti: infatti, dopo quasi un decennio di conti in rosso, il santuario ha chiuso il bilancio del 2018 addirittura con un surplus di 200 mila euro. Un risultato raggiunto grazie al piano di risanamento operato da Guillaume de Vulpian, l'ex dirigente della Renault chiamato a Lourdes dal Vescovo della diocesi quattro anni fa. Un'operazione, peraltro, portata a compimento soprattutto grazie alla riduzione e alla razionalizzazione delle spese e nonostante il calo del turismo in Francia a seguito degli attentati degli ultimi anni. La nomina del delegato da parte del papa rappresenta un precedente rilevanteanche sul piano storico: nel caso delle apparizioni, infatti, la loro veridicità proviene dal riconoscimento del vescovo della diocesi competente. È quanto avvenne anche nel caso di Lourdes con il decreto emanato il 18 gennaio 1862 dall'allora vescovo di Tarbes, monsignor Bertrand-Sévère Laurence. E su Lourdes in oltre 150 anni non c'è mai stato alcun intervento della Santa Sede, il che spiega anche il carattere di eccezionalità di questo intervento del papa che avoca a sé la gestione pastorale del luogo dell'apparizione, "sottraendolo" alla diocesi locale competente. Nico Spuntoni

La "cura" di Papa Francesco per i luoghi di Maria. Lourdes come Medjugorje, un inviato dal Pontefice. Papaboys.org 6 Giugno 2019. È monsignor Antoine Hérouard, vescovo ausiliare di Lille. L’annuncio è stato dato nel santuario francese dall’arcivescovo Rino Fisichella, Presidente del Pontificio consiglio per la Nuova Evangelizzazione. La decisione – scrive Andrea Tornielli su Vaticannews – è in linea con quella già presa nel 2017 per Medjugorje: Papa Francesco tiene in modo particolare alla cura dei pellegrini e desidera che i centri di devozione mariana diventino «sempre di più un luogo di preghiera e di testimonianza cristiana corrispondenti alle esigenze del popolo di Dio». Questo si legge nella lettera che il Pontefice ha inviato a monsignor Antoine Hérouard, vescovo ausiliare di Lille, comunicandogli la decisione di nominarlo delegato “ad nutum Sanctae Sedis” (cioè a disposizione della Santa Sede) per il santuario di Lourdes. La lettera papale è stata letta nel piccolo centro dei Pirenei, luogo di una delle apparizioni mariane più popolari della storia, di fronte ai cappellani e ai responsabili amministrativi del santuario. L’ha resa pubblica a mezzogiorno di giovedì 6 giugno l’arcivescovo Rino Fisichella, Presidente del Pontificio consiglio per la Nuova Evangelizzazione, il dicastero che da due anni ha ricevuto da Francesco l’incarico di valorizzare la pastorale dei santuari. Da quanto si apprende dalla lettera, lo stesso Fisichella ha svolto nei mesi scorsi una missione come “inviato speciale” presso il santuario che ogni anno vede arrivare milioni di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. «A seguito delle verifiche» condotte da Fisichella, scrive il Papa, «desidero comprendere quali ulteriori forme il santuario di Lourdes possa adottare, oltre alle molteplici già esistenti, per divenire sempre di più un luogo di preghiera e di testimonianza cristiana corrispondente alle esigenze del Popolo di Dio». Il mandato del vescovo Hérouard, che non lascerà il suo incarico a Lille, sarà limitato al solo santuario, mentre la diocesi di Tarbes e Lourdes rimarrà affidata al vescovo Nicolas Jean René Brouwet. Da notare il fatto che la nomina del delegato non è a tempo indeterminato (come invece è stata quella di monsignor Hoser a Medjugorje) e ciò significa che, nelle intenzioni, non si tratta di un incarico permanente ma a tempo, finalizzato alla cura pastorale e spirituale dei pellegrini. Papa Francesco, che tiene molto a questa cura, desidera accentuare il primato spirituale rispetto alla tentazione di sottolineare troppo l’aspetto gestionale e finanziario, e vuole promuovere sempre di più la devozione popolare che è tradizionale nei santuari. Nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” il Papa aveva scritto che «nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi». Francesco continuava citando il Documento di Aparecida, contenente le conclusioni della riunione dell’episcopato latinoamericano tenutasi del più importante santuario mariano del Brasile. E ricordava «le ricchezze che lo Spirito Santo dispiega nella pietà popolare con la sua iniziativa gratuita” affermando che “il camminare insieme verso i santuari e il partecipare ad altre manifestazioni della pietà popolare, portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé stesso un atto di evangelizzazione. Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa forza missionaria!».

“BERGOGLIO È UN IPOCRITA. SA CHE MEDJUGORJE È UNA BUFALA MA NON LO DICE”.  Da “la Zanzara – Radio24” il 13 giugno 2019. “Il Papa è simpatico perché ateo. E’ proprio il primo Papa ateo che abbiamo. Però, da ateo, non impedisca ai cristiani di usare il crocifisso”. Lo dice Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24. “Lui – dice ancora Sgarbi – è talmente ipocrita e anche lucido, da sapere che Medjugorje è una bufala. Come tutti noi. Però ha avuto paura di dirlo, perché è pieno di gente che crede a queste cose, gente che ci crede. Se dice che Medjugorje è una bufala, si inimica metà Chiesa. Sa che è una buffonata, anche perché non s’è mai visto che la Madonna non appare mai a Cacciari, Umberto Eco, a voi e invece appare solo a delle pastorelle ignoranti, le quali vedono la Madonna e poi comunicano che l’hanno vista. Questo è Medjugorje. E lui lo sa benissimo. Perché la Madonna non appare direttamente al Papa? La Madonna appare al Papa, e dice: Papa, sono qua. No, appare ad un pastorello bosniaco del buco del culo che sta lì davanti alla Madonna e vede la Madonna”. “Quando ero sindaco a Salemi – dice ancora - volevo inventare la Grotta del Porco, come una grotta in cui appare la Madonna. Prendiamo due ragazzi, gli facciamo dire che vedono la Madonna, però la Madonna non appare mai ai cardinali, ai preti, ai santi, al Papa, mai a te, mai a me, ma a della gente improbabile che sta lì. I pastorelli, oppure Brosio, c’è tanta gente da scegliere. Perché non appare a Fazio? No, appare a Brosio. Dai, su”. “Siccome il Papa è gentile - aggiunge - sa che se dice che non c’è Medjugorje, a Brosio viene l’infarto, e piuttosto che fargli venire l’infarto, tace. Ma sa perfettamente, lo dica il Papa, cosa pensa di Medjugorje. Sia sincero. Attacchi Salvini? Attacca anche Medjugorje. Abbi il coraggio, caro Papa. Abbi il coraggio di dire che cosa è. Lo sai perfettamente. Una buffonata? Dillo, dillo che è un’invenzione”.

Quelli che rosicano per il Papa su Medjugorje. Giovanni Drogo il 16 Maggio 2017 su nextquotidiano.it. Durante il viaggio di ritorno da Fatima Papa Francesco è tornato sulla questione delle apparizioni della Madonna a Medjugorje. Il Papa ha sostanzialmente bocciato (per la seconda volta) le apparizioni a comando e le visioni programmate dei veggenti del santuario bosniaco. A Medjugorje infatti la Madonna appare in giorni ed orari prestabiliti secondo la volontà dei veggenti. In un caso un veggente ha chiesto – e ottenuto – dalla madre di Gesù di non avere visioni durante un volo intercontinentale “per non spaventare i passeggeri”. Il Papa lo ha detto chiaramente: “le presunte apparizioni non hanno tanto valore”. Il Pontefice ha aggiunto una critica anche a chi pensa che la Madonna dica “venite che domani alla tale ora dirò un messaggio a un veggente”. Niente di nuovo per la verità perché è un pensiero che circa due anni fa il Papa aveva detto che Medjugorje non è una cosa seria. Papa Francesco ha detto che la Commissione dovrà effettuare ulteriori accertamenti sulle prime apparizioni. Questo vuol dire che al momento nemmeno le primissime apparizioni, quelle che risalgono al 1981 quando i veggenti erano ragazzi, sono ritenute certe e affidabili. Il Papa quindi sembra porsi sulla stessa linea del Vescovo di Mostar che due mesi fa aveva detto che la Madonna di Medjugorje è un imbroglio. Curiosamente invece per Paolo Brosio, giornalista da tempo incamminato sulla strada della redenzione, il Papa ha espresso “un giudizio positivo sulle prime apparizioni”. In realtà il Papa ha solo detto che bisogna indagare ancora ma solo su quelle. Per quelle degli ultimi 36 anni invece il giudizio del Papa è inappellabile. Ma anche in questo caso Brosio trova modo di salvare Medjugorje. Ospite a Mattino Cinque Brosio ha detto che il Papa “parla a titolo personale“. Un altro giornalista esperto di apparizioni mariane è Antonio Socci, uno che crede che la Chiesa stia nascondendo l’esistenza di un quarto segreto di Fatima. Su Libero di oggi Socci descrive le parole del Papa sulle apparizioni come un “bombardamento” su Medjugorje. Socci però è più lucido di Brosio e si accorge che il Pontefice sulle prime apparizioni non ha dato un giudizio positivo: “non ha detto che le prime apparizioni furono autentiche, ma che c’è materiale su cui investigare”. Ma quello che getta Socci nello sconforto più assoluto è il fatto che così facendo il Papa toglie ai fedeli apparizioni e miracoli ovvero ciò di cui hanno bisogno. Per Socci si tratta di un chiaro disegno delle gerarchie ecclesiastiche. Scrive Socci: “Bergoglio e l’establishment modernista oggi al potere in Vaticano disprezzano questa religiosità”. Secondo questa straordinaria lettura la denuncia di una truffa miliardaria diventa invece il modo per attaccare il cuore del cattolicesimo e della devozione popolare. Forse è proprio come scrive il pope/psicologo Alessandro Meluzzi: Papa Francesco è un antipapa e Benedetto XVI è prigioniero in Vaticano. Anche Adriano Celentano non ha resistito dal farci conoscere la sua opinione sull’uscita del Papa su Medjugorje. In un post sul suo blog il Molleggiato definisce quella di Bergoglio “una svista”. Il predicatore televisivo noto per avere sempre in tasca un’opinione su cose di cui non sa nulla ci spiega che il Papa ha commesso un piccolo errore nel dire che la Madonna non fa la postina o la telegrafista. E se invece fosse vero? Come io credo. Non pensa invece che (per chissà quali fini ora a noi sconosciuti) potrebbe essere una Sua Celestiale strategia l’aver scelto quei sei ragazzi e avere con loro degli incontri giornalieri e, di proposito, sempre alla stessa ora?… E se fosse questa la piccola “SVISTA” del Papa?… Sarebbe bellissimo se lei, anche di nascosto, incontrasse le veggenti. Forse a lei direbbero qualcosa di sorprendente che nessuno ancora sa… e che solo lei potrebbe spiegarci!!! Celentano sembra credere che in realtà sia proprio vero che la Madonna appare tutti i giorni alla stessa ora. Come si potrebbe dubitare della Madonna, se ha deciso di fare così ci sarà un motivo. Il punto è che il Papa non dubita della Madonna ma di quelle sei persone, che sono esseri umani come tutti noi. È innegabile che Medjugorje sia una meta di pellegrinaggi molto frequentata. Ci va pure il padre di Matteo Renzi. Ma questo è un altro discorso, perché il Papa non ha messo in dubbio la fede delle persone che si recano a Medjugorje ma ha detto che lui non crede che la Madonna si comporti così. Vale la pena di ricordare che i veggenti fanno alla Madonna ogni sorta di richieste e lei ubbidisce sempre. Non risulta invece che la Madonna abbia mai chiesto ai veggenti di donare le loro ricchezze ai poveri. Curioso no? Ma perché il Papa preferisce Fatima a Medjugorje? Qualcuno sembra aver scoperto il motivo: Fatima “ha più assonanza con l’Islam”. Forse che il Papa vuole aprire al mondo musulmano? A quanto pare c’è una divertente teoria secondo la quale c’è chi vorrebbe utilizzare i messaggi della Madonna di Medjugorje “in funzione anti-islamica” così come quelli della Madonna di Lourdes furono usati “contro i massoni” e quelli di Fatima “contro i comunisti”. Ma Bergoglio questo lo vuole evitare, per quello si è recato al Cairo per stringere un patto con i musulmani. Il mistero di Fatima continua, quello di Medjugorje probabilmente è agli sgoccioli.

Il Papa su Medjugorje: "Mancanza di discernimento". Papa Francesco, all'interno di un libro di un padre brasiliano, parla ancora di Medjugorje. Dio avrebbe concesso la "grazia" a quel luogo, ma mancherebbe qualcosa in termini di "discernimento". Il pontefice distingue pure tra "locuzioni" e "apparizioni". Sembrerebbe complicarsi la strada che porta al riconoscimento ufficiale. Giuseppe Aloisi, Domenica 21/10/2018, su Il Giornale. Le presunte apparizioni di Medjugorje non sono ancora state riconosciute in maniera ufficiale dalla Santa Sede. Non è affatto detto che lo saranno in futuro, ma un libro che sta per uscire in Brasile sembra destinato a chiarire quale sia il pensiero di Bergoglio su quanto accadrebbe, da quasi quarant'anni, nella località della Bosnia ed Erzegovina. Papa Francesco, a maggio scorso, ha reso permanente la presenza dell'arcivescovo Hoser. Quello che avrebbe parlato, nel corso di un'omelia pronunciata a Varsavia, dell'interesse delle mafie napoletane per le attività del santuario. Molti hanno interpretato questa mossa del pontefice come una possibile "svolta" in vista di una pronuncia sulla veridicità del culto. L'opera, che si intitola "E' mia madre", non è firmata da un uomo qualunque: a discutere con il papa delle apparizioni è stato, come si legge su Aleteia, padre Alexandre Awi Mello, che è un membro del dicastero per i laici, la famiglia e la vita. L'autore del libro opera quindi in Vaticano. Le parole del Santo Padre vanno analizzate alla luce di questa premessa: non sono dichiarazioni raccolte per caso. Il pontefice argentino, nel dialogo, svela di essersi opposto, quand'era arcivescovo di Buenos Aires, a un incontro tenutosi nella sua diocesi con uno dei veggenti: "L’ho fatto - si legge - perché uno dei veggenti avrebbe parlato e avrebbe spiegato un po’ tutto e alle quattro e mezza sarebbe apparsa la Madonna. Cioè lui aveva l’agenda della Madonna. Allora ho detto: no, non voglio qui questo tipo di cose. Ho detto di no, no in chiesa". In questi virgolettati sembrano riecheggiare le affermazioni del papa sulla "Madonna madre" e non "Madonna capo di un ufficio telegrafico", pronunciate sul volo di ritorno da un viaggio in Portogallo, nel 2017. Non è da oggi che l'ecclesiastico argentino sembra voler beneficiare del dubbio rispetto a tutto quello che viene raccontato su Medjugorje. Bergoglio, all'interno di un altro passaggio, ammette: "Bisogna distinguere, però, perché, nonostante questo, Dio fa miracoli a Medjugorje. In mezzo alle pazzie dell’uomo, Dio continua a fare miracoli. Forse ci sono fenomeni più personali. Mi arrivano delle lettere qui, ma si capisce che sono cose più che altro psicologiche. Bisogna distinguere bene le cose". Leggendo il libro di Mello è possibile comprendere a pieno quale siano le perplessità del pontefice: "Il discorso delle apparizioni (…) – sottolinea Bergoglio, tornando a parlare di Medjugorje – cerca di vederlo dal lato della locuzione interna. Allora, è ovvio che si va da un estremo all’altro. A volte quella locuzione si materializza quasi in una visione e, altre volte, può essere una semplice ispirazione". Dio avrebbe concesso a quel luogo la "grazia" della conversione, ma qualcuno mancherebbe in discernimento. Poi l'approfondimento del Santo Padre sul ruolo dei presunti veggenti: "Per esempio, quelle persone sentono che la Madonna dice loro qualcosa, nella preghiera avviene una locuzione e allora dicono: 'La Madonna mi ha detto questo…'. Certo - spiega - , lo esprimono in un modo che sembra che sia stata davvero un’apparizione. Ma da qui a dire che i veggenti siano protagonisti e organizzino apparizioni programmate... Questo è il peccato che può accompagnare una grande grazia". Dopo la pubblicazione di queste riflessioni, diviene sempre più improbabile immaginare che il papa proceda con l'identificare le cosiddette "apparizioni" con delle vere e proprie manifestazioni mariane.

Cosa succede a Medjugorje (Socci). Dall’introduzione del libro di Antonio Socci “Mistero Medjugorje”. Cosa sta accadendo a Medjugorje? E’ una misteriosa vicenda iniziata alle 17,45 di mercoledì 24 giugno 1981. Si crede di saperne quanto basta, ma non è così. La maggior parte ignora, per esempio, che oggi questa storia è tutt’altro che conclusa, anzi pare sia solo agli inizi perché promette sviluppi sconvolgenti proprio nei prossimi anni. Medjugorje (pronuncia: Megiugorie), paesino dell’Erzegovina sperduto e sconosciuto a tutti, è diventato uno dei luoghi più visitati della terra. Solo dal 1981 al 1990 venti milioni di persone sono andati là pellegrini, nonostante le difficoltà del viaggio, i problemi (a quel tempo) del regime e l’assenza di pellegrinaggi ufficiali. Vittorio Messori ha definito questo fenomeno come “il maggior movimento di masse cattoliche del postconcilio” (ma in realtà l’afflusso non si è limitato ai cattolici: è arrivata là gente di tutti i tipi). Addirittura il papa avrebbe detto a un vescovo: “Medjugorje è il centro spirituale del mondo”. Ma davvero una giovane donna bellissima, che afferma di essere la madre di Cristo, appare ogni giorno da 23 anni a sei ragazzi di questo villaggio? E cosa accade nel corso di queste apparizioni? Che si sa dei “dieci segreti” che sarebbero stati consegnati ai veggenti e che riguardano il destino del mondo nei prossimi anni? Si tratta di “segreti” analoghi a quelli di Fatima? I vescovi dell’Oceano indiano che il 24 novembre 1993 furono ricevuti dal Papa e s’intrattennero con lui a cena, riferirono in seguito che la conversazione finì a un certo momento su Medjugorje e il Santo Padre avrebbe detto: “Questi messaggi sono la chiave per comprendere ciò che avviene e ciò che avverrà nel mondo”. Secondo padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria e autore di molti importanti libri su Medjugorje, la gravità di ciò che si annuncia in quei segreti, insieme all’appello accorato alla conversione, è l’unica spiegazione possibile di un fatto così eccezionale come la permanenza quotidiana sulla terra della Madonna per più di 23 anni. Dunque da Medjugorje arriva qualcosa di enorme e di decisivo per il nostro futuro prossimo e remoto, oppure – come affermano alcuni – siamo di fronte al più grande imbroglio della storia cristiana? E’ possibile inventare e far crescere una truffa di tali dimensioni planetarie? Sono andato, con queste domande in testa, a vedere, a indagare, per capire. Innanzitutto ho tentato, per quanto possibile, di ricostruire i fatti degli inizi, giorno per giorno, secondo le testimonianze (ricchissime di particolari, essendo tutti i protagonisti viventi, ma molto spesso imprecise e contraddittorie nei dettagli temporali, come accade normalmente quando tanta gente si trova contemporaneamente al centro di eventi molteplici e travolgenti e poi riferisce ciò che ricorda). Ho provato a fare una ricostruzione come una normale inchiesta giornalistica, cioè dando credito ai testimoni. Poi ho proseguito chiedendomi se la storia è attendibile e i testimoni sono credibili, ovvero se ci sono indizi seri che accade loro davvero qualcosa di soprannaturale: il responso della scienza in proposito è impressionante. Infine mi sono domandato quale sia il senso di tutto, il disegno, la trama segreta. E soprattutto ho cercato di capire cosa potrà accadere di qui a poco: non a Medjugorje, ma al mondo, a tutti noi. Se veramente un pericolo mortale ci sovrasta. Naturalmente questo è solo un contributo imperfetto alla scoperta della verità. Non voglio convincere nessuno di nulla perché io stesso ho iniziato questo viaggio senza certezze precostituite, aperto a ciò che avrei trovato, qualunque verità fosse. Tantissime cose non hanno potuto trovar posto in questo libro. Ho tralasciato molti aspetti anche importanti per concentrarmi sull’essenziale. Ci sono cose che a me sono sembrate incomprensibili e controverse e aspetti sconcertanti (così come trovo egualmente sconcertanti alcuni dettagli delle apparizioni di Fatima o La Salette), ma mi interessava indagare soprattutto su una cosa: la Madonna è veramente apparsa e sta tuttora apparendo a Medjugorje? Ed eventualmente perché? Con quale missione? Cosa dobbiamo aspettarci e cosa dobbiamo fare? Ciò che ho scoperto ha sorpreso e impressionato me per primo: il mondo, tutta l’umanità, è in pericolo, un pericolo mai vissuto dal genere umano nella sua storia, un pericolo che neanche riusciamo a immaginare e che è imminente. Certo, si può non credere a questo prezioso avvertimento preventivo. Forse è perfino logico liquidare il tutto con un sorriso scettico. Ma se l’apparizione di Medjugorje e il suo accorato appello a mettersi in salvo sono autentici?(…) Dal Capitolo 17 (…) Ancora più clamoroso il caso di Diana Basile. Questa signora, nata nel 1940, sposata con figli, impiegata a Milano, nel 1972 si ammala di sclerosi multipla. Si tratta di una grave malattia del sistema nervoso centrale, con decorso cronico e progressivo. Per dodici anni la signora Basile va peggiorando sempre più: ricovero dopo ricovero e analisi dopo analisi. Quando, il 23 maggio del 1984 viene portata a Medjugorje, è pressoché impossibilitata a camminare e completamente cieca all’occhio destro con mille altre tremende complicanze. Quel giorno dev’essere aiutata da due persone perfino a salire le scale dell’altare della chiesa: si trova faticosamente nella stanzetta delle apparizioni. Ed ecco il suo racconto: “Mi butto così in ginocchio, vicino all’ingresso. Quando i ragazzi a loro volta si inginocchiano (l’istante dell’arrivo della Madonna, nda), io mi sento come folgorare, odo un gran rumore, poi più nulla… Solo una gioia indescrivibile. Ho rivisto allora come in un film alcuni episodi della mia vita che avevo completamente dimenticato. Alla fine dell’apparizione mi metto inspiegabilmente a camminare da sola, prima adagio e poi sempre più agevolmente, con sicurezza, diritta come tutti gli altri… gli altri, quelli che mi conoscevano, mi abbracciano piangendo. Più tardi, rientrata in albergo, constato di essere tornata perfettamente continente, con sparizione della dermatosi e di aver riottenuto la possibilità di vedere con l’occhio destro, che è ridiventato normale, dopo ben dieci anni!”. Il giorno dopo, la signora Diana, per ringraziamento, fa addirittura un pellegrinaggio, a piedi nudi, di dieci chilometri da Ljubuski, dove è il suo albergo a Medjugorje e poi è salita da sola sopra al Podbrdo sassoso e impervio. Un caso semplicemente strepitoso. Il professor Spaziante che alla vicenda della signora Basile ha dedicato lunghi studi, riassume il fatto: “Una malattia grave, seria, di lunga durata, resistente alle cure, che è scomparsa in un attimo. La guarigione della signora Basile Diana si presenta completa, perfetta, sia dal punto di vista organico e funzionale che dal punto di vista psichico e sociale”. Alcune centinaia di documenti medici, sul prima e sul dopo (con la testimonianza su ciò che è accaduto all’apparizione) sono stati depositati dalla signora agli Uffici parrocchiali di Medjugorje e alla diocesi di Mostar. Il medico – dopo aver studiato per anni su questi referti clinici – annota esterrefatto: “Per me resta un quesito: com’è possibile che fasci di fibre nervose che collegano miliardi di neuroni, da anni gravemente danneggiati per la sclerosi multipla possano riabilitarsi così repentinamente? E’ come se qualcuno avesse sparato con un mitra dentro un computer sofisticato, con milioni di valvole, e ne avesse danneggiato le fini connessioni irreparabilmente. E, d’un tratto, tutto di nuovo diventa perfettamente funzionante… Mi piace ricordare l’avvertimento di Alexis Carrel, un genio della medicina: "Cercate laggiù! A Lourdes succedono cose inverosimili…". Forse è lo stesso per Medjugorje”. Si possono avere mille teorie contro Medjugorje, contro le apparizioni e contro i miracoli, si può essere laicamente certissimi che tutto questo “non può” accadere nel modo più assoluto. Però è accaduto e accade e “contra factum non valet argomentum”. Almeno per noi “razionalisti”.

La demolizione di Medjugorje di Antonio Socci 14 maggio, 2017. La clamorosa demolizione di Medjugorje fatta da papa Bergoglio, sul volo di ritorno da Fatima, è arrivata con gli effetti di una “bomba”. Ma vediamo precisamente cos’ha detto perché già certi “pompieri” stanno cercando di minimizzare, sopire e troncare: sono quelli che finora hanno sostenuto che la “Madonna di Medjugorje” era entusiasta di Bergoglio e Bergoglio era entusiasta della “Madonna di Medjugorje”…. Dunque alla domanda sull’autenticità delle apparizioni nel villaggio bosniaco, Bergoglio ha risposto:

PRIMO. LA COMMISSIONE RUINI. “E’ stata fatta una commissione presieduta dal Cardinale Ruini…. Una commissione di bravi teologi, vescovi, cardinali. Il rapporto-Ruini è molto, molto buono… si devono distinguere tre cose. Sulle prime apparizioni, quando [i “veggenti”] erano ragazzi, il rapporto più o meno dice che si deve continuare a investigare”.

ATTENZIONE: QUI PAPA BERGOGLIO NON RIVELA CHE LA COMMISSIONE RUINI HA DATO PARERE FAVOREVOLE ALL’AUTENTICITA DELLE PRIME APPARIZIONI, MA CHE LA COMMISSIONE RITIENE CHE CI SIA MATERIA PER CONTINUARE A INVESTIGARE.

SECONDO: LE APPARIZIONI SUCCESSIVE E ODIERNE. “Circa le presunte apparizioni attuali, il rapporto ha i suoi dubbi. Io personalmente sono più ‘cattivo’: io preferisco la Madonna madre, nostra madre, e non la Madonna capo-ufficio telegrafico che tutti i giorni invia un messaggio a tale ora… questa non è la mamma di Gesù. E queste presunte apparizioni non hanno tanto valore. E questo lo dico come opinione personale. Ma chi pensa che la Madonna dica: ‘Venite che domani alla tale ora dirò un messaggio a quel veggente’; no”.

DUNQUE SULLE APPARIZIONI SUCCESSIVE E ODIERNE IL RAPPORTO RUINI E’ SCETTICO (A DIFFERENZA DELLE PRIME, NON C’E’ NEMMENO MATERIA PER INVESTIGARE). MA BERGOGLIO DICHIARA CHE LUI E’ ANCHE “PIU’ CATTIVO” E CHE – A SUO GIUDIZIO – “QUESTA NON E’ LA MAMMA DI GESU’ “.

TERZO: LUOGO DI CONVERSIONE. “Il nocciolo vero e proprio del rapporto-Ruini: il fatto spirituale, il fatto pastorale, gente che va lì e si converte, gente che incontra Dio, che cambia vita… Per questo non c’è una bacchetta magica, e questo fatto spirituale-pastorale non si può negare. Adesso, per vedere le cose con tutti questi dati, con le risposte che mi hanno inviato i teologi, si è nominato questo Vescovo – bravo, bravo perché ha esperienza – per vedere la parte pastorale come va. E alla fine, si dirà qualche parola”.

QUI IN SOSTANZA BERGOGLIO RICONOSCE CHE TANTI, ANDANDO A MEDJUGORJE, SI CONVERTONO, MA PUO’ ACCADERE DOVUNQUE, HA DETTO IN RIFERIMENTO A FATIMA. POI AGGIUNGE CHE OCCORRE ORGANIZZARE UNA PASTORALE ADEGUATA. SENZA TUTTO IL CONTESTO DELLE “APPARIZIONI” E DEI “MESSAGGI” CHE BERGOGLIO HA SPAZZATO VIA PRIMA, CON DUREZZA INUSITATA E PERFINO CON SARCASMO.

A questo punto faccio una breve considerazione: la stroncatura di Bergoglio è devastante. Quella della Commissione Ruini è parziale, ma, anche continuando a investigare e arrivando alla conclusione che le prime apparizioni furono autentiche, resterebbe il problema di sentir dire dalla Chiesa che dopo (da quando? Per quanti anni?) le apparizioni non sono state autentiche.

ADESSO, PER COME SI SONO MESSE LE COSE CON L’IRRITUALE E PESANTE (NELLE MODALITA’) PRONUNCIAMENTO AEREO DI BERGOGLIO, LA CHIESA DOVRA’ PRONUNCIARSI SULLE APPARIZIONI IN QUANTO TALI E NON POTRA’ ELUDERE IL PROBLEMA, FINGENDO CHE SI TRATTI SOLO DI ORGANIZZARE LA PASTORALE DELLA PARROCCHIA DI MEDJUGORJE. INOLTRE IERI E’ VENUTO AL PETTINE IL NODO BERGOGLIO/MEDJUGORJE.

Nei mesi scorsi più volte Bergoglio ha fatto battute sarcastiche sulla “Madonna postina”e sui suoi “presunti messaggi”. Ma certi medjugorjani fan di Bergoglio negavano rabbiosamente che si riferisse a Medjugorje: asserivano che egli aveva di mira altre “false apparizioni” e ovviamente attaccavano chi diceva il contrario (come il sottoscritto) perché sarebbe stato malevolo e in malafede. Oggi che Bergoglio stesso ha confermato che si riferiva proprio a Medjugorje si sentirà qualcuno di loro scusarsi e riconoscere di essersi sbagliato?

Infine un’altra osservazione. C’è un presunto “messaggio” (uno solo, per la verità), in cui uno dei presunti veggenti attribuisce alla Madonna parole di grande stima e favore per “il Santo Padre” (è dell’agosto 2014). Più d’uno ha sollevato grossi dubbi su questo messaggio (anche per i termini usati, che non risultano credibili), ma quei medjugorjani fan di Bergoglio, incuranti dei dubbi, hanno subito “cavalcato” tale messaggio usandolo come una clava morale da dare in testa a coloro che criticano il papa argentino: secondo loro quel “messaggio” sarebbe la prova che la Madonna è un’altissima ammiratrice dell’attuale vescovo di Roma. E quindi la Madonna avrebbe tappato duramente la bocca ai critici. Beh, adesso proprio il vescovo di Roma viene a dirci che lui non crede né a queste apparizioni né a questi messaggi, ironizzando sulla “Madonna postina”. Mi chiedo dunque come faranno costoro: se è Bergoglio stesso a dirci che non è vero che la Madonna si è espressa così su di lui, quei papolatri vorranno “disobbedire” a Bergoglio? Infine vorrei sapere cosa pensano i sei “veggenti” delle dichiarazioni di Bergoglio: che spiegazioni danno? Vorrei sentire soprattutto un paio di loro che, nei mesi scorsi, hanno duramente attaccato me (e altri) per aver espresso critiche su Bergoglio…Antonio Socci

·        Senza Identità. La Guerra dei Trent'anni sul velo islamico. Ma l'Europa è ancora cristiana? Non per molto.

La Guerra dei Trent'anni sul velo islamico. Lorenzo Formicola, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. Era l'autunno del 1989. E se a Berlino il Muro stava per cadere, nell'Europa tutta s'ergeva la potenza dell'islam sotto le spoglie del velo. Trent'anni fa, oggi, iniziava proprio «la querelle del velo». A Creil, lo stesso anno della fatwa contro i Versi satanici di Salman Rushdie, tre liceali si rifiutavano di togliere il velo in nome del rispetto per la loro religione, l'islam. E nel Paese della laicité iniziava, ufficialmente, l'eterno scontro con l'islam politico. Leila, Fatima e Samira vennero escluse dalle lezioni per l'ostentata pretesa di coprire il capo in nome di Allah. Una decisione, quella del preside del Gabriel-Havez, che fece davvero prestissimo, e contro ogni previsione, a finire al centro dei dibattiti: un pezzo di stoffa di cui davvero pochi avevano parlato fino a quel momento, inaugurava la rivoluzione islamica in Europa. Les tchadors de la discorde, fu il pezzo del 9 ottobre 1989 pubblicato su Le Figaro nel quale il corrispondente di allora aveva raccolto le esternazioni delle adolescenti nell'ufficio del preside: «Siamo pazze di Allah, non ci toglieremo mai il velo: lo terremo fino alla morte». Il preside del liceo di Creil, Ernest Chénière, giudicò quel gesto eversivo come un attentato contro il secolarismo, richiamò le ragazze, convocò il consiglio di amministrazione, scrisse una lettera per spiegare le sue ragioni. Il caso finisce sulla scrivania del ministro dell'Istruzione - che lascerà poi a presidi e professori la libertà di decidere come comportarsi: la Francia affronta il dibattito sociale più lungo della sua storia, sullo sfondo la scuola, gli attori sono delle adolescenti, la religione islamica fa da regista. Quel velo sarà il primo sasso lanciato nel mare dell'islamizzazione e i cerchi concentrici restano infiniti. A fine ottobre le studentesse torneranno in classe, ma senza velo. E viene anche chiesto loro di «interrompere ogni forma di proselitismo religioso nella scuola, di frenare il loro comportamento aggressivo specie contro gli studenti musulmani meno osservanti». Piccoli focolai s'accendono nel Paese. Da Creil fino a Marsiglia, passando per Avignone, dove, in protesta contro la sanzione a una ragazza islamica, otto studenti si presentano con il velo. L'opinione pubblica è squarciata, la classe politica tergiversa, non approfondisce, procrastina e annuncia quindi la futura codardia di fronte a quella che la storia rivelerà essere stato il primo vagito dell'offensiva islamista in Francia. Malek Boutih, allora vicepresidente di Sos Racisme, trova «scandaloso che si possa in nome della laicità intervenire nella vita privata del popolo, per maltrattare le convinzioni personali». Danielle Mitterrand, moglie del presidente della Repubblica, difende il rispetto delle tradizioni e chiede che le ragazze velate siano accettate a scuola. Nel novembre 1989, il più alto tribunale amministrativo afferma che fintanto che non costituisce «un atto di pressione, provocazione, proselitismo o propaganda», l'espressione di credenze religiose non può essere bandita a scuola. Nel 1994 arriva la cosiddetta «circolare di Bayrou». Nel 2004 viene approvato il disegno di legge di Chirac che proibisce i simboli religiosi evidenti nelle scuole, perché la diffusione del velo sembra non avere limiti. Nel 2010, il Parlamento approva la legge che vieta il velo integrale nei luoghi pubblici. Nel maggio 2019 un emendamento vieta i simboli religiosi alle mamme che accompagnano i loro figli in gita: niente crocifissi e niente hijab. Ma insorgono le comunità musulmane. Se in Italia, infatti - dove il crocifisso forse no, lo hijab forse sì - il secolarismo è una forma di cultura che al taglio delle proprie radici storiche fa corrispondere l'odio per la propria civiltà, la «laicità» alla francese implica invece la chiusura a ogni ruolo pubblico delle religioni. E quando Macron sentenzia contro «la radicalizzazione del secolarismo» lo fa in virtù di una strategia chiara: ostracizzare il secolarismo per ergerlo a nuovo avversario, in modo che l'islam politico non sia un problema, ma la resistenza a esso, sì. Perché il problema del velo islamico sta nel fatto che non esiste una solida giustificazione religiosa per il suo utilizzo. Non è un mero simbolo religioso. Il velo è il simbolo per eccellenza del sogno di rilanciare l'islam come alternativa globale, religiosa e politica. In area islamica la femminilità da sempre viene associata alla concupiscenza. Se sei donna, allora, il preteso peccato mortale nel mostrare per esempio i capelli e il collo (parti del corpo dalle quali l'uomo non riesce a non sentirsi adescato) rischia di diventare reato. Eppure lo hijab, storicamente, non ha mai rappresentato un dogma nella religione islamica o un simbolo religioso. Nel 2004, Khaled Fouad Allam sottolineava che il bisogno di ricamare sul velo una teoria del diritto non era proprio contemplato, nell'islam classico, dai giuristi. Lo hijab, infatti, compare solo nel XIV secolo. E non si trova alcun riscontro effettivo di questa parola nel Corano. Il giurista Ibn Taymiyya è il primo a utilizzarla. E lo fa prendendo spunto da una interpretazione del versetto 31 della sura 24 del Corano. Nell'estrapolare un'affermazione, dal contenuto generico, le attribuisce valore di norma. Dall'Afghanistan al Marocco, passando per Egitto, Iran, Turchia, Tunisia, Pakistan, Giordania c'è stato un tempo in cui - fino agli anni '80 - velarsi era considerato anormale. Poi la sharia, la legge di Maometto in vigore nel VII secolo, venne implementata in molti di questi Paesi sotto una spinta reislamizzante. Quel velo voleva creare un confine che separi. In Paesi a maggioranza non musulmana può trasmettere anche un messaggio politico di occupazione del territorio e delle anime. Trent'anni dopo i fatti di Creil, il velo è ancora al centro del dibattito. Per qualcuno è diventato sinonimo di libertà. Due anni fa l'Unesco collaborava alla realizzazione di un video (poi rimosso da YouTube): «Le donne turche indossano il velo» e una bionda con gli occhi azzurri, «Anche io! È bellissimo!». Poi lo slogan, «Godetevi la differenza, praticate la tolleranza».

Ma l'Europa è ancora cristiana? Non per molto. Alessandro Gnocchi, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. Nel dibattito sulle radici cristiane dell'Europa c'è una domanda che resta sempre in sospeso. La pone Olivier Roy come titolo del suo nuovo saggio edito da Feltrinelli: L'Europa è ancora cristiana? I numeri, abbondantemente citati dal sociologo francese, non lasciano spazio a troppi dubbi: no, l'Europa non è più cristiana. Il crollo dei praticanti è netto quasi dappertutto: presto il numero dei praticanti, nell'Europa occidentale, sarà inferiore al 10 per cento della popolazione. Il 73 per cento dei francesi tra i 25 e i 34 anni giudica la religione irrilevante per la propria vita. C'è ancora una discreta percentuale di cittadini che si dichiarano cristiani senza partecipare ai sacramenti, senza avere alcuna nozione e soprattutto senza credere. Il cristianesimo dunque è diventato un riferimento identitario e per nulla religioso. Al posto della fede, abbiamo la fiducia in un gruppo di valori che discendono (dovrebbero discendere) dal cristianesimo. Ma è davvero così o quei valori sono usciti dal perimetro culturale del cristianesimo? Roy ha pochi dubbi. La secolarizzazione dell'Europa procede in parallelo alla nascita dello Stato-nazione. Lo Stato prende il sopravvento sulla Chiesa, la separazione dei poteri diventa una regola, la religione è progressivamente confinata alla sfera privata. Gli anni Sessanta sono il punto di svolta che conduce alla scristianizzazione. Per due fatti: il Concilio Vaticano II, che va incontro alla secolarizzazione; il Sessantotto, che passa come un rullo compressore sui valori tradizionali e inaugura, forse senza volerlo, l'era dell'individualismo, della soddisfazione dei desideri, del relativismo incontrastato, della fine di ogni gerarchia (nella cultura, in famiglia e ovunque), del materialismo a tutto spiano. Tutta roba inconciliabile col Vangelo ma accettata, completamente o in parte, sia da molti credenti sia da chi sventola i rosari sotto il naso degli elettori. L'immigrazione di massa dai Paesi islamici è il secondo choc culturale. Arriva in Europa una religione con una visione totalmente diversa della vita pubblica, una religione che chiede di essere riconosciuta e ascoltata. Il terrorismo islamista complica la situazione. Si aprono problemi abissali. A esempio, come si può ribadire la centralità del cristianesimo dopo aver sposato il relativismo? Che ruolo devono assumere lo Stato e l'Unione europea: arbitri imparziali o tutori della cristianità? Domande alle quali per ora nessuno ha risposto in modo organico. Nello spazio lasciato libero dalla politica si inserisce la magistratura, a partire dalla questione del velo esplosa in Francia nel 1989. Chiuso il libro resta un brutto presagio: quanto sopravvivono le civiltà che hanno perso la dimensione religiosa, nel nostro caso il cristianesimo? Cediamo la parola ad Alexis de Tocqueville, uno che distingueva bene il potere temporale da quello spirituale: «La libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi; la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come salvaguardia dei costumi; i costumi come la garanzia delle leggi e il pegno della sua durata» (La democrazia in America).

"Senza identità resta il vuoto". Lo studioso Wael Farouq: "I simboli religiosi non fanno mai male, tutto dipende dal loro uso". Luigi Mascheroni, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. Egiziano, musulmano, «milanese». Wael Farouq, docente di lingua e cultura araba all'Università cattolica di Milano, ha insegnato anche all'Università americana del Cairo e a New York e da anni studia i rapporti tra mondo arabo e la società occidentale.

Trent'anni fa in Francia scoppia la «querelle del velo», che porta al divieto di indossare il chador in classe. Da allora la proibizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici si scontra col diritto di manifestare liberamente la propria religione. Qual è la situazione, oggi?

«Che di fatto in Francia, come in Italia, si può portare il velo negli spazi pubblici. Certo, dipende dagli istituti: è a discrezione del preside. Tuttavia non è questo il punto. Il fatto è che noi sbagliamo quando opponiamo le leggi e le norme alla volontà di manifestare liberamente la propria religione».

Perché è un atteggiamento perdente?

«In Francia il secolarismo, ma anche il laicismo, può essere fondamentalista, per un malinteso senso di giustizia sociale volto a creare uno spazio pubblico aperto a tutti che finisce con l'eliminare qualsiasi segno religioso. Il risultato è uno spazio vuoto, senza alcuna identità. Per potere accogliere tutti gli elementi della società - cristiani, ebrei, musulmani, buddisti - sono costretto ad azzerare qualsiasi differenza, e mi resta uno spazio pubblico morto, bianco, nullo».

Paradossalmente, i conflitti continuano comunque a manifestarsi.

«Certo, e non solo per i musulmani. In Francia alcuni miei colleghi ebrei mi dicono che quando sono invitati a una cena, per non dovere mangiare il maiale preferiscono dire che sono vegetariani, piuttosto che dichiarare la propria appartenenza religiosa. Ecco: togliendo tutto, abbiamo creato il vuoto».

Mi piace la metafora dello spazio «vuoto». Che orrore.

«È questo il problema: il vero spazio pubblico è tale se tutti partecipano a quello spazio; ma uno spazio che elimina le identità di tutti, non appartiene più a nessuno: lo attraversiamo come fantasmi, non come persone».

Soluzioni?

«Se un ragazzo cristiano va in aula con la croce al collo non ferisce nessuno, tanto meno i musulmani. Questi sono simboli religiosi che testimoniano un bene, qualcosa di bello. Il male non è il simbolo religioso, ma il modo in cui è utilizzato».

Quando viene utilizzato male?

«Quando diventa una minaccia o un pericolo. In tutti gli altri casi no. Gli esempi li trovi nei tribunali. Ecco un caso esemplare: in Canada un ragazzo sikh, di origini indiane, pretende di entrare a scuola con il proprio pugnale sacro, perché per lui è un obbligo religioso. Un caso del genere ovviamente è inaccettabile, perché è pericoloso portare in aula un'arma. Ma il ragazzo rivendica il diritto a esibire il suo simbolo religioso. E come hanno reagito le istituzioni? Non scatenando guerre, ma ragionando. Alla fine hanno permesso al ragazzo di portare con sé il pugnale, ma cucito dentro gli abiti, rendendolo inutilizzabile».

Un ottimo compromesso.

«No. Non è affatto un compromesso. È una soluzione. Una soluzione che taglia via il lato cattivo del problema, mantenendo quello buono. Se hanno trovato una soluzione per il pugnale, che è più pericoloso del velo, significa che basta riflettere e agire per il bene comune».

Perché per il velo e il crocifisso questa cosa non succede?

«Perché vengono strumentalizzati ideologicamente e politicamente da entrambe le parti. Di per sé velo e croce - per i fedeli, le persone semplici - sono solo la testimonianza di una cosa bella. Invce gli integralisti delle due parti ne fanno le bandiere di una guerra di civiltà. I Fratelli musulmani utilizzano il velo non come segno di umiltà ma come simbolo di conquista della società occidentale, mentre i cattolici integralisti utilizzano la croce non come segno del sacrificio ma come difesa dell'identità europea. Poi ci sono i fondamentalisti laici che combattono entrambi i simboli come una provocazione. Davvero il velo o la croce possono essere una minaccia per qualcuno?».

Da alcuni però il velo è considerato un strumento di oppressione.

«Bisogna distinguere. Quando, a partire dall'800, il mondo musulmano s'incontra con l'occidente, è come se si dividesse. Una parte, grazie a questo contatto, si risveglia dal mondo medievale in cui viveva e segue la via occidentale allo sviluppo: e per questo islam, il velo è un segno religioso. L'altra parte invece non accetta la modernità occidentale e vuole tornare indietro all'epoca di Maometto, perché ha paura di perdere la propria identità: e in questo islam il velo, come obbligo, può essere visto come strumento di oppressione».

Opinionisti della più bella sinistra laica sostengono che una conduttrice di Tg con una croce al collo sulla tv di Stato è offensiva.

«Che follia totale! Del resto la sinistra italiana è quella che strumentalizza i migranti, facendo dei porti e delle frontiere aperte il campo di battaglia della propria personale lotta ideologica contro la società capitalistica... Non le interessa nulla di quei poveretti. Le interessa sbandierarli come vittime dell'Occidente ricco e egoista. Basta pensare al paradosso della lotta della sinistra al crocifisso. Lo combatte per difendere i migranti musulmani, i quali però provengono da Paesi, come l'Egitto, in cui la croce o la Madonna sono oggetti di rispetto. La stragrande maggioranza dei migranti dall'Africa non vede nel crocifisso un problema».

A che punto è oggi in Europa il processo di integrazione tra musulmani e occidentali?

«Tempo fa ho pubblicato i risultati di un lungo studio che analizza le domande dei musulmani ai loro imam: un punto di vista molto utile per capire i loro desideri, le preoccupazioni, i veri problemi. La risposta? I musulmani che vivono in Europa sono in cerca di un'armonia con la società occidentale, e vogliono essere accettati».

Mi sembra un po' retorico... Fare convivere due tradizioni così diverse è difficilissimo.

«Esatto: due tradizioni, sì. Due persone, no. Se pretendiamo di integrare due tradizioni, cioè qualcosa di astratto, è davvero impossibile. Ma fare incontrare due individui con stili di vita e credenze diverse si può. Ecco il grande problema dell'Inghilterra o della Francia: pretendono di integrare i simboli, non le persone. E falliscono. Perché i simboli non possono integrarsi, mentre le persone sì. Ridurre tutto a una forma astratta è un errore. Bisogna affrontare i problemi concreti».

E quali sono?

«Non certo la costruzione o l'abbattimento delle moschee: ai musulmani italiani probabilmente piacerebbe, sì, una bella moschea a Milano. Ma non è la loro priorità. Nella vita quotidiana loro pensano semmai al lavoro, a come integrarsi con la società. Pensiamo al burkini: leggendo i giornali sembra che sia il problema principale delle donne musulmane in Italia. Ci rendiamo conto che le musulmane che possono permettersi una vacanza al mare arrivano sono l'1%? Ancora una volta stiamo parlando di un simbolo. Ancora una volta strumentalizzato».

·        Il cristianesimo rischia di sparire.

DIFENDETE I MISSIONARI. DAI VESCOVI! Filippo Di Giacomo per ''il Venerdì - la Repubblica'' il 21 ottobre 2019. In Italia vengono pubblicate 42 testate missionarie, riunite in una federazione, la Fesmi, che le rappresenta e cerca di tutelarle. Da quali nemici? Anzitutto dalla Conferenza Episcopale Italiana e da quella «vaticanistica ancillare» (definizione del compianto, indimenticabile, Giancarlo Zizola) che obbedisce al diktat di qualche monsignorucolo stazionante nei palazzi, dichiarato “comunicatore” per decreto vescovile. Essi vedono il mondo missionario italiano popolato da estremisti ed eversivi, quindi preferiscono attingere al blablabla curiale e non a sguardi “di prima mano” sugli esteri e sulle frontiere dell’intricato mondo dei diritti umani, del dialogo tra fedi e culture, dei giochi di potere a danno dei Paesi in via di sviluppo. Tutto ciò, ancora una volta, si è dimostrato palese con l’assenza dei direttori delle principali riviste missionarie dal flusso (scarso) di notizie relative a questo “mese missionario straordinario”. L’unico è stato papa Francesco che il 30 settembre, ricevendo una delegazione di istituti di fondazione italiana, ha ricordato: «Anche la Chiesa Italiana ha bisogno di voi, della vostra testimonianza, del vostro entusiasmo e del vostro coraggio nel percorrere strade nuove per annunciare il Vangelo». Con un sistema mediatico che investe 120 milioni l’anno per uno share vicino allo zero, la Cei non sente l’impulso di sostenere i media missionari che, nell’insieme, raggiungono una “massa critica” di centinaia di migliaia di lettori. In maggioranza persone di buon livello culturale, legate ad ambienti ecclesiali o laici comunque sensibili ed attive nel campo della solidarietà e nei movimenti d’opinione, a favore della pace e della giustizia. Tutte considerate insignificanti da una Cei che non riesce a mettersi in uscita neppure da uno dei suoi tanti pregiudizi.

Trump nel mirino: troppi aiuti ai cristiani dell’Iraq. Fulvio Scaglione su it.insideover.com il 16 Novembre 2019. La campagna elettorale permanente che accompagna la presidenza di Donald Trump, e l’opposizione che le sue politiche incontrano da parte del cosiddetto “deep State”, rischiano di riversarsi anche sui cristiani dell’Iraq, che certo non hanno bisogno di ulteriori disgrazie. Alcuni importanti media americani, infatti, hanno raccolto e rilanciato una polemica nata all’interno di Usaid, l’agenzia del governo americano per l’aiuto alla cooperazione e allo sviluppo. Le critiche sono rivolte in particolare contro il vicepresidente Mike Pence che, dicono le solite fonti anonime riprese da Wall Street Journal, ProPublica e Buzz Feed, avrebbe forzato l’Agenzia a indirizzare interventi e finanziamenti verso le organizzazioni cristiane irachene. E sotto accusa è in qualche modo finito anche monsignor Bashar Matti Warda, arcivescovo di Erbil (il centro del Kurdistan iracheno dove dal 2014 si sono raccolti centinaia di migliaia di profughi cristiani fuggiti davanti all’Isis) ed esponente di spicco della Chiesa caldea cattolica. Monsignor Warda era stato ricevuto a Washington dal vicepresidente Pence alla fine del 2017 e nel 2018 aveva avuto un incontro con lo stesso Trump alla Casa Bianca. Nel biennio 2015-2016 Usaid, ovvero il Governo americano, ha investito in assistenza agli iracheni 267 milioni di dollari, sia con interventi diretti sia con il finanziamento di interventi gestiti dalle Nazioni Unite. Il cambio di rotta, secondo l’accusa, sarebbe cominciato nel 2017, dopo l’insediamento di Trump. L’aiuto americano all’Iraq, veicolato attraverso Usaid sulla spinta della Casa Bianca, tra 2017 e 2018 è arrivato a 1,5 miliardi di dollari, dei quali 375 milioni indirizzati nello specifico “alle minoranze etniche e religiose perseguitate”, cioè soprattutto a cristiani e yazidi. Questo sarebbe contrario allo statuto di Usaid (dove è scritto che gli aiuti “devono essere liberi da qualunque proposito di interferenza politica e anche dall’apparenza di un’interferenza, e devono essere assegnati sulla base esclusiva del merito e non della particolare affiliazione religiosa dell’organizzazione beneficata”) e persino alle norme costituzionali, che vietano al Governo di privilegiare questa o quella confessione religiosa. Tutto, poi, viene riportato alla campagna per le presidenziali e alla necessità che Donald Trump ha di tranquillizzare e soddisfare l’elettorato cristiano che tanta parte ha avuto nella sua vittoria del 2016. I giornali che lo attaccano ricordano, a questo proposito, anche la recente concessione a Paula White, consigliera spirituale di Trump e nota telepredicatrice evangelista della Florida, di un incarico alla Casa Bianca. Può darsi che tutto questo sia vero. Anzi, è probabile che lo sia. Il problema, però, è un altro. Se il tema è “aiutare l’Iraq”, hanno ragione Pence e Trump, non i puristi di Usaid o dei giornali. E questo per una lunga serie di ragioni. Intanto, i cristiani sono la parte di popolazione irachena che ha più sofferto dopo l’invasione anglo-americana del 2003 e dopo l’avvento dell’Isis nel 2014. Sono ormai ridotti ai minimi termini (erano più di un milione e mezzo prima del 2003, sono intorno ai 250 mila oggi) e ancora poche settimane fa Louis Raphael I Sako, patriarca della Chiesa caldea cattolica oltre che membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha lamentato “il continuo calo del numero dei cristiani che vivono in Iraq”. E questo è successo perché i cristiani, oltre agli yazidi, sono l’unica minoranza irachena indifesa e disarmata. Gli sciiti controllano il Governo centrale, i sunniti sono comunque assistiti dalle petromonarchie del Golfo persico. Un piccolo privilegio orientato ai cristiani (ripetiamolo, 375 milioni su un miliardo e mezzo di dollari in due anni) non può essere letto come un insulto alla Costituzione americana e nemmeno, come sostengono le fonti anonime interne a Usaid, come un potenziale incitamento alle rivalità settarie. Al contrario. La pretesa di suddividere gli aiuti solo in base ai numeri e alle percentuali della popolazione, è assurda e non tiene in alcun conto la realtà sul terreno. In tutti i Paesi mediorientali, e nell’Iraq della triangolazione sciiti-curdi-sunniti in particolare modo, il ruolo delle minoranze è fondamentale a prescindere dai numeri. La loro presenza è l’unica e fragilissima garanzia che la regione non diventi un unico grande confronto-scontro tra musulmani sunniti e musulmani sciiti o un unico grande calderone di scontri a base tecnico-religiosa. Al limite, quindi, bisognerebbe privilegiarle, non trattarle come un elemento secondario del quadro.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della sera” il 25 ottobre 2019. Parte la base musicale. È Destiny' s Child - Survivor di Beyoncé. Una giovane afroamericana afferra il microfono. Tira fuori una gran voce: «I' m a survivor, I' m gonna make it...» si toglie il soprabito di pelliccia sintetica, lo scaglia in terra. L' audience risponde con un' ovazione. Ballano tutti e accompagnano in coro: «I will survive, keep on surviving». Grace Cathedral, pieno centro di San Francisco, non lontano dal Financial District. Fino a non molto tempo fa era frequentata da poche decine di fedeli. Ora, invece, anche mille persone si mettono in fila per stiparsi tra i banchi della chiesa. Pregano, cantano, riflettono e si divertono molto. La «Messa di Beyoncé» è cominciata qui, in una delle città più brillanti e contraddittorie degli Stati Uniti: record di startup tecnologiche, ma anche senzatetto ovunque. L' idea è di Yolanda Norton, predicatrice e teologa. Studiosa della Bibbia ebraica, iscritta al Bey Hive , il club dei fan della trentottenne pop star texana Beyoncé Giselle Knowles-Carter. Per il mondo, Beyoncé. Norton, 37 anni, insegna al Black Church Studies e all' Union Theological Seminar di San Francisco. Ha iniziato nelle sue lezioni a mescolare Antico Testamento e moderna realtà sociale, con un obiettivo chiaro, come racconta nel video pubblicato sul sito Beyoncemass.com e come ha ripetuto nei giorni scorsi al New York Times : «La nostra celebrazione si rivolge in particolare alle ragazze nere. Vogliamo ricordare loro che fanno parte di ciò che Dio aveva in mente durante la Creazione. Noi portiamo le storie quotidiane e la realtà delle giovani afroamericane al centro dell' arte liturgica; valorizziamo queste realtà in un mondo che spesso le respinge, che continua a rendere loro la vita difficile». Le prime funzioni risalgono all' aprile del 2018. Ma è una formula da esportazione. In questi giorni è arrivata a New York. Mercoledì 23 ottobre nella Presbyterian Church of Brooklyn e ieri sera nella St. James Presbyterian ad Harlem. Il pubblico, in realtà, è composito. Le immagini riprese nella Grace Cathedral mostrano tanti giovani e anche diverse pantere grigie. In fondo Beyoncé potrebbe essere considerata l' ultimo stadio di un'evoluzione che intreccia black music e religione. Lo spiega sempre al New York Times Kelly Brown Douglas, preside dell' Union Theological Seminar: «Gli artisti hanno avuto un ruolo centrale nella lotta per la libertà degli afroamericani, da Nina Simone a Harry Belafonte». Il messaggio di Beyoncé fa parte di questa tradizione. I versi di Destiny' s Child richiamano la condizione di «una sopravvissuta» che «troverà il modo per continuare a sopravvivere». Brown Douglas offre un altro esempio: «In Freedom Beyoncé invita a essere liberi, a cercare la propria libertà, a essere se stessi. Nei suoi video non compare solo un tipo di corpo femminile; ma più possibilità di essere donna e di essere nera. Non c' è vergogna per il proprio fisico; non c' è "colorismo"». Andiamo in pace, dunque, e che anche Beyoncé sia con noi.

Se questa è una Chiesa. Le mille difficoltà della Chiesa (sempre più vuota) e le polemiche sulle decisioni di Papa Francesco. Maurizio Belpietro il 21 ottobre 2019. «La messa è sospesa, andate in pace». Nessuno dei parroci che negli ultimi anni sono stati costretti a pronunciare questa frase lo ha fatto a cuor leggero. Eppure anche nel Veneto, là dove più forti sono il culto della fede e le tradizioni cattoliche, ci sono preti che hanno dovuto rassegnarsi all’evidenza, sbarrando il portone della chiesa e affiggendo un cartello con sopra il numero di telefono. Se qualche fedele vuole ascoltare la santa messa, chiami il seguente cellulare ha scritto don Mario Sgorlon, prete di Sant’Erasmo a Venezia. E un altro, don Alfredo Lavis, è perfino arrivato a proporsi per funzioni a domicilio, pronto a recitare il Padre nostro e distribuire il corpo di Cristo a casa dei fedeli disposti ad aprire la propria casa per la funzione. Tutto ciò si accompagna alla chiusura di seminari, all’abbandono di conventi, alla cessione di chiese ad altre comunità religiose, come nel caso della vendita di quella dell’ospedale di Bergamo a un’associazione islamica. Tuttavia, di fronte a un fenomeno che pare epocale e che dovrebbe spingere a una seria riflessione sullo stato della Chiesa (secondo l’Istat a non frequentare mai un luogo di culto è il 21 per cento degli italiani: era il 17 pochi anni fa e solo il 29 per cento varca il sagrato almeno una volta alla settimana), Papa Francesco non pare preoccuparsi. «La Chiesa deve adattarsi ai tempi» ha detto qualche tempo fa, aggiungendo che non sono compiti suoi la tutela e la conservazione dei beni culturali. Un po’ come dire che siamo ai saldi di fine cristianità e dunque, se una chiesa non serve più, la si abbandona o se ne cambia la destinazione d’uso, trasformandola in un cinema, e un convento in un residence, e i seminari in hotel, magari a cinque stelle. «Molte chiese fino a pochi anni fa erano necessarie» ha commentato il vicario di Cristo «ora non lo sono più per mancanza di fedeli e clero». Un fenomeno ineluttabile, pare di capire. Di fronte a tutto ciò, alla crisi delle vocazioni e a sante messe celebrate in un deserto di fedeli, Papa Bergoglio però tiene a battesimo un sinodo per discutere dei problemi dell’Amazzonia. Centinaia di vescovi, di preti e di suore, riuniti per parlare di come difendere il pianeta. Un dibattito non molto diverso da quello che, su sollecitazione di Greta Thunberg, la ragazzina che ha attraversato l’oceano a bordo di una barca a vela condotta dal principino della nobile casata che amministra Montecarlo, si è tenuto all’Onu. Non contento, il Santo Padre si è concesso l’ennesima conversazione con Eugenio Scalfari, un direttore che dopo aver discusso per anni con banchieri e comunisti, si è convertito negli ultimi anni (ne ha 93) alla discussione teologica. Al fondatore di Repubblica, che lo ha riportato in prima pagina sul giornale, il Papa avrebbe confessato che Gesù era un semplice uomo, non Dio incarnato. Un inciso all’interno di un editoriale, che ha indotto il Vaticano a smentire la frase fra virgolette ma senza troppa convinzione. Un inciso, che per quanto non pronunciato al balcone di piazza San Pietro, ma davanti al caminetto con il celebre giornalista, cambia le prospettive su cui si fonda la cristianità. Gesù non era Dio fatto uomo, ma un uomo. Così, mentre le chiese sono abbandonate, le vocazioni svaniscono, i fedeli anche, scompare pure la certezza più grande. E alcuni episodi evangelici, nella prospettiva che Bergoglio ha raccontato a Scalfari, diventano «la prova provata che Gesù di Nazareth, una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio». Per questo forse il Papa preferisce un sinodo che parli di ambiente e di mutazioni climatiche, trasformando l’adunata di alti prelati in una specie di congresso di Greenpeace? È forse per tale motivo che Francesco, invece di scandagliare le ragioni della fede alla ricerca di un sentimento religioso che nella società moderna si va perdendo, preferisce parlare di migranti fino a disporre che un barcone si faccia monumento della cristianità? Le domande sullo sviluppo di questo Papato sono molte e riguardano il senso e il futuro della Chiesa nei prossimi anni. Che cosa sarà l’evangelizzazione dopo che il Santo padre ha sgridato una suora per aver convertito due ragazzi di un’altra religione? In che cosa si trasformeranno i missionari sparsi nel mondo? In ecologisti che invece di proclamare il regno di Dio propugneranno un regno senza plastica? Fra tanta incertezza e tanti dubbi, una cosa appare certa, ed è che la stagione di Papa Francesco segnerà profondamente la Chiesa cattolica e dalle scelte fatte molto difficilmente si potrà tornare indietro. Come racconta Alessandro Rico, Bergoglio ha nominato più cardinali dei suoi predecessori, con il risultato che un conclave oggi sarebbe a maggioranza bergogliana. Tra i nuovi porporati voluti da Francesco c’è chi ha nel proprio stemma cardinalizio un barcone, chi si dichiara favorevole alla comunità Lgbt, chi riattacca la luce agli abusivi e chi legittima la figura e l’azione di Luca Casarini, il capo dei no global, leader degli antagonisti che nel 2001 si scontravano con la polizia. Quella che avanza, mentre il cattolicesimo arretra, è un’altra Chiesa. Una Chiesa in cammino. Peccato che non si capisca in quale direzione.

Lo schiaffo del Papa: «Attenti ai nuovi nazionalismi che generano odio». Il pontefice loda l’amore per la patria ma avverte: «non diventi esclusione che alza muri alimentando razzismo o antisemitismo». Giacomo Losi il 3 Maggio 2019 su Il Dubbio.  «La Chiesa guarda con preoccupazione alle nuove forme di nazionalismo conflittuale». Forse è un caso, ma di certo è una strana coincidenza che papa Francesco abbia scelto il giorno dell’incontro tra Orban e Salvini – i due campioni del sovranismo europeo – per lanciare il suo allarme contro le “deviazioni” dell’amor patrio.

Nel corso del suo discorso alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Bergoglio ha infatti spiegato che «la Chiesa ha sempre esortato all’amore del proprio popolo, della patria, al rispetto del tesoro delle varie espressioni culturali, degli usi e costumi e dei giusti modi di vivere radicati nei popoli». Ma poi ha specificato che «nello stesso tempo, la Chiesa ha ammonito le persone, i popoli e i governi riguardo alle deviazioni di questo attaccamento quando verte in esclusione e odio altrui, quando diventa nazionalismo conflittuale che alza muri, anzi addirittura razzismo o antisemitismo.

La Chiesa osserva con preoccupazione il riemergere, un po’ dovunque nel mondo, di correnti aggressive verso gli stranieri, specie gli immigrati, come pure quel crescente nazionalismo che tralascia il bene comune». «Così – ammonisce Bergoglio – si rischia di compromettere forme già consolidate di cooperazione internazionale, si insidiano gli scopi delle Organizzazioni internazionali come spazio di dialogo e di incontro per tutti i Paesi su un piano di reciproco rispetto, e si ostacola il conseguimento degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile approvati all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015».

E ancora: «Le istanze multilaterali sono state create nella speranza di poter sostituire la logica della vendetta, del dominio, della sopraffazione e del conflitto con quella del dialogo, della mediazione, del compromesso, della concordia e della consapevolezza di appartenere alla stessa umanità nella casa comune».

Vescovi tedeschi: "Il cristianesimo rischia di sparire dalla Germania". Secondo i vertici cattolici e protestanti tedeschi, la graduale scomparsa del cristianesimo in Germania procederà di pari passo con un aumento costante della presenza islamica nel Paese. Gerry Freda, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. Le autorità cattoliche e luterane della Germania hanno di recente lanciato l’allarme circa la graduale “scomparsa del cristianesimo” nel Paese teutonico. I vertici delle due confessioni hanno infatti denunciato la costante diminuzione dei cittadini tedeschi che si dichiarano fedeli in Cristo, certificata da un recente dossier sugli effetti della secolarizzazione e dei flussi migratori sulle storiche comunità religiose nazionali. Nel rapporto in questione, curato dalla Conferenza episcopale di Berlino in collaborazione con la Chiesa evangelica di Germania e con ricercatori dell’università di Friburgo in Brisgovia, si evidenzia la “profonda irreligiosità” della società tedesca contemporanea, incline ormai a considerare i valori spirituali “poco importanti” per la vita di tutti i giorni. Sempre più cittadini teutonici, inoltre, considererebbero il cristianesimo come un sistema di principi “adatto esclusivamente alla Germania e all’Europa del passato” piuttosto che al contesto globale attuale. Il crescente distacco dei Tedeschi dal retaggio culturale cristiano farà sì, in base alle previsioni contenute nel documento, che nel 2050 cattolici e protestanti costituiranno una “minoranza” nel Paese del papa emerito Ratzinger. Nella Germania del futuro, infatti, i fedeli passeranno dagli attuali 45 milioni di individui a “meno di 20 milioni”, decretando in questo modo la definitiva trasformazione della nazione teutonica in una realtà “scristianizzata”. Nel Paese “post-cristiano” del 2050, inoltre, il vuoto lasciato da cattolici e protestanti verrà colmato dagli adepti di un’altra religione abramitica: l’islam. In tale anno, sempre in base al rapporto curato da vescovi e pastori, i fedeli musulmani stanziati in Germania eguaglieranno la somma di cattolici e protestanti, passando dagli attuali 4,7 milioni a quasi 20 milioni. Tale incremento della presenza musulmana nella nazione teutonica viene attribuito dal documento, oltre al crescente “disinteresse” dei nativi per la loro identità cristiana, principalmente all’“alto tasso di natalità” riscontrabile nelle comunità di immigrati africani e mediorientali. I dati sul progressivo abbandono della fede cristiana da parte delle nuove generazioni di tedeschi hanno subito indignato la formazione politica nazionalista AfD. Gli esponenti del partito sovranista hanno infatti reagito ai moniti contro la scristianizzazione della Germania contenuti nel dossier accusando i governi del passato e quello attuale, capeggiato da Angela Merkel, di non avere salvaguardato con forza l’identità nazionale tedesca e di avere incoraggiato la “perdita di valori” all’interno della società. I partiti tradizionali, Cdu e Spd, sono stati poi biasimati dai deputati di AfD per avere “alzato bandiera bianca” davanti all’aggressiva penetrazione dell’islam nel Paese.

La lettera-appello che accusa il Papa di "eresia". Scritta in diverse lingue, è stata pubblicata sui siti web che fanno riferimento al mondo dei cattolici tradizionalisti. Paolo Rodari il 2 maggio 2019 su La Repubblica. Una lettera-appello firmata da alcuni docenti universitari, teologi e uomini di Chiesa accusa esplicitamente Papa Francesco di “eresia”. Scritta in diverse lingue, è pubblicata sui siti web che fanno riferimento al mondo dei cattolici tradizionalisti, quegli stessi siti che lo scorso agosto pubblicarono la richiesta di dimissioni al Papa messa nero su bianco dall’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò. “Prendiamo questa iniziativa come ultima risorsa per contrastare i danni causati ormai da diversi anni dalle parole e dalle azioni di Papa Francesco che hanno generato una delle peggiori crisi nella storia della Chiesa cattolica” scrivono i firmatari, paventando, senza citarlo esplicitamente, la possibilità di uno scisma. Alla lettera, tra le cui firme per il momento mancano uomini di peso, è associata anche una raccolta di firme su change.org: “Accusiamo Papa Francesco di aver dimostrato pubblicamente e pertinacemente, con le sue parole e con le sue azioni, di credere nelle seguenti proposizioni, contrarie a verità divinamente rivelate”. Da qui inizia un elenco di punti della dottrina che, secondo gli autori della lettera, sarebbero stati messi in discussione dal Pontefice. Le accuse tornano ancora sulle vicende della pedofilia, su una presunta reticenza del Pontefice in merito, e più in generale si accusano personalità vicine a Francesco di aver agito contro la morale. Si fanno i nomi, in parte già elencanti da Viganò, del cardinale Oscar Rodrigez Maradiaga, del cardinale Blase Cupich, del cardinale Godfried Danneels, del cardinal Donald Wuerl, dei vescovo Gustavo Zanchetta e Juan Barros. Si parla anche direttamente del sostegno del Papa ad Emma Bonino. Inoltre, vengono citati anche numerosi passi del testo papale “Amoris Laetitia” ritenuti contrari alla fede, uno schema per la verità già espresso dai cardinali Raymond Burke, Carlo Caffarra, Walter Brandmüller e Joachim Meisner i quali, a seguito sempre della pubblicazione di “Amoris laetitia”, pubblicarono i cosiddetti “dubia”, un documento nel quale chiedevano al Papa dei chiarimenti in materia dottrinale della Chiesa, contestando in particolare i punti del testo relativi alla riammissione o meno dei divorziati in comunione con la Chiesa cattolica. Francesco non ha mai risposto a queste critiche, ritenendo la strada del silenzio la risposta più opportuna. Nel 2018, nel dialogo con i gesuiti in Cile, si era limitato ad accennare a coloro che gli resistono proponendosi come depositari della vera dottrina: “Non li leggo”, aveva detto. E ancora: “Quando in queste persone, per quel che dicono o scrivono, non trovo bontà spirituale, io semplicemente prego per loro. Provo dispiacere, ma non mi soffermo su questo sentimento per igiene mentale”. In Vaticano c’è consapevolezza che alcune di queste critiche sono pilotate dal mondo conservatore statunitense che vede in Francesco un ostacolo alle proprie politiche sociali ed economiche. Le aperture del Papa sui migranti ed anche le parole spese sui temi ambientali contro le lobby del petrolio infastidiscono.

·        Chiese sfregiate e profanate.

Marzabotto, "l'iftar" di fine Ramadan sul sagrato della chiesa. La comunità islamica di Marzabotto, con il sostegno dell'Arcidiocesi di Bologna, ha concluso il Ramadan di fronte alla parrocchia. Marianna Di Piazza e Fabio Franchini, Domenica 02/06/2019, su Il Giornale. Alla fine la comunità musulmana di Marzabotto ha festeggiato la fine del Ramadan sul sagrato della Chiesa del paese. Nonostante le tante polemiche sull'opportunità di celebrare la conclusione del mese sacro della religione islamica all'ombra del crocifisso. Ma facciamo un passo indietro. Nei giorni scorsi avevamo scritto del caso che ha coinvolto il piccolo comune dell'Appenino tosco-emiliano, in provincia di Bologna. Qui è successo che l'associazione culturale musulmana e la comunità araba, con l'autorizzazione del sindaco (che ha concesso l'occupazione di suolo pubblico) e la benedizione del vescovo di Bologna, hanno organizzato nella piazza Martiri delle Fosse Ardeatine, antistante la Chiesa di San Giuseppe e San Carlo, l'iftar di fine Ramadan (il pasto serale che interrompe il digiuno), invitando tutta la cittadinanza. Ed è scoppiata la polemica, non per l'evento in sé – che è un esempio di integrazione –, ma per la scelta della location, che fa pensare un po' a una provocazione, a una sorta sfida. C'è chi, infatti, si chiede: perché gli anni scorsi l'iftar si è festeggiato nel parco Bottonelli e quest'anno si fa sul sagrato? Perché il parco è occupato dal Festival del turismo responsabile. Va bene, e allora perché proprio sul sagrato e non in un'altra fetta di paese? La domanda è lecita e a farsela è stato anche don Gianluca Busi, parroco di Marzabotto, che proprio onde evitare controversie, aveva suggerito di portare il tutto nello spiazzo di fronte al municipio. In questo modo, i dissidi si sarebbero ridotti al lumicino e nessun cattolico e anche nessun musulmano avrebbero avuto da ridire e da risentirsi. Comunque, il volantino che pubblicizza la festa recita "Appuntamento sabato 1 giugno, ore 20". E noi, allora, dopo averne scritto, ci siamo andati di persona per capire meglio come sono (andate) le cose. E appena arrivati in piazza, mentre fervevano i preparativi – con le tavolate e le sedie in fase di sistemazione – abbiamo visto due persone discutere pacatamente. Andiamo verso di loro, li lasciamo finire e poi li avviciniamo. Uno è Morris Battistini, capogruppo del centrodestra in consiglio comunale, l'altro è Mustapha Benkouhail, presidente dell'associazione islamica locale.

"Chiunque ha il diritto di manifestare il proprio culto, ma questa, fin da subito, ci è sembrata una provocazione bella e buona. In tutti questi anni la comunità islamica ha festeggiato la conclusione del Ramadan lontana dai simboli cristiani, quest'anno, invece, hanno scelto di farlo davanti alla casa di Dio…", ci racconta Battistini. Mentre Benkouhail precisa: "Non lo abbiamo fatto per sfida, non è e non sarà mai nostra intenzione. Lo abbiamo fatto semplicemente in spirito di amicizia e fratellanza ed è stata decisa questa piazza perché il parco del paese era già occupato da un'altra manifestazione". Camminando un po' per le vie scambiamo qualche parola sulla questione con i passanti: non tutti si dicono d'accordo con l'iftar sul sagrato, ma chi è contrario preferisce non sbottonarsi, perché l'argomento è scomodo e perché "sai, è un paesino…". Qualcun altro, poi, precisa: "All'inizio, non essendo stati informati bene sulla cosa, siamo rimasti un po' così…poi ci hanno spiegato bene il tutto e banchetteremo insieme". "L'arroganza con cui certe persone e la comunità musulmana pensa di poter agire sul nostro territorio è palese", protesta ancora Battistini, che se la prende anche con l'arcivescovo Matteo Maria Zuppi: "Non ci stupisce che sia solidale a questo tipo di manifestazioni, ma siamo stupiti dalle dinamiche del tutto: don Gianluca, infatti, non ne sapeva nulla, perché nessuno di dovere gli ha comunicato per tempo la cosa; ci siamo ritrovati per le mani la locandina e siamo cascati dal pero. Insomma, nessuno ha agito con la parrocchia per creare, da subito, unione, in questa festa di fine Ramadan". Di opposto avviso Valentina Cuppi, neo sindaco di Marzabotto eletto con il 71% dei voti per una lista civica di centrosinistra: "È una bellissima iniziativa e lo si vede dalla piazza, che è piena della nostra gente, indipendentemente dalla religione, dalla cultura e dalla provenienza: questo è l'emblema di come siamo qui a Marzabotto. E la scelta di celebrare l'iftar proprio qui, nella piazza della Chiesa, centro della nostra cittadina, è un valore aggiunto. È un bellissimo messaggio con il quale vogliamo dire di aprirsi, incontrarsi e parlarsi, per rompere i muri". Al primo cittadino, infine, fa eco Omar Amchiaa, membro della comunità musulmana: "Non è un dispetto, perché Marzabotto, da sempre, è paese di integrazione e di dialogo interreligioso: vogliamo che i diversi credi comunichino, in modo da creare una società pacifica, che si ami l'uno con l'altro, al di là delle religioni, perché non c’è alcuna differenza tra un cristiano, un musulmano o un ebreo. E il fatto che partecipino il parroco e altre personalità cristiane cattoliche locali è per noi motivo di orgoglio, così come il pieno sostegno del vescovo, che ha benedetto questo evento. Non capisco perché qualcuno strumentalizza tutto questo per fomentare l'odio e per guadagnare qualche voto…".

Trieste, sfregio durante la messa: "Che parte di Cristo è?" All'interno della chiesa dedicata a San Giovanni Decollato un uomo al momento della Comunione Eucaristica ha inscenato un surreale dialogo. Scrive Matteo Orlando, Giovedì 25/04/2019 su Il Giornale. A Trieste un’incredibile profanazione eucaristica è stata immortalata da un video e, adesso, è scattata la denuncia ai Carabinieri a carico dell’autore. L’episodio è accaduto nel giorno di Pasqua ma ne è stata data notizia solo oggi sul quotidiano locale triestino Il Piccolo. All'interno della chiesa dedicata a San Giovanni Decollato di Trieste, sita in piazzale Gioberti, 5, che si trova nella zona suburbana di Guardiella, una chiesa che era stata consacrata, nel lontano 27 giugno 1858, dall’allora vescovo Bartolomeo Legat, durante la Santa Messa Pasquale delle ore 11 si è messo in fila un uomo che, arrivato davanti al sacerdote, ha inscenato un surreale dialogo. Come si sente dal video nei 35 secondi pubblicati, al sacerdote che ripete la tradizionale formula "Il corpo di Cristo" prima di distribuire sulla mano il Santissimo Corpo del Signore, l’uomo ha risposto: "Grazie a te", aggiungendo provocatoriamente: "E che parte è questa del corpo?". Alla risposta seccata e in dialetto del sacerdote: "Magna", l’uomo ha replicato in dialetto: "Magno quando che voglio mi. Magno, magno, sta bono". Poi l’uomo si è allontanato dal sacerdote e, invece di consumare le sacre specie immediatamente, come è previsto dalle norme della Chiesa, si è incamminato lungo la Chiesa tenendo in mano la particola consacrata e ripetendo due volte, inquadrando probabilmente con uno smartphone l’Ostia Consacrata, "questo è il corpo di Cristo?" e aggiungendo irrispettosamente "ma dai dai questo qua è […omissis] mamma mia, bon bon". Quindi l’affermazione blasfema: "Ma come puoi fare di una patatina il Corpo di Cristo?. Ma andemo avanti…". Poi nel video scatta il bip della censura. A quanto pare, il clero parrocchiale (formato dal Parroco, il canonico Fabio Ritossa, dai vicari parrocchiali, i sacerdoti Milan Nemac, Devid Giovannini, Tomaž Kunaver, e dal diacono permanente Paolo Longo), ha deciso di denunciare l’uomo ai Carabinieri di Trieste. Il quotidiano Il Piccolo non riferisce il nome dell’uomo che ha preso in mano l'ostia consacrata ed ha imprecato contro la stessa e la religione cattolica, sotto gli sguardi allibiti di decine di fedeli che hanno assistito alla scena. È stato evidenziato, invece, che l'uomo "è stato bloccato da un parrocchiano che gli ha intimato di consumare la particola prima di uscire dalla chiesa". Incredibilmente sulla pagina Facebook del quotidiano triestino diversi commentatori hanno apprezzato il gesto blasfemo. Sono stati numerosi, invece, coloro (anche non cattolici) che hanno espresso disgusto per l'azione compiuta. Sentita da Il Giornale, la consacrata Agnieszka Rzemieniec, del Comitato internazionale "Uniti con Gesù Eucaristia per le mani Santissime di Maria", ha commentato l’episodio spiegando che "la pratica della Comunione distribuita sulla mano favorisce questo tipo di abusi e di profanazioni". Per tale motivo il comitato, anche attraverso una petizione on line, "ha chiesto e continuerà a chiedere a chi ne ha l’autorità, il Pontefice, di permettere la ricezione della Santa Comunione Eucaristica sulla lingua ed in ginocchio", su degli appositi inginocchiatoi da installare nelle varie chiese. "Il popolo cattolico dovrebbe ricevere la Santissima Eucaristia in questo modo perché è il più consono ad esprimere la massima devozione nel ricevere il Corpo di Cristo. Il Cardinal Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, ha già espresso il suo favore ad acconsentire a questa richiesta. Manca solo il via libera di Papa Francesco", ha spiegato la donna a Il Giornale. La Rzemieniec ha ricordato che, "come insegnava san Tommaso d’Aquino, Gesù è realmente presente tanto nell’intero quanto nel minimo frammento del pane consacrato. Un esperimento condotto negli Stati Uniti, ha dimostrato che, ponendo la comunione in mano, diversi frammenti, difficilmente scorgibili ad occhio nudo, rimangono prima impressi nella palma della mano, quindi cascano a terra. Inoltre, accanto al rischio di profanazione continua, si presenta anche il problema delle messe nere e dei circoli satanisti che, quasi meravigliati di questa consuetudine, possono più facilmente prelevare l’ostia e condurla via".

Gli avamposti della cristianità alla mercé di vandali e ubriachi. A Cesena l'ultimo caso: una cappella distrutta dopo una rissa. La lezione (dimenticata) della Francia. Francesco Giubilei, Lunedì 29/04/2019, su Il Giornale. Il pavimento ricoperto di sangue nella navata della chiesa, le panche spezzate in due e rovesciate, l'altare profanato con vasi, fiori e candelabri gettati a terra, le immagini del video che in tarda mattinata è iniziato a circolare sui social network dei cittadini di Cesena, in un primo momento sembrava essere una delle tante fake news che circolano in rete. La brutalità con cui è stata vandalizzata la chiesa difficilmente si concilia con la tranquilla vita di provincia della città romagnola, ad accrescere i dubbi i simboli sacri ortodossi della chiesa e una bandiera rumena che campeggia sopra il portone di ingresso. Invece è tutto vero: domenica, dopo i festeggiamenti della pasqua ortodossa, c'è stata una colluttazione tra due rumeni ubriachi che hanno devastato la chiesa dell'Istituto Lugaresi data in usufrutto alla comunità romena ortodossa. Anche se dovrebbero essere escluse matrici di carattere religioso e lo stesso direttore dell'Istituto Marco Censi afferma che «gli estremisti islamici non c'entrano nulla», come sottolinea Marco Casali, capogruppo dell'opposizione in comune, la «chiesa è ridotta in condizioni che colpiscono». L'episodio avviene pochi giorni dopo l'accoltellamento alla stazione Termini di Roma di un clochard da parte di un marocchino perché colpevole di indossare un crocifisso al collo, un fatto derubricato a una discussione tra senza tetto che nasconde in realtà un malessere sempre più diffuso nei confronti del cristianesimo. Se nel caso di Cesena non è la religione cristiana in quanto tale ad essere presa di mira, si tratta invece dell'ennesimo campanello di allarme per la deriva relativista della nostra epoca in cui non si rispettano nemmeno più le chiese e gli edifici di culto. Una deriva che, se da un lato è figlia di una visione materialista che dimentica il rispetto per la religione e la spiritualità, dall'altro lato si inserisce nel processo di secolarizzazione della società che porta a diminuire il valore dei simboli religiosi e la gravità dei sempre più frequenti episodi di devastazione delle chiese. D'altro canto basterebbe osservare quanto avviene in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano, dove è in atto una vera e propria emergenza e solo nel 2017 sono avvenuti 878 atti vandalici contro le chiese. Le distruzioni di statue e crocifissi, uniti alla ostie profanate e agli incendi di origine dolosa, hanno determinato una vera e propria emergenza al punto che la Conferenza Episcopale francese si è in più occasioni definita preoccupata per l'escalation di violenza contro le chiese. Per fortuna in Italia non si è ancora giunti a questa situazione, ma gli episodi sempre più frequenti anche nel nostro paese non devono essere sottovalutati, immagini come quelle della chiesa ortodossa di Cesena non si erano mai viste da queste parti.

Francia, chiese profanate: statue distrutte e croci disegnate con gli escrementi. Scrive Leone Grotti il 12 febbraio 2019 su Tempi. Almeno quattro chiese sono state profanate in una settimana: ostie consacrate gettate a terra, crocifissi e statue della madonna distrutte e incendiate. «Violenza preoccupante, il trend è in aumento». Dijon, Houilles, Lavaur, Nîmes: in una sola settimana almeno quattro chiese sono state profanate in Francia. Il trend è in aumento, tanto che domenica padre Grosjean, sacerdote molto seguito nel paese, ha denunciato pubblicamente l’ondata di attacchi: «Questa violenza è grave e prende di mira i luoghi di culto, oasi di pace per tutti, ferendo i cristiani nella loro fede», ha dichiarato come riportato dal Figaro. Ieri la chiesa della parrocchia di Notre Dame, a Dijon, è stata profanata da ignoti, che hanno aperto il tabernacolo e sparpagliato le ostie consacrate per terra. I fedeli hanno visto per primi la profanazione, entrando in chiesa per la messa delle 8 del mattino. «È con molta tristezza che sacerdoti e fedeli hanno scoperto quanto avvenuto stamattina», ha dichiarato ieri in un comunicato la diocesi di Dijon, annunciando una messa di riparazione. Non è un caso isolato. La chiesa di San Nicola, a Houilles, ha subito tre atti di vandalismo in soli dieci giorni: mercoledì 6 febbraio una statua della Madonna con bambino del XIX secolo è stata «distrutta in mille pezzi, polverizzata», ha riportato il Parisien. Nei giorni precedenti, invece, per due volte ignoti hanno gettato la croce per terra. Il parroco ha fatto un esposto alla polizia. Il 5 febbraio, anche la cattedrale di Lavaur è stata profanata, secondo LaDepeche. Il crocifisso che orna l’abside è stato danneggiato – un braccio della statua di Gesù piegato – mentre una cappellina è stata incendiata. Il 6 febbraio, invece, il tabernacolo della chiesa Notre Dame des enfants a Nîmes è stato forzato e le ostie sparse per terra. I vandali hanno usato degli escrementi per disegnare sulle pareti della chiesa una croce. Anche in questo caso un’inchiesta è in corso ma il fenomeno, che si diffonde a macchia d’olio in tutta la Francia, è preoccupante. Nel 2017 si sono verificati 878 atti anticristiani in Francia, secondo il ministero dell’Interno, in lieve diminuzione rispetto ai 949 del 2016. Nel 2018 si è registrato invece un aumento del 13 per cento rispetto al 2017.

Francia. Le chiese profanate, una piaga sempre più aperta. Scrive Daniele Zappalà giovedì 21 febbraio 2019 su Avvenire. In un anno in Francia oltre mille atti anticristiani tra furti di ostie e assalti ai cimiteri. Dietro le violenze raid di matrice jihadista ma anche sfide tra giovani e satanismo. Il vortice d’odio che rode il cuore della Francia, appena denunciato con forza dalla classe politica transalpina a proposito dei recenti blitz antisemiti, non risparmia di certo la Chiesa, come evidenziano i tristi dati appena pubblicati dallo stesso Ministero dell’Interno. L’ultimo picco di profanazioni anticristiane risale ai giorni scorsi, con 5 edifici di preghiera violati in diverse regioni. Nel tardo pomeriggio del 31 gennaio, nella cittadina di Vendôme, non lontano da Orléans, è stato trafugato il tabernacolo nella Chiesa della Maddalena. Il 3 febbraio, sono stati invece violati i tabernacoli nelle chiese di due borghi di provincia: Lusignan, nella periferia di Poitiers, e Talmont-Saint-Hilaire, sul litorale atlantico della Vandea. Il 5, nel capoluogo meridionale di Nîmes, i fedeli entrati nella piccola chiesa di Notre-Dame-des-Enfants hanno scoperto con orrore le devastazioni sacrileghe perpetrate nell’edificio: tabernacolo scardinato, ostie consacrate frantumate e disseminate dappertutto, statue e mura cosparse di escrementi. Il 9, un gioiello dell’architettura sacra gotica, Notre-Dame di Digione, ha subìto un attacco analogo, con le ostie rovesciate a terra. Un blitz scattato all’alba, fra l’apertura della chiesa e l’arrivo dei fedeli per la prima messa. Negli stessi giorni, altri 5 luoghi di culto sono stati saccheggiati in tutto il Paese, in modo anche grave sul piano materiale, ma senza violazione del tabernacolo. Monsignor Olivier Ribadeau Dumas, portavoce della Conferenza episcopale, ha espresso indignazione su Twitter: «Chiese incendiate, saccheggiate, profanate. Non potremo mai abituarci a questi luoghi di pace in preda a violenze, al corpo di Cristo calpestato, proprio ciò che abbiamo di più bello e prezioso». Delle inchieste giudiziarie cercheranno di far luce su moventi ed autori. Ma in ogni caso, i fedeli sanno bene di dover fronteggiare una piaga ormai radicata nel Paese. In media, l’anno scorso, circa 3 casi al giorno, come ha confermato il Ministero dell’Interno, recensendo 1.063 'fatti anticristiani', di cui il 98% contro beni materiali: chiese vandalizzate, cimiteri profanati, danni a croci ed edicole votive all’aperto. Nel 2017, il bilancio era già stato a quattro cifre, con 1.038 casi. In modo indipendente, l’incessante sequenza è monitorata pure dagli autori di un blog creato ad hoc su Internet: “Osservatorio della cristianofobia”. Il 26 luglio 2016, anche il martirio in Normandia di padre Jacques Hamel, assassinato nella Chiesa Saint-Etienne, a Saint-Etienne-du-Rouvray, nel quadro di un assalto di stampo jihadista, era stato seguito da una profanazione del luogo di culto. Per i fedeli transalpini, il ricordo di quella sequenza tragica si è scolpito dunque pure come il simbolo delle chiese francesi nel mirino. In proposito, continua a interrogare le coscienze di tanti pure il fatto che il dramma sia giunto in una chiesa intitolata al primo martire della cristianità. Il morbo sembra essersi propagato negli interstizi più variegati del Paese profondo, facendo affiorare anche il rischio di una lenta assuefazione generale. Del resto, nelle ultime ore, il ritardo con cui le autorità centrali hanno condannato gli ultimi misfatti ha alimentato pure una polemica politica. «La profanazione di queste chiese è inammissibile; disonorevole il silenzio del governo. Gli autori di questi fatti anticristiani devono essere sanzionati con la più grande severità», aveva twittato, lunedì 11, il capo dell’opposizione neogollista, Laurent Wauquiez, che presiede pure la seconda regione più popolata di Francia, l’Alvernia-Rodano-Alpi. La reazione del premier Edouard Philippe è giunta due giorni dopo, sullo stesso social: «Nella nostra Repubblica laica, si deve rispetto ai luoghi di culto. Lo dirò ai vescovi di Francia in occasione della riunione dell’istanza di dialogo con la Chiesa cattolica». Proprio uno degli appuntamenti di concertazione che negli ultimi anni ha regolarmente affrontato il nodo delle profanazioni. Molti ricordano ancora lo sfogo d’esasperazione del 2010 di monsignor Michel Dubost, all’epoca vescovo di Evry-Corbeil- Essonnes, nella banlieue Sud di Parigi: «Questa volta, occorre smetterla». Ma da allora, un inquietante effetto d’emulazione sembra essersi ancor più propagato nel Paese. In certe contrade meridionali, come quelle in cui aleggia la fosca 'mitologia' di antiche offensive anticlericali, vengono regolarmente individuati gruppi di giovani sospettati di degradazioni più o meno gravi. L’ultimo caso del genere riguarda Lavaur, cittadina occitana non lontana da Tolosa, dove due liceali diciassettenni, descritti da fonti locali come 'di buona famiglia', ma 'sfaccendati', hanno appena confessato le loro responsabilità dirette negli atti di vandalismo all’interno della locale Cattedrale Saint-Alain, risalenti al 5 febbraio. Uno di loro ha ammesso di aver rubato un Cristo e di averlo gettato nel fiume Agout, con la complicità di una combriccola di coetanei dello stesso liceo, che dista solo 300 metri dalla cattedrale. In questo caso, è interessante notare il forte ruolo di sensibilizzazione presso la popolazione e il mondo politico da parte del sindaco, Bernard Carayon, parso decisivo nel rompere la catena d’omertà. Il gruppo è stato smascherato dopo la confessione di uno degli autori, giunto in commissariato scortato dai genitori, tre giorni dopo i fatti. L'ipotesi d’introdurre telecamere di videosorveglianza, spesso osteggiata in passato, torna al centro del dibattito. Padre Emmanuel Pic, il parroco a Digione responsabile della splendida chiesa gotica duecentesca appena profanata e già oltraggiata in passato, si è pubblicamente dichiarato possibilista, nelle ultime ore: «Ero contro, ma ormai mi chiedo se non sia una buona soluzione. I fatti di sabato si sono svolti in meno di venti minuti, con una reale volontà di nuocere. Non possiamo essere sempre presenti sul posto». In modo analogo a quanto è avvenuto a Nîmes, monsignor Roland Minnerath, vescovo di Digione, ha già celebrato una liturgia speciale di riparazione «per chiedere perdono» delle offese recate al cuore sacro dell’edificio. Il pastore ha anche incontrato Laurent Nunez, l’ex capo dei servizi segreti da poco divenuto segretario di Stato presso il Ministero dell’Interno, il quale, dopo il faccia a faccia, ha assicurato che lo Stato non intende gettare la spugna: «Siamo presenti per la protezione di tutti i culti». Nel caso dei cimiteri, la frequenza con cui i fatti si ripetono all’interno di certi perimetri funerari fa pensare a una sorta di macabra sfida lanciata alle autorità da parte di autori ricorrenti. A Saleilles, nella Catalogna francese, tre sepolture, fra cui quella di un neonato, subiscono da anni degradazioni regolari. Furti di preziosi oggetti sacri, sfide fra minorenni con connotazioni anticlericali o di altra natura, raid d’individui influenzati dall’ideologia jihadista o caduti nell’orbita del satanismo, uso delle ostie per 'riti magici': sono tanti i potenziali moventi evocati regolarmente nelle indagini per elucidare ogni singolo caso. Ma gli esperti non azzardano interpretazioni generali, tanto il male pare diffuso e al contempo radicato nel percorso individuale di ogni singolo profanatore.

Quando le chiese profanate non fanno notizia. Scrive Ermes Dovico il 22-02-2019 su La Nuova Bussola Quotidiana. Dall’inizio di febbraio a oggi si contano attacchi profanatori ad almeno sei chiese francesi, dal sud al nord del Paese, con statue di Gesù e Maria fatte a pezzi, croci disegnate con escrementi, tabernacoli violati e Ostie consacrate sparse per terra, a conferma che si è voluto colpire il cuore della fede cattolica. Il tutto avviene nella quasi totale indifferenza di media e istituzioni, sia Oltralpe che da noi. L’Europa si va scristianizzando senza che molti se ne curino, anzi, e altrettanta indifferenza si constata riguardo alla crescita degli atti anticristiani, a partire da quella che era una volta la cattolicissima Francia. Dal sud al nord del Paese transalpino, solo dall’inizio di febbraio a oggi si contano almeno una decina di attacchi profanatori, avvenuti per la gran parte all’interno di chiese, alcune delle quali oggetto di più sacrilegi in pochi giorni. Episodi documentati da quotidiani locali e raccolti sul sito dell’Observatory on intolerance and discrimination against christians in Europe (Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa). Tra le chiese più colpite c’è quella di San Nicola, a Houilles (nell’Île-de-France, la regione settentrionale che comprende Parigi) profanata tre volte nel giro di una settimana, cioè il 29 gennaio, l’1 e il 4 febbraio. Qui i vandali si sono scatenati prima su una statuetta di Cristo che porta la croce - oggetto di due attacchi consecutivi - poi hanno ridotto in frantumi una statua della Beata Vergine con Gesù Bambino. Il 10 febbraio in un’altra chiesa dedicata a San Nicola, stavolta a Maisons-Laffitte (sempre nell’Île-de-France), il tabernacolo è stato gettato a terra; la polizia ha tratto in arresto un uomo di 35 anni, che ha ammesso il sacrilegio compiuto. Il 3 febbraio le Ostie consacrate erano intanto state sparse sul pavimento della bella chiesa di Notre-Dame a Lusignano, nella Francia centrale, e il 5 febbraio era stato vandalizzato un crocifisso di legno posto sul ciglio di una strada nel comune di Labastide, nella fascia pirenaica dell’Occitania. Lo stesso giorno, ancora in Occitania, altre due chiese hanno subito atti gravemente offensivi verso Dio. Un incendio è stato appiccato nell’antica cattedrale di Lavaur (XIII secolo) dedicata a sant’Alano, bruciando la tovaglia dell’altare e il presepe prima che il fumo allertasse il segretario parrocchiale, con il successivo intervento dei pompieri: nello stesso luogo una croce è stata trovata sul suolo e un’altra con il braccio di Gesù rovinato. «Dio perdonerà, io no», ha detto nell’occasione il sindaco di Lavaur, Bernard Carayon, come riferito dal quotidiano La Croix. Sempre il 5 febbraio, su un muro della chiesa di Notre-Dame des Enfants, a Nîmes, è stata tracciata con degli escrementi una croce, appiccicandovi dei pezzi di Ostie consacrate. Il tabernacolo è stato inoltre danneggiato e altre Ostie distrutte. Tre giorni più tardi il vescovo di Nîmes, Robert Wattebled, ha diffuso un comunicato per annunciare un rito penitenziale prima della ripresa delle celebrazioni e chiedere a tutti i cattolici di associarsi nella preghiera di riparazione. Il 9 febbraio è stato dissacrato il tabernacolo della chiesa di Notre-Dame di Digione, in Borgogna: anche qui le sacre Particole sono state disseminate sul suolo, macchiando la tovaglia dell’altare e strappando il Messale. Come ha spiegato al giornale Le Bien Public un sacerdote della parrocchia, padre Emmanuel Pic, chi ha profanato la chiesa di Notre-Dame ha voluto colpire «il cuore della fede cattolica». Infatti, ha aggiunto padre Emmanuel, «non è stato rotto nulla di valore, ma è l’intento a essere molto scioccante. Questo è ciò che caratterizza la profanazione». I vandali, volendoli chiamare riduttivamente così, hanno cioè deciso di attaccare la santa Eucaristia perché sanno che essa è «un simbolo molto forte (per i parrocchiani), in quanto le Ostie consacrate durante la Messa non sono più un semplice pezzo di pane» ma si sono convertite interamente nel Corpo di Cristo. Dopo il sacrilegio di Digione, l’arcivescovo ha presieduto personalmente una Messa di riparazione. Almeno sei chiese, dunque, profanate nel giro di pochissimi giorni da una parte all’altra della Francia: difficile dire se tutti i sacrilegi siano collegati tra di loro, ma certo non si tratta di casi isolati né di un’ondata temporanea. Per stare ai dati diffusi dal ministero dell’Interno francese, nel 2018 si sono registrati 1.063 fatti anticristiani, in aumento rispetto ai 1.038 dell’anno precedente. Nel 2016, secondo il rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre, gli attacchi a siti cristiani in territorio transalpino erano stati 949, tra cui ricordiamo il caso più eclatante: l’uccisione, avvenuta il 26 luglio, di padre Jacques Hamel, oggi Servo di Dio (e di cui la Chiesa potrebbe presto riconoscere il martirio), assalito e sgozzato da due islamisti mentre celebrava Messa a Saint-Étienne-du-Rouvray (in Normandia), in una chiesa dedicata al protomartire santo Stefano. Come ha raccontato alla Nuova BQ una madre italiana di nome Barbara, che spesso si trova ad andare in Francia, il clima anticristiano è ben percepito Oltralpe malgrado se ne parli poco: «In ben tre occasioni ho trovato la polizia e l’esercito a proteggere le chiese. L’ho notato perché erano gli orari delle Messe. L’ultimo episodio risale a un anno fa, ad Aix-en-Provence. Quando sono passata davanti a una chiesa, durante la Messa vespertina del sabato, ho trovato uomini dell’esercito. Mi sono fermata a chiedere perché fossero lì, chiedendo se ci fosse qualche personalità in visita. Mi hanno risposto che erano lì “a protezione, per la tranquillità dei fedeli”». Barbara aggiunge che già in precedenza «a proteggere le chiese negli orari della Messa, avevo trovato la Gendarmerie, una prima volta a Marsiglia e una seconda a Nizza. Era una presenza molto forte, notevole: più auto disposte in modo da fare da scudo, attorno alla chiesa. Controllavano i passanti. Spesso si soffermavano a controllare quelli che, all’apparenza, erano arabi». Tre città diverse, dunque, e «ad Aix-en-Provence non c’è neppure una grande comunità musulmana. Sia nel 2017 che nel 2018 ho notato questa presenza armata lontano da date di attentati terroristici, non in coincidenza con allerte particolari, dunque. Nulla di cui abbiano parlato i media». Davanti a numeri e fatti come questi sarebbe il minimo denunciare pubblicamente la situazione di odio al cristianesimo che si va radicando in Francia e nel resto d’Europa - andando a sommarsi ai contesti più gravi di persecuzioni, tra l’Africa e l’Asia - ma le istituzioni rimangono in prevalenza silenti e lo stesso fa la gran parte del circo mediatico, tanto pronto a montare su altre campagne spesso ideologiche. Finora, rispetto a questi ultimi atti sacrileghi, la “voce” - tardiva - del governo si è fatta sentire con un messaggio via Twitter del primo ministro Edouard Philippe, scritto il 13 febbraio prima di un incontro programmato con i vescovi: «In una settimana, in Francia, 5 chiese degradate [6, ndr]. Nella nostra Repubblica laica, i luoghi di culto sono rispettati. Tali atti mi scioccano e devono essere condannati all’unanimità». Cinguettio a parte, pressoché il nulla da chi ha il potere. E pressoché il nulla anche dai media di casa nostra, fatta eccezione per qualche testata di area cattolica. La situazione della “laica” Francia, stretta tra multiculturalismo e secolarizzazione galoppante, è che la dimenticanza di Cristo si accompagna alla perdita di amore (quello vero, che arriva fino alla Croce) e ragione, finendo per lasciare spazio ai loro opposti. Che poi hanno una chiara matrice diabolica, sia che si tratti di satanisti sia che si tratti di fondamentalisti islamici, e non è un caso che coloro che in questi giorni hanno profanato le chiese abbiano voluto dissacrare i tabernacoli e quindi, come già osservava padre Emmanuel, il cuore della nostra fede: la Presenza reale di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento. I nemici di Dio ne sono consapevoli. Per porre rimedio a tanto male serve che ce ne ricordiamo anche noi, riscoprendo il tesoro di grazie che Gesù ci ha lasciato con l’Eucaristia. Ermes Dovico

·        Chiese chiuse in attesa di miracolo.

Chiese chiuse in attesa di miracolo. In Italia sono sempre più le parrocchie in cerca di preti, ma le vocazioni sono in calo, scrive Fabio Amendolara il 24 aprile 2019 su Panorama. «Chiuso in attesa di miracolo», era la frase impressa su un cartello di protesta attaccato al portone sbarrato di una delle chiese di Bagni di Lucca, 6 mila anime in Val di Lima, nel cuore della Toscana. Un tempo, sparse per le 25 frazioni, alcune delle quali oggi sono quasi disabitate, c’erano 20 parrocchie. I fedeli un anno fa invocarono un miracolo che non è arrivato. E i portoni sono rimasti chiusi o vengono aperti solo per i funerali e per qualche matrimonio. «È la crisi delle vocazioni», spiegarono dall’arcidiocesi. Un’emergenza che non risparmia alcuna delle aree interne del Paese e non solo. Ne sanno qualcosa in Basilicata, regione che detiene il record negativo per presenza di sacerdoti: il dato medio è di meno di uno ogni mille abitanti, contro gli oltre due preti del Molise e i due e mezzo della Calabria (il dato cambia totalmente in alcune regioni e sfiora i 15 sacerdoti ogni mille abitanti in Veneto, i 14 in Lombardia e gli oltre 13 nel Lazio). Ma tra i piccoli paesi che tentano di vivere nonostante la difficile orografia della Lucania, l’accorpamento delle parrocchie è una pratica messa in campo da tempo. E alcune tonache si fanno in quattro pur di far funzionare le chiese loro assegnate. A Pignola, comune alle porte di Potenza, il parroco dell’importante santuario della Madonna del Pantano fa anche il viceparroco nella chiesa madre e tiene aperte due chiesette di campagna. Ben quattro incarichi, che significano messe, funerali, confessioni, catechismo e celebrazioni varie. E il problema, campanile dopo campanile, è comune. «Anche qui, purtroppo, la carenza di vocazioni fa sentire il suo peso», spiega Giovanni Rosa dell’ufficio comunicazioni sociali dell’Arcidiocesi di Potenza e Muro Lucano. Uno dei due seminari del capoluogo lucano è stato recentemente chiuso e il secondo, nell’ultimo anno, ha prodotto soltanto due ordinazioni. Le oltre 26 mila parrocchie in Italia, dato un tempo sbandierato in ogni annuario vaticano, sono scese a 25.605 e il numero è in continuo calo. Nel 2018 le soppressioni degli enti ecclesiastici monitorate dalla Direzione centrale degli affari dei culti del ministero dell’Interno (incaricato di concedere loro personalità giuridica) sono state ben 66, contro le 29 del 2017 e le 53 del 2016. Nell’ultimo anno, insomma, si sono persi oltre cinque campanili ogni mese, a causa dell’esercito di tonache sempre più ristretto. I sacerdoti secolari, ossia quelli che non rispondono ad alcuna regola religiosa, sono ormai 28.160, quelli regolari sono 13.207 e i diaconi ammontano a 4.563 in tutto lo Stivale. E quindi, da Aosta alla punta della Sicilia, il problema è lo stesso. Giorno dopo giorno è sempre più difficile tenere le chiese aperte. Anche in città. A Bolzano, per esempio, rischia la chiusura la chiesa dell’ex ospedale militare di viale Druso, che fino a qualche anno fa faceva il pienone con oltre 120 fedeli, poi passati a una cinquantina e ora ridotti ad appena 40. Perché anche nel ramo militare i cappellani scarseggiano. E allora: dal mese di novembre del 2018, niente messe infrasettimanali, niente battesimi, zero matrimoni e zero funerali. Insomma, solo poche cerimonie militari e in orari d’ufficio. La versione dell’Ordinariato militare? «Spiace, manca personale, il cappellano fa quel che può ma deve dividersi fra qui e Vipiteno». A Rovigo, il vescovo Pierantonio Pavanello aveva in mente di accorpare sei comuni a Civitanova Polesine: Villanova del Ghebbo, Costa di Rovigo, Villamarzana, Pincara, Frassinelle e Arquà Polesine, ma il progetto è stato bocciato dai cittadini. E alla fine si è visto costretto ad avviare un innovativo percorso dal basso con i laici e i parrocchiani, per disegnare il futuro delle comunità cattoliche del Polesine. A Ravenna è rimasta chiusa per mesi la Basilica di San Giovanni Evangelista. I parrocchiani lo scorso dicembre si sono trovati un cartello davanti al cancello che li avvisava della sospensione di ogni attività a causa dei problemi di salute del parroco anziano. I fedeli sono allora migrati nella vicina Santa Maria in Porto. E lo stesso hanno dovuto fare i fedeli che frequentavano la chiesa di San Giovanni Battista, sempre a Ravenna, chiusa temporaneamente per il trasferimento del sacerdote. Anche qui le tonache vengono mosse dai vescovi sullo scacchiere del territorio: e c’è chi copre Marina di Ravenna e Punta Marina, chi Santo Stefano, Campiano e San Pietro in Campiano. Stessa sorte per Madonna dell’Albero, San Bartolo e Gambellara. A Lido Adriano il parroco ha superato gli 80 anni e si teme per il futuro. E anche in Campania, dove la media di sacerdoti ogni mille abitanti è abbastanza alta, totalizzando un bel 6,8, la situazione in alcune aree non è delle migliori. A Cervinara di Avellino, il vescovo, monsignor Felice Accrocca, ne ha riunite tre in un colpo solo, affidandole al povero don Pietro Florio che, però, è anche il rettore del seminario. Un dato che fa comunque ridacchiare i preti di Sinalunga, in provincia di Siena, dove le difficoltà sono maggiori: solo tre parrocchie su sette possono contare su sacerdoti effettivi e il territorio è anche diviso tra due Diocesi. Don Osman Cruz, da poco parroco della frazione di Bettolle, è anche amministratore apostolico a Guazzino e Scrofiano. Le altre due frazioni, Farnetella e Rigomagno, entrambe senza parroco, non rientrano nella competenza territoriale della Diocesi di Montepulciano, Chiusi e Pienza, ma appartengono a quella di Arezzo, Cortona e Sansepolcro. Ed è da lì che l’arcivescovo Riccardo Fontana manda il prete di Serre di Rapolano, «alternando di domenica in domenica », raccontano su Centritalianews, «anche gli orari delle messe nelle rispettive chiese». E, addirittura, a Rigomagno è costretto ad arrivare il sacerdote di Marciano della Chiana, che deve conciliare la sua attività anche con la chiesa di Badicorte, distante una ventina di chilometri. Un delirio. E a tappare i buchi vengono chiamati i sacerdoti stranieri. Le ultime statistiche sono del 2016: dei 1.690 (provenienti soprattutto dall’Africa), sono circa mille quelli chiamati a svolgere servizi pastorali, mentre 645 sono ancora nei seminari. Il numero di seminaristi, d’altra parte, è cresciuto solo in Africa. I dati globali sono in crescita: i ragazzi che scelgono il seminario sono passati da 27.483 a 28.528 unità, +3,8 per cento. I seminaristi maggiori, quelli cioè che sono nell’ultima fase degli studi e possono essere indicati come il potenziale di sostituibilità generazionale nell’esercizio pastorale, poi, confermano il primato africano, con ben 66  candidati ogni cento a fronte dei dieci ogni cento provenienti dall’Europa, dove si registra la stagnazione delle vocazioni. E dove una trasformazione e una sostituzione da un continente all’altro di sacerdoti è già in corso. 

·        Le chiese vittime di vandali e incuria.

Le chiese vittime di vandali e incuria. Nel 2018 1.063 segnalazioni. Quest'anno in una settimana 5 attacchi, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Le chiese francesi sono sotto tiro e stanno cadendo a pezzi. Lo scorso anno sono stati registrati 1.063 atti vandalici, furti o incendi nei luoghi di culto cristiani. Una media di oltre due chiese sotto attacco al giorno. E guai a parlare di migranti o islamici, anche se gli assalitori delle chiese francesi sono di tutti i generi compresi gli adoratori di Satana. Lo stato francese è responsabile dell'incuria e dell'abbandono dei luoghi di culto d'oltralpe dopo averli in gran parte nazionalizzati nel 1905. Nella notte del rogo di Notre Dame i siti jihadisti di mezzo mondo hanno esultato per il colpo ai «cuori dei leader crociati». Gli orfani dello Stato islamico si sono scambiati immagini del drammatico incendio esprimendo giubilo per il simbolo della cristianità che stava andando in fumo. Il sito specializzato americano Site, che monitorizza i canali jihadisti in rete, parla chiaramente di «baldoria» degli estremisti islamici sui social. Non è un caso l'aumento di atti vandalici, furti e incendi nei confronti delle chiese in Francia, lo scorso anno aumentati del 17% rispetto al 2017. E dall'inizio dell'anno, in una sola settimana, ben cinque chiese sono finite sotto tiro. Il 6 febbraio la chiesa di Notre-Dame dei bambini a Nimes è stata pesantemente vandalizzata. Il tabernacolo con le ostie fatto a pezzi e gli ornamenti dell'altare buttati per aria. I vandali hanno anche disegnato una croce su una parete con degli escrementi. La chiesa di San Nicola di Houilles è finita per tre volte sotto il tiro dei vandali solo in febbraio. Una statua della Vergine Maria è stata letteralmente polverizzata. Pure la cattedrale di Saint Alain a Lavaur è finita nel mirino. Padre Emmanuel Pic ha spiegato che «niente di valore è stato portato via». I profanatori volevano dimostrare la loro rabbia nei confronti «del cuore della fede cattolica» secondo il religioso. Il 17 marzo è stato appiccato un incendio alla chiesa di Saint Sulpice, la seconda più grande di Parigi, dove sono state girate diverse scene del film Codice da Vinci. Fin da febbraio il primo ministro Edouard Phillipe aveva lanciato l'allarme su «cinque chiese dissacrate in una settimana». Purtroppo lo stato francese ha una buona dose di responsabilità per l'incuria, la scarsa attenzione e sensibilità nei confronti delle chiese. La legge di confisca dei beni ecclesiastici del 1905 ha prodotto effetti collaterali che riguardano direttamente il rogo di Notre Dame. Il gioiello gotico non appartiene al Vaticano, ma allo stato che non ha mai curato in maniera adeguata questo patrimonio dell'umanità. Dei 150 milioni di euro necessari per il restauro e messa in sicurezza della cattedrale il governo ne ha sborsati appena due per la guglia andata in fumo. Da tempo cadevano pezzi di pinnacoli e balconate, ma lo Stato pensava solo ad incassare i quattro milioni all'anno dei biglietti dei turisti che visitano le torri. Il governo aveva addirittura proposto la beffa di una lotteria di beneficenza per salvare le chiese di Francia. I luoghi di culto dispersi sul territorio sono spesso in mano ai comuni di sinistra che non hanno voglia di sostenere i costi di manutenzione. E fanno di tutto per demolirli trasformandoli in parcheggi o per cambiare la destinazione d'uso in sale polifunzionali, discoteche e in alcuni casi moschee. La Francia mette in vendita o abbandona circa venti chiese all'anno.

·        Notre Dame de Paris. Il falò di una cultura: è l'11 settembre dell'Europa cristiana.

Incendio devasta Notre Dame. Le fiamme sono il tramonto forse definitivo dell'emblema di una città e una nazione, scrive Stenio Solinas, Martedì 16/04/2019, su Il Giornale.  Sei anni fa lo scrittore non conformista Dominique Venner scelse Notre-Dame per uccidersi con un colpo di pistola. Era il suo modo di dire addio a una «certa idea» della Francia e dell'Europa, una nazione e un continente di cui si ostinavano a rimanere in piedi i monumenti, ma si era nei secoli disseccata la linfa; una protesta e, insieme, una rivendicazione perché le ragioni per vivere e le ragioni per morire sono spesso le stesse e quando le parole sembrano risultare impotenti, è necessario un atto per esprimere ciò che si prova. Al simbolismo di quel gesto, ieri, come per un paradossale gioco di specchi, le immagini di quella cattedrale che si accartoccia sotto il fuoco restituiscono un significato esemplare: raccontano cioè il tramonto forse definitivo di ciò che a lungo fu un susseguirsi di splendide aurore, l'auto-dissolversi in un fuoco che nulla ha di purificatore, ma tutto dell'imperizia, della malagrazia, della trasformazione di un luogo di culto e di arte, in un divertimentificio di massa, gadget, business, dell'emblema stesso di una città, di una nazione. Sempre simbolicamente, raccontano la distanza siderale che separa la politica contemporanea, quella francese, ma in fondo quella di tutto il Vecchio continente, da ciò che nella storia l'ha preceduta, i cortei di regni e di religioni, i capolavori della pittura e dell'ingegno, la voglia di lanciare un'idea di civiltà che oltrepassasse il tempo dell'agire umano per dilatarsi nell'eternità. Infine, e ancora simbolicamente, quelle guglie che scompaiono rimandano sì alla memoria le immagini dell'11 settembre, le Twin Towers attraversate da un proiettile di fuoco, solo che qui c'è l'aggravante, come dire, dell'incuria umana rispetto al nichilismo distruttore e omicida. Nessuno ha voluto colpire Notre-Dame, non c'è alcun nemico contro cui combattere e contro il quale dichiararsi uniti. Una parte ideale dell'Europa brucia come in una sorte di falò rituale, per stanchezza, per eccesso di sicurezza, per aver perso il proprio centro. Ideale, sacrale. Ambiziosa per dimensioni, edificata, a partire dal 1160, sul luogo dove sorgeva la merovingia Saint-Etienne, Notre-Dame subì le sue devastazioni peggiori al tempo della Rivoluzione francese, quando la furia iconoclasta del razionalismo giacobino ne deturpò la facciata e trasformò il suo interno in un deposito. Pochi anni dopo, però, Napoleone la scelse per la cerimonia con cui, incoronando se stesso imperatore, riconciliava la Chiesa e la nazione, il passato al presente. Da allora, la cattedrale è entrata nell'immaginario non solo francese, finendo per incarnarsi con una grandeur che sempre più trovava la sua ragion d'essere aggrappandosi a ciò che era stata, la mediocrità dei tempi e degli uomini impedendole di ripetersi. Chi ricordi il rogo veneziano della Fenice, non può ora che augurarsi che anche nel caso di Notre-Dame si proceda con un «com'era, dov'era», l'unico modo per premiare la storia e la memoria e non correre dietro alle bizzarrie architettoniche spacciate per moderni «omaggi». Quel fuoco ci ricorda, comunque, che nella storia europea nulla è dato per scontato, che più ci si ostina a considerare ciò che si è stati come un mero reperto archeologico, più esso si vendica infliggendoci le ferite più profonde. Quelle che non si cicatrizzano.

“C’ERA UNA GRANDE FIAMMA TRA I CAMPANILI”, LA TERRIBILE PROFEZIA DI VICTOR HUGO. Da Il Messaggero il 16 aprile 2019. Una descrizione sorprendente dell'incendio della cattedrale di Parigi quello immaginato dallo scrittore francese Victor Hugo nel suo romanzo «Notre Dame de Paris» (1831), descritto con l'incipit: «Il clamore era straziante». «Tutti gli occhi si erano alzati verso il sommo della chiesa, ciò che vedevano era straordinario. In cima alla galleria più elevata, più in alto del rosone centrale, c'era una grande fiamma che montava tra i due campanili, con turbini di scintille, una grande fiamma disordinata e furiosa di cui il vento a tratti portava via un limbo nel fumo». Hugo descrisse l'incendio che devastò la cattedrale ancora in questi termini: «Sotto quella fiamma, sotto la cupola balaustrata in tagliata a trifogli di brace, due grondaie fatti a fauci di mostri vomitavano senza posa quella pioggia ardente il cui argenteo scroscio risaltava nell'ombra della facciata inferiore». Lo scrittore francese Victor Hugo criticava aspramente lo stato di degrado della cattedrale di Parigi nel romanzo che gli avrebbe dato il successo eterno, con l'obiettivo di riuscire a far partire i necessari restauri per fermarne la rovina. «Il tempo è cieco e l'uomo è stolto», scrisse. E come monito aggiunse: «Se avessimo il piacere di esaminare una ad una le diverse tracce di distruzione impresse sull'antica chiesa, quelle dovute al tempo sarebbero la minima parte, le peggiori sarebbero dovute agli uomini».

Notre-Dame, il rogo e quella inquietante fotografia: tutto già scritto? Oltre il presagio, scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. C'è chi ha creduto di ravvisare una misteriosa predizione dell' incendio di Notre-Dame in un passo del romanzo di Victor Hugo, "Notre Dame de Paris" (1831), dove si parla di «una grande fiamma che montava tra i due campanili», ma in realtà quello era un "trucco" pensato da Quasimodo, non un incendio della cattedrale. Ben più sorprendente è questa immagine sacra di fine Ottocento finalizzata alla devozione al Sacro Cuore di Gesù: il voto della Francia al Sacro Cuore è del 1873 ed è legato a una profezia seicentesca della Rivoluzione del 1789 fatta a Santa Margherita Maria Alacoque. In questa immagine ottocentesca, dunque, si rappresenta un incendio di Notre-Dame esattamente come è accaduto lunedì scorso. Sulla destra un analogo incendio è rappresentato alla base della cupola di San Pietro, a Roma. Al centro c'è la figura di Gesù e sotto questa preghiera: «O Cuore di Gesù, non guardate i nostri peccati, ma il sangue dei martiri che grida misericordia!». C'erano state le profanazioni di Notre Dame (nella Rivoluzione del 1789) e poi le violenze della Comune di Parigi (1871), quando fu fucilato l'arcivescovo mons. Darboy, ma non si ricordano, fino a lunedì scorso, incendi della cattedrale di Parigi.

Roghi, guerre e bufale Le profezie (apocrife) del mago Nostradamus. Notre-Dame, populisti al potere in Europa, Italia invasa dai migranti. Tutto previsto? No, però..., scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Nostradamus ha previsto tutto. Anzi, nulla. Anzi, qualcosa. Sul web gira questa quartina del mago rinascimentale: «La grande guerra inizierà in Francia e poi tutta l'Europa sarà colpita, lunga e terribile essa sarà per tutti poi finalmente verrà la pace ma in pochi ne potranno godere».

Suggestivo. In Francia brucia uno dei simboli della religione cristiana. Dai fondamentalisti islamici, la catastrofe è interpretata come una punizione di Allah che colpisce i miscredenti. L'Europa sarà colpita e forse affondata dalle ormai prossime elezioni in cui rischiano di vincere proprio le forze populiste. Potrebbe essere un bene, l'Unione per ora non entusiasma i cittadini. Oppure potrebbe innescare una retromarcia continentale, da molti temuta, sul tema dell'unità. Resisteranno le istituzioni di Bruxelles o saranno abbattute come la cattedrale di Parigi? Nel frattempo al di là del Mediterraneo, come nel libro (quello sì profetico) Il campo dei santi di Jean Raspail, ci sarebbero ottocentomila profughi pronti a partire, destinazione Italia. Si profila una catastrofe umanitaria dovuta alla pessima gestione della crisi libica, innescata dal tentativo francese di includere il Paese nella propria sfera d'influenza africana. Suggestivo, si diceva. Ma falso. Infatti la quartina che spopola su internet è una patacca. Basta una rapida verifica sul testo delle Profezie di Nostradamus per togliersi ogni dubbio. Una burla molto efficace visto che rimbalza su internet dopo ogni attacco alla Francia, in particolare dalla strage del Bataclan (13 novembre 2015) in poi. Evidentemente tanto successo non è casuale. Molti cittadini pensano che tutto sommato lo scenario di una guerra o guerriglia (civile? Religiosa? Entrambe le cose?) che spacchi l'Europa non è così peregrina.

Le Profezie di Nostradamus sono così vaghe da permettere di vedervi ciò che si vuole: la rivoluzione francese, l'avvento di Adolf Hitler, la bomba atomica, il crollo del Muro di Berlino, l'11 settembre. Chi cerca, trova. Ecco una quartina vera, la numero 51 delle Profezie: «Capo d'Ariete, Giove e Saturno, / Dio eterno quali sconvolgimenti! / Poi per lungo secolo il suo maligno tempo ritorna, / Francia e Italia quali sommosse». Secondo gli astrologi, la prima riga indica una congiuntura astrale che riconduce a una data precisa, il 15 aprile 2019. La seconda riga allude al rogo di Notre-Dame, che sarebbe lo sconvolgimento del «Dio eterno». La terza e quarta riga prevedono un lungo secolo di guerra, con Francia e Italia epicentri della devastazione.

Tutto ridicolo? Mica tanto. Lasciamo da parte Nostradamus. Di recente una legione di scrittori, non solo romanzieri, si sono misurati proprio con questi temi. Sottomissione di Michel Houellebecq, Aprile di Jérémie Lefebvre, Il suicidio francese di Éric Zemmour, La Guerre civile qui vient di Ivan Rioufol, Les Cloches sonneront-elles encore demain? di Philippe De Villiers, Guerriglia. Il giorno in cui tutto si incendiò di Laurent Obertone. Dai libri citati in questo elenco molto parziale, escono proprio le paure di cui abbiamo parlato: fallimento della globalizzazione che conduce all'islamizzazione dell'Europa e alla riduzione in povertà della classe media. Concentrazione delle ricchezze in poche mani. Abbandono delle periferie e della provincia profonda. Nostradamus c'entra niente ma quella chiesa che brucia, scelta dallo storico Dominique Venner per suicidarsi come protesta contro l'Europa senza radici, è un presagio dei peggiori.

"I portali furono costruiti da Biscornet con l'aiuto determinante del diavolo". La studiosa e scrittrice Barbara Frale: "I sotterranei sono ancora tutti da scoprire", scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Barbara Frale è una storica medievista nota per i suoi studi sui templari e la Sindone. Ha scritto anche romanzi di cui uno intitolato I sotterranei di Notre-Dame (Newton Compton). Le abbiamo chiesto di raccontarci la storia della Cattedrale e i suoi misteri.

Cos'è per i francesi Notre-Dame?

«La chiesa concentra tutta la storia della Francia, ha un valore simbolico altissimo. È dedicata a Maria che da sempre era considerata la protettrice dei re di Francia».

Un simbolo pieno di altri simboli, alcuni anche esoterici...

«È difficile trovare qualcosa che dentro Notre-Dame non sia un simbolo. A partire dalle reliquie, la più importante è la spina della corona di spine di Gesù portata in Francia da Luigi IX detto il santo. Poi nell'architettura stessa a partire dal Rosone, che richiama continuamente i numeri magici 3 e 12, ci sono infiniti messaggi nascosti. Questo è normale per una costruzione gotica. Nel gotico ci sono sempre più livelli di narrazione. Uno comprensibile a tutti un altro più esoterico. Una cattedrale gotica va letta come si leggerebbe la Divina Commedia».

E i gargoyle e le chimere?

«Sono tra le statue più conosciute della cattedrale ma sono un'aggiunta ottocentesca. Quando l'architetto Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc fu incaricato del restauro ne ha aggiunti in gran numero ma sono una sua reintrepretazione del gotico. Le cattedrali gotiche non sono oggetti statici, morti, crescono nel tempo».

Anche la guglia crollata era ottocentesca?

«Sì Notre-Dame ha subito danni gravissimi durante la rivoluzione francese, molto più gravi di quelli che ha subito nell'incendio di lunedì. Fu spogliata, gli arredi sacri in oro furono fusi e la guglia demolita. La Flèche (la guglia Ndr) è stata ricostruita nell'ottocento. Per rendere l'idea Napoleone fece ricoprire le pareti della Cattedrale con le bandiere nemiche prese ad Austerlitz anche per coprire i danni che la deturpavano».

E la leggenda delle porte?

«Quella è davvero molto gotica. Racconta che per costruire le parti metalliche dei portali originali il fabbro Biscornet, temendo di non riuscire nell'opera, si rivolse al diavolo. Il risultato fu un'opera meravigliosa e l'artigiano alla fine riuscì pure a salvare la sua anima dal maligno... Leggende così sono tipiche delle cattedrali e rimandano alla leggenda sulla creazione magica del tempio di Salomone. Nella cultura gotica magia non è per forza qualcosa di sbagliato o contrario alla religione».

E i sotterranei di cui parla nel suo libro?

«Quelli sono ancora da indagare. Già Victor Hugo che li aveva attraversati diceva di avervi visto delle strane scritte in greco. C'è la parola Ananké, necessità, chissà chi l'ha scolpita e perché...».

Notre-Dame, il bruttissimo dubbio su Papa Francesco: mentre la chiesa bruciava..., scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Mentre la cattedrale di Notre Dame crollava travolta dalle fiamme, dal Vaticano Papa Francesco ha taciuto a lungo, tutta la sera, fino alla notte, parlando per la prima volta solo al mattino seguente. Fuori dalla chiesa, simbolo della cristianità, una folla spontanea si era raccolta per pregare, davanti a quel rogo che sembrava impossibile da domare. E invece dal Papa neanche una parola. I primi a parlare sono stati i vescovi francesi, riporta Il Giornale, come il nuovo presidente Eric de Moulins-Beaufort, che ha ricordato come "niente su questa terra è fatto per durare per sempre". Lo hanno seguito i vescovi italiani, che hanno inviato "un abbraccio fraterno" all'arcivescovo di Parigi, come hanno fatto pure quelli di Vienna e Londra. Hanno parlato praticamente tutti, ma Papa Francesco no, nonostante stesse bruciando la seconda chiesa più visitata dopo San Pietro, nonostante lui fosse spesso solerte a lanciare moniti a favore, per esempio, dei migranti. Solo nella tarda serata di lunedì dal Vaticano è arrivato un messaggio striminzito in cui si annuncia che "la Santa Sede ha accolto con choc e tristezza la notizia del terribile incendio", che ha devastato un "simbolo della cristianità". Il giorno dopo arriva un tweet del portavoce ad interim, Alessandro Gisotti, che informa come "il Papa è vicino alla Francia, prega per i cattolici francesi e per il popolo di Parigi" e "assicura la sua preghiera a tutti coloro che si stanno impegnando per far fronte a questa drammatica situazione". Bisognerà aspettare le 12.40 del martedì perché le agenzie scrivano di un telegramma inviato dal Papa a monsignor Michel Aupetit, arcivescovo di Parigi. A 18 ore dall'incendio, che evidentemente interessa meno la Santa Sede di altri temi.

“QUI STA SUCCEDENDO QUALCOSA D’ALTRO…”.  Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2019. Sono bastate poche parole - e peraltro vaghe - come «Qui sta succedendo qualcosa d' altro» per innescare il complottismo nella vicenda del rogo di Notre-Dame. Però queste parole vengono da uno che il monumento di Parigi lo conosce bene: Ken Follett, l' autore dei I pilastri della terra , sterminata trilogia sulla costruzione di una cattedrale gotica nell' Inghilterra medioevale. Ospite della popolare trasmissione «Good Morning Britain», lo scrittore ha osservato che le fiamme si sono propagate ad una velocità insolita e che «forse le travi in legno sono state inghiottite dal fuoco prima che il tetto crollasse». Follett ha parlato osservando le immagini che mano a mano arrivavano da Parigi, dove l' inferno che per ore è rimbalzato sulle televisioni di mezzo mondo assomigliava più ad un film tratto dai suoi romanzi che ad un video di cronaca. E forse un' altra sua dichiarazione ci aiuta a capire la sfumatura complottista: «Sono inorridito - ha detto -. È come se qualcuno fosse morto». È questo il punto: a tutti quel rogo è parso simile a una pira che stava bruciando una persona viva , una persona cara, piena di simboli, ricordi, echi musicali e memorie infantili. «Non è possibile», è stato uno dei commenti più ricorrenti sui social network. Appunto: quel «non è possibile» ha confuso la realtà e il romanzo, la visione apocalittica del Medioevo che la cattedrale ha improvvisamente sprigionato dalle fiamme e i numeri della tragedia. Che Follett abbia parlato da scrittore?

L'HANNO BRUCIATA I SOVRANISTI. ANZI NO, I MUSULMANI. Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” il 17 aprile 2019. Ieri ho scoperto di essere una brutta persona. Ho sfogliato i giornali, letto i siti, guardato i talk show, e nulla: quando ormai era l' imbrunire, a me quello di Notre-Dame continuava a sembrare solo un doloroso incidente. Un lutto. Un grosso dispiacere, per carità. Ma non riuscivo a scorgervi metafore, predizioni, simbologie. Niente di niente. Mi sentivo strana, diversa, esclusa dall' abbagliante visione di un segnale di imminente sciagura o di profezia, come quando tutti vedono Gesù o un elefante in una nuvola, te lo indicano col dito dicendo "Lì, lì!" e tu vedi solo un cumulonembo grigiastro. Ieri è andata un po' così. Ognuno nell' incendio della cattedrale ha visto quello che voleva. Partiamo dal catastrofismo. Repubblica ha titolato a tutta prima pagina: "Notre-Dame non c' è più. Rogo distrugge la chiesa più visitata del pianeta". A parte il far credere che Notre-Dame sia stata polverizzata, si è proprio utilizzata la parola "pianeta" per avvicinare ancora di più il concetto a una catastrofe spaziale tipo un meteorite che l' ha centrata in pieno. Tra l' altro, Notre-Dame non è affatto la chiesa più visitata del pianeta e nemmeno d' Europa, visto che la superano San Pietro, la basilica di Guadalupe e altre sudamericane. Il peccato diventa però veniale se si passa all' editoriale online di Francesco Merlo, "La Waterloo dell' idea di nazione". "Il fuoco è cieco, è vero, ma nell' Europa che diventa sovranista con Notre-Dame sta bruciando l' idea di nazione. Quel tetto in fiamme è infatti il tetto che ci copriva tutti, non una rovina che va in rovina come Palmira o i Buddha dell' Afghanistan. () Alla fine, forse c' è un mistero che dà senso al fuoco cieco che forse è un avvertimento () forse queste fiamme illuminano l' epoca come una piccola Waterloo". Quindi Palmira e i Buddha erano rovine che andavano in rovina, non patrimoni storici e culturali fatti saltare dall' Isis e dai talebani col tritolo. Ma soprattutto con Notre-Dame non sono bruciati un tetto e una guglia, ma l' idea di nazione. "Con lei si sgretola anche una parte della nostra identità di Europei. () Come un' aritmia del cuore che non si può controllare. Come un riflesso condizionato dell' anima", aggiunge in un altro sobrio editoriale Marino Niola. "Il Giornale" di Sallusti si spinge oltre, definendo l' incendio "L' 11 settembre dell' Europa cristiana" (mancano solo 3 mila morti e due guerre). Ora, capisco che l' evento offra spunti meravigliosi per suggerire l' avanzata in Europa dei turchi a cavallo, ma un po' di lucidità non guasterebbe. Il ministro Salvini, in compenso, ci fa sapere con una foto su Instagram che lui non guardava gli speciali su Notre-Dame perché seguiva in tv Il Grande Fratello. Naturalmente era un messaggio subliminale di antipatia per la Francia, ma la notizia confortante è che non lo vedremo mai con una divisa da pompiere francese. Claudio Borghi si concentra sui nemici islamici e con l' ausilio del traduttore automatico di Twitter ci spiega quattro commenti in lingua araba su France 24 che parrebbero fare ironia sull' incendio, a dimostrarci che la Francia ha le serpi in seno. Del resto 4 commentatori sui 6 milioni di musulmani residenti in Francia rappresentano un campione statistico preoccupante. Per Borghi è pronta la Legion d' onore. Nel frattempo su Huffington Post appare un articolo del quale mi limiterò a riportare un unico passaggio: "Pensieri irrefrenabili che affollano la mente di fronte a una tragedia del genere. Forse il fantasma di Quasimodo il Gobbo ha detto basta. Chissà. Era un rom come Esmeralda lui la salvò dalle grinfie di Frollo, nascondendola a Notre-Dame dove avrebbe avuto diritto d' asilo". Nazionalismo vs Europeismo in salsa Hugo/Disney. Paola Ferrari twitta "Vera follia posizionare le impalcature infiammabili" e nel mezzo di una rissa virtuale, nell' ordine, le fanno notare che: a) le impalcature sono in acciaio; b) le uniche impalcature infiammabili sono le sue. Su Instagram va forte la foto della gita in V liceo davanti alla cattedrale e frasi addolorate perché JesuisNotreDame. Poi esce la vignetta di Charlie Hebdo e subito su vari siti di informazione: "Charlie Hebdo non si smentisce!". E non si vede perché Charlie, mentre brucia Notre-Dame, dovrebbe passare dal black humour alle barzellette sui carabinieri. C' è poi il filone mistico : girano le foto dell' interno della chiesa pressoché intatto con una croce sulla sfondo che diventa il simbolo del Cristianesimo che resiste all' Islam, dell' Occidente che non soccombe allo scintoismo, della supremazia del panino al prosciutto sulle spalmabili, del futuro che si arrende all' ineluttabile affidabilità del carretto trainato dal mulo tisico. Tutto brucia, tranne le metafore. Su Rete4, infine, va in onda il vero scontro tra civiltà: Vittorio Sgarbi vs Alessandro Meluzzi, ospiti di Nicola Porro. Sgarbi spiega che non è accaduto nulla di irreparabile e non è bruciata alcuna opera di valore. Meluzzi lo contesta: "Questa è una catastrofe per la Cristianità!". Sgarbi lo manda aulicamente a cagare vincendo la palma del personaggio più sobrio e lucido della giornata. E questo sì che è un segnale inquietante per l' Occidente.

Gigio Rancilio per “Avvenire” il 17 aprile 2019.  Ormai succede ogni volta. E segue uno schema preciso. Appena il mondo si trova ad affrontare una tragedia, nei social spuntano speculatori e untori. I primi puntano ad avere «clic» sui loro siti, così da fare soldi con la pubblicità; i secondi vogliono seminare odio. Appena le televisioni del mondo, lunedì sera, hanno incominciato a trasmettere le immagini di Notre-Dame in fiamme su Twitter sono spuntati profili falsi sia di canali televisivi come Fox News sia della cattedrale di Notre-Dame. Prima che Twitter li bloccasse sono riusciti a raccogliere migliaia di follower e a diffondere disinformazione. Su Facebook nel frattempo il solito perfido G.M.S. (non indichiamo per intero le sue generalità per non fargli la pubblicità che cerca) ha creato un video finto dove impersona un operaio italiano che ammette di avere appiccato l' incendio per sbaglio e chiede scusa alla Francia e all' Italia. In poche ore è stato visto quasi 260mila volte e condiviso 1.242 volte, soprattutto da persone che l' hanno creduto vero. Come segnala Bufale.Net, su Twitter è stato creato anche un finto profilo della Cnn, la più importante rete all news americana, per lanciare tweet simili: « CNNpuò confermare che l' incendio di Notre-Dame è stato causato da un attacco terroristico ». Ancor più grave è ciò che è accaduto alla diretta Facebook del quotidiano francese Le Figaroe ai post sull' incendio pub- blicati sulla pagina social dall' emittente araba al-Jaazera. In entrambi i casi, accanto a numerosi messaggi di cordoglio dal mondo arabo, ci sono state anche molte persone che hanno commentato le immagini con l' emoticon della faccina che ride, così da sottolineare la felicità per quanto accaduto. Una minoranza, visto che il triplo degli arabi che hanno commentato su al-Jazeera ha espresso dolore. Questi ultimi però, per Damien Rieu, il politico francese che odia i migranti, non esistono. Così ha subito dato fuoco alle polveri sui social e sui giornali amici attaccando tutti gli islamici. Seguito a ruota in Italia dai soliti siti di propaganda antiimmigrati. Quando accadono queste tragedie misuriamo ogni volta quanto sia fragile il sistema nel quale siamo immersi e quanto sia ormai facile diffondere odio e disinformazione nel mondo digitale. Persino alcune persone al di sopra di ogni sospetto, finiscono a volte per diventare (ignari) complici di queste operazioni. Lunedì sera persino un politico americano democratico, che scrive anche per riviste importanti, è caduto nel tranello. Ha infatti twittato: «Un amico gesuita che lavora a Notre-Dame mi ha detto che per loro l' incendio è doloso». Con tutta probabilità l' amico si era sfogato. Aveva riportato una «sensazione ». Ma la voglia di spiegare e di raccontare subito ha travolto il giornalista-politico che ha lanciato una notizia non verificata, alimentando la tesi di chi puntava già (senza prove) il dito contro i terroristi islamici. Quando si è accorto della gravità del suo tweet, l' ha cancellato. Ma il messaggio ha continuato a girare sui social in forma di immagine. Perché, come ha evidenziato uno studio recente su Twitter, «le fake news si propagano sui social cinque volte più velocemente della verità».

Da “la Verità” il 17 aprile 2019. Lunedì sera il pubblico di Otto e mezzo ha vissuto una singolare esperienza di straniamento. Tutti i telegiornali avevano trasmesso le immagini delle fiamme su Notre Dame. La guglia trasformata in torcia, i parigini sgomenti in preghiera, un colpo al cuore della nostra civiltà. Prontamente, la Rai sovranista ha stravolto il palinsesto, cancellato Il commissario Montalbano e lasciato in onda Francesco Giorgino per l' edizione straordinaria del Tg1. Rete 4 ha soppresso Stasera Italia e anticipato di un' ora Quarta Repubblica di Nicola Porro. Solo nell' europeista La7 il tg ha passato la linea al talk show registrato di Lilli Gruber dove si parlava di crisi libica e delle ondate migratorie che fanno litigare i due vicepresidenti del Consiglio, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Ma La7 non era un canale all news, la nostra Cnn, la rete che fa vero servizio pubblico?

DEFICIENZA ARTIFICIALE. Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 18 aprile 2019. Cercano un cerino in mezzo ai resti di una cattedrale, un mozzicone di sigaretta, la cannella di una fiamma ossidrica, o magari le tracce chimiche di un combustile, White Spirit, benzina: i tecnici del laboratorio centrale della prefettura di Parigi stanno cominciando a lavorare tra le macerie di Notre Dame , anche se non possono ancora avanzare fino al cuore della cattedrale. «Per fortuna non ci sono vittime, questo significa che possiamo concentrarci subito sulle cause dell'incidente» ha detto ieri una fonte vicina all'inchiesta. La pista dell' incidente resta sempre quella privilegiata, ma ripetono tutti - «nessuna ipotesi è scartata». La prima cosa da trovare è dove tutto è cominciato. «Difficile, difficilissimo, ma non impossibile» ha commentato ieri all'agenzia Reuter Benjamin Gayrard, segretario generale della polizia scientifica. Tutto converge verso un punto nascosto alla base della guglia ormai carbonizzata, al lato sud, verso la Senna. In mezzo ai ponteggi del cantiere di restauro cominciato nel luglio scorso. Si pensa che lì sotto sia partita la scintilla del disastro, più in basso delle capriate di quercia. Quanto tempo il fuoco ha covato prima di attaccare il legno della struttura? La domanda ne porta con sé un' altra. Perché un segnalatore di fumo ha fatto scattare un allarme informatico alle 18 e 20 di lunedì? Un agente della sicurezza si è recato sul posto in cui avrebbe dovuto esserci un problema e non ha trovato nulla di sospetto. Nulla, né fiamme, né fumo, né odore di bruciato. 23 minuti dopo, è scattato un secondo allarme, questa volta in un punto diverso, un po' più lontano, a livello delle capriate di legno, e questa volta l' agente si trova davanti a fiamme già alte. È ormai troppo tardi. Un bug informatico potrebbe aver segnalato il primo fuoco in un punto sbagliato della cattedrale? O, ancora più inquietante, potrebbero esserci stati diversi focolai, riaprendo in questo caso l' ipotesi della pista criminale? Gli inquirenti continuano a ritenere più probabile un incidente, una fatalità o un errore umano, un cortocircuito (ben due ascensori erano stati installati sui ponteggi che avviluppavano la guglia), una sigaretta spenta male, un punto caldo provocato magari da una saldatura. La ditta responsabile dei ponteggi, Le Bras Frères, un'azienda familiare specializzata nel restauro di monumenti storici, esclude qualsiasi responsabilità. «Lunedì, l'ultimo dei dodici operai al lavoro sulla cattedrale, ha lasciato il cantiere alle 17 e 50 ha spiegato ieri un portavoce dell'azienda Tutto è stato fatto nel rispetto delle procedure e regolarmente annotato nei quaderni dei lavori: togliere l'elettricità, spegnere gli interruttori, chiudere la porta a chiave e consegnare le chiavi in sacrestia. E inoltre, lunedì, non era stato compiuto nessun lavoro di saldatura». In attesa di poter lavorare tra i resti delle capriate e della guglia che si trovano nella parte ancora non in sicurezza della cattedrale, gli inquirenti hanno cominciato a interrogare tutte le persone presenti dentro la cattedrale lunedì pomeriggio. L'obiettivo è «analizzare tutti i movimenti e se possibile anche tutti i gesti di chi era lì». Nonostante la distruzione della scena del delitto la procura di Parigi assicura che «si arriverà alla verità». «Anche quando avremo trovato il punto esatto in cui l' incendio è cominciato, analizzeremo come si è propagato. Non ci accontenteremo di una spiegazione basata su idee preconcette». Ovvero: fino all' ultimo l'ipotesi criminale non sarà scartata. Stabilire responsabilità servirà comunque a poco dal punto di vista dei risarcimenti assicurativi. Ieri una fonte del governo ha confermato al Parisien che «Notre Dame non è assicurata». Lo Stato proprietario della cattedrale - non è infatti tenuto ad assicurare tutti i suoi beni e potrebbe al massimo rivalersi sulle società che stavano lavorando ai restauri. Ma anche il massimo degni indennizzi (in questi casi qualche milione di euro) sarebbe comunque irrisorio rispetto ai costi della ricostruzione.

Notre-Dame, dopo le prime fiamme trenta minuti di errori. Ecco cos’è successo. Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Stefano Montefiori, corrispondente a Parigi su Corriere.it. Tre mesi dopo l’incendio che ha fatto crollare la guglia di Notre-Dame, la cattedrale più celebre al mondo resta al centro delle attenzioni di politici, cittadini, media, esperti d’arte. Martedì il Parlamento ha adottato in via definitiva il progetto di legge che dovrebbe consentire di raggiungere il traguardo: riapertura entro 5 anni. Una nuova ricostruzione del New York Times indica una serie di errori che la sera del 15 aprile hanno permesso alle fiamme di guadagnare terreno per 30 cruciali minuti. E mentre il rischio di un crollo totale non può essere scartato, una denuncia ha obbligato ieri il municipio di Parigi ad annunciare una «pulizia approfondita» delle scuole per fine luglio: asili nido, materne ed elementari della zona presentano tassi di piombo dieci volte superiori alla soglia consentita. La magistratura vuole appurare cosa abbia scatenato il rogo, la pista dolosa è scartata e si pensa a una sigaretta spenta male o a un corto circuito. Ma dopo le prime fiamme, c’è stato spazio per 30 minuti di errori. Il sistema anti-incendio è stato messo a punto in 6 anni da decine di esperti, ma quando alle 18 e 18 si è messo in funzione, l’agente della sicurezza davanti al monitor nel presbiterio non ha letto «fuoco» ma l’indicazione della sacrestia, il codice ZDA-110-3-15-1 (associato a uno dei 160 rilevatori di fumo) e infine il segnale che era scattato il meccanismo di aspirazione. L’agente era neo-assunto, al lavoro da soli tre giorni. Quattro minuti dopo il messaggio di allarme, ha telefonato a un’altra guardia di stanza nella chiesa chiedendogli di andare a controllare nella sagrestia, adiacente all’edificio principale. A 10 minuti dall’allerta, invece di avvertire i pompieri ha chiamato il capo, senza trovarlo. Venticinque minuti dopo, il capo ha richiamato e ha capito che l’incendio non era nella sagrestia, e ha detto alla guardia di tornare sotto la volta principale. Dopo aver salito 300 gradini l’uomo ha finalmente visto le fiamme nella «foresta», la struttura di legno di quercia che sostiene il tetto, e sono stati chiamati i pompieri. L’incendio stava bruciando le travi da ormai mezzora, e questo ha posto i vigili del fuoco in una posizione di svantaggio quasi impossibile da recuperare. Nel corso della serata i responsabili della sicurezza e le autorità hanno più volte detto di non essere certi di salvare la cattedrale, e qualche giorno dopo il presidente Macron ha detto in privato che a un certo punto si erano quasi rassegnati. È stato tentato il tutto per tutto, l’invio di pompieri nel cuore delle fiamme, con il rischio che non tornassero. Se la torre Nord fosse crollata, come pareva imminente, ciò avrebbe comportato la caduta delle campane e probabilmente la fine di tutta la cattedrale. Quando Macron ha convocato i vigili del fuoco per ringraziarli, non è stato un gesto formale. Quella squadra ha salvato Notre-Dame, e lo ha fatto rischiando di essere inghiottita dalle fiamme. Adesso i parigini e i turisti si sono quasi abituati alla nuova situazione: la guglia di Notre-Dame non c’è più ma la struttura portante sembra avere resistito, l’ingresso è vietato e lo sarà per anni ma il panorama dell’Île de la Cité non è snaturato. Eppure l’emergenza, in modo subdolo, continua. Secondo Antoine-Marie Préaut, conservatore dei monumenti dell’Île-de-France, «il rischio di crollo esiste ancora, perché non siamo ancora in grado di giudicare lo stato delle volte». La guglia è crollata ma l’impalcatura che la circondava per il restauro è sempre lì e nei prossimi cinque o sei mesi andrà tolta, con gravi pericoli per la stabilità della cattedrale. Poi c’è la questione salute: 400 tonnellate di piombo sono cadute nella zona sotto forma di polveri, e il sagrato è ancora vietato all’accesso. Livelli anormali di piombo sono stati trovati sui pavimenti di classi, mense e cortili delle scuole vicine. Aurélien Rousseau (Agenzia regionale della Sanità), ieri ha convocato una conferenza stampa per dire che «tutti i dati raccolti mostrano che la salute della popolazione è stata preservata». Un’inchiesta di Mediapart indica il contrario, e nel dubbio il municipio di Parigi ha avviato un’operazione di pulizia per approfittare delle vacanze, e garantire ai bambini di rientrare a settembre in locali non pericolosi.

Incendio Notre Dame: le ultime news e le cause. Domate le fiamme. Distrutto il tetto, una guglia ma la struttura è salva. L'incendio partito da un'impalcatura. Polemiche per i soccorsi, scrive Giovanni Capuano il 16 aprile 2019 su Panorama. Uno spaventoso incendio ha devastato la Cattedrale di Notre Dame nel centro di Parigi causando il crollo della guglia e del tetto e danni spaventosi, difficili da immaginare. Il rogo si è sviluppato in pochi minuti intorno alle 18,50. Inutile ogni tentativo di intervento da parte di centinaia di vigili del fuoco parigini e dell'esercito che ha isolato la zona. La Cattedrale era soggetta da poco tempo da interventi di restauro. L'incendio si sarebbe sviluppato sull'impalcatura allestita intorno alla parte centrale di Notre Dame per consentire i lavori. Per il momento il fuoco ha risparmiato la facciata nota in tutto il mondo. Non esistono evidenze che possa essersi trattato di un attentato o di un atto deliberato. Un'inchiesta per danneggiamento colposo è stata aperta dal Ministero della Giustizia. Le fiamme sono state domate alle 2.30 della notte. La struttura è salva. Poco prima della mezzanotte ha parlato il Presidente francese, Macron: "Ringrazio i pompieri che da ore stanno lottando per spegnere le fiamme. L'incendio è stato arginato; le prossime ore saranno cruciali ma la struttura dovrebbe resistere. Stasera vorrei dire che i nostri pensieri sono a tutti i cattolici di Francia e del mondo. Vorrei esprimere un pensiero per i parigini perché Notre Dame è la loro cattedrale ed immagino che per ciascun cittadino ogni fiamma apparsa sul tetto sia stata una grossa emozione. E' la nostra storia, la nostra letteratura, l'epicentro della nostra cultura, il punto da cui partono tutte le distanze delle strade che partono da Parigi, una cosa che è di tutti i francesi. E' la nostra storia ed ora brucia. Dobbiamo avere speranza ed orgoglio: i pompieri che hanno salvato quello che resta. Noi salveremo questa cattedrale ed il progetto per ricostruirla comincerà domani, lanceremo un appello ai più grandi talenti del paese e verranno qui per dare il loro contributo. Noi ricostruiremo Notre Dame perchè è quello che i francesi ci chiedono".

Incendio Notre Dame: la cronaca. L'incendio è stato segnalato ai Vigili del Fuoco di Parigi intorno alle 18,50. Inizialmente si è trattato di un filo di fumo bianco dal tetto che rapidamente si è trasformato nel rogo che in meno di un'ora ha causato il collasso del tetto e della guglia centrale, una delle immagini iconiche della capitale francese. Le fiamme si sono sviluppate - secondo la prima ricostruzione dei fatti - sulle impalcature che erano state momentaneamente montate per i lavori di restauro che dovevano interessare per i prossimi anni la Cattedrale. La zona intorno a Notre Dame è stata rapidamente evacuata e messa in sicurezza. L'incendio è stato seguito in diretta da centinaia di passanti e turisti che hanno dato l'allarme e poi hanno assistito attoniti alla devastazione di Notre Dame. In un primo momento è stata risparmiata la facciata anteriore con le due torri e i pompieri hanno lottato a lungo per preservarla. Intorno alle ore 20,30 un portavoce della Diocesi di Parigi ha annunciato all'Associated Press che le fiamme si sono trasferite all'interno della Cattedrale: "Sta bruciando tutto. Non resterà nulla". Il fuoco sta distruggendo la struttura in legno del XIII secolo. La Procura di Parigi ha annunciato l'immediata apertura di un'indagine sulle cause del rogo. Non risultano vittime o feriti. Intorno alle 22 le fiamme hanno colpito anche una delle due torri della facciata mettendo a rischio la sopravvivenza stessa della struttura e obbligando i soccorritori a una corsa contro il tempo per cercare di fermare il rogo. Alle 22,20 il capo dei vigili del fuoco di Parigi annuncia che l'ora successiva sarà fondamentale per evitare il crollo della Cattedrale. Intanto i vigili del fuoco provano a mettere in salvo le opere d'arte più importanti. Un vigile del fuoco sia rimasto gravemente ferito nel tentativo di lottare contro le fiamme.

Incendio Notre Dame: le cause. Sarà l'inchiesta a fare luce su come sia stato possibile che un monumento del valore della Cattedrale di Notre Dame possa aver preso fuoco in maniera così distruttiva in pieno giorno. La prima ricostruzione è che le fiamme si siano sviluppate dall'impalcatura sul tetto, "potenzialmente" legato ai lavori di restauro che erano iniziati da qualche giorno. Le fiamme hanno distrutto il tetto che era ancora quello terminato nel 1326 alla fine della costruzione iniziata nel 1163. Il restauro aveva previsto la rimozione di 16 sculture di rame raffiguranti Gesù, i 12 apostoli e i simboli degli evangelisti che, dunque, si sono salvati dal rogo così come molti degli arredi sacri che erano, a quanto si apprende, conservati nelle sacrestie che non sono state colpite dall'incendio.

Incendio Notre Dame: le reazioni. L'immagine della Cattedrale in fiamme ha suscitano profondo sgomento in tutto il mondo occupando nell'arco di pochi minuti le prime pagine di tutti i siti internazionali. Il presidente francese Emmanuel Macron, che aveva in programma un discorso alla nazione, ha sospeso ogni attività per recarsi sul posto: "Come tutti i nostri compatrioti sono triste stasera di vedere una parte di noi andare in fiamme". Dagli Stati Uniti è intervenuto con un tweet Donald Trump: "E' terribile guardare l'incendio di Notre Dame. Forse aerei cisterna potrebbero essere usati per spegnere le fiamme. Bisogna agire velocemente!". Parole che hanno obbligato la Protezione Civile francese a prendere posizione spiegando che "rilasciare acqua da un aereo su questo tipo di edificio potrebbe causare il crollo dell'intera struttura". Migliaia di cittadini di Parigi si sono radunati lungo le sponde della Senna, fin dove è stato possibile avvicinarsi, per pregare e cantare assistendo al lavoro incessante dei Vigili del Fuoco. Una notte angosciosa, trascorsa dai parigini intorno al loro simbolo. Sul web all'interno di siti legati all'Isis e all'estremismo islamico sono comparsi commenti di gioia per quanto accaduto.

"Gli operai erano già usciti tutti". Cosa ha causato l'incendio a Notre-Dame. L'ipotesi degli inquirenti: incendio accidentale partito dal cantiere sul tetto della cattedrale. Ma gli operai erano già tutti usciti. Ecco quali sono le cause, scrive Sergio Rame, Martedì 16/04/2019, su Il Giornale. Sono state scattate le prime fotografie dall'interno della cattedrale di Notre-Dame. E documentano che la Croce e l'Altare centrale si sono miracolosamente salvati alle fiamme dell'incendio di ieri sera. Le immagini acquistano un significato particolare per i fedeli cattolici che, all'inizio della Settimana Santa, hanno rilanciato gli scatti accompagnandoli al motto dei certosini "Stat Crux dum volvitur orbis" ("La Croce resta salda mentre tutto cambia"). Ora che le fiamme sono state domate, è il momento di andare a fondo nelle indagini per capire cosa abbia scatenato quell'inferno di fiamme. Ieri sera la magistratura parigina ha aperto un'indagine per "disastro colposo causato da incendio". Gli inquirenti hanno, infatti, escluso il movente criminale, l'atto vandalico o peggio ancora quello terroristico. La pista, che stanno seguendo in queste ore, è quella dell'incendio accidentale. Le fiamme potrebbero essere divampate tra quelle impalcature che circondavano il tetto di Notre-Dame. Nella notte i magistrati dell'ufficio della procura di Parigi hanno già sentito gli operai che lavoravano all'appalto del progetto di ristrutturazione. Le indagini sono state affidate alla Direzione regionale della polizia giudiziaria e si preannunciano lunghe e delicate. Ci vorrà, infatti, parecchio tempo per riuscire a chiarire le circostanze di come sia scoppiato l'incendio. Secondo i primi elementi dell'indagine, è proprio nel tetto di Notre-Dame de Paris che l'incendio sarebbe iniziato, poco prima delle sette di ieri sera (guarda il video). "L'ipotesi di un incendio accidentale partito dal cantiere sul tetto della cattedrale - ha confermato una fonte all'agenzia Agi - attira l'attenzione degli inquirenti allo stato delle indagini". I punti interrogativi sono molteplici. Il tetto è un punto molto difficile da raggiungere: è completamente circondato da impalcature e si trova nel cuore di un vasto progetto di ristrutturazione avviato nell'estate dell'anno scorso. Le fiamme hanno divorato proprio questa parte della cattedrale e non sarà facile trovare prove materiali per cercare di spiegare l'origine del rogo. "Al momento dello scoppio delle fiamme - ha assicurato il portavoce del monumento - tutti gli operai avevano lasciato il sito". Ai lavori, però, partecipano almeno una decina di aziende che operano sotto la responsabilità della sovrintendenza architettonica dei monumenti storici e dello Stato che è anche il proprietario della cattedrale. "Gli addetti - fanno sapere gli inquirenti - saranno tutti interrogati a lungo per cercare di capire se un errore umano possa essere all'origine della tragedia".

Francesco Giambertone per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2019. Se lo chiede l' uomo della strada che vede in tv le immagini del disastro nel cuore di Parigi, se lo chiede anche l' inquilino della Casa Bianca, a migliaia di chilometri da lì, e nonostante il ruolo non resiste alla tentazione di improvvisarsi pompiere su Twitter: perché - scrive Trump - non usano degli aerei per spegnere il fuoco? Il suggerimento rimbalza fino in Francia e solleva già polemiche, che la Protezione civile francese deve domare come se le fiamme, quelle vere, non bastassero: i Canadair, spiegano, «rischierebbero di distruggere tutto» con una bomba d' acqua troppo potente per una cattedrale con novecento anni di Storia. È l' unica certezza, per ora, in un turbine di domande che da oggi - finito il calcolo dei danni - vorticheranno sulla Francia: perché non si è riusciti a spegnere prima l' incendio? I parigini e le centinaia di turisti hanno assistito per troppi minuti allo spettacolo del fuoco che devastava il tetto della cattedrale, abbatteva la guglia, faceva collassare la copertura. Non si sa cos' abbia fatto scoppiare il fuoco, probabilmente un incidente: sarà la procura di Parigi a chiarire le responsabilità. E a stabilire se c' entri qualcosa quel cantiere così unico, piazzato intorno alla guglia a 92 metri da terra, un' altezza proibitiva per un intervento tempestivo ed efficace: «Siamo bravi quando possiamo entrare nell' edificio e lavorare dall' interno - racconta un ex funzionario della Protezione civile italiana, Piero Moscardini - ma in una situazione del genere non potevano fare più di così. I pompieri sparavano acqua con lo snorkel, un cannone: al tetto quasi non ci arrivavano». Alla Parigi ancora in lacrime qualcuno dovrà spiegare se esisteva o meno un adeguato piano anti-incendio, per uno dei monumenti più importanti e fragili d' Europa, già bersaglio delle mire dei terroristi. Dovrà chiarire se in quel cantiere sono state seguite tutte le norme di sicurezza e sulla prevenzione, se ci fosse o meno un addetto a controllare che la ditta utilizzasse i materiali giusti, e se i fondi stanziati fossero sufficienti. Risposte che spetteranno, inevitabilmente, anche alla politica. Mentre Macron, a tarda sera, può solo complimentarsi coi cinquecento pompieri applauditi dalla folla: «Coraggio leonino, grande professionalità e tenacia: grazie». Sui siti francesi c' è spazio anche per il tweet della belga Opaline Meunier, consigliera comunale, che scatena la rabbia bipartisan: «Sono mattoni. Si ricostruiranno. Non ci sono feriti. Ci sono così tanti altri drammi per cui mi piacerebbe vedere qualcuno piangere». Lo cancellerà, comunque troppo tardi.

Francesco Giambertone per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2019. Sull' incendio divampato a Notre Dame non potevano intervenire i Canadair, gli aerei utilizzati spesso per spegnere i roghi nei boschi, al contrario di quanto suggerito su Twitter da Donald Trump. «Ognuno di quei velivoli - spiega al Corriere Piero Moscardini, ex funzionario della Protezione Civile - ha un carico di 5 mila litri d' acqua, e avrebbe dovuto lanciare da un' altezza di almeno 800 metri. Non si può sganciare una bomba simile su un edificio: avrebbe distrutto anche quel poco che forse si è salvato». Inoltre, con una tale colonna di fumo non ci sarebbe stata la visibilità necessaria a uno sgancio preciso, e si sarebbero messe in pericolo le vite di chi si trovava intorno all' edificio. Nemmeno gli elicotteri, che aiutarono a domare il fuoco che devastò La Fenice di Venezia nel 1996, avrebbero potuto fare nulla: «Era del tutto impossibile operare dall' alto». Il motivo principale per cui l' incendio è divampato così velocemente è l' enorme quantità di legno del XIII secolo presente nella struttura della cattedrale, in particolare nel telaio di sostegno della copertura del tetto: il punto che ha preso fuoco più in fretta ed è collassato sulla navata della chiesa. «Si tratta di legno vecchio, secco, è bruciato tutto violentemente», racconta Piero Moscardini, ex funzionario della Protezione Civile. «In uno scenario del genere basta veramente una scintilla». Anche il portavoce di Notre-Dame, Andre Finot, ha dovuto ammettere che «della struttura in legno non rimarrà nulla». L' incendio si è sviluppato intorno alle impalcature montate per i lavori di restauro: strutture composte per la maggior parte in metallo, ma non è escluso che anche lì vi fossero delle travi in legno - quelle su cui avrebbero potuto passare gli operai - e che potrebbero aver contribuito ad alimentare le fiamme. L' inchiesta della procura chiarirà anche questo. È possibile che il cantiere di ristrutturazione della guglia gotica - crollata per l' incendio - abbia avuto un ruolo. Secondo le prime indicazioni dei pompieri (ancora da confermare) il fuoco sarebbe partito proprio da un' impalcatura, in un orario in cui però il cantiere - posizionato a circa 90 metri da terra - non era in funzione. I lavori sono gestiti dalla società Socra, della regione del Périgord, attiva anche a livello internazionale. La ristrutturazione, iniziata mesi fa, si era resa necessaria per far fronte ai danni sempre più gravi portati dall' acqua e dall' inquinamento a una struttura vecchia di 856 anni a cui il restauro del 1844, con l' utilizzo di pietre di bassa qualità e di cemento, non aveva portato grandi benefici. Con i nuovi lavori si sarebbe dovuto sostituire il piombo del tetto e restaurare le grandi statue di rame collocate da 150 anni a un' altezza di 120 metri. E proprio l' altezza a cui è divampato il fuoco ha reso una situazione critica quasi impossibile da gestire per i pompieri.

CATTEDRALE IN FUMO. Da La Stampa il 21 aprile 2019. La società responsabile delle impalcature montate attorno alla guglia di Notre Dame ha ammesso che alcuni suoi operai hanno ignorato il divieto di fumare nel cantiere. Ad ammetterlo è stato un portavoce della ditta a cui erano stati affidati i lavori di ristrutturazione della cattedrale parigina, che si è detto «rammaricato» del divieto eluso. Ha escluso però che sia stato quella negligenza la causa del rogo che ha semidistrutto la chiesa simbolo della città. La reazione dell’azienda arriva dopo che un articolo del Canard Enchainé ha rivelato che gli inquirenti hanno trovato sette mozziconi di sigaretta nel cantiere. «In effetti, ci sono alcuni colleghi che, di tanto in tanto, hanno aggirato il divieto di fumare sul sito e ce ne dispiace», ha detto Marc Eskenazi, portavoce della Le Bras Fre’res. Gli operai hanno «ammesso con la polizia che effettivamente hanno fumato». Tuttavia, secondo il portavoce «è fuori questione» che proprio un mozzicone abbia dato origine all’incendio. Il portavoce dice di comprendere gli operai che hanno acceso la sigaretta a 9 metri di altezza (a tanto arrivava la guglia di i Eugène Viollet-le-Duc) o poco meno: era «un po’ difficile scendere dall’impalcatura, ci sarebbe voluto troppo tempo», ha detto.

NOTRE DAME SI POTEVA SALVARE: PERCHE’ E’ STATO IGNORATO IL PRIMO ALLARME? Francesca Pierantozzi per il Messaggero il 17 aprile 2019. «Non lo so, non lo so, non so come sia potuto succedere», Julien Le Bras quasi piange al telefono con il cronista dell' Est Républicain. Anche due anni fa riusciva a stento a trattenere le lacrime, quando, pieno di gioia, aveva annunciato a tutti che era stato lui, e la sua società familiare, Le Bras Frères, ad ottenere l' appalto per costruire i ponteggi del restauro della guglia di Notre Dame. Ieri lui e i suoi dodici operai che da luglio lavoravano sui tetti della cattedrale, sono stati tra i primi ad essere ascoltati dai cinquanta inquirenti al lavoro per stabilire come Notre Dame possa essere stata inghiottita dalle fiamme. «Non c' era nessun operaio» quando il filo di fumo ha cominciato ad alzarsi accanto alla guglia, ha detto e ripetuto Le Bras. «Abbiamo rispettato tutti i dispositivi e le procedure di sicurezza», ha continuato a ripetere: «Noi vogliamo più di tutti che sia fatta luce sulle cause di quanto accaduto». D' altra parte i Le Bras sono una media azienda (200 operai nel piccolo comune di Jarny, nella Meurthe et Moselle) ma conoscono il loro lavoro: li chiamano i restauratori di cattedrali. Sono intervenuti a Reims, Strasburgo, Amiens. Anche al Pantheon di Parigi. Cosa è andato storto a Notre Dame? Perché il procuratore di Parigi Rémy Heiz sembra già quasi sicuro: è stato un incidente ed è cominciato al livello del cantiere di restauro. Dove si lavorava ancora soltanto all' allestimento dei ponteggi. In tutto, cinque imprese stavano intervenendo nel progetto di restauro.

IL RITARDO. Il fuoco potrebbe aver covato tra le querce delle capriate trecentesche a lungo prima di esplodere con una ferocia distruttiva. «Anche per ore», dice una fonte vicina all' inchiesta. Questo potrebbe significare che un sistema di allarme più efficace, più sensibile, avrebbe potuto prevenire la tragedia. Un primo allarme è scattato alle 18,20. Quando è partito il fischio dell' allerta antincendio, i turisti hanno cominciato ad essere evacuati ma i pompieri subito arrivati sul posto non hanno trovato niente. Un sacerdote stava celebrando una messa in una cappella laterale: ha continuato. Poi il secondo allarme, alle 18,43: questa volta le fiamme già si vedevano sopra il tetto, gli ultimi fedeli sono stati fatti uscire di corsa, e sono cominciate le disperate operazioni di soccorso. «Niente può farci pensare che si sia trattato di un atto volontario», ha detto ieri Heiz.

LA SALDATURA. L' ipotesi che circola di più, ma non confermata da nessuno, parla di un problema nato al livello della saldatura di un ponteggio (metallico) ad una trave di legno.

Da verificare anche lo stato degli ascensori: ne erano stati allestiti ben due per consentire agli operai di arrivare fino ai 97 metri della guglia. Ieri gli agenti della Brigata criminale hanno interrogato anche tutto il personale della sicurezza. Trenta i testimoni ascoltati, ha precisato la procura. «L' obiettivo è capire cosa sia accaduto e stabilire eventuali responsabilità o mancamenti» ha detto al sito 20Minutes una fonte vicino all' inchiesta, secondo la quale «i lavori d' indagine saranno lunghi e molto complessi». Al lavoro c' è già la squadra speciale dei pompieri che si dedica alla «ricerca delle cause». I tecnici del laboratorio centrale della prefettura hanno già effettuato i primi prelievi per determinare l' origine delle fiamme. A causa della pericolosità della struttura (in alcuni punti anche le volte sono state danneggiate) gli inquirenti hanno previsto di utilizzare dei droni. Già cominciata anche l' analisi delle immagini di diverse telecamere di videosorveglianza, tutte quelle esterne ed anche alcune ancora funzionanti poste all' interno della cattedrale.

Notre-Dame, Paolo Vannucchi: il professore italiano che sapeva tutto (in anticipo) sul rogo, il dossier-shock, scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. C'è un italiano che aveva previsto la disgrazia di Notre-Dame, in modo sostanzialmente perfetto. Si tratta di Paolo Vannucci, professore di meccanica delle strutture all'Università di Versailles, lucchese, in Francia dal 1995. E al Corriere della Sera spiega come sapesse che il disastro poteva accadere, proprio nel modo in cui poi si è verificato: "Appena ho visto le fiamme ho pensato: ora cade tutto", premette. Ma la notizia sta nel report con cui comunicò per tempo alle autorità transalpine quali rischi si correvano: "Non hanno mai risposto", aggiunge con rammarico. Dopo gli attentati in Francia, a fine 2015, il Centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi lanciò un appello per progetti di carattere scientifico a tema-terrorismo: "Così metto su un'equipe e lavoriamo a uno studio, di cui ero responsabile, sulla sicurezza della cattedrale", sottolinea Vannucchi. E le scoperte della sua squadra erano inequivocabili: "Notre-Dame a forte rischio incendio", convinzioni maturate dopo un sopralluogo avvenuto nel 2016. "Ci rendiamo conto immediatamente che c'è un pericolo enorme, palese: le capriate di legno del tredicesimo secolo sono difficili da raggiungere da eventuali soccorsi. In più - prosegue -, tutto quel legno è sormontato da un tetto di piombo di 210 tonnellate che in caso di incendio, pensiamo subito, si sarebbe fuso rapidamente impedendo lo spegnimento sia dall'interno che dall'esterno. Una volta partito non si poteva fermare". Tre anni dopo è accaduto ciò che Vannucchi aveva previsto: per filo e per segno.

Incendio Notre-Dame, quali sono le cause? Dai sistemi anti-incendio al cantiere, ecco cosa non ha funzionato. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Francesco Giambertone su Corriere.it. Martedì mattina i vigili del fuoco francesi hanno annunciato che l’incendio di Notre-Dame è stato completamente spento, dopo una serata e un’intera notte al lavoro. Mentre è partita la gara di solidarietà, spinta dalle donazioni dei miliardari francesi Pinault e Arnault, molto rimane da capire sui fatti di Parigi. La causa dell’incendio non è ancora nota. La procura indaga per «disastro colposo», esclude la pista dell’attentato e del dolo («Non c’è nulla che porti nella direzione di un gesto volontario», ha detto il procuratore, Rémy Heitz), e secondo una fonte di polizia citata da Le Parisien gli investigatori lavorano all’ipotesi di una fiamma provocata da un lavoro di saldatura sul telaio di legno del tetto della cattedrale. Già dalla notte tra lunedì e martedì la procura ha iniziato ad ascoltare le persone impiegate nei lavori: «C’erano cinque imprese nel cantiere. Vogliamo iniziare a sentire le prime quindici persone, quindici operi, che sarebbero stati ieri al lavoro», ha detto Heitz, che ha anche spiegato che ieri gli allarmi sarebbero scattati due volte: «La prima alle 18:20, ma dopo un’ispezione non era stato trovato fuoco. La seconda alle 18:43, e il fuoco a quel punto c’era».

Il peggio — la distruzione totale di Notre-Dame inghiottita dal fuoco — sembra scongiurato, ma martedì mattina alle 8 sono cominciate le valutazioni dei tecnici per capire se la struttura della cattedrale sia stata indebolita al punto da non essere più sicura e da rischiare cedimenti. Se quasi tutte le opere più importanti sono state messe in salvo, non è ancora chiaro lo stato dei rosoni e delle vetrate policrome vecchie di secoli. Sono crollate alcune sezioni della volta, fra cui quella del transetto, ma l’interno della chiesa è ancora complessivamente integro. Bisognerà accertare se le alte temperature abbiano compromesso la tenuta della pietra e del marmo, che, secondo gli esperti, tende a calcificarsi e a sbriciolarsi. Oltre 400 pompieri, con 18 cannoni ad acqua, hanno combattuto le fiamme sul tetto di Notre-Dame tra mille difficoltà. La conformazione del telaio del tetto, interamente di legno di quercia, ha facilitato il propagarsi del fuoco. Agire dall’interno era impossibile: colava piombo fuso dalla guglia, cadevano travi di legno, i cannoni non sarebbero potuti entrare dalle porte. Ma anche da fuori si poteva fare poco: il tetto della cattedrale è alto 45 metri, la guglia arriva fino a 92, mentre i bracci mobili dei camion dei pompieri, ha spiegato il generale Gilles Glin, ex capo di brigata a Parigi tra il 2011 e il 2014, arrivano «al massimo a 30 metri. Questa problematica rende l’intervento complicato nonostante il getto dell’acqua abbia una portata importante». Contrariamente ai pompieri americani, i francesi — come gli italiani — prediligono combattere il fuoco dall’interno degli edifici. Una tattica, ha spiegato l’esperto Serge Delhaye citato da Le Parisien, «più pericolosa per gli umani ma più efficace». Solo quando però la struttura non sembra a rischio di crolli: «Nessun generale manderà degli uomini a rischiare la vita per salvare un tetto di legno, nemmeno quello di Notre-Dame. Il nostro mestiere è salvare vite, e lì non ce n’era in gioco».

No. Tutti gli esperti (consultati dal Corriere e da altre testate internazionali) e persino la Protezione Civile francese hanno spiegato che un lancio di 5/6 mila litri d’acqua su un edificio di quasi novecento anni, in una zona urbana, avrebbe causato danni peggiori del fuoco, rischiando di abbattere quel che rimaneva di Notre-Dame e di ferire le persone impegnate nei soccorsi. Anche l’ipotesi degli elicotteri, rilanciata da alcuni, non era percorribile: la colonna di fumo non avrebbe reso possibile uno sgancio sicuro, e la portata dei «secchi» forse non sarebbe stata sufficiente a spegnere un incendio che si propagava tanto velocemente. Notre-Dame ha ovviamente degli allarmi anti-incendio, che hanno funzionato. «Li abbiamo sentiti verso le 18.30», ha confermato il portavoce della cattedrale, André Finot. Mancano invece dei sistemi automatici di spegnimento del fuoco, come quelli presenti negli alberghi, per intenderci. Pare sia complicato dotare edifici così vecchi di apparecchiature simili, per motivi architettonici: questi sistemi paradossalmente sarebbero molto rischiosi. «Non sono infallibili, si innescano molto velocemente — ha spiegato l’ex capo dei pompieri parigini — e rischiano di distruggere opere inestimabili. Fanno correre rischi e in un contesto simile causano più danni che altro».

Da anni la cattedrale di Notre-Dame, rovinata dalla pioggia e dall’inquinamento, aveva bisogno di un pesante intervento di manutenzione. Per lungo tempo la fondazione «Friends of Notre-Dame» si è battuta perché il governo francese finanziasse un grande restauro, di cui aveva parlato anche il Time nel 2017, citando una funzionaria del governo secondo la quale «Notre-Dame è un monumento come tanti, non cadrà». Lo scorso inverno il presidente della fondazione Michel Picaud aveva viaggiato negli Stati Uniti con l’obiettivo di raccogliere «20 milioni di euro dai mecenati americani, affinché il governo francese sblocchi altri 40 milioni per le parti da restaurare urgentemente nei prossimi 10 anni». A quel tempo aveva messo insieme le donazioni di 500 americani e 400 francesi. In totale, il grande programma di restauro doveva durare diversi decenni e arrivare a costare, per l’intera cattedrale, 150 milioni di euro. I cantieri della prima parte del progetto — sulla guglia e il tetto — erano partiti la scorsa estate, per un valore intorno ai 6 milioni. Da ieri, il tema della scarsa cura della cattedrale da parte del governo è tornato in parte d’attualità, ma anche qui le responsabilità saranno da accertare. 

Impossibile dirlo ora. Quel che pare sicuro è che l’indagine durerà molto e ci vorrà del tempo per avere nuove risposte: siccome gran parte del tetto è bruciato, proprio lì dove è scaturito l’incendio, non sarà semplice trovare elementi di prova su cosa abbia fatto partire la scintilla. Anche per la ricostruzione promessa da Macron ci vorranno decenni. Ma i francesi sembrano aver già deciso: rivogliono Notre-Dame lì dov’è stata per 850 anni.

Notre-Dame, raccolto un miliardo. Coro di critiche ai mecenati. Pubblicato sabato, 20 aprile 2019 dai Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi su Corriere.it. Bernard Arnault, patron di LVMH (il più importante gruppo del lusso al mondo) e uomo più ricco di Francia non se ne fa una ragione. «Trovo costernante che in Francia ci si faccia criticare anche quando si fa un’azione nell’interesse generale. In molti altri Paesi avremmo più che altro ricevuto complimenti», ha detto davanti agli azionisti. Qualche anno fa Pascal Bruckner scrisse un interessante libro intitolato «La saggezza del denaro» che denunciava appunto il rapporto difficile, nevrotico, dei francesi con la ricchezza. La Francia è un Paese cattolico dove i cittadini desiderano il denaro ma a differenza di quel che accade nel mondo anglosassone e in particolare negli Stati Uniti lo disprezzano, specialmente se appartiene agli altri. Per questo, e forse anche per la sensazione di assistere a una gara tra miliardari, da alcuni giorni gli ingenti finanziamenti per la ricostruzione di Notre-Dame sono subissati di critiche e la novità delle manifestazioni dei gilet gialli di ieri, 23° sabato di protesta, sono stati gli slogan e gli striscioni di insulti contro «il business travestito da carità». La notte stessa dell’incendio, pochi minuti dopo che il presidente Macron ha annunciato ai francesi la salvezza e la prossima ricostruzione di Notre-Dame, il primo riflesso è stato di François Pinault, a capo del gruppo Kering e storico rivale di Arnault, che ha stanziano subito 100 milioni di euro. La mattina dopo Arnault ha risposto con 200 milioni di euro, poi i Bettencourt-Meyers (L’Oréal) hanno aggiunto altri 200 milioni, la multinazionale Total altri 100, la famiglia di costruttori Bouygues e Marc Ladreit de la Charrière altri 10 milioni ciascuno fino ad arrivare a quasi un miliardo, ovvero più o meno la cifra che per adesso viene stimata necessaria per riparare la cattedrale ferita. Manon Aubry capolista della «France Insoumise» (il partito di Mélenchon) ha parlato di «un’operazione di marketing sulle spalle dei francesi» evocando poi ingenti sgravi fiscali. Arnault e gli altri hanno precisato che i finanziamenti non saranno defiscalizzati, ma l’odio verso i ricchi ieri pomeriggio ha comunque dilagato nei cortei.

Sorrisi e applausi ai pompieri. Il blitz sotto le navate E poi l’ordine: salvate le torri! Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Marco Imarisio, inviato a Parigi, su Corriere.it. «Meno male che non c’era gas». I tre pompieri hanno capelli e occhi da ragazzi. Parlano tra loro nel mezzo di Place de la République, libera uscita per pranzo. «Non avrei mai pensato in vita mia di fare un intervento per salvare un palazzo, insomma, la cattedrale» dice quello che sembra il più giovane. «L’ho trovato strano, ma comunque è andata bene». Nell’incendio di Notre Dame ognuno ci ha visto quel che voleva, dalla profezia sulla fine dell’Europa al segno della debolezza degli Stati sovrani. Per loro si trattava di un problema da risolvere, neppure dei peggiori. «Peccato per il crollo, ma tanto poi la sistemeranno. A gennaio comunque è stato peggio» aggiunge uno mentre si accende una sigaretta, e subito gli altri due annuiscono convinti. Sono frammenti di conversazione orecchiati, anzi rubati, a un gruppo di «soldati del fuoco» con la tuta arancione stretta alla vita. L’inquadramento militare li obbliga a una consegna del silenzio ancora più stretta di quella imposta ai colleghi italiani. Intorno a loro è tutto un «merci» dei passanti, anche dei venditori di palloncini che affollano la piazza. Una scolaresca accenna un applauso e il maestro che accompagna i bambini li invita a battere le mani ancora più forte. «Viva les sapeurs-pompiers, et bravo a tous». Lo scorso 9 gennaio è esploso un palazzo vicino all’Opera, nel IX arrondissement. Quattro morti, due pompieri. Se n’è parlato anche da noi, perché tra i feriti gravi c’era una ragazza italiana, Angela Grignano. Le vittime in divisa venivano dalla caserma alla quale sono diretti i tre ragazzi, rue du Château d’Eau, appena dietro la piazza, una delle più grandi di Parigi, famosa anche perché all’interno venne girato gran parte del primo film di Fantômas. Davanti all’ingresso c’è una scritta sull’asfalto, un «grazie» scritto a vernice nera, consumato dal passaggio delle auto. Non c’entra nulla con Notre-Dame, è un omaggio alla memoria di Simon e Nathan», i loro due compagni scomparsi. 

L’unica unità di misura è la vita umana. «Quando ci hanno chiamato per l’incendio, i superiori ci hanno detto chiaramente che nella cattedrale non c’era nessuno. Quindi eravamo tranquilli». L’assenza di retorica spiega forse la popolarità dei vigili del fuoco, a qualunque latitudine. Ma non restituisce la difficoltà dell’impresa. L’unica persona autorizzata a raccontarla è il colonnello Gabriel Plus, portavoce dei pompieri di Francia. Quando appare sulla spianata davanti a Notre-Dame, uno sciame di telecamere e giornalisti lo circonda al punto che i gendarmi devono fare da transenne umane per evitare che venga travolto. Poco prima, erano passati quasi inosservati Alain Juppé, ex grande speranza della destra gollista, un paio di ministri. 

All’inizio c’erano solo dubbi. «Che cosa troveremo lassù? E se va male quale via d’uscita possiamo trovare?». La prima ora è stata la peggiore. «Abbiamo deciso in corso d’opera. Il vento giocava contro di noi, soffiava forte e in cima alla cattedrale creava dei mulinelli, la cosa peggiore. I nostri quattro comandanti si sono dovuti dare una priorità, il salvataggio dei due campanili. Anche perché temevamo che potessero crollare». Con un lungo giro di parole, anche il colonnello Plus arriva al punto. C’era da fare una scelta. Le coperture e la guglia erano condannate fin da subito, e tutti lo sapevano. «Si trattava di preservare dei beni, di salvaguardare le strutture che potevano ancora resistere. Abbiamo schierato tutti i nostri mezzi per proteggere i campanili, mentre due squadre di pompieri entravano dall’ingresso principale nella cattedrale per svuotarla il più possibile».  Quando la guglia ha dato segni di collasso, gli uomini dentro la cattedrale sono stati fatti uscire di corsa. Sono stati sostituiti da Colossus, un robot a quattro ruote e quattro getti d’acqua gelata che servivano a raffreddare la temperatura interna. Mancavano quaranta minuti al crollo. «Da quel momento abbiamo concentrato ancora di più i nostri sforzi sullo spegnimento del fuoco dall’esterno. La caduta ci ha permesso di intensificare il lavoro sulle torri, perché non avevamo più il timore del fuoco che poteva colpire i nostri uomini dall’alto». La scelta di lasciare al suo destino la guglia costruita nel 1860 dal celebre architetto Viollet-le-Duc non è stata davvero tale, perché in realtà non c’era alternativa. I bracci meccanici per lo spegnimento degli incendi in forze ai pompieri di Parigi raggiungono i 30 metri di altezza. Alla base, la guglia ne misurava 40, per raggiungere in cima quota 96 metri. Per un’ora buona, dalle 19 alle 20, l’acqua non è mai arrivata a lambire le sue fiamme. Sono stati fatti mobilitati due mezzi con «leve» lunghe 46 metri da Versailles e Magnaville, ma era l’ora di punta e intorno a Notre Dame il traffico era impazzito. Quando sono arrivati, era troppo tardi. Nessuno saprà mai se il loro utilizzo avrebbe potuto salvare la vetta della cattedrale. Ai tre ragazzi della caserma di du Château d’Eau importa poco di polemiche future. A una signora che li ferma per ringraziarli, chiedono se ha da accendere. «Ci creda, è stata una cosa importante, ma abbiamo fatto solo il nostro dovere. Non eravamo neanche in straordinario». Imparare, dai pompieri francesi. Come da quelli italiani.

Incendio a Notre Dame, l’inferno di fuoco non è ancora spento. I 77 minuti che hanno inghiottito la storia. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 dal corrispondente da Parigi, Francesco Giambertone de il Corriere.it. PARIGI — Alle 19 e 51 — appena 61 minuti dopo il primo allarme — il momento senza ritorno: la guglia che dal Trecento si inerpicava a 93 metri di altezza si spezza, incandescente dopo oltre ora di fuoco. Crolla. I parigini e i tanti turisti che hanno assistito fino a quel punto in silenzio si lasciano sfuggire un «oh» di incredulità e dolore. È il segno che il dramma sta succedendo davvero, un lamento che esprime dispiacere infinito e quel senso di impotenza che ha fatto pensare a tutti «ma perché non arrivano gli elicotteri? Dove sono i Canadair? Che fanno i pompieri?», quando ancora si sperava che l’incendio potesse essere circoscritto. Cinquecento vigili del fuoco hanno poi combattuto per tutta la notte per salvare Notre Dame (le fiamme, all’alba, sono «sotto controllo, ma non ancora del tutto domate», secondo il viceministro dell’Interno) ma alle 19 e 51 il mondo intero comprende che sta accadendo l’irreparabile. La cattedrale dei re, della Rivoluzione che ne fece per qualche anno il tempio della Ragione, di Napoleone che si mise da solo in testa la corona di imperatore e di Victor Hugo che ne fissò il mito popolare poi ripreso da Disney, Nostra Signora di Parigi e di tutti gli europei, cattolici e non, rischia di scomparire. «Non siamo certi di potere salvare la cattedrale», ammette il viceministro degli Interni Laurent Nuñez, che poco prima ha accompagnato la sindaca Anne Hidalgo e il presidente Emmanuel Macron davanti alla chiesa in fiamme. Il fuoco devasta tre quarti di Notre Dame, poco dopo la guglia — alle 20:07 — è crollato il tetto in legno risalente al tredicesimo secolo, «la foresta» la chiamavano, costruita con le querce tagliate da un bosco di 24 ettari. In 850 anni di esistenza Notre Dame non era mai stata colpita da un incendio; quello che è cominciato intorno alle 18 e 50, in soli 77 minuti, quasi non le lascia scampo. «La prossima ora sarà decisiva», dice uno dei pompieri, a lungo si teme che le fiamme finiranno per divorare tutto. Uno dei vigili del fuoco rimane gravemente ferito, è l’unica vittima di una tragedia che ha colpito l’anima del mondo ma non i corpi. Poco prima della mezzanotte finalmente arriva l’esito della battaglia: «Il fuoco è diminuito di intensità — dice Nuñez —. Possiamo pensare che la struttura di Notre Dame sia salva, in particolare la torre Nord», quella che a un certo punto sembrava sul punto seguire lo stesso destino della guglia. La cattedrale è devastata, ci vorranno decenni per ricostruirla, ma non è vinta. Come dice il motto di Parigi: «Fluctuat nec mergitur, è sbattuta dalle onde ma non affonda». «È terribile», dice la sindaca Hidalgo, in un’altra delle notti di angoscia che accompagnano Parigi dal novembre 2015 degli attentati. Stavolta il terrorismo islamico è escluso, la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta per «distruzione involontaria» e ci vorrà tempo per conoscere nel dettaglio la dinamica del disastro, ma secondo i vigili del fuoco le fiamme si sono sprigionate dalla colossale impalcatura costruita tra luglio e novembre dello scorso anno. Colpa di un incidente, sembrerebbe, capitato proprio nel cantiere che aveva il compito di mettere in sicurezza Notre Dame, salvarla dal peso dei secoli passati e trasmetterla alle generazioni future. Per condurre i dieci anni di lavori previsti è stata edificata una struttura fatta di migliaia di tubi di acciaio e pesante 500 tonnellate, alta 100 metri, che doveva servire a restaurare per prima cosa la guglia. Per fortuna giovedì scorso le statue dei dodici apostoli e dei quattro evangelisti poste intorno alla guglia erano state deposte grazie a una gru e inviate à Marsac-sur-l’Isle per essere restaurate. Il rettore della cattedrale Patrick Chauvet assicura che anche il tesoro all’interno della chiesa è salvo, in particolare la corona di spine, secondo i credenti quella posta dai soldati romani sul capo di Gesù per oltraggiarlo poco prima della crocifissione. Il mondo intero segue il dramma di Parigi, i leader europei da Giuseppe Conte a Angela Merkel, fino al presidente americano Donald Trump che su Twitter ha il guizzo di suggerire «fate presto». Le fiamme di Notre Dame divampano sugli schermi di tutto il Pianeta pochi minuti prima di un intervento molto atteso del presidente francese Emmanuel Macron, che avrebbe dovuto rivolgersi alla Nazione e annunciare nuovi provvedimenti dopo il «grande dibattito nazionale». Discorso all’Eliseo annullato, Macron va davanti a Notre Dame per dire ai francesi: «È la nostra storia, la nostra letteratura. Questa cattedrale noi la ricostruiremo, tutti insieme. Da domani sarà lanciata una grande sottoscrizione nazionale». L’emozione unisce il mondo, con le inevitabili eccezioni. C’è l’esultanza online di molti jihadisti che si rallegrano per la distruzione di un simbolo della cristianità e dell’Occidente, la soddisfazione di qualche integralista musulmano francese che considera il fuoco a Notre Dame come la risposta di Allah al tweet blasfemo scritto da un ragazzino due giorni prima sulla Mecca, e non mancano alcuni sedicenti patrioti italiani che gioiscono per la disgrazia capitata a Macron. Idiozie a parte, Notre-Dame ferita è un momento di emozione collettiva che per alcuni cattolici francesi assume le dimensioni di un segno epocale, un messaggio. E a proposito di ricostruzione ecco — come sempre nei momenti cruciali — Michel Houellebecq, co-autore con Geoffroy Lejeune di un dialogo apparso appena qualche ora prima sulla rivista americana «First Things», che si conclude così: «La restaurazione del cattolicesimo nel suo antico splendore può riparare la nostra civiltà danneggiata? Siamo d’accordo, è quasi evidente: la risposta è sì».

Ma Notre Dame non può morire. Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Aldo Cazzullo e Marco Imarisio su Corriere.it. Quelli che ardono in tv e sugli smartphone sono legni e metalli; non è Notre Dame. Possono crollare pietre che saranno ricostruite; non può morire un simbolo, una fede, una nazione. Quando un popolo non sa più chi è, quando un Paese non conosce più la propria missione nella storia, quando una nazione antica, forse vecchia, dubita del proprio ruolo nel mondo, anche una tragedia può servire a scuoterla. Quando Victor Hugo scrisse «Notre-Dame de Paris», la Cattedrale non era forse ridotta molto meglio di come la lasceranno le fiamme divampate ieri tra le lacrime dei fedeli e lo sgomento dei turisti. I rivoluzionari l’avevano devastata e vagheggiavano di farne il tempio della Dea Ragione, o una cava di pietra. Le statue della facciata erano state abbattute, perché agli occhi dei giacobini non raffiguravano i re di Giudea ma i monarchi dell’Antico Regime. A ricostruire Notre Dame, prima ancora dell’architetto neogotico Viollet-le-Duc, fu un romanzo. Hugo non era animato da spirito religioso. Era un romantico che aveva intuito una cosa sfuggita nell’impeto rivoluzionario: Notre Dame era la Francia. Un popolo è il proprio passato; quindi la cattedrale dedicata alla Madonna rappresentava l’identità nazionale meglio ancora di Giovanna d’Arco o della Gioconda, già allora esposta al Louvre. Così lo scrittore inventò un amore impossibile tra un gobbo e una zingara, le due creature più disprezzate, che all’ombra delle guglie trovavano riparo dalla crudeltà del potere. Il successo fu immenso. Da lì nacque l’idea di salvare la cattedrale. L’incendio di ieri segna il culmine di una crisi dell’identità francese. Il rogo è scoppiato a causa dell’incuria, e al di là dell’abnegazione dei pompieri i soccorsi sono apparsi fin da subito inadeguati. Pure Macron è stato colto di sorpresa: stava preparando un intervento politico in televisione, ha capito che non poteva parlare d’altro, ma ha tardato a precipitarsi sul posto; dove del resto la sua presenza sarebbe stata letta come una conferma di impotenza, con quei getti d’acqua che parevano fontanelle rispetto alla grandezza della tragedia, mentre il tetto cedeva, la guglia – neogotica, non originale – si spezzava, il cuore stesso di Parigi tremava. Eppure il rogo è per la Francia anche la chance di ritrovare una coesione messa a dura prova dalla crisi economica, dalle incertezze del presidente, da un’opposizione sterile e a volte violenta. Da decenni il Paese che ha contribuito a dare al mondo i diritti dell’uomo e all’Europa il sogno della democrazia vive un grand malaise, un malessere che non può essere spiegato soltanto con il calo del potere d’acquisto e la distruzione del lavoro. La Francia dubita di se stessa. Una nazione che aveva un impero e si era assegnata un compito sente ormai di non contare molto più di nulla. L’incendio che ha devastato Notre Dame può essere il colpo di grazia; ma può essere anche il segno di una possibile rinascita. Il dolore ma anche l’orgoglio visto nella notte per le strade della capitale lo testimonia. Di sicuro, in passato i francesi avevano ben chiaro che Notre Dame non era soltanto una chiesa. Caterina de’ Medici vi celebrò il matrimonio che fece di lei la regina di Francia. Gli ugonotti vi cercarono scampo dal massacro della notte di San Bartolomeo. Il Re Sole vi accumulò tutte le bandiere strappate ai nemici dalle sue armate, e venne soprannominato «il tappezziere di Notre Dame». Napoleone pretese di essere incoronato qui dal Papa, in uno scenario di cartapesta per nascondere le distruzioni rivoluzionarie, ma la corona se la mise in testa da sé, mentre David schizzava disegni per la sua tela. Con Viollet-le-Duc il romanticismo si impossessò dell’architettura gotica, e vennero scolpite le gargouilles poi animate dal film della Disney e riviste nel musical. Quando venne l’ora di liberare Parigi dai nazisti, De Gaulle ordinò al generale Leclerc di arrivare il prima possibile a Notre Dame, sul sagrato da cui partono idealmente tutte le strade di Francia: l’avanguardia era la nona compagnia della seconda divisione, composta soprattutto da repubblicani spagnoli, tra cui molti mangiapreti, che avevano ribattezzato i loro blindati Guernica e Guadalajara, ma rimasero comunque colpiti dall’arditezza delle architetture, delle volte, dei contrafforti. Qui Chirac volle celebrare il funerale di Stato del suo predecessore Mitterrand, senza la bara però: mentre le due famiglie del presidente — quella ufficiale e quella clandestina — si riunivano in un cimitero di campagna, i potenti della Terra celebrarono l’alleanza tra trono e altare, con il cardinale Lustiger, ebreo convertito dal cattolicesimo, un po’ imbarazzato. Con Sarkozy, Hollande, Macron la sacralità della presidenza si è molto perduta. Il re è nudo, e anche la Cattedrale è indifesa. Stanotte i francesi piangono Notre Dame. Però la ricostruiranno. Servirà un altro grande architetto. Serviranno muratori pazienti, venuti da diversi Paesi del mondo. Serviranno le donazioni e le preghiere dei fedeli. Ma Notre Dame è un monumento alla fede e alla speranza. Possono bruciare le cose dell’uomo; ma quello che ci portiamo dentro è immune al fuoco come la salamandra, simbolo di Francesco I, non a caso il re che nella disgrazia commento: «Tutto è perduto, fuorché l’onore».

Il miliardario Francois-Henri Pinault dona 100 milioni  per ricostruire la cattedrale. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Corriere.it. «La ricostruiremo» ha annunciato il presidente francese Emmanuel Macron. E mentre ancora bruciaNotre Dame, in Francia è già scattata la corsa alla raccolta fondi per ricostruire il simbolo di Parigi.Il miliardario Francois-Henri Pinault, presidente e amministratore delegato di Kering, gruppo che possiede marchi di lusso tra cui Gucci, Pomellato, Saint Laurent, e presidente di Groupe Artémis nonché marito dal 2009 dell’attrice Salma Hayek, ha annunciato che donerà oltre 100 milioni di euro per la ricostruzione della cattedrale simbolo di Parigi. «Mio padre ed io - ha fatto sapere in un comunicato ufficiale, ripreso dai media francesi - abbiamo deciso di donare 100 milioni di euro per contribuire agli sforzi necessari per la completa ricostruzione di Notre Dame» si legge. «È la nostra storia, la ricostruiremo» aveva detto il presidente francese Macron annunciando lunedì che da oggi sarebbe partita una grande sottoscrizione proprio per raccogliere fondi. La regione dell’Ile-de-France sbloccherà invece 10 milioni di euro per i primi interventi di ricostruzione: ad annunciarlo la presidente della regione Valérie Pécresse.

Notre-Dame, da Arnault a Pinault è gara di solidarietà: dai gruppi del lusso 300 milioni per i restauri. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Il Sole 24 ORE. A poche ore dallo spegnimento dell’incendio che ha devastato la cattedrale di Notre-Dame a Parigi, i due più grandi gruppi del lusso francesi, Lvmh e Kering, hanno annunciato di voler stanziare 300 milioni di euro per il restauro del monumento. Lvmh, con la famiglia Arnault che lo controlla, hanno annunciato una “donazione” di 200 milioni di euro al fondo dedicato alla ricostruzione della cattedrale: «La famiglia Arnault e il gruppo Lvmh vorrebbero mostrare la loro solidarietà in questo momento di tragedia nazionale e si associano alla ricostruzione di questa straordinaria cattedrale, che è un simbolo della Francia, del suo patrimonio e della sua unità» si legge in una nota. L’impegno di Arnault (Lvmh ha chiuso il 2018 con ricavi per oltre 46 miliardi di euro, in aumento del 10% rispetto all’anno precedente) segue una donazione simile da 100 milioni di euro per Notre Dame annunciata ancor prima dalla famiglia di François-Henri Pinault, al vertice di Kering, il secondo guppo del lusso francese (13,66 miliardi di fatturato, +26,3% sul 2017), attraverso la società di investimento della famiglia Pinault, Artemis: «Questa tragedia colpisce tutti i francesi e di gran lunga al di là di coloro che sono legati da valori spirituali. Di fronte a una simile tragedia, tutti vogliono far rivivere al più presto questo gioiello del nostro patrimonio», ha spiegato il presidente della holding di famiglia.

Incendio della cattedrale di Notre Dame, la Waterloo dell'idea di nazione. Mai era andata a fuoco una chiesa così centrale, così nazionale e così internazionale, così unica e così copiata nel mondo, scrive Francesco Merlo il 16 aprile 2019 su La Repubblica. Il fuoco è cieco, è vero, ma nell’Europa che diventa sovranista con Notre Dame sta bruciando l’idea di nazione. Quel tetto in fiamme è infatti il tetto che ci copriva tutti, non una rovina che va in rovina come Palmira o i Budda dell’Afghanistan e neppure come la Fenice, che fu incendiata da due elettricisti criminali ma era solo un teatro, sia pure prezioso. Mai era andata a fuoco una chiesa così centrale come Notre Dame, così nazionale e così internazionale, così unica e cosi copiata nel mondo, più francese dello Champagne e più mondiale dello Champagne, la Chiesa che ci fa sognare tutti perché c’è imprigionato dentro un gobbo innamorato che ogni giorno suona le campane per la nostra Esmeralda. Davvero Notre Dame è la Francia grande e compatta, che accoglie e al tempo stesso mette soggezione, più identitaria della spiritosa Tour Eiffel e del Museo del Louvre, con un larga navata che è capitale come Parigi visto che tutte le altre navate, piccole e concentriche, esistono solo per farle corona. Ci sono Notre Dame in Germania, in Inghilterra, in Italia, nel Nord Europa e persino in America perché è il monumento, il santuario, la matrice della civiltà europea, la Chiesa dei re cattolici che unificarono la terra dei franchi e fondarono appunto la prima nazione. Ed è più forte della Marsigliese perché è sopravvissuta alle ingiurie della rivoluzione che furono meno devastanti del fuoco di oggi. Notre-Dame è infatti una delle pochissime chiese cattoliche che non fu ”grattata” dai giacobini, i quali si limitarono a sfogare la loro furia nella distruzione delle statue sante. E Napoleone vi si fece incoronare. Alla fine, forse c’è un mistero che dà senso al fuoco cieco che forse è un avvertimento lanciato nel luogo antico che più segna il nostro tempo. Forse queste fiamme, che nessuno ha appiccato, illuminano l’epoca come una piccola Waterloo.

Con la guglia di Notre Dame si sgretola una parte della nostra identità di Europei, scrive Marino Niola il 15 aprile 2019 su La Repubblica. Non è solo la guglia di Notre Dame a crollare sotto le fiamme. Con lei si sgretola anche una parte della nostra identità di Europei che di quella cattedrale gloriosa abbiamo fatto uno dei simboli della nostra civiltà. Di quel patrimonio comune di valori, di sentimenti, di emozioni che si agita dentro di noi nei momenti più drammatici. Come un’aritmia del cuore che non si può controllare Come un riflesso condizionato dell’anima. Credenti e non credenti, euroscettici ed europeisti, qualunque siano la nostra nazionalità e parte politica, quella chiesa che brucia mette tutti d’accordo. Si spiega anche così la solidarietà che  è divampata con lo stesso impeto delle fiamme da ogni parte del mondo. E ha incendiato i social. Particolarmente toccante è la testimonianza del teatro La Fenice di Venezia, due volte distrutta dalle fiamme e due volte risorta, che ha twittato “Noi siamo stati devastati dal fuoco e ogni volta siamo rinati. Accadrà anche a voi, non abbiate paura, amici!”. In realtà con i suoi otto secoli di vita, diceva il grande storico transalpino Jules Michelet,  Notre Dame è essa stessa un libro di storia. Lì i parigini hanno vegliato il re Luigi il Santo. Lì Filippo il Bello nel 1302 inaugurò i primi Stati Generali del regno di Francia, lì Enrico IV ha sposato Margerita di Valois nel 1572.  Ed è sempre sotto quelle volte maestose che Papa Pio VII ha incoronato Napoleone I imperatore di Francia nel 1804. E sotto quelle vertiginose ogive gotiche che un oceano di popolo in lacrime ha cantato il Te Deum alla fine della prima e della Seconda guerra mondiale. Tutti eventi che hanno costruito l’Europa di ora. Se la storia a volta può dividere, i monumenti invece uniscono, perché sono storia stratificata, decantata, filtrata, accumulata e trasformata in simbolo che appartiene a tutti. In memoria che ci parla di un passato ormai pacificato. Non a caso nell’Ottocento a guidare la ricostruzione della Cattedrale devastata dalle furia della Rivoluzione, fu Victor Hugo che infiammò gli animi con il suo romanzo Notre Dame de Paris e promosse una petizione popolare perché quel luogo sacro alla patria tornasse al suo splendore. E non solo la storia dei grandi eventi è passata davanti a quella cattedrale imponente, con quella sagoma familiare che alterna la calma olimpica dei santi che svettano sulla facciata al ghigno demoniaco delle chimere che guardano la strada di sottecchi. Perché da più di un secolo su quel sagrato si è fatta la storia di noi tutti. Turisti, fidanzati, devoti, patrioti, amanti del bello, tutti ci siamo raccontati, fotografati o selfeggiati, o anche solo immaginati davanti a quella facciata per monumentalizzare un po’ anche la nostra vita. Per farla entrare nella memoria maestosa e romantica della douce France.

Otto e Mezzo, il rogo di Notre-Dame e la sparata di Corrado Augias: delirio europeista, dove si spinge, scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Le immagini delle fiamme che hanno devastato la cattedrale di Notre-Dame a Parigi ha scatenato i commenti più fantasiosi degli intellettuali italiani di sinistra a caccia di simboli europeisti da agitare come bandierine. In prima fila si è subito piazzato il giornalista Corrado Augias, che a Otto a mezzo da Lilli Gruber su La7 non ha perso l'occasione per piazzare le reazioni alla drammatica scena di Parigi sotto l'etichetta che più gli piace. Augias dice di aver ricevuto diverse lettere addolorate per la sua rubrica su Repubblica: "Quando succede una catastrofe come quella si risveglia un sentimento latente: e cioè che siamo figli tutti, in questo continente, di una cultura che ci accomuna, come quella del cristianesimo. Il rogo della cattedrale di Notre Dame ha messo insieme tutte queste cose". Un barlume di buonsenso arriva almeno sul futuro: "Nulla è scomparso per sempre, la cattedrale sarà rifatta, pioveranno fiumi di denaro e questo è un sintomo buono e sarà rifatta, come è stata rifatta tante volte nella sua storia secolare".

Notre-Dame, le fiamme che hanno bruciato la storia sacra e pagana. La memoria in fiamme: da Giulio Cesare a Carlo Magno, ai rivoluzionari, dal cardinal Richelieu, fino a Napoleone. Victor Hugo ne chiese la restaurazione dopo che la cattedrale era stata depredata e mutilata durante la rivoluzione, scrive Gennaro Malgieri il 17 Aprile 2019 su Il Dubbio. Parigi non è più la stessa e mai più tornerà ad essere quella che è stata per noi che l’abbiamo conosciuta ed amata. Le mancherà il cuore sistemato al centro dell’Ile de la Cité, nel mezzo della Senna grigia dentro la quale i desideri e le malinconie e i sogni nascono e muoiono un’infinità di volte ogni giorno affacciandoci dagli alti parapetti. A pochi metri dalle acque torbide del fiume nelle quali si sono consumate nei secoli nefandezze pubbliche e orrende miserie private, le fiamme di Notre- Dame hanno bruciato non soltanto un imponente edificio simbolo di una storia antica e dell’identità di un popolo, ma un sentimento collettivo che si riassumeva nell’infinita bellezza sprigionante da pietre, legni, opere d’arte e soprattutto dall’aura di sacro che ha sempre avvolto chiunque ha varcato la soglia della grande cattedrale. Quelle fiamme che attoniti abbiamo guardato sugli schermi televisivi, non finiranno mai di bruciare, neppure quando sarà ricostruito ciò che è andato irrimediabilmente perduto. E bruceranno i ricordi e le memorie e le preghiere e gli incanti di tutti coloro che hanno avuto la fortuna, almeno una volta nella vita, di solcare la navata centrale, di soffermarsi nelle cappelle laterali della cattedrale, di ammirare la sontuosa maestà dell’architettura gotica e di estasiarsi davanti alle grandi vetrate che nel 1540 illuminarono la mente e l’anima di Torquato Tasso uscito dal tempio come trasformato. Tuttavia i simboli unificanti non muoiono nelle coscienze dei popoli, di tutti i popoli a prescindere dalle latitudini, quando si ha la consapevolezza che quanto è stato distrutto rappresenta una parte del patrimonio della sola razza universale, quella umana. E quel luogo, la Notre- Dame delle nostre piccole o grandi estasi, delle emozioni che in chiunque ha suscitato, vivrà non soltanto per francesi, ma nell’anima di tutti coloro che ad essa hanno guardato nei modi e con gli intendimenti più vari soggiogati dalla sua bellezza e dalla esemplificazione di una maestosa orazione in pietra e legno e piombo: i materiali dei quali lo spirito di serve per esaltare il richiamo dell’Inconoscibile. Lo sfregio che il Destino ha voluto si compisse dopo mille anni dalla sua edificazione resterà come monito della caducità di tutto ciò che umano e a maggior gloria di ciò che sopravvive, sia pure impalpabilmente, nella dimensione dell’eternità. Notre- Dame esprimeva ed esprime, con quel che resta di essa, questa specifica funzione, al di là di ciò che è andato perduto per sempre e che sarà vivificato comunque dalla nostalgia, sentimento del ritorno più che del distacco.

Un luogo dello spirito. Sacro per chi crede, esempio di bellezza purissima per chi non ha il dono della fede, ma sa riconoscere i segni dell’immanenza in un’opera d’arte che è anche – soprattutto, direi – un’opera religiosa, disegnata e realizzata da mani umili non congiunte in preghiera, ma nella realizzazione anch’essa metafisica, potremmo dire con Charles Péguy, del compimento di un rito lungo secoli, il tempo della costruzione del tempio cristiano sulle rovine di un antico tempio pagano. Anche per questo Notre- Dame, ha costituito un riferimento universale nel corso della sua lunga e travagliata storia. Nell’area che venne scelta per costruire la cattedrale, sorgeva un tempio pagano dedicato a Giove per rendergli grazie dopo la vittoria di Cesare su Vercingetorige nel 52 a. C.: fu una specie di riconsacrazione di Lutezia, sottratta ai barbari nemici di Roma. E quando l’antica capitale gallica venne cristianizzata si pensò che la continuità sacrale imponeva che il nuovo luogo di culto si dovesse erigere sulle rovine del vecchio, come è stato in tante terre del mondo antico quando si riconosceva, a prescindere, dalle credenze, l’unità trascendentale delle religioni, come avrebbe definito quella nobile attitudine Fritijof Schuon. E Notre- Dame, anche per questo, venne riconosciuta, ben più delle altre chiese che la precedettero quali luoghi del cristianesimo primitivo, come lo “spazio” nel quale il legame tra la persona e Dio si concretizzava in un rapporto intenso ed esclusivo, al di là delle corruzioni del potere e delle ambizioni di chi utilizzava la religione come strumento di dominio. Notre- Dame, non meno della splendida cattedrale di Strasburgo e di quella di Reims, ha forse espresso al meglio la visione medievale, inveratasi fin nel cuore della modernità, dell’elevazione, al punto che un laico tutt’altro che credente come Victor Hugo nel 1831 le dedicò uno dei suoi libri migliori, ricco di suggestioni, affascinante e seducente perfino il lettore più ostile a comprendere il sentimento di pietà suscitato dalla devastazione di un edificio consacrato: Notre- Dame de Paris, venne scritto come atto di riparazione e di sensibilizzazione affinché si procedesse alla restaurazione della cattedrale, sottraendola all’incuria, dopo le devastazioni che su di essa si esercitarono durante la Rivoluzione francese. Hugo scriveva: "Senza dubbio è ancora oggi un maestoso e sublime edificio… così bello che è stato preservato con il passare degli anni, difficile non sospirare, non essere indignato per degradazioni, mutilazioni che il tempo e gli uomini hanno simultaneamente fatto al venerabile monumento, senza rispetto per Carlo Magno che aveva posato la prima pietra e per Filippo Augusto che aveva posato l’ultima". Lo scrittore eccedeva nel romanzare la storia della cattedrale. In realtà la prima pietra venne posta e benedetta da Papa Alessandro III nel 1163, regnante Luigi VII il Giovane e la costruzione, in una prima fase durò poco meno di cento anni, fino al 1250 quando venne completato l’edificio vero e proprio, mentre in un secondo tempo, molto indefinito, vennero aggiunti gli abbellimenti e furono operati interventi strutturali sia per rafforzarne le mura che per alloggiarvi cappelle e monumenti come quello del re Luigi XIII. Tuttavia l’intervento di Hugo, suscitò un interesse che se non si era spento nei parigini, certo si era affievolito, dopo la profanazione avvenuta nel decennio più feroce del terrore giacobino, dal 1789 al 1799. La cattedrale venne devastata; gli oggetti preziosi vennero per fusi, ma qualcuno si appropriò di tanti al- tri; le statue della facciata, sia quelle della galleria dei Re, sia quelle dei portali, vennero distrutte e così anche la flèche, la “freccia” per i francesi, vale a dire la guglia che abbiamo visto cadere tra le fiamme, venne parzialmente abbattuta. Il 10 novembre 1793 – una data che i francesi non avrebbero mai dovuto dimenticare – nel corso di una celebrazione blasfema in adorazione della libertà, la cattedrale di Notre- Dame venne “consacrata” dai rivoluzionari, capeggiati da Pierre- Gaspard Chaumette, Tempio della Dea Ragione. Una blasfemia che nel corso del tempo non è mai stata abbastanza condannata. Ed i francesi ne furono vittime inconsapevoli quando non impotenti; i francesi delle regioni profonde, delle campagne che davanti soldati al regno, preti alla chiesa…

Immaginiamo i bivacchi giacobini, le orge parolaie dei seguaci di Danton, Marat e Robespierre, le tricoteuses ridanciane disfare manufatti benedetti intorno ai quali si erano raccolti per secoli popolani ed aristocratici per impetrare la benedizione divina prima di guerre sanguinose o dopo tragedie personali. Una storia crudele che nella vicina chiesa, adiacente al piccolo museo Cluny, di fronte alla Sorbona, dove sorgevano le antiche terme “romane”, ebbe l’esito più efferato di crudeltà esercitata sui morti: la profanazione della tomba del cardinale Richelieu e la dispersione delle sue ossa. La Grande Rivoluzione aveva avuto ragione del nemico della Ragione. Notre- Dame, ancor prima che Hugo lanciasse il suo allarme, condiviso da buona parte dell’intellettualità parigina, venne riconosciuta per quella che era. Dopo il Concordato tra lo Stato francese e la Chiesa, firmato il 15 luglio 1801 da Napoleone Bonaparte e da Pio VII la cattedrale riprese la sua funzione e dopo un restauro piuttosto abborracciato e frettoloso, vi venne celebrata la prima messa dopo circa quindici a anni, il 18 aprile 1802 alla presenza di Napoleone e del legato pontificio Giovanbattista Caprara di Montecuccoli. Fu il preludio della fastosa incoronazione dell’imperatore avvenuta il 2 dicembre 1804 al termine di una messa votiva dedicata alla Vergine Maria, Notre- Dame appunto, celebrata da Pio VII. L’imperatore dei francesi, con le spalle al Pontefice, prima pose sul suo capo la corona e poi fece lo stesso ponendola sul capo dell’imperatrice Giuseppina. Sotto le volte della cattedrale si levavano possenti e mistiche, secondo le descrizioni dell’evento, le note del Te Deum di Giovanni Paisiello, il grande compositore napoletano. La scena solenne venne raffigurata da Jacques Louis- David in due dipinti meravigliosi, oggi uno al Louvre e l’altro a Versailles, che rappresentano meglio di qualsivoglia trattato politico il rapporto complesso tra potere spirituale e quello temporale. E dove se non a Notre- Dame, poteva essere celebrata la riconciliazione e la separazione al tempo stesso che avrebbe sancito l’ingresso della storia europea nella modernità? I rifacimenti post- rivoluzionari avevano salvato quasi tutta la struttura della cattedrale, molti manufatti trovarono ricetto nel citato museo Cluny dove – sia detto per inciso – pochi sanno che vi campeggia l’unica statua esistente dell’Imperatore Giuliano, impropriamente detto “l’apostata”, curiosamente affiancato dai simboli cristiani, lui che regnò solo diciotto mesi e venne elevato alla carica imperiale sugli scudi dalle legioni di Lutezia che comandava.

Il tetto della cattedrale, fino all’altra sera, era ancora quello originale, che sostituì la copertura provvisoria con l’installazione delle tegole di piombo per un peso totale di 210.000 chilogrammi, mentre il telaio di sostegno della copertura era in quercia. Tutto in fumo. Come la flèche di Eugène Viollet- le- Duc che non rivedremo mai più. E ci mancherà cercandola con gli occhi certamente smarriti venendo dalla rive droite, dal Marais, da rue de Rivoli, come il segno della prima tappa del nostro itinerario quotidiano, da flaneur alla ricerca di un orientamento che finisce quasi sempre lì, a Notre- Dame, prima di inoltrarci nel Quartiere Latino. Quella guglia ci mancherà. E mancherà ai parigini che dal 1860 hanno preso ad amarla come una presenza imprescindibile del loro paesaggio domestico, come le statue che la circondavano. Quarantacinque metri di assenza che non si staglieranno più nel cielo di Parigi e tra il Pantheon ed il Pére Lachaise perfino i grandi morti di Francia abbiamo l’impressione che si siano destati dal loro sonno nel momento in cui la flèche si è inabissata tra le fiamme, cadendo su stessa, diventando cenere. La storia è una sequenza incessante di edificazioni e di distruzioni. Ma vi sono catastrofi spirituali che sopravanzano quelle materiali e quando queste si uniscono alle altre non vi sono parole per descrivere il vuoto che si avverte. L’anima europea è rimasta scossa nella serata di lunedì 15 aprile. E’ come se si fosse aperto un baratro nella nostra identità e noi fossimo atterriti davanti al naufragio di fiamme davanti al quale la statua illesa di Carlo Magno sulla piazza antistante la cattedrale ci è parsa quasi come un aspetto di uno spettacolo di grandezza crudele: il primo imperatore difronte al prodotto più maturo e solenne e fastoso elevato a Dio dai suoi successori caduto nel tempo in cui le credenze si sono affievolite ed incoronazioni e funerali non se ne celebrano più da quelle parti. Ci intriga l’idea che perfino dalle parti di Achen una tomba si sia scossa… Certamente la catastrofe ha scosso il mondo. Per il semplice fatto che i simboli non possono o non dovrebbero morire e la Bellezza non dovrebbe conoscere affronti. Già, la Bellezza. Un pensiero a Feodor Dostoevskij. Il Destino uccide la bellezza che dovrebbe salvare il mondo, illudendoci insieme con il grande scrittore. Ma la bellezza è fragile, per definizione. E al destino non possiamo che opporre la nostra debolezza, ma anche la memoria che niente e nessuno ci può sottrarre: è la sola forza che ci rimane. Cammineremo ancora intorno a Notre- Dame e sfioreremo le sue mura e accarezzeremo ciò che resta della sua storia un po’ anche nostra. E l’ameremo più di quanto l’abbiamo amata inoltrandoci nel suo vivo medio evo che ci racconta di un’Europa eterna fatta di santi e di peccatori sfilati sotto le volte a crociera di un tempio cristiano.

Incendio Notre Dame: simbolo del cattolicesimo in cui Napoleone si fece incoronare imperatore. La prima pietra fu posta nel 1163 e in quasi 900 anni di storia solo durante la Rivoluzione l'abbazia subì una devastazione simile a quella odierna. Ogni anno oltre 13 milioni di turisti vengono a fotografarla da tutto il mondo, rendendola il monumento storico più visitato d'Europa, scrive La Repubblica il 15 aprile 2019. Patrimonio dell'umanità, simbolo del cattolicesimo e della storia di Francia che sorge sull'isola della Citè, nel cuore di Parigi, il monumento storico più visitato d'Europa. Questa è Notre Dame de Paris, la cattedrale devastata oggi da un improvviso incendio scoppiato sul tetto, in una zona dove pare fossero in corso interventi di ristrutturazione. Realizzata nello stile architettonico del primo periodo gotico, è una delle più antiche cattedrali europee e detiene un record di visite da circa 13,6 milioni di turisti e pellegrini provenienti da ogni parte del mondo, patrimonio dell'umanità dell'Unesco dal 1991. La prima pietra venne posta nel 1163, sul sito in cui sorgeva il tempio sacro dedicato a Santo Stefano, e l'idea dei progettisti era quella di creare un edificio in stile gotico unitario e monumentale. Le dimensioni superarono di gran lunga quelle delle chiese dell'epoca e per diversi motivi stilistici ed architettonici è diventata una costruzione d'eccezione, un unicum nella storia delle cattedrali gotiche. Ad esempio è l'unico edificio antico gotico ad avere archi rampanti al suo interno, inseriti successivamente per mantenere muri ritenuti troppo sottili quindi instabili. Il suo interno è strutturato in cinque navate, con doppie navate laterali, che rappresentavano sicuramente un'eccezione per quei tempi. Sotto la balaustra della facciata vi sono le 28 Statue della Galleria dei Re, distrutte durante la Rivoluzione in quanto considerate simboli del dispotismo reale, ma poi ripristinate nel XIX secolo. Al centro della facciata occidentale c'è il celebre rosone con la Madonna che tiene in braccio Gesù tra due angeli. La sua imponenza cambiò profondamente il volto del quartiere in cui è stata realizzata, a pochi passi dal Palazzo Reale. Del resto venne edificata grazie all'intervento finanziario della Corona e della chiesa francese. Nel corso dei secoli è stata oggetto di diversi interventi di restauro, a partire dal Rinascimento, con l'inserimento al suo interno di decorazioni barocche, di monumenti funebri e altari laterali, tipici di quell'epoca. Uno degli interventi più significativi è stato quello operato nel '600 per volontà di Luigi XVI e nel 1756 intervenne un altro ritocco a vetrate e pareti. In quanto simbolo del cattolicesimo francese, fu devastata durante la Rivoluzione, tra il 1789 e il 1799. Tornò ad essere di proprietà della Chiesa solo nel 1801, in seguito al Concordato stipulato tra Papa Pio VII e Napoleone Bonaparte, ma era necessario un ampio restauro per riparare la devastazione subita e riportare la cattedrale in linea con l'originario stile medievale. Il suo decadimento era così avanzato che si pensò seriamente di abbatterla. Fu anche grazie al romanzo "Notre Dame de Paris" di Victor Hugo, grande estimatore della cattedrale, che l'attenzione per il venerando edificio tornò a destarsi. Il programma di restauro fu avviato nel 1845 sotto la direzione di Viollet-le-Duc, che realizzò anche i famosi gargoyles, scatenando la sua fantasia. Al termine dei lavori, il 31 maggio 1864, Notre Dame venne consacrata ufficialmente. Nei due secoli scorsi ci furono altri interventi strutturali di rilievo, sia all'interno che all'esterno. Nell'850esimo anniversario della fondazione, Notre Dame ha subito ulteriori migliorie, con l'introduzione di un nuovo e moderno sistema di illuminazione interna a Led. L'importanza di un edificio come Notre Dame per i parigini - e non solo per loro - si spiega con il fatto che qui si sono svolte in passato importanti riti civili, maestose ricorrenze religiose, cerimonie commemorative di personaggi illustri e funerali di Stato così come eventi politici di un certo spessore, a cominciare dalla prima Convocazione degli Stati Generali, nel 1302. Ma soprattutto l'incoronazione, celebrata il 2 dicembre 1804, di Napoleone a Imperatore dei francesi, con una sfarzosa cerimonia raffigurata nella famosa tela di Jacques-Louis David, conservata al Louvre. All'interno di Notre Dame ci sono stati anche due suicidi: quello di un giovane intellettuale in esilio a Parigi nel 1931 e dello scrittore Dominique Venner nel 2013. Dal romanzo di Hugo hanno ha poi tratto ispirazione il film Disney del 1996 "Il gobbo di Notre Dame" e lo spettacolo teatrale del 1998 musicato da Riccardo Cocciante.

Da Victor Hugo al général De Gaulle, la culla di fede dove si è fatta la storia. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Alberto Mattioli su La Stampa. Notre-Dame è, o forse con dolore si deve dire era, uno di quei monumenti così celebri che ognuno di noi, anche chi non c’è mai entrato, ne ha un’immagine, un ricordo, magari soltanto un flash. Per chi ha memoria storica, c’è solo l’imbarazzo della scelta. In pochi posti del mondo, in effetti, di storia se n’è fatta tanta: visite papali e incitamenti alla crociata, guerre e rivoluzioni, l’incoronazione a re di Francia di quello d’Inghilterra Enrico VI nel momento peggiore della guerra dei cent’anni (i re di Francia, quelli veri, si facevano consacrare a Reims) e il processo di riabilitazione di Giovanna d’Arco, il matrimonio di Maria Stuarda e la Dea Ragione, una ballerina, portata in trionfo sull’ex altar maggiore durante la Rivoluzione. E poi: l’autoincoronazione di Napoleone e il «Te Deum» celebrato dopo la Liberazione davanti al général De Gaulle, che aveva risalito a piedi gli Champs-Élysées, incurante che qualche cecchino tedesco sparasse ancora, mentre suonavano le campane mute dal 1940. Per i turisti, per chiunque sia stato uno di quei 13 milioni di visitatori che ci entrano ogni anno dopo code e controlli, Notre-Dame è un’icona di Parigi, un profilo familiare che poi, visto dal vivo, risulta quasi deludente (in effetti, è come il Duomo di Milano o le stoffe inglesi: meglio da dietro); per chi a Parigi cerca ancora il romanticismo, una massa grigia che incombe su una Senna in bianco e nero, come in una foto di Doisneau, o che sorge dalla Senna mentre fai il giro in battello. Per i fedeli, è la madre delle chiese di Parigi, il prodotto di nove secoli di cattolicesimo iniziati nel lontanissimo 1163, la fede fatta pietra della «figlia prediletta della Chiesa», quella Francia oggi maggioritariamente atea, o agnostica, ma le cui radici sono lì, e capace sempre di ravvivare una religiosità stanca con figure eccezionali, come l’ex «proprietario» di Notre-Dame, il cardinale Lustiger arcivescovo di Parigi, ebreo convertito, accademico di Francia, capace di dialogare anche con i laici. Che infatti affollavano le sue omelie. Per gli appassionati delle arti, è lo scenario di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, la cui pubblicazione, nel 1831, fu decisiva per «lanciare» i grandi restauri ottocenteschi e appassionare la pubblica opinione al gotico, già considerato «barbaro». Infatti sotto Napoleone I la chiesa era così malridotta che per nasconderlo si appesero alle pareti le bandiere prese al nemico ad Austerlitz. E ancora: quelle navate, coperte da una folla di dignitari, marescialli, falsi principi e veri cardinali, sono lo sfondo del Sacre di David, o l’eco della voce di Edit Piaf che canta, appunto, Notre-Dame de Paris. E pazienza se l’edificio attuale è un pasticcio, un finto gotico o meglio l’idea che del gotico avevano i romantici in generale e in particolare Viollet-le-Duc, il grande restauratore (o ricostruttore). È passato tanto tempo che quel finto gotico è diventato vero. Come sarà vera la nuova Notre-Dame, quella che nascerà dai restauri dopo questa tragedia. Sarà un’altra cosa, ma sarà ancora e sempre Notre-Dame. Questo è il destino delle icone: parlare a tutti, e a ognuno dire qualcosa di diverso. «Come tutti i nostri compatrioti, stasera sono triste di veder bruciare questa parte di noi», twitta Emmanuel Macron. Però, come diceva Thomas Jefferson, ambasciatore americano a Parigi in epoche più propizie alla grandeur, «ogni uomo ha due patrie, la sua e la Francia». I francesi si possono anche detestare, ma non si può negare che questo sia vero. Parigi resta una delle poche città «globali». Non è più, e da tempo, una delle capitali politiche del mondo. Ma resta una capitale della bellezza, della cultura, del sogno. Per questo veder bruciare Notre-Dame è un incubo per tutti, non solo per i francesi. Al solito, la catastrofe si consuma in diretta tivù, mentre le fiamme si alzano sempre di più nel cielo che si scurisce. È un’angoscia vedere il tetto che crolla, la flèche, la guglia di legno alta 45 metri e pesante 750 tonnellate (un altro vero falso della cattedrale, peraltro: risale al 1860) non svettare più sui tetti di Parigi. Ricostruiranno, restaureranno. Perché nonostante queste fiamme, ne siamo sicuri, Notre-Dame non era, è. Parigi, cantava Maurice Chevalier, sarà sempre Parigi: e Parigi, e la Francia, e l’Europa, e quello che siamo, senza Notre-Dame non è nemmeno immaginabile.

A Notre Dame il dolore del mondo libero. Sperando che non si tratti di terrore, scrive martedì 16 aprile Francesco Storace su Il Secolo d'Italia. Non ci sono vittime, ma pare l’11 settembre. Quelle fiamme da Notre Dame atterriscono il mondo, trasmettono inquietudine, seminano dolore ovunque. Perché con il fuoco va in pezzi una parte di Europa, quella delle cattedrali che uniscono gli Urali a Lisbona. È la Cristianita’ che viene ferita al cuore. Nelle prossime ore se ne capirà qualcosa, che cosa può essere successo, e voglia Iddio che non ci sia stato lo zampino di qualche delinquente.

La devastazione globale. Ma con la Cattedrale di Parigi brucia la speranza di vedere rimanere illesi i monumenti e i luoghi della preghiera dalla devastazione globale. Che ormai colpisce tutto. Se fossimo stati presenti lì ieri e non nei giorni del turismo, anche noi avremmo versato lacrime amare, perché questo tempo crudele ci espone a tragedie che nessuno potrebbe mai aspettarsi. Avremmo incoraggiato quei pompieri che restano la grande risorsa nei momenti dei disastri che colpiscono i nostri cuori. Ma non basta, perché impietrisce una frase del procuratore di Parigi. “Nessuna ipotesi può essere esclusa”. Anche quella che non vorremmo possibile. E se fosse terrorismo? “E’ troppo presto per ipotizzare cause”.

Nella settimana Santa…“Muore una parte di noi”, dice il presidente Macron ed è assolutamente vero. Perché siamo tutti atterriti dall’accaduto. Ed è per questo che il dubbio è atroce. Quell’opera ha resistito secoli, a guerre, ma crolla nella settimana di Pasqua. Nostro Signore, aiutaci a sperare che non siano stati i maledetti uomini del terrore. Nella nostra mente il rifiuto di credere alla profezia di Nostradamus; o almeno vogliamo scacciarne il pensiero, collegato al terzo conflitto mondiale. Ma quelle immagini sembrano impossibili da ricondurre alla fatalità, all’errore. Si piange per un monumento che crolla e pare incredibile. Non c’è lutto, ma è tragedia comunque, anche perché si teme il sangue di domani. Vorremmo essere certi che nessuno abbia ordito la distruzione della Cattedrale di Notre Dame. Non è genericamente una Chiesa che ha preso fuoco, ma tra le fiamme è l’umanità intera a perdere un pezzo  di storia e cultura.

Mille anni distrutti in pochi minuti. Sono mille anni distrutti in pochi minuti, ecco che cosa è successo a Parigi. In questi momenti cessa doverosamente ogni polemica con una Francia che a volte e sempre più spesso troviamo arcigna e malevola nei nostri confronti, perché è la storia a riportarci al dovere della solidarietà. Non è “roba francese”, ma qualcosa di tutti noi, in qualunque parte del mondo, che arde in quel maledetto fuoco che ci ha assalito così, in maniera davvero imprevedibile, se non dalla profezia di Nostradamus…Guardiamo convulsamente le agenzie che sfornano reazioni da tutti gli angoli dell’Occidente e anche oltre. E stiamo sempre con la preoccupazione che qualcuno si permetta di rivendicare quella distruzione. E apprendiamo che gruppi jihadisti esultano per il rogo. Vogliamo sperare che si sia trattato di una tragedia dovuta ad errori umani, qualcosa che non ha funzionato, anche se è terribile dover pensare persino all’incuria. Osiamo pensare al peggio. Sì, saremo strani e malfidati, ma il tarlo di un’azione sabotatrice non ci lascia la testa. Preghiamo Dio che non sia accaduto persino questo: sarebbe l’ennesimo insopportabile oltraggio.

FRANCIA, TRA SACRO E PROFANATO. Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 16 aprile 2019. Partita come «figlia primogenita della Chiesa», finisce patria del laicismo. La Francia ha seguito, a modo suo, l' invito di san Remigio al re Clodoveo che stava ricevendo il Santo Battesimo nella cattedrale di Reims: «Piega il capo, fiero Sicambro: adora ciò che hai bruciato e brucia ciò che hai adorato». Era la notte di Natale del 496 e allora si appiccava il fuoco agli idoli pagani. Oggi s' incendiano le chiese. Nella parrocchia di San Nicola a Maison-Lafitte, a nord di Parigi, il tabernacolo della chiesa è stato strappato del muro e distrutto per terra. Il gesto di violenza, l' ennesimo in poche settimane, ha sconvolto la popolazione del luogo. Il 5 febbraio la chiesa di Saint Alain a Lavaur, vicino a Tolosa, è stata data alle fiamme: distrutto il tabernacolo. La stessa chiesa ha subito una profanazione del crocifisso: un 17enne è stato fermato e ha ammesso le sue responsabilità. Il 6 febbraio a Nimes una chiesa è stata vandalizzata e le ostie consacrate sono state disperse. I vandali hanno anche disegnato croci con feci umane e animali sulle mura. A Digione, la settimana precedente, una chiesa è stata vandalizzata e le ostie sono state gettate per terra. Nella capitale, il portone della chiesa di Saint-Sulpice è stato incendiato il 17 marzo 2019 e si sospetta il rogo doloso: al momento dell' incendio c' erano persone nella chiesa. L' Osservatorio sulla Cristianofobia, ormai da anni, elenca uno per uno tutti gli episodi di profanazione dei luoghi di culto cattolici, un fenomeno che Oltralpe ha assunto dimensioni sempre più preoccupanti. Nel 2017, su 978 atti vandalici, 878 sono stati commessi ai danni di chiese. Nei primi tre mesi del 2019 gli atti vandalici contro il patrimonio culturale cristiano hanno registrato una crescita di oltre il 53% rispetto allo stesso periodo dell' anno precedente. Dietro le aride statistiche, ci sono decine di cimiteri e tombe distrutti, furti di arredi sacri, tabernacoli scassinati per sottrarne l' Eucaristia. Gli attacchi non risparmiano nemmeno le persone consacrate: preti e suore vengono insultati per le strade, accusati di essere pedofili o puttane. Accade a Marsiglia, come riferiva Le Figaro del 5 aprile scorso. Si cancellano così anche le ultime vestigia di una civiltà. Il Medioevo è l' obiettivo di un odio che ha radici nella rivoluzione protestante, ma prosegue nelle nostre scuole e nelle università.

Sono i secoli bui. Un bel rogo quindi contribuirà ad accendere la luce della modernità. Lo dicevano anche i nazionalsocialisti quando bruciavano i libri: ciò che è sano risorge da solo. Ma per far risorgere opere come la cattedrale parigina di Notre-Dame, monumento gotico dedicato alla Madre di Dio e che ha più di 800 anni, occorre ritornare alla fede di quei tempi, quando artigiani e semplici cittadini collaborano a un' opera. Nel 1163, il vescovo della capitale Maurice de Sully e re Luigi VII, suo compagno di classe, avevano dato avvio al progetto, che sarà portato a termine nel 1272, dopo più di un secolo. Prima ancora di essere ultimato, il tempio ospiterà le spoglie di san Luigi IX, il re morto a Tunisi durante le Crociate. E perfino Napoleone aveva deciso di farvisi incoronare Imperatore nel 1804, peraltro da Papa Pio VII, che in seguito avrebbe rapito e tenuto prigioniero per quasi cinque anni. Attualmente appena il 4% dei battezzati partecipa alla messa domenicale: la fede cattolica dei francesi si è spenta. Il rogo di Notre-Dame suona come un monito soprannaturale per riaccenderla.

Folle tenta di dar fuoco a cattedrale di New York: voleva un'altra Notre-Dame? Un uomo di 37 anni è stato fermato dalla sicurezza mentre stava entrando nella Cattedrale di Saint Patrick a New York con due taniche di benzina. La polizia non ha ancora stabilito il movente del gesto, scrive Gabriele Laganà Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. Gesto di follia o attacco sventato ad un luogo sacro di New York? È ancora presto per avere certezze. L’unica cosa sicura è che quanto stava per compiere un uomo di 37 anni, forse affetto da problemi psichici, ha fatto immediatamente scattare l’allarme sicurezza nella Grande Mela. Il soggetto, identificato come Marc Lamparello, avrebbe tentato di dare fuoco alla Cattedrale di Saint Patrick. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, l’uomo si stava dirigendo verso la navata centrale con due taniche di benzina. Fortunatamente, però, è stato notato dagli addetti alla sicurezza e fermato prima che potesse mettere in atto il suo piano. La polizia, al momento, non ha ancora stabilito con certezza il movente e nemmeno ha voluto esprimersi sulla possibile disabilità mentale della persona arrestata. Le forze dell’ordine di New York hanno, però, confermato che Lamparello, quando è stato fermato dal personale di sicurezza, stava trasportando due taniche da 5 litri di benzina, un sacchetto con dentro altri due flaconi di liquido infiammabile e due accendini da cucina. Il 37enne si è giustificato con i poliziotti intervenuti sul posto dichiarando che stava "tagliando" all'interno della cattedrale per uscire verso Madison Avenue. L'uomo, poi, ha affermato di avere il serbatoio dell’auto senza carburante. Ma questa versione è stata smentita dalle indagini svolte sul posto. Gli agenti, infatti, hanno controllato la sua macchina e scoperto che non era affatto in riserva. Tutte le piste sono aperte. Non si può neanche escludere che il fermato, suggestionato da quanto accaduto a Notre-Dame, volesse appiccare un incendio alla Cattedrale di Saint Patrick. "Difficile capire quali fossero le sue reali intenzioni, ma uno che va in giro con taniche di benzina e accendini dà sicuramente grande preoccupazione" ha detto John Miller, vice commissario dell'area anti terrorismo della polizia di New York.

Da Il Fatto Quotidiano il 19 aprile 2019. Aveva acquistato un biglietto di sola andata per Roma Marc Lamparello, il 37enne arrestato due giorni fa all’ingresso della chiesa di Saint Patrick, la cattedrale di New York, con due taniche di benzina e degli accendini. Secondo la polizia, l’uomo, un insegnante di filosofia, avrebbe dovuto imbarcarsi giovedì pomeriggio dall’aeroporto di Newark, nel New Jersey, diretto in Italia. È tra l’altro emerso che Lamparello, fermato mercoledì sera intorno alle 20 all’ingresso di Saint Patrick due giorni dopo il terribile incendio che ha devastato Notre Dame, era già stato arrestato due giorni prima nella cattedrale di Newark, la Basilica del Sacro cuore, per aver rifiutato di lasciare la chiesa all’orario di chiusura. Lamparello, che era già noto alla polizia, è stato incriminato con l’accusa di tentato incendio doloso, messa in pericolo della vita altrui ed effrazione. Mentre si indaga per capire quali fossero le reali intenzioni del gesto dell’uomo – alle autorità ha raccontato che la sua auto era rimasta senza benzina e che per questo aveva con sé le due taniche, circostanza smentita dai controlli effettuati dopo il fermo – il vice commissario del dipartimento di polizia di New York John Miller ha detto che “non sembra ci sia alcuna connessione con gruppi terroristici o che avesse motivazioni terroristiche”. Il 37enne, che secondo il New York Times sarebbe stato sottoposto ad una perizia psichiatrica, vive in casa con i genitori, definiti molto religiosi, ad Hasbrouck Heights, in New Jersey. Nel corso degli anni ha insegnato in numerosi college ed università, tra cui il Brooklyn College, la Seton Hall University, ed il Lehman College.

Notre-Dame e l’islam. Parigi e la Francia devono scuotersi perché il futuro apre alla versione dello storico Dominique Venner e della russa Elena Tchoudinova. Intanto salve molte opere d’arte, scrive il 16 aprile 2019  Carlo Franza su Il Giornale. Ieri sera, 15 aprile 2019,  guardavamo  come increduli alla Cattedrale di Notre-Dame in fiamme. Ho pregato anch’io come quei francesi genuflessi a cantare l’Ave Maria. Sono convinto oggi che un miracolo c’è stato nell’aver visto in salvo l’altare centrale e la Croce dell’abside nella Cattedrale. Ciò avviene nella Settimana Santa  che è la settimana della Passione di Cristo. E come Cristo è risorto, risorgerà anche Notre-Dame a Parigi. Cattedrale che è seconda in Europa alla Basilica di San Pietro.  I danni sono stati immensi: due terzi del tetto sono stati distrutti e la guglia centrale è completamente crollata, ma la struttura portante di Notre-Dame è salva,  lo ha assicurato  il capo dei vigili del fuoco di Parigi, il comandante Jean-Claude Gallet. “Possiamo ritenere che la struttura principale di Notre-Dame è salva e preservata nella sua globalità”, ha dichiarato, tranquillizzando il mondo intero che temeva per la salvezza della cattedrale, simbolo di Parigi, devastata per ore da un colossale incendio. E ancora: “ I pompieri sono stati in grado di arginare il rogo nel versante nord, adesso possiamo dire che i due campanili sono stati salvati e stiamo raffreddando la struttura facendo molta attenzione all’interno”. Nulla da  fare per la guglia alta 93 metri che è crollata su se stessa; era stata eretta sui quattro pilastri del transetto.   Notre-Dame è uno dei simboli della capitale francese e il monumento storico più visitato d’Europa con un numero di turisti che oscilla tra i 13 e i 14 milioni ogni anno.  L’incendio  era iniziato ieri lunedì intorno alle 18.50, nel primo giorno delle celebrazioni della Settimana santa che porta a Pasqua. La chiesa era chiusa a quell’ora e nessuno si trovava all’interno. Le opere d’arte più preziose, radunate in emergenza nella notte nel vicino Hotel de Ville, il municipio di Parigi: dipinti, candelabri, inginocchiatoi, reliquie.  Questa mattina  alcune di queste hanno già preso la via del museo del Louvre, dove verranno restaurate.Altre – come i grandi dipinti danneggiati più dal fumo che dalle fiamme – seguiranno venerdì, ha annunciato il ministro della Cultura, Franck Riester. Tra le opere evacuate, infatti, ci sono i ‘grandi Mays’, gli ultimi tredici di 76 dipinti monumentali esposti nelle cappelle della navata, offerti ogni primo maggio tra il 1630 e il 1707 dalla corporazione degli orafi. In salvo anche la Corona di spine che, secondo la tradizione, Cristo portò sulla testa lungo la salita al Calvario, la reliquia religiosa più importante di Notre Dame. Salvati anche un chiodo della croce e la tunica di San Luigi. Sembrava invece andato perduto  per sempre il gallo di bronzo che sormontava la guglia a 90 metri dal suolo, ma l’opera di Violet-le-Duc è stata ritrovata tra le macerie della cattedrale da un esperto e consegnata ai pompieri. Non è ancora chiaro se la scultura contenga ancora il frammento della Corona di spine e le reliquie di Sainte-Geneviève e Saint-Denis che custodiva al suo interno. Scampata alle fiamme anche la campana più grande, 13 tonnellate, risalente a oltre 300 anni fa e ospitata nella torre sud, che risuonava durante le feste cattoliche o grandi eventi come la morte o l’elezione di un Papa. Al sicuro, anche se per puro caso, anche 16 statue rimosse dal tetto 4 giorni prima dell’incendio per essere restaurate a Périguex, in Dordogna. Resta invece l’incertezza sulla sorte dei tre organi: il più grande, cominciato nel XV secolo e terminato nel XVIII, con cinque tastiere e 8000 canne, “potrebbe aver sofferto ma non in modo catastrofico”, spiega il restauratore Bertrand Cattiaux a Le Monde, incaricato della manutenzione del prezioso strumento, danneggiato più “dall’acqua dei pompieri che dal fuoco”. Si ignorano al momento anche le condizioni delle numerose vetrate, tra cui quelle dei tre celebri rosoni del XIII secolo, alti fino a 13 metri, che raffigurano la Vergine, il Bambino Gesù e il Cristo: il piombo che lega insieme i vetri potrebbe essersi fuso. Così come è ancora incerto il destino degli stalli lignei del coro, mentre l’altare principale, istallato nel 1856, sembra essere rimasto intatto, anche se non sono ancora note le condizioni della sovrastante Pietà dello scultore Nicolas Coustou, commissionata da Luigi XIV e realizzata tra il 1712 e il 1728. Riprendo  le parole illuminanti e quanto ha scritto nel suo blog il vaticanista Aldo Maria  Valli: “ Notre-Dame brucia e vengono in mente certe statistiche. Come quelle sul deserto vocazionale francese,  con cinquantotto diocesi su novantotto che nell’ultimo anno non hanno avuto nemmeno un’ordinazione sacerdotale (e Parigi in costante calo rispetto agli anni precedenti). O come quelle sulla media dei cattolici che vanno regolarmente a Messa, crollata al quattro per cento. O come quella sul numero dei battesimi, crollati in modo così impressionante che, secondo alcune proiezioni, nel 2048 a Parigi ci sarà l’ultimo battesimo, mentre l’ultimo matrimonio cattolico sarà nel 2031 e nel 2044 non ci sarà più nemmeno un sacerdote nato in Francia. Notre-Dame brucia e vengono in mente certe definizioni. Come quella di un recente studio che parla di cattolicesimo francese “in fase terminale” dato che ormai il paese è quasi completamente post-cristiano, con molti edifici di culto chiusi, venduti o addirittura demoliti. Notre-Dame brucia e viene alla mente quanto ha detto tempo fa il cardinale Sarah, quando ha messo in relazione il crollo del cattolicesimo in Francia con il declino dell’Occidente, un  “Occidente che non sa più chi è, perché non sa e non vuole sapere chi lo ha formato e costituito”. Una sorta di suicidio che apre la strada ai nuovi barbari.

"UN COLPO AL CUORE DEI CROCIATI", L'ISIS CELEBRA L'INCENDIO CHE HA DEVASTATO LA CATTEDRALE DI NOTRE DAME DI PARIGI COME "UNA BUFALA E UNA PUNIZIONE".  Da Interris.it il 16 aprile 2019. Stavolta non c'è la rivendicazione. Non è stato il terrorismo internazionale a colpire Notre Dame de Paris, uno dei cuori pulsanti del cristianesimo europeo. Ma basta la tragica fatalità del rogo che divora il tetto della cattedrale sino a farlo collassare; è sufficiente vedere la guglia principale, con la croce in cima, ripiegarsi su se stessa e venire giù per far urlare di giubilo quella parte di mondo che, se non appartiene direttamente alla jihad, quanto meno la fiancheggia. Esultanza online Così, mentre la comunità internazionale, sgomenta, assiste impotente al crollo di un simbolo, sul web fioccano tweet e post di esultanza di utenti legati alla realtà dell'islamismo radicale. Manca la rivendicazione, appunto. Quella che c'era stata dopo Charlie Hebdo, il Bataclan, l'aeroporto Zaventem di Bruxelles, Manchester, Londra, Barcellona, Berlino e così via; ma i toni non cambiano. A rivelarlo Site, portale che segue da sempre le vicende del terrorismo di matrice islamica. "I jihadisti - si legge - si sono rallegrati per il fuoco che ha inghiottito la cattedrale di Notre Dame a Parigi, in Francia, condividendo le foto dei media con le fiamme e il fumo, e postando commenti che esprimevano la loro gioia". E ancora "gruppi affiliati all'Isis salutano l'incendio di Notre Dame". Complottismo Dall'altra parte della barricata, in una guerra che per larghi tratti si combatte sui social network a colpi di ideologia, non mancano utenti che non credono alla storia dell'incidente, puntando il dito contro l'Islam in modo indiscriminato. Così i commenti si trasformano in teorie più o meno complottistiche che mettono in guardia dalle politiche di accoglienza. Proprio mentre in Libia (solo per citare l'ultimo teatro bellico) si continua a sparare, lasciando immaginare una ripartenza dei flussi migratori verso l'Europa. Lo scontro di civiltà è già qui...

Notre-Dame, islamici radicali in festa: "La vendetta di Allah". L'agghiacciante coincidenza della kamikaze. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Libero Quotidiano. "La vendetta di Allah contro i razzisti colonialisti". La follia dell'Islam radicale non si ferma nemmeno di fronte a una tragedia simbolica, storica e culturale come il rogo che ha bruciato la cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Come spiega Fausto Biloslavo sul Giornale, Damien Reu ha dato la caccia alle reazioni più agghiaccianti trovate in rete a proposito del rogo, veri e propri inni all'odio. "Allah è grande", scrivono molti come corredo alle foto dell'edificio in fiamme. "Sul profilo Fb di Al-Jazeera Channel sono in molti ad esultare. Ovviamente tutti i nomi sono musulmani, anche se il disastro di Parigi sembra non essere stato un atto terroristico". Leggi anche: "Quando è scoppiato l'incendio...". Notre-Dame, un agghiacciante sospetto Tra l'altro "non è escluso, come è capitato in passato, che i resti dello Stato islamico rivendichi l'incendio pur non avendo alcuna responsabilità". C'è poi un'agghiacciante coincidenza: "Proprio ieri è stata condannata ad 8 anni di carcere Ines Madani, giovane aspirante kamikaze francese". Aveva cercato di dare fuoco a un'auto piena di bombole di gas nei pressi di Notre-Dame, per distruggerla.

Notre-Dame, "disastro colposo" e sciagura di Stato: le drammatiche colpe della Francia, scrive il 16 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Di Notre-Dame è salva la struttura muraria, insieme a un terzo del tetto. Il resto, guglia compresa, è bruciato, perduto per sempre. L'incendio devastante scoppiato intorno alle 18 di lunedì e durato fino a notte fonda ha sconvolto Parigi, la Francia e il mondo. La cattedrale gotica simbolo del Cristianesimo e monumento storico più visitato d'Europa, di fatto, non c'è più e ora si apre la caccia ai colpevoli. La Procura parigina ha aperto un'inchiesta per disastro colposo. Dito puntato sui lavori di restauro alla guglia, con la sostituzione di 16 storiche statue dell'800 trasportate nel Sud del Paese e miracolosamente preservate dalla distruzione. Ma proprio il cantiere della ristrutturazione potrebbe aver dato il via al rogo. Una scintilla, a cantiere fermo, e tutte le strutture in legno sono state ridotte in cenere. Sotto esame, però, c'è anche la macchina dei soccorsi. Non tanto l'eroismo dei 500 pompieri intervenuti "di persona", perché il ricorso ai Canadair dall'alto sarebbe stato ancor più devastante per il fragile edificio, ma il piano stesso di pronto intervento che è risultato clamorosamente carente. "In un cantiere di questo tipo - spiega al Messaggero l'ingegnere Guido Parisi, direttore centrale emergenza dei nostri Vigili del fuoco - un sistema anti-incendio normalmente è previsto. I mezzi dei colleghi francesi erano ovviamente più bassi rispetto al punto in cui è partito il fuoco. E teniamo conto di un altro dato: siamo in una zona centrale vicino alla Senna, è anche improbo muoversi con mezzi pesanti". A rendere più vorace il fuoco potrebbero essere state "le guaine di protezione del cantiere" e "la copertura di legno contribuisce ad alimentare il fuoco. Per questo i colleghi francesi hanno scelto di difendere la facciata, di limitare i danni". Ma la vera domanda è perché, vista l'impossibilità di intervenire massicciamente con i camion e per via aerea, a Parigi non era stato predisposto in forma stabile un presidio di uomini pronti a intervenire in caso di emergenza? 

La cattedrale di Notre-Dame non è assicurata. Spese a carico dello Stato. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da La Stampa. La cattedrale di Notre-Dame non era assicurata: lo rivelano i media francesi, spiegando che lo Stato è assicuratore di se stesso per gli edifici religiosi di cui è proprietario, come la cattedrale. Gran parte dei costi per il restauro della chiesa incendiata lunedì, quindi, saranno a carico delle casse pubbliche. «Lo Stato farà quello che serve», ha detto il ministro della Cultura, Franck Riester. Verranno in suo aiuto le sottoscrizioni della colletta privata, che ieri ha toccato 700 milioni di euro e dovrebbe superare oggi il miliardo. Papa Francesco, durante l’Udienza generale, salutando i fedeli di lingua francese, si è detto addolorato per quanto accaduto e invitato a far sì che la «ricostruzione sia opera corale» e ha espresso «gratitudine di tutta la Chiesa a quanti si sono prodigati per salvarla».

Notre-Dame. Vittorio Sgarbi spiazza tutti: "La verità sul rogo, su cosa si deve indagare". Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Libero Quotidiano. Fatalismo e speranza. Vittorio Sgarbi è "colpito" ma non sotto choc per l'incendio che ha devastato la cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Perché in fondo, spiega il critico d'arte al Quotidiano nazionale, "anche gli incendi fanno parte della storia dell'arte" e in ogni caso, a differenza dell'11 settembre a cui è stato paragonato per forza evocativa, questo evento "si riduce a un incidente di cantiere senza altre implicazioni". Insomma, assicura Sgarbi, "la risposta sta nel rogo. E la scintilla nelle impalcature dei restauri che hanno issato il fuoco. La procura di Parigi non dovrà faticare molto a mettere in fila gli eventi". Leggi anche: Disastro colposo e sciagura di Stato. Le colpe dietro il rogo di Notre-Dame Oltre tutto, non siamo di fronte a una perdita artistica irreparabile: "Opere come Notre Dame sono il frutto di secoli di lavoro. Hanno alle spalle un'esistenza plurisecolare di modifiche, abbellimenti, restauri. Se guardiamo alle fiamme di queste ore con il metro della storia, capiamo che nulla è definitivamente perduto. Facciata e perimetro sono salvi. Andranno ricostruite la crociera e le guglie. Paradossalmente a crollare è stata una delle parti più recenti, frutto di un restauro di metà Ottocento". Sgarbi vede positivo: "Io dico che in una decina d'anni tutto sarà a posto. Tra dieci anni Notre-Dame sarà più bella di prima".

Da Il Messaggero il 16 aprile 2019. La tragedia di Notre-Dame ha un valore simbolico ma nulla di più. Almeno secondo Vittorio Sgarbi, storico e critico d'arte intervenuto a "Quarta Repubblica": «L'intervento dei pompieri è stati efficace. La guglia che è caduta è un'architettura del 1870. La tragedia è morale, sì, ma tutto è riparabile. Il crollo della cattedrale di Noto è stato più grave, in 10 anni l'abbiamo recuperata. Inoltre non ci sono morti, non c'è terrorismo. Questo pianto generale è inutile, è una tragedia legata a un simbolo perfettamente recuperabile. Non possiamo credere di non poter ricostruire qualcosa che è stato fatto nel 1800». Vittorio Sgarbi, guardando le immagini dell'incendio di Notre-Dame, commenta così: «Dobbiamo essere attenti la prossima volta che si fa un restauro a mettere le impalcature in sicurezza. Le fiamme sono divampate per un corto circuito nella struttura montata per il restauro». A chi gli fa notare il valore simbolico dell'evento, Sgarbi ribadisce: «All'interno non ci sono opere antiche, ci sono i muri e alcuni affreschi del secondo 800. Non è come una chiesa italiana che ha un palinsesto secolare. L'arredo è di strutture neogotiche, tipo E.T., cose scenografiche nessun capolavoro. Ma cosa abbiamo perso di Notre-Dame? Ditemi un nome, ditemi un monumento, una statua, una scultura. La corona di Cristo? E' una reliquia finta. La parte importante è nelle due torri, restate intatte». Lo storico conclude con un invito: «Basta retorica, bisogna distinguere tra le opere d'arte e le cartoline».

J’ACCUSE DI PHILIPPE DAVERIO. Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2019. Risparmiata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, ma saccheggiata dai rivoluzionari francesi che ne asportarono gli oggetti preziosi e fusero i metalli, Notre Dame è un simbolo dell' Europa: vi si sono celebrati matrimoni che hanno unito Paesi ed è uno dei monumenti più visitati dai turisti.

Una sciagura europea?

«Notre Dame è la Francia, più che l'Europa - risponde il critico d'arte alsaziano Philippe Daverio -. Notre Dame e la Tour Eiffel sono la Francia. La cattedrale ha un altissimo valore simbolico e la ferita è un duro colpo per l' autostima francese. Non riuscire a proteggere i propri monumenti fa sorgere una valanga di pensieri nefasti per la nostra consistenza di cittadini».

Notre Dame è patrimonio Unesco dal 1991: ha un significato più simbolico e politico che artistico?

«Sì, anche se ha un grande significato per l' arte gotica, che fu lo strumento estetico di propaganda introdotto da Filippo il Bello. Tuttavia la grande cattedrale gotica fu Saint-Denis. Il patriarcato francese era a Sens fino a Richelieu. Notre Dame diventa protagonista con la costruzione del castello sull' Ile de la Cité, come si vede nel Libro d' ore del Duca di Berry».

Molta parte della costruzione del XII secolo era già stata devastata durante la Rivoluzione.

«Le statue della facciata furono distrutte, sia quelle della galleria dei Re sia quelle dei portali e anche la flèche ».

Poi arrivò Victor Hugo, che riuscì a costruire intorno ad essa il mito della Francia...

«Hugo creò il mito con la rivoluzione letteraria del febbraio 1830 quando avvenne lo scontro tra generazioni, quando Hugo e Gautier incominciarono a prendere in giro i vecchi. Fu una battaglia teatrale, volarono i cavoli e intervenne la polizia. Fu il tempo dell' Hernani, manifesto dell' identità romantica. E con il Romanticismo si andò a riscoprire il passato».

E così si restaurò la Notre Dame degli architetti Jean de Chelles e Pierre de Montereau che divenne un' invenzione ottocentesca del restauratore Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc...

«Dopo la salita al potere di Luigi Filippo d' Orleans nasce l' idea di Patrimonio francese. È da allora che, sotto la guida di Prosper Mérimée, si vuol dare un volto alla Francia. Si chiama Viollet-le-Duc, che faceva parte della Commissione per la salvaguardia delle opere d' arte e aveva rifatto il castello di Carcassonne, e gli si affida l' incarico di intervenire su Notre Dame per ripensare, anzi dare un volto alla Francia. La Francia prerivoluzionaria è divisa, anche linguisticamente; la si plasma rifacendo i monumenti antichi. Si pensa di chiudere la ferita rivoluzionaria ricostruendo Notre Dame».

Una ricostruzione come quella di Viollet-le-Duc oggi sarebbe anacronistica.

«Allora si stava inventando l' identità della nazione e questa ricostruzione innescò l' ammodernamento fino ai tracciamenti del barone Georges Eugène Haussmann, ovvero i boulevard».

Questa storia ci fa sentire meno dolorosa la ferita per la perdita?

«No, questa è una riflessione da storici dell' arte! La gente è convinta che Notre Dame sia del Duecento, più vecchia della scoperta dell' America. Questo fa capire quanto il simbolo valga più dell' autenticità. La flèche è il simbolo anche se è più giovane della guglia maggiore del Duomo di Milano finita nel 1769».

Cosa si perde dell' originale?

«La grande testimonianza antica erano le vetrate e la struttura del colonnato interno. Con la monarchia del XIII secolo, che parte con Filippo Augusto, nel giro di 25 anni bruciano tutte le chiese romaniche e vengono ricostruite in gotico, come Amiens e Chartres. Come una ragnatela nasce il gotico, il nuovo potere della monarchia».

Ci sono stati errori o responsabilità nella custodia?

«Con tutti i soldi che hanno in Francia potevano mettere una struttura a sprinkler , cioé spruzzatori automatici a pioggia o materiale ignifugante. Non è vero che non si poteva proteggere: 400 estintori automatici avrebbero bloccato l' incendio. La nostra irresponsabilità è quando non pensiamo di fare dei piani di sostegno e prevenzione. Bisogna ragionare, perché l' Europa è un enorme serbatoio di patrimonio storico, dovremmo tutelare di più i Beni. In Italia si è vissuto un dramma simile con il Teatro La Fenice di Venezia e con il Petruzzelli di Bari. Prima non si pensa che possa succedere qualcosa anche a noi».

Ricostruirebbe in stile?

«In genere il restauro in stile non è la strada giusta. Se entri alla Fenice ti accorgi che non è vera. Ma di fronte alle grandi catastrofi bisogna avere il coraggio di negare la catastrofe e rifare uguale a prima. Non è sempre necessario tenere la testimonianza. Si può rifarla uguale con adeguamenti tecnologici. Farei come abbiamo fatto ad Assisi per anastilosi, se possibile. C' è una documentazione infinita di questa cattedrale».

Per lei personalmente che ferita è?

«Ho abitato con mia sorella per anni nella strada accanto e ho battezzata lì mia nipote Valerie nel coro ascoltando l'organo. Provo una grande pena. Credo che uno che abita a Berlino provi meno effetto. Si andava al concerto d' organo alle cinque del pomeriggio, era un rito parigino. Andavi lì e sentivi dentro Quasimodo, il gobbo di Notre Dame, mitologia romantica: non era vero, ma andava nel vero, la sentivi così».

POTEVA MANCARE LA VIGNETTA DI “CHARLIE HEBDO” SULL’INCENDIO DI NOTRE DAME? Da AdnKronos il 16 aprile 2019. "Je commence par la charpente", "inizio dall'ossatura". Il giorno dopo l'incendio che ha devastato la cattedrale di Notre-Dame, il settimanale satirico Charlie Hebdo ironizza sul disastro dedicando la copertina al presidente francese Emmanuel Macron. La vignetta, su fondo rosso e firmata Riss, ritrae il capo dello Stato francese con le due torri in fumo al posto dei capelli e un sorriso sinistro stampato sul volto. "Je commence par la charpente", dice Macron nel disegno, ossia dalla struttura in legno della cattedrale distrutta dalle fiamme. Un riferimento diretto anche alla questione delle riforme. Ieri, a causa del gravissimo incendio, Macron ha rinviato il discorso in tv durante il quale avrebbe dovuto illustrare misure e provvedimenti dopo il 'grande dibattito' che ha animato la Francia a seguito delle proteste inscenate dai gilet gialli. Il settimanale satirico ha deciso, in via eccezionale, considerato l'accaduto, di anticipare la pubblicazione del suo numero questa settimana e sarà disponibile in una cinquantina di edicole già oggi a Parigi.

Da Il Messaggero il 16 aprile 2019. «Un pensiero a Notre Dame che brucia e un ricordo di questa... ma noi siamo diversi!», scrive Sergio Pirozzi su facebook, postando una foto della Cattedrale di Parigi in fiamme e, subito sotto, le due vignette di Charlie Hebdo pubblicate nei giorni dopo il sisma di Amatrice e che tante polemiche sollevarono in Italia. Un parallelismo, quello proposto dall'ex sindaco della città terremotata, oggi consigliere del Lazio (dopo aver corso per la carica di governatore), che tuttavia fa storcere il naso a molti sul social. Tra i tanti che mettono "like" e si dichiarano d'accordo con Pirozzi, infatti, ce ne sono altrettanti che lo criticano per il fatto di parlare delle vignette di Charlie Hebdo come se esprimessero il sentire di tutti i francesi e non fossero, al contrario, opera di un ristretto gruppo di giornalisti. Ancor più, dell'intervento dell'ex sindaco di Amatrice, viene attaccato il tono polemico in un momento di sofferenza per la Francia e qualcuno sottolinea come si tratti di un atteggiamento poco sensibile così come lo furono le vignette del giornale satirico. Charlie Hebdo ha pubblicato una vignetta anche sul disastro di Notre-Dame. Il disegno, su fondo rosso e firmata Riss, ritrae il capo dello Stato francese con le due torri in fumo al posto dei capelli e un sorriso sinistro stampato sul volto. «Je commence par la charpente», dice Macron nel disegno, ossia dalla struttura in legno della cattedrale distrutta dalle fiamme. Un riferimento diretto anche alla questione delle riforme. Ieri, a causa del gravissimo incendio, Macron ha rinviato il discorso in tv durante il quale avrebbe dovuto illustrare misure e provvedimenti dopo il 'grande dibattito' che ha animato la Francia a seguito delle proteste inscenate dai gilet gialli. 

MA ESATTAMENTE COM'È FATTO QUESTO "POPOLO DEL WEB"? Nicolò Zuliani per Termometro politico il 16 aprile 2019. L'incendio di Notre Dame è stato un disastro che ha colpito pressoché tutto il mondo. Milioni di persone hanno twittato le loro emozioni, subito riprese dalla stampa secondo il protocollo "il web". Nessuno sa davvero chi sia o dove abiti il web, ma torna utile quando si tratta di promulgare la narrazione "che tempi, signora, che tempi". Consiste nello scandagliare i fondali dei social network, pescare i commenti più idioti, farneticanti o estremisti, cucirli insieme e servire a tavola un ritratto desolante della popolazione mondiale, nascondendosi dietro l'autorevolissima parola "il web dice".

È una manovra diffusa quanto infame. Tutti abbiamo visto e sentito interviste - o letto blog fatti apposta - che raccolgono opinioni di deficienti, di solito intitolate "il peggio di". Ecco allora che Notre dame per il popolo è un attentato terroristico, una metafora dell'occidente, bruciamo tt le kiese, oscure profezie, i francesi se l'ammeritano perkè Ciarli Ebdo, haha guardate Trump vuole mandare i canadair di Di Mai00000!1!!!!!!11 e altre vette di umorismo da terza elementare. Quando leggiamo questi abissi di mestizia ci sentiamo molto intelligenti e vogliamo farlo sapere a tutti, così ci affrettiamo a cliccare e condividere, indignati e orgogliosi: Queste sono le conseguenze dí BerluscSALVEENEE, bisogna ripartire dalla scuola, ci vuole più Europa.

Dolcezza ed empatia rovinano gli editoriali indignati. Dopo che "il web" ha espresso la solita opinione cucita ad hoc, i VIP del giornalismo accorrono a strapparsi i capelli tuonando corsivi indignati. Che schifo, che mondo, che orrore, laggente è diventata razzista, sessista, omofoba, xenofoba e via col solito carrozzone. Peccato che "il web" sia una costruzione narrativa faziosa, parziale e ignobile costruita per fomentare altro odio, al solo scopo di aumentare le interazioni social. L'incendio di Notre Dame ha commosso e unito come raramente s'è visto. Governanti da tutto il mondo, supportati da milioni di persone indipendentemente dal colore politico, si sono stretti attorno alla Dama di Parigi. Persino i gilet gialli si sono fermati; è stato uno spettacolo di umanità e speranza enorme.

La scelta migliore. La terza legge di Newton funziona nel mondo fisico e in quello sociale: a ogni azione corrisponde una reazione uguale o contraria. Possiamo scegliere di diventare scimmie che si tirano la merda addosso, in modo che altre scimmie facciano lo stesso in un crescendo di livore, aggressività e infantilismo che di solito termina con dazi, incidenti diplomatici e guerre fredde-quasi-nucleari. Oppure possiamo scegliere di vedere il lato bello, raro e prezioso dell'incendio a Notre Dame. Il tweet del Teatro della Fenice. Uomini e donne di tutte le età in ginocchio che guardano una cattedrale del 1260 bruciare e cantano "Je vous salue Marie" senza cellulare in mano non stanno "cercando di spegnere l'incendio con le preghiere". Stanno facendosi coraggio l'un l'altro, pur non conoscendosi. Dipende come la si vede, ma anche come la si vuole raccontare.  Come Jep Gambardella, scegliere la grande bellezza invece dei selfie della cinquantenne sgallettata.

Greta agli europarlamentari:  «La cattedrale sarà rifatta,  anche la nostra casa crolla». Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Corriere.it. «Il mondo ha assistito con orrore e enorme dolore all’incendio di Notre Dame ma questa sarà ricostruita. Spero che le nostre fondamenta siano ancora più solide ma temo non lo siano». Lo ha detto l’attivista per il clima Greta Thunberg rivolgendosi agli eurodeputati al Parlamento Ue. «La nostra casa sta crollando e il tempo stringe — ha aggiunto — e niente sta succedendo. Bisogna pensare come se dovessimo costruire una cattedrale, vi prego di non fallire». «Mi chiamo Greta Thunberg e voglio che voi siate presi dal panico e agiste come se la vostra casa fosse in preda alle fiamme», ha detto in apertura di discorso la giovane attivista, ribadendo un concetto già espresso in altri interventi pubblici. «La nostra civiltà è così fragile, è come un castello che affonda nella sabbia. La facciata è splendida ma le radici non sono solide», ha proseguito sottolineando che «verso il 2030 avremo fatto scattare una reazione a catena che probabilmente porterà alla fine della nostra civiltà come la conosciamo adesso, se non ci saranno cambiamenti senza precedenti in tutta la nostra società, tra cui una riduzione nelle emissioni di CO2 pari almeno al 50%». Queste, «sono proiezioni sostenute da prove scientifiche», ha detto ancora con la voce emozionata davanti a una sala gremita, per poi commuoversi mentre parlava della deforestazione, della desertificazione, dei danni agli Oceani.

Franco Grilli per Il Giornale. Di fronte alle fiamme che distruggono Notre Dame, Roberto Saviano torna a parlare di migranti. Mentre il mondo piange per la Cattedrale distrutta e la comunità internazionale si mobilita per ricostruire uno dei simboli della cristianità europea, l'autore di Gomorra dà una sua lettura della vicenda. E dice che "no", l'Europa non "è in fiamme". Ma "piuttosto" crede che "l'Europa sia annegata nel Mediterraneo insieme alle centinaia di migliaia di migranti che in questi decenni sono morti senza che nemmeno ci sia giunta notizia della loro fine". Saviano ha affidato a Facebook la sua riflessione. "Osservare il dolore dell’Europa e del mondo intero per le fiamme di Notre Dame ha dato conforto per la tragedia - dice lo scrittore - Il dolore per l’incendio ha fatto sentire appartenenza alla storia europea, ma con Notre Dame a bruciare non è stata l'Europa. L’Europa è in fiamme? No. Credo piuttosto che l'Europa sia annegata nel Mediterraneo insieme alle centinaia di migliaia di migranti che in questi decenni sono morti senza che nemmeno ci sia giunta notizia della loro fine". Secondo l'autore di Gomorra "l’Europa è terra di Diritto, la sua cattedrale più imponente e più preziosa è il Diritto e si sta inabissando da molto tempo". Quindi il problema non sembra essere tanto se Notre Dame viene abbattuta dal fuoco. "Gli 800mila esseri umani imprigionati e resi schiavi in Libia, e ora in grave, gravissimo pericolo più che nei mesi scorsi - asserisce - sono il fallimento di un'idea e di un progetto, quello europeo, che va nella stessa disumana direzione di chi dice di volerla abbattere perché debole nel trattare la questione migranti". Insomma, l'Ue non sta bruciando con Notre Dame ma sta "affondando". E, scrive Saviano, "mentre ci affanniamo a sperare che una cattedrale venga ricostruita, ignoriamo le centinaia di migliaia di vite che in questo momento, anche per causa nostra, stanno vivendo l'inferno. Ha ragione Michela Murgia: il colpo al cuore dell'Europa lo stiamo guardando dal lato sbagliato". Non sono pochi i commenti negativi in calce al suo post. "Non ce la fai - dice Cristiano - Ma lascia stare i migranti. Riesci a infilare i migranti morti in mare dappertutto". E ancora: "Dire che il tuo post è inopportuno è un eufemismo - attacca Valerio - Qui si sta paragonando la storia della cultura europea a ciò che avviene nel mediterraneo a causa delle politiche sbagliate e deleterie dei singoli stati. Notre Dame fa parte della storia, della civiltà, del genio, dell' identità di noi europei, non è minimamente paragonabile con ciò che avviene nel Mediterraneo". E qualcuno gli fa notare che avrebbe potuto dire "una parolina sui musulmani che esultavano" all'incendio della Cattedrale.

Siamo uomini e cattedrali. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Massimo Gramellini  su Corriere.it. Roberto Saviano e Michela Murgia rimproverano all’Europa di piangere a dirotto per Notre-Dame e non per i migranti morti in mare. Anche a Greta Thunberg, la giovane ambientalista, girano vorticosamente le trecce al pensiero che una chiesa in fiamme ci sconvolga più di un pianeta in fiamme. Quando ti batti per una causa giusta, tendi comprensibilmente ad anteporla a qualsiasi altra. Ma per criticare chi si mostra insensibile al destino degli esseri umani è improprio prendersela con chi si mostra sensibile a quello dei monumenti. I ragazzi che da tutta Europa accorsero nella Firenze alluvionata del secolo scorso per mettere in salvo i papiri delle biblioteche non erano meno meritevoli di coloro che si battevano contro le guerre: talvolta erano gli stessi. Non esiste opera più nobile che sottrarre un uomo alla morte, ma le opere d’arte sono ciò che rende l’uomo immortale. Il loro valore simbolico trascende le polemiche, le fazioni e i ragionamenti mondani per parlare direttamente ai cuori. Il Rinascimento fu un’epoca di intrighi e massacri che mise l’uomo al centro, spesso per accopparlo. Eppure noi posteri lo ricordiamo tanto per l’efferatezza dei suoi crimini, quanto, se non di più, per la meraviglia delle sue opere. E comunque non è mai giusto stilare classifiche: chi sa piangere per un monumento sa piangere anche per un uomo.

Un'opera d'arte vale più della vita umana? Istintivamente salveremo una persona piuttosto che un quadro, la gli uomini passano mentre i capolavori restano, scrive  Marcello Veneziani il 19 aprile 2019 su Panorama. A dieci anni dal sisma, L’Aquila è «una scatola vuota», la gente è in salvo, ma l’anima della città, con le sue opere d’arte e i suoi luoghi decisivi, è migrata in un imprecisato altrove. Ben oltre L’Aquila risale un quesito decisivo e generale: ma le opere d’arte valgono più delle persone viventi, la salvaguardia della bellezza viene prima o dopo la salvaguardia delle vite umane? È una domanda che non abbiamo il coraggio di fare. Dopo un terremoto si deve decidere se dare priorità al restauro di una chiesa o di una torre crollate o alle case e ai luoghi di lavoro della gente. Sullo sfondo è l’alternativa tra Bellezza e Salute, tra Arte e Bisogno. Oppure quando vediamo una chiesa senza sacerdoti né fedeli e sorge la tentazione, espressa da Papa Bergoglio, di utilizzarla a scopo sociale e umanitario anziché salvaguardarne il valore artistico-religioso. È un’alternativa dolorosa, tra bisogno e bellezza. Fa il paio con l’aut aut tra salute e lavoro, come accadde a Taranto con l’Ilva, se salvare prima l’ambiente e la salute o l’industria e l’occupazione. Un’altra dolorosa alternativa irrisolta. Da tempo in Occidente prevale il primato assoluto dei diritti umani: l’unico assoluto è la vita umana, il resto è relativo. Non decreteremo mai la morte di un uomo per salvare un monumento o un capolavoro. Siamo umani troppo umani per poterci permettere queste lussuose crudeltà e questo pensare in grande, preferiamo le rovine ai cadaveri. Ma dal punto di vista sovrumano, «là dove tutto è ordine e bellezza», gli uomini passano e invece le opere d’arte, che condensano lo spirito umano, restano. Non lo dico immaginando un Dio dandy, un Dio esteta che sta tra Nietzsche e Wagner, Baudelaire e Oscar Wilde; lo dico nel nome superiore della verità e della bellezza, considerando il capolavoro come vertice e sintesi dell’umanità. Ammetto: non darei mai l’opera di Leopardi in cambio della sua salute e della sua felicità; non baratterei mai il suo canto A Silvia con il coronamento della sua storia d’amore con la medesima. Preferisco la sua infelicità, la sua cagionevole salute, la sua solitudine, che furono così feconde di opere mirabili. Non è cinismo, ma primato della vita spirituale sulla vita biologica, ovvero della vita grande sulla vita piccola. Capovolgo un famoso adagio: «primum philosophari, deinde vivere». Nella romanità il «monumentum aere perennius» valeva più della trascurabile esistenza di un uomo. Se l’esempio pagano è remoto, seguiamo l’esempio cristiano. Nonostante il richiamo alla pietas e al valore inestimabile della vita umana professato dal cristianesimo, quante volte fu preferita la grandezza di una cattedrale, la magnificenza di una statua o di un affresco al soccorso ai poveri e ai bisognosi? Anche la chiesa tra gloria e welfare spesso ha ceduto alla prima; e comunque le opere di misericordia, tra ospedali, ospizi, scuole, assistenza, si sono perlomeno alternate alle opere innalzate alla gloria di Dio, dei Cieli e dei Santi. La bellezza è un’esigenza naturale e soprannaturale e non può essere posposta alla carità e all’amore per le creature. Se così non fosse oggi venderemmo i nostri capolavori per sanare il Debito pubblico. Meglio un asino vivo che un artista morto... Succede quando si vive solo per l’oggi. La magnificenza non può essere subordinata all’utilità sociale. Non si può ridurre il patrimonio religioso di bellezza ad asilo permanente dei senzatetto o ricovero per gli immigrati. La bellezza non va sacrificata alle esigenze pubbliche contingenti. Si può cercare un punto d’equilibrio ma il «bene» soggettivo non può venir prima di un bene assoluto, com’è l’opera d’arte. Certo, la bellezza non può essere sequestrata dalla vita, isolata dalla realtà, salvata dagli stessi uomini ma va vissuta, respirata, toccata. È assurda l’idolatria della conservazione, la tendenza a musealizzare, a fare dei musei i cimiteri della bellezza, nel timore che le opere d’arte siano deturpate. La bellezza va esposta, con i rischi che comporta, va vissuta a cielo aperto, come fu del resto concepita. Vanno liberate le opere d’arte dalle prigioni museali, come si fa coi nani da giardino. Anni fa proposi vanamente a Reggio Calabria di portare all’aperto, sul mare, i Bronzi di Riace e farli diventare simbolo dell’Italia e della Magna Grecia - come la Sirenetta di Copenaghen o la Statua della libertà di New York - anziché tenerli sequestrati per anni negli scantinati del museo. Che riacquistino vita nel contatto col mondo, che diventino simboli viventi e non culture morte, sepolte negli obitori dell’arte. Ma la tutela prevalse sulla bellezza, si rinuncia a un simbolo potente per non correre rischi sulla manutenzione. L’uomo vale per l’impronta che lascia. Certo, ogni vita umana va salvata e tutelata, ma la vita vale per la traccia che lascia, per ciò che ha edificato, per quel che proietta nel mondo. Ha ragione Ray Bradbury: «Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore... un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani... o un giardino piantato col nostro sudore. Qualcosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là». L’opera trascende l’uomo ma l’uomo s’incarna nell’opera. In quelle opere è condensata la vita di chi la ritrasse, di chi fu ritratto, di chi poi l’ammirò. L’anima singola e comunitaria si raccoglie in un’opera d’arte, frutto d’ingegno e lavoro. Onore all’opera, nonostante il nomignolo burocratico di Bene culturale. Gli uomini passano, la bellezza resta. Gli italiani passano, l’Italia resta.

Greta, Saviano e i narcisi di Notre Dame. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Pietro De Leo su Il Tempo. Ma quale simbolo della cristianità, della tensione verso l’Alto e atto di fede che attraversa i secoli, anzi i millenni. Eccoli lì, i teorici del benaltrismo, quelli che di fronte all’immagine della Cattedrale di Notre Dame in fiamme, della “fleche” che crolla mangiata dal fuoco assassino, pensano che, comunque, siccome non è venuto giù tutto, i problemi gravi sono altri. Tanto la Cattedrale si ricostruisce, l’ha detto pure Macron. Brucia un pezzo d’anima dell’Occidente ed è una questioni di viti e bulloni, legno, progettisti e istruzioni per il montaggio, come fosse un mobiletto dell’Ikea. Sono quelli lì, la compagnia di giro per la quale, se l’Occidente ha una colpa non è certo perché lascia andare i suoi scrigni della memoria, ma perché se ne strugge abbastanza se ciò avviene. Perché i drammi veri sono...

 Notre-Dame, l’incendio dei luoghi comuni: e se fosse successo in Italia? Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Il Sole 24 ORE. Non ci fraintendete. Qui nessuno mette in discussione l’importanza di Notre-Dame per Parigi, la storia di Francia, d’Europa, del mondo, l’opera d’arte immensa, la fonte d’ispirazione di eccelsi artisti e il pezzo d’immaginario collettivo che abbiamo rischiato di perdere la sera del 15 aprile. Qui il tema non è il disastro di Île de la Cité, ma come è stato percepito dall’opinione pubblica e raccontato dai media: una tragedia, qualcosa di paragonabile all’11 settembre o all’alluvione di Firenze. Eppure è stato qualcosa di molto diverso, di più vicino all’incendio della Fenice di Venezia o al crollo della Schola Armatorum a Pompei.

Realtà sacrificata alla narrazione. Qui i terroristi non c’entrano, né l’odio verso la cultura occidentale, il simbolo dell’Europa prima e dell’europeismo di conseguenza. Non è stata neanche una catastrofe naturale, qualcosa di imponderabile un minuto prima che accadesse e implacabile un minuto dopo. Non c’entra insomma la retorica del 90% delle argomentazioni che abbiamo sentito e letto a caldo, dopo l’incendio. Qualcuno ha detto che «brucia l’anima dell’Europa, non solo quella cristiana», qualche altro ha scritto del «tesoro perduto», qualche altro ancora che «Notre-Dame non c’è più», sacrificando all’enfasi della narrazione la realtà dei fatti. Perché Notre-Dame a guardar bene c’è ancora, per quanto un po’ malconcia. E, sempre a ben guardare, non è la prima volta che le capita, in 837anni di storia.

Il buonsenso del «rinnegato» Depardieu. Chi ha raccontato e, ancora di più, commentato il rogo ha spesso e volentieri sbagliato categorie: lasciate perdere tragedia e catastrofe. L’ultima parola la avranno le indagini in corso per disastro colposo, ma sembra sempre più evidente che abbiamo a che fare con l’imperizia, forse un errore umano, «mi è subito tornato in mente il rogo del Teatro la Fenice di Venezia. Era il 1996, oggi siamo nel 2019. È pazzesco che si possano ripetere episodi terrificanti di questo genere», ha detto l’attore Gérard Depardieu, francese «rinnegato» per motivi fiscali, tra i pochissimi a centrare senza retorica il cuore del discorso, con una lucidità che è al di sopra delle parti. Qui a quanto pare c’entrano la concentrazione di polveri e l’assenza di un sistema antiincendio automatico, come due anni fa denunciava lo studio di Paolo Vannucci, docente di meccanica all’Università di Versailles. Un italiano, ma pensa te.

Una faciloneria italiana, troppo italiana. Quella che ha probabilmente scatenato l’incendio di Notre-Dame è stata una faciloneria italiana, troppo italiana. La provocazione è d’obbligo: come avrebbe reagito il mondo se un disastro simile fosse accaduto da noi, alla Galleria degli Uffizi o, ancora, al Pantheon di Roma, non a caso inserito da Vannucci nella lista degli edifici storici con problemi analoghi a quelli della cattedrale di Notre-Dame? Non è difficile immaginarselo, dopo tutto si tratta di un film che abbiamo già visto. Quando andò in fumo la Fenice citata da Depardieu e tutte le volte che c’è stato un crollo a Pompei: altro che Parigi vittima di perdita incommensurabile, collette internazionali da 700 milioni e parigini in lacrime sul Lungosenna. 

«Les italiens» e altri luoghi comuni. Sarebbero subito partiti processi sommari che neanche nella fase del terrore: chi aveva il compito di controllare e non lo ha fatto? Se non si è restaurato, perché non si è restaurato? Se si è restaurato, perché si è restaurato male? E soprattutto, siccome siamo al di qua delle Alpi: chi ha rubato? Nella stagione dei crolli a Pompei, l’Unesco minacciò di cancellare l’area archeologica vesuviana dalla lista dei Beni patrimonio dell’umanità.

Qualcuno arrivò persino a ipotizzare una manina misteriosa. che tirava giù i muri e avvertiva la stampa per chissà quali secondi fini. Chi vuoi che faccia lo stesso stavolta? Non ce la prendiamo troppo: da eredi morali di Jessica Rabbit, noi italiani non siamo cattivi, ci disegnano così. Incatenati ai luoghi comuni delle t-shirt da esportazione col volto sacro di don Vito Corleone, per l’opinione pubblica globale siamo Les italiens. Proprio come ci etichettano da sempre i cugini d’Oltralpe.

L’eterna condanna del non prendersi troppo sul serio. Comunque la vogliate mettere, dalla triste vicenda e soprattutto dalla rappresentazione mediatica che ne è seguita si trae un doppio insegnamento, piuttosto elementare. Uno: i beni artistici sono vulnerabili per definizione e di premure da adottare per conservarli non ce ne sono mai abbastanza. In Italia come in Francia o a qualsiasi altra latitudine. Due: i francesi, secondo il grande Jean Cocteau, sono degli italiani di cattivo umore. Gli italiani, all’opposto, sono dei francesi di buon umore. Morale della favola: a differenza loro, nessuno ci prende troppo sul serio. E a ben guardare neanche noi lo facciamo.

“I FRANCESI SONO PIÙ PIRLA DI NOI”. Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 17 aprile 2019. È noto. Noi italiani eccelliamo nell' arte dell' autodenigrazione. Ogni volta che accade un incidente, una sciagura naturale, un disastro qualsiasi ci abbandoniamo alle critiche verso le autorità. D' altra parte siamo noi ad aver inventato lo slogan più diffuso: piove governo ladro, che sintetizza il pensiero corrente, il più comune e sentito. I cittadini del Nord ce l' hanno a morte con la gente del Sud che ricambia il sentimento. Gli operai sono in eterna polemica con gli imprenditori. I quali dipingono i loro dipendenti come sanguisughe. Gli interisti odiano i milanisti e viceversa. Esistono ancora numerosi personaggi che detestano i fascisti benché morti e sepolti, mentre i sopravvissuti, quelli di CasaPound, quando si va a elezioni raccolgono consensi intorno allo zerovirgola. Gli esempi sarebbero infiniti, ma ci fermiamo qui per non annoiare i lettori. Comunque è un fatto che ci diamo l'un l' altro dei farabutti, degli evasori fiscali, dei corrotti e perfino degli stupratori, degli assassini per quanto le statistiche dimostrino che il popolo che si riconosce sotto il tricolore sia tra i più miti non solo d'Europa: già, siamo i migliori del mondo, però non lo sappiamo o fingiamo di non saperlo. Lunedì Notre Dame è stata distrutta dalle fiamme a Parigi, non a Reggio Calabria, e così abbiamo scoperto, senza ammetterlo, che i francesi sono più pirla di noi. Pensate, disponevano di un monumento medievale meraviglioso, un mito, e allorché ha preso fuoco nessuno se n' è accorto in tempo ed è finito in cenere. Gli allarmi tecnologici non c' erano e se c' erano dormivano, non funzionavano, i pompieri sono arrivati sul posto del rogo dopo mezz' ora, non c' è stata anima in grado di limitare i danni. Fosse successo a Milano o a Roma i politici si prenderebbero a pugni rimbalzandosi le responsabilità. I giornali gronderebbero indignazione, accuserebbero Salvini e Di Maio, la protezione civile e le forze dell' ordine. Immaginate le risse nei talk show, le interrogazioni parlamentari, le frecciate al Papa e a Mattarella, tutti complici della distruzione della storica cattedrale. I cugini d'Oltralpe non mi pare si diano martellate sui testicoli; danno la colpa al caso, alla sfiga, senza massacrare Macron che pure qualche calcio nei glutei lo meriterebbe. Il problema è che i transalpini nonostante i gilet gialli e le puttanate del loro governo hanno un minimo di dignità che li preserva dal ridicolo. Almeno in questo, e soltanto in questo, converrebbe imitarli. Se brucia una chiesa, dove pochi ormai mettono piede perché la massa è miscredente, pazienza, se ne farà un' altra e buona notte al secchio.

·        Le chiavi del Vaticano.

L’uomo che custodisce le 2797 chiavi dei Musei Vaticani. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Paolo Conti su Corriere.it. Ore 4.45 del mattino. Di tutte le mattine. Comincia il lavoro del Clavigero Vaticano, Gianni Crea, uno dei custodi (in tutto undici) autorizzati a usare le 2.797 chiavi che aprono e chiudono i tesori pontifici, ovvero i Musei Vaticani, ben undici diverse collezioni esposte al pubblico oltre le Mura Leonine, nello Stato della Città del Vaticano. Il rito, semplice e insieme spettacolare, è sempre lo stesso: il Clavigero entra, raggiunge l’atrio dei Quattro Cancelli e lì comincia a scegliere le chiavi, suddivise in diversi mazzi, per riaprire tutte le porte ai quasi 6.500.000 visitatori che ogni anno ammirano la Cappella Sistina, le Stanze e la Loggia di Raffaello, i marmi romani, il Museo Gregoriano Egizio e quello Etrusco, la Galleria degli Arazzi, la Galleria dei Candelabri, la Galleria delle Carte Geografiche, l’Appartamento Borgia e l’Appartamento di San Pio V, e si potrebbe continuare a lungo. Crea usa la torcia perché fuori Roma è immersa ancora nella notte: afferra le chiavi, apre, accende le luci e ogni volta di fronte a lui riappare un patrimonio culturale che, da secoli, affascina turisti e studiosi, ragazzi delle scuole e anziani, visitatori coltissimi o digiuni di storia dell’arte. Ma i Musei Vaticani, oggi diretti da Barbara Jatta, riescono a parlare a tutti perché il linguaggio della bellezza qui è privo di mediazioni, colpisce il cuore e la mente, nessuno si sente escluso, è il miracolo laico della grande arte. Racconta Crea: «Venticinque anni fa il mio parroco mi disse che in Vaticano cercavano un custode ausiliario per la basilica di San Pietro. Cominciai così. Adesso da ventuno anni lavoro nei Musei Vaticani». Albeggia e la torcia di Crea illumina lentamente gli ambienti. Per esempio, ed è solo uno possibile, la Galleria delle Carte Geografiche, voluta da Gregorio XIII tra il 1581 e il 1583 per avere una puntuale rappresentazione di tutta l’Italia. A distanza di secoli si ritrovano paesaggi perduti, piccoli centri scomparsi, le città com’erano alla fine del ‘500 con una precisione da artisti e, insieme, da cartografi. Eccoci al bunker. Spiega Crea: «Esiste una sola copia della chiave della Cappella Sistina. È antica, ogni sera viene inserita in una busta, sigillata dalla Direzione, infine chiusa in cassaforte. E ogni mattina il forziere viene riaperto». Il rito della torcia, nel buio della Cappella Sistina, fa letteralmente tremare le gambe: trovarsi lì, da soli, davanti al Giudizio Universale e sotto la Creazione, prima al buio, poi con un piccolo lume tascabile e infine assistere alla riaccensione dell’impianto a Led è un’esperienza da ricordare per la vita. Non c’è luogo al mondo così ricco di arte, di genialità, di gusto, di fede: ci si abitua? «No, è sempre un’emozione unica sia per me che per i miei colleghi poter aprire la Cappella Sistina a tutti i visitatori che vengono da ogni parte del mondo. È un bene che non ha eguali...». Ecco il Laocoonte: ritrovato nel gennaio del 1506 in una vigna sul Colle Oppio non lontano da san Giovanni, studiato subito da Michelangelo e Giuliano da Sangallo, venne esposto in Vaticano al popolo romano per volere di papa Giulio II. Così nascono i Musei Vaticani, più di mezzo millennio fa. La luce illumina Roma, è primo mattino, entrano i turisti, ora l’incanto dei Vaticani è a loro disposizione. Le chiavi tornano nei cassetti, il Clavigero le sistema in ordine. Con amore. E si vede.

·        Quando è Pasqua...

Come calcolare quando sarà Pasqua. Come si fa a calcolare quando cade il giorno Pasqua? Basta sapere quando ci sarà la prima luna piena dopo l'equinozio di primavera, scrive Elisa Sartarelli, Giovedì 11/04/2019, su Il Giornale. Alta, media o bassa la Pasqua cristiana cattolica è sempre "ballerina". Non cade mai in un giorno preciso come il Natale, anche se è sempre di domenica. L’unica certezza è che la Pasqua si festeggia tra il 22 marzo e il 25 aprile. Quest’anno si avrà una Pasqua “alta” il 21 aprile. A seconda della data in cui cade, infatti, la Pasqua viene detta “bassa”, “media” o “alta”. È “bassa” dal 22 marzo al 2 aprile, "media" dal 3 al 13 aprile e "alta" dal 14 al 25 aprile. Per sapere quando cade la Pasqua bisogna fare un conteggio preciso. Il giorno della Risurrezione di Gesù Cristo si celebra nella domenica che segue la prima luna piena di primavera. Seguendo questo principio, partendo dall’equinozio di primavera, si deve tenere conto del primo giorno di luna piena e la Pasqua cadrà la domenica successiva a quel giorno. Come riporta Focus, quest’anno l’equinozio di primavera è avvenuto mercoledì 20 marzo e giovedì 21 marzo la luna era piena. E dunque, seguendo questo calcolo, i cattolici avrebbero dovuto celebrare la Pasqua lo scorso 24 marzo. Perché questo non è avvenuto? Il sospetto potrebbe essere che qualcuno abbia sbagliato i calcoli ma non è così. Secondo il calendario astronomico, infatti, l’equinozio di primavera può verificarsi il 19, 20 o 21 marzo. Ma per semplificare le cose, la Chiesa considera l’equinozio sempre il 21 marzo. Dunque il conteggio è partito dal 21 marzo, non dal 20, e si è considerato il successivo plenilunio, quello del 19 aprile.

La rappresentazione del sacro: un antico dilemma per la tv. Pubblicato martedì, 23 aprile 2019 da Corriere.it. Durante la festività pasquale è consuetudine mandare in onda film di argomento cristologico: «La tunica» (Tv2000), «Risorto»(Rai1), «Paolo, apostolo di Cristo» (Sky Cinema), ecc. È possibile conciliare il sacro con il linguaggio del cinema o della tv che è espressione tipica del profano, della volontà di potenza del visibile? Il problema si è posto più volte nella storia del cinema e, più in generale, nella storia della rappresentazione: rende più giustizia alla sacralità del tema un film come «La tunica», a soggetto sacro, o un qualunque film di Robert Bresson, a soggetto laico? La disputa è antica. Il teologo Romano Guardini (1885-1968), molto amato da Joseph Ratzinger, era contrario alla rappresentazione di Cristo nel cinema: la sua personalità attinge al mistero che il cinema è in grado di riprodurre «solo con trucchi, è simulazione di un falso mistero». Questa posizione — hanno osservato altri teologi — non tiene però conto di un dato fondante dell’immagine: il suo potenziale simbolico, che è rinvio ad altro, suggestione del mistero. Il film non può e non deve dimostrare o «rappresentare» la divinità di Cristo; piuttosto è dalla rappresentazione dell’umanità di Gesù che sgorgano tratti evocativi del mistero. La Bibbia non è un libro edificante, è una testimonianza di rivelazione, è una memoria attestatrice che si complica quando entra in circolo nel contesto mediatico. Nel momento in cui i suoi racconti vanno in scena diventano un oggetto di contesa e di desiderio, cioè immaginazione. È curioso notare come il termine «sacro» , risalendo alla sua origine etimologica, significhi separazione e indica che «è sacro ciò da cui si deve stare lontani». Il termine televisione invece indica avvicinamento, prossimità, guardare da lontano. Forse, anche per i media, vale l’osservazione di Elias Canetti: «Anche se tu non la leggi, tu sei nella Bibbia».

PASQUA ON LINE. Marino Niola per la Repubblica il 21 aprile 2019. I riti vanno in Rete e la Passione diventa virale. Nell' era di Internet le processioni della Settimana Santa vengono seguite da milioni di internauti che da ogni parte del mondo assistono in tempo reale a quello spettacolo del sacro che trasforma piazze e borghi d' Italia in teatri di strada per anime sensibili. I rituali pasquali più celebri e scenografici sono diventati negli ultimi anni dei veri e propri "monumenti" immateriali, in cui cultura di massa e cultura popolare, antiche liturgie e nuove tradizioni hanno intrecciato i propri segni. In Italia sono più di tremila le rappresentazioni popolari della Via Crucis. Dagli Incappucciati di Sorrento che sfilano come ombre nella notte profumata della Costiera, allo scoppio del carro di Firenze che incendia il duomo più bello del mondo come una santabarbara. Dai Perdoni di Taranto, con i penitenti scalzi che avanzano dondolandosi nel labirinto della città vecchia, ai Pasquali di Bormio, in Valtellina, dove le portantine allegoriche a sfondo religioso vengono portare a spalla fino al centro del paese. Dai Misteri di Procida, che fanno calare sull' isola un velo di luttuosa solennità, alla Corsa della Resurrezione di Tarquinia, dove la statua di Gesù viene fatta correre per le vie della città. Dal drammatico Iscravamentu (Deposizione) di Alghero, con la statua snodabile del Redentore che il Venerdì Santo viene staccato dalla croce e portato in processione dalle Confrarías, le confraternite di incappucciati venute da tutta la Sardegna e anche dalla Catalogna. Fino al Vasa vasa di Modica - che ha ispirato il soprannome dell' ex presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro - dove la domenica di Pasqua la statua della Madonna incontra quella del Figlio risorto per la tradizionale vasata, il bacio di giubilo che trasforma il rito in festa. Sono migliaia i siti, ma soprattutto le pagine su social network come Facebook e Instagram, nonché le piattaforme di video sharing come Vimeo, impegnati in questi giorni nella diffusione urbi et orbi delle nostre ritualità religiose tradizionali. Con l' effetto di dilatare lo spazio festivo trasformandolo in spazio immateriale. In un nuovo luogo di condivisione, in grado di mettere insieme attori e spettatori della cerimonia, dando vita così a forme inedite di comunità. In questo senso la straordinaria capacità di connessione della rete consente di allargare i confini materiali del Paese anche a chi ne è lontano, come nel caso degli emigrati e di ricostruire delle collettività virtuali. Non a caso molti comuni, come Caltanissetta, Canosa di Puglia, Mantova e tanti altri, ricorrono alla diretta streaming per documentare l' evento e trasformare il locale in glocale. La comunità materiale in community virtuale. Il face to face paesano in face to facebook planetario. Così il richiamo dei rituali della Settimana Santa, che a uno sguardo superficiale potrebbe apparire un arcaismo destinato ad essere rottamato dalla secolarizzazione imperante, trova nuove ragioni di popolarità. Forse è proprio la società della connessione permanente, sempre all' inseguimento affannoso dell' attimo fuggente, a produrre una domanda di raccoglimento, di pace interiore, di tempi lunghi, come quelli del rito, del sacro, del legame comunitario. Una tregua con noi stessi e con gli altri. Il fatto è che il nostro quotidiano è sempre più convulso, superficiale, fatto di relazioni occasionali. Un' esistenza all' insegna del last minute, una rincorsa continua che ci lascia giusto il tempo per guardarci allo specchio, ma ci sottrae quello per guardare dentro di noi. Ebbene, in un contesto del genere, il rito valorizza le ragioni dell' essere rispetto a quelle dell' avere. Dà forma a quella domanda di profondità che resta per lo più inevasa in fondo al nostro cuore. Ci fa sentire protagonisti di un tempo diverso da quello quotidiano, finalmente scandito da relazioni più vere. Realizzando così il significato più antico della parola religione che, sin dalla sua etimologia, ha a che fare con l' essere insieme, con la solidarietà, lo scambio, la comunione, il legame. È questa insomma la ragione del fascino della Settimana Santa reale e virtuale. È come se il passo lento e severo dei riti della Passione ci mostrasse la possibilità di un cambio di velocità, che rigenera la parte più profonda di noi. Lo spirito del tempo festivo ci fa essere ciò che non siamo tutti gli altri giorni. E in questo senso ci fa vivere un' autentica esperienza di resurrezione. Anche con l' aiuto di Internet. Che lascia intravvedere la possibilità di un' ecumene digitale.

PASQUA DI SANGUE. Da Tgcom 24 il 19 aprile 2019. Si crocifiggono e auto-flagellano per celebrare la Pasqua. Succede nelle Filippine dove i fedeli celebrano il Venerdì Santo simulando la morte di Cristo. Nel Paese asiatico, i cattolici rappresentano circa l'80% della popolazione. Un'eredità dei 300 anni del dominio coloniale spagnolo. La pratica estrema viene accompagnata da una processione per le strade delle città. La celebrazione prevede che i fedeli si infliggano delle vere e proprie penitenze corporali. 

LA PSICHEDELICA “PASQUA” DEI SEGUACI DEL VOODOO.  DAGONEWS il 19 aprile 2019. Sacrifici, danze in trance, bagni in piscine sacre. Gli haitiani, seguaci della religione voodoo, hanno celebrato una delle loro feste sacre in corrispondenza del giorno di Pasqua. In centinaia si sono riuniti per la cerimonia religiosa annuale a Souvenance, un sobborgo di Gonaives, a nord di Port-au-Prince, dopo aver fatto il pellegrinaggio annuale al loro tempio santo, Souvenance Mystique, dove esprimono la loro devozione agli spiriti, prendendo parte a numerosi rituali. Ogni anno i credenti si vestono di bianco, sacrificano animali, fanno il bagno in una piscina sacra e danzano in trance mentre celebrano uno dei giorni sacri del calendario Voodoo. Il voodoo fu portato ad Haiti dagli schiavi dell'Africa occidentale, ma non divenne immediatamente una religione riconosciuta dal paese dei Caraibi fino agli anni '60. Molti rituali voodoo e celebrazioni sante coincidono con gli eventi della fede cristiana cattolica in quanto quest'ultima era la religione degli schiavisti haitiani francesi: per ingannarli, gli schiavi, ai quali era proibito esercitare la loro fede voodoo, decisero di far coincidere le loro festività con quelle dei cattolici, in modo da celare il loro vero credo.

I meravigliosi riti religiosi della Semana Santa di Siviglia, scrive il 22 aprile 2019 Roberto Pellegrino su Il Giornale. La Settimana Santa di Siviglia, in Andalusia il profondo Meridione iberico,  rappresenta una parte importane, leggendaria, affascinante e misteriosa dei rituali religiosi della Pasqua cristiano-cattolica. I riti e le processioni della Semana Santa de Sevilla,dovrebbero essere registrati come Patrimonio dell’Umanità per la sua bellezza e peculiarità, e rappresentano le ritualità religiosi cristiano-cattoliche pasquali più famose e importanti in tutto il mondo con milioni di turisti che le hanno viste nel corso degli anni. Le cerimonie con le processioni prendono il via il giorno della Domenica delle Palme e termina con la Pasqua: in questa settimana ci sono sessanta Hermandades – le processioni delle antiche confraternite od organizzazioni risalenti al Medioevo, nate come supporto alla sicurezza contro i briganti  e diventate leghe d’amicizie tra i vari paesini spagnoli attorno a Sevilla, poi inglobati dalla città e diventati suoi quartieri – portano in processioni immagini relative alla Passione di Cristo.  Nel 2011 la città di Siviglia con varie centinaia di migliaia di turisti accorsi non hanno visto la celebre Madrugá, la veglia della notte  tra il Giovedì e il Venerdì Santo. In questa notte santa ci sono le processioni più variopinte e amate dai sivigliani e dagli spagnoli. Otto anni fa il maltempo ha impedito questi riti, interrompendo quasi ottant’anni di storia, nel 1933 infatti era stata la situazione politica prossima alla Guerra Civile a sospendere tutte le festività. Già nel nel 1919 e nel 1932 durante la Seconda Repubblica Spagnola,  in una fase di aspri confronti sociali e politici, si verificano alcune interruzioni, in particolare nel 1932 quando solo la “Confraternita di Nostra Signora della Stella” (Hermandad de Nuestra Señora de Estrella) sfilò solitaria in contrasto con l’accordo del “Consiglio Direttivo Generale delle Fratellanze e Confraternite” (Consejo General de Hermandades y Cofradías de Sevilla). L’incidente più grave fu compiuto da un militante anarchico che sparò vari colpi di pistola al passaggio della Vergine. Per comprendere tutte le ritualità di questo eventi importantissimo che diventa un vero business con note e case in affitto introvabili già da marzo, ci sono alcuni termini da spiegare. I pasos, in italiano vare sono gli elementi peculiari delle processioni, costituiti da statue o gruppi di immagini che raffigurano la Passione. Così chiamati perché trasportati al lento incedere dei passi dei portatori posti all’interno della struttura. Comunemente le corporazioni trasportano un primo simulacro raffigurante il Cristo, che può essere un “Nazareno”, generalmente un “Gesù con la Croce“” o un “Gesù crocifisso” o un “mistero” che rappresenta un episodio della Passione di Cristo, e un secondo simulacro della Madonna Addolorata  con baldacchino. Raramente la Vergine è accompagnata da un’altra figura, come l’immagine della Vergine della Hermandad de la Amargura accompagnata da San Giovanni Evangelista. Alcune fratellanze partecipano con tre ordini o sezioni di simulacri, altre con la sola Santa Marta o il Sudario. La misura corrente della vara varia tra i 2,20 e 2,40 metri di larghezza e i 3,50 – 5,5 metri di lunghezza. Il “paso” è strutturalmente costituito da una barella  ricoperta da balze di velluto. Sulla barella con cavalletti è costruito un piedistallo in legno massiccio, recante un basso vano chiamato catino scolpito in stile barocco, raramente alcuni in stile gotico, rinascimentale o romantico. Il catino ospita gli addobbi floreali, l’illuminazione costituita da lampadari o fiaccole o lanterne, al centro, fra scene coreografiche, sono poste le immagini sacre. Su una mensola anteriore è posizionato il caller ovvero uno strumento chiamante a forma di martello dotato di battente in metallo con il quale si effettua la “chiamata” dei portatori. È spesso decorato con motivi religiosi legati alla confraternita. Tutti i pasos delle Madonne Addolorate nelle varie accezioni presentano monumentali baldacchini. La struttura ricopre l’intero impianto ed è sostenuta generalmente da dodici aste ripartite su ciascun fianco. Le esili colonnine sono riccamente ricoperte in lamina d’argento sbalzata, esse sostengono la copertura costituita da drappi e cortine in tessuto, spesso abbinati al manto della Vergine. Panneggi decorati con preziosi ricami, trafori, passamanerie, nappe, pendagli, motivi trapunti, arabeschi e trame realizzati in materiali preziosi che includono figure di santi, corone, stemmi o emblemi di confraternite. In origine il percorso ufficiale delle processioni fino alla Cattedrale di Siviglia prevedeva solo l’itinerario dei luoghi di culto del rione d’appartenenza. Dal 1604 le regole dispongono la sosta di penitenza presso la cattedrale, salvo quelle del quartiere Triana ubicato oltre il corso del fiume Guadalquivir. Nel 1830 anche le fratellanze del rione Triana affrontarono l’attraversamento del ponte di barche inserendo la Cattedrale nel proprio circuito cittadino. Si chiama “Percorso Ufficiale” Recorrido y Carrera Oficial l’itinerario comune che seguono tutte le organizzazioni (nel loro percorso verso la cattedrale. È stabilito ufficialmente dal “Consiglio delle Confraternite di Siviglia”, prevede l’attraversamento della Puerta de San Miguel, “Plaza de la Campana”, prosegue lungo la principale strada commerciale denominata Sierpes, Plaza de San Francisco, Avendia de la Costitución, include la sosta alla cattedrale e il transito per la Plaza Virgen de los Reyes, la piazza della Madonna e dei re Magi. L’ordine di transito per il percorso ufficiale è regolato dall’anzianità delle confraternite, criterio invertito durante le processioni mattutine. Spesso motivi organizzativi, l’entrata in vigore dell’ora solare impongono la modifica dell’ordine delle sfilate.

Viaggio nei santuari della «Santa Muerte» in Messico, il culto millenario che attira fedeli e narcotrafficanti. Pubblicato lunedì, 22 aprile 2019 da Corriere.it. Santa Muerte non esclude nessuno, non è severa, non giudica. Ecco perché riesce a fare proseliti in Messico, ma anche in molte regioni degli Stati Uniti a ridosso del confine. Per questo, spiegano gli esperti, il «culto» dalle origini antiche ha successo, attira masse di fedeli. Tra questi tranquilli cittadini, ma anche criminali che l’hanno trasformata nella loro protettrice in un paese che solo nel 2018 ha visto oltre 31 mila omicidi. La «santa» è arrivata nel nuovo mondo da quello vecchio, l’avrebbero portata i missionari spagnoli ai tempi della grande conquista, «offrendola» alle popolazioni locali che in epoca pre-colombiana credevano in una divinità simile, Mictecacihuatl. Sparita poi per un periodo lunghissimo, la statuina con il teschio è riapparsa in modo significativo negli anni ‘90-2000. Così sono nati piccoli santuari, alcuni clandestini, altri sotto gli occhi di tutti, come a Tepito, area di Città del Messico. Andrew Chesnut, autore di un libro sul tema, ha affermato che i seguaci potrebbero essere quasi dieci milioni. Numeri importanti. E, naturalmente, c’è chi ha pensato bene di realizzare oggetti, magliette e quadretti ispirati dalla «falciatrice». Nel video si vedono donne, uomini e ragazzi avvicinarsi al «santuario» con i loro gadget. Pregano, recitano il rosario, restano in raccoglimento, invocano, protezione, appoggio, denaro, amore. La «Bambina bianca» – altro soprannome dedicato alla Morte – ha fatto presa negli ambienti dei delle gang, tra piccoli e grandi padrini. Forse il suo grande ritorno – aggiungono i ricercatori - sarebbe coinciso con il crescere dei cartelli. Nei covi sono stati ritrovati dei piccoli altari, a volte «in concorrenza» con un altro idolo dei banditi, Jesus Malverde. Nel 2017, nella prigione di Acapulco, è esplosa una rivolta sanguinosa, 28 prigionieri hanno perso la vita. Due le versioni. La prima è che la strage è stata determinata da una faida, la seconda – ancora più cruda – è che c’entri la «Santa Muerte», con le vittime offerte in un sacrificio umano di massa. Una doppia verità di un fatto drammatico, una costante per quanto avviene nel paese sconvolto dalla violenza. In agosto l’Fbi ha neutralizzato un banda di trafficanti a Albuquerque, New Mexico: oltre ad un grande arsenale sono state trovate due statuine della «Santa».

·        L’Islam ed il Mondo.

Jihadisti, censura e islamismo: Erdogan non può darci lezioni. Un report pubblicato da un think-tank turco legato agli islamisti dell'Akp accusa le destre europee di islamofobia, ma intanto la Turchia è tra i Paesi peggiori al mondo per quanto riguarda i diritti umani. Giovanni Giacalone, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. La Turchia accusa ilGiornale di islamofobia. Un think-tank turco legato al partito islamista Akp e a Recep Tayyip Erdogan ha pubblicato un report di 848 pagine dal titolo European Islamophobia 2018, un titolone col quale vengono introdotti una serie di resoconti, Paese per Paese, sul presunto dilagare dell’islamofobia in Europa. Piccolo particolare, il report è stato finanziato con fondi dell’Ue quindi, in poche parole, con i nostri soldi. Lo si legge a chiare lettere nella seconda pagina introduttiva: “Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario dell’Unione europea…”. Un’Unione europea ben attenta a prendere preventivamente le distanze dal contenuto del report: "…Il contenuto è prettamente sotto la responsabilità dei rispettivi autori dei report nazionali and non riflettono necessariamente la visione dell’Unione Europea e del Ministero degli Affari Esteri dell’Ue". Una pubblicazione non molto sofisticata, dai contenuti quanto meno discutibili. Con una parvenza di formalismo accademico che già all’indice in terza pagina decade nell’attivismo politico con un “Ucraina e Crimea occupata”. Quando poi ci si addentra nei contenuti appare evidente, al di là dell’ovvia e sistematica retorica anti-destre, come il termine “islamofobia” diventi un gran calderone che mescola concetti ben distinti come “Islam” e “islamismo” e persino il fenomeno migratorio, tutto in chiave anti-sovranista ovviamente. La parte italiana, curata da Alfredo Alietti e Dario Padovan, esordisce così: "Il clima xenofobo e anti-Islam alimentato dai tradizionali attori politici della destra, Lega Nord e Fratelli d’Italia, dei movimenti di estrema destra (Casa Pound a Forza Nuova) e dai settori più conservatori dei mass-media, come ad esempio Il Giornale, ha avuto effetti molto negativi a livello sociale legittimando comportamenti di stampo razzista. Si sono accresciuti sia al Nord che al Sud gli attacchi fisici e verbali nei confronti dei migranti, richiedenti asilo, rifugiati e cittadini musulmani fino ad arrivare ad eventi drammatici quali il ferimento di sei migranti nigeriani a Macerata il 3 febbraio e l’omicidio di un venditore ambulante senegalese a Firenze, Idy Diene di 54 anni, il 5 marzo”. Insomma, secondo quanto decifrabile nel paragrafo sopra citato, vi sarebbe un collegamento tra “clima xenofobo e anti-Islam” alimentato (secondo gli autori) da vari attori tra cui ilGiornale e una serie di atti violenti nei confronti di immigrati e musulmani. Purtroppo non risulta chiaro in base a quali parametri oggettivi si sia giunti a tale affermazione. Alietti e Padovan si spingono poi oltre, indicando addirittura un incremento degli atti di violenza, ma anche qui non si capisce in base a quali indicatori si possa giungere a una conclusione del genere. Del resto sono loro stessi a pagina 4 ad affermare che in Italia non esistono dati ufficiali provenienti da istituzioni o pubblici uffici e dunque le informazioni devono essere reperite da Ong o “movimenti anti-fascisti” come “Cronache di ordinario razzismo”. Insomma, non i migliori presupposti per una ricerca scientifica con tanto di finanziamento dell’UE. Vi sarebbe molto altro da aggiungere sul contenuto della ricerca, ma l’aspetto ancor più assurdo è che il think-tank che ha prodotto la ricerca, il Seta, noto anche come Foundation for Political, Economic and Social Research, nonostante la sua pretesa di essere “super-partes”, è stato più volte indicato come think-tank del partito islamista turco AKP e di Erdogan.

La Turchia farebbe bene a tacere. A questo punto verrebbe da chiedersi per quale motivo l’Ue avrebbe deciso di finanziare una ricerca sull’”islamofobia in Europa” curata da un think-tank legato a Erdogan, ma soprattutto non si può proprio fare a meno di sottolineare come la Turchia di Erdogan non abbia proprio niente da insegnare, né all’Italia e né a nessun altro paese occidentale. Narrare dettagliatamente tutti gli episodi di intolleranza e violenza che hanno coinvolto la Turchia a guida Akp richiederebbe un’opera apposita, ma vale la pena ricordarne alcuni, a partire dalla persecuzione di quei giornalisti che hanno osato criticare l’esecutivo e il presidente, come Can Dundar, ex direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, arrestato nel 2015 insieme al collega Erdem Gül con l’accusa di spionaggio e divulgazione di segreti di Stato. La colpa, aver scoperto un carico di armi inviato dai servizi turchi ai jihadisti in Siria. Il 6 maggio 2016 Dundar sfuggiva a un tentativo di omicidio proprio di fronte al Tribunale di Istanbul e vive oggi in esilio all’estero. Dundar non esitò a definire la Turchia “la più grande prigione per giornalisti al mondo”. Del resto i dati del Committee to Protect Journalists per quanto riguarda la Turchia sono più che eloquenti e consultabili qui. Lo scorso maggio la European Federation of Journalists aveva scritto una lettera a Erdogan per chiedere giustizia in seguito alle aggressioni subite da Yavuz Selim Demirag e Idris Ozyol. Sei degli aggressori venivano fermati e rilasciati dopo poco. Ci sono poi i numerosi arresti, le aggressioni e le intimidazioni nei confronti di quei giornalisti che si sono occupati di documentare l’invasione turca in territorio siriano del mese scorso. Una Turchia che se da un lato affermava di voler combattere l’Isis, dall’altra riforniva i jihadisti anti-Assad e li curava nei propri ospedali, in territorio turco. Che dire poi delle agghiaccianti scene provenienti dall’interno di una moschea turca in Austria, scene nelle quali si vedono minorenni vestiti da militari che si improvvisano martiri con delle bandiere turche e che marciano per la sala di preghiera con modalità che ricordano certe parate dittatoriali di stampo mediorientale che mai si vorrebbero vedere in Europa. Nel “luogo di culto” vi era inoltre la presenza di ragazzine minorenni vestite di bianco, anche loro in modalità martiri. Del resto era stato proprio Erdogan tre mesi prima a glorificare il martirio dei minorenni, dicendo a una bambina di soli sei anni in lacrime che “se fosse diventata una martire l’avrebbero avvolta in una bandiera turca, Allah volendo”. In seguito alle scene, documentate dal sito “Clarion Project”, il governo austriaco aveva comunicato la chiusura di sette moschee gestite dalla turca ATIB. Ovviamente la Turchia aveva immediatamente accusato l’Austria di “razzismo” tramite il portavoce di Erdogan, Ibrahim Kalin: "Questo è il frutto dell'ondata anti-islamica, razzista, discriminatoria e populista nel Paese". Una retorica guarda caso del tutto simile a quella presente nelle 848 pagine di report sull’Islamofobia in Europa. Una cosa è certa, la Turchia farebbe bene a pensare ai problemi di casa propria prima di avventurarsi in discutibilissime “ricerche” mentre l’Unione Europea farebbe bene ad esaminare attentamente i propri interlocutori prima di elargire fondi.

Meno religiosi  e più anti-Usa:  il mondo islamico in un sondaggio. Pubblicato lunedì, 24 giugno 2019 da Corriere.it. Più secolarizzati di cinque anni fa, anti-Trump, filo-Erdogan; con meno fiducia nei movimenti islamisti come Hamas, Hezbollah e i Fratelli Musulmani; poco inclini a trovare accettabile una donna presidente, e desiderosi di lasciare il loro Paese, sì, ma non solo verso l’Europa. Comprensivi, infine — la pensa così il 60% degli intervistati nella maggioranza dei Paesi coinvolti — verso l’odio per gli Stati Uniti, come conseguenza logica della loro politica estera. È il ritratto dei 300 milioni di abitanti di undici Paesi musulmani più i territori palestinesi, interpellati dall’istituto Arab Barometer, un osservatorio con sede a Princeton, per conto di Bbc e con la collaborazione di dodici enti pubblici di ricerca. I Paesi sono: Algeria, Egitto, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Sudan, Tunisia, Yemen. La quinta edizione della ricerca, che viene pubblicata a intervalli non regolari di alcuni anni sin dal 2006, dà conto di importanti cambiamenti nella mentalità e nel costume.

I cristiani di Axum non vogliono le moschee: “Meglio morire”. Daniele Dell'Orco il 26 giugno 2019 su it.insideover.com. Non è passato molto tempo da quando, per raggiungere Axum, si doveva percorrere una (e ovviamente unica) impervia strada non asfaltata che partiva sia da Adua che da Gondar. E pure allora era comunque una fortuna, visto che durante i più duri anni di guerra civile la città era rimasta del tutto isolata dal resto dell’Etiopia. Tanto bella quanto inaccessibile, Axum è famosa in tutto il mondo per il suo immenso patrimonio architettonico, che va dalle testimonianze archeologiche di epoche molto antiche, alle centinaia di stele risalenti a vari periodi tra il III e il IX sec. d.C, a siti archeologici di importanza planetaria come la reggia della regina di Saba. La sua storia, intrecciata a quella del re Salomone, è alla base del culto che rende Axum una città sacra per i cristiani. Sia il Talmud ebraico, sia la Bibbia, sia Corano, e finanche il Kebra Nagast, il libro fondamentale per la storia dell’impero degli altopiani, raccontano della sua visita a Gerusalemme avvenuta tra il 1000 ed il 950 a.C., quando volle andare ad incontrare personalmente il re d’Israele per sottoporgli alcuni enigmi che le avrebbero dimostrato le capacità tanto decantate del sovrano. Fatalmente, finì con innamorarsene. Dall’unione tra Saba e re Salomone nacque Menelik, il cui nome significa “figlio dell’uomo saggio”. Secondo una delle ricostruzioni storiche, a lui, una volta divenuto adulto, venne affidata l’Arca dell’Alleanza, che conterrebbe le tavole con i dieci comandamenti tramandati a Mosè da Dio, e si dice sia tuttora sotto la vigile guardia dei monaci cristiani ortodossi della città. Di uno dei monaci, per l’esattezza. Nella chiesa di Nostra Signora Maria di Sion (meta di pellegrinaggi da tutto il mondo), infatti, possono accedere solo loro, e solo uno tra loro è il guardiano dell’Arca che viene descritta come una cassa in legno d’acacia rivestita d’oro, con due statue di cherubini poste sul coperchio da cui scaturivano aloni di luce e lampi divini che colpivano chiunque vi si avvicinasse. Il guardiano viene nominato di volta in volta dal suo predecessore, e non può mai allontanarsi dall’Arca nel rispetto dei detti biblici del Kohanim. Che si sia credenti o meno, tutto questo contribuisce a rendere Axum uno dei luoghi più sacri del Cristianesimo. Per questo la richiesta avanzata da alcuni gruppi di musulmani, che si stanno radunando sotto la bandiera Justice for Aksum Muslims per chiedere il diritto di costruire una moschea in città, ha scatenato la reazione rabbiosadei chierici cristiani. Uno di loro, Godefa Merha Merha, ha definito Axum “la nostra Mecca”, asserendo che così come le chiese sono vietate nel luogo più sacro dell’Islam, le moschee non potrebbero mai esistere nella città-monastero del Tigrè. “Se qualcuno dovesse venire a costruire una moschea, moriremo. Non è mai stato permesso, e noi non permetteremo che accada nella nostra epoca”, ha aggiunto. Uno scontro religioso per certi versi paradossale, visto che fu proprio un imperatore etiope, il cristiano Ashama ibn Abjar, ad offrire riparo agli islamici in fuga dalle persecuzioni per mano dei governanti della Mecca, allora non musulmani, che vennero inviati in Etiopia da Maometto in persona. Oggi, i musulmani costituiscono circa il 10% della popolazione di Axum (73mila abitanti, di cui l’85% sono cristiani ortodossi e il restante 5% appartiene ad altre confessioni cristiane), e molti di loro pregano in 13 moschee temporanee organizzate in abitazioni private (o prese in affitto dai proprietari, anche cristiani), altri invece, non avendo la possibilità di farlo, pregano per strada, all’aperto. Il culto islamico, in definitiva, non è vietato, ma le difficoltà pratiche e logistiche stanno creando tensioni tra le due comunità. I cristiani ortodossi, per dirne un’altra, sostengono che solo gli inni e le benedizioni cristiane dovrebbero essere ascoltati all’interno della città per preservarne la santità, e per questo non si mostrano granché tolleranti di fronte ai richiami dei muezzin. Le comunità locali sperano che possa essere il primo ministro Abiy Ahmed, di padre musulmano e madre è cristiana, a risolvere in un modo o nell’altro la contesa. Da parte loro però, i musulmani sembrano determinati a portare avanti in proprio la loro battaglia. Anzi, si sono riuniti in un organismo particolare, il Consiglio regionale dei musulmani, che si sta organizzando per discutere direttamente con i cristiani nel tentativo di convincerli a permettere l’apertura di una moschea ad Axum. In nome di una coesistenza civile e pacifica che forse potrebbero provare a spiegare anche a milioni di propri fratelli sparsi in giro per il mondo.

Se la minaccia nucleare arriva da India e Pakistan. Gli attentati e le rappresaglie hanno trasformato il Kashmir nel posto più pericoloso del pianeta. Gian Micalessin, Venerdì 10/05/2019, su Il Giornale. Chi temeva le atomiche del dittatore nordcoreano Kim Jong-un si ricreda. Il vero epicentro di un possibile inverno nucleare è il confine tra India e Pakistan. I due paesi, dotati di centinaia di testate nucleari (140/150 il Pakistan e qualche decina in meno l'India), sono in guerra da settant'anni e affrontano ricorrentemente il rischio di un escalation fuori controllo. Tutto risale all'agosto 1947 quando gli inglesi abbandonano la colonia indiana lasciando che indù e musulmani pakistani si contendano, a colpi di massacri, il controllo dei territori. La provincia del Kashmir, a maggioranza musulmana, ma governata da un maraja indù, resta così con Nuova Delhi. Da quel momento non c'è più pace. Per il Kashmir India e Pakistan combattono, nel 1949 e nel 1965, due sanguinosi conflitti. Nel 1999 arrivano a un passo dallo scontro nucleare. Oggi la questione non cambia. Per l'India il Kashmir è parte integrante dei propri territori. Per Islamabad solo un referendum fra gli abitanti a maggioranza musulmana può deciderne il destino. L'ultimo brivido arriva lo scorso febbraio quando un kamikaze islamista del Jaish-e-Mohammed (Jem - Esercito di Maometto) fa strage di poliziotti indiani nel Kashmir. Per tutta risposta il premier nazionalista Narendra Modi, impegnato in una difficile campagna elettorale, ordina la prima rappresaglia aerea sui territori pakistani dalla guerra del 1971. Il raid su una presunta base del Jaish-e-Mohammed e le contrapposte rappresaglie aeree si concludono con l'abbattimento di due jet indiani e la cattura di un pilota. A quel punto solo il gesto distensivo del premier pachistano Imran Khan che libera l'aviatore mette fine al brivido. Ma la spada di Damocle di un escalation fuori controllo permane. Una nuova vittoria dell'ultranazionalista Modi alle elezioni che si concluderanno il 23 maggio potrebbe innescare la modifica della dottrina nucleare indiana. Fin qui l'India si è impegnata a usare l'arma atomica solo come rappresaglia in caso di attacco nucleare nemico. Ma dal 2014 il partito di Modi promette di «studiare nel dettaglio la dottrina nucleare indiana, rivederla e ammodernarla per adattarla al momento attuale». Una nuova vittoria di Modi potrebbe spingere l'India ad avviarne la pericolosa modifica. La crisi dello scorso febbraio ha evidenziato anche l'assenza di una grande potenza in grado di far dialogare i due nemici. In passato questo ruolo era sempre stato svolto dagli Stati Uniti. Il sostanziale disinteresse dell'amministrazione Trump per la regione contribuisce a lasciar spazio agli esponenti più estremisti dei servizi segreti (Isi) e dell'esercito pakistano. Gruppi come il Jaish-e-Mohammed continuano così a godere dell'appoggio degli apparati di Islamabad decisi ad armarli e finanziarli per tener viva la fiamma dell'indipendentismo del Kashmir. La Cina, alleata di Islamabad, protagonista nel 1962 di una breve guerra con l'India e dotata di un sistema missilistico DF 25 che gli consente di tenere sotto tiro tutto il territorio indiano, rappresenta un altro fattore destabilizzante. A tutto ciò s'aggiunge il rischio del possibile passaggio di una testata nucleare nelle mani di una formazione terrorista. Un rischio aggravato dalla dispersione delle testate nucleari pakistane in vari arsenali molti dei quali considerati non sicuri. Arsenali che hanno già subito, in passato, gli attacchi del terrorismo islamista. Nel novembre 2007 un attentatore suicida si fece saltare su un bus che trasportava i dipendenti della base aerea di Sargodha conosciuta come un sito nucleare. Un mese dopo un nuovo attacco colpisce un altro sito strategico come la base aerea di Kamra. Nell'agosto 2008 un attentatore suicida si fa esplodere, invece, nei pressi di quello che è considerato il principale arsenale nucleare pakistano nella regione di Wah. E nel 2011 un gruppo di militanti occupa per 15 ore un'importante base navale vicino a Karachi, distruggendo tre aerei da sorveglianza P-3C Orion e uccidendo dieci militari. Un altro grosso rischio deriva dalle possibili connivenze con i terroristi di qualcuno dei 9mila fra funzionari, tecnici e scienziati pakistani coinvolti nella fabbricazione e nel mantenimento degli ordigni atomici. Nell'agosto 2001, mentre erano in preparazione gli attentati dell'11 settembre, Sultan Bashiruddin Mahmood e Chaudiri Abdul Majeed, due scienziati nucleari pakistani già coinvolti nel sostegno ai talebani, incontrarono in Afghanistan il capo di Al Qaida Osama Bin Laden offrendogli la loro collaborazione. La dimostrazione più evidente delle pericolose connivenze tra terroristi e servizi di sicurezza è arrivata, del resto, con la scoperta dell'ultimo rifugio di Osama Bin Laden nel cuore della cittadella militare di Abbottabad a meno di quattro chilometri dalla più prestigiosa accademia del paese. Fino a oggi, insomma, è andata sempre bene, ma le incontrollabili incognite legate all'inaffidabilità di India e Pakistan unite alla presenza di gruppi terroristici intimamente legati agli apparati statali rischia veramente di trasformare il sub-continente indiano nello scenario di un olocausto nucleare. Sotto gli occhi distratti e indifferenti del resto del mondo.

Lo spettro di una guerra nucleare nella crisi tra India e Pakistan. Paolo Mauri su it.insideover.com l'8 agosto 2019. Con l’abrogazione dell’articolo 370 della Costituzione ed in particolare del 35a, che garantivano l’autonomia della regione del Jammu e Kashmir, Nuova Delhi ha di fatto annesso il territorio conteso col Pakistan nell’unione indiana. La regione del Kashmir, ai margini della catena himalayana, è divisa tra Cina, India e Pakistan sin dal 1947: con la definizione della LoC (Line of Control), la linea di demarcazione militare stabilita dopo l’ultimo grande conflitto che ha opposto Islamabad a Nuova Delhi nel 1971, le regioni del Jammu, Ladakh e la Valle del Kashmir sono rimaste sotto amministrazione indiana col nome di Jammu e Kashmir, mentre quelle di Azad Kashmir e di Gilgit Baltistan sono controllate dal Pakistan; la Cina, che rivendica solo le porzioni di Kashmir che attualmente amministra, controlla invece l’Aksai Chin e il Trans-Karakoram. Questa suddivisione, però, non è mai stata del tutto accettata dalle parti in causa, soprattutto dall’India e dal Pakistan che rivendicano rispettivamente il totale controllo di quella macro regione conosciuta col generico nome di Kashmir. Tuttavia lo status quo post conflitto del 1971 è rimasto invariato: se escludiamo i diversi scontri a fuoco, anche di grossa entità come quello del 1999 o il recente del febbraio scorso, avvenuti al confine tra i due Stati ed i tentativi di entrambe le parti di oltrepassare la LoC creando strade e avamposti, quella linea di demarcazione militare provvisoria è sempre stata mantenuta – e difesa – da entrambe le parti.

Perché l’India ha deciso di abolire l’autonomia del Jammu e Kashmir?

Abbiamo già avuto modo di dire che la mossa di Nuova Delhi non è stata affatto improvvisa: nei piani del presidente Modi la regione del Jammu e Kashmir doveva essere formalmente annessa all’India già lo scorso febbraio. Il governo indiano aveva già deciso per l’abolizione degli articoli 370 e 35a e l’avrebbe annunciato, per fini elettorali, subito prima delle elezioni del Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento dell’India. Fattori esterni però, hanno spostato l’annuncio del provvedimento: dapprima l’attentato da parte di un terrorista suicida legato al gruppo Jaish-e-Mohammed che il 15 febbraio ha ucciso 40 agenti della Crpf, la polizia militare indiana, a Pulwama, nel Kashmir e successivamente l’attacco aereo indiano, hanno suggerito a Nuova Delhi di posticipare di mesi (tre o quattro secondo una fonte del governo) per evitare di esacerbare ulteriormente la tensione col Pakistan. Da febbraio ad oggi l’India ha cercato di preparare il terreno, con visite di personaggi di spicco del Governo nella regione, ma una variabile inaspettata ha fatto precipitare la situazione. Lo scorso 22 luglio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha incontrato il premier pakistano Imran Khan, e durante i colloqui il numero uno della Casa Bianca ha affermato che l’India sarebbe stata intenzionata ad una mediazione americana nella questione del Kashmir. Immediatamente è arrivata la secca smentita di Nuova Delhi che ha fatto sapere di non avere nessuna intenzione di affrontare la diatriba per la regione se non sul piano esclusivamente bilaterale. Questo mossa di Washington si inquadra nel tentativo di riportare il Pakistan nell’orbita statunitense dopo anni in cui tra le due nazioni era calato un gelo diplomatico che ha permesso ad un terzo e scomodo attore, la Cina, di inserirsi e conquistare posizioni diplomatiche importanti in quel di Islamabad. Gli Stati Uniti hanno infatti bisogno del sostegno pakistano nella trattativa con i Talebani in Afghanistan. L’India, nonostante sia sempre stata storicamente più legata a Mosca, per contrastare l’espansionismo della Cina ha riallacciato i rapporti con gli Stati Uniti, ma il recente tentativo di ingerenza della Casa Bianca nella querelle col Pakistan è stato immediatamente troncato proprio grazie alla revoca dell’autonomia del Jammu e Kashmir e alla sua annessione all’unione indiana.

Una mossa destabilizzante. Il quadro però, si fa alquanto fosco. Il premier pakistano Khan corre seriamente il rischio di essere messo all’angolo dai militari se non reagirà in modo forte e determinato alla mossa indiana, che viene vista come una violazione del cessate il fuoco del 1971 e soprattutto un tentativo di “indianizzare” la regione: l’abrogazione dell’articolo 35a, infatti, permetterà che i territori del Jammu e Kashmir, a maggioranza musulmana, possano venire acquisiti da stranieri, quindi possibilmente colonizzati dagli indiani. Si potrebbe perfino arrivare ad un colpo di Stato e alla sostituzione di Khan con qualche generale che, probabilmente, non esiterebbe ad usare la forza per ristabilire l’autonomia della regione controllata dall’India. Una possibilità che però resta, al momento, remota proprio per il bisogno di Washington di un mediatore come Imran Khan nella trattativa coi Talebani, ma pur sempre uno scenario da non sottovalutare. Se davvero si giungesse ad un coup militare e ad un attacco a quello che ora è diventato ufficialmente territorio indiano, si alzerebbe lo spettro di un possibile conflitto atomico qualora ci si trovasse davanti ad uno squilibrio delle forze convenzionali in campo. Per capire perché un’ipotesi simile, se pur poco probabile, vada comunque annoverata come possibile, occorre guardare alle caratteristiche degli arsenali atomici di India e Pakistan e soprattutto alla loro dottrina di impiego.

Un fragile equilibrio del terrore. Partiamo da una premessa: India e Pakistan differiscono di molto nell’organizzazione e nella dotazione delle proprie Forze Armate ed in caso di una guerra convenzionale – come quella del 1971 – la schiacciante superiorità dei mezzi dell’India, numericamente e qualitativamente superiori, permetterebbe a Nuova Delhi di avere ragione di Islamabad nel giro di poche settimane, se non di giorni. È proprio per questo che il Pakistan ha intrapreso la via dell’atomo. L’India, dal canto suo, per contrastare la sempre maggiore influenza cinese in tutto il continente asiatico e nell’Oceano Indiano, ha promosso e ottenuto un efficace strumento di deterrenza nucleare che si basa principalmente su missili balistici a raggio medio e intermedio e su Slbm lanciati da sottomarini nucleari. Di rimando il Pakistan, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, ha sviluppato la propria “triade” atomica che ora può rivaleggiare con quella indiana. Si stima che l’India sia in possesso di un numero di testate nucleari compreso tra le 130 e 140, mentre il Pakistan dovrebbe contarne tra le 110 e le 130. Entrambi i Paesi, come già accennato, dispongono di diversi sistemi in grado di utilizzare armamento atomico: missili a raggio medio e intermedio, missili balistici lanciabili da sottomarini e missili da crociera.

Quello che risulta più interessante, però, ai fini della nostra analisi, è capire la dottrina di impiego degli arsenali atomici. India e Pakistan differiscono notevolmente, stante lo sbilanciamento nel rapporto di forze, nella dottrina di impiego. L’India non prevede di usare il proprio arsenale per un first strike nucleare adeguandosi al concetto della “deterrenza minima credibile” ritenuto sufficiente per scongiurare un primo attacco atomico avversario: sostanzialmente Nuova Delhi non impiegherebbe il suo armamento atomico se non in risposta ad un primo utilizzo da parte di un avversario. Questa filosofia deriva direttamente sia dalla considerazione che l’arsenale indiano nasce per fungere da deterrente rispetto a quello cinese, sia dal fatto che le Forze Armate indiane sono numericamente consistenti e qualitativamente avanzate rispetto a quelle pakistane. Il Pakistan, di contro, non prevede questo tipo particolare di dottrina. Anzi, proprio in quanto si tratta di un arsenale nato e rivolto a scongiurare la minaccia di una sconfitta in una guerra con l’India, Islamabad si riserva il diritto di utilizzare le armi atomiche, soprattutto quelle a basso potenziale, contro le soverchianti forze avversarie, memore dell’esito della guerra del 1971. Si capisce bene, quindi, la pericolosità intrinseca della dottrina del Pakistan, che impiegando l’arsenale atomico a livello tattico, magari proprio grazie alla possibilità data ai comandanti sul campo di ordinare un primo attacco contro le teste di ponte indiane, scatenerebbe la risposta atomica indiana in un’escalation difficilmente frenabile: il passaggio da uno scambio nucleare sul campo di battaglia a uno indirizzato verso le basi, gli impianti industriali e quindi le città, è molto breve. Esiste poi, anche qualora non vengano usati i missili nucleari, un altro pericolo, se vogliamo più subdolo. Il proliferare di missili a medio e corto raggio dual use – atomico e convenzionale – pone, chi sta subendo l’attacco, davanti ad un dilemma di non facile soluzione: stante l’impossibilità di sapere se un missile in arrivo monti una testata nucleare o convenzionale, come reagire? Si capiscono bene i rischi derivanti da una risposta convenzionale ad un attacco atomico, o quelli di una risposta atomica ad un attacco convenzionale. Un dilemma di non facile soluzione, un dilemma che potrebbe avere conseguenza catastrofiche.

Daghestan 1999-2019: vent’anni di resistenza al jihadismo. Giovanni Giacalone su it.insideover.com l'8 agosto 2019. Il 7 agosto 2019 ricorre il ventesimo anniversario dello scoppio della guerra in Daghestan nell’estate del 1999; un conflitto breve ma intenso nel quale i cittadini daghestani scesero in prima linea contro l’invasione dei jihadisti della “Brigata Islamica Internazionale” provenienti dalla vicina Cecenia. L’intento era chiaro, aggredire il Daghestan, repubblica multi-etnica e multi-religiosa nonchè la più grande del Caucaso settentrionale, per destabilizzare tutta l’area in nome di quel progetto islamista che prevedeva l’insediamento di un Emirato di stampo wahhabita. I jihadisti sapevano bene che finchè il Daghestan restava in condizioni di stabilità il loro progetto non avrebbe potuto essere realizzato e potevano contare sul sostegno di alcuni attori mediorientali, legati all’islamismo radicale, che avevano tutto l’interesse ad infiltrare il Caucaso settentrionale e a rimpiazzare l’Islam autoctono di stampo sufi, con l’ideologia ikhwanita e wahhabita. L’offensiva islamista in Caucaso settentrionale implicava inoltre una destabilizzazione dei territori meridionali della Federazione Russa, aspetto che non dispiaceva affatto a quelle potenze occidentali che avevano tutto l’interesse a indebolire ulteriormente Mosca dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La risposta del popolo daghestano colse però tutti di sorpresa e il suo ruolo, soprattutto inizialmente, nell’opporsi all’invasione jihadista, risultò essenziale per la conseguente sconfitta dell’internazionale islamista, grazie anche al successivo intervento dell’esercito russo. Come recentemente affermato dal presidente russo Vladimir Putin: “Se i terroristi fossero riusciti a portare a termine i loro progetti in Daghestan, sarebbe stato un grosso problema per il Caucaso del nord e per la Russia tutta. Sono molto riconoscente al Daghestan e ai daghestani per quanto fatto allora e per quanto continuano a fare oggi”.

Lo scoppio del conflitto e la resistenza daghestana. Le avvisaglie di un possible allargamento del conflitto dalla Cecenia (dove era già in corso dal 1996) al Daghestan erano già evidenti nell’aprile del 1999, quando Bagauddin Magomedov, “emiro” della “Jamaat islamica del Daghestan” invocava dal territorio ceceno, dove si era rifugiato due anni prima, il jihad per liberare il Daghestan e tutto il Caucaso dalla presenza russa. Il 4 agosto successivo, tre giorni prima dell’invasione, alcuni uomini del Ministero degli Interni russo rimanevano uccisi in un’imboscata messa in atto da alcuni uomini di Magomedov a ridosso del confine tra Cecenia e Daghestan. Il 7 agosto la “Brigata Islamica Internazionale”, composta da circa 2mila jihadisti ceceni, arabi, nordafricani, turchi (molti dei quali veterani di Bosnia e Afghanistan) e comandata dal saudita Ibn al- Khattab e dal separatista ceceno Shamil Basayev, si mobilitava varcando il confine e occupando i distretti di Tsumadi e Botlikh; altre formazioni islamiste raggiungevano poi le zone di Novolaksk e Buynaksk. Il 10 agosto Basayev annunciava la nascita dello “Stato Islamico del Daghestan” e chiamava la popolazione alla rivolta contro i “miscredenti” che governavano Makhachkala e contro gli “occupanti russi”. Le aspettative di Basayev e Ibn al-Khattab erano però destinate a non realizzarsi e anzi, non solo la popolazione non li accolse come liberatori, ma si schierò contro, organizzando milizie spontanee contro quegli invasori che venivano visti come forestieri ed estremisti portatori di un Islam che nulla aveva a che spartire con quello autoctono.

A Buynaksk ad esempio poche centinaia di residenti male armati ma ben organizzati e con ottima conoscenza del territorio riuscivano a respingere gli attacchi dei jihadisti, mentre a Tsumadin, nella parte meridionale del Daghestan, un gruppo formato da agenti di polizia, militari e miliziani riuscivano a difendere il centro rurale di Agvali, di particolare importanza strategica.

L’intervento militare russo e la Seconda Guerra cecena. La sorprendente resistenza delle milizie daghestane dava a Mosca il tempo necessario per organizzare un massiccio intervento militare, guidato dal colonnello Viktor Kazantsev, che iniziava con un pesante bombardamento messo in atto dall’aviazione e dall’artiglieria con l’obiettivo di colpire le formazioni jihadiste e rendere impraticabili le vie di rifornimento. In una successiva fase, mentre le divisioni meccanizzate russe e truppe Omon daghestane prendevano il controllo del territorio e delle vie di transito, piccole unità leggere composte da Spetsnaz e paracadutisti (Vdv) venivano inviate sulle montagne per compiere operazioni di contro-terrorismo ai danni dei jihadisti. Il 23 agosto i jihadisti si ritiravano dalla zona di Bothlik mentre l’aviazione russa bombardava le zone di Serzhen-Yurt, Benoy, Kenkhie, Vedensko Ushelie. Il 29 agosto veniva lanciata una serie di operazioni di terra nella zona di Kadar, in particolare nei villaggi di Karamakhi, Kada e Chabanmakhi, con l’utilizzo di truppe del Ministero degli Interni (Mvd). Nella notte tra il 4 e il 5 settembre i jihadisti mettevano in atto una nuova offensiva nel distretto di Novolak, arrivando a pochi chilometri dalla città di Khasavyurt prima di venire colpiti dai bombardamenti russi. Il 13 settembre 1999 gli ultimi jihadisti della “Brigata Internazionale” venivano respinti e fuggivano in territorio ceceno mentre l’allora primo ministro Vladimir Putin annunciava un blocco su tutto il perimetro del confine ceceno per evitare sconfinamenti di terroristi. Nel contempo però l’aviazione russa aveva già iniziato una serie di bombardamenti contro i jihadisti in territorio ceceno colpendo i distretti di Vedeno, Nozhai-Yurt e Gudermes, ma anche la periferia di Grozny. Tra il 4 e il 16 settembre però una serie di attentati perpetrati contro alcuni complessi residenziali abitati da civili e militari della Guardia di Confine a Mosca, Volgodonsk e nella città daghestana di Buynaksk causavano la morte di più di 300 persone. L’attentato veniva a attribuito ai jihadisti facenti base in Cecenia; tra i nomi indicati dalla Commissione d’inchiesta figuravano Achemez Gochiyayev, Ibn al-Khattab e Muhammad bin Said al-Buainain “Abu Omar” (questi ultimi due entrambi uccisi durante il Secondo conflitto ceceno). Sia Ibn Khattab che Basayev negarono ogni responsabilità, ma di fatto gli attentati di settembre furono per il Cremlino la goccia che fece traboccare il vaso e il 1° di ottobre del 1999 le truppe russe varcavano il confine dando il via alla Seconda Guerra di Cecenia. Nel 2003 la Corte Suprema russa metteva inoltre al bando l’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, accusata di aver fornito sostegno ai jihadisti di Ibn al-Khattab, attivi in Cecenia.

Il Daghestan oggi. Il breve conflitto daghestano, oltre all’eroica resistenza della popolazione scesa in trincea con quanto a disposizione per respingere i meglio armati jihadisti, ha dimostrato che l’ideologia dell’odio non avrebbe fatto breccia nella Repubblica e che la popolazione era pronta a salvaguardare la propria identità contro attori esterni. Negli anni a seguire il Daghestan veniva sistematicamente preso di mira da un islamismo radicale di stampo wahhabita che si infiltrava e faceva breccia tra i giovani disagiati, spesso legati a bande criminali dando vita a un fenomeno tipicamente locale che vedeva il convergere di banditismo e jihadismo. Numerosi giovani daghestani cadevano vittime della propaganda jihadista e si univano a bande che si nascondevano nelle foreste e tra le montagne per poi sferrare attacchi in zone abitate contro civili, forze di sicurezza ed esponenti dell’Islam autoctono di stampo sufi. I fautori della propaganda wahhabita cercavano simpatizzanti in varie moschee radicali e se agli inizi degli anni 2000 il piano dava alcuni frutti, le autorità russe e daghestane riuscivano progressivamente a porre sotto controllo i luoghi di culto facendo tra l’altro chiudere quelle ong e associazioni caritatevoli sospettate di legami con l’islamismo radicale. Nel contempo le autorità di Makhachkala implementavano una serie di iniziative per presentare ai giovani il pericolo recato dai propagandisti di odio mentre gli esponenti della comunità islamica locale illustravano loro la corretta interpretazione della religione, ben lontana dalla visione oltranzista e intollerante divulgata da estremisti e jihadisti. L’Islam daghestano è da secoli tradizionalmente legato al Sufismo, con presenza di diverse confraternite tra cui la Naqshbandiyya, la Qadiriyya e la Shazaliyya; un Sufismo violentemente osteggiato dagli estremisti in tutto il mondo islamico, dal Nord Africa al Pakistan. Non a caso il 28 agosto 2012 un’attentatrice suicida (successivamente identificata come Amina Kurbanova) si intrufolava nell’abitazione di Shaykh Afandi al-Chirkawi, leader sufi molto amato e venerato in Daghestan, particolarmente attivo nel dialogo interreligioso, e si faceva esplodere, uccidendolo sul colpo. Shaykh Afandi era una figura scomoda per chi voleva imporre un’unica visione dogmatica, estrema e settaria che mal si coniuga in un contesto come quello daghestano. Colpire il leader sufi significava colpire l’Islam autoctono, il dialogo e le istituzioni. L’omicidio di Shaykh Afandi non faceva però altro che generare orrore e ulteriore rigetto della popolazione nei confronti dell’estremismo di stampo wahhabita. Negli anni successivi al 2012 una campagna terroristica sistematicamente perpetrata contro obiettivi civili, ma in particolare contro le forze di sicurezza, portava il Daghestan al centro di un violento scontro con i jihadisti. Una strategia tipica delle “bande” jihadiste era quella delle imboscate nei confronti di pattuglie della polizia e membri delle forze di sicurezza. La controffensiva coordinata da Mosca e Makhachkala dava però i suoi frutti e in pochi anni il jihadismo daghestano veniva pesantemente ridimensionato, al punto che secondo statistiche ufficiali per l’anno 2018 veniva registrato un calo dell’11% delle vittime del conflitto armato rispetto all’anno precedente. Dal gennaio al dicembre veniva segnalato un solo attentato, 27 jihadisti uccisi, 3 appartenenti alle forze di sicurezza e 5 civili. Il numero di attacchi risultava inoltre in decremento del 29% rispetto al 2017.  Per quanto riguarda il 2019, da inizio anno sono stati registrati 4 decessi, tutti di jihadisti e tre feriti di cui due appartenenti alle forze di sicurezza e un civile. Cifre notevoli per una Repubblica che fino a pochi anni fa registrava dati ben più allarmanti. Un segnale chiaro, le misure preventive contro il fenomeno della radicalizzazione e la strategia di contro-terrorismo messe in atto da Mosca e Makhachkala hanno dato e continuano a dare i loro frutti e il radicalismo di stampo islamista in Daghestan non fa breccia.

Iran, 40 anni fa la nascita della Repubblica Islamica. Cosa è cambiato da allora. Dall'assalto all'ambasciata Usa a Teheran ad oggi la storia di un paese e dei suoi rapporti con Usa e con il resto del mondo.Ruhollah Mosavi Khomeini (24 settembre 1902- 3 giugno 1989) è stata la guida della rivoluzione che ha instaurato il regime degli ayatollah. E'stato lui a indicare nel Grande Satana, negli Usa, uno dei principali nemici dell'Iran. La crisi degli ostaggi dell'ambasciata americana a Teheran è stato solo il primo atto di un conflitto strisciante durato per 35 anni. Ora, Iran e Stati Uniti si trovano dalla stessa parte della barricata in Iraq, dove insieme combattono contro il nemico comune: l'Isis. Stefano Graziosi il 4 novembre 2019 su Panorama. Sono passati quarant’anni. Era il 4 novembre del 1979, quando alcune centinaia di studenti iraniani assaltarono l’ambasciata statunitense a Teheran, prendendo in ostaggio cinquantadue diplomatici e funzionari americani. Erano i mesi concitati della rivoluzione khomeinista, che aveva preso avvio all’inizio di quello stesso anno, costringendo lo Scià, Reza Pahlavi, alla fuga. La crisi degli ostaggi rappresentò un’autentica doccia gelata per la Casa Bianca, all’epoca guidata da Jimmy Carter. L’allora presidente americano si era infatti convinto che, dato il suo anticomunismo, l’ayatollah Khomeini potesse essere pronto ad una convergenza con il fronte statunitense. Una speranza che l’assalto all’ambasciata mandò in frantumi, determinando un’umiliazione fortissima per lo stesso Carter: un’umiliazione che gli si rivelò fatale alle presidenziali del 1980, in cui venne sconfitto dal repubblicano, Ronald Reagan. Più in generale, la perdita dell’Iran, rappresentò un duro colpo geopolitico per Washington, la cui politica mediorientale – nel corso degli anni di Nixon – si era principalmente appoggiata su Riad e Teheran. Quarant’anni dopo, nel corso di una commemorazione pubblica, alcuni manifestanti iraniani si sono riuniti davanti all’ex ambasciata statunitense (trasformata oggi in parte in un museo), gridando “abbasso gli Stati Uniti” e “abbasso Israele”. Nelle stesse ore, la Repubblica Islamica ha reso note nuove violazioni dell’accordo sul nucleare, siglato nel 2015 ai tempi di Barack Obama. “Nel corso degli ultimi sessanta giorni di ultimatum ai partner Ue” dell'accordo sul nucleare, “l'Iran ha aumentato di circa dieci volte, portandola a cinquemila grammi, la sua produzione quotidiana di uranio”, ha dichiarato Ali Akbar Salehi, capo dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica. La tempistica di quest’annuncio non è ovviamente stata casuale e rappresenta un nuovo guanto di sfida nei confronti di quegli Stati Uniti che, pochi giorni prima dell’assalto all’ambasciata, lo stesso Khomeini aveva notoriamente definito “il grande Satana”. Che ci fosse una situazione tesa, non è del resto un mistero, visto che – negli ultimi giorni – era intervenuto duramente anche l’ayatollah Ali Khamenei. “È sbagliato pensare che avere un dialogo con gli Usa possa eliminare i problemi del Paese”, gli Stati Uniti “da anni insistono per avere negoziati, ma l'Iran li respinge: ciò significa che nel mondo c'è un governo che non si piega alla dittatura americana”, ha affermato di recente la guida suprema dell’Iran. Queste turbolenze costituiscono un problema non di poco conto per la Casa Bianca. La strategia che infatti Donald Trump sta cercando di portare avanti con Teheran risulta piuttosto articolata. Se nel 2018 aveva infatti deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare, l’attuale presidente americano ha sinora cercato di evitare un intervento bellico diretto degli Stati Uniti contro la Repubblica Islamica. Trump ha sempre reso noto di voler attuare la linea della “massima pressione” economica e militare su Teheran, evitando tuttavia di restare coinvolto in una nuova “guerra senza fine” nello scacchiere mediorientale. Proprio questa strategia ha determinato i principali attriti tra Trump e il suo ormai ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che – non a caso – è stato silurato lo scorso settembre. In questo contesto, è chiaro che i toni duri e le violazioni nucleari da parte di Teheran indeboliscano in questo momento la posizione del presidente americano, favorendo – di contro – la forza politica dei falchi di Washington, che non disdegnano affatto l’opzione militare. Quell’opzione militare che – ribatte Trump – risulterebbe elettoralmente impopolare, obbligando nuovamente gli Stati Uniti a pesanti oneri economici e umani. In tutto questo, non bisogna poi dimenticare che, a febbraio, si terranno le elezioni parlamentari in Iran: un fattore che potrebbe essere alla base dei nuovi scossoni in seno alle relazioni tra Washington e Teheran. La Repubblica Islamica, dal canto suo, si trova oggi in una situazione ambivalente. Se dal punto di vista economico le sanzioni statunitensi esercitano un peso non indifferente, sul piano geopolitico Teheran vanta alcuni interessanti risultati. Il rafforzamento che la Russia sta infatti conseguendo sul fronte mediorientale ha favorito l’Iran, che di Mosca risulta notoriamente uno dei principali alleati nell’area. Sotto questo aspetto, Teheran ha quindi indirettamente beneficiato del parziale disimpegno statunitense da territori come la Siria. Tutto questo, sebbene qualche elemento problematico non manchi. La strategia diplomatica che Vladimir Putin sta infatti cercando di portare avanti in Medio Oriente implica un delicatissimo equilibrismo tra fazioni e Stati contrapposti. Un equilibrismo che coinvolge anche un acerrimo nemico dell’Iran, come l’Arabia Saudita. Inoltre, le dure proteste antigovernative che si stanno verificando in Libano e Iraq rappresentano, in buona sostanza, un cruccio per le alte sfere di Teheran. Le dimissioni a fine ottobre del premier libanese, Saad Hariri, non sono state ben accolte dalla filoiraniana Hezbollah che governava in coalizione con lui. Ma non è tutto. Sembrerebbe infatti che, lo scorso 30 ottobre, il generale iraniano Qassem Soleimani, capo della Forza Qods dei Guardiani della rivoluzione islamica, si sia recato a Baghdad per chiedere alle milizie dell’Unità della mobilitazione popolare di spalleggiare il primo ministro iracheno, Adel Abdul Mahdi, nel corso delle proteste volte ad ottenere le sue dimissioni. Del resto, non bisogna dimenticare che l’Iraq sia diventato un terreno di scontro indiretto tra Iran e Arabia Saudita: due potenze, che si stanno contendendo da tempo l’influenza economica e geopolitica su questo territorio. Baghdad, dal canto suo, ha cercato – soprattutto nel corso dell’ultimo anno – di oscillare costantemente tra i due rivali. La Repubblica Islamica guarda d’altronde a queste proteste con particolare ostilità e preoccupazione per due motivi. In primo luogo, perché – come accennato – rischiano di creare una crepa nel suo sistema di influenze regionali. In secondo luogo, i vertici iraniani temono che disordini simili possano prima o poi scoppiare anche dentro i propri confini, secondo dinamiche già conosciute con l’Onda Verde del 2009.

Iran quarant’anni dopo, la Rivoluzione tradita. Febbraio 1979, il popolo rovescia la monarchia dello Scià e inizia la Repubblica islamica. Un potere che ancora oggi sopravvive a se stesso e ai cambiamenti della modernità, scrive Lanfranco Caminiti il 31 gennaio 2019 su Il Dubbio. «L’islam – che non è semplicemente religione, ma modo di vita, appartenenza a una storia e a una civiltà – rischia di costituire una gigantesca polveriera, formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni Stato musulmano può essere rivoluzionato dall’interno, cominciando dalle sue tradizioni secolari». È il 26 febbraio 1979 e Michel Foucault, il filosofo francese, manda il suo ultimo reportage dall’Iran – sono nove gli articoli che avrà inviato, per il Corriere della Sera ele Nouvel Observateur, dal settembre dell’anno prima, quando sono iniziate le rivolte contro lo scià Reza Pahlavi, il re dei re. E più che un reportage, questa sembra una terribile profezia. Dell’Iran Foucault non si occuperà più, ma gli verrà rimproverato a lungo questo suo “appassionamento”, questo “orientalismo”, questo suo non rendersi conto, almeno apparentemente, che dietro quella sollevazione popolare andava tessendosi la tela di un potere religioso teocratico, dai connotati medievali. Eppure, in un articolo per Le Monde del maggio 1979 (Inutile de se soulever? “Insorgere è inutile?”) scriveva: «Non vi è nulla di vergognoso nel cambiare opinione: ma non c’è nessuna ragione di dire che si cambia quando oggi si è contro le mani tagliate, dopo essere stati, ieri, contro le torture della Savak… Le sollevazioni appartengono alla storia. Ma, in qualche modo, le sfuggono. Il movimento per cui un uomo solo, un gruppo, una minoranza o un popolo intero dice: “Non ubbidisco più” e, di fronte a un potere che giudica ingiusto rischia la sua vita – questo movimento mi sembra irriducibile… Enigma della sollevazione. Per chi cercava in Iran, non le “ragioni profonde” del movimento, ma il modo in cui questo era vissuto, per chi tentava di comprendere che cosa passasse nella testa di quegli uomini e di quelle donne quando rischiavano la loro vita, un elemento era sorprendente. Essi inscrivevano la loro fame, le loro umiliazioni, il loro odio nei confronti del regime e la loro volontà di ribaltarlo ai confini del cielo e della terra, in una storia sognata che era sia religiosa sia politica. Si scontravano con i Pahlavi, in una partita in cui ognuno giocava con la vita e la morte, ma anche con sacrifici e promesse millenari. Cosicché, in realtà, le celebri manifestazioni che hanno avuto una parte tanto importante, potevano contemporaneamente rispondere alla minaccia dell’esercito (fino a paralizzarlo, seguire il ritmo delle cerimonie religiose e, infine, rimandare a una drammaturgia senza tempo, in cui il potere è sempre maledetto… La spiritualità a cui si riferiscono coloro che stavano per morire non è paragonabile al governo cruento di un clero integralista. I religiosi iraniani vogliono legalizzare il loro regime attraverso i significati della sollevazione. Squalificando la sollevazione perché oggi c’è un governo di mullahs, ci comportiamo come loro. In entrambi i casi si ha “paura”. Paura di quello che è appena successo l’anno scorso in Iran e di cui il mondo non aveva dato esempi da molto tempo». Era stato questo perciò lo “scandalo” della rivoluzione iraniana per Foucault, che a migliaia fossero stati pronti a immolarsi, a affrontare a mani nude l’esercito più potente del Medioriente, in nome non d’un ayatollah, d’un profeta, d’una religione, ma di una “spiritualità politica”, quella spiritualità politica che s’era irrimediabilmente perduta in occidente. A settembre di quell’anno, anche Oriana Fallaci andò in Iran e a Qom, la città santa dove viveva Khomeyni, intervistò l’ayatollah, il Capo Supremo. Nel 1973 la Fallaci aveva intervistato lo Scià e gli aveva chiesto conto dei suoi misfatti, tanto che quello le chiese se per caso non fosse sulla lista nera. Durante la Rivoluzione quell’intervista era diventata un libretto clandestino da agitare come un manifesto, e per questo Khomeyni ora la riceveva: «Mi esaminano: eppure il mio abbigliamento è in regola: più che a un essere umano assomiglio a un fagotto. Sui pantaloni neri e la camicetta nera indosso un mantello nero, il collo e i capelli sono ben nascosti da un foulard nero annodato al mento, e sopra tutto questo ho il chador. Nero, s’intende». Ne venne fuori, per il Corriere della Sera, un reportage durissimo: «Il suo ritratto è ovunque, come una volta il ritratto dello Scià. Ti insegue nelle strade, nei negozi, negli alberghi, negli uffici, nei cortei, alla televisione, al bazaar: da qualsiasi parte tu cerchi riparo non sfuggi all’incubo di quel volto severo ed iroso, quei terribili occhi che vegliano ghiacci sull’osservanza di leggi copiate o ispirate da un libro di millequattrocento anni fa… Alle undici di sera la città tace, deserta, e non rimane aperto neanche un caffè; ballare è proibito, visto che per ballare bisogna più o meno abbracciarsi. È proibito anche nuotare, visto che per nuotare bisogna più o meno spogliarsi… Le libertà sessuali, inutile dirlo, sono crimini da punire col plotone di esecuzione: non passa giorno senza che la stampa dia la notizia di qualche adultera fucilata… Si fucilano anche gli omosessuali, le prostitute, i lenoni… Il suo nome è sulla bocca di tutti, ossessivamente, sia che venga pronunciato con amore sia che venga sibilato con odio… Eppure è troppo presto per dire che si tratta di una rivoluzione fallita, esplosa per sostituire un despota con un altro despota. Ed è addirittura azzardato concludere che non si tratta di una rivoluzione bensì di una involuzione, quindi tante creature son crepate per nulla, al tempo dello Scià era meglio. I grandi capovolgimenti conducono sempre ad eccessi, estremismi fanatici, interregni caotici: la Francia non ci dette forse il Terrore? E una rivoluzione è avvenuta: religiosa, non libertaria. Per questo non la riconosciamo, e ce ne inorridiamo. Per questo ne siamo delusi. Bisogna tentar di capire. Bisogna ascoltare chi risponde con le lacrime in gola che sì, al tempo dello Scià si poteva bere il vino e la birra e la vodka e lo whisky, però si torturavano gli arrestati con sevizie da Medioevo; si poteva ballare e nuotare in costume da bagno e lavarsi i capelli dal parrucchiere, però dagli elicotteri si gettavano i prigionieri politici nel lago Salato; non si fucilavano gli omosessuali, le prostitute, le adultere, però si massacrava la gente nelle piazze e si viveva solo per vendere il petrolio agli europei. Soprattutto bisogna prestare orecchio a chi ci ricorda che esistono realtà diverse dalle nostre, e vie diverse dalle nostre per correggere quelle realtà…». L’intervista finì con un mezzo incidente. La Fallaci farà le sue scomode domande, parlerà di fascismo, dispotismo e dittatura e il Capo Supremo risponderà sempre, senza mai guardarla negli occhi, che tiene abbassati a fissarsi le dita, finché gli osserverà che non si può nuotare con il chador e Khomeyni le dirà: «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene». E allora, racconterà, «indignata, getterò via il chador e aprirò il mantello e sposterò il foulard chiedendogli se una donna che ha sempre vissuto senza quei cenci da medioevo gli sembra una vecchiaccia poco perbene. E lui mi avvolgerà in un lungo sguardo indagatore da cui mi sentirò spogliata». L’intervista, e l’incidente, accrescerà il prestigio internazionale della Fallaci, ma siamo certo ancora lontani dagli ultimi suoi testi, dopo l’11 settembre, sempre per il Corriere, che verranno poi raccolti ne La rabbia e l’orgoglio, anche se forse proprio in quei giorni se ne possono ritrovare le radici. Nel presentare il suo ultimo libro, La Rivoluzione, la Repubblica islamica, la guerra con l’Iraq, Antonello Sacchetti dice: «Khomeyni aveva bene in mente il suo programma rivoluzionario visto che aveva definito il “Governo islamico” in un libro scritto, anni prima. Erano gli altri rivoluzionari ad avere le idee confuse. Khomeyni, con grande scaltrezza, si guardò bene dal dichiarare, apertamente, quali fossero i suoi reali obiettivi, quale fosse l’idea di Stato che aveva in mente. Quindi si può parlare di successo per Khomeyni, perché alla fine è prevalsa la sua fazione, e si è realizzato il suo disegno politico. Per lui la Repubblica islamica rappresentava un progetto, invece per una parte dei suoi alleati, la repubblica islamica era, soltanto, uno slogan indefinito dai contenuti incerti. Khomeyni vince perché riesce a intercettare l’unica volontà comune di tutti i rivoluzionari, cioè cacciare lo scià. In questo è il più intransigente, il più netto di tutti. Se all’inizio del 1978 si parla di riforme della Costituzione, e poi di una eventuale abdicazione di Mohammad Reza Pahlavi, è solo dall’estate in poi che si parla di cacciare lo scià, e poi – in un secondo momento – di istituire una “Repubblica islamica”. Il repubblicanesimo in Iran non aveva una storia, una tradizione. È un concetto che la rivoluzione ingloba e promuove in tempi rapidissimi. L’islamizzazione della neonata repubblica avverrà molto velocemente, proprio perché il progetto di Khomeyni era strutturato e, perfettamente, in linea con la cultura tradizionale del Paese…». E a proposito della lunga e sanguinosissima guerra Iran- Iraq l’ultima guerra convenzionale del XX secolo, l’ultima, cioè, a essere combattuta dagli eserciti di due Stati nazionali l’un contro l’altro armati, Sacchetti dice: «Senza la rivoluzione non ci sarebbe stata la guerra, perché Saddam Hussein non avrebbe mai attaccato l’Iran monarchico, e perché, senza la guerra, la rivoluzione avrebbe avuto, probabilmente, un corso diverso. Così come le rivoluzioni francese e russa, anche quella iraniana, una volta aggredita, si ricompatta. È una storia drammatica, terribile ma, assolutamente imprescindibile, per capire la rivoluzione oltre che la storia attuale dell’Iran. La guerra è il mito fondante della rivoluzione: i murales delle città iraniane omaggiano, quasi sempre, i martiri della guerra non quelli della rivolta contro lo scià». Dal 1941 al 1979 a governare l’Iran era stato lo scià Reza Pahlevi, che aveva ereditato la carica dal padre, Reza I, costretto ad abdicare nel 1941 durante la Seconda Guerra Mondiale da inglesi e russi, per il timore che allineasse il suo paese, ricco di petrolio, alla Germania nazista. Alla fine della guerra il Regno Unito, che era stato la potenza dominante in Medioriente fino a quel momento, decise di disimpegnarsi. Gli Stati Uniti avevano bisogno di un alleato in quell’area strategica e scelsero l’Iran dello scià. L’alleanza con gli Stati Uniti divenne fondamentale nel 1953, quando lo scià riprese il controllo del paese con un colpo di stato contro il nazionalista Mohammed Mossadegh, che, due giorni dopo essere diventato primo ministro nel 1951, aveva nazionalizzato la Anglo- Iranian Oil Company, la prima volta che una grande compagnia petrolifera veniva sfidata apertamente da un paese produttore di petrolio. Il Regno Unito ruppe le relazioni diplomatiche con l’Iran, e nel 1953, con l’insediamento di Eisenhower alla Casa Bianca, anche gli Stati Uniti decisero di agire. Nel febbraio 1953, americani e inglesi approfittarono della confusione in cui versava il paese per una serie di manifestazioni indette dal Tudeh ( il partito comunista iraniano), mentre lo scià abbandonava il paese, e il generale Zahedi ( appoggiato dagli stranieri) obbligava alla resa Mossadegh. Lo scià tornò nel suo regno. L’Iran si affermava come stato produttore ed esportatore di petrolio: con i soldi guadagnati dalla vendita del greggio si compravano sempre più armi, principalmente dagli Stati Uniti, trasformando l’esercito iraniano nel più forte di tutto il Medioriente. Quello era l’Iran che garbava agli americani. Dal 1963 al 1979 lo scià promosse la “rivoluzione bianca”, un programma di modernizzazione, appoggiato dagli americani, presto accusato di essere una “occidentalizzazione” di facciata, soprattutto dai religiosi. I sontuosi festeggiamenti per i 2500 anni della monarchia persiana nel 1971 erano costati alle casse dello Stato 250 milioni di dollari. Al crescente malcontento della popolazione, le cui condizioni di povertà si erano aggravate negli ultimi anni, il sovrano decise di rispondere con la forza. Negli anni Settanta la polizia segreta (Savak) compì arresti in massa, migliaia di cittadini vennero torturati e molti, a migliaia, vennero uccisi. Nel 1975 lo scià dichiarò illegali tutti i partiti politici, dissolvendo di fatto ogni forma di opposizione legale e favorendo la nascita di movimenti clandestini di resistenza. Tra le voci del clero che più si alzarono contro lo scià ci fu quella di Khomeyni – esiliato prima in Iraq a Najaf e poi a Parigi. Da Parigi, le sue infuocate invettive, diffuse in Iran con le audiocassette, divennero la scintilla che incendiava la prateria. Fu proprio una serie di attacchi da parte di giornali di regime contro Khomeyni che innescarono le prime manifestazioni. Il primo febbraio 1979, accolto da circa tre milioni di persone, quando lo scià se n’era già andato dal paese – morirà poco dopo al Cairo, per una grave malattia – Khomeyni rientrava in patria.

Dice Sacchetti: «Per quanto riguarda il futuro politico del Paese, mi viene soltanto da raccomandare grande prudenza nelle previsioni. La Repubblica islamica ha dimostrato in questi quarant’anni una resilienza, assolutamente, imprevedibile. La stessa è stata data per spacciata tante volte, invece, questo sistema ha superato molti ostacoli ed è sopravvissuto a un passaggio epocale come la fine della Guerra Fredda che, direttamente o indirettamente, ha ridisegnato la mappa del Medio Oriente».

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 21 Febbraio 2019. Avrebbe potuto ispirarsi al tweet, in lingua farsi, di Donald Trump: Quarant’anni di corruzione, 40 anni di repressione, 40 anni di terrore: il regime iraniano ha prodotto soltanto 40 anni di fallimenti. Invece dalla Germania con amore alla Repubblica Islamica d’Iran. Sono state congratulazioni vivissime. Magari gliel'ha mandato anche l'Italia un telegramma di congratulazioni, anche se spero di no. Però non è la stessa cosa, non è la stessa cosa se la Repubblica Federale di Germania si congratula con un governo che ha nei suoi principi fondanti la distruzione di Israele, lo Stato nato dopo, e a parziale risarcimento, dello sterminio degli Ebrei. Ci sarebbero poi altre cosette come l'attuale situazione di scontro con gli Stati Uniti d'America, che hanno stracciato l'accordo firmato nel 2015 da Barack Obama senza il dovuto passaggio per l'approvazione del Congresso, sostenendo che l'Iran non ha mai smesso di produrre materiale nucleare, Stati Uniti che oggi minacciano di ritorsioni le nazioni europee che decidono di continuare a commerciare liberamente con l'Iran. Se Nazioni appartenenti all'Unione Europea, segnatamente la Germania, non solo cercano con il concorso attivo del commissario Federica Mogherini di aggirare la richiesta americana, ma in più arrivano anche le congratulazioni in forma di telegramma ufficiale per il quarantesimo dei mullah, il casino diplomatico si complica. La Bild scrive che il presidente Frank Walter-Steinmeier ha inviato in un telegramma inviato a nome dei cittadini tedeschi le congratulazioni sue e dei suoi compatrioti da Berlino In occasione della festa nazionale. Al primo sorgere di una polemica che si annuncia sanguinosa, nazionale e internazionale, il presidente ha fatto sapere che si tratta di una pratica comune, niente di più, insomma che così fan tutti con tutti. Non è d'accordo Rabbi Abraham Cooper, a capo del Simon Wiesenthal Cente che non solo condanna le congratulazioni inviate al regime più pericoloso del mondo, ma ricorda che sono degli integralisti, impiccano gli omosessuali, minacciano il genocidio di Israele dove vive la più grande comunità di ebrei del mondo. Cooper si domanda infine provocatoriamente quando arriverà dal presidente tedesco una condanna ferma della negazione dell'Olocausto da parte del regime iraniano. La Bild è d'accordo “Esecuzioni di massa e torture, brutale persecuzione delle donne, delle minoranze   e dell'opposizione, Imposizione di uno Stato del terrore islamico che minaccia di annichilire Israele, che opprime il Medio Oriente con le sue milizie, e che nega l'Olocausto. Tutto ciò è cominciato 40 anni fa, l’11 febbraio del 1979, giorno della rivoluzione islamica, quando I mullah hanno preso con la forza il potere a Teheran”. Che in soldoni vuol dire molto chiaramente “che: c’ avrai da congratularti”?  Ve lo dico io chi è Steinmeier, perché niente avviene per caso. È quello che da ministro degli Esteri permise all'allora vice ministro iraniano degli Esteri, il potentissimo Muhammad Javad Ardashir Larijani, nel 2008, di invocare la distruzione di Israele e negare l'olocausto in Germania durante un ricevimento organizzato proprio dal ministro degli Esteri tedesco. a Berlino, a poca distanza dal museo dell'Olocausto. E’ lo stesso che di recente ha detto al presidente iraniano Hassan Rouhani che “la Germania sta facendo tutto ciò che è in suo potere per garantire il mantenimento e il potenziamento continuo dell'accordo nucleare con l'Iran”. Ora nel telegramma il presidente tedesco loda le relazioni bilaterali e promette di mantenere intensamente il dialogo. Perché “solo insieme è possibile superare le crisi e i conflitti”. Dice giustamente l'autore dell'articolo di Bild: “Come mai non c'è neanche una parola di critica sugli attacchi e le stragi di Teheran in Europa, o sui miliardi di finanziamenti a gruppi terroristici come Hamas e Hezbollah? “Steinmeier fa parte del partito socialdemocratico tedesco. Evidentemente deve ritenere una prova di sense of humour aver scritto nel telegramma che il regime va incoraggiato ad ascoltare anche le voci critiche del Paese. Lo vada a dire alle migliaia di detenuti politici torturati nelle prigioni.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 6 Ottobre 2019. «Il governo italiano dovrebbe smettere di finanziare indirettamente la campagna di terrore interno e globale del regime di Teheran, e pensare invece al futuro». Questo invito viene da Reza Pahlavi, principe ereditario dell' Iran. Il figlio dell' ultimo Scià vive negli Stati Uniti dall' epoca della rivoluzione, e ha accettato di parlare con La Stampa del difficile momento attraversato dal suo Paese e delle prospettive future.

Quali sono i suoi valori?

«Per quarant' anni sono stato chiaro sulle mie convinzioni, i miei valori, e la mia visione per il futuro dell' Iran. È centrata sul mio credo nell' eguaglianza di tutte le persone. Uomini, donne, giovani, vecchi, religiosi, atei, noi siamo tutti cittadini. Tutti abbiamo diritti fondamentali, che non possono essere violati. Da ciò deriva la mia fede nella democrazia e in un governo secolare nel mio Paese, dove tutti i cittadini abbiano voce nella creazione del nostro futuro».

Come pensa di realizzare questa visione?

«Il futuro dell' Iran sarà basato su libertà, sicurezza e dignità umana. Nell' Iran libero ogni cittadino avrà un ruolo per la costruzione della democrazia dal primo giorno. Noi, insieme, sceglieremo un sistema di governo con un referendum popolare. Eleggeremo i rappresentati di un' assemblea costituente e del parlamento. Anche la sicurezza è cruciale. Garantiremo la sicurezza dalla violenza arbitraria dello Stato, dall' indigenza, dalle interferenze straniere e dal terrorismo. Infine, la dignità umana. Ogni iraniano sarà trattato con la dignità che merita come cittadino ed essere umano, senza considerare la razza, la fede o lo status sociale».

Come giudica l' accordo nucleare Jcpoa?

«Era viziato per natura perché ignorava una componente cruciale, cioè il popolo iraniano. Le potenze occidentali in America ed Europa hanno erroneamente creduto di poter cambiare il comportamento del regime. Non possono. Questo regime è irriformabile. È avvelenato nella sua essenza. L' unica via per mettere fine al comportamento brutale del regime è sostenere il popolo nei suoi sforzi per stabilire una democrazia secolare. Negoziare con il regime è futile ed è un affronto al popolo iraniano».

La strategia americana della "massima pressione" funziona, o vorrebbe un ruolo più attivo per cambiare il regime?

«Le misure mirate contro il regime sono necessarie, dovrebbero continuare ed essere rafforzate. L' Occidente dovrebbe sanzionare in maniera uniforme le braccia del terrore del regime, che uccide i miei compatrioti a casa e diffonde il caos all' estero. Per quanto riguarda il cambio di regime, dovrebbe essere guidato dal popolo con una campagna massiccia di disobbedienza civile. Le sanzioni possono indebolire la capacità del governo di rispondere a un simile movimento popolare, ma la gente deve svolgere il ruolo di protagonista».

L' Iran è stato accusato del recente attacco in Arabia Saudita. Pensa che gli Usa dovrebbero considerare una risposta militare?

«Ciò che l' Arabia Saudita e i suoi alleati sceglieranno di fare è una loro prerogativa. La mia opinione è che con la guerra perdono tutti. Mi sono rivolto di recente ai miei compatrioti per dire loro che in nessuna circostanza dovrebbero consentire al regime di credere che potrebbe contare sul loro supporto, se cercasse di imporre una guerra. Qualunque altra cosa incoraggerebbe il regime ad inasprire il confronto, che avrebbe conseguenze disastrose».

Il presidente Trump dovrebbe incontrare o parlare con Rohani?

«Negoziare con questo regime è da ingenui. Il presidente Trump e tutti i leader occidentali dovrebbero invece impegnarsi con l' opposizione iraniana e appoggiare il popolo».

I Paesi europei stanno cercando di salvare l' accordo nucleare: quale messaggio vuole mandare loro?

«La leadership europea dovrebbe sapere che questo regime alla fine andrà via. Quando ciò avverrà, e avremo stabilito una vera democrazia rappresentativa, non ci dimenticheremo di chi ha aiutato il regime ed è rimasto in silenzio davanti alla nostra battaglia per la libertà. Gli europei dovrebbero relazionarsi con il popolo dell' Iran e smettere di coccolare il regime. Collaborando finanziariamente con la Repubblica islamica sostieni indirettamente l' omicidio del mio popolo e il terrorismo globale».

L' Italia ha un' antica relazione bilaterale con l' Iran. Ad esempio, ancora consente alla linea aerea Mahan Air di volare a Roma e Milano. Quale appello vuole mandare al nuovo governo italiano?

«Prima che l' Italia iniziasse a coccolare il regime, avevamo buone relazioni. Rapporti estesi e proficui e impegni tanto economici quanto culturali. Purtroppo il governo italiano, come tanti altri Paesi europei, ha cullato questo regime economicamente e in varie maniere. Il nuovo esecutivo dovrebbe smettere di finanziare indirettamente la campagna di terrore interno e globale del regime iraniano, e pensare invece al futuro».

In un recente messaggio inviato al popolo iraniano, lei ha detto che «la disobbedienza civile è il primo passo verso la ricostruzione» del Paese. Sta incoraggiando le proteste?

«Sì. L' unica via per transitare pacificamente verso la democrazia è l' impegno del popolo nella disobbedienza civile ampia e unita. Una componente di questa campagna è la protesta, altre sono gli scioperi dei lavoratori e i movimenti studenteschi, fra le varie cose possibili».

Qual è l' umore del popolo iraniano, per quanto lei possa comprenderlo a distanza? È vero che le nuove proteste non sono più finalizzate ad ottenere una voce nella gestione dello Stato, ma a cambiare il regime?

«Il popolo iraniano vuole rovesciare questo regime. Per quarant' anni hanno sofferto, ogni giorno, per l' oppressione, la corruzione e la mancanza di dignità. Ne hanno avuto abbastanza».

Lei ha detto in varie occasioni di esse pronto a servire il suo Paese. In quale forma vedrebbe questo suo impegno per il futuro dell' Iran?

«Io servirò il mio Paese in qualunque modo potrò farlo. Al momento, ciò significa unire l' opposizione ed esprimere i desideri dei miei compatrioti all' estero. Il mio unico obiettivo è liberare l' Iran».

·        Quella Guerra tra Mussulmani.

Così Erdogan indottrina i giovani. Futura D'Aprile su it.insideover.com il 21 ottobre 2019. “Negli ultimi venti-trent’anni in Turchia c’è stato un cambiamento significativo e sotterraneo all’interno della società, ma noi curdi ce ne siamo accorti solo di recente. Grazie al controllo sull’istruzione sono riusciti a dar forma a una nuova generazione di giovani indottrinati ed è anche per questo il potere di Erdogan è così forte”. A spiegare l’impatto che l’istruzione ha sulla formazione delle persone in Turchia e i suoi effetti a livello politico è Erol, giovane curdo del centro Ararat di Roma, che ha vissuto sulla sua pelle la discriminazione che attraversa il sistema scolastico e diretta verso particolari settori della popolazione. Primi tra tutti i curdi.

L’islamizzazione. “Il vero cambiamento nell’istruzione si è avuto a partire dal 2002, da quando cioè Recep Tayyip Erdogan e la destra hanno preso il potere ed emanato delle leggi con l’intento di islamizzare l’insegnamento nelle scuole sulla scia di quanto stava già facendo da anni Fethullah Gülen“. Fino a poco prima del fallito golpe del 2016 i rapporti tra il predicatore e l’attuale presidente della Turchia erano molto stretti, ma con il tempo si sono deteriorati fino a trasformarsi in una lotta aperta e in una campagna punitiva del capo di Stato turco contro il suo ex maestro. “Con Erdogan al governo, il potere di Gülen è aumentato sempre di più e il numero delle scuole sotto il suo controllo ha continuato a crescere: dopo il 2002 potevi contare almeno tre/quattro istituti scolastici privati finanziati dalla sua associazione in ogni città della Turchia e altri sono stati aperti anche fuori dal Paese”. Centrale in queste scuole era l’insegnamento dell’islam, ma non solo. “I seguaci di Gülen andavano dalle famiglie più povere che vivevano nel Kurdistan per convincerle ad affidare loro i propri figli, promettendo che avrebbero dato loro un’istruzione e anche un lavoro una volta terminati gli studi. I gulenisti mantenevano fede alla parola data, ma il loro obiettivo era indottrinare i curdi, considerati generalmente dei comunisti e quindi degli atei”. Gülen e il suo movimento non sono gli unici a fare dell’islam uno dei pilastri dell’istruzione. “A partire dal 2002”, prima volta in cui l’attuale presidente vincesse le elezioni, “il programma delle scuole pubbliche viene modificato e diventa obbligatorio seguire dei corsi sull’islam”. Si tratta di riforme che hanno un’importante valenza politica e che non tarderanno a mostrare il loro impatto sulla società . “Sono riusciti a dar vita a una nuova generazione di giovani che si rivedono nei valori religiosi e che sono stati debitamente inseriti in posizioni di potere in Turchia. Lo stesso Erdogan quindi non ha esitato a usare l’istruzione per i suoi scopi, sostituendo i valori del kemalismo con quelli dell’islam”.

La vita dei curdi nelle scuole turche. Erol sospira quando gli chiedo di raccontarmi la sua vita da studente in una Turchia in cui affermare di essere curdo vuole dire essere emarginato. “Quando ero alle elementari, ogni giorno prima di iniziare le lezioni ci facevano cantare una canzone che faceva più o meno così: ‘Io sono turco, questa è la mia bandiera…sono pronto a dare la mia vita per la Turchia’. È stata prassi obbligatoria fino al 2015, poi la legge è cambiata”. Tutte le mattine, per anni, Erol e altri come lui sono stati costretti a negare la propria identità e le proprie origini, segno di un indottrinamento che ha inizio fin dalla tenera età. “Quando noi curdi iniziano ad andare a scuola non conosciamo il turco, lo impariamo dietro i banchi e i maestri con noi sono sempre molto severi, ricorrono spesso alle punizioni corporali”. Ma a dover rinnegare se stessi non sono solo gli studenti.

Gli stessi insegnanti che venivano dal Kurdistan dovevano nascondere le loro origini se volevano lavorare. I problemi per Erol sono iniziati durante gli anni del liceo. “C’era una professoressa di estrema destra che è riuscita a farmi espellere accusandomi di essere pericoloso, ma la verità è che non accettava il fatto che continuassi a dire di essere curdo e non turco: è per questo che sono stato espulso”. Costretto a lasciare la scuola, Erol ha trascorso due mesi a casa. “Poi un giorno un mio parente mi ha detto che se volevo riprendere a studiare dovevo andare con lui a Batman (nel Kurdistan turco, ndr) e vivere nel campus della scuola a cui mi avrebbe iscritto. Ho accettato, ma solo dopo ho capito che si trattava di un istituto finanziato da Gülen. Ho resistito pochi mesi. In queste scuole gli studenti non hanno alcun tipo di libertà, sono costretti a osservare delle regole molto rigide. Per farti un esempio, ogni giorno alle 18 dovevamo ascoltare un discorso di Gülen e piangere”. Piangere? Erol ride alla vista della mia faccia stupita. “Sì, e se non lo facevi il maestro ti rimprovera e ti manda a bagnarti gli occhi”. La vita giornaliera all’interno di questi campus seguiva ritmi ben precisi. “Ci svegliavamo alle cinque per pregare, alle sei facevamo colazione, dalle 7 alle 15 avevamo lezione con una sola pausa nel mezzo, poi dalle 16 alle 17 eravamo liberi, ma alle 18 dovevamo seguire l’ennesimo incontro sull’islam. Ogni tanto ci facevano vedere dei film, anche quelli americani, ma ogni volta che veniva inquadrata una donna mandavano avanti il video. Non avevamo alcuna libertà, era un indottrinamento continuo. Dopo due mesi grazie all’aiuto di una persona mi sono iscritto a un altro liceo, ma ho continuato a vivere nel campus per capire cosa succedeva e passare informazioni. Poi però hanno scoperto che ero vicino a Hdp (partito filo-curdo, ndr) e mi hanno cacciato”. “I seguaci di Gülen sono dei fanatici”, ci tiene a specificare Erol. “Non sono più in grado di pensare con la propria testa e molti di loro dopo il 2016 sono diventati sostenitori di Erdogan”.

L’università. “Terminato il liceo ho passato l’esame per l’Università al quarto tentativo e mi sono iscritto alla facoltà di economia, ma dopo sei mesi sono stato cacciato per motivi politici”. Sorridendo, Erol mi racconta la sua storia e i problemi avuti all’Università. “Quando sei uno studente fuori sede e non hai molti soldi puoi ottenere un posto nello studentato gestito dallo Stato, ma per averlo devi prima superare un colloquio durante il quale alcuni professori ti fanno delle domande sull’islam. Io era preparato, sono riuscito ad avere un alloggio, ma dopo pochi giorni ho dovuto lasciarlo e ho iniziato ad aiutare anche altri a cercare un’altra sistemazione”. La motivazione, ancora una volta, è politica. “Anche in questi studentati”, spiega Erol, “si cercava di cambiare il modo di pensare dei ragazzi secondo un’ottica nazionalista e islamica, soprattutto nel caso dei curdi. Eravamo obbligati a partecipare alle manifestazioni della destra o legate all’islam, ma io mi sono rifiutato, ho lasciato lo studentato e ho creato un gruppo a cui hanno aderito anche i compagni comunisti e socialisti. All’inizio eravamo setto-otto, ma quando siamo cresciuti ci hanno fatto chiudere e io sono stato cacciato dall’università”.

Terminata la sua storia, c’è un punto che Erol vuole chiarire: Il problema non è l’islam in generale, ma il modo in cui veniva insegnato nelle scuole private di Gülen prima e in quelle pubbliche a seguito delle riforme volute da Erdogan poi...

La svolta del 2016. Nel 2016 si arriva al fallito golpe contro il Governo turco. Erdogan punta il dito contro Gülen e i suoi seguaci e per tutta risposta incarcera o licenzia tutti coloro che ritiene siano vicini al suo ex maestro. “La situazione in Turchia è cambiata dopo che i rapporti tra Erdogan e Gülen si sono rovinati. Quest’ultimo non ha accettato il fatto che il suo pupillo fosse diventato più potente di lui, per cui ha cercato di scavalcarlo, scatenando così una vera e propria guerra intestina”. Uno dei punti di maggior attrito tra i due è stata proprio la questione curda. Come ci spiega Erol, “Erdogan voleva arrivare a un accordo di pace, per questo molti di noi all’inizio hanno votato per lui, ma Gülen era assolutamente contrario”. Il predicatore “ha fatto di tutto per ostacolare le trattative, arrivando anche a usare i giudici a lui fedeli per attaccare i Municipi curdi. Quando Erdogan ha capito di aver perso il controllo su Gülen e i suoi seguaci ha fatto chiudere le scuole e le organizzazioni legate al suo ex maestro”. Il vuoto lasciato da Gülen è stato riempito dall’attuale presidente turco, che ha inserito in posti chiave persone a lui vicine e portato avanti un’importante riforma del sistema scolastico, riuscendo così a incidere sulla formazione dei giovani sul modello delle scuole di Gülen. In questo modo il presidente turco è riuscito a far crescere il suo potere, inculcando nei ragazzi sentimenti nazionalisti “e mettendoli contro tutte le minoranze presenti in Turchia, in primis contro i curdi. Se chiedi a qualcuno cosa pensa di noi ti risponderà che siamo dei terroristi, ma non sarà in grado di spiegarti perché. Gli è stato insegnato così e tanto basta”.

Quella guerra in seno all’islam che sta uccidendo anche noi. Paolo Mauri il 12 novembre 2017 su it.insideover.com. “Allah akbar”. Dio è grande. Due parole che nel mondo occidentale si sono legate a stragi, bombe, decapitazioni e a tutto il campionario di barbarie a cui ci ha abituati il terrorismo di stampo islamico nelle ultime due decadi. Abbiamo sentito gridare “Allah akbar” a Grozny, la capitale della Cecenia martirizzata da due guerre, ed in Bosnia, prima ancora lo abbiamo sentito in Afghanistan quando i “talebani” – che allora non si chiamavano così – combattevano i sovietici, poi in occasione dell’11 settembre, a Beslan, in Iraq, Siria e Libia in bocca prima ai miliziani di al-Qaeda e poi dell’Isis. “Allah akbar”. Due parole che sono diventate sinonimo di terrore e che nell’immaginario collettivo dell’uomo occidentale evocano immagini sanguinose e generano un sentimento di “rabbia e orgoglio”. “Allah akbar” però sono parole di pace e felicità. “Dio è grande” viene usato dai musulmani non solo durante la preghiera ma anche per esprimere la propria gioia, ma una gioia che non deriva dall’uccisione di un essere umano come siamo abituati a vedere nei filmati dell’Isis o in quelli di al-Qaeda. Per gli stessi musulmani l’utilizzo di queste parole in quelle occasioni è considerato aberrante: si sentono defraudati e offesi da una minoranza che uccide in nome della loro religione. “Allah è pace”, questo pensano i musulmani, ed uccidere nel suo nome è sbagliato. Allora cosa sta succedendo nell’Islam? Perché, come si è soliti dire, non tutti i musulmani sono terroristi ma tutti (o quasi) i terroristi oggi sono musulmani? Per capirlo occorre uscire da facili schemi e pensare che l’Islam non è un blocco monolitico ed unitario e che al suo interno esistono diverse confessioni anche oltre la divisione tra sciiti e sunniti che, nella storia, ha causato più morti che in tutti gli attentati in occidente. Occorre uscire dal meccanismo mentale della “reductio ad unum” e pensare che siamo davanti – ed in mezzo – ad una guerra di religione tra una parte del mondo musulmano ed il resto dell’Islam. Perché all’interno dell’Islam, così come esistono divisioni all’interno del mondo cristiano, ci sono diverse dottrine (e correnti): salafismo, hanbalismo, wahabismo, sufismo, alawismo, ismailismo sono solo alcuni dei nomi più noti. Quando si parla di Islam, quindi, è necessario specificare di quale dottrina si stia parlando, se sciismo o sunnismo, e a sua volta di quale corrente.

Cosa sta succedendo quindi nel mondo musulmano?

Stiamo vivendo una nuova era del (quasi) eterno conflitto tra sciiti e sunniti con degli Stati nazionali che sovvenzionano questa o quella corrente. Secondo chi scrive il problema nasce dal desiderio di espansione del wahabismo e del salafismo di origine saudita che è matrice ideologica di al-Qaeda e dell’Isis nonché del terrorismo ceceno e balcanico. Ormai è assodato che questi gruppi terroristici siano stati sovvenzionati tramite denaro privato raccolto attraverso le “decime” della religione islamica ed incanalato nelle tasche dei miliziani attraverso finte organizzazioni caritatevoli e per mezzo di banche islamiche, tutte organizzazioni che hanno la propria sede logistica in Arabia Saudita ma non solo. Oltre a Riad, che si calcola abbia stanziato sino ad oggi 100 miliardi di euro per diffondere il wahabismo nel mondo, anche altre petromonarchie del Golfo sono sede di flussi di denaro che finiscono nelle casse dei terroristi. La destabilizzazione della Siria, ad esempio, è partita da agitatori che avevano sede nel “pacifico” Kuwait, col quale moltissimi Paesi occidentali fanno affari anche di tipo militare; anche l’Italia, ad esempio, ha recentemente ricevuto una commessa per la vendita di 28 caccia Typhoon al piccolo emirato del Golfo. Non solo. Anche all’interno del mondo sunnita esistono profonde fratture che portano ad attentati e a veri e propri scontri diplomatici tra le cancellerie del Medio Oriente: esiste una divisione netta, infatti, tra i Fratelli Musulmani, quelli che hanno fomentato le rivolte il nord Africa tra Egitto e Tunisia, ed il wahabismo integralista che, come abbiamo visto, è matrice ideologica (e finanziaria) di Isis e al-Qaeda. Pertanto le stesse petromonarchie del Golfo si sono trovate divise nel supporto al terrorismo, con l’Arabia Saudita a sostenere l’Isis e le sue diramazioni ed il Qatar, ad esempio, a sostenere i Fratelli Musulmani. Doha infatti, durante le Primavere Arabe, ha sostenuto la Fratellanza in Egitto con circa 400 milioni di dollari e ne ha promessi 10 miliardi una volta che la situazione si fosse normalizzata, ma sappiamo tutti com’è andata a finire: al-Sisi, laico, è al potere e per tutta risposta Il Cairo ha immediatamente condannato Doha per il suo supporto al terrorismo fiancheggiando, altra strana alleanza, Riad e Abu Dhabi. Meno strano è vedere l’Egitto insieme agli Emirati Arabi Uniti, in considerazione del fatto che le due nazioni stanno aiutando il generale Haftar in Libia ad avere ragione delle milizie islamiche (e di quelle del Governo di Unità Nazionale). Questa è anche la chiave di lettura per la condanna del Qatar quale “stato terrorista” da parte di Riad in occasione della visita del Presidente Trump e dell’inaugurazione del Global Center for Combating Extremist Ideology. In quel particolare frangente la Casa Bianca aveva espressamente indicato –  per la prima volta – quali fossero le nazioni finanziatrici del terrorismo internazionale (Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Oman, Bahrein, EAU) ed immediatamente Riad, di comune accordo col Kuwait, si è affrettata ad indicare nel Qatar l’agnello sacrificale, con poco successo peraltro, visto l’ingresso a piè pari dell’Iran e della Turchia a sostegno di Doha. Quello che stiamo vivendo in occidente è solo il riflesso, peraltro pallido se paragonato al numero di morti causati dal terrorismo negli stessi Paesi islamici, di un conflitto interno all’Islam che sta coinvolgendo non solo gli adepti delle diverse confessioni ma anche gli stessi Governi che sono attori di primo piano in questa contesa. Pertanto ridurre e trattare la questione del terrorismo islamico come se fosse un unico problema legato all’Islam in sé risulta fuorviante e non risolverà mai il problema: per sconfiggere il terrorismo l’unica mossa vincente è quella di slegarsi dalle petromonarchie del Golfo e costringerle così, con l’isolamento, a far cessare quell’enorme flusso di denaro che finisce nelle casse dei salafiti e wahabiti che combattono nelle fila dell’Isis o di al-Qaeda, ma finché non ci sarà un progetto unitario e organico che vada in questo senso in Europa e nel mondo, coinvolgendo quindi la Russia, gli Usa e la Cina che fanno affari (anche lauti) con questi Paesi, il problema rimbalzerà come una palla impazzita da un Paese del Medio Oriente ad un altro, da una regione dell’Africa ad un’altra.

Quella Guerra tra Mussulmani.

Sciiti e sunniti: chi sono? Giovanna Pavesi su it.insideover.com. il 5 agosto 2019. Sono sempre stati in lotta e da secoli il loro conflitto influenza anche le politiche dei Paesi che ne sono coinvolti. Perché le due denominazioni dell’islam, sciita e sunnita, non interessano soltanto l’aspetto spirituale, confessionale o religioso della vita dei fedeli, ma riguardano soprattutto le loro identità. Li divide tutto, tranne i cinque pilastri dell’islam, il Corano e il credo che vede in Allah l’unico Dio e Maometto il suo profeta. Per la maggior parte dei musulmani, la religione è un aspetto che abbraccia la gran parte della vita personale. Storicamente, a causa dello scontro tra le due correnti, si sono generate guerre, che hanno, a loro volta, influenzato gli assetti geopolitici dei diversi sistemi di potere. Con circa 1,8 miliardi di fedeli, ovvero il 23% della popolazione mondiale, l’islam rappresenta la seconda religione del mondo per consistenza numerica, dopo il cristianesimo, con un importante tasso di crescita. Esistono due Paesi di riferimento per i due gruppi religiosi: l’Arabia Saudita per il blocco sunnita (dove gli sciiti sono il 15%) e l’Iran per i musulmani sciiti (dove si ritiene che vi risiedano dal 4 all’8% dei sunniti).

Le origini della scissione. L’anno della genesi del conflitto è il 632 d.C., data della morte del profeta Maometto. Alla scomparsa del fondatore della religione islamica, le tribù arabe che avevano iniziato a seguirlo scelsero di dividersi sulla questione di chi avrebbe dovuto mantenere e, di fatto, ereditare sia il potere religioso sia quello temporale. La maggioranza dei suoi seguaci decise di appoggiare Abu Bakr, amico del profeta e padre della moglie, Aisha. La minoranza, invece, pensò che il legittimo successore dovesse essere individuato tra i suoi consanguinei, sostenendo che il profeta avesse designato a succedergli Ali, cugino e genero. I primi presero il nome di sunniti (che oggi costituiscono l’80% dei fedeli nel mondo musulmano), gli altri divennero noti come sciiti, forma contratta dell’espressione “Shia Ali”, che in italiano significa “il partito di Ali”.

Chi è Ali (per gli sciiti). Ali riuscì a governare per un breve periodo come quarto califfo, titolo conferito ai successori di Maometto. Quando nel 656 d.C. si insediò, l’islam ebbe un’espansione importante, dall’Egitto alla Persia. Secondo i fedeli sciiti, Ali condusse una vita dedita alla preghiera e all’austerità, diventando così sia un’importante guida spirituale, sia oggetto di forte dissenso, che portò alla guerra civile, la “fitna“. Nel 661 Ali cercò di trovare un compromesso pacifico a questa ostilità, ma alcuni dei più radicali dei suoi seguaci Khargiti si sentirono traditi e lo assassinarono. Nello stesso momento, Muawiya, il capo dei suoi oppositori, prese il potere con il titolo di primo califfo omayyade. Morì poco dopo, lasciando il potere al figlio Yazid (lo stesso che fece assassinare il figlio di Ali, Hosein). Nel tempo, i seguaci di Abu Bakr, in maggioranza, riuscirono a imporsi. E fu da quel momento che gli sciiti si percepirono come minoranza.

La versione sciita. In base ad alcune versioni fornite dagli alidi (un altro nome con cui si identifica la minoranza musulmana sciita), la divisione tra i due gruppi si concretizzò prima di questi conflitti, quando ancora Maometto era in vita. Per gli sciiti, infatti, i primi musulmani erano già entrati in conflitto con l’autorità temporale e sia Maometto sia Ali (il cugino) furono costretti a fuggire dalla Mecca per raggiungere Medina, dove i loro rapporti con il governo meccano si deteriorarono, fino ad arrivare a una vera e propria ostilità. Per il credo sciita, Maometto avrebbe contestato il modo di vivere e i costumi della città araba, esortando a una condotta più morale e rigorosa. Ma le autorità meccane si sarebbero scagliate contro le accuse del profeta e lo avrebbero perseguitato.

Il massacro di Karbala. Ma la vera rottura si concretizzò quando Hosein, figlio di Ali, venne ucciso nel cosiddetto massacro di Karbala (luogo che oggi si trova in Iraq) nel 680, dalle truppe di Yazid, il califfo sunnita al potere. Quell’evento, per i fedeli alidi, ha costituito il fatto centrale e decisivo che ha posto in Hosein la figura più importante. Il suo santuario nella città irachena è uno dei principali luoghi sacri dello sciismo. Gli alidi credono che a nominare Ali suo successore diretto sia stato proprio Maometto. Fin dal massacro di Hosein, quindi, gli sciiti hanno riflettuto sul significato della sua morte e del suo martirio, attribuendogli un forte valore simbolico. Tra le conseguenze di quell’episodio, un forte senso di risentimento e di frustrazione nei confronti dei sunniti. Per spiegare questo sentimento di rabbia e di umiliazione, l’esperto britannico Michel Axworthy aveva utilizzato questo esempio: era come se alla morte di Gesù, capo della cristianità fosse diventato Giuda Iscariota o chi lo aveva crocifisso. Gli alidi hanno sempre ritenuto la ribellione di Hosein (che aveva sfidato l’autorità di Yazid) un tentativo di purificazione dell’islam, per riportarlo all’onore delle origini.

Che cos’è l’ashura (per gli sciiti). L’ashura (in arabo عاشوراء) è per i fedeli sciiti l’anniversario che ricorda la morte di Hosein: ciò che contraddistingue questa ricorrenza religiosa, almeno per gli sciiti, è il clima di lutto tra i fedeli, evocato con vere e proprie manifestazioni di massa. Chiaramente questa festività non ha lo stesso significato per i fedeli sunniti. Nel mondo scitta ha, infatti, carattere marcatamente doloroso, mentre altrove assume aspetti meno severi (in Nord Africa, per esempio, è festeggiato con altri riti). Molti, invece, vedono nell’ashura la continuazione di antiche feste pre-islamiche (come quelle di inizio anno).

Dopo la morte di Hosein. Dopo il massacro di Karbala, la dinastia omayyade continuò la sua reggenza e si espanse in nuovi territori. Tra i valori costitutivi della corrente sciita, molta dell’attenzione è rivolta agli oppressi e la tendenza a considerare la povertà e l’umiltà dei valori morali. I primi seguaci dello sciismo consideravano illegittimo il potere dei califfi omayyadi, percepiti come violenti usurpatori del potere. La speranza, per molti degli alidi, per secoli è stata quella di rovesciare l’equilibrio omayyade per riportare al potere i discendenti del profeta.

La figura dell’imam per sciiti e sunniti. Secondo gli sciiti, i discendenti diretti di Ali e di Hosein erano gli imam. Mentre per i sunniti quella figura corrisponde soltanto a chi guida la preghiera, per gli alidi l’imam è il leader spirituale che esercita una funzione di guida politica e religiosa all’interno della comunità. Per loro rappresenta il delegato del profeta nella realtà, sia sotto il profilo temporale sia sotto quello religioso. La sua investitura proviene da dio, attraverso la mediazione del Profeta o dell’imam che lo ha preceduto e ricevendo la sua vocazione dall’alto, questa figura lega due mondi: quello visibile e quello invisibile (gli sciiti, infatti, credono nella walaya, l’autorità che deriva dall’intimità con Dio, che è prerogativa di Ali).

L’imam occulto e le persecuzioni. Nonostante la scissione, nei primi secoli lo scambio di idee e spiritualità diverse era libero e ampiamente tollerato. Ma gli alidi, da sempre, si sono considerati una minoranza perseguitata all’interno dei territori governati dai sunniti. Il sesto imam sciita, Jafar as-Sadiq, ideò una strategia controversa per sfuggire alle persecuzioni: la dottrina della taqiyeh permise, infatti, ai fedeli alidi di ripudiare il proprio credo ogni volta lo ritenessero necessario per la loro salvezza. Alla sua morte si verificò un altro scisma, ma questa volta tutto interno alla minoranza sciita. La corrente si divise in molte sette, ognuna delle quali dava un’interpretazione teologica diversa. Alla fine, i fedeli decisero di dare una sola spiegazione al vuoto di potere, pensando all’imam occulto. L’undicesimo imam aveva avuto un erede effettivo, ma era stato nascosto per evitare il massacro e per sfuggire alle persecuzioni. Questo dodicesimo capo (detentore della spiritualità sulla Terra) è teofania dell’imam celeste, ha quindi la funzione di far comprendere lo spirito della rivelazione, il segreto dell’origine, di ciò che è disceso, rendendolo comprensibile alla comunità di fedeli. Questo aggiunge alla corrente sciita un elemento messianico e millenarista, unito a un principio di instabilità e di dubbio, che contraddistingue la corrente. L’imam nascosto e coloro che aspettano il suo ritorno sono denominati “sciiti duodecimani“. Sono la maggior comunità alide e costituiscono il 90-95% dei fedeli in Iran.

L'organizzazione amministrativa sciita. Lo sciismo (in particolare in Iran) ha al suo interno una vera e propria gerarchia amministrativa: composta da un ceto di amministratori e “specialisti” della spiritualità, l’organico della religione si rende disponibile come “mediatore” tra l’islam e i credenti. Per rendere accessibile la teologia imamita, gli alidi offrono un’interpretazione dei testi sacri alle fasce più umili della società. Il livello più basso della gerarchia è occupato di mullah, seguito dagli hijjatolleslam, che sono autorizzati a interpretare la legge islamica e hanno un ruolo determinante nella scelta dei teologi di massimo livello, gli ayatollah (che, letteralmente, significa “segni miracolosi di dio”). Al vertice, la gerarchia è orizzontale: nessuno degli ayatollah è superiore all’altro (se non per scienza teologica). Ogni credente ha il diritto e la libertà di scegliere quale tra gli ayatollah sia una “guida da seguire” (marja e-tadqlid). Negli anni Sessanta del XX secolo, in Iran, questa gerarchia venne messa in discussione dal più celebre degli ayatollah, Ruhollah Khomeini, e dal sociologo filosofo Ali Shariati (tra gli ideatori della rivoluzione islamica del 1979).

Le accuse dei sunniti. Rispetto alla comunità alide, quella sunnita basa gran parte della propria pratica religiosa sugli atti del profeta e sui suoi insegnamenti (chiamati “sunna“, da cui deriva il nome). Ciò che li differenzia dagli sciiti è anche il fatto che la minoranza incarna proprio negli ayatollah un riflesso di dio sulla Terra. Questo avrebbe indotto, nel tempo, i sunniti ad accusarli di eresia. Gli sciiti, invece,  vorrebbero addebitare alla maggioranza l’avvio di sette estremiste come i puritani wahabiti, corrente ultraortodossa dell’islam (che trova la sua massima espressione nelle scelte politiche di Riad).

La linea religiosa (e politica) che separa i musulmani. Ciò che divide i fedeli musulmani, soprattutto in Medio Oriente, sono elementi che hanno tratti più politici che spirituali. Ma la distinzione e i contrasti tre le due correnti non riflette, necessariamente, i confini nazionali. Per esempio, la Siria, dal 2011 al centro di una violentissima guerra civile, è un Paese dove il 71% della popolazione è sunnita. Il governo della famiglia Assad, però, è sciita (ed è sostenuto dall’Iran, a differenza dei ribelli che sono affiancati e foraggiati dai sauditi). La famiglia Assad, la cui “dinastia” si è consolidata a Damasco negli anni, appartiene al ramo sciita degli alauiti che, insieme ai drusi, rappresentano il 16% della minoranza dello stato. In Libano, Teheran sostiene, come è noto, Hezbollah, ma i Saud sono molto vicini alla famiglia Hariri, uno tra i più potenti clan sunniti del mondo arabo. Nello Yemen, anch’esso vittima di uno dei più feroci conflitti interni (e non solo) degli ultimi anni, la religione più praticata è l’islam sunnita, con un 65% di fedeli, mentre la minoranza corrisponde a un 35% (tra questi la maggioranza fa parte della corrente sciita zaydita, di cui fanno parte i ribelli Houthi). L’Iraq si divide da tempo tra un 60% di popolazione sciita e un 15-20% sunnita. Tra i curdi, che costituiscono circa il 20% degli abitanti, la maggioranza è sunnita. La “mezzaluna sciita”, che dall’Iran passa per la Siria e finisce in Libano, nel tempo era ammirata da molti esponenti sunniti. Ma la guerra civile e i cambiamenti statali nella regione hanno provocato una frattura che sembra espandersi tra i governi sciiti e gli stati sunniti del Golfo Persico, come Arabia Saudita e Qatar. Oggi il 13% dei musulmani risiede in Indonesia, che è anche il paese islamico più popolato, il 25% nell’Asia meridionale, il 20% nel Vicino Oriente, in Maghreb e in Medio Oriente e il 15% nell’Africa sub-sahariana. La corrente dominante, quella dei sunniti, si espande molto più velocemente di quella sciita, arrivando persino nelle aree più lontane dell’Asia.

·        Arabia Saudita, caccia all’islam moderato.

Arabia Saudita, caccia all’islam moderato. Fulvio Scaglione il 4 luglio 2019 su it.insideover.com. Nel giugno del 2017, il giovanissimo Mohammed bin Salman (oggi 34 anni) ha ottenuto la nomina a principe ereditario dell’Arabia Saudita ed è diventato… tutto. L’erede al trono, certo. Ma anche il ministro della Difesa (il più giovane al mondo), il presidente del Consiglio per gli affari economici, il capo della corte, il vice-custode delle sacre moschee di Mecca e Medina. L’Arabia Saudita la governa lui, anzi la domina. E il re Salman si accontenta di invecchiare in disparte, felice forse di essere ancora vivo. Da quel giugno, un’oliatissima macchina di propaganda ha cominciato a diffondere l’immagine di un principe riformatore, teso a modernizzare il regno e ad allentare l’intreccio soffocante tra il potere assolutistico dei Saud e il radicalismo religioso dell’islam wahabita. In Rete si trovano moltissimi esempi di questi spottoni pubblicitari, con il giornalista compiacente che scodella la palla perché il principe possa andare in goal e ribadire che “l’Arabia Saudita tornerà com’era prima del 1979 (anno della rivoluzione khomeinista in Iran, nda), cioè aperta al mondo e a tutte le religioni”. Davvero? Lasciamo stare le decine di condanne a morte, la guerra nello Yemen, i finanziamenti generosi al terrorismo islamista di matrice sunnita in tutto il mondo, il sequestro arbitrario dei beni delle famiglie in odore di dissenso e altri piccoli particolari. Davvero Mohammed bin Salman in questi due anni ha lavorato per un’Arabia Saudita più tollerante e moderna dal punto di vista religioso? Cominciamo allora dal Consiglio dei Religiosi, l’organismo composto da 21 clerici di alto livello, scelti personalmente dal Re e stipendiati dallo Stato, che ha il compito di consigliare la Casa Reale sulle questioni religiose e di emettere editti e fatwa. I membri del Consiglio sono tutti noti per la loro tendenza a dir poco conservatrice. Alcuni, poi, sono degli estremisti dichiarati. Saleh al-Fawzan, uno dei consiglieri più ascoltati dal principe, ha dichiarato più volte che gli sciiti non sono musulmani ma miscredenti. E Saleh al-Lohaidan sostiene la seguente teoria: i responsabili dei media che trasmettono contenuti non allineati ai precetti religiosi dovrebbero essere condannati a morte come apostati. Guarda caso, Lohaidan ha firmato diverse fatwa per “scomunicare” coloro che criticano i loro governanti, atteggiamento che, secondo il suo pensiero, giustificherebbe un’eventuale ritorsione violenta dei governanti stessi. In linea perfetta, peraltro, con le teorie di Abdulaziz al-Sheikh, gran muftì dell’Arabia Saudita, che con fatwa ed editti sostiene dal 2016 una sola idea: per un fedele musulmano è un dovere religioso “amare il proprio re, difenderlo e non insultarlo”. Nessuno di questi “estremisti”, ovviamente, è mai stato sfiorato dal presunto riformismo di Mohammed bin-Salman. Che invece non ha perso tempo con i riformisti veri. Già nel settembre del 2015, poco tempo dopo la nomina a principe ereditario, fece arrestare dozzine di clerici moderati, tra i quali Salman-al Awda e Awad al-Qarni, loro sì campioni di un atteggiamento religioso più tollerante. In quei giorni finirono in cella anche molti scrittori, attivisti e giornalisti riformisti. In quella tornata, val la pena di ricordarlo, il giornalista Jamal Kashoggi fu cacciato da Al-Hayat, il giornale per cui lavorava come editorialista. Proprio lo stesso Kashoggi che il 2 ottobre del 2018 è stato rapito, ucciso e fatto a pezzi dagli sgherri di Mohammed bin Salman nelle cantine del consolato saudita di Istanbul. In questi quattro anni circa 5 mila clerici sauditi sono stati arrestati oppure convocati dalla polizia e costretti a firmare un patto di fedeltà al regime. Chi non l’ha fatto è finito nei guai. Abdullah Almalki, uno specialista di studi coranici, ha dichiarato che il bene del popolo deve precedere i desideri del sovrano. E’ finito agli arresti nel settembre 2017 e poi spedito davanti a una delle corti segrete che processano, in assenza totale di testimoni e avvocati, i detenuti considerati più pericolosi. Salman Alodah, un giornalista assai noto (il suo account Twitter ha 13 milioni di follower) per le sue posizioni contro il jihad, per la parità di diritti delle donne e per il rispetto delle minoranze religiose, ha subito lo stesso destino di Almalki e rischia la pena di morte. La realtà del regno saudita e del principe che lo domina è questa. Il resto è, appunto, propaganda.

·        Malesia, tolleranza zero contro i predicatori islamici radicali.

Malesia, tolleranza zero contro i predicatori islamici radicali. Contro l’offensiva del governo di Kuala Lumpur ai danni degli imam radicali si sono subito schierati i vertici islamici della Malesia. Gerry Freda, Lunedì 19/08/2019 su Il Giornale. Il governo della Malesia ha annunciato la linea dura contro i predicatori islamici intenti a “propagandare l’odio”. Le autorità di Kuala Lumpur hanno infatti deciso di reagire ai discorsi infuocati pronunciati più o meno quotidianamente da imam radicali attivi nel Paese, abitato da circa 32 milioni di persone di cui il 60% è aderente al credo maomettano. In base a quanto disposto dal primo ministro Mahathir Mohamad e dal ministro dell’Interno Muhyiddin Yassin, i rappresentanti religiosi responsabili di “mettere a repentaglio la pace sociale” verranno “immediatamente espulsi” dal territorio nazionale. A detta dei media locali, il primo predicatore musulmano colpito dalla tolleranza zero dell’esecutivo è Zakir Naik, emigrato dall’India in Malesia nel 2016 e da allora impegnato a tuonare contro le minoranze etnico-religiose dello Stato del sudest asiatico. In particolare, costui si era scagliato più volte contro la comunità cristiana bollandola come “ostile alla convivenza con la maggioranza islamica malese”, nonché contro gli immigrati provenienti proprio dalla sua nazione di origine e dalla Cina. Questi ultimi erano stati da lui ripetutamente definiti “parassiti da cacciare”. Secondo la stampa di Kuala Lumpur, Naik, contro cui sono stati avviati finora ben 115 procedimenti penali per istigazione all’odio, sarebbe già stato arrestato e, in base alla nuova politica del rigore varata dal premier Mahathir Mohamad, condannato appunto a lasciare coattivamente la Malesia. Il ministro Yassin, commentando ai microfoni delle emittenti locali il “curriculum criminale” del predicatore indiano, ha precisato che vi sarà presto un’“imponente retata” contro i promotori di violenze, finalizzata a liberare lo Stato da leader religiosi “pericolosi per l’ordine pubblico”. Contro la nuova linea governativa si sono subito schierati i vertici maomettani nazionali, che hanno accusato le istituzioni di “calpestare la libertà di culto e di manifestazione del pensiero”. Ad esempio, Abdul Hadi Awang, presidente del Malaysian Islamic Party (PAS), ha difeso con forza l’operato di Naik, indicando quest’ultimo come un “vero protettore della fede” e biasimando l’esecutivo per celare, dietro le esigenze di salvaguardia della pace sociale, l’intenzione di “liberarsi di personalità scomode e impegnate a denunciare i mali dell’immigrazione e del multiculturalismo”. Soddisfazione per la linea dura di Kuala Lumpur ai danni degli imam radicali è stata al contrario esternata dall’attivista per i diritti umani Syahredzan Johan, che ha commentato con queste parole la svolta del premier Mahathir Mohamad contro i predicatori di odio: “Da oggi in poi, chiunque, appellandosi a un falso concetto di libertà di opinione, promuova violenze e discriminazioni verso le minoranze verrà cacciato all’istante dal Paese. Finalmente il nostro governo ha smesso di tollerare l’attività criminale di Naik e di tutti gli altri imam che inneggiano alla pulizia etnica in Malaysia”.

·        Il figlio del «Leone del Panshir» torna a casa per sfidare i talebani.

Il figlio del «Leone del Panshir» torna a casa per sfidare i talebani. Pubblicato sabato, 17 agosto 2019 da Corriere.it. Dalla valle del Panshir, il vecchio Amir scrive via email l’entusiasmo per il ritorno del «predestinato». «Assomiglia al padre in modo impressionante. Anche per la voce. Solo che è giovane e pronto a difenderci dai talebani. Finalmente. Finalmente abbiamo una speranza». La «speranza», il «predestinato» è Ahmad Massud, 30 anni, unico erede maschio del Leone del Panshir, il guerrigliero afghano capace di resistere sia ai sovietici sia ai talebani. Il giovane Massud si chiama come il padre, tranne per quel Shah tra il nome e il cognome che significa capo, re, scià, tutti titoli che il figlio deve conquistare sul campo. Rientrato in Afghanistan dopo 17 anni ha detto «se mio padre fosse vivo, i talebani saprebbero di dover venire qui con le mani in alto» in segno di resa. Una sfida dal momento che i talebani stanno davvero per tornare, ma con il placet di Washington che cerca una via d’uscita dalla più lunga guerra della sua storia. A Donald Trump sembra bastare l’assicurazione degli «studenti del Corano» a non ospitare gruppi terroristici che minaccino gli Usa. Tutto il resto, è affare interno all’Afghanistan, tanto che il governo di Kabul è escluso dai negoziati. La segretezza delle trattative scatena le fantasie più spaventose. Chi ha combattuto contro i talebani, chi ha appoggiato il governo filo-americano, ora teme la vendetta degli integralisti. E proprio per loro, per chi ha più paura del ritorno dei talebani, è arrivato il giovane Massud. Il giorno del funerale di suo padre, sulla «collina dei martiri», dietro Jegdalak, nel cuore della vallata del Panshir, ventimila mujaheddin piangevano la scomparsa del «Che Guevara islamico». Era stato eliminato con un attentato suicida da Al Qaeda, proprio alla vigilia dell’attacco alle Torri Gemelle del 2001, perché era l’unico afghano capace di unificare il Paese. Quel giorno, proprio dietro la bara c’era Ahmad Massud, 11 anni. Prima che il feretro venisse adagiato dentro un tank sovietico e così sepolto, il piccolo descrisse il suo destino: «La sua morte non è la fine della lotta per un Afghanistan indipendente. Io non riposerò, ma lavorerò per realizzare il suo sogno». Mesi dopo in un’intervista al Corriere, il bambino rifletteva da adulto: «Sono cresciuto in un campo profughi in Iran, ho vissuto sulle montagne afghane assieme a mio padre, ma ora devo prepararmi, devo studiare, capire, essere all’altezza del futuro». Ascoltava con orgoglio un macigno d’uomo pronto a morire per proteggere col bimbo il mito del padre. L’orfano è cresciuto, il futuro è arrivato. Secondo The Times che gli ha parlato nei giorni scorsi, si è addestrato a Sandhurst, l’accademia militare britannica, si è laureato in studi dei Conflitti armati al King’s College di Londra e poi ha preso un master in Relazioni internazionali al City College. Da due anni passa più tempo in Panshir che a Londra e, da quando le trattative tra americani e talebani si sono fatte concrete, ha capito cosa fare «da grande»: ricostruire l’alleanza di suo padre per resistere agli «studenti del Corano». In luglio ha fondato il «Sentiero di Ahmad Shah Massud», un movimento che non parteciperà alle elezioni presidenziali di settembre, ma che rischia di essere più importante di quelle. Nel primo mese il nuovo Massud ha battuto i villaggi di casa, senza mai uscire dalla sua valle. Ha organizzato comizi e incontrato anziani. Stretto mani e alleanze con chi a suo padre deve tutto. Da qualche giorno è sceso in pianura, tra i vigneti di Shamali. Nei prossimi mesi apparirà nelle terre dei vecchi alleati di suo padre, anche loro, ormai, pronti a lasciare il comando ai figli. Per molti questo giovane addestrato alla guerra è il sintomo della rinascita della logica delle milizie, della divisione etnica, dei «war lord», i signori della guerra. Potrebbero aver ragione, ma senza protezione americana e con un governo corrotto e inefficiente, l’Afghanistan non avrebbe alternative.

·        La Cina non dà tregua all’islam: così controlla gli uiguri.

Xinjiang, la guerra della Cina al Movimento islamico del Turkistan orientale. Un documentario fa luce sulla sfida cinese al terrorismo islamico. Nello Xinjiang Pechino sta combattendo una guerra silenziosa contro l’East Turkistan Islamic Movement (Etim). Cinitalia, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Lo Xinjiang è minacciato dalla strategia separatista del Movimento islamico del Turkistan orientale (Etim). Considerata un'organizzazione terroristica dalle Nazioni Unite, l'Etim - che vanta pure profondi legami con gli altri gruppi terroristici internazionali - nel corso degli anni ha causato innumerevoli attentati nella regione più occidentale della Cina con l’obiettivo di separarla dal resto del Paese. A fare luce su questo aspetto, totalmente ignorato dall’opinione pubblica occidentale, ci sta pensando l’emittente televisiva Cgtn, che ha mandato in onda un nuovo documentario di denuncia sul terrorismo a Urumqi e dintorni. Si intitola "The Black Hand" ed è utilissimo per approfondire una questione trattata con fin troppa superficialità dai media mainstream.

Che cos’è il Movimento islamico del Turkistan. Il Movimento islamico del Turkistan orientale ha cercato più volte di destabilizzare l’armonia sociale dello Xinjiang reclutando innumerevoli persone tra la minoranza etnica turcofona e musulmana degli uiguri. Le idee diffuse da questi terroristi abbracciano la stessa ideologia radicale ed estrema che continua tutt’ora a generare il caos in molti Stati del mondo. È per questo motivo, dunque, che il governo cinese è stato costretto ad attuare una serie di misure di emergenza per controllare capillarmente un territorio situato in una zona altamente sensibile. I terroristi dell’Etim, infatti, non solo rappresentano una minaccia per gli uiguri, ma anche per la Cina intera, che ha messo al vertice della propria agenda politica la sicurezza e la stabilità del Paese. Il documentario offre una prospettiva inedita che consente al pubblico di analizzare quanto sta accadendo nello Xinjiang seguendo una prospettiva diversa dal solito. Il Dragone è stato attaccato a più riprese per aver limitato la libertà degli uiguri e violato i loro diritti, eppure nessuno di quelli che hanno puntato il dito contro Pechino ha mai provato a scavare in profondità, cercando di capire quanto sia reale, pericolosa e concreta la minaccia del Movimento islamico del Turkistan.

Una seria minaccia. L’Etim non è attiva in Cina ma, grazie a un complesso reticolato che unisce i suoi membri ad alcuni cittadini uiguri reclutati dallo stesso gruppo terroristico, riesce ad agire indisturbata in tutto lo Xinjiang. Come spiega una fonte di polizia “l’Etim è un’organizzazione terroristica che ha radici al di fuori del nostro Paese ma dall’esterno riesce comunque a dare ordini su come colpire la Cina”. Pechino è presto venuta a conoscenza dei trucchi del Movimento islamico del Turkistan orientale, ha preso le adeguate contromosse e ha imparato a fare i conti con nuove forme di terrorismo, come la pianificazione delle azioni terroristiche online. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, è stato chiarissimo nell’esplicare la situazione: “Lo diciamo ormai da molto tempo. Le forze dell’Etim sono una seria minaccia per la sicurezza della Cina e siamo disposti a lavorare con la comunità internazionale per annientare i separatisti dell’Etim che le forze terroristiche”. In fin dei conti il messaggio lanciato dalla Cina all’Occidente è chiaro: abbiamo un problema comune, cioè il terrorismo. Aiutiamoci a vicenda per vincere questa importante sfida.

Ozil difende la popolazione uigura, la Cina cancella dalla tv Arsenal-Manchester City. La tv di Stato ha deciso di non trasmettere più il big-match dopo le frasi del tedesco contro la persecuzione nei confronti della popolazione uigura. La Federcalcio del Paese asiatico sottolinea: "Un'opinione inadeguata e oltraggiosa, delusi dal giocatore". La Repubblica il 15 dicembre 2019. Il tweet di Mesut Ozil sta creando un caso diplomatico in Cina. Il centrocampista tedesco si è espresso contro la persecuzione della Cina nei confronti della popolazione uigura (a minoranza islamica) nella regione nord-occidentale dello Xinjiang e ha criticato la comunità musulmana che ha sempre taciuto sull'argomento. "In Cina il Corano viene bruciato, le moschee sono state chiuse, le scuole teologiche islamiche, le madrase sono state bandite, gli studiosi religiosi sono stati uccisi uno per uno. Nonostante tutto, i musulmani stanno zitti", aveva scritto il centrocampista dell'Arsenal. Un'opinione non gradita in Cina, tanto che la tv di Stato Cctv ha annunciato che non trasmetterà la partita Arsenal-Manchester City in programma oggi. L'Arsenal si era subito dissociato dal proprio giocatore sottolineando sul proprio account ufficiale che "si trattava esclusivamente di un'opinione personale di Ozil. Come squadra di calcio, l'Arsenal aderisce sempre al principio di non essere coinvolto in politica". Una frase che non è bastata a evitare la decisione della Cctv di prendere le distanze dall'Arsenal.

La federcalcio cinese: "Frasi inadeguate, delusi da Ozil". Il tweet del giocatore aveva ricevuto risposte inviperite. C'è chi ha mostrato una maglia da calcio di Ozil strappata accanto a un paio di forbici e altri che hanno chiesto che venga espulso dal club. La Federcalcio cinese si è detta "oltraggiata e delusa" dalle osservazioni di Ozil, descrivendole "inadeguate". "I commenti di Ozil sono indubbiamente dannosi per i fan cinesi che lo seguono da vicino, e allo stesso tempo feriscono anche i sentimenti dei cinesi. Questo è qualcosa che non possiamo accettare", ha detto un dirigente della federazione. Le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani stimano che tra 1 milione e 2 milioni di persone, per lo più etnici musulmani uiguri, siano stati arrestati in condizioni difficili nello Xinjiang come parte di quella che Pechino chiama una campagna anti-terrorismo. La Cina ha ripetutamente negato qualsiasi maltrattamento agli uiguri.

Da Corriere.it l'8 ottobre 2019. Gira da tempo nel mare magnum del web. Il video mostra uomini in fila, in divisa da carcerati, mentre scendono da un treno con una benda sugli occhi e le mani legate dietro la schiena. Altri sono in attesa, seduti con le gambe incrociate su quella che sembra la banchina di una stazione. Accanto a loro decine di uomini con le divise delle forze speciali della polizia cinese. A un certo punto, i carcerati si alzano e con calma, scortati dagli agenti, si dirigono verso degli autobus in attesa. Dalle scritte sulle loro giacche si capisce che si trovano nella regione di Kashgar, nell’estremo Ovest dello Xinjiang, a sua volta la provincia più occidentale della Repubblica popolare cinese, dove è maggioranza l’etnia islamica degli uiguri. Secondo la Cnn, che l’ha trasmesso, il video risale a una settimana fa ed è stato girato da un drone. L’emittente All News americana non ha potuto verificarne l’autencitià, le autorità di Pechino si sono limitate a rispondere che «reprimere i crimini secondo la legge è una pratica comune a tutti i Paesi» e che «la repressione dei crimini nello Xinjiang non è mai stata collegata a etnie o religioni». E ancora: «Il trasporto di detenuti da parte delle autorità giudiziarie - infine - rientra tra le normali attività giudiziarie». I prigionieri in Cina vengono regolarmente trasportati con gli occhi bendati. Non è chiaro se gli uomini siano detenuti per reati o per altri motivi. L’account YouTube che ha caricato il video lo ha descritto come una dimostrazione della «repressione a lungo termine dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte del governo cinese nella regione autonoma uigura dello Xinjiang». Un funzionario dell’intelligence occidentale ha detto alla Cnn di ritenere autentico il video. «La Cina deve essere chiamata a rispondere di questo comportamento», ha detto il funzionario, con cui «sembra tentare di spazzare via l’intera identità uigura».

Quella caccia della Cina agli uiguri in Turchia con il supporto di Ankara. Federico Giuliani su it.insideover.com il 28 Agosto 2019. In Turchia vivono decine di migliaia di uiguri fuggiti dallo Xinjiang. In questa regione cinese autonoma, la più occidentale e più estesa della Cina, ci sono circa 22 milioni di persone, il 46% dei quali di etnia uigura, cioè una minoranza etnica musulmana riconosciuta da Pechino. Il governo cinese ha sempre cercato di cinizzare gli uiguri, imponendo loro costumi e usanze locali e, al tempo stesso, limitando le pratiche legate alla religione musulmana. Negli anni scorsi Pechino ha inasprito il controllo sulla regione a causa della piaga del terrorismo islamico, e adesso, grazie alle nuove tecnologie, tra cui telecamere a riconoscimento facciale e applicazioni in grado di schedare ogni singolo cittadino, la morsa delle autorità centrali è diventata più asfissiante. Alcune inchieste hanno svelato addirittura l’esistenza di veri e propri campi di prigionia in cui è ammassato almeno un milione di uiguri; la Cina nega tutto e parla di semplici scuole di riabilitazione. In ogni caso, qualunque sia la verità, molti uiguri hanno deciso di fuggire da un ambiente diventato ormai troppo ostile.

Ankara cambia idea. Quando decidono di lasciare lo Xinjiang, gli uiguri cercano per lo più rifugio nei paesi islamici. C’è chi è fuggito in Egitto e chi in Afghanistan ma c’è anche chi ha cercato riparo negli “stan”, ovvero Tajikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Ma il flusso più grande è quello che finisce in Turchia, dove l’affinità culturale degli uiguri con la popolazione locale è rafforzata dall’origine turcofona della minoranza cinese. Secondo alcuni dati sarebbero circa 35000 gli uiguri che vivono all’interno del territorio turco, per loro un porto sicuro fin dai primi anni ’60. La Turchia, tra l’altro, è l’unico paese musulmano che nei mesi scorsi ha espresso preoccupazione per la situazione nello Xinjiang. Ma la situazione adesso sembra essersi capovolta, visto che il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, ha cambiato completamente idea sull’argomento, arrivando ad affermare – sostengono i media cinesi – che “l’esistenza degli uiguri in Cina è felice”. La dichiarazione è stata confutata dallo staff presidenziale, ma quel che è certo è che Ankara ha stretto nuovi accordi con Pechino: culturali, commerciali ma anche in materia di sicurezza. Il tema principale è la lotta al terrorismo islamico e molti uiguri, per la Cina, sono pericolosi terroristi.

Le pressioni di Pechino. Proprio come in Egitto, anche in Turchia la Cina ha iniziato la sua caccia agli uiguri fuggiti dallo Xinjiang. Secondo quanto riportato dal Financial Times, il rischio che Ankara decida di accontentare Pechino stanando gli uiguri presenti nel proprio territorio in nome dei prossimi accordi commerciali con il Dragone, diventa più grande ogni giorno che passa. Ci sono già stati diversi casi in cui le autorità turche hanno arrestato diversi uiguri, infilandoli in centri di detenzione prima di rispedirli in Cina. “Gli uiguri che vivono in Turchia – ha detto Seyit Tymturk, a capo di un gruppo a sostegno dei diritti della minoranza etnica cinese – sono sul filo di un rasoio. Sappiamo che la Cina sta pressando il governo turco”.

Uiguri rispediti in Cina. Uno dei motivi che può spiegare il voltafaccia della Turchia in merito alla questione uigura è il prestito milionario fatto recapitare dalla Cina ad Ankara: 3,6 miliardi di dollari provenienti da una banca statale cinese. Ai quali si aggiunge un altro miliardo di dollari trasferiti dalla Banca Centrale cinese per aumentare le riserve valutarie della Turchia. In ogni caso, gli attivisti hanno lanciato l’allarme: centinaia di uiguri sarebbero tenuti prigionieri in centri di detenzione turchi, mentre altri 40 avrebbero perso la loro residenza. Il ministro degli Interni turco, Suleyman Soylu, sostiene che la Turchia non stia mandando alcun uiguro in Cina, anche se i fatti dimostrerebbero altro. Alcune testimonianze confermerebbero infatti la consegna di uiguri a funzionari cinesi. Le regole internazionali proibiscono ai governi di inviare le persone in paesi in cui rischiano di essere perseguitate.

Xinjiang, le Nazioni Unite contro la Cina. Pechino risponde: “Non interferite”. Federico Giuliani il 14 luglio 2019 su it.insideover.com. Una lettera firmata da 22 Paesi e indirizzata alle Nazioni Unite per condannare le politiche repressive utilizzate dalla Cina nella regione autonoma dello Xinjiang. Il messaggio è stato recapitato al presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Coly Seck, e all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet. Gli ambasciatori firmatari hanno puntato il dito contro i metodi adottati da Pechino per controllare gli uiguri, la minoranza etnica turcofona e musulmana che abita l’estremo occidente cinese. A preoccupare la comunità internazionale ci sono pratiche come la detenzione su larga scala, la sorveglianza massiccia e le tante restrizioni cui devono sottostare gli abitanti della regione.

La risposta di Pechino: “Basta diffamare la Cina”. La risposta della Cina non si è certo fatta attendere. Pechino, stanco del giudizio dell’Occidente, non ha esitato a controbattere: “La lettera ignora i fatti. Ha diffamato la Cina con accuse ingiustificate sulla tutela dei diritti umani palesemente politicizzati e interferito gravemente negli affari interno del Paese”. Il messaggio del governo, veicolato dal portavoce del ministro degli Esteri cinese, Geng Shuang, è durissimo e suona come l’ennesimo avvertimento alle potenze straniere di non intromettersi nella politica interna della Cina. Geng ha invitato i firmatari della lettera ad abbandonare i pregiudizi, rispettare la Carta delle Nazioni Unite e non usare il tema dello Xinjiang per interessi personali. “Il governo e il popolo cinese – ha aggiunto il portavoce – hanno l’ultima parola sulle questioni inerenti allo Xinjiang e non possono né devono essere ostacolati da nessun attore esterno”.

La comunità internazionale e i diritti umani. Per dimostrare che il contenuto della lettera è una falsità, la Cina ha invitato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, diplomatici, media e studiosi vari a visitare lo Xinjiang per confrontare le loro accuse con la presunta realtà dei fatti. I Paesi che hanno firmato la missiva hanno invitato il governo cinese a rispettare i diritti umani, la libertà religiosa e gli obblighi internazionali; cosa che Pechino non starebbe facendo a giudicare dal milione di uiguri detenuti in appositi centri di detenzione nello Xinjiang. La Cina ha sempre ribadito come le strutture tirate in ballo non siano campi di prigionia bensì centri di formazione professionale adibiti al recupero di persone entrate in contatto con il virus dell’estremismo islamico. Dopo due rivolte degli uiguri contro il potere centrale, nel 2009 e nel 2014, il Dragone ha scelto di usare il pugno duro per spegnere un pericoloso focolaio che avrebbe potuto estendersi in tutta la Nazione: da allora, in quest’area turbolenta, non si sono più registrati scontri.

Xinjiang sotto controllo. Tuttavia il prezzo da pagare, per gli abitanti, è stato altissimo. Molti musulmani devono sottostare a limitazioni pesanti e accettare un controllo ossessivo da parte delle autorità, che adottano i classici metodi tradizionali, come le perquisizioni, affiancati dalle più moderne tecnologie. È così che le telecamere dotate di riconoscimento facciale e particolari applicazioni in forza alla polizia consentono a Pechino di monitorare ogni passo, ogni acquisto, ogni intenzione di ciascun cittadino dello Xinjiang. Nelle ultime settimane due ulteriori notizie hanno spinto la comunità internazionale a intervenire con la lettera sopra citata. In particolare ci riferiamo alla scelta della Cina di separare i bambini dalle famiglie per contenere il rischio che i piccoli possano crescere a contatto con valori collegabili all’estremismo islamico, e al collocamento degli stessi in appositi campi di rieducazione.

L’assenza di Italia e Stati Uniti. Tornando alla lettera, tra i 22 Paesi firmatari troviamo, per l’Asia, Giappone, Canada, Australia; per l’Europa, Regno Unito, Svizzera, Francia, Germania. Mancano sia l’Italia che gli Stati Uniti: né Roma né Washington hanno deciso di sollevare il problema della violazione dei diritti umani nello Xinjiang alla Cina. Scelta geopolitica? Probabile, considerando che gli americani stanno cercando di raggiungere la pax commerciale con Pechino, mentre l’Italia ha da pochi mesi firmato un memorandum d’intesa per prender parte alla Nuova Via della Seta voluta da Xi Jinping.

Gli uiguri nei campi di detenzione. La «rieducazione» dei musulmani. Pubblicato giovedì, 01 agosto 2019 da Paolo Salom, inviato a Urumqi e Kashgar, su Corriere.it. Xinjiang, l’ultima frontiera. Conosciuta un tempo come Turkestan Orientale, la provincia cinese si estende nell’estremo Ovest del Paese, fino a lambire l’Asia Centrale, punto di incontro (e scontro) per millenni di popolazioni dalle origini più diverse: nomadi e stanziali, islamiche e buddiste, cristiane e animiste. Grande tre volte e mezzo l’Italia, il Xinjiang negli ultimi anni è stato il centro di disordini e sanguinosi attentati anti cinesi che hanno provocato la dura reazione del governo centrale. Secondo rapporti stilati da organizzazioni internazionali, tra le quali Human Rights in China, da un milione a un milione e mezzo di uiguri — l’etnia turcofona di fede musulmana che costituisce la maggioranza nella provincia — sarebbero finiti senza processo in centri di rieducazione per sottoporsi a un «lavaggio del cervello» con lo scopo di estirparne tutte le «idee estremiste e le pulsioni separatiste», incompatibili con la convivenza in una realtà come quella della Repubblica Popolare. Pechino, oggetto di una lettera di condanna da parte di 22 Paesi (tra i quali l’Italia ma assenti gli Usa) per queste detenzioni extragiudiziali, ha risposto negando decisamente l’esistenza di «campi di concentramento» nella regione e confermando soltanto la presenza di «istituti educativi e vocazionali» dove alcune migliaia di musulmani dai 20 ai 40 anni, uomini e donne, accedono «su base volontaria». «Ma se questo fosse vero — ci dice da New York Sharon Hom, direttore esecutivo di Human Rights in China — perché nessuno può lasciare di sua iniziativa questi campi? Perché i parenti non hanno la possibilità di vedere i loro cari?». Il Corriere è stato invitato a partecipare a una rara visita ad alcuni di questi centri per la rieducazione degli uiguri, insieme con i giornalisti di altri 24 Paesi, compresi rappresentanti del mondo islamico e della Turchia, forse la nazione più sensibile alla sorte di questi suoi lontani «parenti». Naturalmente, nessuno si aspettava di entrare in un luogo chiuso da filo spinato e protetto da torrette di guardia e agenti armati, così come denunciato soprattutto in Occidente: «In quelle zone — ci dice ancora senza mezzi termini Sharon Hom — è in atto un genocidio culturale». Tuttavia, l’opportunità di superare una barriera di diffidenza e paura, l’occasione di osservare in prima persona una realtà tanto complessa ha consigliato di accettare l’offerta, così come prima di noi aveva deciso di fare la Bbc. Il programma, intenso, ha avuto inizio con una mostra, cruda e senza filtri, sulle azioni terroristiche di estremisti islamici, a Urumqi, il capoluogo dello Xinjiang, come in altre città cinesi: Pechino compresa. Quindi tappa all’Istituto islamico che prepara i futuri imam «di Stato», diretto con voce profonda e piglio militaresco dallo Sheik Abdu Rakef, capace di interagire in arabo fluente con i reporter arrivati dall’Arabia Saudita e dall’Egitto, o in cinese con gli accompagnatori della variegata compagine mediatica. «Il governo della Repubblica Popolare ha sempre dato grande attenzione allo sviluppo della religione islamica», assicura lo sheik (titolo conseguito all’Università di Al Azhar, al Cairo) davanti a una classe vicina al diploma che porterà i nuovi leader religiosi nelle tante moschee della provincia. «Basta che fede e politica restino separati». Più esplicita la signora Tian Wen, segretaria locale del Pcc: «Ci accusano di aver costruito campi di concentramento. Ma la verità è un’altra: noi cerchiamo di trasformare il loro desiderio di morte in desidero di vita». È davvero così? Secondo il ricercatore tedesco Adrian Zenz, unico occidentale ad aver consultato documenti ufficiali del governo cinese, questi centri «sono luoghi di internamento coercitivo», non certo «scuole vocazionali». Nel «Centro di educazione professionale» (Jiaopei zhongxin) della Contea di Shule, a pochi chilometri da Kashgar, antico snodo carovaniero dell’estremo Ovest cinese, sono ospitati circa mille «studenti», insieme a venti cuochi adibiti alla loro mensa e otto guardiani (disarmati) che si danno il cambio alla porta carraia. I giornalisti stranieri, osservati con malcelata curiosità dai ragazzi che affollano le aule, sono accolti dal direttore Mehmet Ali, 45 anni, anche lui uiguro: «Questa scuola — dice senza enfasi — è stata fondata nel 2018. Vedrete voi stessi: chi studia qui ha l’opportunità di migliorare la propria capacità di comunicare con il resto del Paese, imparando il mandarino, un mestiere e leggi e costituzione della nostra Patria». L’accento sul rispetto di leggi e costituzione della Cina è costante. In verità, appare chiaro che l’aspetto che si vuole chiarire e sul quale si basa la metodologia di insegnamento (ripetizione in coro dei precetti guidati dal docente di turno) — una costante nelle scuole dell’Impero — è che non si può infrangere la «pax sinica», per nessun motivo. All’interno del mondo che si riconosce in oltre tremila anni di storia e cultura, si dà per scontato il ruolo guida degli Han (l’etnia cinese propriamente detta) che al momento opera attraverso il Partito comunista ma che in altre ere guidava l’immenso crogiolo di civiltà per mezzo della figura confuciana del funzionario-letterato: in una parola, il Mandarino. E i racconti dei giovani che accettano di «confessare» i loro «crimini» davanti ai giornalisti stranieri (nessuno scommette sulla spontaneità delle loro parole) interpretano fino in fondo la necessità di «riconoscimento attraverso l’autocritica» dell’autorità nazionale: «Ero uno sciocco, mi sono fatto conquistare da un’ideologia violenta», dice Aizaiti Ali, 25 anni. «Ho imparato su Internet come fare una bomba», recita Kuer Banjiang, 23 anni. C’è anche una ragazza, Kurban Gul, 22 anni: «Ho diffuso video jihadisti. Ho creduto alla propaganda che mi insegnava a odiare i cinesi perché pagani».

Più tardi, il Corriere si è trovato, da solo, in una camerata, linda e ordinata, dove uno «studente» si rilassava prima della mensa suonando la chitarra: nei suoi occhi non c’era tristezza, ma una serena rassegnazione e la consapevolezza di non avere altra strada davanti a sé. «Negli ultimi trenta mesi — afferma con prudenza la signora Tian Wen — non ci sono stati attentati: vuol dire che i nostri sistemi sono efficaci». Ai reporter resta il ricordo di una visita a vere scuole, istituti professionali che potrebbero appartenere ai normali circuiti educativi. Ma anche la consapevolezza di non poter raccontare ciò che non si è potuto vedere.

Bambini rieducati e separati da genitori: così la Cina inasprisce la lotta all’islamismo. Federico Giuliani su it.insideover.com l'8 luglio 2019. Dieci anni fa lo Xinjiang fu teatro di una di una delle rivolte più violente mai verificatesi in Cina, una vera e propria sommossa popolare che provocò numeri da guerra civile: 197 morti, quasi 2.000 feriti, veicoli ed edifici distrutti. Il peggio arrivò però nei giorni successivi, quando Pechino scelse di usare il pugno duro per risolvere una volta per tutte il nodo degli uiguri, la minoranza etnica cinese turcofona e musulmana che abita la provincia più occidentale della Repubblica Popolare. Il governo centrale ordinò all’esercito di rastrellare Urumqi, la capitale della regione autonoma dello Xinjiang, per arrestare gli elementi sospettati di essersi ribellati e quelli accusati di estremismo islamico. Da allora la Cina ha incrementato a dismisura il controllo di questa zona caldissima, che secondo le autorità sarebbe la tana di pericolosi terroristi islamici.

La storia dei “bambini quasi orfani”. Numerose testimonianze hanno sottolineato come nel far questo la Cina abbia ripetutamente – in alcuni casi anche volutamente – violato i diritti degli uiguri. Dopo i campi di rieducazione dove sarebbero stipati milioni di cittadini, varie leggi restrittive, telecamere e nuove tecnologie a riconoscimento facciale per monitorare gli spostamenti di ogni singolo individuo, arrivano altri particolari su come Pechino starebbe conducendo la sua guerra contro la minaccia del terrorismo islamico. Secondo quanto riportato dalla Bbc le autorità starebbero allontanando migliaia di bambini uiguri dalle rispettive famiglie per educarli alla cultura cinese. Mentre i genitori, accusati di terrorismo e separatismo, sono relegati in appositi campi di rieducazione (per alcuni vere e proprie prigioni a cielo aperto), i figli finirebbero nelle mani dello Stato, pronto ad accoglierli in particolari convitti. Qui, i piccoli uiguri, assicurano le autorità, riceverebbero assistenza a tempo pieno fin dalla più tenera età e verrebbero tenuti lontani dal rischio di finire contaminati dalla piaga islamica.

Un genocidio culturale? I “convitti della pace” assomiglierebbero più a carceri che non a semplici scuole; alte mura di cinta circonderebbero gli edifici mentre sofisticati sistemi di sorveglianza eviterebbero intrusioni dall’esterno ma soprattutto fughe dall’interno. Alcuni documenti riservati, poi pubblicati dalla stampa internazionale, dimostrerebbero come il governo cinese abbia diramato le direttive su come gestire il fenomeno dei cosiddetti “bambini quasi orfani”; quasi, perché in realtà i loro genitori sono vivi ma relegati all’interno di campi di rieducazione. Di fronte a queste accuse la Cina non si scompone e afferma che certe misure sono necessarie per garantire il mantenimento della pace e della stabilità sociale. Alcuni esperti, come l’accademico tedesco Adrian Zenz, parlano invece di un genocidio culturale mirato per sradicare la minoranza musulmana presente nello Xinjiang.

Affari e stabilità. Sul tema dei bambini, un funzionario del Dipartimento di Propaganza dello Xinjiang ha negato quanto riportato dai media internazionali: “Il governo non si prende cura dei bambini. Inoltre se un’intera famiglia è stata avviata alla formazione professionale, ebbene vuol dire che quella famiglia aveva un grave problema”. E per formazione professionale si intende un intenso lavaggio del cervello per estirpare dai cittadini più radicali ogni traccia di cultura islamica. Le autorità sono inflessibili e i cittadini rischiano la prigione anche per azioni come la preghiera, la lettura del Corano o contatti con l’estero. In passato alcuni gruppi dello Xinjinag erano effettivamente entrati in contatto con organizzazioni terroristiche internazionali, e per questo motivo Pechino ha subito scelto di adottare una linea durissima. A maggior ragione considerando che quest’area è fondamentale per la Nuova Via della Seta voluta da Xi Jinping; il progetto infrastrutturale del Dragone passa da Urumqi e dintorni e nessuno deve permettersi di minare la stabilità dell’area.

La Cina non dà tregua all’islam: così controlla gli uiguri. Scrive il 23 aprile 2019 Davide Bartoccini su Gli Occhi dell a Guerra. La Cina sta impiegando l’intelligenza artificiale con fini da grande fratello orwelliano. Non è un mistero infatti che Pechino stia sfruttando da annile tecnologie più sofisticate per monitorare dissidenti e altre entità nella popolazione che la sua discrezione possano minare la sicurezza interna. L’obiettivo è quello di poter tracciare e reprimere, all’occorrenza, il dissenso o eventuali azione sovversive; ma nel mirino delle telecamere di questo grande fratello però sta finendo soprattutto una minoranza etnica, quella degli Uiguri. Secondo quanto riportato dal New York Times, l’intelligenza artificiale (A.i) dell’enorme apparato di controllo cinese starebbe impiegando un sofisticato software di riconoscimento facciale che ha già scannerizzato mezzo milione di persone nell’ultimo mese, solo per controllare la minoranza musulmana degli uiguri. Già sottoposti ad una silenziosa quanto pesante repressione che avrebbe portato all’internamento in campi di prigionia e rieducazione e all’emigrazione di altrettante lungo i confini occidentali. Questa sviluppo dell’A.i. per il riconoscimento facciale settato su base etnico-razziale ha sollevato pensati accuse che si rifanno alla violazione dei diritti umani nei confronti di questa minoranza e che proiettano il rischio di una proliferazione di azioni antidemocratiche nel futuro. Questa nuova tecnologia prodotta da un nucleo di startup cinesi attive nell’ambito del machine learning, sfrutterebbe le immagini raccolte dalla rete di telecamere di sorveglianza che coprono l’intero territorio cinese per riconoscere e monitorare gli spostamenti di quegli individui che secondo la loro fisionomia possono essere identificati come appartenenti alla minoranza degli Uiguri, una popolazione di undici milioni di persone residente nella regione occidentale dello Xinjiang. L’impiego dell’intelligenza artificiale in questa chiave rischia non solo di aumentare il tiro di una dura repressione sulla quale non si può fare completa luce, ma anche quello di rendere la Cina pioniera in un nuovo tipo di controllo antidemocratico delle vita delle persone. Il riconoscimento sulla base dei tratti somatici, connesso con il potenzialmente rischio di quello che è stato definito “razzismo automatizzato“, fa apparire i precedenti sistemi di sorveglianza della popolazione di un regime – si pensi alle note intercettazioni ambientali della Stasi nella Drr – degli apparati dilettanti, e rispolvera il futuro distopico immaginato dallo scrittore George Orwell nel romanzo 1984. Il significato dell’espressione privacy invece, un’utopia. È noto che in Cina le autorità già impiegano un sistema di tracciamento del Dna  che nello Xinjiang ha l’obiettivo di monitorare l’aumento della minoranza degli Uiguri. Questo nuovo sistema non farebbe altro che ampliare le capacità di controllare ogni tipo di spostamento di soggetti ritenuti pericolosi solo in base alla loro discendenza “etnica”. Il sistema di controllo è stato elaborato fornendo ad un software miglia di fotografie di uomini, donne e bambini, di questa minoranza, che denota particolari tratti somatici – simili a quelli popolazioni centro-asiatiche e nettamente differenti dalla aggiorna Han – per permettere al sistema di poterli individuare con maggiore facilita, affinando la ricerca automatica dell’intelligenza artificiale e permettendola di concentrarsi sulla minoranza musulmana. Tale controllo è in particolare destinato a monitorare gli spostamenti ritenuti sospetti nei ricchi centri orientali di Hangzhou e Wenzhou e nella regione costiera del Fujian. Le fonti del New York Times citano almeno 5 individui che sono a conoscenza di questa discutibile condotta adottata da Pechino, che sembra non avere alcuna remora nell’accostare l’odierno partito comunista cui è a capo il segretario Xi Jinping a quello controllato dal misterioso Grande Fratello. Almeno per quanto riguarda la minoranza degli uiguri.

·        Così la Russia di Putin combatte il terrorismo islamico.

Così la Russia di Putin combatte il terrorismo islamico. Giovanni Giacalone il 18 maggio 2019 su it.insideover.com. Nella mattinata di giovedì a Mosca agenti del Fsb hanno arrestato il 26enne Georgy Guev, originario dell’Ossezia settentrionale, con l’accusa di aver inviato all’Isis denaro per il valore di 50 milioni di rubli (circa 700mila euro). Durante le perquisizioni nella sua abitazione sono stati rinvenuti diversi telefoni cellulari, numerose carte di credito, tablet, pc e chiavette che sono ora al vaglio degli inquirenti. Il giorno precedente, a Stavropol, le forze di sicurezza avevano arrestato un soggetto legato all’Isis e sospettato di preparare attentati nella zona mentre il 4 marzo erano le autorità daghestane a prelevare all’aeroporto di Makhachkala il 30enne Biysoltan Djamalov, individuato in Turchia, arrestato e rimpatriato. Il soggetto in questione era nella lista nera delle autorità russe in quanto membro dell’Isis e foreign fighter in Siria dal settembre 2016 al gennaio 2019, come da egli stesso confessato durante l’interrogatorio. Assieme a Djamalov è stata arrestata e rimpatriata anche una donna che era assieme a lui, accusata di aver raccolto e trasferito fondi per un valore di 300mila rubli ai jihadisti in Siria. Venivano inoltre scoperti due nascondigli con all’interno arsenali presso il villaggio ceceno di in Stalskoe (distretto di Kizilyurt) e in una zona boscosa a Urus-Martan, Cecenia.

Una panoramica sul jihad in Russia da inizio anno. Nei mesi di marzo e aprile sono stati segnalati almeno 13 arresti messi in atto in territorio russo (Caucaso settentrionale escluso) a Stavropol, Primorsky e Mosca mentre altri 4 venivano eliminati in scontri a fuoco a Balki e Tjumen. Per quanto riguarda il Caucaso settentrionale, venivano segnalate diverse operazioni anti-terrorismo che hanno portato ad arresti ed eliminazioni di jihadisti tra cui quella di Sahib Abakarov, classe 1996, ucciso a febbraio in un villaggio nella zona di Derbent dopo uno scontro a fuoco. Il jihadista, legato all’Isis, stava preparando un attentato assieme alla propria cellula e all’interno del suo nascondiglio è stato rinvenuto un giubbotto esplosivo, armi, munizioni e materiale per la fabbricazione di ordigni esplosivi. Il 15 marzo invece due individui di 41 e 29 anni venivano arrestati in Daghestan con l’accusa di aver trasferito 10 milioni di rubli all’Isis via internet, episodio simile a quello di qualche giorno fa a Mosca che ha coinvolto Guev. Vale inoltre la pena ricordare l’attentato del 12 gennaio in Inguscezia che ha preso di mira il direttore del “Center for Combating Extremism”, Ibragim Eldjarkiev, rimasto fortunatamente illeso dopo che alcuni jihadisti hanno aperto il fuoco contro la sua auto. Ad aprile invece in Kabardino-Balkaria le forze di sicurezza hanno arrestato un soggetto legato all’Isis con decennale militanza nel jihadismo kabardino nonché membro della banda “Baksan”.

La Cecenia. Per quanto riguarda la Cecenia, vanno segnalati una serie di attentati messi in atto dai jihadisti wahabiti, il primo avvenuto a gennaio a Sunzha, quando un individuo armato poi identificato come Mansour Beltoev, apriva il fuoco e feriva due uomini della Guardia Nazionale per poi fuggire nel bosco. Beltoev, che risultava già nella black list federale, veniva individuato ed abbattuto qualche ora dopo dall’unità “Terek”. L’attacco veniva menzionato sulla rivista dell’Isis “al-Naba” con tanto di foto dell’attentatore. Il 23 aprile tra Grozny e la capitale daghestana di Makhachkala veniva invece portata a termine un’operazione anti-terrorismo con l’arresto di cinque terroristi dell’Isis. La cellula stava pianificando attentati contro le forze di sicurezza a Grozny e nella città daghestana di Kaspiysk. A metà maggio veniva poi sgominata un’altra cellula jihadista capeggiata dal 21enne Ismail Magomadov, alla quale veniva attribuito l’attacco dello scorso 22 aprile contro alcuni agenti a Urus-Martan. Nel frattempo da Washington viene reso noto che il ministero del Tesoro ha imposto sanzioni economiche nei confronti dell’unità cecena di risposta immediata anti-terrorismo “Terek” e il suo comandante, Abuzayed Vismuradov, oltre ad altri quattro cittadini russi, con l’accusa di tortura e violazione dei diritti umani, in particolare in relazione ai casi Magnitsky e Nemtsov. Il provvedimento, meglio noto come “Sergei Magnitsky Rule of Law Accountability Act”, veniva attuato dal Congresso e firmato dall’ex presidente Obama nel dicembre del 2012. Una decisione che ha destato perplessità in Russia, considerato che l’unità “Terek” è una delle unità speciali che si occupa del contrasto al terrorismo e all’estremismo di matrice ikhwanita e wahhabita in Cecenia.

L’attuale situazione e una previsione a breve termine. Sono diversi gli aspetti che emergono in questi primi mesi del 2019 per quanto riguarda l’attività jihadista in Russia e Caucaso settentrionale. Innanzitutto è bene evidenziare come alcune delle operazioni anti-terrorismo volte a sgominare cellule jihadiste si siano verificate in zone relativamente remote come Tjumen, città di circa 720mila abitanti della Siberia occidentale non lontana dal confine kazako e a Primorsky, nell’estremo oriente russo, cellule rispettivamente legate a Isis e Jamat al-Tawhid waal Jihad. Ciò potrebbe indicare che le cellule jihadiste stanno cercando di individuare zone plausibilmente meno controllate dalle forze di sicurezza rispetto alle aree metropolitane della Russia occidentale e nel Caucaso, in modo da poter portare a termine attacchi. Un piano che, almeno fin’ora, non è ha però dato alcun esito. In secondo luogo va tenuto conto degli arresti fatti nei confronti di finanziatori dell’Isis, a Mosca e Makhachkala, per un valore di almeno 60 milioni di rubli (840mila euro circa). Nel caso dell’arresto di giovedì scorso a Mosca, Guev era in possesso di una notevole quantità di carte con le quali avrebbe operato transazioni a favore dei jihadisti; il materiale rinvenuto nella sua abitazione lascia pensare a una rete finanziaria ben più ampia.

Per quanto riguarda il Caucaso settentrionale, risulta evidente il tracollo jihadista dell’emirato del Caucaso e di quanto rimane dell’Isis. Il “Califfato” fa fatica a far breccia in Cecenia, Daghestan e le repubbliche limitrofe e ciò è dovuto a diversi fattori: in primis le unità jihadiste confluite in Siria sono state decimate dall’intervento militare congiunto russo e siriano. Come evidenziato dall’analista Mikhail Roschin, i sopravvissuti al jihad riscontrano enormi difficoltà a rientrare nelle zone d’origine in quanto le forze di sicurezza controllano minuziosamente i confini; non resta loro dunque altro che cercare di reclutare membri delle bande jihadiste locali tramite canali “virtuali”, chiaramente sotto controllo. Il punto è che queste bande (così denominate in quanto formate spesso da banditi che hanno abbracciato per convenienza la causa jihadista, mentre altri sono “residuati” dell’ex Emirato del Caucaso) sono frammentate, destrutturate, prive di una struttura che le collega tra loro e senza una catena di comando. In aggiunta sono tutte ben note ai servizi di sicurezza russi che, come dimostrano i fatti, non riscontrano particolari difficoltà ad individuarle e neutralizzarle. Va inoltre evidenziato come una delle prevalenti modalità operative di queste bande, che predilige gli attacchi a sorpresa contro agenti delle forze di sicurezza, negli ultimi mesi ha quasi sempre portato all’uccisione degli stessi terroristi, mentre negli anni precedenti il numero di vittime tra gli agenti era ben più elevato. Risulta poi particolarmente efficace il progetto di prevenzione alla radicalizzazione messo in atto dalle istituzioni federali assieme alle comunità islamiche ufficiali che puntano a mostrare ai giovani musulmani la corretta e moderata visione religiosa, basata anche su peculiarità legate all’islam autoctono, con notevole influenza sufi, che nulla ha a che spartire con il wahabismo e l’islam dei Fratelli Musulmani, ideologie importate dall’estero con obiettivi politici.

Da Mosca resta comunque alta la guardia in quanto l’Isis, dopo aver perso il territorio in Siria, cercherà in tutti i modi di colpire in territorio russo; del resto è stata proprio la campagna militare di Mosca a dare i colpi definitivi al Califfato. In aggiunta in territorio federale restano attivi gruppi come Jamat al-Tawhid waal Jihad, Hizb ut-Tahrir e al-Qaeda. Bisogna inoltre tener presente che oltre al rientro di potenziali jihadisti del Caucaso c’è anche tutta la componente legata ai foreign fighters provenienti dalle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e non a caso tra gli arrestati dei primi mesi del 2019 erano presenti diversi soggetti originari di quelle zone.

·        Gandhi: il «traditore» degli indù.

L’India non concede la cittadinanza ai migranti musulmani. Andrea Massardo su it.insideover.com l'11 dicembre 2019. Un disegno di legge proposto dal ministro dell’Interno indiano, Amit Shah, vorrebbe concedere la cittadinanza indiana a tutti gli immigrati arrivati prima del 2015 da Bangladesh, Pakistan ed Afghanistan sottoponendola ad una condizione: che non siano di fede musulmana. Come mai però in India, Stato che da sempre ha combattuto le ostilità tra le varie religioni all’interno del Paese, si è deciso di proporre una legge di questa portata, considerando anche la delicata situazione della provincia settentrionale del Kashmir? Secondo quanto dichiarato dai portavoce del governo, la scelta sarebbe stata indirizzata con lo scopo di garantire le minoranze dei Paesi vicini, le quali negli ultimi anni hanno visto una ingente riduzione dei propri diritti. Tuttavia, il disegno di legge ha creato un discreto malcontento tra la minoranza musulmana presente in India, con centinaia di manifestanti che si sono riversati in diverse piazze dell’India in segno di protesta. I numeri più importanti si sono registrati nella città di Ahmedabad.

Rischio tensioni con la minoranza musulmana. La scelta del governo è avvenuta in un periodo particolarmente delicato, con la provincia del Kashmir, confinante con il vicino Pakistan, in cui sono in atto disordini civili a seguito della revoca degli statuti speciali di cui godeva la regione. La folta minoranza musulmana potrebbe intendere la mossa del governo come ostile ai fedeli della propria religione, aggravando una situazione già al momento travagliata. Non bisogna sottovalutare infatti come la maggior parte degli immigrati in India si sia stanziata nelle regioni di confine, proprio dove la presenza musulmana è ai livelli più alti del Paese. Sicuramente una situazione non facile da gestire, considerando le possibili tensioni non solo con la popolazione locale, ma anche con coloro che non si sono visti concedere la cittadinanza indiana e rischiano di conseguenza un respingimento. Proprio questo punto sarà quello sul quale il primo ministro indiano Narendra Modi dovrà concentrarsi per evitare dei seri peggioramenti.

Una protesta trasversale. La popolazione musulmana dell’India non è la sola ad essersi opposta fermamente al disegno di legge. Richieste di ritiro del disegno di legge sono partite anche dagli ambienti accademici, con un documento che porta la firma di oltre mille tra studiosi e scienziati di tutte le confessioni. Nonostante il governo sia sicuro del buon fine della proposta di legge, le libere organizzazioni dei cittadini sono convinte di poter fermare la proposta di legge per non provocare l’aumento degli odi razziali nella regione. Nella regione dell’Assam, le proteste hanno portato al blocco dei mezzi pubblici e delle strutture statali per quasi tutta la giornata di lunedì, creando disagi alla popolazione. Chiaro segno di sfida al governo di Modi, annunciano il rischio di un conflitto ideologico che terrà banco nei prossimi mesi dal Paese. Forse distoglierà l’attenzione mondiale dalla difficile condizione ambientale dell’India, ma rischierà di diventare un gioco pericoloso per il Paese, nelle mani di un primo ministro spesso criticato per essere troppo poco incline al dialogo con le minoranze.

India, proteste contro legge sulla cittadinanza voluta dal premier Modi: 6 morti in scontri di piazza. Incidenti tra polizia e studenti nei campus. Epicentro a Guwahati nello Stato di Assam. Il provvedimento facilita la concessione della nazionalità indiana a un gran numero di immigrati provenienti da Bangladesh, Pakistan e Afghanistan, ma esclude i musulmani ed è contestata anche da chi teme "un'invasione". La Repubblica il 16 dicembre 2019. Scontri in India contro la nuova legge sulla cittadinanza voluta dal premier, Narendra Modi, ritenuta discriminatoria nei confronti dei musulmani. Il bilancio dei cinque giorni di protesta è di sei morti e un centinaio di feriti. I fatti più gravi sono avvenuti nello Stato di Assam, nel Nord-Est dell'India, ma le proteste domenica si sono diffuse in diversi campus del Paese e nella capitale Delhi autobus e automobili sono stati dati alle fiamme.

La nuova legge sulla cittadinanza indiana. La nuova legge sulla cittadinanza agevolerebbe l'ottenimento della nazionalità indiana a un gran numero di immigrati provenienti dal vicino Bangladesh, dal Pakistan e dall'Afghanistan, purché non musulmani, riguardando dunque le comunità hindu, sikh, jainiste, cristiane, buddhiste e parsi. Il provvedimento rappresenta una rottura fondamentale con il principio di laicità dello Stato indiano, sancito dalla Costituzione. Mentre il premier Modi ha salutato la legge come "un giorno storico per l'India e per i valori di solidarietà e fratellanza della nostra nazione", le opposizioni e alcune organizzazioni a difesa dei diritti umani stimano che il provvedimento rientri nel programma nazionalista di Modi che mira, sostengono, a marginalizzare i 200 milioni di indiani musulmani. Derek O'Brien, deputato dell'opposizione, ha indicato la legge come "un'inquietante analogia" con le leggi naziste varate negli anni Trenta contro gli ebrei in Germania. Il governo nazionalista indù del Partito del Popolo Indiano sostiene che la legge ha l'obiettivo di accogliere tutti coloro che sono fuggiti dalle persecuzioni religiose. Approfondisce la Bbc che la legge ha causato proteste su più fronti: mentre alcuni affermano che il provvedimento è anti-musulmano, altri, soprattutto nelle regioni di confine, temono "un'invasione" fatta di migrazioni su vasta scala.

La protesta dei campus. Scontri sono avvenuti nell'università della capitale Jamia Millia Islamia, dove manifestanti e polizia si sono affrontarti all'interno e all'esterno dell'ateneo, tra i più prestigiosi del Paese. Gli agenti delle forze dell'ordine hanno sparato gas lacrimogeni e respinto la folla a colpi di bastonate, mentre i manifestanti sono accusati di aver bruciato quattro autobus e due veicoli della polizia. Secondo la stampa indiana, un centinaio di studenti e una decina di agenti sono rimasti feriti. E circa 50 persone sono già state rilasciate dopo aver trascorso la notte in cella, ha dichiarato la polizia locale. 

Gli scontri nel nord-est. Resta alta la tensione nella città più grande dello Stato di Assam, Guwahati, epicentro delle proteste, dove nel fine settimana si sono tenute grandi manifestazioni che hanno causato almeno sei vittime. Quattro sono morte in ospedale dopo essere state raggiunte da proiettili esplosi dalla polizia. Un'altra persona è morta nel negozio in cui dormiva, che è stato incendiato. E la sesta vittima è stata picchiata a morte durante una manifestazione. Nello Stato di Bengala occidentale dopo l'incendio di alcuni treni da parte dei manifestanti, la circolazione ferroviaria è rimasta paralizzata. Il ministro dell'Interno indiano, Amit Shah, ha lanciato ieri un appello alla calma, affermando che le culture locali degli Stati del nordest non sono minacciate: "La cultura, la lingua, l'identità sociale e i diritti politici dei nostri fratelli e sorelle del nordest resteranno", ha affermato Shah durante un raduno nello Stato di Jharkhand, secondo la tv News18. In alcune zone del nord-est internet è stato bloccato ed è stato imposto un coprifuoco nel tentativo di arginare le proteste. Dopo la sua rielezione lo scorso maggio, forte della maggioranza dei seggi alla Camera bassa, Modi sta attuando la sua dottrina ideologica in base alla quale l'India appartiene agli induisti. Primo capitolo di questo suo disegno di affermazione della supremazia etnica induista è stato la revoca, lo scorso 5 agosto, dello statuto speciale del Kashmir, regione a maggioranza musulmana che godeva di grande autonomia dall'indipendenza dell'India nel 1947.

India, rubata urna contenente le ceneri di Gandhi. A trafugare l’urna cineraria di Gandhi sarebbero stati, a detta dei politici locali, dei seguaci del nazionalista indù che uccise il Mahatma. Gerry Freda, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. L’India, al termine delle celebrazioni per i 150 anni dalla nascita di Gandhi, è stata scossa dalla notizia del furto delle ceneri del Mahatma. Nella notte di questo 2 ottobre, trascorso con tante celebrazioni nel Paese in ricordo del promotore della non-violenza, un’urna contenente gran parte dei resti mortali di quest’ultimo è stata appunto, riporta il sito web di informazione locale The Wire, trafugata dall’edificio governativo che la ospitava. Le ceneri, per la precisione, sono state portate via dal Bapu Bhawan Memorial, complesso monumentale sito nello Stato del Madhya Pradesh. Oltre al furto dell’urna, i profanatori del luogo della memoria hanno anche commesso un ulteriore atto sacrilego, danneggiando un poster di Gandhi che campeggiava sempre all’interno del mausoleo. Tale immagine è stata appunto sfigurata e ricoperta di scarabocchi fatti con vernice nera, ossia, spiega sempre il sito web, con delle scritte in sanscrito che bollano l’artefice dell’India indipendente come “antipatriottico”. Il custode del memoriale ha quindi esternato, ai cronisti di The Wire, il proprio profondo turbamento per la scomparsa delle ceneri del Mahatma: “Ho aperto presto al pubblico il Bapu Bhawan Memorial la mattina del 2 ottobre, l’anniversario della nascita di Gandhi. Quando sono tornato lì, intorno alle 23:00, ho visto che dentro non c’era più l’urna con le sue spoglie mortali e che il suo poster era stato vandalizzato. Tutto ciò è vergognoso”. La polizia locale ha subito aperto un fascicolo contro ignoti per “attentato all’integrità nazionale e alla pace sociale”, mentre una ferma condanna del gesto sacrilego è stata pronunciata dal mondo politico dell’Unione. Alcuni esponenti dei principali partiti hanno azzardato ipotesi sull’identità dei profanatori del mausoleo del padre della non-violenza. Ad esempio, secondo Gurmeet Singh, esponente del Partito del Congresso, formazione di sinistra, i responsabili del trafugamento dell’urna sarebbero dei seguaci di Nathuram Godse, il nazionalista indù che assassinò Gandhi nel 1948.

Rubate le ceneri di Gandhi, un «traditore» per gli estremisti. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessandra Muglia. Trafugate da ignoti nel giorno in cui si celebravano i 150 anni dalla nascita. Si guarda con sospetto a gruppi di fanatici indù. Nel giorno in cui l’India celebrava i 150 anni dalla nascita del Mahatma Gandhi, le sue ceneri sono state trafugate. Proprio mentre il premier di Delhi Narendra Modi con un editoriale sul New York Timessi ergeva in Occidente a portabandiera dell’eredità del leader della non violenza, «in casa» un suo memoriale veniva profanato, con la scritta traditore della patria, a infangare la gigantografia del padre della nazione ucciso nel 1948 da un fanatico indù. Da quel Nathuram Godse a cui — nella stessa ricorrenza, martedì — hanno plaudito in massa su Twitter, al punto che l’hashtag «Godse amar rahe», lunga vita a Godse, è svettato tra i più condivisi della giornata. Il padre dell’India moderna, per quanto induista devoto, oggi come ieri, è inviso agli ultranazionalisti indù per la sua «indulgenza» verso i musulmani e la sua visione di un Paese non diviso su linee religiose. Una visione opposta a quella dell’«hindutva», l’induismo politico perseguito da gruppi radicali come le Rss, la stessa organizzazione paramilitare estremista a cui apparteneva Modi in gioventù e oggi tra i sostenitori del suo partito, il Bjp. Estremisti che premono per realizzare l’hindustan, uno stato indù: tra le loro richieste, la revoca dell’autonomia alla regione del Kashmir, messa in atto in modo brutale lo scorso agosto. I ladri delle ceneri di Gandhi nel mausoleo di Bapu Bhawan, stato indiano di Madhya Pradesh, non sono stati identificati. Ma si guarda con sospetto a questi gruppi di fanatici indù. Le ricerche sono partite dopo la denuncia di un leader locale del partito del Congresso, all’opposizione e ormai ridotto ai minimi termini. Proprio in Madhya Pradesh qualche anno fa il capo della comunicazione del Bjp aveva attaccato l’ereditàdi Gandhi definendolo «il padre del Pakistan non certo dell’India». A consolazione degli estimatori del Mahatma, il fatto che le sue ceneri si trovino anche in altri memoriali indiani: dopo la sua morte furono divise e trasportate in diversi posti, contravvenendo — vista la sua fama — alla tradizione induista che le vuole gettate in acqua.

India, trafugate le ceneri di Gandhi e vandalizzato memoriale. I ladri sono entrati in azione nel giorno del 150esimo anniversario della nascita del Mahatma. Raimondo Bultrini il 03 ottobre 2019 su La Repubblica. Due giorni fa l’India intera, compresa l’ala ultrareligiosa del governo che non era proprio sua “amica”, celebrava i 150 anni dalla nascita della Grande Anima, il Mahatma Gandhi. Ma mentre il primo ministro Narendra Modi si prostrava davanti alla sua statua nel cuore di Delhi e in molte città si tenevano cortei, riti religiosi o seminari storici, nel Madhya Pradesh ignoti profanatori entravano in uno dei tanti “Bapu Bhawan” (Gandhi era chiamato padre) o luoghi di culto in suo nome. Dopo aver scritto “traditore” sulla foto, hanno rubato parte delle venerate ceneri raccolte in una piccola urna. Erano solo una piccola quota delle spoglie distribuite in giro per il Continente dai familiari dopo quel tragico 30 gennaio 1948, quando un militante fanatico della destra hindu gli sparò a bruciapelo perché aveva – usarono le stesse parole - “tradito” Bharat, lo spirito dell’antica India vedica concedendo potere e pari dignità a genti di casta bassa e musulmani. Alla sua morte parte delle ceneri vennero lanciate alle congiunzioni dei “tre mari” del sud e dei tre fiumi sacri del nord. Altre sono state deposte in almeno 12 urne, una delle quali a Laxman Bagh dov’è avvenuto il sacrilego furto che ha molti risvolti politici delicati in questa fase di dominio degli ex nemici di Gandhi trasformati apparentemente in estimatori, con il governo religioso che usa il pugno duro nel Kashmir contro l’idea stessa di non violenza del Mahatma. Nei decenni passati e fino al 2 ottobre scorso c’erano già stati parecchi episodi di vandalismo contro alcune delle sue innumerevoli statue attaccate dai nazionalisti hindu, ma anche dai “dalit” che non si riconoscevano nella sua politica “pietista” verso le caste più basse (li chiamava “figli di Dio”) ancora oggi socialmente schiacciate dal sistema di privilegi vedico. Ma non si era mai verificato un gesto dissacratorio di questa portata, per di più in uno dei “Bhawan” più vecchi, costruito nel ’48 subito dopo la morte dell’indiano più famoso del mondo, fatto cremare da figli e nipoti contro la volontà dell’ex vicerè inglese Lord Mountbatten che voleva imbalsamarlo. La mattina della speciale ricorrenza, Ram Krishn Sharma, funzionario del Congresso nazionale di cui Gandhi fu guida spirituale e politica, si era recato con altri membri del partito a rendere omaggio alle reliquie, salvo scoprire che l’urna era sparita, le foto rovesciate e sopra al suo poster qualcuno aveva scritto con vernice scura: "Rashtra drohi" (traducibile letteralmente come "anti-patriottico"). Immediatamente informata, la polizia ha avviato un’indagine che finora non ha dato risultati, anche se tutti sospettano gli ambienti estremisti ultrareligiosi vicini alla RSS, la ramificatissima organizzazione di difesa dell’induismo dalle cui fila uscì Nathuram Godse, l’assassino del Mahatma. Inevitabile il collegamento agli ultimi giorni delle roventi polemiche su quella che il Congresso ha definito “appropriazione indebita” del culto di Gandhi da parte del partito di maggioranza Bjp, nato a sua volta da una costola della RSS. Proprio tra le file del Bjp è stata eletta a pieni voti in Parlamento la “santona” Pragya Singh Thakur, accusata di una strage di musulmani e celebre per aver definito in campagna elettorale “un vero patriota” l'uomo che uccise la Grande Anima.

·        Il Nobel per pace San Suu Kyi e l’Islam in Birmania.

Genocidio Rohingya, la Nobel per pace San Suu Kyi: “Nessun massacro”. Le Iene l'11 dicembre 2019. Gaston Zama nel suo reportage ci ha raccontato il massacro della minoranza musulmana della Birmania attraverso le terribili testimonianze dei sopravvissuti. Ora il premio Nobel Aung San Suu Kyi, al tribunale dell’Aja, nega che si sia trattato di genocidio. La Corte penale internazionale dell'Aja la accusa di "genocidio" contro la minoranza musulmana dei Rohingya ma Aung San Suu Kyi si difende. “È profondamente sbagliato e controproducente parlare di genocidio contro in Rohingya in Birmania". San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, rimanda al mittente le gravissime accuse per il massacro avvenuto tra il 2016 e il 2017 in Birmania, di cui vi abbiamo parlato nel reportage di Gaston Zama, che potete rivedere qui sopra. Ad accusare apertamente di genocidio la donna, che ha scontato 15 anni di carcere per colpa della giunta militare che ora difende, è lo stato africano del Gambia, a maggioranza musulmana, che sostiene che la Birmania avrebbe violato la Convenzione sul genocidio, approvata nel 1948. Stando alle prove raccolte dall’Onu, oltre 10mila Rohingya sarebbero stati massacrati e 700mila sarebbero stati costretti a fuggire nel vicino Bangladesh. Con il reportage di Gaston Zama vi abbiamo raccontato il massacro dei Rohingya, attraverso le voci di alcuni sopravvissuti.  

“Ci stavano bruciando le case e siamo scappati qui”, racconta nel servizio di Gaston Zama un bambino costretto a vivere nel campo profughi. “Sparavano, bruciavano tutto e ci picchiavano”, dice un altro. Li abbiamo incontrati facendoci accompagnare da Suor Cristina, vincitrice dell’edizione del 2014 del talent show tv The Voice of Italy, per “riparare” al fatto che Papa Francesco non aveva nominato i Rohingya durante la sua visita in Myanmar. Con lei abbiamo raccolto le testimonianze di chi è fuggito da un genocidio sistematico.  

San Suu Kyi, dal Nobel per la pace all’accusa di genocidio. Valerio Sofia l'11 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La leader birmana San Suu Kyi alla sbarra del tribunale dell’Aja. La corte internazionale sostiene che non ha fatto nulla per impedire la pulizia etnica dei Rohingya, la minoranza musulmana del suo paese. Dal Premio Nobel per la Pace alle aule del Tribunale Penale Internazionale per fronteggiare accuse di genocidio proprio nella Giornata Mondiale per la tutela dei diritti umani. È paradossale e complicata al parabola della leader birmana Aung San Suu Kyi, che peraltro è chiamata a difendere davanti al mondo i suoi vecchi persecutori. Tutto nasce dalla questione dei Rohingya, la popolazione islamica di una provincia del Myanmar che i birmani non considerano cittadini ma immigrati bengalesi illegali, e contro cui negli anni passati si è scatenata un’operazione che ha portato alla fuga di molti profughi verso il Bangladesh. Aung San Suu Kyi ha vinto il premio Nobel per la Pace nel 1991, è stata però tenuta per 15 anni agli arresti in patria dove si è sempre opposta pacificamente alla giunta militare che governava con pugno di ferro il Paese, è riuscita a dare vita a un movimento democratico non violento che alla fine ha portato i generali a farsi parzialmente da parte e a indire elezioni che il partito di San Suu Kyi ha vinto. Con dei vincoli imposti dai militari, tra cui il fatto che formalmente la Nobel non può assumere direttamente le cariche di Governo. Per questo dal 2015 ella è stata nominata Consigliere di Stato, un ruolo che però grazie alla sua autorità la colloca ai vertici del Paese. Ma in un gioco di difficili equilibri. L’ombra della giunta militare infatti incombe sempre sul Paese e sul governo, ed è esplicita la minaccia che possa riprendere le redini del Paese se qualcosa non va come desidera. E questo è stato forse il caso dell’operazione contro i Rohingya: l’esercito nel 2017 e 2018 secondo le accuse ha compiuto una campagna di persecuzione con bombardamenti, incendio di villaggi, esecuzioni sommarie, stupri sistematici. Secondo il governo si è trattato di reazione ad attività insurrezionali e terroristiche. Per gli osservatori sul campo dell’Onu un’epurazione etnica che ha messo in fuga almeno 700 mila civili. La Commissione Onu per i diritti umani ha definito la persecuzione dei Rohingya in Myanmar «un libro di testo di pulizia etnica, un tentativo di genocidio». In tutto ciò Aung San Suu Kiy si è distinta per non aver preso posizione a difesa dei Rohingya, nonostante le numerose sollecitazioni internazionali. Un po’ probabilmente per non indispettire i generali, un po’ perché il suo popolo in fondo condivide molti pregiudizi: per la maggioranza buddista del Myanmar i Rohingya sono «musulmani bengalesi» da cacciare. All’udienza presso il Tribunale dell’Aja San Suu Kyi è presente come testimone, e come madre nobile del suo Paese proverà a difenderlo dopo che è stato citato in giudizio dal Gambia, a nome dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. All’udienza il procuratore generale Abubacarr Marie Tambadou ha accusato: ‘ Un altro genocidio si sta svolgendo proprio davanti ai nostri occhi eppure non facciamo nulla per fermarlo”. La linea di difesa della leader birmana è sempre la stessa: «quello dei profughi del Rakhine è solo uno dei molti problemi e bisogna indagare». Lei interverrà oggi, e domani si dovrebbe concludere la fase del procedimento in cui si decide se aprire o meno un vero processo per genocidio.

Alessandro Ursic per “la Stampa” l'11 dicembre 2019. Da simbolo della lotta per la democrazia e i diritti umani, a primo difensore di un esercito - lo stesso che l' ha tenuta prigioniera per 15 anni - accusato di genocidio contro una minoranza etnica. Alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja, ieri Aung San Suu Kyi è rimasta impassibile ascoltando gli orrendi crimini contro i musulmani Rohingya di cui la Birmania da lei guidata si è macchiata. Sebbene lei non sia formalmente imputata, l' immagine simbolo di quanto la reputazione della «Signora» sia cambiata gli occhi del resto del mondo è tutta qui. Con i fiori tra i capelli Avvolta in un tradizionale vestito birmano e con i capelli raccolti tenuti insieme con gli usuali fiori, Suu Kyi (74 anni) non ha proferito parola prima, durante o dopo l' udienza davanti ai 17 giudici della più alta corte dell' Onu, dove il caso è finito su iniziativa del Gambia con l' accusa che la Birmania ha violato la Convenzione sul genocidio. Abubacarr Tambadou, ministro della Giustizia del piccolo Paese africano a maggioranza musulmana, ha implorato il premio Nobel per la Pace a «fermare questi atti barbari che continuano a mettere sotto choc la nostra coscienza collettiva». Tambadou, un ex procuratore al tribunale per il genocidio in Ruanda, ha letto testimonianze dei sopravvissuti a crimini che comprendono «omicidi, torture e stupri di massa», oltre a «bambini bruciati vivi nelle loro case e in luoghi di culto». La risposta di Suu Kyi, che dal 2016 è la leader di fatto della Birmania nonché ministro degli Esteri, arriverà oggi. Dato l' intento dichiarato di «proteggere il nostro interesse nazionale», sarà probabilmente in linea con le sue dichiarazioni degli ultimi due anni: una difesa dei militari e della controffensiva scatenata nell' agosto 2017 contro «terroristi» Rohingya nel nord dello Stato Rakhine, ribadendo la sua legittimità. E ciò anche se tali operazioni hanno fatto fuggire in Bangladesh oltre 700mila uomini, donne, bambini e anziani, con immagini satellitari a dimostrare come interi villaggi Rohingya siano stati rasi al suolo, innumerevoli testimonianze di sopravvissuti ancora sotto choc nei pietosi campi profughi in Bangladesh, e persino un rapporto dell' Onu che parlava di genocidio. Il contrasto tra l' immagine di moderna santa di Suu Kyi e la sua freddezza nello sminuire tali orrori era evidente già durante quel massiccio esodo di Rohingya, solo cinque anni dopo altre violenze che avevano spedito in campi profughi 140mila persone. È vero che le operazioni militari del 2017 erano iniziate dopo attacchi contro le forze di sicurezza che avevano causato una dozzina di morti. Ma la sproporzione tra quei crimini e la terra bruciata dell' esercito era lampante. Gli ammiratori stranieri di Suu Kyi all' inizio preferivano credere che lei non avesse colpe: dopotutto, l' esercito è un potere a sé in Birmania, e «la Signora» era al governo da solo un anno. Ma poi la sua risolutezza nel negare il problema è continuata. E come i militari, lei stessa nega ai Rohingya persino il loro nome, considerandoli «bengalesi» clandestini senza diritto di cittadinanza. In patria Suu Kyi rimane popolarissima anche per la linea dura contro i Rohingya, disprezzati da una popolazione in maggioranza buddista terrorizzata dalla prospettiva della crescita demografica dei musulmani. Anche ieri, all'esterno della Corte c'era un gruppetto di sostenitori, mentre a Yangon migliaia di suoi fan sono scesi nelle strade per darle man forte a distanza. Con le elezioni previste il prossimo novembre, le possibilità che Suu Kyi - nota per la sua irremovibilità - ceda alle pressioni internazionali sono minime. La lotta di 56 Paesi Suu Kyi non finirà in carcere. Formalmente questo è un procedimento tra il Gambia - con l' appoggio di 56 Paesi musulmani - e la Birmania. Per la sentenza dei giudici dell' Aja ci vorranno anni, e in ogni caso la Corte non ha il potere di far rispettare eventuali pene, anche se un verdetto di colpevolezza potrebbe portare a sanzioni internazionali e a un enorme danno d' immagine per il Paese. Ma Suu Kyi, la sorridente icona che sfidò i torvi generali sordi di fronte ai desideri della sua gente, ora è l' immagine di un potere stanco che non riconosce i diritti più elementari di un altro popolo. Ed è una pena che «la Signora» si è auto-inflitta.

Dagospia l'11 dicembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ti scrivo per l’atto infamante che ha portato il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi al Tribunale Internazionale dell'Aia addirittura con l’accusa di genocidio. Sai che conosco piuttosto bene la questione dei rohingya, tant’è che il 12 marzo decidesti di pubblicare come articolo a parte una mia lettera. Molto ancora avrei potuto scrivere se solo avessi immaginato l’ampio spazio che mi avresti concesso. Una cosa è certa anche se non si può dire: i rohingya sono musulmani nomadi (schifati dagli stessi musulmani che ora li utilizzano strumentalmente), profondamente ignoranti che, in Birmania ma non solo, hanno commesso atti terroristici, stupri, furti e omicidi cruenti al fine d’imporre quell’orrore umanitario chiamato “shariah”. Qui vorrei sottolineare una cosa molto semplice: a trascinare la premier birmana davanti al suddetto tribunale è stata l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica per mezzo del Gambia. Ora mi chiedo, e chiedo ai tuoi lettori: come mai la Corte dell’Aia non si occupa del genocidio dei cristiani per mano dei musulmani in Nigeria? Come mai non si occupa della strage di manifestanti (oltre 1000) avvenuta pochi giorni fa in Iran? Come mai, sempre per l’Iran, non si occupa delle donne lapidate e delle spose bambine morte dopo la “prima notte” o durante il parto? Come mai non si occupa della questione femminile in Arabia Saudita, dove la frusta per la schiena e la spada per le capocce non sono mai a riposo? E sempre riguardo l’Arabia Saudita, come mai non si occupa del genocidio che sta compiendo in Yemen? Come mai dimentica Bashir, quel criminale di guerra che in Sudan sta compiendo una pulizia etnica di cristiani? Come mai non si occupa del massacro di oltre 50 migranti avvenuto circa 15 anni fa al confine col Senegal e perpetrato proprio dall’esercito del Gambia (che ora si scopre difensore dei diritti umani e dei migranti)? Come mai i musulmani sono sempre immuni da qualunque giudizio penale, storico e politico? Il motivo è semplice: perché secondo la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, all’articolo 4 si può leggere: “Ogni individuo ha diritto di essere giudicato in conformità alla Legge islamica e che nessun'altra legge gli venga applicata...”. In sostanza, i musulmani possono denunciare chi gli pare al Tribunale dell’Aia ma si rifiutano di esserne giudicati. Infine, ma non per ultimo: il Tribunale dell’Aia andrebbe abolito per la sua lentezza e per la serie di puttanate, che loro chiamano sentenze, che ha prodotto negli ultimi 30 anni. [Il Gatto Giacomino]

·        Said Mechaquat, Brenton Tarrant e gli altri. Gli omicidi senza colore.

Marco Imarisio per il “Corriere della sera” l'11 ottobre 2019. La distanza tra la sinagoga dell'attentato e lo spirito del tempo si misura in sei parole. In una piccola frase, questa. «Forse ha sbagliato, ma lo capisco». A pronunciarla, prima di essere trascinato via dai suoi compagni, è un ragazzo che avrà al massimo quindici anni. Testa rasata, giubbotto attillato, come tutti gli altri. Sta entrando negli spogliatoi. Alle pareti della palestra è appesa la bandiera della Germania e in un corridoio c' è un altro stendardo con l' aquila imperiale. L' associazione di arti marziali è all' interno di un centro sportivo in fondo alla Lutherstrasse di Eisleben. Non gode di buona fama. La stampa locale l'ha spesso indicata come un ritrovo di simpatizzanti neonazisti. Un sito specializzato elenca le partecipazioni a manifestazioni xenofobe e le frasi pronunciate in quelle occasioni da istruttori e allievi. «Tutte fesserie, inventate da qualche paranoico di sinistra», taglia corto il più grande del gruppo, quello che dà istruzioni agli altri. La città che ha dato i natali a Lutero è l' ultima tappa del piccolo viaggio intorno a Stephan Balliet, il neonazista che voleva fare una strage impedita solo dalla sua impreparazione. Non c' è nulla che dimostri la sua frequentazione, ma la palestra di Combat&defense, disciplina pubblicizzata dai gestori con uno stemma che raffigura un teschio e pugnali incrociati, rappresenta un esempio di propaganda a cielo aperto, se non di reclutamento, a voler dare credito alle denunce dei siti antifascisti e alle impressioni da cronista, come se ne vedono tanti in queste campagne della Sassonia-Anhalt. La prima fermata è alla casa del padre, che intervistato dalla Bild ha messo un comodo sigillo sul figlio, definendolo un perdente, «uno che non aveva amici, ha sempre concluso poco ma dava agli altri la colpa dei suoi fallimenti». Aveva lasciato il corso di chimica all' università dopo solo sei mesi, anche a causa di un intervento chirurgico allo stomaco. Non lo vedeva da tempo, precisa, ma dice che «viveva online». Il papà del mancato stragista abita in una piccola casetta davanti al cimitero di Helbra, nelle abitazioni costruite per gli ex operai della Ddr che lavoravano nei cementifici sulla Parkstrasse. Le parole del genitore sembrano il fiocco sul pacchetto preconfezionato del lunatico, solitario e pure incapace. Peccato che poi il procuratore federale rovini questo quadro quasi rassicurante rivelando come Balliet avesse con sé quattro chili di esplosivo, e fosse pervaso «da una forma spaventosa di antisemitismo che lo aveva portato a pianificare un massacro con grande determinazione». Forse la verità su Stephan Balliet sta a metà strada, come spesso succede. La casa dove ha vissuto gli ultimi 14 anni con la madre, maestra di scuola elementare, si trova a Klostermannsfeld, un sobborgo di Benndorf, equidistante, una ventina di chilometri, da Helbra e da Halle. «Non è vero che non usciva mai», dice Sepp Zobel, che abita nell' appartamento accanto. «Aveva lavorato per qualche anno come tecnico tv», racconta. Faceva lavoretti, anche il baby sitter per le coppie del condominio. «Andava e veniva, frequentava gente della sua età». Siamo quasi al classico «salutava sempre», che questa volta però assume un significato di smentita al luogo comune dell' introverso malato di Internet. Tra queste modeste e dignitose palazzine a due piani, sovrastate dall' altra parte della strada da complessi di edilizia sovietica, Balliet non era certo un' ombra. Entrava e usciva da casa, si fermava a chiacchierare. «Sugli ebrei non ha mai detto nulla, anche perché è sempre un argomento tabù», racconta Franz Schade, impiegato di banca ad Halle, suo coetaneo. «Ma sugli stranieri era netto, e non nascondeva la sua esasperazione». Intanto, anche i ragazzi della palestra di Eisleben si stanno producendo in sottili distinzioni tra ebrei e immigrati. Il loro allenatore li ha riuniti in cerchio. Parlano dell' attentato di Halle. Ma non è possibile ascoltare, gli estranei non sono ammessi, e l' aria si è fatta pesante, meglio andare.

 “GLI EBREI SONO LA RADICE DI OGNI MALE”.  Marco Imarisio per corriere.it il 10 ottobre 2019. Alle 18 la Humboldtstrasse è riaperta al traffico ma in strada non c’è nessuno. Le uniche luci sono i lampeggianti della Polizia che circondano la sinagoga e duecento metri più in là, il ristorante kebab dove è stata uccisa un’altra persona. Sarebbe il centro della città più giovane della Sassonia-Anhal, e questa sarebbe la zona degli aperitivi, ma adesso è possibile sentire il rumore dei propri passi. Stephan Balliet ha ucciso, ma ha fallito. La sua intenzione dichiarata era quella di fare una strage. Non è che si sappia ancora molto di lui. Ha 27 anni, è nato e cresciuto in questa regione, pare frequentasse una palestra vicina ad ambienti della destra che più estrema non si può, è un neonazista dichiarato, convinto che gli ebrei siano la causa di tutti i mali. Aveva scelto il giorno giusto per ucciderne più che poteva, e un bersaglio decentrato per sperare di farcela. la comunità ebraica di Halle non è molto numerosa, al massimo 600 persone, molto più piccola di quelle delle vicine Dresda e Lipsia. La sua sinagoga, che quasi sembra schiacciata tra il lungo viale che le scorre davanti e dietro i palazzi multipiano che si affacciano sulla stazione, è accanto al cimitero. Sul portone chiaro si intravedono due grosse macchie nere. Gli agenti spiegano che sono le tracce lasciate dalle due granate lanciate dall’aspirante stragista. Poteva succedere ancora, forse ovunque. E lo sapevano tutti. Ma nessuno si stupisce del fatto che l’attacco più brutale degli ultimi anni sia avvenuto qui. Nei giorni scorsi, le autorità avevano avvisato le comunità ebraiche della regione, avvisandole del rischio di possibili attentati. Non era solo una semplice precauzione per l’imminente Yom Kippur, ma una conseguenza dell’aria che tira in questa terra, la Sassonia, che da sempre, fin dal giorno della riunificazione, rappresenta un problema irrisolto, come può esserlo una pentola in continua ebollizione con dentro razzismo, frustrazione, problemi identitari. Il «Wir schaffen das» il celebre «ce la facciamo» lanciato da Angela Merkel quando nel settembre del 2015 decise di aprire i confini ai profughi siriani, da queste parti non ha mai attecchito. Anzi, ha prodotto una reazione contraria senza uguali in Europa. L’insostenibile Est, così lo chiamano i sociologi tedeschi. Come se il fiume Elba fosse davvero uno spartiacque. Da una parte la «vecchia» Germania, dall’altra una mancata integrazione, che non si traduce solo in Ostalgie, il rimpianto per la vecchia Ddr, ma anche in una rabbia razzista e xenofoba. Tra il 1991 e il 2018 la Sassonia-Anhalt ha subito un crollo demografico del 20 per cento. «Una situazione demografica senza uguali in Europa», si legge in un rapporto del ministero dell’Economia. Se ne vanno tutti. E chi resta si incattivisce, soprattutto i giovani. Dal 2004 al 2014 questo è stato l’unico Land a portare in Parlamento esponenti dell’estrema destra, a votare formazioni neonaziste portandole fino al 4 per cento. Una tendenza che non sembra fermarsi. Nelle elezioni regionali del 2016 l’estrema destra di Alternative für Deutschland (Afd) ha ottenuto il 24%. Dresda, distante 115 chilometri da Halle e dalla sua sinagoga, ospita la sede centrale di Pegida, il movimento di ispirazione nazista che si batte contro l’islamizzazione dell’Occidente. Il video di Balliet è firmato Anon, che significa futuro ed è l’acronimo di anonymous. Uno come tanti. Uno convinto che l’Olocausto non sia mai avvenuto, che il femminismo e l’immigrazione di massa stanno causando problemi al mondo, e che alla radice di questi problemi ci siano gli ebrei. Questo il senso del suo videomessaggio, registrato mentre guida e intanto prepara le armi, al ritmo di Mask off, un brano del rapper americano Future. Ha agito da solo, ma non è un cane sciolto, come non può esserlo un neonazista di Halle, una città dove due sabati al mese gli estremisti di destra mettono in scena cortei improvvisati, senza striscioni o cori, piccoli gruppi di un centinaio di persone che marciano sulla Humboldtstrasse, il viale della sinagoga, come una tacita minaccia, per ricordare agli ebrei la loro esistenza, per far sapere loro che qui non sono graditi. «Viviamo in un clima di intimidazione costante» racconta Aliza, una donna di mezza età che si trovava nella sinagoga al momento dell’attentato, e ha trascorso le ore seguenti preparando thè caldo ai poliziotti di guardia davanti all’ingresso. «Non è facile leggere ogni giorno sul giornale che sei un bersaglio, che c’è in giro qualche matto che vuole farti del male. Siamo tollerati, ma non siamo graditi, questo è chiaro. Non è facile essere ebrei in questa regione». La prova di quel che afferma, sostiene Aliza, è lei stessa. Racconta che dal 2010 al 2015 lavorava a mezza giornata come guida della sinagoga e del cimitero. Poi ha smesso. Non c’era più bisogno di lei. Non c’erano clienti. «Neanche prima, ad essere sincera». Attenti all’Est della Germania. Attenti a parlare di lupi solitari.

Leonardo Martinelli per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Una situazione tragica ma anche paradossale: Mickael Harpon, che ha ucciso giovedì scorso quattro agenti dell' intelligence della polizia di Parigi, era uno dei loro colleghi, tecnico informatico abilitato ai «segreti di Stato» (e che così poteva accedere a informazioni sensibili, anche sulle persone messe sotto controllo). Una delle sue mansioni principali era proprio la raccolta di dati sulla radicalizzazione islamica. Ma in una chiave Usb, trovata nei cassetti della sua scrivania, alla prefettura della capitale francese, aveva inserito video di propaganda di Daesch, comprese delle decapitazioni, e pure informazioni personali su decine di suoi colleghi. È riuscito a passarle a eventuali complici jihadisti? Ieri fonti vicino all' inchiesta ricordavano il caso dell' attentato di Magnanville. Nel giugno 2016 Larossi Abballa si presentò al domicilio privato di una coppia di poliziotti, massacrati davanti al loro figlioletto. Da allora non si è mai riusciti a capire come il terrorista si fosse procurato l' indirizzo. Harpon c' entra qualcosa? Intanto, ieri Emmanuel Macron, rendendo omaggio alle quattro vittime, ha lanciato un appello «alla nazione a mobilitarsi contro l' Idra islamista», un riferimento alla mitologia che probabilmente la maggioranza dei suoi connazionali non ha capito. Ha invocato anche «una nuova società della vigilanza, diversa dal sospetto che corrode e che invece è l' ascolto attento dell' altro, saper individuare alla scuola, a lavoro, nei luoghi di culto e vicino a casa le deviazioni, quei piccoli gesti che segnalano un allontanamento dalle leggi e dai valori della Repubblica». Visto quanto successo alla prefettura, comunque, la strada da percorrere è lunghissima. Harpon, originario della Martinica, si era convertito all' islam da una decina d' anni. E, qualche mese dopo gli attentati di Charlie Hebdo del gennaio 2015, aveva discusso animatamente con un collega, affermando che i terroristi «avevano fatto bene». L' episodio era stato segnalato a un superiore, ma senza alcun seguito. Già prima aveva iniziato a rifiutarsi di dare la mano alle colleghe. Nonostante questo, regolarmente gli era stata confermata l' abilitazione ai segreti di Stato, che teoricamente richiede di passare al setaccio la vita personale dell' agente. Ebbene, lui da alcuni mesi era in stretto contatto con un predicatore salafita, favorevole a un' interpretazione rigorista dell' islam. Harpon viveva a Gonesse, nella periferia di Parigi, in un complesso abitato quasi esclusivamente da poliziotti, che ormai da tempo lo vedevano recarsi in abiti tradizionali musulmani alla moschea di quella località, nel mirino delle autorità per la presenza di imam radicali. Fra l' altro, uno dei vicini, anche lui poliziotto, ha sentito Harpon gridare «Allah akbar» la sera prima dell' attentato. Tutti questi elementi non sono stati sufficienti a prevedere quello che sarebbe successo e a impedire la strage. Ieri, dinanzi a una commissione parlamentare, il ministro degli Interni Christophe Castaner ha ammesso che ci sono state «disfunzioni da parte dello Stato». Ma ha rifiutato di dimettersi.

Attentato alla prefettura: il flop dell’intelligence francese. Giovanni Giacalone su it.insideover.com il 9 ottobre 2019. L’attentato avvenuto presso la prefettura di Parigi lo scorso giovedì è un atto di terrorismo islamista a tutti gli effetti e l’autore, un convertito all’islam sordomuto originario della Martinica e identificato come Mickael Harpon, non era affatto un impiegato modello, come inizialmente dichiarato dal ministro dell’Interno francese, Cristopher Castaner, bensì un soggetto radicalizzato, con precedenti penali per violenza domestica che aveva anche esultato in seguito all’attentato a Charlie Hebdo del gennaio 2015. Non solo, ma non è neanche vero che si era convertito all’islam 18 mesi fa; Harpon aveva infatti abbracciato la fede islamica nel lontano 2008, ben prima di sposarsi con la moglie musulmana nel maggio 2014. Se dunque fino a qualche giorno fa non c’erano elementi sufficienti per poter fornire un quadro preciso sull’assalitore e sul movente, ora tutto inizia a prendere forma. Del resto era già stato detto che risultava prematuro andare oltre le ipotesi prima di aver indagato approfonditamente sul background di Harpon, sui contatti personali e sulle sue attività via web.

Le divergenze tra governo e inquirenti. Un primo elemento sospetto, forse il più evidente, è risultato da subito nella premeditazione dell’atto, con Harpon che si era preoccupato di procurarsi un coltello in ceramica, consapevole del fatto che armi bianche in acciaio sarebbero state individuate dal metal detector. Un dettaglio di non poco conto che è suonato da subito come campanello d’allarme. In seguito era intervenuto il ministro dell’Interno francese, come già precedentemente citato, a dichiarare che Harpon era un impiegato modello, osservazione che non coincideva però con quanto affermato da alcuni colleghi e dalla moglie dell’attentatore stesso, che avevano reso noto che Harpon non era affatto soddisfatto della propria posizione lavorativa, convinto di non riuscire ad avanzare di carriera a causa dei superiori che non ne riconoscevano il valore. Era inoltre emerso come l’attentatore non fosse preso molto sul serio a lavoro. Dettagli che mal si coniugano con il profilo di un “impiegato modello”. Per quanto riguarda la fede islamica abbracciata da Harpon, le informazioni inizialmente fornite sono risultate fuorvianti, visto che il soggetto in questione non si era convertito all’islam 18 mesi prima, bensì nel lontano 2008. Esclusa quindi l’ipotesi della conversione per venire incontro alla moglie musulmana, visto che i due si erano sposati nel 2014. Risulta dunque fondamentale comprendere tutto il percorso religioso di Harpon, dalla lontana fase iniziale pre-conversione fino ad oggi, incluse le attività su canali virtuali e social. Sono poi risultate inaccurate le testimonianze di alcuni conoscenti di Harpon che lo definivano come un islamico “moderato”, non estremo,  dal profilo psicologico fragile ma tendenzialmente tranquillo. Il procuratore nazionale anti-terrorismo, Jean-Franocis Ricard, ha infatti reso noto che sono stati rilevati contatti tra Harpon e diversi soggetti legati alla galassia islamista; Ricard ha inoltre aggiunto che l’attentatore “aveva aderito a una visione radicale dell’Islam” e che “non voleva più avere alcun contatto con le donne”. A ciò si aggiungono le dichiarazioni dei colleghi che lo avevano sentito esultare in seguito agli attentati di Charlie Hebdo. Un dettaglio interessante considerato che il suo imam di riferimento presso la moschea di Gonesse (banlieue dove viveva Harpon), personaggio quanto meno controverso di nome Hassan El Houari, durante un sermone ripreso in video aveva affermato, pur prendendo le distanze dal terrorismo: “Non sono Charlie e non sarò mai Charlie“. L’imam, intervistato ai microfoni di Bfmv, ha dichiarato di non vedere Harpon da tre o quattro mesi. Non è poi risultato veritiero neanche il fatto che Harpon avesse la fedina penale pulita, visto che nel 2009 era stato denunciato per violenza domestica. Emergono poi ulteriori dettagli sulla notte precedente all’attentato; dopo le grida “Allahu akbar” segnalate da un vicino di casa, sono emersi anche una trentina di messaggi scambiati tra Harpon e la moglie, tutti terminanti con “Allahu akbar” e “segui il nostro amato Profeta e medita sul Corano”. È ancora poco chiaro il ruolo avuto dalla moglie nella radicalizzazione del marito. Ha cercato di fare da argine? Oppure l’ha incoraggiata? Ora spetta agli inquirenti chiarire anche questo aspetto.

L’ennesimo flop dell’intelligence francese. Il caso Harpon è un flop senza precedenti per l’intelligence francese; il terrorista non svolgeva infatti un ruolo qualunque all’interno della prefettura, ma era inserito presso l’unità informatica del Drpp (la direzione d’intelligence della polizia) ed era dunque abilitato ad accedere a documenti e atti coperti dal segreto di Stato, avendo accesso anche a dati sugli islamisti sorvegliati. Insomma, era un perfetto infiltrato. È possibile che nonostante gli evidenti segnali, nessuno si fosse preoccupato di rimuovere Harpon dal ruolo estremamente sensibile che ricopriva? Possibile che ai vertici della polizia non fossero arrivate segnalazioni sull’esultanza di Harpon in seguito all’attentato a Charlie Hebdo? Vi sono poi tutti i contatti che Harpon avrebbe intrattenuto con elementi legati all’islamismo radicale, tra cui alcuni soggetti salafiti dediti alla dawa sui quali sono attualmente in corso delle verifiche. Del resto si è già discusso più volte dell’allarme legato all’infiltrazione di islamisti radicali all’interno delle forze dell’ordine francesi, al punto che lo scorso giugno i parlamentari Eric Diard ed Eric Poulliat, rispettivamente della destra gollista e del partito di Emmanuel Macron, avevano presentato un rapporto sull‘infiltrazione islamista nel settore pubblico transalpino, forze dell’ordine incluse. I due politici avevano inoltre organizzato una serie di audizioni a porte chiuse, a partire dal novembre 2018, con alti funzionari delle istituzioni come prefetti, dirigenti dell’intelligence, ufficiali di polizia e dell’esercito, con l’obiettivo di far presente la situazione. Gli islamisti radicali risultano infatti infiltrati in diversi settori tra cui l’azienda trasporti parigina Ratp, gli aeroporti, le scuole, le università ma anche in polizia, nell’esercito, tra i vigili del fuoco, negli uffici pubblici e all’interno dei sindacati. Inoltre, secondo un rapporto del DSPAP (Direzione sicurezza dell’agglomerato parigino) citato da Bfmtv, tra il 2012 e il 2015 sono stati 17 i casi di radicalizzazione nella polizia. Vale inoltre la pena ricordare che uno degli uomini della scorta di Laurent Sourisseau “Riss”, direttore di Charlie Hebdo, venne rimosso dall’incarico dopo un’indagine svolta dalla Direction genérale de la sécurité extérieure (Direzione generale della sicurezza esterna). Nella giornata di ieri lo stesso deputato Eric Diard ha affermato: “Abbiamo circa 150 mila poliziotti, e trenta sono suscettibili di essere radicalizzati e su 43mila agenti della prefettura, quindici sono sorvegliati per radicalizzazione”. Il timore è che i numeri siano però ben più elevati e sono in molti a chiedersi quanti siano i radicalizzati inseriti negli apparati di sicurezza francesi e sfuggiti ai controlli, proprio come il caso di Harpon. Nel complesso, la vicenda della prefettura parigina mette in evidenza una struttura colabrodo dell’intelligence francese, un sistema allo sbando infiltrato da “serpi in seno” pronte a colpire in qualsiasi momento.

"Stefano Leo? Un omicidio razzista. ​E la sinistra resta in silenzio..." Cirielli (FdI) chiede l'aggravante per discriminazione razziale. Poi punta il dito contro la sinistra: "Boldrini e Zingaretti in silenzio", scrive Angelo Scarano, Martedì 02/04/2019, su Il Giornale.  Il delitto di Stefano Leo è assurdo e agghiacciante allo stesso tempo. Un ragazzo che passeggia per le strade di Torino muore dopo essere stato sgozzato da un marocchino con cittadinanza italiana. Ma a rendere il tutto più doloroso, soprattutto per i familiari di Stefano, sono le parole con cui Said ha spiegato il suo gesto e la furia omicida: "Volevo uccidere un bianco, giovane e italiano. Avrebbe fatto scalpore. Ha comprato un coltello, poi è andato ai Murazzi del Po a Torino e ha osservato i passanti in attesa dell'uomo giusto". Il suo racconto poi si fa ancora più agghiacciante: "Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età, che conoscono tutti quelli con cui va a scuola, si preoccupano tutti i genitori e così via. Non avrebbe fatto altrettanto scalpore. L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano. Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, dei figli, toglierlo ai suoi amici e parenti". Insomma Said Mechaquat cercava un "italiano". Ha trovato Stefano che sorrideva e che per un assurdo motivo è finito sotto la furia omicida del marocchino. Proprio quella ricerca di "un uomo italiano" potrebbe far scattare l'aggravante di discriminazione razziale. A chiederlo Edmondo Cirielli, questore della Camera e parlamentare di Fratelli d'Italia: "L'assassino di Stefano Leo confessa che voleva uccidere “un italiano”. Ha agito, dunque, per finalità di discriminazione razziale. Mi sembra strano che la procura di Torino non abbia ancora contestato all'assassino l'aggravante". Poi l'esponente di Fratelli d'Italia punta il dito contro una parte di quella sinistra che ha preferito restare in silenzio davanti ad un ragazzo italiano trucidato con una coltellata alla gola: "Appare ancora più imbarazzante- prosegue Cirielli- davanti a un omicidio crudele, spinto dall'odio verso gli italiani, il silenzio dei paladini dell'integrazione, Nicola Zingaretti e Laura Boldrini. E soprattutto mi aspetterei parole forti anche da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per condannare questo omicidio razzista".

Giorgia Meloni sull'omicidio dei Murazzi: "Voleva uccidere un italiano. Ora i paladini dell'anti-razzismo...", scrive il 2 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Risolto l'omicidio dei Murazzi di Torino, dove è stato ucciso Stefano Leo. Risolto con la confessione di Said Machaouat, 27enne di origine marocchine, che ha rivelato di voler uccidere "un italiano felice", dunque "lo ho ammazzato a coltellate". Così ai poliziotti dopo essersi costituito. Una confessione rivoltante. Parole che indignano l'Italia e anche Giorgia Meloni, che si sofferma sul fatto che Machaouat abbia affermato chiaro e tondo di voler "uccidere un italiano". Scrive la leader di Fratelli d'Italia su Twitter: "Volevo ammazzare un italiano, ammette Said Mechaquat, assassino di #StefanoLeo. La Procura contesti a questo folle l’aggravante di #odiorazziale! I paladini della lotta al razzismo non hanno nulla da dire? O il #razzismo contro gli italiani nella loro visione non è contemplato?". Poco da aggiungere.

Torino, il killer maghrebino di Stefano e l'agghiacciante gesto al finestrino: sputa sul morto, scrive il 2 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un pazzo o un terrorista, un cane sciolto anti-occidente? Il profilo dell'italo-marocchino Said Machaouat, il 28enne che ha ammazzato brutalmente il 34enne Stefano Leo ai Murazzi, a Torino, dopo averlo scelto per caso perché "italiano, giovane e felice" è decisamente complicato. Sicuramente si tratta di un giovane violento, disturbato. Prova ne è anche la agghiacciante reazione dopo l'arresto: davanti ai fotografi, mentre lo portano via in auto, Said incappucciato in un parka "saluta" tutti con un beffardo, vergognoso gesto delle corna con la mano destra, dietro il finestrino della vettura. La motivazione offerta agli inquirenti ha fatto "venire i brividi", parola di pm che lo ha interrogato, e lasciato nella più cupa disperazione il padre del povero Stefano: "Volevo una spiegazione, ma non questa - ha commentato distrutto -. Ora cosa dirò ai suoi fratelli?".

Said Machaouat, cosa non torna: "Ha ucciso Stefano perché italiano e felice? Mente, lo sgozzamento è un rito", scrive il 2 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Qualcosa non torna nel caso di Said Machaouat, il 28enne italo-marocchino che ha barbaramente ucciso con una coltellata alla gola Stefano Leo ai Murazzi, a Torino. Il magrebino ha confessato di averlo scelto dopo 20 minuti di "osservazione" tra i passanti, e di essersi deciso ad ammazzarlo perché voleva una vittima "italiana, felice e sorridente. Volevo togliergli tutto, a lui e ai suoi familiari. E lo volevo giovane perché avrebbe fatto più scalpore". Una motivazione sconvolgente, anche per il pm che ha voluto "far ripetere quelle parole due volte", e dietro cui si celerebbe un fortissimo disagio sociale, economico e psichico. "Non credo che sia la vera motivazione", è però la tesi della psicologa Vera Slepoj, intervistata dal Giornale: "Leggiamo che l'uomo è depresso, ma ogni manuale di psicologia insegna che il depresso solitamente si sente implodere in se stesso e in lui piuttosto, matura un sentimento di auto eliminazione. Qui qualcosa non torna. Vedo piuttosto un desiderio di stabilire un potere sugli altri. Prova è che il killer si sarebbe preparato all'evento. Ha comprato i coltelli, ha aspettato la sua preda. L'ha scelta con determinate caratteristiche". A disturbarlo non era tanto la felicità dell'italiano, spiega la Slepoj, quanto la sua normalità, "che lui voleva annientare". Per invidia, dunque: per "punire il mondo perché il mondo ha più di quello che ha lui, che lui non ha più. Di fondo c'è un fortissimo bisogno di protagonismo", patologico e ossessivo. "Ha voluto punire la società che non si accorge di lui e l'arma usata non è casuale. Lo sgozzamento è un rito, un sacrificio, una punizione in cui si ribadisce la sottomissione dell'altro che lui riteneva di dover punire. Ha visto la sua preda, lo ha aspettato e lo ha sacrificato, gli ha preso l'anima, non i soldi".

Omicidi senza colore. È tutta questione di… fragilità, scrive il 4 aprile 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. Premetto che non provo nessuna umana pietà nei confronti di Said Mechaout, l’uomo che il 23 febbraio scorso ha ucciso Stefano Leo. Tuttavia, non giudico; lascio che una giustizia superiore lo faccia. Se ne parlo è soltanto perché, da antropologo della mente, vorrei capire i meccanismi mentali che inducono un uomo a togliere la vita ad un altro uomo, specialmente quando, alla base del gesto omicida, v’è una motivazione etichettabile, a tutta prima, come “razziale”. La prima domanda che mi sono posto è se, effettivamente, la ragione di questo omicidio sia razziale. Un accenno di risposta si trova stabilendo un parallelismo tra la storia di Said Mechaout e quella di Luca Traini. Quest’ultimo è un giovane uomo di 28 anni di età, bianco, caucasico, di media scolarizzazione. Segni particolari: porta tatuato, sulla tempia destra, il simbolo di Terza posizione. Aderente a posizioni politiche proprie della destra radicale, tenta la strada dell’impegno politico con un risultato pari a zero. Questo giovane balza agli onori della cronaca per avere aperto il fuoco, in maniera randomizzata, su alcuni extracomunitari per vendicare Pamela Mastropietro, a sua volta barbaramente uccisa da un immigrato. A raid conclusosi, Luca Traini si consegna alle Forze dell’Ordine, non prima di essersi avvolto nel tricolore ed aver gridato, col saluto romano, “Viva l’Italia”, dinanzi al monumento ai Caduti di Macerata. Sin dal primo momento del suo arresto, Luca Traini ha affermato di avere agito per vendicare la giovanissima Pamela. In buona sostanza, un uomo bianco vendica la morte di una donna bianca, uccisa da un uomo di colore. Infatti, i reati contestatigli sono aggravati dai motivi di odio razziale. Il gesto è sembrato subito così folle, da far pensare che, al momento del gesto, Traini non fosse capace di intendere e di volere. La perizia psichiatrica eseguita su di lui ha stabilito, al contrario, che il giovane era in grado di rappresentare a se stesso le proprie azioni, il loro valore, ed era anche in grado di autodeterminarsi al compimento degli atti criminosi posti in essere. Tuttavia, la perizia ha cura di precisare che, sebbene capace di intendere e di volere, Traini presenta dei “tratti disarmonici della personalità”. Ad un anno di distanza dai fatti di Macerata ci troviamo davanti a Said Mechaout. 27 anni compromessi da scelte (od occasioni, non sappiamo…) di vita fallimentari, e che lo conducono a trovare ricovero in un luogo per chi è senza tetto e senza un lavoro. Un giovane che, prima, pensa di uccidersi e poi matura rabbia e voglia di vendetta. Said acquista una confezione di coltelli a basso costo, sceglie quello più grande, va a sedersi su una panchina dei Murazzi sul Lungo Po Machiavelli, ed attende pazientemente. Attende che, dinanzi a lui, passi non una persona qualsiasi, ma una persona precisa. “Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età. (…) L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano”. Attendeva quello che noi italiani definiamo “un bravo ragazzo e di buona famiglia”, dall’aspetto sereno, all’apparenza privo di problemi, e portatore di quelle aspettative verso al vita che solo la giovane età può dispensare. Ad un certo punto, il bravo ragazzo si è materializzato davanti agli occhi di Said, che decide di ucciderlo con un fendente al collo perché muoia subito. Lo uccide così, esattamente come aveva programmato. Poi è tornato al dormitorio. Attende un mese prima di consegnarsi e, nell’atto di farlo, dice: “Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le speranze e i progetti che aveva, toglierlo ai suoi amici e parenti” – e prosegue – “Madre natura stava cercando di farmi uccidere e allora ho pensato io di uccidere. Ho detto che potevo far pagare a Torino quello che è di Torino”.

Cos’hanno in comune Luca Traini e Said Mechaout?

Tre cose evidenti: la stessa età, l’odio razziale, la capacità di pianificare e portare a compimento un progetto criminoso. Un cosa è meno evidente però, il disagio psichico che, di per sé, non elimina né affievolisce la capacità di intendere e di volere, così come non giustifica né giuridicamente né eticamente i fatti da loro commessi. A dir la verità, neppure spiega la ragione dei loro crimini. Ma è, senz’altro e secondo la mia visione, un elemento fattuale che accende un enorme faro sulla natura delle nuove generazioni. 27-28 anni sono un’età in cui una persona sente di essere sul punto di considerare conclusa la propria giovinezza e di approssimarsi ad una nuova fase della vita, ovvero quella della vera costruzione del proprio mondo e dell’assunzione di responsabilità. Fino alla soglia dei trenta anni, viviamo le aspettative, sappiamo che siamo esseri in fieri, che gettano le basi per il futuro. Il nostro must (per dirla all’inglese e come i giovani amano…) è attuare le aspettative. Giunti a circa trenta anni, si apre il periodo del consolidamento di ciò che si è seminato dopo i 20. Le aspettative personali di base, quali la serenità di fondo ed il lavoro, devono essersi attuate od essere in procinto di attuarsi. È a questo punto della vita che si dà una cornice a se stessi, valutando i risultati ottenuti nell’età formativa. Il punto è che se i risultati ci sono e sono valutabili positivamente, il trentenne si incammina verso il processo di maturazione, con la concreta consapevolezza e speranza di lavorare su buone fondamenta per la costruzione del suo avvenire. Se i risultati non ci sono, oppure non sono suscettibili di considerazione positiva, il trentenne si avvia verso la maturità, con la percezione di un dolore interiore che, se non elaborato, non solo si evolve negativamente, ma si cronicizza verso forme di impotenza, rabbia, desiderio di vendetta. Verso la ricerca di una rivalsa contro la collettività, indistintamente considerata. Tutto ciò si trasforma in quel che, comunemente, definiamo “disagio psichico” e che, oggi, accomuna Luca e Said. L’impossibilità di vedere un futuro, ci fa odiare coloro che, apparentemente, sembrano avere prospettive di un futuro ottimo e certo, perché si ritiene che la differente nazionalità od il colore della pelle conferiscano loro posizioni economico-sociali di favore. Si badi bene: l’odio razziale nutrito da Luca Traini e da Said Mechaout è esattamente identico perché specularmente inverso. Un bianco odia i neri extracomunitari perché, secondo lui, in Italia l’immigrato nero è trattato in maniera migliore di un bianco italiano. Un nero di cittadinanza italiana, per adozione, odia i bianchi italiani perché, a suo modo di vedere, in Italia l’essere bianco consente quella felicità che il nero italiano non può nemmeno sognare. Ed allora, un compito si impone alla famiglia, come nucleo primordiale ed alla scuola come nucleo formativo secondario: insegnare che la felicità, se esistente, non deriva dall’appartenenza ad una specie, ma dalle scelte che il libero arbitrio ci fa compiere, nella valutazione delle occasioni che la vita stessa ci pone di fronte. Lo fa con tutti, anche se in misura, tempi e modi diversi. In tutte le geografie, più o meno ricche o povere. Certo, senza occhi e mente adeguata non ci si accorge di nessuna occasione. E l’attenzione alle occasioni, anche le minime, si impara, da ciò che ci insegnano in famiglia e da ciò che ascoltiamo a scuola da coloro che ci impartiscono gli elementi di qualsiasi disciplina. E una delle nozioni primarie che possiamo apprendere in famiglia e a scuola è la consapevolezza che possiamo sempre lavorare su noi stessi, per emanciparci quando il destino non ci ha fatto nascere dentro una Rolls Royce, e da madre coperta di diamanti ed ermellino.

Nuova Zelanda, Alessandra Moretti: "Strage figlia del razzismo. Noi politici non dobbiamo alimentare l'odio", scrive il 15 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "La strage in Nuova Zelanda è figlia del razzismo". Alessandra Moretti, ospite di Serena Bortone ad Agorà, su Raitre, commenta l'attentato in due diverse moschee e avverte: "Noi politici abbiamo una responsabilità enorme e dobbiamo avere una grande attenzione. Se noi con il nostro linguaggio alimentiamo l'odio e la distinzione tra le razze", continua la piddina, siamo in qualche modo responsabili.  Ma il popolo social si scatena: "Quando le stragi le fanno loro non è razzismo?". E ancora: "Basta che vi aprite la bocca e gridate al razzismo per ogni cosa. Siete rivoltanti, buonisti con il cazzo degli altri e vi permettete anche di parlare sempre di Salvini, l'unico che vi ha buttato in faccia la realtà. Difendete l 'indifendibile".

Nuova Zelanda, sinistra scatenata contro il governo. Nicola Zingaretti: "Ecco dove ci portano odio e razzismo", scrive il 15 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Ci stringiamo alle famiglie delle vittime di Christchurch in Nuova Zelanda. Ecco dove l’odio e il razzismo rischiano di condurre l’umanità. Nella storia è già avvenuto, non ci arrenderemo mai alla violenza". Nicola Zingaretti, con un post su Twitter, commenta così la strage avvenuta in due moschee dove si contano oltre quaranta morti. Al neo segretario del Pd fa eco Alessandra Moretti che ad Agorà su Raitre attacca: "La strage in Nuova Zelanda è figlia del razzismo. Noi politici abbiamo una responsabilità enorme e dobbiamo avere una grande attenzione se noi con il nostro linguaggio alimentiamo l'odio e la distinzione tra le razze". Insomma, la sinistra come al solito strumentalizza questi attentati compiuti da persone totalmente squilibrate per attaccare le politiche del governo e del ministro Matteo Salvini in particolare sull'immigrazione. Confondendo il rispetto delle regole con il razzismo e l'istigazione all'odio.

Luca Traini: «Non ho nulla a che vedere con questa mattanza». Luca Traini, l’autore della sparatoria contro i migranti di Macerata, prende le distanze dalla strage di Christchurch, scrive Rocco Vazzana il 16 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Condanno il gesto, è lontano da me, non mi appartiene e sono profondamente sconcertato di essere stato assunto a simbolo per una mattanza del genere, commessa da un pazzo». Luca Traini, non perde un istante per lavare la sua immagine dall’ennesima onta: essere fonte di ispirazione per gli attentatori neozelandesi che in poche ore hanno sterminato 49 persone in preghiera in due diverse moschee. Il nome di Traini, infatti, era inciso sui caricatori delle armi usate per la strage e citato nel manifesto pubblicato online da Brenton Tarrant, ventottenne australiano, mente e protagonista dell’operazione. «Un bianco ordinario», si è definito con semplicità disarmante l’esecutore della mattanza, creando un altro parallelismo con il “lupo” di Macerata, dalla cui storia è partito Ezio Mauro per scrivere L’uomo bianco, un libro inchiesta sull’Italia dell’indifferenza e dell’egoismo. Ma chi è Luca Traini, l’ispiratore di un bagno di sangue in Nuova Zelanda che nel febbraio dello scorso anno si mette a sparare a caso sui «negri» ( ferendo sei persone) per le vie di Macerata per “vendicare” il brutale omicidio della giovane Pamela Mastropietro? Oggi pentito del suo gesto, gli italiani lo conoscono per la prima volta il 3 febbraio del 2018 attraverso le immagini, diffuse quasi in diretta, della sua cattura. Prima di consegnarsi alle forze dell’ordine avvolto in un tricolore a mo’ di mantello, come uno sgangherato supereroe sguaiato che si accanisce sui passanti, Traini fa il saluto romano. Simbolo di Terza Posizione, il movimento neo fascista degli anni 70 e 80, sulla tempia, il pistolero di Macerata tenta di uccidere mosso da un patriottismo alla bar dello sport, quello secondo cui gli immigrati vengono in Italia solo per spacciare e alloggiare in alberghi lussuosi pagati dai contribuenti italiani. Luca Traini, che nel 2017 si candida con la Lega Nord al consiglio comunale di Corridonia, paese di 15mila abitanti nel maceratese, si sente in dovere di fare qualcosa. Sale a bordo della sua auto e apre il fuoco su qualsiasi passante nero. «Io volevo colpire chi spaccia, come quello che ha venduto la droga a Pamela. Non è colpa mia poi se a Macerata tutti gli spacciatori sono neri», dirà nel corso di uno dei primi interrogatori. Ma il tempo può cambiare anche gli animi più duri. E a un anno di distanza, Traini non si sente più vicino all’uomo che nel 2018 provò ad ammazzare gente a caso. «Dentro di me non c’è più odio, sono pentito e non da oggi», racconta il 3 febbraio del 2019 a Repubblica. Pentito e pronto a incontrare le sue vittime per chiedere scusa, per l’ex estremista di destra «la caccia è finita quel giorno. Già quando sono tornato a casa dopo la sparatoria, per cercare la bandiera tricolore, mi sono sentito svuotato, esaurito. Tutto si era compiuto. Ma se sei lupo, lo rimani per sempre», confida a Ezio Mauro che lo intervista. Perché Traini si percepiva semplicemente come un «vendicatore», mosso da «un’esplosione», dice. «Per me gli spacciatori avevano ucciso Pamela, e gli spacciatori erano loro, i negri. Li chiamavo così. Oggi li chiamo neri. Poi, in questi mesi passati in carcere, ho lentamente capito che gli spacciatori sono bianchi, neri, italiani e stranieri. La pelle non conta. Qui dentro si capiscono molte cose, guardando gli altri e parlando con loro», aggiunge, puntando il dito contro la cultura politica che lo ha nutrito. «Tutta la mia ideologia politica, Dio, patria, famiglia, onore, ha pesato in quel mix esplosivo. La tragedia di Pamela ha fatto da innesco. L’odio non nasce per caso, è frutto di tante cose, anche di politiche errate, a danno sia degli italiani che degli immigrati», è il “testamento” che Traini vorrebbe consegnare alle sue vittime. Per ora, però, l’unico testamento raccolto è quello di Brenton Tarrant, quasi coetaneo dell’ex candidato leghista, che ha inteso rendergli omaggio incidendo il suo nome su un’altra arma “vendicatrice” di bianchi. «L’accostamento tra la vicenda di Luca Traini e quello che sta accadendo in queste ore in Nuova Zelanda mi sembra fuori luogo, non vedo un nesso se non il riferimento a un’ideologia di destra», precisa Giancarlo Giulianelli, avvocato di Traini. Che dovrà ancora lavorare parecchio per liberare il suo assistito dall’inquietante marchio di un «bianco qualunque», ispiratore di nuove stragi. 

Il “profeta Breivik” e gli altri epigoni dell’odio razziale. Al principio fu Breivik poi vennero i seguaci. Breve storia di massacri: dal suprematista cristiano norvegese al canadese Alexandre Bissonnette, una lunga scia d’odio, scrive Paolo Delgado il 16 Marzo 2019 su Il Dubbio.  Brenton Tarrant, l’«ordinario uomo bianco» autore con tre complici della strage di Christchurch aveva postato la foto dei caricatori pronti alla mattanza con una sopra un serie di scritte. Quasi tutte sono richiami storici a battaglie del passato tra paesi cristiani e musulmani o impero ottomano. C’è un richiamo a Roterham, la cittadina inglese dove furono vittime di abusi 1400 bambini, tra il 1997 e il 2014, e buona parte dei colpevoli erano pachistani. Ma ci sono anche due ‘ omaggi’ precisi agli autori di precedenti crimini razzisti: uno è l’italiano Luca Traini, che il 3 febbraio 2018 a Macerata ferì sei immigrati ‘ per vendicare’ Pamela Mastropietro, morta in circostanze ancora non chiare ma il cui corpo era stato dissezionato da alcuni nigeriani, l’altro è il canadese Alexandre Bissonnette. Si tratta dello studente franco- canadese di 27 anni che, il 29 gennaio 2017, uccise sei persone e ne ferì altre 19 nella moschea di Quebec City. Bissonnette, condannato nel febbraio scorso all’ergastolo senza possibilità di condizionale per 40 anni, non spiegò il suo gesto. Era però un suprematista bianco, e i post che scriveva su Fb si dividevano tra l’odio per le donne e quello per i musulmani. Probabilmente Tarrant ha citato questi due casi perché si tratta di processi recenti che hanno riportato i colpevoli sui giornali e nei Tg ovunque. Ma avrebbe potuto spaziare molto di più. Le stragi razziste sono una costante degli ultimi anni e decenni, ovunque nel mondo. In Italia, come in realtà in parecchi Paesi d’Europa, episodi di razzismo e attacchi sono relativamente frequenti ma solo in un caso si era data un’azione efferata come quella di Traini. Il 13 dicembre 2011 Gianluca Casseri, vicino a Casa Pound, apre il fuoco in pieno giorno con una 357 Magnum su un gruppo di senegalesi fermi in pazza Dalmazia, a Firenze, uccidendone 2. Di lì il killer si sposta verso il mercato centrale, dove spara di nuovo ferendo gravemente un altro senegalese e più lievemente una quarta vittima. Poi, braccato dalla polizia, si uccide nel parcheggio del Mercato. Pochi mesi prima, il 22 luglio, c’era stata in Norvegia la strage più sanguinosa. Anche in quel caso il killer, Anders Behring Breivik, 32 anni, fece tutto da solo, ma con una cura meticolosa prolungatasi secondo lui per ben nove anni. Iniziò con un’autobomba fatta esplodere di fronte al palazzo del primo ministro Stoltenberg, laburista. Il leader si salvò: 8 passanti rimasero uccisi, 209 feriti. Di lì il killer si spostò sull’isola di Utoya, dove erano in campeggio di giovani laburisti. Su Internet si era procurato una divisa simile a quella della polizia: i responsabili del campeggio si insospettirono lo stesso e lui li freddò a colpi di pistola Glock. Poi passò al fucile e uccise 69 ragazzi tra i 12 e il 20 anni. Breivik era nemico giurato del multiculturalismo, del marxismo, dei musulmani, dei laburisti che riteneva responsabili dell’ ‘ invasione’. Si definiva «il salvatore del cristianesimo» e posta foto in abito da crociato. E’ stato condannato 24 anni, massima pena in Norvegia. In carcere ha rivisto le proprie idee aderendo senza mezze misure al nazismo. Breivik, come spesso capita in questi casi, diventò oggetto di emulazioni. Era lui l’idolo di Alì David Sonboly, tedesco di origine iraniano diciottenne che il 22 luglio 2016, quinto anniversario delle stragi di Oslo, uccise 9 persone e ne ferì 35 in un centro commerciale di Monaco. Sonboly non aveva collegamenti con l’estrema destra, però si considerava in quanto iraniano di origini, “ariano puro” ed era molto colpito dall’essere nato lo stesso giorno di Adolf Hitler. Breivik comunque non era il solo idolo di Sonboly. Nutriva immensa ammirazione anche per Dylan Roof, il redneck di 21 anni che l’anno prima, il 17 giugno a Charleston, aveva ucciso 9 persone, tutti neri, incluso il pasto- re Clementina Pinckney. Prima di sparare aveva spiegato: «Stuprate le nostre donne e state prendendo il sopravvento. Devo farlo». Inevitabilmente la furia omicida razzista colpisce anche gli ebrei. Il 27 ottobre 2017 a Pittsburgh Robert Powers, 46 anni, attualmente sotto processo, ha ucciso 11 persone in una sinagoga. Considerava gli ebrei «tutti figli di Satana» e riteneva che pertanto «dovessero morire tutti». Il grosso degli attentati antisemiti in realtà va inserito nel quadro dell’antisemitismo jihadista o anti- israeliano. Era un franco- algerino musulmano Mohammed Merah, 28 anni, l’autore della strage di Tolosa del 19 marzo 2012, quando quattro persone tra cui tre bambini furono uccisi di fronte a una scuola ebraica ed era un jihadista francese, Mehdi Nemmouche, allora ventinovenne, l’autore della strage al museo ebraico di Bruxelles del 24 maggio 2014, nella quale persero la vita quattro persone. Non è ancora guerra razziale, nonostante il molto sangue versato. Ma comincia ad andarci vicino.

L’odio al posto delle idee. Brenton Tarrant ha sparato guidato da un odio cieco, scrive Piero Sansonetti il 16 Marzo 2019 su Il Dubbio. Brenton Tarrant ha sparato, sparato, sparato: guidato da un odio cieco. Come negli anni passati è successo tante volte in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna. Qui in Europa era l’odio antioccidentale dei terroristi islamici. Lì in Nuova Zelanda è successo l’opposto. La strage è in nome di un dio bianco, cristiano, e in nome della nostra razza. E l’odio è contro gli islamici, ammazzati in un’ecatombe, come bestie. Razza, dio, nazione, sovranità: queste parole non sono idee, sono slogan sentiti dire, sono precipitati dell’odio che sostituisce il pensiero, la cultura, il sapere, i sentimenti. Brenton Tarrant ha ucciso travolto dalla propaganda e dall’ideologia. Così come avevano fatto i seguaci di Allah. Brenton ha ucciso nel nome di tanti suoi idoli, politici e religiosi, tra i quali anche due italiani. Un vecchio doge di Venezia, che si chiamava Venier e che guidò mezzo millennio fa la Lega Santa, contro gli Ottomani; e il giovane Luca Traini, il sovranista pentito, ex leghista, che qualche mese fa sparò all’impazzata, a Macerata, contro i “negri”, gli immigrati, anche lui con la mente travolta dalle campagne razziste miserabili, che qui da noi non sono più rarità. E’ inutile dire che non esistono politiche che possano fermare con certezza il terrorismo, bianco o arabo che sia, cristiano o musulmano. Occorre il lavoro degli 007, della polizia. Qui da noi, finora, si è lavorato bene. La sicurezza però non esiste mai. E certo non la si ottiene con campagne xenofobe, prendendosela con gli stranieri, solo perché i terroristi spesso sono stranieri. Esistono invece politiche che possono fermare la propaganda razzista dissennata. Dipende solo dalla volontà: dei giornalisti, dei politici soprattutto. Sono disposti a rinunciare a qualche voto e qualche copia di giornale venduta, in cambio di un po’ di civiltà? O pensano che il prezzo sia troppo alto, che conviene continuare a dire e scrivere sciocchezze? Sul numero di oggi del Dubbio Valter Vecellio racconta di Leonardo Sciascia, e di come proprio lui – uno dei maggiori scrittori europei del secondo novecento – spiegasse che l’impegno intellettuale costa, costa caro. Qualcuno è disposto a spendere due spiccioli? Mi tornano in mente alcuni titoli di giornale, qualche tempo fa, in occasione di alcune stragi compiute dai terroristi arabi. Dicevano più o meno così: “bastardi islamici”. Pensate se qualche giornale, restando in quell’ordine di idee, titolasse a tutta pagina, oggi: “bastardi cristiani”. Speculando sulle idee folli di Brenton Tarrant, sui suoi idoli, sui suoi miti. Il problema è che spulciando tra le righe dei manifesti ideologici di questo folle ragazzo australiano, si scopre che era finito vittima di quelle teorie del complotto giudaico- islamico- massonico che tende a sostituire la popolazione bianca e cristiana, in tutto il mondo, con una maggioranza araba e musulmana. Le avete mai sentite queste teorie bislacche? Penso di sì. Le avete sentite anche qui da noi, le avete lette sui giornali, scritte da editorialisti, e le avete ascoltate in Tv, spiegate da leader politici. Da noi sono solo teorie buffe, fragiline, che per fortuna non provocano eccessi di violenza. Tanto che lo stesso Luca Traini, che pure ne era rimasto vittima ed era stato spinto ad armarsi e a sparare, poi si è pentito molto profondamente e oggi maledice la sua idiozia. Ma questo non vuol dire che siano teorie innocue. Sono teorie sciaguratissime, perché mescolano fake news e ideologia, perché sostituiscono il pensiero e le idee, generano solo odio, odio, odio e impediscono la politica, il confronto, la lotta e il conflitto veri. Roma è lontanissima, per fortuna da Christchurch, però non bisogna sottovalutare il rischio del fondamentalismo. Il fondamentalismo è morte dell’intelletto e produce anche morte fisica. Disperazione, dolore. Vediamo se l’intellettualità italiana ha la forza per mettere da parte calcoli e narcisismo, e per schierarsi contro. Anche al costo di tirarsi addosso la rabbia di qualche politico. Se ha il coraggio di farlo, anche i politici dovranno seguire la strada della ragionevolezza e della civiltà. Cambieranno molte cose.

Da “la Zanzara - Radio 24” del 19 marzo 2019. “Quel Tarrant o come cavolo si chiama è qualcuno su cui mi auguro vengano fatte approfondite indagini, non indagini superficiali. Io voglio capire cosa c’è dietro questa Internazionale del Suprematismo Bianco, perché io credo che dietro tutto questo ci sia anche una volontà evidentemente di pilotare in una grande campagna elettorale planetaria per le elezioni europee. E so quello che dico. Per esempio la presenza del nome di Traini su quel mitragliatore lì è assolutamente ingiustificata. Chi ha scritto quelle cose è qualcuno molto ben informato e molto deciso a finalizzare le proprie azioni terroristiche, si chiama terrorismo proprio per questo, per indirizzare il branco di buoi”. Lo dice Alessandro Meluzzi a La Zanzara su Radio 24 parlando della strage in Nuova Zelanda e ipotizzando un complotto internazionale contro i sovranisti. “Quando io voglio portare una mandria di bisonti a svoltare a destra, sparo a sinistra – dice Meluzzi – e dietro questi suprematisti c’è un disegno, cioè portare all’esasperazione, sputtanare i sovranisti nel mondo, questo è assolutamente certo. Dalle stragi di Stato in Italia, da Piazza della Loggia fino ad arrivare ai tempi recenti, il terrorismo è servito ad orientare elettorati, movimenti politici. E siccome siamo entrati in una grande campagna per le europee, è evidente che cose come queste vanno lette”. “Dietro al grande terrorismo internazionale – aggiunge - ci sono grandi disegni. E fate attenzione al fatto che quel Tarrant non lo ammazzino subito, come ammazzarono Oswald dopo Kennedy. I terroristi vengono spesso sacrificati quando hanno svolto la loro funzione”. Chi sarebbe il burattinaio?: “Sicuramente qualcuno che ha bisogno in questo momento di riorientare tutto nella direzione di un globalismo implacabile, che non dev’essere fermato e rallentato da nulla. Questo è fuor di dubbio. Che il flusso migratorio dall’Africa ai paesi islamici debba ripartire verso l’Occidente, nulla lo può fermare, nulla lo può rallentare, nulla lo può arrestare. E quindi ogni cosa che volti in questa direzione è la benvenuta. E’ iniziata la grande campagna per le europee. Tra ambientalismo e terrorismo ne vedremo delle belle”. E ancora: “Siamo in presenza di un terrorista internazionale che fa questa operazione mettendosi una telecamera sul casco e filmando tutto in diretta come un vero tecnico del terrorismo”. Dice poi Meluzzi: “Ovviamente questa strage in Nuova Zelanda è una strage terribile, come lo sono tutte le stragi. Ma il problema delle migrazioni viene sicuramente affrontato in maniera diversa in Australia, dove non si entra. Per cui tutti i clandestini che arrivano, vengono fermati. E non stiamo parlando di un governo fascista. Ma è vero che più crescono i musulmani all’interno di un Paese più attentati ci sono ai musulmani o fatti dai musulmani. Aumenta il conflitto all’interno di una nazione”. “Sto dicendo – aggiunge - che il tasso di presenza di comunità islamiche in un paese aumenta la conflittualità”.

Non confondiamo i sovranisti con pazzi terroristi, scrive Nicola Porro il 19 marzo 2019. Continuiamo con la speciale zuppa di Porro straniera. Grazie ad un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri. Con un editoriale della direzione, il Financial Times del 15 marzo commenta la strage avvenuta in due moschee in Nuova Zelanda sostenendo che per troppo tempo si è accettato l’estendersi di una retorica civilmente inqualificabile da parte di nazionalisti radicalizzati diffusa grazie ai social media, a false notizie e manipolazioni, malamente motivata dall’attenzione al controterrorismo sviluppatosi per contrastare gli attentati e i fanatismi islamisti del dopo 2001. A cominciare da Donald Trump con la sua frase, dopo le manifestazioni di Charlotteville, secondo la quale anche tra i suprematisti bianchi si trovano persone perbene, proseguendo con Viktor Orbàn che teme il logoramento dell’identità cristiana dell’Europa, per finire a un senatore australiano preoccupato dall’espandersi dell’immigrazione musulmana, sarebbero tanti i politici, poi, secondo il Il Ft, che con toni esagerati in qualche modo hanno favorito la citata “retorica” terreno di coltura per tragici episodi come quello delle moschee di Christchurch. La tesi alla fine è che questa degenerazione sia stata possibile perché è stato dato un pulpito non solo nei “social” ma anche nei media e nella politica tradizionali a inaccettabili posizioni estremistiche. L’allarme del quotidiano della City per molti versi non è infondato: rivoli di razzismo sono avvertibili anche in un’Italia che nelle sue origini romane ha sempre favorito la mescolanza etnica assicurando pure quella bella pigmentazione scura di tanti connazionali (tra i quali chi scrive) che ben poco ha a che fare con il mito ariano coi suoi capelli biondi e occhi azzurri. Dai buu negli stadi agli insulti nelle strade per concittadini o immigrati dalla pelle scura, la naturale consapevolezza che ci ha accompagnati in questi decenni repubblicani che certe cose non si debbano neanche pensare figurarsi se si possano esprimere pubblicamente, si è rilassata. E certamente ciò è figlio anche di una crescita della volgarità nella discussione pubblica non solo sui social ma anche nel linguaggio politico più ufficiale. L’appello londinese alla massima vigilanza, dunque, nel contrastare l’espandersi di qualsiasi forma di odio razzista, in questo senso, deve essere condiviso e generare comportamenti conseguenti. Ciò sarà possibile anche, però, se i grandi media occidentali la smetteranno di strumentalizzare qualsiasi episodio per colpire non un razzismo che va stroncato in tutte le sue manifestazioni, ma qualsiasi pensiero che venga considerato non conformisticamente allineato a quello prevalente. È bene richiamare il presidente degli Stati Uniti a una compostezza di espressione che sia coerente con il suo incarico, ma sostenere che Trump sia razzista è un modo per fomentare l’odio non per contenerlo. Parlare di “un’internazionale suprematista” per l’esplodere di pur gravissimi episodi di delirio criminale razzista significa alimentare la follia dei delinquenti di cui si tratta non contenerla. Non è stato un suprematista bianco bensì un fedele musulmano come Abd al-Fattah al-Sisi, in un tempio della teologia maomettana come l’università di al Alzhar a dire che se l’Islam continuerà a considerare la terra della pace quella in cui domina e quella del conflitto quella dove non è decisivo, finirà per alimentare la convinzione che queste definizioni preparino lo scontro irrazionale tra un miliardo e mezzo di musulmani e il resto del mondo (tesi peraltro apertamente sostenuta, con qualche ragione religiosa a leggere il Corano, dalle parti di Teheran).

Riflettere, poi, sulla difesa dell’identità cristiana dell’Europa non è un invito al terrorismo razzista, più di quanto una rivendicazione sindacale sia un sostegno a passare alla lotta armata brigatista. Il conflitto tra culture diverse non può essere regolato dal conformismo cosmopolitico incapace di ragionare sulle radici della propria civiltà (l’unica, peraltro, che assieme ad alimentare razzismo, colonialismo, schiavismo ha avuto anche la forza, grazie al concetto stesso di libertà della “persona”, al contrario delle altre civilizzazioni del nostro ecumene, di porre le basi per contestare fino a quasi, nonostante tanti insuccessi anche attuali, sradicare razzismo, colonialismo e schiavismo). Come diceva Lindon B. Johnson – dileggiando Gerald R. Ford – un buon politico deve saper camminare e magari insieme masticare chewingum, così un buon giornalismo deve saper implacabilmente combattere ogni espressione di razzismo senza cedere però all’idiozia del politically correct.

Utrecht, ci hanno raccontato bugie, scrive Alessandro Gnocchi il 19 marzo 2019 su Nicola Porro. Subito dopo l’attentato a Utrecht da parte di un uomo di origini turche, i media si sono affrettati a riportare che l’assassino conosceva una delle vittime e che il movente era di natura passionale. Le indagini successive stanno dimostrando che non era vero: si tratterebbe (usiamo ancora il condizionale nonostante i pesanti indizi) di un attentato di matrice islamica, forse nato per reazione a quello “suprematista” in Nuova Zelanda. Il sospetto è che i mezzi d’informazione abbiano paura a raccontarci la verità…

Flaminia Bussotti per “il Messaggero” il 20 marzo 2019. Prende sempre più corpo la pista del terrorismo dietro l' attentato lunedì mattina in un tram a Utrecht, nel quale sono morte tre persone. L' autore, un turco di 37 anni, Gökmen Tanis era riuscito a darsi alla fuga in auto, ma è stato arrestato dalla polizia otto ore dopo la strage. Viene interrogato dal giudice ed è il principale indiziato. Anche se ieri le forze dell' ordine hanno arrestato altri due sospettati. Gli indizi di un movente terroristico si rafforzano, stando agli inquirenti. Inizialmente non veniva esclusa l' ipotesi di un regolamento di conti fra familiari, ma ora, secondo la polizia, le modalità dell' attacco e uno scritto rinvenuto nell' auto della fuga rimandano all' atto di terrorismo. Stando a una testimone citata dal giornale locale Algemeen Dagblad, il biglietto in lingua straniera trovato nella Clio rossa su cui la polizia ritiene che l' uomo si sia dato alla fuga dopo la sparatoria, conteneva la parola Allah in caratteri cubitali. Altri media riferiscono che nel biglietto l' autore ha scritto anche di «aver agito in nome di Allah» e salutato «i fratelli musulmani». La polizia ha arrestato altri due uomini, due fratelli di 23 e 27 anni, che non hanno legami di parentela con il sospetto. Tanis ha aperto il fuoco lunedì mattina in un tram contro i passeggeri, uccidendo una donna di 19 anni e due uomini di 28 e 49 anni. Le tre vittime sono originarie della provincia di Utrecht e non hanno «alcun collegamento» con l' imputato, stando a polizia e procura inquirente. In un primo momento, secondo quanto divulgato dai media turchi, si ipotizzava che la donna fosse una parente dell' attentatore, forse una cognata, e che avrebbe potuto trattarsi di una disputa familiare. Secondo testimoni, i due uomini potrebbero essere stati freddati perché erano accorsi ad aiutare la donna. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato di avere attivato i servizi segreti turchi per indagare sul caso. «Alcuni dicono che si tratta di una faccenda di famiglia, altri di un atto terroristico, i nostri servizi indagano», ha detto Erdogan citato dall' agenzia Anadolu. Secondo la polizia olandese, nell' auto di cui l' uomo si è servito per la fuga, oltre allo scritto è stata rinvenuta anche una pistola. Gli inquirenti hanno anche aggiornato il numero dei feriti: sette di cui tre in modo grave. Sia il principale sospetto che gli altri due uomini arrestati vengono interrogati. I giornali elencano anche la lunga lista di crimini sul conto di Gökmen Tanis: furto, rapina taccheggio e stupro. Era in procinto di essere processato proprio per uno stupro commesso a luglio 2017. Era in carcere da gennaio per avere più volte violato il regime di libertà vigilata cui era sottoposto ma l' 1 marzo era stato rimesso in libertà in attesa dell' inizio del processo. La donna vittima della violenza ha detto all' Algemeen Dagblad che l' uomo «più che un terrorista è un pazzo tossicodipendente, psicopatico». Secondo i vicini, era un «fallito con problemi di droga» e da dopo il divorzio dalla moglie due anni fa mostrava evidenti sbalzi di umore. Il leader del partito xenofobo e anti Islam Pvv, Geert Wilders, alla luce del rilascio del pregiudicato il primo marzo scorso, ha chiesto le dimissioni del ministro della giustizia, Ferd Grapperhaus. Da testimonianze varie e giornali risulta che il fratello di Gokmen Tanis è noto ai servizi di sicurezza olandesi per presunti legami con un gruppo radicale islamico turco. Sul luogo della sparatoria la gente si è raccolta deponendo fiori e partecipando al lutto. Il parlamento olandese ha osservato ieri un minuto di silenzio. «L' Olanda è stata colpita al cuore», la «nostra fiducia è stata scossa», ha detto il premier Mark Rutte, ma la gente è salita lo stesso sui tram martedì mattina ed è andata normalmente a lavorare: è la migliore risposta a questo crimine, mostra «che la nostra società è più forte dell' odio e della violenza». Il premier si è poi anche recato a deporre fiori sul luogo dell' attentato.

Terrorismo: gli attentati sventati (e non lo sappiamo). Dieci casi in Italia, poi altri in Russia, Francia, Olanda. L'antiterrorismo funziona. Ecco dove e come scrive Fausto Biloslavo il 29 marzo 2019 su Gli Occhi della Guerra. La segnalazione della Cia, che permette all’antiterrorismo russo di sventare un attacco suicida alla cattedrale di San Pietroburgo, in Russia. Le intercettazioni preventive che incastrano la cellula kosovara pronta a fare saltare in aria il Ponte di Rialto a Venezia. Le trappole esplosive per il Papa in visita nelle Filippine, le armi chimiche che potevano far strage in Germania e gli agenti infiltrati che salvano il premier inglese Theresa May e impediscono l’ultimo attacco di pochi mesi fa in Olanda. Le bombe non scoppiate in Occidente dalla proclamazione del Califfato nel 2014 a oggi sono centinaia e una decina in Italia secondo fonti qualificate. Il 6 marzo scorso il presidente Vladimir Putin ha rivelato che in Russia «il numero di atti terroristici prevenuti dalle forze di sicurezza resta elevato, circa 20 all’anno» dal 2016. Dalla nascita dello Stato islamico sono almeno 138 gli attentati sventati più importanti, soprattutto nei Paesi occidentali, compresi i 60 della Russia, ma il numero reale è ben più alto. Nella sola Gran Bretagna se ne contano 25 dal 2013 e, in Francia, 51 dalla strage del settimanale Charlie Hebdo, il 7 gennaio 2015. Il 27 settembre dello scorso anno gli olandesi arrestano ad Arnhem sei presunti terroristi dello Stato islamico, che vogliono scatenare un massacro con giubbotti esplosivi, fucili d’assalto e macchine piene di esplosivo. Il 10 gennaio scorso, all’inizio del processo, il pubblico ministero conferma che «gli imputati avevano salutato gli amici ed erano pronti a colpire provocando dozzine di vittime. L’Olanda è scampata a un grave attentato». Grazie a una «dritta» dell’Aivd, il servizio segreto militare, che ha segnalato alla polizia Hardi N., il capo della cellula. «Bombe che non sono scoppiate ne abbiamo “disinnescate” tante in Europa e anche in Italia» conferma Sabrina Magris esperta di antiterrorismo. «Altre situazioni sono state “percepite”, come si dice nel gergo dell’intelligence: si tratta di possibili attacchi evitati, che non sono stati resi pubblici». È il 30 marzo 2017: a Venezia finisce in manette una cellula di kosovari, che vuol fare saltare in aria il Ponte di Rialto. Arjan Babaj,  Fisnik Bekaj e Dake Haziraj vengono condannati a complessivi 13 anni di reclusione, in virtù del rito abbreviato. Il più giovane, minorenne, ottiene un ulteriore sconto di pena in Appello, con una riduzione a tre anni e quattro mesi. In pratica, tornerà in libertà fra non molto. «Le intercettazioni preventive sono un ottimo strumento per evitare che le bombe scoppino veramente» spiega nelle lezioni del master sul terrorismo confessionale all’Università di Bergamo, il colonnello dei carabinieri Paolo Storoni. «Ci permette di fermare l’aspirante terrorista prima che compia l’attentato». Proprio questo ufficiale dell’Arma ferma in tempo, nel marzo di due anni fa, Farooq Aftab, estremista islamico pachistano. «Facciamo qualche danno perché ammazzano i musulmani. Vai a fare saltare uno o due aerei. Vedi è facile colpire un aereo. C’è solo il filo (spinato, ndr)» diceva passando in macchina davanti all’aeroporto di Orio al Serio. Il pachistano Muhammad Waqas e il tunisino Lassaad Briki sono stati condannati a sei anni di carcere perché volevano colpire la base militare di Ghedi, in provincia di Brescia. E si sono fatti dei selfie di propaganda e minaccia davanti al Duomo di Milano e al Colosseo, a Roma. Al ritmo di 20 attacchi sventati all’anno la Russia è il Paese con maggior rischio attentati. Nel dicembre 2017 una cellula dello Stato islamico sta per sferrare un attacco suicida a San Pietroburgo, alla cattedrale ortodossa della Madonna di Kazan gremita di turisti. L’Fsb, i servizi russi, intervengono appena in tempo scoprendo il covo con i terroristi e l’esplosivo. Vladimir Putin ringrazia il presidente Donald Trump per le informazioni passate dalla Cia, che hanno permesso di sventare l’attentato. Solo nel nord del Caucaso sono stati evitati sei attacchi nel 2018 con una cinquantina di terroristi uccisi, afferma il direttore dell’Fsb Alexander Bortnikov. Alla vigilia del 9 maggio dello scorso anno, giorno della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, vengono arrestati a Mosca alcuni sospetti provenienti dalla Siberia e pronti a colpire durante la parata militare. Il complotto sarebbe stato scoperto grazie alle intercettazioni delle comunicazioni via Telegram dalla Siria. Dopo l’attacco del 22 marzo 2017 con il Suv ariete sul ponte di Westminster a Londra (bilancio: quattro civili e un agente uccisi oltre al terrorista), l’intelligence britannica rivela di avere sventato una media di un attacco al mese. «Di sicuro i falliti attentati sono molti di più di quelli annunciati, anche se i livelli di pianificazione e realizzazione hanno gradi diversi» dice Marco Lombardi, coordinatore di Itstime, progetto dell’Università Cattolica di Milano su sicurezza e terrorismo. Lo stesso premier britannico Theresa May finisce sotto tiro nel dicembre 2017. Il terrorista Naa’imur Rahman intende vendicarsi dell’uccisione in Siria di suo zio, volontario della guerra santa, prendendo d’assalto il numero 10 di Downing street, la residenza del premier. «Voglio uccidere Theresa May» dice l’aspirante kamikaze a un agente infiltrato dell’MI5, il servizio interno britannico, cercando un giubbotto esplosivo. Uno degli attacchi del terrore sventati più eclatanti e controversi riguarda la visita di Papa Francesco nelle Filippine, a gennaio 2015. Il Vaticano ha sempre smentito, ma l’antiterrorismo avrebbe sventato un attacco con trappole esplosive. Il percorso del convoglio viene effettivamente cambiato all’ultimo momento per motivi di sicurezza. L’ex capo della polizia filippina, Getulio Pascua Napenas, conferma il piano per assassinare il Pontefice ordito da Zulkifli bin Hir. Nome di battaglia Marwan era l’attentatore di Jemaah Islamiyah, la costola di Al Qaida nell’arcipelago. Quattro giorni dopo la visita del Papa, Marwan viene individuato grazie all’Fbi ed eliminato dai corpi speciali della polizia. L’antiterrorismo francese conferma che, dal massacro nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo del 2015 allo scorso anno, sono stati sventati 51 attentati. «Diversi attacchi in Europa non sono andati a segno grazie alla bravura di intelligence e antiterrorismo di penetrare nell’ambiente islamico» spiega Alessandro Camilli fondatore di Horizon intelligence a Bruxelles, che si occupa di analizzare la minaccia. I francesi hanno sventato complotti per mettere a ferro e fuoco Disneyland, alle porte di Parigi, e attacchi per replicare la strage del Bataclan, la sala da concerti con la mattanza che ha provocato una novantina di vittime. Nel giugno dello scorso anno viene scoperto il piano «di un radicalizzato convertito all’Islam» per compiere una strage in un club di scambisti nella capitale. L’Europa ha evitato pure attacchi devastanti con armi di distruzione di massa. Lo scorso giugno finisce in manette a Colonia un tunisino di 29 anni. Holger Munch, capo della polizia federale, ammette che «per la prima volta in Germania erano stati effettuati preparativi molto concreti per una bomba biologica». Dall’altra parte del mondo, in Australia, nel 2017 sventano un complotto per fare saltare in aria un aereo passeggeri in partenza da Sydney con dell’esplosivo nascosto in un tritacarne. L’allarme arriva dall’intelligence britannica. Ancora: il 4 maggio 2018 si evita una strage alla maratona di Berlino. Il capo della cellula è un sodale di Anis Amri, il terrorista del mercatino natalizio di Berlino poi ucciso alle porte di Milano. La rete del terrore, come si vede, resta fitta. 

·        Ma l’Isis non era stato sconfitto?

Fox News annuncia: «Ucciso il capo dell’Isis al Baghdadi». E Trump twitta: «Qualcosa di grande è accaduto». Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 da Corriere.it. Secondo fonti militari riportate da Fox News «un obiettivo di alto profilo dell’Isis» è stato colpito nel corso di un raid degli Stati Uniti nella giornata di sabato nella zona di Idlib, in Siria. L’identità della persona uccisa non può essere ancora confermata, spiegano le fonti, ma si crede si tratti proprio del leader dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi. Secondo quanto riporta la Cnn, al Baghdadi sarebbe stato localizzato grazie all’apporto della Cia. Pochi minuti prima che si diffondesse la notizia del raid il presidente americano, Donald Trump, con un tweet aveva annunciato una dichiarazione per le nove del mattino ora di Washington, scrivendo «qualcosa di molto grande è appena accaduto!». Fonti della Casa Bianca hanno quindi spiegato che si tratterà di un annuncio relativo alla politica estera. La caccia ad al Baghdadi durata da cinque anni. Ad aprile era ricomparso in un video per la prima volta dal luglio 2014, quando fu ripreso mentre parlava alla moschea di Mosul. Nel febbraio del 2018 diverse fonti Usa riportarono che il leader dell’Isis era rimasto ferito nel corso di un bombardamento aereo del maggio del 2017 e, a causa delle ferite, fu costretto a lasciare la guida dell’Isis per almeno cinque mesi. « Abu Bakr al Baghdadi si sarebbe ucciso dopo un breve scontro a fuoco con i soldati Usa entrarti nel compound dove si nascondeva. Avrebbe azionato il detonatore di un giubbotto esplosivo facendosi saltare in aria. Lo raccontano fonti del Pentagono a Newsweek. Il leader dell’Isis è stato colto dal raid mentre era con alcuni familiari. Due delle mogli sarebbero rimaste uccise probabilmente travolte dall’esplosione. 

Ucciso in Siria il califfo dell’Isis al-Baghdadi. Attesa per il discorso di Trump. Il Dubbio il 27 Ottobre 2019. il “califfo” dell’autoproclamato Stato Islamico si sarebbe fatto esplodere per evitare la cattura nel corso di un raid delle truppe Usa nella Siria nord-occidentale. Abu Bakr al-Baghdadi, il “califfo” dell’autoproclamato Stato Islamico, si sarebbe fatto esplodere per evitare la cattura nel corso di un raid delle truppe Usa nella Siria nord-occidentale. Ad annunciarlo sono alcuni media americani citando fonti del Dipartimento della Difesa di Washingrton. La Casa Bianca ha comunicato che il presidente Donald Trump farà «una dichiarazione importante» alle 9, alle 14 ora italiana. Ma è stato lo stesso Trump a trwittare: «È appena successo qualcosa di molto grande!». Secondo quanto riferisce la Cnn, invece, sarebbero in corso Sono in corso test del dna e biometrici per verificare la morte del leader dell’Isis al Baghdadi. Il nascondiglio del leader dell’Isis sarebbe stato localizzato grazie all’aiuto della Cia. Al-Baghdadi, nome di battaglia di Ibrahim Awad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai, si rivelò al mondo cinque anni fa. All’inizio del luglio 2014, poche settimane dopo che l’Isis aveva preso il controllo della città di Mosul, al-Baghdadi apparve in un video che lo ritraeva nella moschea Al-Nouri mentre pronunciava un sermone in cui ordinava ai fedeli musulmani riuniti di obbedirgli e si autoproclamava “califfo” di un territorio che si estendeva dalla Siria all’Iraq, ovvero dalla provincia di Aleppo fino a quella di Diyala. Da allora, si sono succedute le drammatiche e sanguinose tappe dell’ascesa e della caduta dello Stato Islamico. Nell’agosto del 2014, i miliziani dell’Isis avviano nel nord dell’Iraq il massacro e la riduzione in schiavitù di migliaia di appartenenti alla minoranza religiosa degli yazidi, e cominciano a diffondere una serie di video nei quali vengono mostrate le decapitazioni di ostaggi occidentali. Nel settembre dello stesso anno, gli Stati Uniti danno il via ad una campagna di bombardamenti, colpendo anche la “capitale” dell’Isis, Raqqa. Pochi mesi dopo, a inizio del 2015, lo Stato Islamico è all’apice della sua espansione territoriale, con il controllo di un’area di 88mila chilometri quadrati, tra la Siria occidentale e l’Iraq orientale, nella quale vivono quasi 8 milioni di persone. Le entrate dell’Isis ammontano a miliardi di dollari, grazie al contrabbando del petrolio, alle estorsioni e ai rapimenti di ostaggi. Il 2017 è un anno decisivo: le forze siriane riconquistano Palmira e quelle irachene liberano Mosul, ma il prezzo pagato è altissimo. In 10 mesi di battaglia muoiono migliaia di civili, la città viene in gran parte distrutta e circa 800mila persone perdono le loro abitazioni. Nell’ottobre dello stesso anno, le Forze democratiche curdo-siriane (Sdf) riprendono il controllo di Raqqa, mettendo fine a tre anni di dominio dell’Isis. A dicembre, il governo iracheno dichiara la vittoria contro lo Stato Islamico, riprendendo il controllo del confine tra Iraq e Siria. Il 23 marzo, le milizie  dell’Sdf annunciano la caduta di Baghuz, l’ultima roccaforte dell’Isis. È «la totale eliminazione del cosiddetto califfato e la sconfitta territoriale al 100 per cento dell’Isis».

“Al Baghdadi è stato ucciso” l’annuncio degli Stati Uniti. Lorenzo Vita su it.insideover.com il 27 ottobre 2019. Il califfo Abu Bakr Al Baghdadi è morto in un conflitto a fuoco nel governatorato di Idlib. Questo l’annuncio del Pentagono seguito da un tweet del presidente Donald Trump che ha detto che era appena successo “qualcosa di veramente grosso”. Attendendo le informazioni che dovrebbe dare lo stesso presidente, probabilmente in conferenza stampa alla Casa Bianca, circolano già le prime indiscrezioni su come sia avvenuta questa morte. Secondo alcuni si tratta di un raid chirurgico della Coalizione nel settore di Idlib, dove pare che fosse nascosto al Baghdadi. Altri, invece, parlano di un conflitto a fuoco da cui il leader dell’Isis si sarebbe sottratto immolandosi con una cintura esplosiva. Fonti discordanti, voci che circolano tra le fonti dei vari media che stanno dando la notizia. Ma quello che a questo sembra acclarato è che per Trump potrebbe essere davvero l’inizio ufficiale del disimpegno: almeno in quell’area del Medio Oriente. Intanto, come riporta la Cnn, che cita funzionari di alto profilo della Difesa americana, sono in corso i primi test biometrici e del Dna per capire se i resti del cadavere appartengano effettivamente ad al Baghdadi. L’annuncio è un altro importante segnale di qualcosa che sta cambiando, o è già cambiato, nella guerra di Siria. Lo Stato islamico, guidato da al Baghdadi, è da sempre la ragione formale dell’intervento militare statunitense e della Coalizione internazionale in Siria e prima ancora in Iraq. E ogni sua “morte” è stata il simbolo di un cambio di passo. Lo è ancora di più oggi, dal momento la notizia arriva dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato di voler abbandonare parte (o tutta) la Siria con la giustificazione politica di Trump (“mai più guerre infinite e tribali”) ma anche strategica di voler terminare alcuni conflitti per dedicarsi a quella “ritirata strategica” utile a far concentrare il Pentagono su altri settori. E la e tempistica, anche in questo caso, è estremamente favorevole al presidente degli Stati Uniti, specialmente dopo le critiche feroci riguardo al semaforo verde rispetto all’avanzata della Turchia contro i curdi e il tacito accordo che sarebbe stato Vladimir Putin il vero controllore di quell’area del Medio Oriente.

La conferma di Siria, Iran e Iraq. Prime conferme arrivano anche dal campo “avversario”. Secondo l’agenzia Reuters, fonti iraniane e irachene hanno dichiarato di aver ricevuto conferma dalla Siria della morte del califfo al Baghdadi. Il sito iracheno Shafaaq riporta fonti della sicurezza siriane hanno effettivamente confermato all’intelligence di Baghdad della morte del fondatore dell’Isis. “Le nostre fonti interne alla Siria hanno confermato all’intelligence irachena incaricata di dare la caccia ad al Baghdadi che è stato ucciso insieme alla sua guardia del corpo a Idlib dopo che è stato scoperto il suo covo mentre tentava di portare la sua famiglia verso il confine turco”. La televisione di Stato irachena, al Iraqiya, parla di un video del raid che ha portato alla morte del Califfo.

Trump: «Al Baghdadi è morto, si è fatto saltare in aria». Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Gaggi e Giuseppe Sarcina da Washington. Trump usa il raid per ricompattare i repubblicani e il suo elettorato nella battaglia sull’impeachment. Il leader dell’Isis Abu Nakr Al Baghdadi è stato ucciso nel corso di un raid americano in Siria. La notizia è stata anticipata dai media Usa e poi confermata da Donald Trump in una conferenza dalla Diplomatic Reception Room della Casa Bianca. «È morto dopo essere fuggito in un vicolo cieco, piangendo e urlando», ha detto il presidente, «si è fatto saltare in aria e ha ucciso tre dei suoi figli che erano con lui». Trump ha precisato che «nessun americano è stato ucciso» nel corso del raid e ha ringraziato Russia, Siria, Turchia, Iraq e «soprattutto» curdi siriani per l’aiuto che hanno dato all’esercito americano nella messa a punto del raid. Nel corso della conferenza stampa il presidente ha accennato al fatto che per quanto riguarda il rimpatrio dei foreign fighters i Paesi europei sono stati «una grande delusione». Al Baghdadi era il leader dell’Isis, che Trump ha definito «la più spietata e violenta organizzazione terroristica del mondo». «Gli Stati Uniti lo cercavano da molti anni», ha aggiunto il presidente, «la sua uccisione è stata una delle principali priorità di sicurezza nazionale della mia amministrazione». Secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, Al Baghdadi si era rifugiato — insieme a un numero imprecisato di miliziani e ad alcuni membri della sua famiglia, compresi alcuni bambini — in un compound. Durante il raid, ha cercato la fuga attraverso una galleria sotterranea. Poi si è fatto saltare in aria, uccidendo anche tre dei suoi figli che in quel momento si trovavano con lui. Nel corso dell’operazione sono stati uccisi molti miliziani, inoltre sono state catturate diverse persone. Per verificare l’identità del leader dell’Isis, l’esercito americano ha effettuato dei test biometrici sul posto. L’operazione, ha spiegato il presidente, è entrata nel vivo due settimane fa ed è culminata nel raid del 26 ottobre, ma ha alle spalle mesi di preparazione. «Abbiamo dovuto rinviare il raid diverse volte», ha detto Trump, «ma ieri abbiamo avuto la conferma della presenza di Al Baghdadi nel compound». Il raid notturno è durato circa tre ore e ha visto l’impiego di otto elicotteri da guerra. «La parte più difficile della missione è stata arrivare e andare via», ha detto Trump, spiegando che i militari hanno dovuto evitare l’ingresso del compound dove era nascosto Al Baghdadi perché c’era dell’esplosivo. Il presidente, che ha seguito in diretta il raid dalla Situation Room della Casa Bianca («è stato come vedere un film»), ha spiegato che l’intera operazione è stata resa possibile anche dall’aiuto pratico fornito da altri Paesi. «La Russia ha aperto alcune delle sue basi», ha detto Trump in conferenza stampa, mentre «i curdi ci hanno dato informazioni molto utili». Il presidente ha spiegato che da tempo era deciso a scovare il leader dell’Isis. «Dal primo giorno della mia presidenza mi sono chiesto dov’è Al Baghdadi. Abbiamo fatto un lavoro eccezionale. Loro non usavano nemmeno i cellulare per non essere rintracciati. Qualche mese fa ho cominciato a ricevere delle informazioni utili, anche dall’intelligence». Trump ha riferito che «molte persone sono morte» nel blitz contro Al Baghdadi, ma non c’è nessun caduto tra i militari americani. Il presidente ha però aggiunto che un cane delle forze americane è rimasto ferito. «Siamo certi che la morte di Al Baghdadi non fermerà l’Isis ma noi continueremo a combatterlo», ha detto il presidente Usa, precisando che l’intelligence americana ha già identificato i possibili successori del Califfo: «li stiamo controllando».

Trump conferma: "Il leader dell'Isis al Baghdadi è morto. Si è fatto esplodere insieme ai suoi tre figli". Il terrorista, ha spiegato il presidente Usa, è morto da "codardo". Un raid "impeccabile", reso possibile "grazie all'aiuto della Russia, Siria, Turchia e Iraq e anche dei curdi siriani". "Paesi europei sono stati una grande delusione" nella lotta all'Isis. La Repubblica il 27 ottobre 2019. Arriva la conferma da parte del presidente statunitense Donald Trump: il leader dell'Isis Abu Bakr al Baghdadi è stato ucciso nel corso di un raid americano a Idlib, nella Siria nordoccidentale. Insieme a lui, è stato ucciso anche Hassan al-Muhajir, il numero 2 dell'organizzazione terroristica, portavoce del gruppo. Lo riferiscono fonti dell'intelligence turca. L'annuncio del presidente Usa è arrivato nel corso di una conferenza stampa alla Diplomatic Reception Room della Casa Bianca. "Al Baghdadi si è fatto saltare in aria con una cintura esplosiva e ha ucciso tre dei suoi figli che erano con lui". Il terrorista era fuggito in un tunnel dove è rimasto intrappolato. Trump ha seguito in diretta lo sviluppo delll'operazione militare dalla Situation Room della Casa Bianca con il vice Mike Pence, il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O'Brien, il segretario alla Difesa Mark Esper, il capo di stato maggiore interforze Mark Milley e il vice direttore per le operazioni speciali Marcus Evans.

"Era un uomo depravato e un codardo". "Abbiamo scoperto dove si trovava al Baghdadi più o meno nello stesso periodo in cui abbiamo deciso di ritirare i soldati dalla Siria", ha rivelato il tycoon, che ha aggiunto che Il leader dell'Isis "era un uomo malato e depravato, violento ed è morto come un codardo, come un cane, correndo e piangendo". "C'erano 2 mogli, entrambe indossavano giubbotti esplosivi, non li hanno fatti esplodere ma sono comunque morte". Inoltre undici bambini sono stati prelevati dalle forze Usa dal compound di al Baghdadi. 

I test del Dna hanno confermato l'identità. "I risultati dei test del Dna hanno confermato che il corpo è il suo", ha affermato il presidente Usa. I test sono stati fatti "sul posto del raid dai tecnici che erano con i nostri militari". "I nostri soldati hanno dovuto rimuovere le macerie per arrivare al suo corpo perché con la sua esplosione era crollata la galleria dove si trovava", ha aggiunto.

Grazie all'aiuto di Turchia, Russia, Siria, Iraq e curdo siriani. "Deluso dall'Ue". Il presidente ha poi sottolineato l'importanza dell'aiuto della Turchia. "La parte più difficile della missione è stata arrivare e andare via". "Abbiamo informato la Turchia, sono stati eccezionali, abbiamo sorvolato parte del loro territorio". Ed ha spiegato che l'operazione è stata resa possibile da una felice collaborazione internazionale: "Questo raid è stato impeccabile ed è stato reso possibile grazie all'aiuto della Russia, Siria, Turchia e Iraq e anche dei curdi siriani". Il leader della Casa Bianca ha poi puntato il dito contro il vecchio continente: i "Paesi europei sono stati una grande delusione" nella lotta all'Isis. Il tycoon è critico in particolar modo verso i Paesi europei che non vogliono farsi carico dei loro combattenti Isis catturati in Siria. "I miei hanno fatto un sacco di telefonate dicendo, prendetevi i vostri combattenti Isis", ha riferito il presidente Usa, puntando in particolare il dito contro Francia, Germania e Regno Unito.

L'operazione: assalto con otto elicotteri. "Siamo atterrati con otto elicotteri e all'arrivo non sono entrati dall'ingresso principale perché sapevano che c'era esplosivo", ha detto Trump, aggiungendo che l'atterraggio e la ripartenza in elicottero erano i momenti più pericolosi dell'operazione. "Nel volo di un'ora e 10 minuti stavamo sorvolando una zona pericolosa", ha detto, e poi non ha voluto rispondere a chi gli chiedeva dove l'elicottero sia atterrato al ritorno, limitandosi a dire che è rientrato in un Paese amico. "Nel nostro raid contro Abu Bakr Al Baghdadi sono stati uccisi molto combattenti dell'Isis". Ed aggiunto che "nel tunnel era rimasto solo Baghdadi, tutti i suoi seguaci sono stati uccisi o si sono arresi". "Preparavamo l'operazione da tre giorni e nessuno dei nostri è rimasto ferito, nonostante le sparatorie. Non siamo entrati dalla porta principale, come avrebbe fatto una persona normale". La missione dimostra che "quando usiamo la nostra intelligence in modo corretto, è fantastica".

"Un cane, è l'unico nostro ferito durante il raid". Nonostante le forze speciali Usa abbiano dovuto far fronte a un livello di fuoco "da non credere", l'unico ferito nel raid che ha portato alla morte di al Baghdadi è stato un cane usato dai militari nell'operazione. "Un cane bellissimo, di grande talento, è stato ferito e lo abbiamo riportato indietro". "Avevamo anche un robot con noi per andare nei tunnel in via precauzionale": "abbiamo ricevuto informazioni minuto per minuto. Poi ci hanno detto che era rimasta un'unica persona nel compound che stava scappando in un vicolo cieco". Il presidente Trump ha inoltre spiegato di non aver avvertito la speaker della Camera Nancy Pelosi prima del raid: "No, come sapete Washington è regina nella fuga di notizie, non ci siamo fidati a notificare fino a quando non eravamo fuori. Immaginate se ci fossero state fughe di notizie e le nostre truppe fossero finite nei guai".

"Non vogliamo truppe Usa in Siria per anni". "Io voglio che i nostri soldati tornino a casa", ha poi avvertito il presidente Usa. "La Siria e la Turchia devono decidere per conto loro, non vogliamo tenere le nostre truppe lì per anni". Parlando del ritiro Usa dalla Siria, il tycoon ha spiegato di non voler "fare la guardia a Turchia e Siria per il resto della nostra vita". "Metteremo al sicuro il petrolio che c'è in alcune zone", ha aggiunto il presidente, sottolineando gli "incredibili" costi di una presenza Usa in Siria.

"Ora il mondo è un posto più sicuro". "Bin Laden è stato un obiettivo importante, ma credo che al Baghdadi sia ancora più importante", "un uomo che aveva costruito un intero Califfato". Il leader di al Qaida Bin Laden era stato ucciso in un blitz americano nel 2011 durante l'amministrazione Obama. Il presidente ha rivendicato di aver "cancellato al cento per cento il califfato" di al Baghdadi, ed ha definito i sostenitori del "califfo" dei "perdenti" che "in alcuni casi erano dei burattini molto spaventati, in altri casi degli assassini spietati". "Conosciamo già il successore del leader dell'Isis Abu Bakr al Baghdadi, è già nei nostri sistemi". Il terrorista "Voleva rifondare lo Stato islamico, la sua uccisione è stata importante". Si tratta di un grande successo per la pace mondiale secondo il presidente statunitense: "Ora il mondo è un posto più sicuro". "Un grande giorno per l'America e per il mondo. Il presidente ha assunto una decisione coraggiosa nel lanciare il raid e le nostre truppe l'hanno eseguita in modo brillante". Non ha nascosto la sua soddisfazione il ministro della Difesa americano, Mark Esper, in un'intervista a Abc.

Le reazioni internazionali. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu si è congratulato con il presidente Trump "per l'impressionante successo che ha reso possibile l'eliminazione del capo dell'Isis al Baghdadi". "Questo - ha aggiunto - illustra la nostra comune determinazione, degli Usa e di tutti i paesi liberi, nel combattere le organizzazioni e gli stati terroristici. Questo successo è un punto di riferimento importante ma la campagna ancora non è conclusa".

Gian Micalessin per “il Giornale” il 28 ottobre 2019. Da una parte il destino degli alleati curdi già traditi da altri, illustri predecessori. Dall' altra la testa di un Califfo che in tempo di presidenziali può valere la rielezione. La scelta di Donald Trump di fronte a un' occasione irripetibile e impossibile da rifiutare era praticamente scontata. Ma i luoghi e le circostanze temporali dell'eliminazione di Abu Bakr Al Baghdadi, offerte ieri dalla ricostruzione della Casa Bianca e da altre fonti, consentono di inquadrare meglio anche le circostanze che hanno portato al via libera di Washington all' offensiva turca contro i curdi, all' instaurazione della cosiddetta forza di sicurezza sul confine e al momentaneo ritiro delle forze speciali americane dalla Siria. Un ritiro peraltro revocato con la scusa della difesa dei pozzi di petrolio non appena si è capito che il Califfo in fuga non aveva più vie d' uscita. Ma dietro la caccia finale ad Al Baghadi, innescata un mese fa dalle segnalazioni di fonte irachena sui movimenti dei suoi familiari verso Idlib, si cela un complesso e cinico gioco di specchi e maschere. Un giochino in cui Recep Tayyp Erdogan concede, in cambio del via libera all'operazione anti curda, quelle informazioni sull' ultimo rifugio del terrorista che i suoi servizi segreti avevano sempre tenuto ben nascoste. Ma quella concessione non è né semplice, né scontata. Si consuma dietro le quinte dell' apparente rottura tra Washington e Ankara di due settimane fa. Così mentre Erdogan rivela di aver buttato nel cestino una lettera di Trump e la Casa Bianca minaccia le sanzioni più pesanti della storia ai danni dell' alleato, la Cia tesse la tela capace di mettere con le spalle al muro il presidente turco. Una tela in cui, grazie anche a molte informazioni di fonte curda, sono enumerate tutte le connivenze dell'«alleato» con lo Stato islamico. Da quando nel 2015 ne acquistava il petrolio razziato in Siria a quando, negli ultimi mesi, si teneva ben strette le informazioni dei propri servizi segreti sui movimenti del Califfo e dei suoi ultimi fedelissimi. Un gioco sottile arrivato a compimento nella partita di scacchi consumatasi lo scorso 17 ottobre nel palazzo presidenziale di Ankara. Una partita in cui Erdogan fa i conti con le prove sbattutegli in faccia dal vice presidente Mike Pence e da quel Mike Pompeo, che prima di occupare la Segreteria di Stato aveva guidato la Cia. La posta di quella partita è il baratto segreto con cui Trump potrà rivendicare la vittoria finale sull' Isis. Ma una consegna più o meno ufficiale del Califfo agli Usa renderebbe evidente le passate complicità. Molto meglio spingerlo verso Idlib, verso quella discarica del jihadismo dove il Califfo si ritroverà stretto tra i nemici di Al Qaida, i Russi, l'esercito siriano, gli agenti turchi presenti in zona e i segugi della Cia. Un recinto senza vie d' uscite dove in cambio di un ostaggio prezioso come Al Baghdadi, parcheggiato a soli quattro chilometri dal proprio confine, è possibile esigere un congruo supplemento di prezzo. Soprattutto se la sua cattura richiede l' utilizzo di una base in territorio turco come Incirlik e un' operazione aerea con elicotteri e jet. Un' operazione durata ore e condotta a cavallo della frontiera turco nell' indifferenza assoluta di radar e antiaeree di Ankara.

Foto in posa, dettagli cruenti e autoelogi. Lo show di Donald comandante in capo. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Gaggi e Giuseppe Sarcina da Washington. Trump usa il raid per ricompattare i repubblicani e il suo elettorato nella battaglia sull’impeachment. «Era come vedere un film!». Nel momento più difficile della sua presidenza, incalzato da un impeachment che minaccia la sua sopravvivenza politica, criticato anche dai repubblicani per aver abbandonato i curdi, con l’eliminazione di Al Baghdadi, Donald Trump prende una boccata d’ossigeno. L’operazione delle forze speciali viene trasformata dal presidente in evento televisivo con 4 obiettivi: consolidare il consenso nel suo elettorato; presentare l’impeachment come l’attacco antipatriottico a un presidente che difende l’America; ricompattare il fronte repubblicano, coi «falchi» critici per la sua politica siriana, come il senatore Lindsey Graham, che ieri mattina erano alla Casa Bianca per lodarlo pubblicamente; ricucire il rapporto coi servizi, spesso sconfessati e ora in grado di svolgere un ruolo-chiave nell’iter dell’impeachment. Il tutto costruito nei 50 minuti di una straordinaria diretta televisiva nella mattina domenicale americana. Il presidente illustra con molti dettagli l’operazione degli otto elicotteri, il sorvolo per 70 minuti di aree molto pericolose, i contatti coi governi dei Paesi interessati, la scelta di non informare i leader democratici del Congresso («dovevamo mantenere il segreto, Washington è piena di spifferi»). Ma, soprattutto, insiste sulla fine del fondatore dell’Isis raccontando delle due mogli cadute, dei tre figli che Al Baghdadi si è portato dietro nei cunicoli sotterranei, condannandoli a morire con lui. Trump lo definisce «un animale codardo» che «è morto come un cane piangendo e gridando» quando, arrivato in fondo al cunicolo, si è fatto esplodere. E, ancora, la perizia del commando che è entrato nel compound sfondando i muri per non cadere nella trappola delle porte, minate. Missione conclusa senza perdite Usa (unico «eroe» il cane che inseguiva Al Baghdadi nel cunicolo, ferito) mentre sul terreno sono rimasti molti combattenti dell’Isis, liquidati da Trump come, «perdenti, marionette spaventate». I toni sono quelli, ormai consueti, iperbolici e di autoelogio. Ma in un momento così drammatico colpiscono di più: è stato il presidente a dare via libera all’attacco, ma ne parla come se l’avesse condotta in prima persona, racconta di aver seguito tutto dalla Situation Room e fa distribuire una foto molto diversa da quella scattata dal fotografo della Casa Bianca nel 2011, quando fu ucciso Osama bin Laden. Lì il presidente era quasi una figura secondaria, mentre ora l’immagine è da comitato centrale sovietico, con Trump al centro di uno schieramento di generali e membri del suo governo. Trump ringrazia i Paesi che hanno collaborato, dalla Turchia alla Russia (ma Mosca nega di aver collaborato), i militari e l’intelligence che ha raccolto le notizie. Per ultimi, ringrazia anche i curdi, ma sottolinea soprattutto che questo è il coronamento di un’operazione ordinata da lui fin dal giorno del suo insediamento, quasi tre anni fa. Nessuna menzione degli sforzi di Obama e della coalizione anti-Isis da lui creata. La retorica autocelebrativa e il linguaggio crudo sono discutibili, ma piacciono al suo elettorato. Il rischio, però, è quello di una corsa sfrenata verso il culto della personalità: ieri il presidente ha detto senza ombra di ironia che «l’Isis sa usare Internet meglio di chiunque altro, salvo Donald Trump» mentre la sua addetta stampa Stephanie Grisham ha definito l’ex capo di gabinetto John Kelly, ora critico nei confronti del leader, un uomo «incapace di gestire il genio del nostro grande presidente».

IL RAID USA DELLA MORTE DI AL BAGHDADI. Panorama il 30 ottobre 2019. Il Pentagono ha diffuso il video dell'assalto con le immagini riprese da un drone che sorvolava il compound. Il Dipartimento della Difesa Usa ha diramato il video del raid in cui è stato individuato ed ucciso Al Baghdadi, il leader dell'Isis. Nel video, girato da un drone che sorvolava la zona, si vede l'assalto e l'arrivo delle forze speciali che entrano nel compound dove il "Califfo" si era nascosto. Poi le esplosioni, compresa quella con cui lo stesso Al Baghdadi si è ucciso quando aveva scoperto di non avere vie di fuga.

Al-Baghdadi, Pentagono diffonde le prime immagini del raid che ha ucciso il leader dell'Isis. Repubblica tv il 30 ottobre 2019. Il Pentagono pubblica le prime immagini del raid che ha portato all'uccisione del leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. Il video condiviso su Twitter dall' Us Central Command mostra le forze americane avvicinarsi al compound. Inoltre si vedono i combattenti che "da due postazioni vicine al compound aprono il fuoco contro uno degli aerei Usa che partecipavano al raid", ha detto il generale Frank McKenzie, capo del Comando Centrale degli Stati Uniti. Tra le foto mostrate dal generale si vede "il prima" ed "il dopo" il raid Usa del compound dove si nascondeva il leader terrorista. "Quando la cattura da parte delle forze Usa era vicina, Baghdadi ha fatto esplodere una bomba uccidendo se stesso e due figli", ha detto ancora McKenzie ribadendo la dinamica che era già stata illustrata dal presidente Trump nella dichiarazione di domenica 27 ottobre. McKenzie ha anche detto che le analisi del Dna hanno confermato "al di là di ogni dubbio" che l'uomo morto nell'attacco sia al Baghdadi. Ha parlato di "una corrispondenza diretta" che "ha prodotto un livello" altissimo "di certezza che i resti fossero di al Baghadi". Per quanto riguarda la sepoltura, il generale ha confermato che "è stato sepolto in mare in accordo con la legge dei conflitti armati entro le 24 ore dalla sua morte".

Il Dna confrontato con quello raccolto in Iraq durante la detenzione. Due dei figli di Al Baghdadi sono morti quando si è fatto esplodere durante la fuga e non tre come dichiarato dal presidente americano Donald Trump. La Repubblica il 31 ottobre 2019. Il Pentagono ha desecretato e divulgato le prime immagini del raid di due ore che si è concluso con la morte del leader dell'Isis Abu Bakr al-Baghdadi, in Siria, nella notte tra sabato e domenica scorsi. Il video registrato da un drone mostra le forze Usa che si avvicinano al compound dove si nascondeva il califfo dello Stato Islamico e i raid aerei con gli F-15 e i droni Mq-9 Reaper. Il comandante del Comando centrale Usa, il generale Frank McKenzie, ha detto che il Dna usato per confermare l'identità di al Baghdadi è stato confrontato con quello che era stato raccolto durante la sua detenzione a Camp Bucca, in Iraq. Il Pentagono ha anche mostrato immagini del prima e dopo l'attacco. McKenzie ha dunque fornito alcune precisazioni, indicando, ad esempio, che due dei figli di al Baghdadi sono stati uccisi quando si è fatto esplodere durante la fuga e non tre come dichiarato dal presidente americano Donald Trump. Oltre ai due figli, entrambi con meno di 12 anni, sono morti nel raid quattro donne e un uomo, oltre ad una serie di combattenti. Due terroristi sono stati catturati durante il blitz e sono stati recuperati documenti e apparecchiature elettroniche. (AGI)

Morte di Al Baghdadi, i retroscena del blitz: il Dna preso da un paio di mutande e il furgone pieno di verdure. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. Le spoglie sono state inumate, forse deposte in mare, seguendo lo stesso trattamento riservato ad Osama. Un rito e un messaggio al nemico che deve ora trovare un successore per il Califfo. Già in estate, erano circolate ricostruzioni su una nuova guida per l’Isis, mossa dettata dalle presunte cattive condizioni di salute del capo. Il mantello sarebbe stato indossato da Abdullah Qardash, noto anche come il «fantasma». Iracheno turcomanno, nato nel 1976, ex militare di Saddam, un passato nella guerriglia qaedista e un passaggio – decisivo – a Camp Bucca, la prigione dove si sono formati molti dei quadri del movimento e dove era stato designato lo stesso Califfo. Esperto di questioni religiose, grande organizzatore, Qardash avrebbe iniziato a occuparsi da mesi dei combattenti. Secondo una interpretazione fino al 2014 non ci sarebbe stato un grande feeling con al Baghdadi, differenze in seguito superate grazie ai successi militari, con il trionfale ingresso delle colonne «nere» a Mosul. Da quel momento la sua stella è salita. Un ruolo di ideologo consacrato, di recente, anche gli Usa. Il Dipartimento della Giustizia ha offerto una taglia di 5 milioni di dollari sottolineando il suo spessore. Qualche analista ha però espresso riserve. Non è un discendente del Profeta, è osteggiato da un’ala - hanno detto - circostanza però confutata da altri. O addirittura sarebbe deceduto da tempo. E insieme ai dubbi hanno offerto candidature alternative. Abu Abdel Rahman al Jazrawi; il misterioso Abu Othman al Faransi, forse francese, ma con origini nel Golfo; Abu Othman al Tunisi, apparso accanto al suo capo nel video dell’aprile scorso. Nella mappa redatta dagli americani c’erano poi due luogotenenti di livello. Ghazwan al Rawi, uomo di fiducia, è morto nel medesimo assalto. Abu Hassan al Muhajir, portavoce del movimento, è stato eliminato qualche ora dopo da un raid aereo. Decessi che attendono, al solito, conferme. Nelle valutazioni dell’intelligence statunitense c’è una «sporca mezza dozzina» di militanti con profili ambiziosi. Sono loro le nuove prede, attenti a schivare i proiettili e ad evitare di essere scoperti da una spia o dagli apparati elettronici. Il silenzio radio si impone e chissà che non ripensino al filmato del 2019 usato da al Baghdadi per dimostrare di essere in vita. Magari ha rappresentato un errore. La clip è stata studiata – da lontano -, con l’esame dei materassini su cui sedevano i presenti, stessa lente per copricapi e abiti. Il grande ricercato si spostava, a volte, su un furgone pieno di verdura, su un paio di Toyota. Gli emissari erano portati bendati al suo cospetto, spogliati d’ogni cosa potesse nascondere una cimice, restavano a colloquio per 30 minuti al massimo e poi il leader se ne andava lasciandoli nel «covo». Solo dopo ore potevano andarsene, sempre con il volto coperto e su mezzi guidati da guardie fidate. Eppure tutte le ricostruzioni su come gli americani siano arrivati al bersaglio differiscono nei dettagli, ma ruotano attorno ad un elemento comune: lo hanno scoperto filmando uno dei corrieri. E’ possibile che il most wanted sia stato costretto a rilassare certe misure per la necessità di parlare con i suoi adepti. Il comandante dei curdi siriani Maflouz Abdi ha dichiarato alla NBC che una loro fonte, parte della scorta del Califfo, avrebbe sottratto un paio di mutande e raccolto campioni di Dna poi girati agli Stati Uniti in estate, dettagli per provare chi fosse il target. Rivelazioni da romanzo per le quali è impossibile distinguere tra propaganda e realtà. Ognuno, in questa storia, vuole il suo pezzo di gloria e punta ad ottenere ritorni politici. Ecco perché sono possibili sorprese mentre il Pentagono sta conducendo nuove operazioni nella regione contro obiettivi ritenuti sensibili. Nell’incursione a Barisha i commandos statunitensi hanno catturato due persone, quindi hanno sequestrato materiale. Ci vorrà del tempo per le indagini, non è chiaro se renderanno pubbliche delle immagini. Per il momento tengono tutto coperto, compreso il nome del cane da guerra mandato dalla Delta Force e dai rangers del 75esimo nel tunnel sotto il nascondiglio. Riserbo in parte violato da Trump: ieri ha postato su twitter la foto dell’animale. Anche qui un’analogia con la missione conclusasi con la fine di bin Laden: allora i Seals avevano al loro fianco un pastore belga, Cairo. E se nella palazzina di Abbottabad, avevano usato tre volte la parola in codice «Geromino» per confermare via radio il successo, l’altra sera il termine concordato sarebbe stato «jackpot». Quando, alle 19.15, a Washington hanno ricevuto quel segnale hanno compreso di aver chiuso la partita.

Marco Ansaldo per “la Repubblica” il 30 ottobre 2019. Identificato grazie alle mutande. E inseguito fino alla morte da un cane americano. Sembrano dettagli inventati, tanto paiono surreali. Ma anche non lo fossero si trasforma in una scena umiliante la descrizione della morte di Abu Bakr al Baghdadi, fondatore e numero uno dell' Isis, fattosi infine esplodere nel suo tunnel pieno di libri religiosi e di sistemi di ventilazione nella siriana Barisha, poco al di là del confine con la Turchia. I retroscena della localizzazione e cattura del Califfo, secondo quanto rivelato alla Cnn da Mustafa Bali, portavoce delle forze curde in Siria, arredano ancora meglio il "film", come Donald Trump ha raccontato la cattura del leader terrorista nella notte fra sabato e domenica. Un video che presto verrà mostrato pubblicamente, depurato dei dati ancora da declassificare. A localizzare il covo è stato un informatore, uno di quegli stessi curdi ai quali Trump ha voltato le spalle decidendo il ritiro dal nord della Siria. È stato lui a rubare le mutande del Califfo. Gli ha sottratto i boxer e li ha fatti arrivare agli americani, i quali prontamente li hanno fatti analizzare dai chimici militari per i test del Dna che hanno portato alla conferma dell' identità. Esami condotti sul posto con un lettore di Dna portatile, da tecnici che hanno accompagnato le forze speciali e confrontato i campioni del Dna già in loro possesso. Operazione che ricorda quando il Mossad raccolse dall' altra parte di un gabinetto la pipì del leader palestinese Yasser Arafat, giusto per analizzarne lo stato di salute. Ma in quella che pare la sceneggiatura di un film d' azione, c' è anche un altro protagonista. Al Pentagono non si parla d' altro. È lei, Conan, il cane soldato che ha messo all' angolo il leader del cosiddetto Stato islamico nel tunnel senza uscita, rimanendo leggermente ferita quando al Baghdadi si è fatto esplodere uccidendo i tre figli con i quali si faceva scudo. È lei la vera eroina del giorno. Sguinzagliata da uno dei Rambo della Delta Force quando prima della mezzanotte gli otto elicotteri americani sono atterrati a Barisha, ha inseguito la preda nel cunicolo fino all' esplosione finale. Conan è un nome di battaglia, l' identità ufficiale di questa femmina di pastore belga del tipo Malinois, non è stata fornita. La foto invece sì, dallo stesso Trump, e da lui postata su Twitter: "Meravigliosa, ha fatto un gran lavoro!". Anche qui, un altro ricalco: Cairo, cane dell' unità speciale K-9, nel 2011 fu impiegato dei Navy Seals nel blitz in cui venne ucciso Osama bin Laden, nella roccaforte pachistana di Abbottabad. Nello scatto d' ordinanza twittato dal capo della Casa Bianca, Conan indossa un' imbracatura mimetica. Sguardo dolce, lingua a penzoloni, ora. Ma la cagna Rambo deve avere ricevuto un addestramento di prim' ordine. Sullo sfondo, ci sono naturalmente gli uomini della Delta Force. Che invece non parlano mai, e nemmeno vogliono apparire. Un commando speciale che, contrariamente al loro Commander-in-chief che ha spifferato tutto (esultando anche via Twitter per la morte, in un altro raid, di Abu Hassan al-Muhajir, uno dei possibili successori di Al Baghdadi) sono devoti al silenzio e al profilo basso. Giusto un' esclamazione, al termine della missione: "Jackpot". Parola in codice per dire: obiettivo raggiunto.

Morte di Al Baghdadi: il califfo tradito da una «talpa» che voleva vendicarsi dell’Isis. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Un facilitatore, un uomo che aveva la totale fiducia del Califfo, ma che lo ha tradito per vendicarsi. Sarebbe lui, un militante sunnita che viveva accanto al leader, ad aver favorito l’operazione Usa. Oggi la «talpa» non è più in Iraq in quanto è stato portato via dagli americani insieme ai congiunti. Il Washington Post ha fornito una nuova ricostruzione dell’assalto condotto dalla Delta Force e dal 75esimo Ranger. Le fonti citate dal giornale hanno fornito un quadro più preciso. La spia, era un elemento che collaborava con i curdi YPG, ed ha accettato di aiutare gli Stati Uniti. Era una pedina importante in quanto si occupava della logistica di al Baghdadi, sapeva dei suoi spostamenti nella regione di Idlib, accompagnava persino alcuni familiari del capo nelle uscite. Le sue informazioni, insieme al lavoro di intelligence e forze speciali (anche francesi), hanno contribuito a restringere la zona di ricerca al villaggio siriano di Barisha, a pochi chilometri dal confine turco. Quando il Pentagono ha avuto le conferme sull’identità del bersaglio ha lanciato il blitz, provato per l’ultima volta in un poligono di Erbil dove i militari si sono addestrati all’irruzione che prevedeva l’abbattimento di muri. Tattica che hanno poi ripetuto al momento dell’azione. Una volta iniziata l’irruzione i commandos si sono trovati difronte molti minori usciti dalla casa mentre il Califfo è fuggito in un tunnel. I soldati hanno lanciato alcuni cani da guerra che hanno inseguito il target e la caccia si è chiusa quando il terrorista ha fatto detonare la fascia esplosiva che portava. La deflagrazione ha mutilato il corpo ma ha lasciato intatta la testa e – secondo il quotidiano – i soldati lo hanno riconosciuto. Nell’attacco sono morti anche tre figli e due mogli del leader. Diversi gli aspetti interessanti. Primo. La Cia si è mossa inizialmente con grande prudenza in quanto voleva evitare di cadere in una trappola, cosa avvenuta nel 2009 nella base afghana di Khost ad opera di un «triplo», un giordano che aveva aderito ad al Qaeda, poi si era tramutato in un collaborazionista dei servizi, quindi si è immolato come kamikaze tra gli agenti statunitensi. Secondo. La talpa ha deciso di guidare gli americani in quanto nutriva risentimento profondo verso l’Isis, responsabile della morte di un parente. Terzo. L’uomo era presente anche alla fase finale dell’incursione e riceverà probabilmente la ricompensa di 25 milioni di dollari. Quarto. Questo è solo uno spezzone di una storia non ancora chiusa.

Al Baghdadi morto, Usa: “Un informatore dell’Isis ha rivelato ai curdi la posizione del Califfo”. I vertici americani, nei giorni che hanno preceduto il raid, sono stati "in stretto contatto" con il comandante delle forze curde: le Forze democratiche siriane (Sdf) si sono servite di un informatore dell'Isis per ottenere campioni del sangue e un pezzo di biancheria intima del Califfo per avere conferma della sua identità. Il Fatto Quotidiano il 29 ottobre 2019. Se gli americani sono riusciti a uccidere il leader dell’Isis Al Baghdadi è merito dei curdi, che “hanno giocato un ruolo chiave in tutto questo, un ruolo molto importante. Nessuno dovrebbe sottovalutare quanto le Sdf siano state fondamentali in tutto questo”. Il dipartimento di Stato americano, parlando alla Cnn dell’operazione militare che ha portato alla morte del Califfo, rivela che “le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno giocato un ruolo chiave nella sua individuazione”. A spiegare all’emittente il ruolo chiave dei curdi è Mustafa Bali, portavoce delle forze curde in Siria: le Sdf si sono servite di un loro informatore nell’Isis per localizzare il covo di Al Baghdadi. Non solo: l’informatore ha ottenuto campioni del sangue e un pezzo di biancheria intima del Califfo per conferma della sua identità prima che venisse condotto il raid. I vertici militari americani sono stati “in stretto contatto” con il comandante delle forze curde, il generale Mazloun Abdi, informato passo per passo “su tutti gli aspetti di quello che stavamo facendo”. E “lui, la sua gente e le sue fonti di intelligence hanno giocato un ruolo chiave” per il buon fine dell’operazione. Bali ha inoltre aggiunto che le Sdf a guida curda “hanno condiviso a maggio informazioni con gli Usa sulla posizione di al-Baghdadi, localizzato a Idlib“, la regione del nordovest della Siria dove – come confermato da Donald Trump – è stato ucciso il leader dell’Isis. “Ci sono domande sul caso al-Baghdadi a cui deve rispondere la Turchia, che – ha aggiunto – ha effettuato numerosi attacchi aerei all’interno della regione del Kurdistan iracheno”. Domenica Bali aveva già accusato la Turchia “di non aver rilevato come minaccia per la sicurezza la presenza del capo dell’Isis e del portavoce” del gruppo, “a pochi chilometri dal suo confine“. Intanto emergono altri particolari del raid: secondo quanto affermato da Mohammad Ali Sajid, il cognato di al-Baghdadi, in un’intervista trasmessa in Iraq e riportata dal New York Times, i giorni prima della morte, al-Baghdadi ha vissuto in tunnel sotterranei, attrezzati con sistemi di ventilazione e illuminazione, e pieni di libri religiosi. Precisando anche che il Califfo comunicava con flash drive e consentiva a chi lo circondava di usare cellulari. E quando voleva cambiare postazione si spostava con due pickup Toyota bianchi accompagnato da cinque uomini.

Ecco chi ha affittato la casa ad Al Baghdadi. Giovanni Giacalone su it.insideover.com il 30 ottobre 2019. Emergono ulteriori dettagli sull’ultima fase della fuga dell’ex leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi e, in particolare, sulla persona che gli avrebbe affittato la casa: un cittadino siriano di nome Abu Mohamed Halabi. Secondo le informazioni raccolte, Halabi non avrebbe soltanto affittato la casa al “Califfo” e alla sua famiglia, ma si sarebbe anche occupato di nasconderlo in attesa, forse, di farlo sconfinare in Turchia. In seguito al raid il corpo del siriano è sparito in quanto preso in carico dagli uomini della Delta Force. Halabi non era infatti uno sconosciuto, ma un alto membro del gruppo qaedista “Tanzim Hurras ad-Din” (I guardiani della religione), un gruppo formato nel febbraio del 2018 dopo essersi staccato da Hayat Tahrir al Sham e attualmente guidata da Abu Humam al-Shami (Samir Hijazi), come confermato lo scorso luglio da un jihadista di al blogger Ayman Jawad al-Tamimi. Questa informazione non confermerebbe dunque la presa in comando del palestinese Khaled Mustafa al-Aruri “Abul Qassam”. Lo scorso settembre, Washington inseriva Tanzim Hurras ad-Din nella black list delle organizzazioni terroristiche (documento reperibile qui) mentre il Dipartimento di Stato offriva una taglia di cinque milioni di dollari per informazioni che potessero condurre all’individuazione di tre figure di spicco de I guardiani della religione: Sami al-Uraydi, Abu Abdal-Karim al-Masri e Faruq al-Suri. Nel contempo però le dinamiche che emergevano dalla Siria occidentale non erano delle migliori per la neo-nata organizzazione: i rapporti con Hayat Tahrir al-Sham (la vecchia Al Qaeda in Siria) erano sempre più tesi, in particolare dopo l’arresto di tre membri di Thd ad un check point qaedista. Ci poi sono alcuni dettagli interessanti riguardanti Thd ed esposti al quotidiano britannico The Independent da Elizabeth Tsurkov, analista esperta in Siria e Iraq presso il Foreign Policy Research Institute, secondo cui vi sarebbe stata una fuga di volontari dal gruppo jihadista a causa delle difficoltà, da parte della leadership, di pagare i salari e conterebbe ora meno di 2mila uomini. I conti di Tanzin Durras al-Din sarebbero talmente malconci che la scorsa settimana sarebbe persino stata organizzata una campagna per donazioni. Un ulteriore aspetto di interesse riguarda i rapporti che il gruppo Tanzim Hurras ad-Din intratteneva con l’Isis, non troppo amichevoli ma neanche pessimi come nel caso di Hayat Tahrir al-Sham, anche se forse il termine più corretto per definire tale relazione è “ambigua”: vale infatti la pena ricordare che nell’ottobre del 2018 il governo russo aveva accusato Thd di aver pianificato un attacco “false flag” con armi chimiche e di operare come parte dell’Isis. Tornando ad Abu Mohamed Halabi “Salama”, per molti aspetti rispecchia egregiamente l’ambiguità dell’organizzazione di cui faceva parte: ufficialmente commerciante di generi alimentari, era arrivato nel tranquillo villaggio di Barisha tre anni prima ed aveva comprato una casa ancora in costruzione che aveva terminato egli stesso. L’uomo, padre di otto figli, era sempre cordiale, non dava molta confidenza e aveva pochissimi visitatori. Halabi avrebbe fatto parte di un flusso di 4mila sfollati siriani ricollocatisi a Barisha durante il conflitto, in quanto lontana dagli scontri e dalla campagna aerea russo-siriana. Il soggetto in questione non era però un semplice commerciante, ma un membro di Tanzim Hurras ad-Din e un trafficante di esseri umani che avrebbe ricoperto un ruolo chiave nel far fuggire i leader dell’Isis e le loro famiglie verso la Turchia, grazie a una rete da egli stesso gestita. L’ultimo “cliente” gli è però risultato fatale. Vale inoltre la pena ricordare che nel febbraio del 2014 un miliziano identificatosi con il medesimo nome, Abu Mohamed Halabi, aveva rilasciato una dichiarazione al Washington Post, affermando di aver collaborato con l’Isis durante gli scontri con Jabhat al-Nusra e di temere vendette in seguito alla ritirata dell’Isis dalla zona. È più che plausibile ritenere che si trattasse della stessa persona, elemento che evidenzierebbe un ruolo decisamente più solido di quel che inizialmente era apparso, tra Halabi e gli uomini del Califfato. Insomma, Halabi non era il semplice “padrone di casa” di Al Baghdadi.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 29 ottobre 2019. Viveva con la sua famiglia in tunnel sotterranei, attrezzati con sistemi di ventilazione e illuminazione, e con librerie contenenti libri religiosi, il leader Abu Bakr al-Baghdadi. Secondo quanto riportato dal New York Times in un'intervista di Mohammad Ali Sajid, il cognato di al-Baghdadi, il califfo comunicava con flash drive e consentiva a chi lo circondava di usare cellulari. Quando voleva cambiare postazione, si spostava con due pickup Toyota bianchi accompagnato da cinque uomini. A raccontare invece ciò che è rimasto di quei tunnel sono le riprese aeree. Tre pozze di calce, sabbia e cemento; tre crateri bianchi, come se a esplodere fossero state colline di sale. Le riprese dell'area dove sorgeva il bunker-rifugio di Abu Bakr al Baghdadi mostrano la polverizzazione dell'edificio nel quale si nascondevano il terrorista e la sua famiglia estesa. A spazzare via ogni memoria della loro presenza sono stati i sei missili che la Delta Force ha fatto piovere sull'edificio alla fine della missione, quando gli otto elicotteri CH 47 hanno abbandonato la scena intorno alle 3,30 di domenica mattina. Le uniche immagini della località, a meno di mezzo chilometro del villaggio siriano di Barisha, presso il confine nord occidentale con la Turchia, sono in un video girato da un operatore locale e acquisito dalla Cnn, che mostra le rare suppellettili sopravvissute al bombardamento. Alcuni libri in lingua musulmana, un passeggino rosa per bambini, un video registratore; brandelli di abiti di bambini, un proiettile inesploso. Il materiale più sensibile, come ha confermato ieri il Pentagono in una conferenza stampa, è stato rimosso nelle due ore successive all'irruzione del commando uSA. Il capo degli Stati maggiori riuniti, generale Mark Milley, ha ammesso l'esistenza di altri filmati prodotti dalle camere montate sui caschi dei marines, Trump ha promesso che presto saranno divulgati, dopo il necessario vaglio da parte del personale di sicurezza. Di certo il presidente non li aveva visti quando domenica mattina ha detto di aver seguito le operazioni in diretta, come in un film. I dettagli che ha raccontato su Baghdadi che scappava piangendo, se veri, possono solo essergli stati raccontati da uno dei militari che hanno partecipato all'operazione. Il raid è partito dalla base irachena di Erbil, con un volo di appena 70 minuti, che ha portato la pattuglia aerea ad attraversare a bassa quota lo spazio aereo della Russia e della Turchia. Una volta arrivati sull'obbiettivo, gli elicotteri hanno sganciato due bombe per disperdere il personale di sicurezza e ostacolare una risposta prima dell'atterraggio. Il confronto è poi continuato a terra: il segretario della Difesa Mark Elper ha ripetuto ieri che ci sono state vittime dalla parte dei miliziani e che due di loro sono stati fatti prigionieri. Al Baghdadi usava il rifugio da tempo. La sorveglianza effettuata con l'aiuto delle forze dell'Sdf siriano durava da almeno cinque mesi. Si trovava a due passi dal villaggio di Barisha e a poca distanza da Idlib, e la prigionia alle quale si era consegnato non deve essere stata troppo severa. Con lui c'erano le mogli, due delle quali hanno attivato il corpetto esplosivo alla vista dei marines, e si sono date la morte, così come è toccato ai figli che Baghdadi ha trascinato con sé fino al vicolo cieco del tunnel nel quale si è fatto esplodere insieme a loro. La detonazione gli ha mutilato il corpo ma non la testa. I membri della Delta Force sono stati in grado di effettuare una ricognizione facciale sulla base dell'enorme quantità di dati che il Pentagono ha ammassato negli ultimi anni nei riguardi dei terroristi internazionali. Quando bin Laden fu ammazzato ad Abbottabad nel 2011, campioni di Dna furono prelevati dal cadavere e trasportati nei laboratori statunitensi, per confrontarli con quelli di una recente campagna di immunizzazione nella cittadina pachistana. L'esame durò diverse settimane. A distanza di otto anni la scientifica del Pentagono ha fatto diversi passi avanti. I marines disponevano di un macchinario portatile, del peso di 50 kg. È bastato un campione di saliva o di sangue e quindici minuti dopo è giunta la conferma dell'identità, sulla base del profilo genetico consegnato volontariamente tempo fa da una delle sue figlie. Prima di disperdere i suoi resti in mare come toccò a Osama.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 29 ottobre 2019. Abu Bakr Al Baghdadi si è fatto esplodere. Come hanno fatto gli americani a stabilire con tanta rapidità che i resti fossero proprio i suoi? Test del Dna completi sono ancora in corso, ma la prima conferma dell' identità del leader terrorista è arrivata quasi immediatamente unendo i risultati di un test biometrico di riconoscimento facciale a quelli di un test del Dna condotto con macchine di nuova generazione. Si tratta di dispositivi sviluppati negli ultimi anni, in seguito alle polemiche per la lunghezza dei tempi di identificazione del corpo di Osama Bin Laden. Sono grandi quanto un microonde e trasportabili in elicottero : il loro uso è avvolto dal mistero ma sarebbero in dotazione alle forze speciali Come avvengono le analisi? Una goccia di sangue prelevata dal corpo permette di avere risultati attendibili sull' identità di una persona in 90 minuti se confrontata a quella di un parente. Secondo il Washington Post che cita una fonte del Pentagono, il materiale comparativo è stato fornito volontariamente da una delle figlie di Al Baghdadi. C' è stato poi un test biometrico condotto sulla testa, rimasta intatta nell'esplosione. È stata comparata alle foto di Al Baghdadi Che fine ha fatto il corpo? Il consigliere alla Sicurezza nazionale della Casa Bianca Robert O' Brian ha detto che per il cadavere è stato seguito lo stesso protocollo applicato a Bin Laden. I resti sarebbero già stati dispersi in mare, come avvenne per il leader di Al Qaeda Perchè questo protocollo? La tradizione islamica richiede che la sepoltura avvenga entro 24 ore, ma considera quella in mare inappropriata. Ai tempi di Bin Laden religiosi e familiari definirono "un affronto" la decisione di disperderne il corpo in mare, presa per non trasformare la tomba in meta di pellegrinaggio. Di sicuro i resti di Al Baghdadi sono stati portato via dagli americani, mentre quelli delle due mogli uccise sono rimasti sul posto: indossavano cinture esplosive e non c'era tempo per disinnescarle Il leader jihadista è morto piangendo, come ha detto Trump? I giornali sollevano dubbi sulla ricostruzione. Trump ha detto di aver visto tutto dalla Situation Room comparando l' esperienza alla visione di un film. Ma fonti del Pentagono hanno rivelato che avrebbe assistito a un video senza sonoro. Il ministro della Difesa Mark Esper, anche lui in sala, ha detto di non "conoscere questi dettagli".

Guido Olimpio per il “Corriere della sera” il 29 ottobre 2019. Le spoglie sono state inumate, forse deposte in mare, seguendo lo stesso trattamento riservato ad Osama. Un rito e un messaggio al nemico che deve ora trovare un successore per il Califfo. Già in estate, erano circolate ricostruzioni su una nuova guida per l' Isis, mossa dettata dalle presunte cattive condizioni di salute del capo. Il mantello sarebbe stato indossato da Abdullah Qardash, noto anche come il «fantasma». Iracheno turcomanno, nato nel 1976, ex militare di Saddam, un passato nella guerriglia qaedista e un passaggio - decisivo - a Camp Bucca, la prigione dove si sono formati molti dei quadri del movimento e dove era stato designato lo stesso Califfo. Esperto di questioni religiose, grande organizzatore, Qardash avrebbe iniziato a occuparsi da mesi dei combattenti. Secondo una interpretazione fino al 2014 non ci sarebbe stato un grande feeling con Al Baghdadi, differenze in seguito superate grazie ai successi militari, con il trionfale ingresso delle colonne «nere» a Mosul. Da quel momento la sua stella è salita. Un ruolo di ideologo consacrato, di recente, anche dagli Usa. Il Dipartimento della Giustizia ha offerto una taglia di 5 milioni di dollari sottolineando il suo spessore. Qualche analista ha però espresso riserve. Non è un discendente del Profeta, è osteggiato da un'ala - hanno detto - circostanza però confutata da altri. E insieme ai dubbi hanno offerto candidature alternative. Abu Abdel Rahman al Jazrawi; il misterioso Abu Othman al Faransi, forse francese, ma con origini nel Golfo; Abu Othman al Tunisi, apparso accanto al suo capo nel video dell' aprile scorso. Nella mappa redatta dagli americani c' erano poi due luogotenenti di livello. Ghazwan al Rawi, uomo di fiducia, è morto nel medesimo assalto. Abu Hassan al Muhajir, portavoce del movimento, è stato eliminato qualche ora dopo da un raid aereo. Decessi che attendono, al solito, conferme. Nelle valutazioni dell' intelligence statunitense c'è una «sporca mezza dozzina» di militanti con profili ambiziosi. Sono loro le nuove prede, attenti a schivare i proiettili e ad evitare di essere scoperti da una spia o dagli apparati elettronici. Il silenzio radio si impone e chissà che non ripensino al filmato del 2019 usato da Al Baghdadi per dimostrare di essere in vita. Magari ha rappresentato un errore. La clip è stata studiata - da lontano -, con l' esame dei materassini su cui sedevano i presenti, stessa lente per copricapi e abiti. Il grande ricercato si spostava, a volte, su un furgone pieno di verdura, gli emissari erano portati bendati al suo cospetto, spogliati d'ogni cosa potesse nascondere una cimice, restavano a colloquio per 30 minuti al massimo e poi il leader se ne andava lasciandoli nel «covo». Solo dopo ore potevano andarsene, sempre con il volto coperto e su mezzi guidati da guardie fidate. Eppure tutte le ricostruzioni su come gli americani siano arrivati al bersaglio differiscono nei dettagli, ma ruotano attorno ad un elemento comune: lo hanno scoperto filando uno dei corrieri. Il comandante dei curdi siriani Maflouz Abdi ha dichiarato alla Nbc che una loro fonte, parte della scorta del Califfo, avrebbe sottratto un paio di mutande e raccolto campioni di Dna poi girati agli Stati Uniti in estate, dettagli per provare chi fosse il target. Rivelazioni da romanzo per le quali è impossibile distinguere tra propaganda e realtà. Sono possibili sorprese, sono in corso nuove operazioni Usa. Nell'incursione a Barisha i commandos statunitensi hanno catturato due persone e sequestrato materiale. Ci vorrà del tempo per le indagini, non è chiaro se renderanno pubbliche delle immagini. Per il momento tengono tutto coperto, compreso il nome del cane da guerra mandato dalla Delta Force nel tunnel sotto il nascondiglio. Anche qui un' analogia con la missione conclusasi con la fine di bin Laden: allora i Seals avevano al loro fianco un pastore belga, Cairo. E se nella palazzina di Abbottabad, avevano usato tre volte la parola in codice «Geromino» per confermare via radio il successo, l' altra sera il termine concordato sarebbe stato «jackpot». Quando, alle 19.15, a Washington hanno ricevuto quel segnale hanno compreso di aver chiuso la partita.

Giordano Stabile per “la Stampa” il 29 ottobre 2019. L'Isis ha subito un colpo devastante, ma non è ancora finito. Ha perso il suo fondatore e leader carismatico, Abu Bakr al-Baghdadi, il primo jihadista che ha osato proclamarsi successore di Maometto. I suoi resti sono stati cremati e le ceneri poi disperse in mare, così come per Osama Bin Laden , hanno fatto sapere dal Pentagono. Ma l' organizzazione resta ramificata in Siria e Iraq, ha cellule attive dal Maghreb alle Filippine. E ha ancora spazi di manovra nel caos che si è creato nel territorio settentrionale della Siria dopo il ritiro americano. Washington nei giorni scorsi ha mandato indietro 500 soldati, anche per gestire il blitz contro il califfo. Nel Nord-Est c' è un ingorgo di truppe Usa, russe, turche, governative, curde, milizie varie, terroristi in fuga. Nel Nord-Ovest, specie nella provincia di Idlib, è un proliferare di gruppi jihadisti. In tutto ciò l' Isis ha tenuto in piedi la sua struttura burocratica. Al vertice c' è la Majlis al-Shoura, l' assemblea degli anziani, composta per «l'80 per cento da iracheni, il 18 da siriani, il 2 da stranieri». Ha il compito di scegliere il successore del califfo. Il nome dato come più probabile è quello di Al-Hajj Abdullah Qardash, già ufficiale dell' esercito sotto Saddam Hussein. Qardash è un turkmeno originario di Tall Afar, da sempre roccaforte dei salafiti iracheni. Ha conosciuto Al-Baghdadi a Camp Bucca e da allora lo ha seguito nella scalata ai vertici. In quanto turkmeno, però, non ha la qualifica indispensabile per il titolo di califfo, cioè quella di discendente dalla tribù del Profeta, gli Al-Quraishi. Potrebbe essere nominato solo «comandante». In seconda battuta arriva il saudita Abu Abdelrahman al-Jazrawi. Già a capo della branca giudiziaria del califfato, giurista, teologo. Il terzo nome è quello di Abu Othman al-Tunisi, uno dei due uomini che appaiono assieme ad Al-Baghdadi nell' ultimo video, diffuso ad aprile. Infine c' è il capo del Diwan al-Jund, il «ministero delle forze armate», Iyad al-Obaidi. Le forze speciali americane sono a caccia di tutti e tre. Ed è chiaro che il terreno più promettente resta il Nord-Ovest della Siria. Il portavoce Al-Mujahir è stato ucciso a Jarabulus, sul confine con la Turchia. L' intelligence Usa ha calcolato che almeno «cento terroristi di spicco dell' Isis hanno trovato riparo nella provincia di Idlib negli ultimi mesi», tanto che il Pentagono l' ha definita «il più grande rifugio jihadista del mondo». E non c' è soltanto l' Isis. La formazione più importante è Hayat al-Tahir al-Sham, il Comitato per la liberazione della Siria, un' alleanza di jihadisti che altro non è che l' ex Al-Nusra. Altro gruppo implacabile è il Partito islamico turkmeno, che si avvale di combattenti dall' Asia centrale. E poi Hurras al-Din, il gruppo che ha dato rifugio al califfo. Ha una posizione ambigua, fra Al-Qaeda, Isis e altri gruppi più moderati sostenuti dalla Turchia.

 Michele Farina per il “Corriere della sera” il 29 ottobre 2019. Una delle tre mogli e uno dei tanti nipoti di Abu Bakr al Baghdadi avrebbero giocato un ruolo nella sua dipartita: secondo fonti del New York Times , è stato proprio l'arresto di una moglie e di un «corriere» l'estate scorsa a mettere i cacciatori sulle sue tracce. Ufficiali iracheni hanno raccontato al Guardian della cattura di un uomo siriano che aveva già fatto passare nella zona di Idlib le mogli di due fratelli del Califfo, Ahmad e Jumah, dopo aver condotto sulla stessa rotta alcuni figli dall' Iraq. Con il siriano e sua moglie, l'intelligence avrebbero «cooptato» un nipote del capo dell'Isis: le informazioni avrebbero portato all'individuazione della zona in cui si nascondeva il ricercato mondiale numero uno, che non si fidava di nessuno al di fuori della cerchia dei fedelissimi. Così vicini da morire con lui. Due mogli uccise nel blitz, hanno detto gli americani. Tre figli saltati in aria nel tunnel. Scudi umani o eredi devoti? I nomi e l' età non sono stati resi noti. Nessuno presta molta attenzione ai familiari di un tagliagole responsabile di innumerevoli vittime. La sua uccisione offusca quelle dei suoi cari. Quando gli americani nel 2006 disintegrarono il rifugio di Al Zarkawi, il precedessore del Califfo, chi ricorda che sotto le macerie rimase almeno una delle quattro mogli con il figlio? Diverso destino per Hudhayfah al Badri, il figlio diciottenne di Al Bagdhadi, scomparso durante un attacco a una centrale termoelettrica in Siria l' anno scorso. I siti vicini all' Isis hanno celebrato «il martirio» del giovane mostrandolo con un kalashnikov nelle braccia. Hudhayfah era nato nel 2000 a Samarra, quando il padre si faceva ancora chiamare Ibrahim Awad ed era sposato con Asma al Dulaimi. Nel corso degli anni, Al Baghdadi ha aggiunto altre due o tre mogli: Isra A-Qaisi (siriana) e Saja al Dulaimi. Nozze lunghe e brevi. Benché l' ufficio anagrafe del Califfato prevedesse un'identificazione precisa per nascite e matrimoni, la famiglia del capo è sempre stata avvolta nella leggenda. Nell' ottobre 2015 si diffuse addirittura la notizia che il leader avesse sposato una quindicenne foreign fighter tedesca, Diane Kruger, nella provincia irachena di Ninive. La Reuters citando fonti tribali in Iraq ha riportato che Al Baghdadi avesse tre mogli, due irachene e una siriana. Più di recente, una compagna si sarebbe aggiunta dal Golfo. Anche il numero dei figli «ufficiali» non è certo: 6 secondo William McCants, ex consigliere del Dipartimento di Stato Usa. Un tranquillo padre di famiglia: così l' ha descritto Saja al Dualimi, arrestata in Libano nel 2014 dopo essere stata liberata dalle prigioni siriane grazie a uno scambio con dodici suore prigioniere dell' Isis. Saja viene descritta come la moglie più «tosta», anche se lei stessa ha giurato che il matrimonio sarebbe durato solo tre mesi nel 2009. Rimasta vedova del primo marito (ex ufficiale di Saddam ucciso dagli americani) si era spostata come molti sunniti iracheni in Siria. La donna ha raccontato di aver saputo della vera identità di Al Baghdadi (conosciuto via chat) solo dopo avere chiesto il divorzio, «a causa delle ristrettezze economiche in cui lui versava». Frutto della loro relazione fu Hagar: il Califfo mandò l' equivalente di 100 dollari mensili per il mantenimento della piccola, prima di sospendere l' invio nel 2011. Saja, liberata in Libano nell' ottobre 2017, ha rilasciato interviste in cui parla del Califfo come di un padre premuroso che giocava con i figli, anche se spesso spariva dicendo «di andare a trovare il fratello». Altre figure femminili nella cerchia familiare hanno avuto un ruolo importante, forse più delle sue stesse mogli. Una zia, Saadia Ibrahim, è stata con lui fin dall' inizio. Due dei suoi figli sono morti combattendo sotto i vessilli neri dell' Isis. Era zia Saadia a gestire la rete dei rifugi segreti del nipote adorato a Mosul. Era con lui anche in Siria? Il papà premuroso che diventava brutale con le schiave. Una giovane yazida ha raccontato al Guardian di essere stata violentata dal Califfo quando era ancora una ragazzina. Lei che vide la cooperante americana Kayla Mueller tornare in lacrime dopo essere stata stuprata dal boss, un giorno fu convocata dal capo supremo. Pensava a nuove violenze in camera da letto, e invece lui scherzando la fece sedere sul divano in soggiorno. E aprendo il laptop nero le mostrò una decapitazione con aria divertita: «Abbiamo ucciso quest' uomo oggi». Quell' uomo era il giornalista James Foley. «Si divertiva a vedere le nostre reazioni».

Francesco Semprini per “la Stampa” il 31 ottobre 2019. Non poteva mancare il «traditore» nell' epica impresa di stanare ed eliminare Abu Bakr al Baghdadi. Si tratta di un miliziano di vecchia data che voleva vendicarsi dell' assassinio di un parente ordinato dai vertici dell' Isis. E che ora incasserà la taglia posta sulla testa del leader delle bandiere nere, un assegno da 25 milioni di dollari. Un alto tradimento, visto che l' informatore apparteneva al cerchio magico di miliziani addetti alla protezione del capo, e si occupava in particolare dei suoi spostamenti, così come raccontato nella produzione Netflix «Black Crows». Pertanto costantemente aggiornato su spostamenti e rifugi del Califfo, compreso il compound di Barisha alle porte di Idlib, nel Nordovest della Siria, dove il terrorista più ricercato al mondo ha trovato la morte. Secondo l' identikit del Washington Post, il «traditore» è riuscito a ritagliarsi prima il ruolo di delatore a beneficio dei militanti curdi delle Syrian Democratic Forces, alleate degli Usa nella lotta all' Isis. Ha partecipato al blitz Poi la gestione delle sue confidenze è passata nella mani dell' intelligence Usa, che ha impiegato settimane nel valutare la reale attendibilità e affidabilità della talpa. A convincere definitivamente sulla bontà della fonte, la consegna nelle mani degli 007 americani di quei brandelli di biancheria intima e quel campione di sangue che hanno permesso di risalire al Dna del Califfo. A quel punto è stato deciso il raid, prima che il Califfo potesse fiutare qualcosa e fuggire. L'informatore quindi sarebbe stato presente durante il blitz delle Delta Force, guidandole e mettendole in guardia dal fatto che spesso Al Baghdadi indossava cinte o giubbotti esplosivi, determinato a uccidersi piuttosto che a consegnarsi ai nemici. Solo due giorni dopo l' operazione la talpa sarebbe stata portata fuori dalla Siria per proteggere lui e la sua famiglia e aiutarlo a rifarsi una nuova vita grazie alla corposa taglia incassata. Ci sono tutti così gli ingredienti che rendono l' eliminazione di Al Baghdadi ancora più epica, il traditore, il cane eroe di nome Conan che, come per Osama Bin Laden, è stato tra i protagonisti del blitz. Quindi il corriere, altra affinità col raid di Abbottabad in Pakistan del 2 maggio 2011, che assieme a una delle mogli è stato intercettato dalla Cia e arrestato, risultando determinante per individuare l' obiettivo. Tutti elementi che candidano l' epica impresa, così come descritta da Trump, a diventare un nuovo cult hollywoodiano.

Il presidente turco: «Abbiamo preso  la moglie del Califfo Al Baghdadi». Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato che il suo Paese ha catturato una moglie di Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato islamico ucciso da un commando statunitense a fine ottobre. «Abbiamo preso sua moglie, lo dico oggi per la prima volta, ma non ci vantiamo», ha affermato Erdogan parlando ad Ankara, il giorno dopo l’annuncio da parte di Ankara dell’arresto di una sorella del leader estremista islamico. Il presidente turco non ha fornito altri dettagli. Non ha detto quando o come la donna è stata catturata e non ha comunicato il nome della donna. A quanto è dato sapere,   Al-Baghdadi aveva quattro mogli, «il numero massimo che può avere contemporaneamente sotto la legge islamica», secondo quanto riferito da un suo uomo. Il leader dell’Isis si è fatto esplodere durante un’incursione del 26 ottobre da parte delle forze speciali statunitensi nel suo nascondiglio nella provincia di Idlib. L’annuncio di Erdogan arriva pochi giorni dopo che le forze turche hanno catturato la sorella maggiore di al-Baghdadi, identificata come Rasmiya Awad, nella città di Azaz, nella provincia di Aleppo, nel nord-ovest della Siria. La Turchia in entrambe le occasioni hanno colto l’occasione delle catture per evidenziare il proprio ruolo nella lotta all’Isis.   Azaz fa parte di una regione amministrata dalla Turchia a seguito di precedenti incursioni militari per scacciare militanti IS e combattenti curdi, a partire dal 2016. I gruppi siriani alleati invece gestiscono l’area conosciuta come la zona dello scudo dell’Eufrate.    Awad era con suo marito, sua nuora e cinque figli quando è stata catturata. Un funzionario turco ha detto che la sorella di 65 anni è sospettata di essere affiliata al gruppo estremista e l’ha definita una «miniera d’oro» di informazioni. Le autorità hanno pubblicato una foto della sorella.    Non è stato immediatamente chiaro se la cattura di Awad abbia poi reso possibile quella della moglie.    Una delle donne di Al Baghdadi è un’irachena noto con il nome di Nour, figlia di uno dei suoi aiutanti, Abu Abdullah al-Zubaie. È stata identificata per nome dal cognato del Califfo in una recente intervista con la televisione Al Arabiya. Una delle ex mogli di al-Baghdadi è stata arrestata in Libano nel 2014 ed è stata liberata un anno dopo in uno scambio di prigionieri con Al Qaida. L’ex moglie irachena, Saja al-Dulaimi, era fuggita da al-Baghdadi nel 2009 quando era incinta di sua figlia. Ad un certo punto, si ritiene che Al Baghdadi abbia voluto come schiava un’adolescente tedesca nel 2015 che potrebbe essere fuggita qualche anno dopo. Secondo i resoconti il Califfo ha anche tenuto personalmente prigioniera la cooperante statunitense Kayla Mueller, morta in un raid in Siria nel 2015. Il raid che ha ucciso Al Baghdadi è stato un duro colpo per lo Stato islamico, che ha perso territori in Siria e Iraq in una serie di sconfitte militari inflitte dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti e alleati siriani e iracheni. L’aiutante di Baghdadi, un saudita, è stato ucciso ore dopo il raid, anche nella Siria nord-occidentale, in un’altra operazione degli Stati Uniti. L’Isis ha nominato un successore dopo la morte del Califfo ma grande mistero ancora aleggia sulla sua identità e sulle conseguenze che l’uccisione di Al Baghdadi hanno avuto sulla gerarchia del gruppo.    Fino alla sua morte, Al Baghdadi si è spostato da una località all’altra nella Siria orientale nel mezzo delle operazioni militari che hanno portato di fatto alla sconfitta dell’Isis, almeno a livello territoriale. La sua corse è finita a Idlib, nella Siria nordoccidentale, un’area controllata da un gruppo militante rivale legato ad al-Qaida. Non è ancora chiaro se qualcuna delle mogli se fosse con lui nel momento della sua morte.  

Giordano Stabile per “la Stampa” il 6 novembre 2019. La Turchia batte un colpo contro l' Isis e arresta la sorella del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, eliminato lo scorso 27 ottobre in un blitz delle forze speciali americane. Per Ankara è la dimostrazione della sua volontà di lottare «contro ogni forma di terrorismo». Ma il luogo dove è stata scovata Rasmiya Awad, a pochi chilometri dall' ultimo rifugio del capo dello Stato islamico, evidenzia ancora una volta come il Nord-Ovest della Siria, sotto influenza turca, sia diventato il rifugio di jihadisti di ogni tipo. Awad, 65 anni, è stata fermata ad Azaz, una città vicina al confine con la Turchia, a poche decine di chilometri da Barisha, il villaggio dove si era nascosto il fratello, e non lontana da Jarabulus, dove è stato ucciso l' ex portavoce Abu Hasan al-Mujehir. È sempre più chiaro che l' Isis ha scelto quella regione per cercare di ricostruirsi, anche in alleanza con altri gruppi estremisti. Il portavoce della presidenza turca, Fahrettin Altun, ha sottolineato come l'arresto della sorella dell' ex califfo rappresenti «l' ennesimo esempio del successo delle nostre operazioni di contro-terrorismo». Altun ha spiegato che la donna è stata trovata in una roulotte, «assieme al marito, la nuora e cinque bambini», ed è stata subito interrogata per «sospetto coinvolgimento in un gruppo terroristico». È considerata dagli investigatori «una miniera d' oro», perché potrebbe ricostruire gli ultimi spostamenti del fratello e della sua cerchia ristretta e portare all' identificazione del nuovo califfo, scelto domenica scorsa. Il successore Il nome, Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurayshi, dice poco o nulla sulla sua identità. Quando nel 2010 Al-Baghdadi salì al vertice, dopo l' eliminazione del suo predecessore, bisognò attendere oltre sette mesi per dargli un volto e un' identità. Ora la cattura della sorella potrebbe accelerare la procedura e permettere di decapitare di nuovo la leadership dell' Isis. In questo senso aiutano anche le informazioni fornite dalla talpa che ha portato alla scoperta del covo, il corriere personale di Al-Baghdadi, Mohammad Ali Sajit. L' ex califfo, ha raccontato, ha vissuto gli ultimi mesi nella roccaforte dell' Isis sulla riva orientale dell' Eufrate, espugnata alla fine dello scorso marzo. Era assieme a sette stretti collaboratori e ha tenuto con sé fino all' ultimo una giovane schiava yazida. Fuori dal controllo di Assad Il califfo si vestiva spesso «come un pastore», indossava sempre il giubbetto esplosivo, anche quando dormiva, e costringeva le sue guardie del corpo a fare altrettanto. Non usava mai il cellulare, ma i suoi collaboratori sì. Quando anche l' ultimo bastione del califfato è caduto, è riuscito ad attraversare quasi tutta la Siria, muovendosi soltanto di notte, con scarpe da ginnastica e il volto coperto, diretto verso la provincia di Idlib. L' area è stata scelta, ha spiegato la talpa, perché era «l' ultima fuori dal controllo del governo di Damasco», una zona dove operavano altri gruppi jihadisti che potevano coprire il capo dello Stato islamico e forse allearsi con lui nel tentativo di rilanciare il progetto di califfato.

Usa, K-9 il cane eroe ferito mentre inseguiva Al Baghdadi nel tunnel: "È tornato in servizio, sta bene". Trump twitta la foto del cane che ha inseguito il leader dell'Isis rimanendo ferito, e sui social diventa il volto del coraggio. "Il nome resta segreto, è un membro Delta, non possiamo rivelarlo". Ma secondo Newsweek, si chiama Conan ed è di razza pastore belga Malinois. Nel 2011, un cane della stessa sazza di nome Cairo prese parte al raid che portò alla morte di Osama bin Laden. Katia Riccardi il 29 ottobre 2019. "Al Baghdadi è morto come un cane", ha detto il presidente americano Donald Trump il giorno dell'uccisione del leader dell'Isis. Per poi puntare tutto su un altro cane, un eroe. Il solo americano rimasto ferito nel raid, mentre inseguiva il più grande terrorista del mondo fino alla sua morte. È su di lui che Trump punta per descrivere il coraggio dell'operazione effettuata a Barisha, a 24 chilometri da Idlib, nel nord ovest della Siria. Trump ha pubblicato, declassificandola, la sua foto lunedì pomeriggio, twittando, "Abbiamo declassificato una foto del meraviglioso cane (nome non declassificato) che ha fatto un GRANDE LAVORO nel catturare e uccidere il leader dell'Isisi, Abu Bakr al-Baghdadi!". Il post in poche ore ha raggiunto più di 420 mila like. La sua identità segreta è motivo di curiosità globale. "Il nostro" K-9, come lo chiamano", ha dichiarato Trump, "io lo chiamo cane. Un bellissimo cane, un cane di talento, è stato ferito e riportato indietro". Il nome è segreto o rivelerebbe il gestore e le operazioni militari. Inoltre, non è stata rilasciata una descrizione della razza. "È un'operazione Delta, non possiamo rivelare particolari", ha detto un funzionario della Difesa alla Cnn anche se secondo Newsweek, il suo nome è Conan, ed è un cane da pastore belga Malinois. Dalle ricostruzione dei fatti si ritiene che K-9 Conan sia stato inviato nel tunnel nel momento in cui il timore era che Al Baghdadi indossasse un giubbotto suicida. Cosa vera. Tanto che il leader del sedicente Stato islamico si è poi fatto esplodere uccidendo se stesso e tre dei suoi bambini. Il presidente ha dichiarato che il tunnel è crollato durante l'esplosione. Probabile, così ha lasciato intendere Trump, che nel tunnel ci fosse più di un cane: Al Baghdadi "ha raggiunto la fine del tunnel, mentre i nostri cani lo inseguivano". Il cane, membro dell'esercito Delta, che ha eseguito il raid, è stato ferito ma e si sta riprendendo, ha detto un funzionario della Difesa degli Stati Uniti. Cosa confermata dal capo di Stato maggiore congiunto Usa, Mark Milley: K-9 è ancora "in azione" ed è tornato in servizio con il suo gestore. Le forze armate statunitensi si affidano in genere a pastori tedeschi e Malinois belgi. Il generale Milley nelle stessa conferenza stampa, al Pentagono ha dchiarato di non sapere come il presidente Trump abbia saputo che Al Baghdadi sia è morto "urlando, piangendo e piagnucolando": "Potrebbe aver ottenuto parlando direttamente con il personale militare sul campo". Non è la prima volta che le forze armate americane fanno affidamento su cani nelle operazioni contro i terroristi. Nel 2011, un cane di nome Cairo, pastore belga come K-9, prese parte al raid che portò alla morte di Osama bin Laden. Cairo ha protetto l'area intorno al complesso bin Laden mentre le forze della Navy SEALs entravano nel compound. Per quanto riguarda i rapporti di Trump con i cani, non è passato inosservato che sia tra i pochi presidenti moderni a non averne uno alla Casa Bianca. All'inizio di quest'anno, durante una manifestazione a El Paso, aveva pensato di rimediare. I suoi consiglieri lo avevano incoraggiato perché un animale domestico sarebbe stato un vantaggio politico. "Non mi dispiacerebbe averne uno, onestamente, ma non ho tempo. Come apparirei a spasso un cane sul prato della Casa Bianca?", aveva detto. In ogni caso un alto funzionario ha detto che il presidente Usa incontrera K-9 Conan, lui sì. È stato invitato alla Casa Bianca. Non è detto che passerà dal prato.

Ecco K-9, il cane ferito nel raid contro Al Baghdadi (la foto diffusa da Trump). Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Valentina Santarpia. Il nome è stato rivelato da Newsweek, ufficialmente non viene rivelato per motivi di sicurezza. Il cane sarà ricevuto alla Casa Bianca. Il nome non può essere comunicato ufficialmente, perché pur sempre di un a missione speciale si tratta. Ma la foto, quella sì: e così oggi Donald Trump ha twittato un'immagine del cane dell’unità cinofila che ha aiutato i rambo della Delta Force a uccidere il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, in Siria. «Abbiamo desecretato la foto di un meraviglioso cane (il nome resta segreto) che ha fatto una gran lavoro nel catturare e uccidere il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi!», ha scritto Trump allegando l’immagine del pastore tedesco eroe.«È un'operazione Delta, non possiamo rivelare particolari», ha detto un funzionario della Difesa alla Cnn. Ma naturalmente i giornali americani non si sono accontentati. Secondo Newsweek, il cane-coraggio si chiama Conan ed è un pastore di razza belga Malinois. Trump, parlando del suo ferimento, aveva usato un nome in codice: «Il nostro K-9, come lo chiamano- io lo chiamo cane- un bellissimo cane, un cane di talento, è stato ferito e riportato indietro». Il generale Mark Milley, il capo di Stato maggiore congiunto Usa, ha detto ai giornalisti lunedì scorso che l'animale «ha svolto un servizio eccezionale» durante l'incursione. Non rendere noto il nome è una precauzione di sicurezza, per evitare ritorsioni, proprio come si fa con le truppe umane che hanno partecipato al raid, spiega Milley. Un altro pastore belga Malinois di nome Cairo ha accompagnato gli US Navy Seals nel raid del 2011 che ha ucciso Osama bin Laden, il leader di al-Qaida, in Pakistan. Il presidente Barack Obama ha incontrato il cane durante una cerimonia per onorare il commando. Ma come è andata l'operazione? Secondo quanto raccontato dal presidente Usa, c'erano diversi cani nel Delta, che hanno partecipato al raid contro Al Baghdadi: il leader dell'Isis «ha raggiunto la fine del tunnel, mentre i nostri cani lo inseguivano», ha riferito Trump. E poiché il tunnel è crollato durante l'esplosione in cui si è ucciso Al Baghdadi, è intuitivo pensare che il cane sia rimasto ferito dall'esplosione. Ora però si sta rimettendo, secondo quanto ha detto un funzionario della Difesa degli Stati Uniti e confermato da Milley: K-9 è ancora «in azione» ed è tornato in servizio. Ma presto farà visita alla Casa Bianca, dove Trump lo riceverà con tutti gli onori. Sarebbe il primo cane a calpestare il prato del palazzo presidenziale in epoca Trump. Il presidente non ha infatti, come i suoi predecessori, adottato un cucciolo. «Non mi dispiacerebbe- aveva detto all'inizio del suo mandato- Ma non ho tempo».

Trump twitta la foto del cane che ha inseguito il leader dell'Isis rimanendo ferito, e sui social diventa il volto del coraggio. "Il nome resta segreto, è un membro Delta, non possiamo rivelarlo". Ma secondo Newsweek, si chiama Conan ed è di razza pastore belga Malinois. Nel 2011, un cane della stessa sazza di nome Cairo prese parte al raid che portò alla morte di Osama bin Laden. Katia Riccardi il 29 ottobre 2019 su La Repubblica. "Al Baghdadi è morto come un cane", ha detto il presidente americano Donald Trump il giorno dell'uccisione del leader dell'Isis. Per poi puntare tutto su un altro cane, un eroe. Il solo americano rimasto ferito nel raid, mentre inseguiva il più grande terrorista del mondo fino alla sua morte. È su di lui che Trump punta per descrivere il coraggio dell'operazione effettuata a Barisha, a 24 chilometri da Idlib, nel nord ovest della Siria nello stesso giorno in cui conferma su Twitter la morte del "sostituto numero uno di Abu Bakr al-Baghdadi" ucciso dalle truppe americane. "Molto probabilmente avrebbe preso il comando. Ora è morto anche lui!". Trump ha pubblicato sul social come tweet fissato la foto del cane eroe lunedì pomeriggio: "Abbiamo declassificato una foto del meraviglioso cane (nome non declassificato) che ha fatto un GRANDE LAVORO nel catturare e uccidere il leader dell'Isisi, Abu Bakr al-Baghdadi!". Il post in poche ore ha raggiunto più di 420 mila like. La sua identità segreta è motivo di curiosità globale. "Il nostro" K-9, come lo chiamano", ha dichiarato Trump, "io lo chiamo cane. Un bellissimo cane, un cane di talento, è stato ferito e riportato indietro". Il nome è segreto o rivelerebbe il gestore e le operazioni militari. Inoltre, non è stata rilasciata una descrizione della razza. "È un'operazione Delta, non possiamo rivelare particolari", ha detto un funzionario della Difesa alla Cnn anche se secondo Newsweek, il suo nome è Conan, ed è un cane da pastore belga Malinois. Dalle ricostruzione dei fatti si ritiene che K-9 Conan sia stato inviato nel tunnel nel momento in cui il timore era che Al Baghdadi indossasse un giubbotto suicida. Cosa vera. Tanto che il leader del sedicente Stato islamico si è poi fatto esplodere uccidendo se stesso e tre dei suoi bambini. Il presidente ha dichiarato che il tunnel è crollato durante l'esplosione. Probabile, così ha lasciato intendere Trump, che nel tunnel ci fosse più di un cane: Al Baghdadi "ha raggiunto la fine del tunnel, mentre i nostri cani lo inseguivano". Il cane, membro dell'esercito Delta, che ha eseguito il raid, è stato ferito ma e si sta riprendendo, ha detto un funzionario della Difesa degli Stati Uniti. Cosa confermata dal capo di Stato maggiore congiunto Usa, Mark Milley: K-9 è ancora "in azione" ed è tornato in servizio con il suo gestore. Le forze armate statunitensi si affidano in genere a pastori tedeschi e Malinois belgi. Il generale Milley nelle stessa conferenza stampa, al Pentagono ha dchiarato di non sapere come il presidente Trump abbia saputo che Al Baghdadi sia è morto "urlando, piangendo e piagnucolando": "Potrebbe aver ottenuto parlando direttamente con il personale militare sul campo". Non è la prima volta che le forze armate americane fanno affidamento su cani nelle operazioni contro i terroristi. Nel 2011, un cane di nome Cairo, pastore belga come K-9, prese parte al raid che portò alla morte di Osama bin Laden. Cairo ha protetto l'area intorno al complesso bin Laden mentre le forze della Navy SEALs entravano nel compound. Per quanto riguarda i rapporti di Trump con i cani, non è passato inosservato che sia tra i pochi presidenti moderni a non averne uno alla Casa Bianca. All'inizio di quest'anno, durante una manifestazione a El Paso, aveva pensato di rimediare. I suoi consiglieri lo avevano incoraggiato perché un animale domestico sarebbe stato un vantaggio politico. "Non mi dispiacerebbe averne uno, onestamente, ma non ho tempo. Come apparirei a spasso un cane sul prato della Casa Bianca?", aveva detto. In ogni caso un alto funzionario ha detto che il presidente Usa incontrera K-9 Conan, lui sì. È stato invitato alla Casa Bianca. Non è detto che passerà dal prato.

Bobe, il cane rimasto orfano durante il raid contro Al Baghdadi è stato adottato da un fotografo siriano. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 da Corriere.it. Mentre fotografava le conseguenze dell’attacco che ha portato all’uccisione del leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi, il fotoreporter siriano Fared Alhor si è imbattuto in un cucciolo che sembrava essere in difficoltà. «Mi sono girato e, per caso, ho visto un cucciolo accanto al corpo della sua mamma. Ululava e sembrava triste», ha raccontato il reporter alla Cnn. Dopo aver giocato con l’animale, nel tentativo di aiutarlo a sentirsi meglio, Alhor ha chiesto se qualcuno si stava già occupando del cane e, quando ha scoperto che sarebbe rimasto orfano, ha deciso di prendere in mano la situazione. «Ho viaggiato con lui per 20 miglia, sotto la pioggia, in moto, dato che non avevo una macchina», ha spiegato, come riporta People. Inizialmente, ha portato il cane a casa di un amico dove erano presenti altri cuccioli, ma non è stato in grado di separarsi da lui e ha deciso di portarlo a casa. «Sono andato dal veterinario, per assicurarmi che tutto andasse bene con Bobe», ha scritto su Twitter, in un post accompagnato da alcune immagini della visita. Per pagare le cure necessarie per l’animale, Alhor sta raccogliendo delle donazioni presso la struttura veterinaria, il famoso Santuario di Ernesto che da anni si occupa dei randagi in Siria. «Ho bisogno di supporto per garantire cibo e una nuova cuccia a Bobe. Avrà una bella vita e ci sistemeremo, io e lui». Bobe è il secondo cane a catturare il cuore del pubblico all’indomani del raid. Il primo era stato Conan, un pastore belga Malinois, rimasto ferito nell’azione, la cui immagine è stata diffusa da Trump (in un fotomontaggio).Conan ha alle spalle ben cinquanta missioni di combattimento in quattro anni.

Da ansa.it il 28 ottobre 2019. Su alcuni media inglesi e americani, dal New York Times al The Guardian, si comincia a dubitare della ricostruzione fatta da Trump sulla morte di Abu Bakr al-Baghdadi. Il New York Times mette in dubbio il macabro racconto della morte del capo dell'Isis Abu Bakr al Baghdadi che Donald Trump ha fatto agli americani in diretta televisiva. Diversi sono i punti critici rilevati dal quotidiano, in particolare la descrizione del Califfo che urla e piange nel tunnel dove poi si è fatto esplodere. Secondo il New York Times, infatti, le immagini alle quali hanno assistito Trump e i suoi collaboratori nella 'situation room' erano senza audio. Non solo, di Baghdadi braccato nel tunnel il presidente americano non ha potuto nemmeno vedere le immagini in diretta. Gli ultimi minuti di vita del leader dell'Isis, infatti, sono state riprese dalle telecamere installate sugli elmetti dei soldati americani che stavano facendo il blitz. Quei video però sono stati consegnati a Trump soltanto dopo la conferenza stampa. Su una domanda specifica della Abc sul racconto cinematografico di Trump il capo del Pentagono Mark Esper ha provato a tergiversare dicendo di essere all'oscuro di certi dettagli e di ritenere che il presidente abbia parlato con i militari sul campo per farsi dare tutte le informazioni. Analoga l'analisi che si legge sul "The Guardian". E in Italia anche esperti di Medio Oriente come il giornalista Alberto Negri si mostrano perplessi per alcune 'incongruenze' che emergerebbero dalla versione dei fatti fornita dal presidente americano. "Non c’era audio, non si vedeva quasi niente perché era notte - scrive Negri su Facebook - si distinguevano a stento le sagome degli attaccanti e dei jihadisti. Ma Trump, grazie a una fervida immaginazione, è stato in grado di descrivere nei dettagli la morte di Al Baghdadi. I russi non sono convinti, turchi e curdi lo assecondano, i siriani tacciono se non per protestare contro l’annuncio di Trump di occupare i loro pozzi petroliferi. I testimoni in zona parlano di tre ore di battaglia, raid e bombardamenti: fatti da chi e come? Da un aereo Usa e da sei elicotteri che poi dovevano tornare in Iraq? In Iraq o in Turchia che è a 5 minuti di volo ed è un Paese con basi Usa e Nato? Un racconto che fa acqua da tutte le parti: forse a Trump il Pentagono ha dato informazioni monche perché non si fida".

Federico Rampini per “la Repubblica” il 28 ottobre 2019. Proprio mentre è sotto accusa per aver abbandonato i curdi della Siria settentrionale al loro destino, Donald Trump incassa un successo prezioso. «Il terrorista mondiale numero uno è stato giustiziato dagli Stati Uniti». Nell'annunciare la morte di Al Baghdadi il presidente ha buon gioco a descriverlo come «un codardo che piange e strilla mentre è inseguito dai cani delle nostre teste di cuoio». Trump infierisce senza ritegno ma è giustificato da un dettaglio orrendo: il capo dell' Isis si è fatto saltare in aria con tre figli, tre vite innocenti dopo tante altre, gli ultimi di una lunga scia di vittime sacrificate dall'aspirante califfo in nome della guerra santa. La fine di Al Baghdadi vale politicamente per Trump quanto l'eliminazione di Osama Bin Laden per il suo predecessore Barack Obama. Il raid che colpì il capo di Al Qaeda nel suo rifugio pachistano sancì le credenziali di statista di Obama, il quale doveva farsi "perdonare" da mezza America il suo secondo nome (Hussein), l'infanzia nell'Indonesia musulmana, il discorso del Cairo (2009), insomma tutti i sospetti sul suo "filo-islamismo". Naturalmente Bin Laden aveva sulle spalle un bilancio ben più pesante agli occhi degli americani: i tremila morti dell'11 settembre, il primo attacco nemico nella storia ad aver colpito il territorio continentale degli Stati Uniti. Anche Al Baghdadi però è stato un nemico feroce, potente e insidioso. All' apogeo della sua espansione sembrò davvero che l'Isis potesse "riunificare" un' area vasta del Medio Oriente sotto un nuovo Califfato anti-occidentale. Con un modello organizzativo e operativo di "franchising", agli antipodi di Al Qaeda, seppe però ispirare e poi rivendicare attacchi terroristici in molte città occidentali, dalla California alla Spagna, dall'Inghilterra alla Francia, dal Belgio alla Germania; più innumerevoli stragi nei Paesi a maggioranza musulmana. Si capisce che Trump voglia gongolare, il verdetto della storia sembra implacabile: prima o poi i nemici giurati dell' America fanno una brutta fine (anche se i verdetti della storia non sono mai definitivi, e sul terreno c'è chi teme che Isis e Al Qaeda possano risorgere dalle ceneri, magari insieme). Alla danza della vittoria Trump aggiunge inevitabili sbavature. A differenza di Obama attribuisce a se stesso un ruolo esorbitante e inverosimile nell' operazione; esagera il ruolo dell'«alleata Russia» (allarmando i propri generali); non ringrazia abbastanza i curdi. Infine - forse la cosa che dovrebbe più preoccuparci - coglie l' occasione per rinnovare un duro attacco agli europei: colpevoli di non farsi carico dei tanti jihadisti "combattenti stranieri" originari del Vecchio continente. Questo genere di rancore prima o poi Trump lo trasforma in ripicca e castigo. Manca un anno all' elezione presidenziale del 2020; gli elettori hanno la memoria corta; la politica estera non è in cima ai loro pensieri. Non ci sono prove che l' eliminazione di Bin Laden nel 2011 abbia avuto qualche impatto sulla rielezione di Obama l'anno successivo; similmente sarebbe azzardato pensare che la morte di Al Baghdadi sposti voti decisivi fra dodici mesi. Essa però conforta la narrazione di Trump: missione compiuta, torniamo a casa. C' è un' America di destra stanca di guerre perché delusa dall' ultimo disegno imperiale dei neoconservatori, quelli che con Bush junior promisero di rifare il Medio Oriente piegandolo per sempre. C'è un'America di sinistra stanca di guerre perché sempre meno convinta che esistano "interventi umanitari": basta ascoltare la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren per sentire la stessa voglia di riportare a casa tutti i soldati. L' una e l' altra America convergono sul fatto che molti conflitti mediorientali sono troppo antichi e troppo complessi per essere tagliati con la spada come il nodo di Gordio. L'una e l'altra America vedono necessità domestiche a lungo trascurate, debolezze interne che stanno facendo perdere la gara della modernità contro la Cina. Una volta sconfitta la minaccia concreta di una centrale terroristica come l'Isis, in grado di esportare jihad in Occidente, l' abbandono di alcuni teatri mediorientali agli "imperialismi locali" - russo, ottomano, arabo, persiano - diventa un prezzo quasi obbligato da pagare.

Francesca Caferri per “la Repubblica” il 28 ottobre 2019. «È morto come un cane». Se c' è un' espressione nel discorso con cui Donald Trump ha annunciato la morte di Abu Bakr Al Baghdadi che resterà nella memoria è questa. La frase del presidente americano non è piaciuta al mondo musulmano, compresa la maggioranza che nelle azioni del leader dell' Isis non si è mai riconosciuta. Nell' Islam infatti il cane è considerato un animale sporco e da tenere lontano. Paragonare un musulmano, buono o cattivo che sia, a un cane è un insulto. Ma da dove viene l'antipatia dei musulmani per i cani? Nel Corano questi animali sono nominati soltanto due volte ed entrambe senza connotazioni negative: come compagni per pesca o caccia. Sono gli hadith, i detti del Profeta, ovvero le parole che condivise con chi gli era accanto e che sono poi state trascritte (spesso con decine di anni di ritardo), su cui si basa buona parte della giurisprudenza islamica a condannare i cani e a raccomandarne l' allontanamento. Oggi gli studiosi musulmani sono divisi fra chi considera impura solo la saliva del cane e chi l' animale in toto. Se tenere un cane per fare la guardia o per cacciare è ammesso, la presenza nelle case è comunque sconsigliata.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 28 ottobre 2019. «È morto come un cane, è morto da codardo. Il mondo è ora un posto più sicuro». Donald Trump ha raccontato il raid che ha portato alla morte di al Baghdadi con una profondità di dettagli generosa per il pubblico statunitense, ma forse anche pericolosa per i militari statunitensi che l'hanno messa a punto, e per gli alleati che li hanno aiutati con l'intelligence necessaria. L'azione era stata coordinata dalla scorsa estate, quando l'arresto e l'interrogatorio di una delle mogli del leader terrorista e di un corriere avevano permesso di localizzare la presenza di Baghdadi in una località nel nord ovest della Siria, nelle prossimità di Idlib, una zona in verità controllata dalle milizie qaediste di Hayat Tahrir a Sham. È perlomeno strano che Baghadi si fosse fidato dell'organizzazione delle milizie jihadiste con la quale aveva avuto diversi screzi in passato. Le indagini si sono svolte con l'aiuto delle milizie della Sdf, che secondo il portavoce Kino Gabriel collaboravano al progetto da più di un mese. Anche i curdi siriani e iracheni rivendicano il ruolo che hanno avuto nella fase organizzativa, per un periodo di cinque mesi. L'attacco contro la residenza era stato concepito dal Pentagono come un'azione sul terreno. La decisione di Trump di ritirare le truppe Usa dalla Siria ha complicato le cose, e ha forzato l'elaborazione della missione aerea notturna. Il commando statunitense, del quale facevano parte elementi della Delta Force, aveva già avviato e abortito due altre missioni negli ultimi giorni. L'ordine definitivo è arrivato la sera di domenica in Italia, quando otto elicotteri hanno preso il volo diretti verso l'obiettivo, assistiti da jet dell'Air Force e da droni. Il presidente degli Usa ha raccontato che il volo si è svolto tutto a bassa quota, in una sequenza drammatica perché i velivoli avrebbero potuto facilmente essere presi di mira in un area di conflitto internazionale. Russi e turchi erano stati avvertiti e si sono astenuti dall'intervenire, ma prima di atterrare gli elicotteri hanno ugualmente dovuto affrontare ed annientare una fonte di fuoco domestica, che Trump ha attribuito ad una banda locale. Una volta a terra i marines si sono aperti un varco con l'esplosivo attraverso un muro laterale dell'abitazione. Sapevano che la porta principale era minata, e per questo l'hanno evitata. Il presidente ha detto che tutti i componenti della squadra sono tornati alla base senza aver sofferto alcun danno; il ministro della Difesa Mark Esper lo ha corretto: due di loro hanno riportato lievi ferite. Baghdadi ha cercato di fuggire approfittando del reticolo di tunnel che era scavato sotto la proprietà: «Lo abbiamo seguito in diretta dalla Situation Room. ha raccontato Trump senza dissimulare una punta di compiacimento Frignava e piangeva, e si è tirato dietro tre bambini che gli facessero da scudo». Undici altri minori sono stati rinvenuti nella villa e messi in salvo; non è chiaro se fossero tutti suoi figli, o parte della famiglia allargata che lo circondava. I marines erano a conoscenza dei passaggi sotterranei, un altro dettaglio che sembra puntare alla collaborazione in loco, da parte dell'intelligence curda o di quella della Sdf. Hanno lanciato i cani all'inseguimento, e uno di loro deve essere arrivato molto vicino al bersaglio nel momento cruciale della caccia. A quel punto al Baghdadi ha fatto esplodere il corpetto minato che indossava. Il suo corpo ne è rimasto dilaniato, sempre nella descrizione fatta dal presidente Trump, e il cane è rimasto ferito. I membri del commando lo hanno raccolto e trasportato in salvo. L'identità della vittima è stata confermata da un kit del dna amministrato dagli stessi marines. La missione è durata due ore, e ci sono state perdite tra le file dei miliziani che proteggevano il terrorista.

La breccia nel muro poi l’assedio: così gli Usa hanno ucciso Al Baghdadi. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Guido Olimpio. Il gruppo terrorista conferma in un audio l’uccisione di Al Baghdadi, avvenuta in seguito a un raid Usa, e annuncia al mondo il nome del nuovo leader. Il Pentagono ha intanto diffuso ii video del blitz. Utilizzati anche droni e aerei. I guerriglieri spazzati via, i commandos che si avvicinano alla casa, la distruzione dell’edificio. Il Pentagono ha diffuso brevi video per documentare la missione conclusasi con l’uccisione del Califfo a Barisha, in Siria. Una mossa accompagnata da un avvertimento: ci aspettiamo ritorsioni. I filmati mostrano un gruppo di militanti – pare non dell’Isis – che aprono il fuoco sui velivoli statunitensi, ma qualche istante dopo sono investiti dal tiro delle mitragliatrici degli elicotteri. Non hanno scampo. Poi in uno spezzone appare una colonna di uomini, probabilmente membri della Delta Force e del 75esimo Ranger, procedere verso il nascondiglio di Al Baghdadi. Creeranno una breccia nel muro per infilarsi all’interno e inseguire il target. Una volta neutralizzato il bersaglio sarà l’aviazione a demolire la casa con bombe di precisione. Il generale Kenneth McKenzie, responsabile del Central Command, ha fornito alcuni dati. Nel raid sono state uccise 4 donne, un militante, il Califfo e due minori (probabilmente i figli). Due complici sono stati catturati. L’identificazione del ricercato è avvenuta con il DNA, campioni confrontati con quelli che avevano prelevato a Camp Bucca, quando Al Baghdadi era detenuto. Confermato il ruolo dei curdi siriani YPG nel lavoro di intelligence, ma gli insorti non hanno partecipato al blitz. Recuperato materiale elettronico e cartaceo che potrà favorire altre incursioni. Gli americani – hanno precisato nel comunicato - hanno impiegato elicotteri da trasporto, d’attacco, droni e aerei di «quarta e quinta generazione». Per gli esperti si tratterebbe di MH60M e forse Apache, F15, F 35 e F 22. Un drone Reaper ha avuto un ruolo iniziale lanciando missili o bombe contro il compound. Quanto alla base di partenza l’alto ufficiale ha sostenuto che il team è decollato dalla Siria. McKenzie non ha invece confermato la descrizione «colorata» fatta da Donald Trump, con il leader estremista piangente nel tunnel dove poi ha trovato la morte azionando la fascia esplosiva. I suoi resti sono stati infine deposti in mare. L’ufficiale ha ricordato il ruolo del cane da guerra – senza rivelarne il nome – impiegato dai militari nell’assalto finale: l’animale ha 4 anni di servizio ed ha partecipato a 50 missioni. E’ possibile che il Califfo fosse ospitato nella zona controllata dai rivali qaedisti di Hurras al Din in cambio di denaro. E’ questa l’ipotesi avanzata da esperti citati dal New York Times che hanno esaminato documenti burocratici dello Stato Islamico. In queste carte sono indicati pagamenti, somme e dettagli che dimostrerebbero come l’Isis «comprasse» la collaborazione della fazione molto forte nella regione di Idlib. La casa dove era nascosto al Baghdadi apparteneva proprio ad un dirigente di al Hurras.

La tempistica dietro la morte di Al Baghdadi. Andrea Massardo su it.insideover.com il 3 novembre 2019. Combattere il terrorismo internazionale, soprattutto quello di matrice islamica non è mai stato facile per le forze segrete, anche a causa della marcata omertà della popolazione locale. Un esempio può essere quello di Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio del 2011 a seguito di un raid americano ad Abbottabad, in Pakistan, a pochi chilometri dal confine con l’Afghanistan. Esattamente come nel caso dell’uccisione di Abu Bakr al Baghdadi del 27 ottobre, la soffiata è avvenuta (a quanto trapelato) da una persona a lui vicina, che ha deciso di vendere la loro vita. Tornando leggermente indietro nella storia, prima del manifestarsi del fenomeno del terrorismo islamico nella regione, si ricorderà anche la cattura dell’ex dittatore dell’Iraq, Saddam Hussein, avvenuta il 13 dicembre del 2003 mentre si nascondeva in un buco di ragno...

Quando le date non sembrano essere una coincidenza. A leggere attentamente le date, non sfugge all’occhio la distanza di quasi otto anni esatti dalla cattura o dall’uccisione dei precedenti personaggi, nemici giurati degli Stati Uniti d’America: Saddam nel 2003, Osama Bin Laden nel 2011 e Abu Bakr al-Baghdadi nel 2019. Se si considerano invece gli anni delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America, si nota come gli anni 2004 e 2012 (prossimamente anche 2020) sono quelli nel quale il presidente americano uscente si candida per il secondo mandato alla Casa Bianca. A ben vedere la riuscita delle operazioni volte a stanare il ricercato hanno sempre portato bene alla massima carica di Stato, con il buon auspicio anche del presidente Donald Trump per la prossima tornata elettorale.

In un certo senso, la cattura o l’uccisione del ricercato sembra essere stata ostentata quasi come segno della propria vittoria nell’ambito della politica estera, ottimo bigliettino da visita agli occhi del popolo. Una sorta di successo in grado di mettere la figura del presidente in primo piano e quindi congeniale alla campagna elettorale, soprattutto nei territori centrali degli Stati Uniti d’America. Allo stesso tempo però la notorietà tende a diminuire con il passare dei mesi ed il tempo, nelle logiche di voto, è molto importante: più prossimo è il fatto alle elezioni, maggiore sarà il suo impatto sugli elettori.

Il potere della CIA. Non sono poche le critiche rivolte alla Cia che si sono succedute negli anni riguardo alle intromissioni sulle elezioni americane. Si sono avanzate negli anni anche accuse di congiure contro la figura del presidente stesso (basti pensare all’uccisione di John Fitzgerald Kennedy e di suo fratello, Robert Kennedy, durante la campagna elettorale), sebbene conclusioni certe non siano mai state raggiunte. Certamente ci sono stati però presidenti americani che hanno lavorato con maggiore simbiosi con i servizi segreti e questo è il caso degli ultimi vent’anni ed una rielezione della carica non è stata mai vista in queste occasioni come pericolosa riguardo alla propria libertà di azione. Lungi dall’accusare la Cia di temporeggiare le operazioni per dare modo di giocarsi il successo in campagna elettorale, è comunque curioso come nel 2003, 2011 e 2019 la casualità abbia voluto che tale vantaggio sia comunque stato concesso. Chiusa comunque anche questa partita, adesso si attenderanno sviluppi circa la successione ad al-Baghdad, cui nome è già stato identificato in Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi. La vita e le possibilità di azione del nuovo leader sembrano comunque limitate, data la vicina e completa disfatta di quel che rimane dello Stato Islamico di Siria ed Iraq. Ciò comunque non pare a questo punto primario interesse della Cia, che può adesso dedicarsi ad altre faccende, tornando nel suo canonico letargo di otto anni, in attesa del prossimo nemico degli Stati Uniti da colpire, con la precisione di un orologio svizzero.

La morte di Al Baghdadi. “Vi racconto gli orrori dell'Isis”. Le Iene il 27 ottobre 2019. Il presidente Usa annuncia la morte di Abu Bakr Al-Baghdadi, il Califfo che per 5 anni ha guidato lo Stato Islamico. A Le Iene vi avevamo raccontato l’inferno in cui era precipitata Mosul dopo l’arrivo delle bandiere nere dell’Isis, attraverso il coraggioso racconto di un blogger. La morte del califfo dell’Isis Abu Bakr Al-Baghdadi, annunciata dal presidente Usa Donald Trump, è sicuramente una tappa storica della decennale battaglia dell’Occidente contro il terrorismo islamico. Il Califfo, accerchiato da un raid degli uomini delle forze speciali Usa all’interno di un suo compound nella provincia di Idlib, nel nord della Siria, si è fatto saltare in aria con un giubbetto esplosivo, per non essere catturato vivo. Test biometrici, spiega Fox News, avrebbe confermato l'identità di Al Baghdadi, la cui posizione sarebbe stata scoperta dalla Cia. "Qualcosa di molto grande è appena successo" aveva twittato poche ore fa il presidente degli Stati Uniti. E sempre Donald Trump ha aggiunto alcuni elementi: "Al Baghdadi urlava e piangeva in una galleria senza uscita mentre era inseguito dalle forze usa, si è fatto esplodere uccidendo anche tre suoi figli. I curdi ci hanno dato informazioni molto utili. Io ho seguito l'operazione nella situation room, è stato come guardare un film. Confermo che nessun soldato usa è rimasto ucciso". È difficile in questo momento dire se la scomparsa del leader storico dell’Isis segnerà anche il tramonto definitivo dell’organizzazione, dopo la perdita di oltre il 90% dei territori conquistati in Siria e Iraq, a partire dalle due “capitali” Raqqa e Mosul. Di una cosa però siamo certi: la morte del califfo Al Baghdadi non cancella dalle pagine più drammatiche della storia gli orrori che i suoi miliziani hanno perpetrato in questi anni di guerra contro l’Occidente. Un orrore che Le Iene vi hanno raccontato attraverso le parole di un testimone d’eccezione, un uomo coraggioso che ha rischiato la vita per far conoscere al mondo il volto sanguinario dello Stato Islamico, nel servizio che potete rivedere qui sopra. Si tratta di Omar Mohammed, blogger di “Mosul Eye”, e per anni  è stato l’unica fonte da cui tutto il mondo ha potuto conoscere le esecuzioni, gli agguati, gli attentati suicidi compiuti a Mosul, in Iraq. “Di giorno ero una persona diversa, con un’altra personalità. Ma quando tornavo a casa, iniziavo a scrivere sul blog e diventavo Mosul Eye”, cioè il blog con cui Omar testimonia dall’interno come si vive sotto l’occupazione dello Stato Islamico. “Sapevo che era una cosa molto pericolosa, ma bisognava farlo. Chiedevano sempre soldi, non si poteva lasciare la città, non si poteva andare a scuola, ascoltare musica, l’arte era proibita, si poteva parlare con le persone solo dentro casa, non si poteva usare il cellulare”. Un inferno, insomma. Ma il peggio, in un mondo catapultato all’improvviso nel Medioevo più buio, deve ancora arrivare. Quello che vede con i suoi occhi è davvero insostenibile: “Gli omosessuali venivano buttati giù dai tetti, i cristiani crocifissi in mezzo alla strada, lapidazioni, decapitazioni e torture, per qualsiasi motivo. Le esecuzioni erano diventate veri show per tutti, girati a volte come dei film. Ho visto dei bambini giocare a calcio, in mezzo alla strada, con le teste dei cadaveri”. Omar vede anche decine e decine di ragazzini, spesso solo bambini, indottrinati nelle scuole coraniche e convinti a guidare veicoli bomba o a indossare giubbotti esplosivi per farsi saltare in aria. Omar cerca di annotare mentalmente tutto quello che vede, di ricordare i nomi delle vittime e dei carnefici, per poi trasmetterle al mondo attraverso le pagine del suo blog. Il suo è un gioco pericolosissimo: i miliziani dell’Isis lo minacciano, lo cercano, provano ad isolare il segnale di internet quartiere per quartiere, per stanarlo. Ma non riescono a trovarlo, nonostante la sua stanzetta e dunque il suo blog “Mosul Eye”, confini con la casa di un comandante straniero dello Stato Islamico. Oggi Omar vive in Europa, in una località protetta lo abbiamo intervistato. Ma temiamo che l’Isis, anche dopo la scomparsa del suo leader Al Baghdadi, possa avere ancora qualcosa da voler dire al mondo. A modo suo.

Nel campo di prigionia dei seguaci del Califfo: «Noi ora pensiamo solo a sopravvivere». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi, inviato in Siria. Viaggio nel centro più popoloso di quello che resta dei seguaci di Al Baghdadi: quasi 71.000 sfollati — prigionieri. «Dobbiamo morire, è il destino di ogni essere vivente. Ma lui è il Califfo Abu Bakr al Baghdadi, non muore mai. Vale il ruolo, non la persona. Ne faranno un altro che prenderà il suo posto!». Due o tre donne completamente velate non si tirano indietro nel dimostrare il loro totale sostegno al Califfo. «Quante volte lo hanno dato per morto e poi non era vero?», reagiscono ostili. Tutte la pensano davvero così? Difficile dire. La maggioranza chiede assistenza medica per i figli e di avere notizie di mariti, fratelli, padri, tutti combattenti tra i ranghi dell’Isis. Catturati dai curdi, oppure feriti, morti? Non lo sanno. «Che ne è stato di Mohammad? Mio figlio. Ha solo 25 anni. Ci siamo visti l’ultima volta durante la battaglia di Baghouz a gennaio. Non ne so più nulla. Potete aiutarmi?», implora Safa Ahmad, 50 anni, originaria di Aleppo. Un’altra, Aisha Othman, 27 anni, due figli, chiede di Mahmud Ibrahin, suo marito 31 enne, ferito nei villaggi lungo l’Eufrate dopo la caduta di Raqqa nel 2017. «Vorrei andare dai miei genitori a Mosul. Ma non ho passaporto, nessuno garantisce per me», esclama mostrando uno sgualcito foglietto rilasciato dall’ufficio locale della Croce Rossa. Fa ancora caldo, pur a tardo ottobre. Le donne sono sudate, le vesti sgualcite. Anche i tendoni delle agenzie umanitarie Onu mostrano l’usura del luogo. Per puro caso siamo arrivati nel centro più popoloso di quello che resta dei seguaci di Al Baghdadi proprio poche ore dopo la notizia della sua morte. Una coincidenza, perché la nostra visita era programmata da tempo e le autorità militari curde di Rojawa danno i visti col contagocce alla stampa estera per venire al grande campo di detenzione, a Al Hol. Quasi 71.000 sfollati — prigionieri genericamente sospettati di sostenere l’Isis, per lo più donne irachene e siriane con i figli, miste però ad alcune migliaia di fanatiche pericolose, tra le quali oltre 3 mila volontarie straniere venute apposta per combattere la guerra santa dell’Isis e «donare» al Califfo i loro figli. Sono piccoli jihadisti in nuce: ne hanno oltre 7.000. Vedove, mogli, orfani dell’Isis, sono ritenuti talmente pericolosi da essere chiusi in un recinto speciale. Tra loro pare vi sia anche un’italiana, di cui però non dicono il nome. «Dobbiamo stare all’erta. Ci aspettiamo attentati e rivolte in ogni momento per vendicare la morte di Al Baghdadi. Esistono anche cellule attive dell’Isis nei villaggi arabi qui vicini e nella città di Hasakah. Più volte hanno tentato di organizzare evasioni di massa. E non sono mancate violenze interne con accoltellamenti e persino tentativi di decapitazioni», spiega la trentenne Meshgar Mohammad, incaricata dall’amministrazione curda di gestire le straniere. «Abbiamo il problema della carenza di guardie. Sino a tre settimane fa c’erano oltre 800 sentinelle armate al campo. Ma, da quando l’esercito turco ha lanciato l’offensiva contro le nostre regioni, almeno 500 sono andate a combattere al fronte, 107 hanno già perso la vita a Ras al Ayn e Tal Abyad. Con le 300 rimanenti possiamo fare poco, la sicurezza non è più garantita», aggiunge. A onore del vero, il campo oggi appare calmo, senza segnali di rivolte imminenti. Non molto diverso da come lo avevamo visto a marzo, dopo la fine della battaglia di Baghouz, che aveva segnato la fine della dimensione territoriale del Califfato. Le donne chiedono medicine. Tre cecene si nascondono il viso, ma mostrano i figli emaciati, bisognosi di cure. Due uzbeke, completamente velate di nero, le scarpe sfondate, piangono la loro situazione: «A casa non possiamo tornare. I nostri uomini sono morti, non abbiamo i soldi per i figli che neppure vanno a scuola». Quando chiediamo cosa pensano della morte di Al Baghadi, alcune alzano la spalle: «Non ci riguarda più. Adesso dobbiamo solo sopravvivere».

Francesco Semprini per “la Stampa” il 28 ottobre 2019. Robert Baer, ex operativo della Cia, esperto di Medio oriente e terrorismo, qual è la differenza tra l' eliminazione di Abu Bakr al Baghdadi e quella di Osama bin Laden?

«Nessuna in linea di massima, gli effetti saranno gli stessi, qualcuno prenderà il posto di al Baghdadi così come al Zawahiri è succeduto a Bin Laden. Il timore è che accada ciò che è avvenuto dopo l' uccisione del fondatore di Al Qaeda, quando la spinta terroristica è divenuta persino più violenta e aggressiva».

Ha un'idea di chi sarà il nuovo Califfo?

«Sarà sicuramente qualcuno più efficace e pragmatico, o forse più razionale. Le atrocità compiute da Al Baghdadi hanno reso lo Stato islamico inaccettabile per la stragrande maggioranza de musulmani, anche per alcuni di quelli allineati su posizioni più radicali».

Donald Trump ha detto che gli Stati Uniti hanno già individuato il nuovo Califfo.

«Credo proprio di no. Si può andare per tentativi, si possono individuare dei capi regionali o dei leader tribali ma forse nemmeno l'Isis, al momento, sa chi sarà la sua nuova guida».

I miliziani dell'Isis su Site hanno detto però che la jihad continua.

«Certo ed è questo il punto. Si pone troppo l'accento sulla leadership, non credo che siano i leader il fattore trainante dell' estremismo sunnita. Basta guardare Abu Musab al-Zarqawi, fondatore di Al Qaeda in Iraq (antesignano di Isis) il quale è stato velocemente sostituito da Abu Omar al Baghdadi e quest' ultimo, nel 2010, da Abu Bakr al Baghdadi».

È plausibile un loro riavvicinamento ad altre formazioni terroristiche?

«Gli apparati di sicurezza occidentali hanno dibattuto per anni sulla rivalità tra al Qaeda e Baghdadi, ma lui sino a due giorni fa viveva nelle zone controllate dai qaedisti. Di fatto si tratta di realtà che appartengono allo stesso movimento, quello di un certo estremismo salafita. Se in passato si sono combattuti fra loro è stato solo per dispute contingenti. Sono formazioni che, a seconda della convenienza, possono riunirsi e allearsi. Questo ci sfugge e, come tutte le cose che non conosciamo, ci angoscia maggiormente».

Quindi l'Isis sopravviverà ad Al Baghdadi?

«In qualche modo sì, potrà cambiare nome, potrà aver un nuovo leader e forse una modalità operativa diversa, ma sopravviverà. E questo anche per un motivo politico fondamentale, ovvero dinanzi all' ascesa dell'Iran, a cui gli Stati Uniti stanno consegnando il Medio oriente, l'unico collante per il mondo sunnita è l'estremismo violento».

Quindi le ragioni della sopravvivenza di questi movimenti sono di scala più ampia?

«L'elemento su cui occorre riflettere è il caos che domina il Medio Oriente. Basta guardare a cosa succede in queste ore in Libano o in Iraq. Questo unito agli effetti delle grandi migrazioni, e ai cambiamenti climatici che sovente sono all'origine delle crisi non aiuta certo a sconfiggere il terrorismo, al di là di chi sia il capo di un'organizzazione. L'estremismo sunnita ha imparato ad essere camaleontico, a cambiare velocemente pelle e leader, ad adattarsi alle mutazioni e alle sfide che provengono all'esterno. Al Baghdadi in questo disordine regionale è solo una goccia nell'oceano».

Tutti i segreti di Al Baghdadi. Mauro Indelicato su it.insideover.com il 30 ottobre 2019. Era a Barisha da almeno cinque mesi, lì viveva tra bunker e tunnel spaziosi e ventilati, protetto da guardie e fedelissimi. Ecco cosa è emerso nelle ultime ore sulla latitanza di Abu Bakr Al Baghdadi, il leader dell’Isis scovato ed ucciso nel nord della Siria nella giornata di domenica. Molte indiscrezioni sono state diffuse grazie ad un’intervista rilasciata dal cugino Mohammad Ali Sajid sul New York Times.

Le comunicazioni con Flash Drive. Al Sajid ha rivelato quelle che erano le abitudini quotidiane da parte dell’autoproclamato califfo. Una vita sì in fuga, ma al tempo stesso anche non così colma di privazioni. Viveva con la sua famiglia, nel suo compound a pochi chilometri da Barisha c’era la possibilità di fare tutto: passeggiare, ricevere confidenti e collaboratori, così come coloro che procuravano al leader dell’Isis viveri o facevano giungere messaggi. Segno anche di una rete di fiancheggiatori molto estesa e sorprendente considerando come la provincia di Idlib, dove è situato il villaggio in cui Al Baghdadi ha vissuto, da anni è in mano ai rivali di Al Qaeda. Una vita, quella dell’autoproclamato Califfo, senza dubbio trascorsa con il pensiero ad una possibile cattura. Non solo le guardie all’esterno della struttura in cui è stato trovato, ma anche le cinture esplosive indossate dalle mogli di Al Baghdadi e dallo stesso terrorista, oltre alle armi di cui disponeva, fanno pensare ad una quotidianità dove la possibilità di irruzioni nemiche era ben messa in conto. Nelle rivelazioni di Al Sajid, a spiccare è soprattutto il modo con il quale Al Baghdadi comunicava con l’esterno. Il leader dell’Isis, secondo il cugino, usava la flash drive: qui metteva tutti i dati che poi passava ai suoi fedelissimi. Una latitanza peraltro non lontana dalla tecnologia: nonostante fosse meticoloso sulla sicurezza, Al Baghdadi secondo Al Sajid consentiva l’uso dei cellulari a chi era nel suo compound. Quando doveva spostarsi, al suo seguito c’erano due pick-up bianchi con a bordo cinque persone armate fino ai denti.

Il raid nel compound. Tunnel, bunker, spazio esterni e locali adibiti a rivere i fedelissimi: di tutto questo oggi non è rimasto che un cumulo di macerie. Le dinamiche poi trapelate nelle ore successive al raid americani, hanno rivelato come dopo l’individuazione del nascondiglio di Al Baghdadi sono state sganciate almeno due bombe e poi a terra è stata vera e propria battaglia. Ci si chiede adesso se da quel luogo sono stati prelevati documenti sensibili e materiali utili non solo a ricostruire la vita in latitanza del fondatore dello Stato Islamico, ma anche dell’organigramma dell’Isis e di eventuali elementi utili a capire come potrebbe evolversi l’organizzazione terroristica dopo la fine di Al Baghdadi. I militari della Delta Force, avrebbero prelevato elementi fondamentali anche per confermare l’identità del soggetto riconosciuto come Al Baghdadi che si è fatto esplodere alla vista delle forze speciali. La prova del dna sarebbe stata eseguita grazie agli esami con materiale comparativo forniti da una delle figlie del califfo in modo volontario. Una prova che avrebbe dato esito positivo nel giro di pochi minuti. Il corpo di Al Baghdadi poi, sarebbe stato prelevato e, anche qui si viaggia sul filo delle indiscrezioni, gettato in mare.

Chi è Abu Bakr Al Baghdadi. Mauro Indelicato su it.insideover.com il 24 maggio 2018. Abu Bakr al Baghdadi nasce  il 28 luglio del 1971. Sembra quasi uno scherzo del destino il fatto che colui che nel 2014 si autoproclamerà “califfo” abbia trovato i natali a Samarra. In questa città irachena di poco più di settantamila abitanti, situata a nord di Baghdad, l’eredità di un passato che la vedeva assoluta protagonista degli antichi califfati è ancora oggi presente tra i cittadini. Del resto, Samarra ospita ancora oggi la Malwiyya, ossia il minareto a spirale posto tra le mura di una delle più grandi moschee della cultura islamica costruita nel nono secolo. Ma non solo, qui ha anche sede il sepolcro di due dei dodici Imam venerati dagli sciiti duodecimani, ospitato sotto la grande cupola dorata danneggiata da un attentato nel febbraio 2006. Il suo vero nome è Ibrahim Al Badri, ma oggi è noto unicamente con il suo nome di battaglia Abu Bakr al Baghdadi ed è diventato tristemente famoso in tutto il mondo per il discorso di proclamazione dello Stato Islamico nel luglio 2014 a Mosul.

Gli anni universitari di Al Baghdadi. Il futuro autoproclamato califfo dell’Isis ha trascorso tutta la sua infanzia a Samarra e a 18 anni ha lasciato la sua città natìa per trasferirsi a Baghdad. È nella capitale irachena che intraprende i suoi studi di diritto islamico, presso l’Università di Al Adhamiya: quando si trova nella più grande città del Paese, Saddam Hussein è al potere già da più di un decennio e, poco prima della sua laurea, Baghdad assiste alla pioggia di bombe e missili della Prima guerra del Golfo. Stando a quanto trapela dagli archivi dell’università irachena, non sembrano esserci particolari riferimenti su di lui. Si sa che era un ottimo studente, ma non sembra emergere altro e questo è un particolare non da poco visto che le attività universitarie erano molto monitorate nell’Iraq di Saddam. Un dettaglio importante proviene invece dalla sua vita più privata: Al Baghdadi pare fosse un frequentatore abituale della moschea di Tobchi, quartiere povero della capitale irachena. Qui inoltre incontra e sposa la sua prima moglie, Saja, e condivide con alcuni amici un’inedita passione, ossia il calcio.

La radicalizzazione di Al Baghdadi e la sua detenzione a Camp Bucca. Non è dato sapere, almeno per il momento, quando e come sia avvenuta la radicalizzazione di Al Baghdadi. Nemmeno i due giornalisti che hanno scritto le sue biografie più accreditate, l’americano Will McCants e l’iraniano Ali Ashem, sembrano fornire dettagli in merito. C’è chi afferma che già ai tempi dell’università proclamasse ideologie islamiste ultra ortodosse, tanto da bloccare un matrimonio nei pressi di casa sua per il solo fatto che nella stessa sala ballassero maschi e femmine assieme, ma l’inizio della sua affiliazione ai gruppi jihadisti non è noto. Forse, è il sospetto incontrato negli appunti dell’intelligence americana, tra il 1996 ed il 2000 Al Baghdadi vive in Afghanistan dove impara le prime tecniche di guerriglia. Su questo punto, però, non si è mai avuta conferma. Certo è invece che la prima volta dell’apparizione del suo volto tra le schede segnaletiche risale al febbraio 2004. Gli americani, che dodici mesi prima avevano invaso l’Iraq e destituito Saddam Hussein, lo scovano a Falluja e lo arrestano. Al Baghdadi era noto ancora con il suo vero nome ma, soprattutto, non era ancora tra i principali ricercati: il suo arresto è avvenuto infatti per il fatto che il futuro califfo si trovava in compagnia di un leader della guerriglia sunnita. Viene dunque rinchiuso a Camp Bucca, una base nei pressi di Bassora trasformata in prigione dagli americani. Mediatore tra i detenuti e tra detenuti e soldati americani, riconoscimento di un certo carisma e di abilità oratorie, Al Baghdadi in carcere si guadagna il rispetto del mondo islamista. Ma soprattutto, è proprio qui che inizierebbe la “carriera” all’interno dell’integralismo islamico del futuro califfo.

La scalata all’interno dell’Isil. Nel dicembre del 2004 Al Baghdadi viene liberato da Camp Bucca e, dettaglio non da poco, torna in società da cittadino qualunque e non da terrorista: il suo nome infatti è tra quelli dei detenuti civili. La sua voce gli americani la riascolteranno nel 2008, all’interno di un video dove Al Baghdadi compare con un passamontagna ed un mitra in mano mentre coordina un’azione di assalto nei pressi di Mosul. In quei frame, viene testimoniata la scalata di Al Baghdadi all’interno del terrorismo islamista iracheno, iniziata dalla sua liberazione da Camp Bucca. Secondo il giornalista iraniano Ali Ashem, Al Baghdadi dal 2005 in poi avrebbe vissuto ad Al Qa’im, posto di frontiera tra Iraq e Siria: lì avrebbe gestito per conto dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) il territorio coordinando anche il reclutamento di jihadisti provenienti dall’estero. L’Isil, fondata nel 2006, è presieduta in quegli anni da Abu Omar Al Baghdadi, ucciso poi a Tikrit nell’aprile del 2010: a succedergli sarà, per l’appunto, Ibrahim Al Badri, che da quel momento in poi inizierà a farsi chiamare Abu Bakr Al Baghdadi. La sua ars oratoria, assieme alla capacità di controllo del gruppo ed alla sua propensione alla gestione scrupolosa delle spese dell’organizzazione, gli valgono una fulminea scalata tra i ranghi dell’islamismo iracheno, fino per l’appunto ad arrivare al vertice.

L’attività di Al Baghdadi in Siria. Tra il 2011 ed il 2012, il leader dell’Isil inizia ad operare con il suo gruppo in una Siria sconvolta dalle proteste e dalla guerra. Il governo di Assad inizia a perdere territori, a vantaggio di formazioni definite ribelli ma che, al loro interno, celano folte rappresentanze islamiste. Al Baghdadi trasforma quindi il suo gruppo da Isil ad Isis (Stato islamico dell’Iraq e della Siria), annunciando una fusione con i miliziani del Fronte Al Nusra, estensione siriana di Al Qaeda. Un progetto, quest’ultimo, che non viene visto di buon grado dai vertici di Al Nusra. Nasce proprio in questi frangenti un astio che porterà ben presto ad uno scontro tra le due fazioni. L’Isis guadagna terreno in Siria nei confronti di Al Nusra e stabilisce, nei territori occupati, un controllo che mira alla creazione di un vero e proprio Stato. È questo il preludio alla proclamazione del califfato.

La proclamazione dello Stato islamico a Mosul. Si arriva così alle famose immagini del video in cui, presso la grande moschea di Mosul, Abu Bakr Al Baghdadi ha proclamato la nascita del califfato e dello Stato Islamico. È il 29 giugno del 2014, l’Isis è al culmine di un’espansione territoriale operata sia in Siria che in Iraq, che porta l’autoproclamato califfato a controllare una vasta zona che va dal nord di Baghdad fino alle porte di Aleppo. Nel suo discorso, Al Baghdadi incita tutti gli islamici ad attaccare gli infedeli presenti non solo all’interno dello Stato Islamico, ma anche in tutto il mondo: un proclama quello, a cui sono seguiti poi numerosi attentati terroristici sia in medio oriente che in Europa.

La sorte incerta di Al Baghdadi. Dove sia e cosa faccia adesso il califfo è un mistero. Il suo califfato oramai è ridotto a piccole porzioni di deserto siriano, le forze di Damasco e di Baghdad sono riuscite negli anni a riguadagnare il territorio andato perduto nel 2014. L’Isis non è però stato definitivamente sconfitto: resta da chiarire se Al Baghdadi sia ancora vivo e se, soprattutto, sia rimasto al timone della sua rete del terrore. Durante l’espansione massima dello Stato islamico, appare certo che Al Baghdadi vivesse stabilmente a Raqqa, città siriana dove aveva situato la capitale del califfato. Con la sua organizzazione in difficoltà invece, più volte sono state dette diverse voci contrastanti sulla sua sorte. Tra il 2015 ed il 2016, per due volte il governo iracheno aveva dichiarato di averlo scovato ed ucciso, ma in entrambi i casi non si è avuta conferma. Nel giugno del 2017 invece, sono stati i russi ad aver dichiarato di aver ucciso Al Baghdadi in un raid proprio a Raqqa. Ma un messaggio audio del settembre 2017, dichiarato autentico, del califfo ha dimostrato anche in questo caso l’infondatezza della notizia. Più di recente, alcuni quotidiani arabi hanno fatto riferimento ad un misterioso raid compiuto dagli americani nella provincia siriana di Al Hasakah, culminato con la cattura di Al Baghdadi: anche in questo caso, non è arrivata alcuna conferma mentre, dalla capitale irachena, fonti della sicurezza fanno sapere di essere sulle tracce del leader dell’Isis e di sospettare un suo posizionamento alla frontiera tra Siria ed Iraq.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 28 ottobre 2019. Nato a Samarra, in Iraq, il 28 luglio del 71, morto a Idlib, in Siria, il 26 ottobre del 2019. Abu Bakr al Baghdadi non era il suo vero nome, ma un nome di battaglia che aveva sostituito a quello originario di Ibrahim Awad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai. Dalla sconfitta di Mosul è stato avvistato a Falluja, Samarra, Camp Bucca, ma ci è voluta una delle sue mogli per permettere alla Cia di identificare il luogo preciso dove si nascondeva. In un'intervista al Sunday Telegraph, chi lo ha conosciuto, lo ha definito timido, studioso, poco incline alla violenza. Eppure la storia ce lo riporta diverso, come il leader dell'autoproclamato Stato islamico, i cui combattenti hanno messo a ferro e fuoco mezzo mondo dopo la nascita nel giugno del 2014 in alcuni territori tra l'Iraq nord-occidentale e la Siria orientale. In età giovanile, quello che poi diventerà il Califfo nero, segue studi di Lettere e del Corano. Avrebbe voluto iscriversi a una facoltà giuridica, ma la media dei suoi voti non viene considerata sufficiente. Prenderà il diploma di laurea a Baghdad nel 1996.

L'ARRESTO. Così come Osama bin Laden, capo di al Qaeda, anche al Baghdadi viene catturato e rimane prigioniero degli americani in Iraq per dieci mesi, fra febbraio e dicembre 2004. Viene rinchiuso nella prigione di Camp Bucca, dove però è classificato come detenuto civile e non come jihadista. Dopo il rilascio, entra in contatto con al Qaeda, ma l'accordo non regge. Si rivela al mondo cinque anni fa. All'inizio del luglio 2014, poche settimane dopo che l'Isis ha preso il controllo della città di Mosul, decide di apparire in un video che lo ritrae nella moschea Al-Nouri mentre pronuncia un sermone in cui ordina ai fedeli musulmani di obbedirgli. Nella stessa occasione si autoproclama califfo di un territorio che si estende dalla Siria all'Iraq, ovvero dalla provincia di Aleppo fino a quella di Diyala. Da quel momento, la sua ascesa va di pari passo con le stragi e gli attentati. Nell'agosto del 2014, i miliziani dell'Isis avviano nel nord dell'Iraq il massacro e la riduzione in schiavitù di migliaia di appartenenti alla minoranza religiosa degli yazidi, e cominciano a diffondere una serie di video nei quali vengono mostrate le decapitazioni di ostaggi occidentali. Nel settembre dello stesso anno, gli Stati Uniti danno il via ad una campagna di bombardamenti, colpendo anche la capitale dell'Isis, Raqqa. Nel gennaio del 2015, lo Stato Islamico è all'apice della sua espansione territoriale, con il controllo di un'area di 88 mila chilometri quadrati, tra la Siria occidentale e l'Iraq orientale, nella quale vivono quasi 8 milioni di persone. Le entrate ammontano a miliardi di dollari, grazie al contrabbando del petrolio, alle estorsioni e ai rapimenti di ostaggi. La prima volta che viene dato per morto, o per gravemente ferito, risale al 21 aprile del 2015. Fonti irachene affermano che è stato colpito in un raid delle forze americane il 18 marzo a Ba'ej nel governatorato di Ninive. Ma la notizia rimane senza conferme. Tanto che il califfo ricompare in un filmato di propaganda, forse girato a Falluja, nel febbraio 2016. Ci vorrà più di un anno prima che le forze irachene riescano a liberare Mosul, ma il prezzo pagato sarà altissimo. In 10 mesi di battaglia muoiono migliaia di civili. Nell'ottobre 2017, le Forze democratiche siriane (Sdf) riprendono il controllo di Raqqa, mettendo fine a tre anni di dominio dell'Isis. E a dicembre, il governo iracheno dichiara la vittoria contro lo Stato Islamico. Continua la caccia ad al Baghdadi che i media iraniani danno ciclicamente per morto. Ma lui il 29 aprile ricompare in un video per fare la rivendicazione della strage di Pasqua nello Sri Lanka. E a settembre ancora un messaggio, questa volta audio, per incitare alla battaglia.

Il diabete, il tesoro rubato, gli scontri  nel cerchio magico: così è caduto Al Baghdadi. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 su Corriere.it da Farid Adly e Guido Olimpio. Catturato dagli iracheni, il «pentito» di Isis Mohammed Ali Sajet al-Zoubaj sapeva molto sugli ultimi mesi del Califfo. In un’intervista ad Al Arabya ha svelato otto dettagli. Mohammed Ali Sajet al-Zoubai , parente e uomo di fiducia di al Baghadi, è stato per molti mesi al fianco del leader. In luglio è stato catturato dagli iracheni e, probabilmente, ha fornito informazioni importanti. In una lunga intervista ad al Arabya ne ha svelati alcuni in una narrazione che non è per nulla definitiva. Intanto i turchi hanno annunciato di aver arrestato una sorella del Califfo ucciso ad Azaz, nel nord ovest della Siria.

Primo. Il Califfo soffriva di diabete – aspetto emerso già un anno fa - e altri acciacchi. Per questo aveva dovuto ridurre la sua azione, ma era comunque in controllo. Per molto tempo si è nascosto nel deserto iracheno (Anbar), viveva in un bunker di sei metri per otto, lo stesso dove ha registrato il video diffuso in aprile.

Secondo. Il suo movimento ha perso uno dopo l’altro quadri rilevanti, la caccia condotta dagli avversari si è fatta serrata. E’ evidente che il sistema di sicurezza ha iniziato a deteriorarsi. Il Califfo temeva i raid aerei, quando usciva dal sotterraneo mandava uno dei suoi uomini a verificare l’area e aspettava una mezz’ora prima di avventurarsi all’esterno. Attorno a lui solo 5 uomini.

Terzo. Successivamente al Baghdadi, insieme ad un piccolo nucleo, si è spostato nella parte orientale della Siria in alcuni rifugi sicuri, cambiati di continuo. Abu Kamal, Almayadeen sono alcune delle località dove ha trovato ospitalità. Secondo al Zoubai i fuggiaschi si affidavano a dei pastori che dovevano vegliare sul perimetro circostante. Erano le vedette insospettabili, potevano garantire il cibo.

Quarto. Durante il lungo periodo di assenza dalla guida quotidiana dell’organizzazione sono avvenuti duri scontri interni tra le due componenti di miliziani: i Muhajirin (migranti; cioè i combattenti stranieri, arabi e non) e gli Ansar (i sostenitori; cioè gli iracheni e siriani). Divergenze che si sono trasformate in scontro armato interno e reciproche faide, la più importante è stata quella avvenuta a Hajin. Il Califfo ripeteva: “Se abbiamo subito queste perdite è perché qualcuno ha tradito”. Era ossessionato.

Quinto. A causa della fuga repentina il cerchio “magico” del leader ha celato 75 di milioni di dollari, oro ed altri valori in una galleria nel deserto iracheno. Ma sembra che alcuni beduini siano riusciti a scoprire il tesoro e a rubarne una parte. Non è chiaro se questa versione sia attendibile o, invece, mascheri altro.

Sesto. Con il peggioramento della situazione nell’Est della Siria, il Califfo ha raggiunto l’area di Idlib, convinto che qui fosse più sicuro in quanto altri esponenti si erano stabiliti nel settore. Di nuovo si è affidato a dei pastori come sentinelle. Che non sono bastate. Ora sul ruolo di questi civili sono nate delle ipotesi da parte di alcuni osservatori (come Hassan Hassan), compresa quella che abbiano “venduto” al Baghdadi. Inoltre ci si chiede se le due persone portate via dai commandos dopo il raid non fossero dei mujaheddin, bensì le talpe che hanno aiutato gli Usa.

Settimo. Sempre il cognato ha precisato di aver permesso il recupero da parte delle truppe di Bagdad del fucile d’assalto comparso nel video al fianco di al Baghdadi e altra documentazione. Nel corso dell’intervista ha mostrato l’arma aggiungendo che il suo capo ne possedeva altre e teneva sempre vicino il corpetto esplosivo.

Ottavo. Non ha escluso che il nuovo Califfo sia l’iracheno Abdullah Haji, il militante noto come il professore per i suoi studi religiosi, ma con una lunga esperienza sul campo di battaglia. Di lui si è parlato a lunghi nei giorni scorsi e in estate gli Usa, offrendo una taglia da 5 milioni di dollari, lo hanno definito come potenziale successore.

La famiglia allargata di un killer premuroso: 3 o 4 mogli, sei figli, il nipote che l’ha tradito. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019su Corriere.it da Michele Farina. Dalla zia che gestiva i suoi rifugi segreti alla ex: «L’ho lasciato perché era in bolletta»: la famiglia di Abu Bakr Al Baghdadi. Una delle tre mogli e uno dei tanti nipoti di Abu Bakr al Baghdadi avrebbero giocato un ruolo nella sua dipartita: secondo fonti del New York Times, è stato proprio l’arresto di una moglie e di un «corriere» l’estate scorsa a mettere i cacciatori sulle sue tracce. Ufficiali iracheni hanno raccontato al Guardian della cattura di un uomo siriano che aveva già fatto passare nella zona di Idlib le mogli di due fratelli del Califfo, Ahmad e Jumah, dopo aver condotto sulla stessa rotta alcuni figli dall’Iraq. Con il siriano e sua moglie, l’intelligence avrebbero «cooptato» un nipote del capo dell’Isis: le informazioni avrebbero portato all’individuazione della zona in cui si nascondeva il ricercato mondiale numero uno, che non si fidava di nessuno al di fuori della cerchia dei fedelissimi. Così vicini da morire con lui. Due mogli uccise nel blitz, hanno detto gli americani. Tre figli saltati in aria nel tunnel. Scudi umani o eredi devoti? I nomi e l’età non sono stati resi noti. Nessuno presta molta attenzione ai familiari di un tagliagole responsabile di innumerevoli vittime. La sua uccisione offusca quelle dei suoi cari. Quando gli americani nel 2006 disintegrarono il rifugio di Al Zarkawi, il predecessore del Califfo, chi ricorda che sotto le macerie rimase almeno una delle quattro mogli con il figlio? Diverso destino per Hudhayfah al Badri, il figlio diciottenne di Al Bagdhadi, scomparso durante un attacco a una centrale termoelettrica in Siria l’anno scorso. I siti vicini all’Isis hanno celebrato «il martirio» del giovane mostrandolo con un kalashnikov nelle braccia. Hudhayfah era nato nel 2000 a Samarra, quando il padre si faceva ancora chiamare Ibrahim Awad ed era sposato con Asma al Dulaimi. Nel corso degli anni, Al Baghdadi ha aggiunto altre due o tre mogli: Isra A-Qaisi (siriana) e Saja al Dulaimi. Nozze lunghe e brevi. Benché l’ufficio anagrafe del Califfato prevedesse un’identificazione precisa per nascite e matrimoni, la famiglia del capo è sempre stata avvolta nella leggenda. Nell’ottobre 2015 si diffuse addirittura la notizia che il leader avesse sposato una quindicenne foreign fighter tedesca, Diane Kruger, nella provincia irachena di Ninive. La Reuters citando fonti tribali in Iraq ha riportato che Al Baghdadi avesse tre mogli, due irachene e una siriana. Più di recente, una compagna si sarebbe aggiunta dal Golfo. Anche il numero dei figli «ufficiali» non è certo: 6 secondo William McCants, ex consigliere del Dipartimento di Stato Usa. Un tranquillo padre di famiglia: così l’ha descritto Saja al Dualimi, arrestata in Libano nel 2014 dopo essere stata liberata dalle prigioni siriane grazie a uno scambio con dodici suore prigioniere dell’Isis. Saja viene descritta come la moglie più «tosta», anche se lei stessa ha giurato che il matrimonio sarebbe durato solo tre mesi nel 2009. Rimasta vedova del primo marito (ex ufficiale di Saddam ucciso dagli americani) si era spostata come molti sunniti iracheni in Siria. La donna ha raccontato di aver saputo della vera identità di Al Baghdadi (conosciuto via chat) solo dopo avere chiesto il divorzio, «a causa delle ristrettezze economiche in cui lui versava». Frutto della loro relazione fu Hagar: il Califfo mandò l’equivalente di 100 dollari mensili per il mantenimento della piccola, prima di sospendere l’invio nel 2011. Saja, liberata in Libano nell’ottobre 2017, ha rilasciato interviste in cui parla del Califfo come di un padre premuroso che giocava con i figli, anche se spesso spariva dicendo «di andare a trovare il fratello». Altre figure femminili nella cerchia familiare hanno avuto un ruolo importante, forse più delle sue stesse mogli. Una zia, Saadia Ibrahim, è stata con lui fin dall’inizio. Due dei suoi figli sono morti combattendo sotto i vessilli neri dell’Isis. Era zia Saadia a gestire la rete dei rifugi segreti del nipote adorato a Mosul. Era con lui anche in Siria? Il papà premuroso (che si è fatto saltare in aria con tre figli) diventava brutale con le schiave. Una giovane yazida ha raccontato al Guardian di essere stata violentata dal Califfo quando era ancora una ragazzina. Lei che vide la cooperante americana Kayla Mueller tornare in lacrime dopo essere stata stuprata dal boss, un giorno fu convocata dal capo supremo. Pensava a nuove violenze in camera da letto, e invece lui scherzando la fece sedere sul divano in soggiorno. E aprendo il laptop nero le mostrò una decapitazione con aria divertita: «Abbiamo ucciso quest’uomo oggi». Quell’uomo era il giornalista James Foley. «Si divertiva a vedere le nostre reazioni».

L’ultima follia: l’Isis tratta meglio le donne dell’Occidente! Alessandro Rico il 16 Novembre 2019 su Nicola Porro.it. Le foreign fighters? Si arruolano nell’Isis per scappare da «genitori conservatori e una società da cui non si sentono incluse né rispettate». È la bizzarra tesi di Azadeh Moaveni, reporter californiana di origini iraniane che oggi riceve a Milano il premio Cutuli, dedicato alla memoria della giornalista del Corriere della Sera uccisa in Afghanistan 18 anni fa. E proprio il Corriere ha dedicato una breve quando sconcertante intervista alla Moaveni, che spiega le ragioni dell’attrattiva dello Stato islamico per le combattenti. «Diversamente dai gruppi jihadisti che l’hanno preceduto», argomenta la giornalista, «l’Isis ha promesso alle donne ruoli importanti, non solo come mogli e madri», lasciando intravvedere la possibilità di riempire un vuoto lasciato dal fallimento delle Primavere arabe. E anche «per le europee ci sono dietro storie personali di ribellione: contro genitori conservatori e una società da cui non si sentono incluse né rispettate». Insomma, il principale quotidiano nazionale commemora una sua giornalista assassinata da due afgani, pubblicando i vaneggiamenti di una reporter che sembra indicare nell’Isis un campione dell’emancipazione femminile. E che dà la colpa degli arruolamenti di donne occidentali nella jihad ai «genitori conservatori» e alla società che non le capisce e non le valorizza. Poverine: oppresse nei Paesi in cui vigono parità di accesso allo studio e alle professioni e libertà sessuale, queste vittime del maschilismo corrono ovviamente tra le braccia dei fondamentalisti islamici. Loro sì che promettono «ruoli importanti». Ad esempio, quello delle schiave sessuali: la fine che fanno di solito le eroine sensibili alle sirene del Califfato. Ironia della sorte, poche ore prima che fosse pubblicato questo articolo sul sito del Corsera, si apprendeva che uno dei presunti rapitori di Silvia Romano, la cooperante milanese sequestrata un anno fa in Kenya, non si è presentato in tribunale a Malindi dove doveva essere processato. La ventiquattrenne sarebbe viva, ma, come aveva rivelato qualche mese fa Il Giornale, è stata forzata a contrarre un matrimonio con rito islamico. La sua città, intanto, accoglie la giornalista premiata perché ci racconta che il segreto del «successo» dell’Isis è stato il coinvolgimento delle leader femminili. Chissà, quella povera ragazza, quanto desidererebbe tornare dai «genitori conservatori», nella società che non la include e non la rispetta…Alessandro Rico, 16 novembre 2019

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 14 Novembre 2019. Il suo nome di battaglia è "Umm Muthanna al-Britaniyah", e fino a qualche giorno fa le autorità erano convinte che fosse una foreign fighter britannica, dato che ha passato la sua infanzia nella capitale inglese e ha studiato presso il prestigioso Goldsmiths College, frequentato, in passato, anche dal celebre artista Damien Hirst. Ma secondo quanto rivelato ieri dal Parisien, sulla base di fonti concordanti, Tooba Gondal ha in realtà il passaporto francese e figura tra gli undici jihadisti che la Turchia sta per rispedire a Parigi. «Tooba Gandal è una reclutatrice molto famosa dello Stato islamico. Faceva venire sul territorio (siro-iracheno, ndr) le giovani donne, affinché si sposassero con i combattenti», ha dichiarato al Parisien Jean-Charles Brisard, presidente del Centre d'analyse du terrorisme (Cat). Tooba, infatti, era stata soprannominata la "matchmaker" dopo il suo arrivo in Siria: era cioè l' agente matrimoniale dell' Isis, quella che sceglieva le musulmane più fragili per convincerle a sposare i miliziani del califfato. «I britannici hanno paura, non vogliono più avere nulla a che fare con noi. Ma saranno obbligati. Non possiamo restare per sempre in questi campi», ha detto recentemente Umm Muthanna al-Britaniyah, convinta di avere il diritto di rientrare nella terra di Sua Maestà, nonostante il divieto di soggiorno emesso da Londra nel novembre 2018. Peccato, però, che Tooba Gondal si sia dimenticata di essere nata a Parigi, e di conseguenza di avere la nazionalità francese, non britannica. Secondo quanto riportato dalla televisione parigina Cnews, la Gondal è figlia di un importante uomo d' affari, e conserva pochissimi legami con la Francia, Paese che ha lasciato per l' Inghilterra quando era ancora bambina. Dopo gli studi al Goldsmiths, nel 2015 ha raggiunto le fila dell' Isis, stabilendosi a Raqqa, l' ex capitale del califfato, diventando subito una delle responsabili della propaganda sui social. «Spero ardentemente che il governo britannico mi riprenda. Voglio dimostrare che sono cambiata», ha scritto lo scorso mese in una lettera aperta al Sunday Times. Nel 2015, si diceva dispiaciuta su Twitter di non aver visto il massacro del Bataclan «con i propri occhi». riproduzione riservata Tooba Gondal alias Umm Muthanna al-Britaniyah, 25 anni, francese. Ha reclutato ragazze per farne spose dei terroristi dell' Isis in Siria. Lei stessa è rimasta vedova tre volte di jihadisti.

Alvin è salvo: l'arrivo del piccolo all'ambasciata italiana a Beirut. Le Iene il 9 novembre 2019. Il piccolo, nato in Italia da genitori albanesi, è stato salvato da un campo di prigionia in Siria per combattenti dell’Isis. Luigi Pelazza ha seguito tutte le operazioni per riportarlo a casa: non perdetevi il servizio domenica alle 21.15 su Italia 1. Un luogo finalmente sicuro, dopo tanto tempo, e un saluto con un sorriso liberatorio. Il piccolo Alvin è finalmente tornato a casa in Italia, salvo dal campo di prigionia per guerriglieri dell’Isis in Siria in cui era costretto a vivere. Alvin era stato portato via dall’Italia dalla madre nel 2014, quando aveva solo 6 anni. La mamma, che si era radicalizzata, l’aveva portato a Damasco per unirsi allo Stato islamico. È stata poi uccisa durante un bombardamento assieme agli altri figli avuti da un militante del sedicente Stato islamico, e lui era rimasto solo in quel luogo di paura e terrore. Adesso Alvin è tornato a casa sua, in Italia, circondato dall’amore della sua famiglia. Nel video che potete guardare qui sopra vi mostriamo il momento in cui il piccolo arriva all’ambasciata italiana a Beirut, accompagnato dalla Croce rossa e dalle autorità albanesi. Finalmente in un luogo sicuro dopo tanto tempo, e lì riesce a trovare la forza per salutare e sorridere a Luigi Pelazza che ha acceso i riflettori sulla sua storia.

Alvin è tornato in Italia! Ecco come lo abbiamo salvato dall'Isis. Le Iene l'11 novembre 2019. Rapito dalla madre nel 2014 e portato in Siria, dove lei si è unita al sedicente Stato islamico, Alvin ha vissuto lontano dalla sua casa in Italia per cinque anni. Abbiamo seguito la sua storia con Luigi Pelazza fin dall’inizio, ritrovandolo poi in un campo di prigionieri dell’Isis: ecco la sua liberazione e il suo ritorno. Eccolo il piccolo Alvin, finalmente al sicuro tra le mura della sua casa insieme alla sua famiglia! Dopo cinque anni passati tra i miliziani dell’Isis il bambino è tornato tra le braccia di suo papà Afrim e di suo nonno, arrivato appositamente dall’Albania. Noi de Le Iene abbiamo seguito fin dall’inizio la terribile storia di Alvin. La sua vicenda inizia nel 2014, quando la madre si radicalizza e decide di andare in Siria per unirsi alle schiere del sedicente Stato islamico. La donna porta con sé il piccolo Alvin, che si trova così all’improvviso catapultato dalla realtà italiana a quella dell’Isis. Da quel giorno il papà Afrim non lo aveva più visto. “Cosa ti ha fatto tua mamma!”, diceva disperato a Luigi Pelazza. La donna è morta durante un bombardamento e Alvin è rimasto da solo, ancora zoppicante per quell’esplosione. Un mese fa, grazie a una lettera scritta dallo stesso Alvin e all’aiuto delle autorità curde che controllano il campo di prigionia di Al Hol, siamo riusciti a far incontrare il piccolo con suo papà Afrim. La riunione tra i due è stata commovente, ma con un problema: Alvin non è potuto uscire dal campo insieme al padre. “Solo la presenza di un delegato del governo albanese può far uscire da qui il bambino”, hanno detto le guardie. E quindi il piccolo è dovuto rimanere ad Al Hol. Non potevamo però lasciare Alvin abbandonato a se stesso in quel luogo infernale. E quindi abbiamo fatto tutto quello che potevamo per salvarlo dal campo di prigionia. Grazie all’interessamento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al lavoro dei diplomatici della Farnesina e delle autorità albanesi è stato possibile realizzare questo sogno. Abbiamo seguito il salvataggio di Alvin in ogni suo passaggio, come potete vedere nel servizio qui sopra. Siamo stati a Beirut, in Libano, dove il piccolo è stato portato dalla Croce rossa internazionale dal campo di Al Hol via Damasco. Lì ha potuto finalmente mangiare un panino e le patatine, come tutti i bambini della sua età. A Beirut finalmente è arrivato all’ambasciata italiana, dove ha incontrato l’ambasciatore Massimo Marotti e ha formalizzato il suo rientro in Italia. Finalmente Alvin è felice, tranquillo e circondato da persone che si prendono cura di lui. Infine arriva il momento di partire in aereo alla volta di Roma. Lì lo aspettano il padre insieme alle sorelle: quando scende dall’aereo un picchetto d’onore è sulla pista ad aspettarlo. Dopo cinque lunghissimi anni Alvin può tornare ad abbracciare le sorelle e il suo amato papà. Forza piccolo Alvin, l’incubo è finito e adesso hai tutta la vita davanti per recuperare quello che hai perduto in Siria. Noi gli facciamo un ultimo regalo: un cappellino de Le Iene. Ti auguriamo tutto il meglio piccolo, buona fortuna!

Così abbiamo trovato il piccolo Alvin. Guido Salvini il 10 Novembre 2019 su Il Dubbio. Il racconto di Guido Salvini, GIP presso il Tribunale di Milano, il Gip che ha seguito le indagini sul minore sottratto dalla mamma per portarlo nei territori del Califfato. Cinque anni fa Berisha Valbona, moglie di un operaio albanese che in Italia pensava solo a lavorare, aveva svegliato di prima mattina, mentre il marito ancora dormiva, il figlio Alvin di 6 anni. Non lo aveva fatto per mandarlo a scuola. Vestita di nero da capo a piedi l’aveva condotto all’aeroporto e da qui avevano raggiunto la Turchia e poi la Siria. Era andata a “sposare” la guerra contro i “miscredenti” del Califfato dell’Isis. Erano in Italia da molti anni, la famiglia non aveva mai dato luogo ad alcun problema, eppure qualcuno, via internet, l’aveva indottrinata di nascosto. Per molto tempo di lei e del bambino non si era saputo quasi nulla se non che ella aveva giurato fedeltà al Califfo e aveva sposato un “combattente”. Inoltre in uno dei pochissimi messaggi via internet che il piccolo Alvin era riuscito a mandare al padre disperato, aveva scritto che quel giorno la mamma, quando l’aveva portato via, si era vestita come una tartaruga Ninja e nel luogo ove l’aveva condotta aveva paura perché di notte cadevano tante bombe. Erano passati gli anni e, mentre il regno del Califfato si restringeva sotto l’azione degli occidentali, dei curdi e delle forze regolari sembrava, purtroppo, sempre più probabile che madre e figlio fossero rimasti sepolti sotto una bomba durante qualche attacco. Ero il GIP che seguiva l’indagine sulla sottrazione del minore commessa dalla madre fanatizzata e, anche a seguito delle mie richieste di non dimenticare quel caso e di raccogliere qualsiasi informazione utile i Carabinieri e i servizi di intelligence italiani, il cui impegno spesso non è riconosciuto, hanno continuato a cercare notizie e attivare contatti in Siria per sapere soprattutto se fosse stato trovato vivo da qualche parte un bambino che parlava italiano. Sembrava non vi fosse più speranza. Poi in primavera quando l’ultimo fazzoletto di terra dominato dall’Isis era stato strappato al suo sanguinario potere, è arrivata, prima incerta, poi confermata, la buona notizia. Un bambino che parlava un po’ di italiano e che ricordava la sua vita nel nostro paese, era stato ritrovato ferito ma vivo tra i tanti prigionieri e le sue fattezze, come il padre aveva confermato, corrispondevano a quelle di Alvin. Si trovava tra migliaia di ex combattenti dell’Isis, donne e bambini nel campo curdo di Al Hol nel nord- est della Siria. Subito la Procura di Milano e da Roma Ministero dell’Interno, Carabinieri e Servizi di informazione si sono adoperati per farlo rientrare e il miracolo è avvenuto. Tornato in Italia ha raccontato che mentre viaggiava con la sua nuova “famiglia”, se così possiamo chiamarla, erano caduti in un bombardamento. La madre Berisha, il suo nuovo marito dell’Isis, il figlio piccolo che avevano da poco avuto insieme ed un altro figlio del combattente, erano morti sul colpo. Solo lui che si trovava a poca distanza, una fortuna o un segno del destino se si vuole crederci, era rimasto ferito ma si era salvato. Ora speriamo possa riprendere una vita il più possibile normale con il padre. Tornare a scuola, vivere tra noi. Questa volta la giustizia e la collaborazione internazionale tra i “buoni” hanno avuto un successo che vale anche più di tanti processi. Alvin, uscito dall’inferno, è un regalo e un motivo di onore per il nostro Paese e per tutti noi.

Alvin, il bambino dell'Isis, è tornato in Italia: "Non mi facevano andare a scuola e mamma si vestiva da Ninja". Il ragazzino di 11 anni nel 2014 era stato portato in Siria dalla madre che si era unita allo Stato islamico. A Fiumicino accolto dal padre e le due sorelle. A casa grazie a Scip, Mezzaluna Rossa, consolato albanese e Croce Rossa. Rocca: "Ora salviamo altri bimbi, gli Stati prendano esempio dal nostro Paese". Conchita Sannino l'8 novembre 2019 su la Repubblica. “Te l’ho detto che tornavi a casa. Sei diventato grande, sei un ometto”. Il bambino è un po’ confuso, ma sorride. Il padre Afrim Berisha si scioglie in lacrime, accanto a lui le sorelline maggiori. Ore 6.40, Fiumicino, aeroporto: la missione è davvero compiuta. Alvin, undici anni, il bambino che sua madre voleva trasformare in un piccolo combattente per la jihad, è atterrato su suolo italiano, è a casa. Tra non molto rientrerà verso Barzago, il comune di Lecco dove è nato e dove viveva con il padre, le sorelle e quella madre, Valbona - poi diventata foreign fighter - che lo aveva sequestrato, trascinato su un aereo e catapultato nell’inferno delle azioni di guerra Isis. Alvin aveva dovuto dire addio alla scuola, cambiare nome, ora era Yusuf, dimenticare l’italiano, parlare solo l’arabo.Addosso la felpa e il cappellino della Croce Rossa, adesso è tornato alla sua vita : a tenergli la mano fino all’abbraccio con la sua famiglia - sotto la foschia e la pioggia di Fiumicino all’alba - è la polizia italiana e i funzionari dello Scip, il Servizio di cooperazione internazionale che ha portato a termine l’operazione insieme con le autorità albanesi, con il supporto della Farnesina, e la collaborazione del Ros di Milano, gli 007 dell’Arma già delegati dalla Procura di Milano. “È una storia bellissima”, dice Alberto Nobili, il procuratore aggiunto antiterrorismo della Procura di Milano. “In 40 anni è la prima volta che tengo una conferenza stampa, e vedo solo sorrisi e volti felici”, sintetizza il generale Giuseppe Spina, del Servizio (interforze) della cooperazione internazionale. E Francesco Rocca, presidente dei movimenti internazionali della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, prova a trarre l’eredità di questa incredibile vicenda: “Alvin è il nome di una speranza, da oggi nel mondo. Abbiamo dimostrato che noi come operatori umanitari possiamo agire, fare tanto, ma non da soli: solo se ci sono le volontà dei governi che si uniscono. Come in questo caso. E sono sicuro che questo produrrà frutti buoni: già oggi ci hanno chiamato altre Croce Rossa dal mondo, dalle Maldive, dall’Olanda, da altri Paesi. Se gli Stati si muovono, altri bambini possono essere strappati alla guerra”. Il generale dei carabinieri Giuseppe Spina, direttore dello Scip, in avvio di conferenza stampa al Terminal 5 dell'aeroporto di Fiumicino ha riferito che la madre di Alvin, Valbona Berisha, è morta "presumibilmente" a luglio scorso in territorio siriano nel corso di combattimenti. La donna si era radicalizzata, arruolandosi nel Califfato e portando via dall'Italia cinque anni fa il bambino. A proposito della complessa operazione che ha riportato a casa Alvin, il procuratore aggiunto Nobili ha sottolineato: "È il primo caso in Europa, di un orfano dei teatri di guerra, restituito ai suoi affetti, alla sua casa. Un gioco di squadra straordinario: coltiviamo l’orgoglio italiano, quando vogliamo siamo capaci di tanto. Da intercettazioni ricordo questo grido disperato di Alvin, che diceva al padre: “qui non mi fanno andare a scuola, mamma si veste come una ninja”, come a dire "sai papà sono finito in un mondo surreale". Ecco perché oggi si apre una pagina nuova, laggiù sono tanti i bambini da salvare”.

Alvin rapito dalla madre e portato in Siria: «È morta sotto le bombe». Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. «Mia mamma è morta in un bombardamento, io ero vicino a lei». È quanto ha detto Alvin, in un’audizione protetta con un psicologo, davanti agli investigatori del Ros, delegati dal capo del pool antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dal pm Alessandro Gobbis. Il bambino undicenne è tornato in Italia l’8 novembre dopo che la madre jihadista lo portò in Siria nel 2014. È ancora sotto choc e la settimana prossima sarà ricoverato e operato per la ferita alla gamba subita nell’esplosione. Da quanto si è saputo, inquirenti e investigatori, confrontandosi con lo psicologo, hanno deciso di sentire soltanto per poco Alvin, che ancora presenta, è stato spiegato, uno stato di choc molto elevato per il trauma emotivo. Lo ascolteranno ancora più avanti, ma non prima di un mese, dopo che sarà stato ricoverato ed operato per la grave lesione alla gamba che ha subito proprio a seguito di quell’esplosione. Il bambino giovedì mattina ha confermato, ovviamente tra le lacrime, che ha visto la madre morire in un bombardamento e che lui in quel momento era a fianco a lei ma si è salvato. Ha spiegato che il bombardamento è avvenuto quando erano in un altro campo profughi, sempre in Siria, non in quello di Al Hol da cui il piccolo, grazie ad un’operazione delicata di magistrati, forze dell’ordine, Croce Rossa e 007, è stato portato via e fatto rientrare in Italia. L’undicenne non si ricorda quando è avvenuto quel bombardamento che ha ucciso la mamma, si ricorda soltanto che faceva «molto caldo». I medici forse proprio dalla ferita del piccolo potranno dire a quando risale l’esplosione. Alvin l’8 novembre era tornato finalmente in Italia, dopo quasi 5 anni in Siria (la mamma l’aveva portato via dall’Italia il 17 dicembre 2014), e ha potuto riabbracciare il papà, dopo che era stato strappato anche alle sue due sorelle e inserito nello «Stato islamico». Dopo la caduta dell’Isis e la morte della madre di origine albanese, il bimbo viveva nell’area «orfani» di Al Hol, campo profughi nel nord est della Siria sotto il controllo dei curdi e che ospita oltre 70 mila persone, in gran parte compagne e figli di combattenti jihadisti morti o in prigione. Probabilmente solo più avanti inquirenti e investigatori potranno sapere da lui cosa ha passato in quei lunghi anni in Siria, dove ha visto tutto l’orrore del Califfato.

È tornato in Italia Alvin, rapito dalla madre e cresciuto con l’Isis: atterrato a Fiumicino. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. «Papà sto arrivando». Dall’altro capo del telefono la voce di Alvin, 11 anni. La fine di un incubo per il padre Afrim, che non ha mai smesso di cercare il suo bambino, portato via a soli sei anni dalla moglie Valbona nel dicembre del 2014, decisa a unirsi alle fila dell’Isis. Trascinato in Siria, cresciuto nei campi di addestramento utili per la jihad, ribattezzato «Yusuf», infine orfano e dopo la morte della madre durante un bombardamento, finito nel campo profughi di Al Hol, nel territorio curdo-siriano. Dopo cinque anni Alvin è tornato a casa. Venerdì mattina poco prima delle 8 è arrivato all’aeroporto di Fiumicino a Roma, nelle prossime ore raggiungerà il piccolo paese della Brianza dove è nato e cresciuto, dove ancora vivono il suo papà e le due sorelle più grandi. Una straordinaria missione di cooperazione internazionale lo ha restituito alla sua famiglia. L’operazione, che ha visto in azione lo Scip, il servizio interforze di polizia, e il Ros, raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, con la collaborazione del consolato albanese, della Croce Rossa Italiana e degli operatori della Mezzaluna Rossa, ha permesso di farlo arrivare in Italia attraverso uno speciale corridoio umanitario. «Le persone che ti stanno accompagnando sono amici di papà. Non devi avere paura», le parole sussurrate al telefono ieri mattina da Afrim al suo bimbo ritrovato. L’operaio albanese lo scorso 25 settembre era riuscito a raggiungere il campo di Al Hol e a incontrare il piccolo, ma non aveva potuto portarlo via con sé. I documenti rilasciati dall’ambasciata albanese (Alvin è nato in Italia, ma non ha la cittadinanza) non erano bastati. Il disperato appello del papà, rilanciato dalle trasmissione «Le Iene» e accolto dalle istituzioni, per giorni il palazzo di Regione Lombardia si è illuminato con la scritta «Free Alvin», non è caduto nel vuoto. Ci sono volute settimane prima per pianificare e poi per portare a termine l’operazione, particolarmente difficile e complicata così come l’inchiesta sulla foreign fighter Valbona e sul sequestro del bambino condotta fin dal 2015 dai magistrati Alberto Nobili e Alessandro Gobbis. Infine la svolta delle ultime ore. Nel campo di Al Hol vivono 70mila tra donne e figli di combattenti Isis. Questa è la prima volta che un minore esce da lì per raggiungere un Paese europeo. Nelle immagini filmate a Damasco si vede Alvin un po’ claudicante, forse denutrito, certamente spaesato, assieme agli eroi che lo hanno appena strappato all’orrore. Ha ferite a un piede e a un orecchio, dovrà essere curato, ma è vivo. «Adesso bisogna riportare a casa anche tutti gli altri bambini», dice Afrim.

L'Europa che punisce solo gli innocenti. Gian Micalessin, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale. Lui è tornato, la vergogna resta. La vergogna di un'Europa consapevole di non aver la forza politica e giuridica di riprendersi, condannare e imprigionare le bestie dell'Isis uscite dai propri confini. Il cinismo di un'Europa capace - per la stessa ragione di abbandonare in un crudele limbo migliaia di bimbi innocenti. Bimbi come quello appena tornato in Italia. Bimbi colpevoli soltanto d'esser stati messi al mondo da genitori complici dell'abominio Isis. Il totem della vergogna è quel campo di Al Hol in Siria dove sono detenuti decine di migliaia fra madri, spose e figli dell'Isis fuggiti a febbraio dal villaggio di Baghuz, l'ultima ridotta del Califfato. Qualche migliaio proviene dalla civile Europa. Su di loro i curdi si limitano a vigilare senza garantire, per oggettiva mancanza di risorse, le più elementari condizioni di vita. Dentro le morti per fame e stenti sono quotidiane, si contano a centinaia e colpiscono soprattutto i bambini. Quell'inferno è l'ultima filiera dello Stato Islamico. In quell'universo disperato e precario le pasionarie di Al Baghdadi impongono la propria legge violenta trasmettendola a migliaia di bimbi. Tutto questo con la tacita complicità di Germania, Francia, Inghilterra e Belgio da cui sono partiti migliaia o centinaia di jihadisti con le loro famiglie. L'Italia ha regalato all'Isis poco più di cento militanti, ma è stata uno dei pochi paesi pronta riprendersi qualcuna di quelle belve. E ieri un loro figlio innocente. Ma non stiamo meglio di altri. Qui da noi, come a Londra, Berlino e Parigi, facciamo i conti con legislazioni, magistrati e tribunali inadeguati a garantire la galera a vita ai responsabili delle stragi messe a segno in Europa e degli orrori seriali consumatisi nel Califfato. In Inghilterra solo uno su dieci fra le centinaia di jihadisti rientrati da Iraq e Siria è stato incriminato. Siamo al paradosso di una democrazia europea incapace di punire chi ha ucciso i propri cittadini, ma pronta ad abbandonare al proprio destino i loro figli innocenti. Le nostre tanto decantate regole di civiltà ci rendono insomma incapaci di far giustizia. Anche perché, volendo provarci, finiremmo solo con il riportare tra noi dei potenziali assassini pronti a far nuovi proseliti nelle galere e a minacciarci una volta fuori. Così i terroristi possono terrorizzarci anche da sconfitti, mentre noi - i presunti vincitori - continuiamo a non sapere come fermarli. Potevamo uscirne con un tribunale e leggi speciali europei capace di garantire una giustizia rapida e proporzionata agli orrori sovranazionali messi a segno dello Stato Islamico. Ma le leggi sovranazionali dell'Unione Europea servono ad imporre il diametro delle vongole non certo a condannare i terroristi e rieducare i loro figli. Anche per questo l'Ue è un morto che cammina. Sopravvissuta al terrorismo rischia di non sopravvivere alla propria ignavia.

Isis, il successore di Al Baghdadi sarà «il fantasma» iracheno Qardash? Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. Morto il Califfo Al Baghdadi qualcuno dovrà indossare il mantello di leader. E indiscrezioni sostengono che il movimento sarà guidato da Abdullah Qardash, detto «il fantasma». Anzi, secondo alcuni era già alla testa della fazione fin dai primi giorni d’agosto. Possibile che nelle prossime ore arrivi un annuncio che possa confermare o smentire. Iracheno di Tal Afar, esperto di questioni religiose, avrebbe fatto parte della sicurezza sotto il regime di Saddam. Dopo l’invasione americana del 2003 è passato nelle file di al Qaeda e successivamente ha aderito all’Isis. Un legame nato – come per altri “ufficiali” – all’interno di Camp Bucca, la prigione dove erano stati rinchiusi i guerriglieri catturati. Un incubatore di estremismo, un laboratorio che creerà la futura gerarchia dello Stato Islamico a cominciare dallo stesso al Baghdadi. Fino al 2014 i rapporti di Qaradash e il futuro Califfo non sarebbero stati dei migliori, differenze messe da parte dopo la grande offensiva chiusasi con la conquista di Mosul. L’estremista sarebbe stato molto vicino ad Abu Alaa al Afri, figura di peso uccisa in seguito. Un rapporto che avrebbe accresciuto le sue capacità di organizzatore. Ricostruzioni affermano che Al BAghdadi, il 9 agosto, avrebbe deciso di assegnargli la gestione dell’intero apparato militare e politico. Un passaggio di consegne imposto – aggiungono – dalle cattive condizioni di salute del leader. Difficile, però, dire quanto sia attendibile la versione, peraltro uscita sui media regionali da diverse settimane e dunque prima del blitz Usa. Infine un paio di particolari. Il padre del presunto successore è stato definito un abile oratore e una figura che ha plasmato i figli. Qaradash ha infatti tre fratelli: due sono morti, un terzo vivrebbe in Turchia. E poi le tinte forti per descrivere il capo come un uomo crudele, determinato. Dettagli non definitivi in una realtà dove i fatti concreti si intrecciano con i «si dice» e le analisi interessate.

Il nuovo Califfo sarà il "distruttore". Così è chiamato Abdullah Qardash, ex ufficiale iracheno ritenuto l'erede di Al Baghdadi. Gian Micalessin, Martedì 29/10/2019, su Il Giornale. Di certo nessuno piangerà sulla tomba di Abu Bakr Al Baghdadi. Seguendo la stessa procedura attuata dopo l'eliminazione di Osama Bin Laden gli uomini della Delta Force che nella notte tra sabato e domenica avevano caricato sugli elicotteri i resti martoriati del Califfo hanno ricevuto l'ordine di disperderli in mare. Nel frattempo la morte del leader dello Stato Islamico innesca polemiche giornalistiche e dispute dottorali. Sul fronte dei media viene messa in dubbio la ricostruzione in stile hollywoodiano del blitz offerta dal presidente Donald Trump. Sul fronte dell'antiterrorismo gli esperti si accapigliano sul nome del successore del Califfo. Le discussioni più appassionate, almeno in America, riguardano i teatrali resoconti di un Trump pronto a descrivere gli ultimi momenti di un Al Baghdadi ripreso mentre «ansimava, piangeva e urlava». Un resoconto considerato perlomeno dubbio dal New York Times. I filmati delle telecamere montate sugli elmetti delle forze speciali oltre a non riprodurre il sonoro non sarebbero in grado di agganciare il satellite dentro un tunnel come quello in cui s'è infilato il Califfo prima di farsi saltare in aria. Dunque cos'ha visto il Presidente? Probabilmente nulla, specula il New York Times, mentre il segretario alla Difesa, Mark Esper spiega all'Abc che il presidente potrebbe aver «avuto la possibilità di parlare con gli uomini del commando presenti sul campo». Spiegazioni che non salvano l'inquilino della Casa Bianca dalle contestazioni di un gruppo di veterani dell'Iraq appostati in quel «Nationals Park Stadium» di Washington dove domenica si giocavano le finali del campionato di baseball e dove il presidente sperava, s'illudeva di venir osannato come il grande vincitore della guerra allo Stato Islamico. Una guerra che non può, comunque, dirsi terminata. La morte di Al Baghdadi apre ora la corsa alla successione. Una corsa che secondo alcuni esperti, si sarebbe conclusa già lo scorso 8 agosto quando Amaq, l'agenzia ufficiale del Califfato, annunciava la designazione come erede del Califfo di Abu Abdullah Qardash, un ex ufficiale dell'esercito di Saddam Hussein che nel 2004 aveva condiviso con Al Baghdadi la cella della prigione americana di Camp Bucca in Iraq dove erano entrambi detenuti. Soprannominato il «Professore» per la sua laurea in studi islamici e per il ruolo di supremo giudice religioso svolto dentro l'Isis Qardash è conosciuto anche come il «distruttore» per la ferocia con cui ha sempre perseguitato chiunque, dentro e fuori l'organizzazione, si frapponesse al suo capo. Secondo altri esperti, tra cui Rita Katz direttrice di Site, uno dei centri di ricerca più attenti nell'analisi dei documenti del terrorismo islamista, il comunicato di Amaq era un falso. Altri studiosi delle gerarchie dell'Isis fanno notare come Qardash - un turcomanno originario di Tal Afar - non possa vantare, a differenza di Al Baghdadi, l'appartenenza ai «Qurasyshi», la stirpe degli eredi del Profeta a cui l'Islam wahabita riserva il privilegio di aspirare alla carica di Califfo. Ed è anche strano che l'erede del Califfo sia stato nominato senza un comunicato ufficiale di quella shura (assemblea) dei capi militari e religiosi dell'Isis chiamata per statuto a designare un nuovo leader supremo. Una «shura» che viste le difficoltà del movimento impiegherà più di qualche settimana prima di trovare un luogo adeguato in cui riunirsi e decidere senza il rischio di ritrovarsi prima del previsto al fianco di Al Baghdadi e delle 72 vergini nel tanto desiderato Paradiso dei Martiri.

Marco Ventura per “il Messaggero” il 28 ottobre 2019. Morto il capo dei capi dell'Isis Al Baghdadi, il terrorista più ricercato al mondo sul cui capo pendeva una taglia americana da 25 milioni di dollari, il Consiglio del Califfato (lo Stato senza territorio ma non senza governo) eleggerà il successore. E con la morte, annunciata dall'Intelligence turca in un altro blitz americano a sud della città siriana di Jarabulus, di Hassan Al Muhajir vice e portavoce di Al Baghdadi, ecco emergere come probabile successore il capo della sicurezza e ex ministro della Difesa del Califfato, Abu Abdullah Al Qardash detto Hajji Abdallah il distruttore, ancora più cattivo e violento del leader ucciso, stando alle testimonianze. Appare in poche immagini con il volto duro, accigliato, e lo sguardo penetrante. Era nel gruppo di stretti seguaci del Califfo nel video di 18 minuti dello scorso aprile, dopo la disfatta dell'Isis in marzo, in cui Al Baghdadi tornava a farsi vedere dopo lo storico sermone nella Grande Moschea di Mosul del 2014. Ma chi è Al Qardash il turkmeno, quale struttura eredita? Quanta forza ha ancora l'Isis e come cambierà la sua identità? Sono tutte domande che si pongono gli analisti mediorientali. La stessa scelta di Al Qardash, annunciata in agosto dall'agenzia del Califfato, Amaq, con un dispaccio la cui autenticità è però contestata, riporta al cuore dell'Isis, multinazionale che continua a avere il fulcro in Siria e Iraq. Iracheno di origine turkmena, nato nel distretto di Tal Afar a ovest di Mosul, laurea in scienze islamiche al gran collegio per Imam di Mosul Al-Adham Abu Hanifa Al-Numanin, ufficiale dell'esercito iracheno di Saddam Hussein, quindi militante di Al Qaeda e compagno di cella di Al Baghdadi nel penitenziario americano di Camp Bucca a Bassora, sale nei ranghi e diventa braccio destro del N. 2 dell'Isis, Abu Alaa al Afri, ucciso nel 2016. Capo della sicurezza in Siria e Iraq, incaricato di proteggere il Califfo e individuare e sgominare i nemici interni, sue caratteristiche sarebbero crudeltà, militanza e autoritarismo. Il suo potere si estende in altri Paesi. Sarebbe lui il principale colpevole della repressione della minoranza religiosa yazida nell'Iraq nord-occidentale. Ma sarebbe pure il supervisore di svariate operazioni di terrorismo globale. La successione, in agosto, sarebbe stata osteggiata dai puristi che consideravano la sua discendenza non adeguata: Al Baghdadi vantava infatti la filiazione diretta dal clan dei Qurayshi, cioè da Maometto. Contro il Turkmeno sarebbero schierati soprattutto gli stranieri, in particolare i tunisini che ambiscono alla leadership. Il nuovo Califfo, chiunque sarà, potrà contare su cellule dormienti di terroristi tra Medio Oriente, Africa e Europa. Dal Mozambico al Burkina Faso. Dall'Iraq all'Occidente. Lo scorso luglio un rapporto dell'anti-terrorismo USA ha certificato la potenzialità di insorgenza dell'Isis in Iraq e il suo risorgere in Siria. Trentamila tra combattenti e simpatizzanti dell'Isis si trovano nel campo di prigionia di Al Hol nel nord della Siria, a fatica controllato dai curdi, ma almeno un centinaio sarebbero già scappati. Altre migliaia affollano le altre prigioni dell'area. Il problema è che sta venendo meno la solidità della coalizione globale contro l'Isis, mentre le cause storiche e sociali della nascita del Califfato non sono state rimosse, e gli jihadisti sono tuttora in grado di arruolare giovani disperati via Internet. Si tratta di vedere ora chi avrà la forza di imporre la propria autorità ai comandanti militari sul terreno. Il nome di Al Qardash sarebbe stato confermato da un prigioniero eccellente dell'Isis come Abu Zeid Al Iraqi. È possibile un ammutinamento dei comandanti stranieri, che da questa nomina potrebbero sentirsi marginalizzati. Con una resa dei conti, nella quale la ripresa degli attentati segnalerebbe la forza e l'attivismo di un gruppo sugli altri. Com'è stato con la crescita dell'Isis a danno di Al Qaeda.

«Il nuovo capo dell’Isis è Abu Ibrahim al-Hashimi al Qurayshi»: l’annuncio del gruppo terrorista. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Guido Olimpio. Il gruppo terrorista conferma in un audio l’uccisione di Al Baghdadi, avvenuta in seguito a un raid Usa, e annuncia al mondo il nome del nuovo leader. Il Pentagono ha intanto diffuso ii video del blitz. Utilizzati anche droni e aerei. Il nuovo portavoce dell’Isis, Abu Hamza al-Quraishi, ha confermato in un audio la morte del leader dell’organizzazione, Al Baghdadi. In un audio, ha anche annunciato il nome del successore: è Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. La comunicazione arriva nel giorno in cui il Pentagono ha diffuso i video del blitz nel quale ha ucciso Al Baghdadi e «ridotto a un parcheggio» il suo compound. Mina al Alami, esperta di jihadismo della Bbc, aveva osservato che l’Isis non poteva far passare troppo tempo. Le migliaia di militanti attendevano un segnale chiaro, un punto di ripartenza. In passato i movimenti, nei riti degli annunci, si sono mossi a seconda delle circostanze. Nell’aprile 2010 è trascorsa una settimana prima che venisse confermato il decesso di Abu Omar al Baghdadi e un mese per rivelare il nome del leader, il primo Califfo, Abu Bakr al Baghdadi. La fine del portavoce Abu Mohammed al Adnani è stata commentata lo stesso giorno. Per Osama – ha ricordato l’analista – passarono appena 48 ore, ma ci vollero quattro mesi prima di dare la notizia della promozione del numero due, l’egiziano Ayman al Zawahiri, da molto tempo al fianco di bin Laden.

Nuovo leader dell'Isis è Al Quraishi. Nel primo audio: "Trump è un vecchio goffo". Lo Stato islamico ha confermato la morte del califfo Al Baghdadi a seguito del raid statunitense avvenuto tra sabato e domenica notte e anche quella del portavoce Abu al-Hassan al-Muhajir, caduto in un'operazione separata nel nord della Siria a poche ore di distanza. Il nuovo speaker ha minacciato gli Usa: "Non gioire". La Repubblica il 31 ottobre 2019. Lo Stato islamico ha confermato tramite una registrazione audio che il suo leader Al Baghdadi è morto, lo riporta l'agenzia di stampa Amaq, uno degli organi di propaganda dell'Isis. Ed ha annunciato anche il successore: Abu Ibrahim al-Hashimi al Quraishi. Lo Stato islamico non ha rilasciato alcun dettaglio sul nuovo leader e non ha pubblicato foto, ma ha affermato che si tratta di un veterano della jihad. Il gruppo musulmano sunnita, che era rimasto in silezio dopo il raid, ha confermato anche che il suo portavoce Abu al-Hassan al-Muhajir è morto. Al-Muhajir, riporta l'Ap, è stato ucciso domenica a Jarablus, nel nord della Siria, in un'operazione congiunta Stati Uniti e forze curde, poche ore dopo che al-Baghdadi si è fatto esplodere durante un raid americano nella provincia nord-occidentale di Idlib in Siria. Il nuovo portavoce, Abu Hamza al Quraishi, durante il messaggio audio di circa stette minuti diffuso giovedì, riporta l'Ap, ha invitato i seguaci a giurare fedeltà al nuovo califfo ed ha avvertito gli americani: "Non gioire". Il portavoce invita alla vendetta "contro infedeli e apostati", "il nuovo califfo vi farà soffrire più di Al Baghdadi", ha continuato, puntando il dito contro il presidente Donald Trump: "È un vecchio goffo, che la sera ha un'opinione e il mattino ne ha un'altra". Il nuovo portavoce rivolgendosi sempre agli Stati Uniti, ha evidenziato come lo Stato islamico sia "alle porte dell'Europa e nel cuore dell'Africa". Il successore di Al Baghdadi, ha spiegato lo speaker, è stato nominato dal Consiglio della Shura dell'Isis. Un ricercatore dell'Università di Swansea ed esperto di Isis, Aymenn al-Tamimi, riporta Reuters ha spiegato che Abu Ibrahim al-Hashimi al Quraishi è un nome non conosciuto, ma che potrebbe trattarsi in realtà di Hajj Abdullah, personaggio che il Dipartimento di Stato statunitense aveva identificato tra i possibili successori di Al Baghdadi: "Potrebbe essere qualcuno che conosciamo, che forse ha appena assunto questo nuovo nome", ha spiegato Tamimi. Le forze speciali statunitensi hanno rintracciato Al Baghdadi nel nord-ovest della Siria, e nella notte tra sabato e domenica hanno attaccato il complesso dove si nascondeva: Al Baghdadi, autoproclamato califfo dell'Isis nel 2014, si è fatto esplodere dopo essere rimasto in trappola in un tunnel sotterraneo.

Lo Stato islamico conferma la morte di al-Baghdadi ed elegge un nuovo califfo. Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi è il nuovo califfo dello Stato islamico. Abu Hamza al-Qurayshi è il nuovo portavoce. Franco Iacch, Giovedì 31/10/2019 su Il giornale. Abu Bakr al-Baghdadi è morto. E’ quanto ha confermato lo Stato islamico in un messaggio audio diffuso da Al-Furqan Media. Il nuovo califfo è Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. L'intera macchina mediatica dello Stato islamico è in attività, con sigle simpatizzanti di supporto operative su diverse piattaforme social.

Stato islamico: “Il califfo Abu Bakr al-Baghdadi è morto”. 24 ore prima di pubblicare l'audio, al-Furqan Media, ala mediatica dello Stato islamico, ha annunciato l’imminente diffusione di un nuovo messaggio. Al-Furqan Media, ala mediatica del gruppo responsabile della diffusione dei monologhi audio della leadership dell’organizzazione terroristica, in un messaggio audio diffuso pochi minuti fa ha confermato la morte di Abu Bakr al-Baghdadi. Al-Furqan Media risponde direttamente alle principale figure del movimento. I precedenti messaggi audio come Give Glad Tidings to the Patient e He was Sincere Toward Allah and Allah Fulfilled His Wish, letti rispettivamente da Abu Bakr al-Baghdadi e Abul-Hasan Al-Muhajir, ormai ex portavoce dello Stato islamico, sono stati pubblicati da Al-Furqan Media.

La fase preparatoria: il ruolo di Bank al-Ansar. Da circa 24 ore, il canale Bank al-Ansar con la sua Media Invasion Brigade (lanciata all'inizio dello scorso aprile) ha intensificato la sua attività per la creazione di nuovi account Twitter, YouTube e Facebook. La Media Invasion Brigade si riferisce alla jihad mediatica. Sfruttare, cioè, le diverse piattaforme social per amplificare i messaggi ufficiali dell'organizzazione terroristica. Bank al-Ansar consente agli utenti di ignorare la registrazione richiesta per aprire nuovi account, garantendo un ventaglio di profili pronto uso. Bank al-Ansar, quindi, fornisce agli utenti account nuovi e relativi codici di accesso. In questo modo i jihadisti aggirano le impostazioni di sicurezza delle piattaforme social, “saltando” da un account all’altro ed alimentando la diffusione dei contenuti a vantaggio di una persistenza temporale e profondità strategica digitale. Annunciando la diffusione di un messaggio audio, lo Stato islamico ha sfidato nuovamente i protocolli di sicurezza delle piattaforme social e video sharing, facendo leva sulla “stupidità dei crociati”.

Presentato il nuovo portavoce dello Stato islamico. L’audio, della durata di sette minuti e 37 secondi, è stato intitolato وَمَنْ أَوْفَى بِمَا عَاهَدَ عَلَيْهُ الله فَسَيُؤتِيهِ أجراً عَظيماً che potremmo tradurre in “Chiunque adempirà al destino promesso da Dio otterrà una grande ricompensa”. L'Mp3 da 11,3 mb si sta diffondendo velocemente sulla rete. Abbiamo scaricato la nostra copia da Telegram, ma il messaggio è disponibile su una incredibile varietà di piattaforme grazie anche ai ridotti tempi di upload.

L’audio è stato letto da Abu Hamza al-Qurayshi, nuovo portavoce dello Stato islamico. Abu Hamza al-Qurayshi è il successore di Abu al-Hassan al-Muhajir, definito come “ministro ed assistente di al-Baghdadi”. Figura di spicco dell'organizzazione terroristica, Abu al-Hassan al-Muhajir è stato presentato su Al-Furqan il 5 dicembre del 2016. Abu al-Hassan al-Muhajir era l'erede di Abu Mohammad al-Adnani, eliminato in un raid aereo statunitense il 30 agosto del 2016. Al-Muhajir, la cui vera identità è ancora oggi sconosciuta, non possedeva la preparazione ed il carisma del suo predecessore. Fino ad oggi non esistono foto, video ed informazioni su Abu al-Hassan al-Muhajir.

Il nuovo califfo è Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. "Fin da quando ha assunto il comando dei credenti, lo sceicco Abu Bakr al-Baghdadi, principe dei credenti, ha ravvivato la jihad in Iraq, sostenendo i musulmani ovunque. Dall'est all'ovest della terra ha lottato contro infedeli ed apostati fino a quando Dio Onnipotente ha inviato un omicida sulla sua strada. Che Allah lo accetti. Lo sceicco Abu al-Hassan al-Muhajir, che aveva sostituito lo sceicco Abu Mohammad al-Adnani, ha incontrato il suo martirio, era un veterano mujaheddin della guerra in Iraq. Che Allah lo accetti". Le frasi “possa Dio preservarlo”, “che Allah lo protegga” e “possa Dio proteggerlo”, si riferiscono ad una persona in vita e rientrano tra le locuzioni standard utilizzate dalle organizzazioni terroristiche. La frase "che Allah lo accetti" si riferisce ad una persona non più in vita. "America, non rallegrarti della morte di al-Baghdadi. Non ti rendi conto che lo Stato islamico è ora in prima linea in Europa ed in Africa occidentale e che continuad ad estendersi da est a ovest (un riferimento al vecchio slogan dell'organizzazione terroristica). Il Consiglio della Shura, dopo aver confermato il martirio dello sceicco Abu Bakr al-Baghdadi e seguendo le sue precedenti direttive e volontà, ha prestato giuramento ad Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, nuovo califfo dello Stato islamico. Il Consiglio della Shura ha agito nell'interesse della comunità musulmana. Che lo sceicco Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi possa continuare l'opera del suo predecessore. Trump, vecchio pazzo, vendicheranno la morte di Baghdadi. Il nuovo prescelto ti farà provare un nuovo orrore: al confronto i giorni di Baghdadi ti sembreranno un dolce ricordo. America, non vedi che sei diventata lo zimbello del mondo? Il tuo destino è controllato da un vecchio pazzo che va a dormire con un'opinione e si sveglia con un'altra. Non festeggiare e diventare arrogante. E voi credenti, radunatevi attorno al nuovo leader. Siate pazienti e continuate a dimostrare la vostra religione e Jihad. Continuate a combattere per liberare i vostri fratelli e sorelle (in riferimento all'ultimo messaggio audio al-Baghdadi). Ricordate le promesse fatte allo sceicco al-Baghdadi. Aderite alla comunità musulmana ed al suo imam. Impegnatevi a far rispettare l'ultimo comandamento del Principe e smantellate le prigioni dei musulmani. Continuare a convertire nel nome dell'Onnipotente con il sangue dei politeisti e pazientate fino a quando non si sarà imposto il dominio di Dio Onnipotente e la Jihad".

Cosa sappiamo sul nuovo califfo. Come qualsiasi società, lo Stato islamico ha un piano di successione nel caso in cui avvenisse l’eliminazione delle figure principali: la struttura del "califfato" (fisico o in pectore) impone una figura centrale. Le organizzazioni terroristiche annunciano la morte dei rispettivi leader in base alle esigenze contestuali (come ad esempio la disponibilità o meno del corpo) e soltanto quando possono trarne un reale vantaggio. Il nome di battaglia del nuovo califfo suggerisce che rivendica una discendenza con il profeta Maometto. Un califfo deve possedere determinati attributi e credenziali: musulmano, adulto, devoto, sano di mente, fisicamente integro e provenire dalla tribù Quraysh della penisola arabica. La parola khalifa significa successore. Soltanto un legittimo califfo può richiedere la fedeltà di tutti i musulmani. Non abbiamo informazioni sulla figura che si nasconde dietro lo pseudonimo Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. Il nuovo portavoce afferma che "è uno studioso, un noto guerriero, emiro della guerra e profondo conoscitore delle strategie militari degli Stati Uniti". Il nuovo califfo, infine, avrebbe combattuto in diverse occasioni contro gli eserciti dell'Occidente.

Tradotto in italiano il messaggio audio della morte di al-Baghdadi. La traduzione italiana del messaggio audio è concepita per alimentare quella falsa idea di insurrezione jihadista globale. Franco Iacch, Sabato 09/11/2019, su Il Giornale. E’ stata rilasciata sulla rete la traduzione italiana del messaggio audio in cui si conferma la morte di Abu Bakr al-Baghdadi e la nomina di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi a suo successore. La sfera di influenza della strategia del terrorismo è nel campo psicologico.

Stato islamico, la portata globale di un messaggio audio. La sigla pro-Is Muntasir media ha diffuso sulla rete la traduzione italiana del messaggio audio che potremmo tradurre in “Chiunque adempirà al destino promesso da Dio otterrà una grande ricompensa”, pubblicato il 31 ottobre scorso da al-Furqan Media. In quel messaggio audio, lo Stato islamico ha confermato la morte Abu Bakr al-Baghdadi e la nomina di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi a suo successore. Nei giorni scorsi Muntasir media ha sottotitolato il messaggio audio letto da Abu Hamza al-Qurayshi, nuovo portavoce dello Stato islamico, anche in inglese, francese e spagnolo. La traduzione italiana dei 7 minuti e 32 secondi è corretta. Non si notano errori nel testo scritto (ricordiamo che Muntasir è sempre una sigla pro-Is). Considerando il ventaglio dei vocaboli utilizzati, chi ha tradotto il testo parla perfettamente italiano. Per intenderci: la traduzione non è stata effettuata tramite un semplice translate online. Per tradurre un messaggio, c'è qualcuno in ascolto. O meglio. Per tradurre in italiano il messaggio audio, si presume che ci possa essere qualcuno in ascolto. Non dobbiamo però dimenticare che questo potrebbe essere anche uno scaltro tentativo di dare una portata globale al messaggio di al-Furqan Media. La sfera di influenza della strategia del terrorismo è nel campo psicologico.

Il Dipartimento Traduzioni dello Stato islamico. In una infografica diffusa lo scorso 28 agosto Telegram, il Dipartimento Traduzioni dello Stato islamico avrebbe riconosciuto ufficialmente tredici canali gestiti da simpatizzanti. Le tredici sigle pro-Is, Isis-linked group o Isis-aligned group, sarebbero state autorizzate a tradurre i comunicati ufficiali. Lo Stato islamico, quindi, avrebbe concesso ai simpatizzanti piena affidabilità ed autorevolezza per la traduzione dei testi nelle rispettive lingue e dialetti. Le tredici sigle pro-Is sono responsabili per le traduzioni dei testi ufficiali in Inghilterra, Francia, Spagna,Turchia, Russia, Malesia, Somalia, Indonesia, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, India e nelle Filippine. Il riconoscimento non conferma il rapporto diretto, ma potrebbe essere il primo tassello di una nuova collaborazione tra l’organizzazione centrale ed i simpatizzanti. Da sottolineare come la propaganda in lingua inglese, francese e spagnola si concentra più sulle profezie apocalittiche che sui materiali in lingua araba.

Stato islamico, l’autorevolezza concessa ai simpatizzanti. Lo Stato islamico avrebbe concesso piena affidabilità ed autorevolezza soltanto per la traduzione dei testi ufficiali nelle rispettive lingue e dialetti delle tredici sigle pro-Is. E' il solo messaggio dello Stato islamico tramite i suoi canali Idra (al-Naba, Islamic State ed Amaq del Central Media Diwan) ad avere l'autorità necessaria per innescare i distaccamenti o consacrare le loro operazioni per attacchi pianificati e su larga scala. Il ruolo dei simpatizzanti è praticamente irrilevante senza un'azione fisica di supporto nel mondo reale che possa dare credibilità alle loro minacce. I simpatizzanti continueranno ad invocare un qualsiasi evento che possa essere ricollegato al terrorismo islamico e rivendicato dall'organizzazione terroristica. I simpatizzanti sono divenuti essenziali per la sopravvivenza dell'organizzazione terroristica sulla rete. Per alimentare quella falsa idea di insurrezione jihadista globale, lo Stato islamico non può più fare a meno dei suoi simpatizzanti e delle loro reti di diffusione non attenzionate dalle autorità. Il riconoscimento non conferma il rapporto diretto, ma potrebbe essere il primo tassello di una nuova collaborazione tra l’organizzazione centrale ed i simpatizzanti. L'efficacia di questi ultimi, nonostante siano stati consacrati a mujaeddin dallo stesso al-Baghdadi, sarà sempre marginale. Senza un'azione fisica di supporto nel mondo reale che possa dare credibilità alle loro minacce, il ruolo dei simpatizzanti è destinato a rimanere irrilevante. In ogni caso, le sigle pro-Is continueranno ad invocare disperatamente un qualsiasi tipo di attentato che possa essere inconfutabilmente etichettato come tale.

Iraq, catturato il vice di al-Baghdadi nella zona di Kirkuk. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 da Corriere.it. Le autorità irachene hanno annunciato la cattura del vice del defunto autoproclamato «Califfo» dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, ucciso da un commando statunitense a fine ottobre.Una nota della polizia, diffusa dai media locali, riferisce che «forze di polizia, dopo aver ricevuto informazioni precise, hanno arrestato il terrorista noto come Abu Khaldoun all’interno di un appartamento nella zona di Hawija, provincia di Kirkuk», a nord del Paese. L’emittente al Arabiya riferisce che Khaldoun sarebbe anche cugino di al-Baghdadi. Hisham al Hashemi, un analista di sicurezza iracheno, ha confermato in un tweet che le forze di sicurezza avevano arrestato Hamed Shaker Saba ‘al-Badri, conosciuto appunto come Abu Khaldun. Hashemi ha aggiunto che Abu Khaldun era «uno dei più alti leader del Daesh, che era solito dirigere l’intelligence nel gruppo terroristico».

La morte di al Baghdadi non uccide lo Stato islamico. Sarebbe un errore personificare un’ideologia. Lo Stato islamico ha un piano di successione nel caso in cui avvenisse l’eliminazione delle figure principali. Franco Iacch, Domenica 27/10/2019, su Il Giornale. Lo Stato islamico, così come tutte le organizzazioni terroristiche che lo hanno preceduto, ha già pronto un consiglio della shura incaricato di nominare il sostituto di Abu Bakr al-Baghdadi. Nel momento in cui scriviamo, la morte del califfo dello Stato islamico è presunta. Tuttavia anche se fosse stato ucciso, sarebbe un grosso errore personificare un’ideologia.

Cosa dicono i canali ufficiali. Nel momento in cui scriviamo, i canali ufficiali dello Stato islamico non fanno alcun riferimento al raid statunitense dove avrebbe perso la vita Abu Bakr al-Baghdadi. Silenzio anche sui canali ufficiali di al Qaeda.

La reazione dei simpatizzanti. Diverse, invece, le reazioni sui canali simpatizzanti che stiamo monitorando. I canali pro-Is mantengono un atteggiamento scettico in attesa di una comunicazione ufficiale dello Stato islamico. Sui canali pro-Is si moltiplicano le voci di un imminente messaggio audio di al-Baghdadi. I simpatizzanti dello Stato islamico predicano cautela in attesa di informazioni certe provenienti dal comando centrale. Diverse, invece, le reazioni sui canali pro-aQ che stiamo monitorando. Nel momento in cui scriviamo, la notizia della presunta morte di al-Baghdadi è stata accolta con entusiasmo, con messaggi di incitamento verso la figura di Ayman al-Zawahiri. Per i simpatizzanti di al Qaeda, la presunta morte di al-Baghdadi sancirà la fine dello Stato islamico.

La morte di al Baghdadi non ucciderebbe lo Stato islamico. Sarebbe presuntuoso pensare alla morte di Abu Bakr al-Baghdadi come un colpo strategico per l’organizzazione terroristica per due principali motivi: Per prima cosa sarebbe opportuno ricordare che l’effetto dipende dalla resilienza organizzativa del gruppo e dal sostegno locale. In secondo luogo, non dovremmo mai dimenticare che lo Stato islamico è un’organizzazione forgiata dalla sconfitta. Nella sua precedente incarnazione, Al Qaida in Iraq, ha subito raid costanti dalle forze speciali americane e britanniche che hanno decimato la sua leadership come il fondatore Abu Musab al-Zarqawi, terminato nel giugno del 2006. Anche i successori di Abu Musab al-Zarqawi, Abu Ayyub al-Masri e Abu Omar al-Baghdadi, furono eliminati nel 2010. Baghdadi è, probabilmente, la figura preminente nell’attuale galassia jihadista, ma sarebbe strategicamente sbagliato ritenere che una sua uscita di scena possa far crollare l’intera organizzazione terroristica. Al Qaeda non è scomparsa dopo la morte di Osama bin Laden. Come qualsiasi società, lo Stato islamico ha un piano di successione nel caso in cui avvenisse l’eliminazione delle figure principali. Prendiamo a riferimento la morte di Abu Musab al-Zarqawi. Il fondatore di al Qaida in Iraq fu eliminato di mercoledì: il successore fu annunciato il lunedì successivo. Il 22 marzo del 2004 Israele eliminò il fondatore di Hamas, Ahmed Yassin: il successore fu presentato 24 ore dopo. Gli attacchi contro la leadership raramente riducono le capacità di un’organizzazione, ma rientrano in una più ampia strategia di logoramento e pressione che mira ad esporre le debolezze delle organizzazioni terroristiche. L’unico modo per sconfiggere lo Stato islamico è rifiutarla come organizzazione legittima. Ciò richiederà di mitigare quei fattori che lo Stato islamico ha sfruttato a suo vantaggio per ottenere il potere. Nel momento in cui scriviamo, la morte del califfo dello Stato islamico è presunta.

Terrorismo: i fattori rigeneranti. Nonostante le sconfitte temporanee, ci aspettiamo delle nuove mutazione. Esistono tre fattori rigeneranti. Il primo è legato all'esperienza storica delle organizzazioni radicali che sono riuscite a fondere la jihad con il terrorismo. I media occidentali hanno poi contribuito a perpetuare questa concezione errata. Sfruttando i conflitti locali si forma un'ideologia religiosa che si basa sul ripristino di una forma di califfato per un confronto con l'infedele Occidente. Il secondo fattore ruota attorno all'ideologia simile di questi gruppi che consente loro di raggiungere obiettivi generali condivisi senza un coordinamento organizzativo. La loro forza deriva dall'ideologia, non dai leader che possono essere eliminati. La forza centrale di queste organizzazioni è la loro base radicalmente islamica che ha un'ampia portata e che permette loro di continuare a produrre nuovi gruppi terroristici. Il terzo fattore di cui godono questi gruppi è la loro grande capacità di sfruttare le condizioni locali, come l'instabilità, i conflitti politici e settari. La forza militare è necessaria ma ha un effetto temporaneo poichè i terroristi sono in continua evoluzione e adattamento che a sua volta si traduce in longevità.

I giudici di Mosul che danno la caccia ai soldi dell’Isis per non farlo tornare. In ufficio giorno e notte, vivono sotto la strettissima sorveglianza di scorte armate. Dopo la caduta dello Stato islamico tocca ai magistrati impedirne la rinascita. Ecco come lavorano. Marta Bellingreri il 2 settembre 2019 su L'Espresso. Su una scrivania non troppo affollata, Raed al-Maslah mette in ordine le carte per il prossimo interrogatorio. Alla sua sinistra in alto, su un grande monitor, le immagini trasmesse dalle telecamere di sicurezza rivelano la vita caotica della Corte. Alle sue spalle, invece, quasi a vegliare dall’alto, l’immagine dell’aquila nera e dorata che porta la bandiera nazionale in petto, simbolo della Repubblica di Iraq. Un campanello tintinna all’apertura della porta annunciando l’arrivo del nuovo arrestato. Ad essere accompagnata di fronte al giudice questa volta è una donna originaria di Tell Afaar, cittadina a prevalenza turkmena, per tre anni una delle roccaforti dello Stato islamico vicino a Mosul. Al-Maslah è il primo giudice delle indagini preliminari della Corte Speciale per il Terrorismo della regione di Ninive. Da due anni il Tribunale ha sede a Tell Kef, pochi chilometri a nord di Mosul, l’ex-capitale de facto dello Stato islamico in Iraq. La donna invece era un’insegnante prima che l’Isis occupasse la sua cittadina e suo marito si affiliasse all’organizzazione come combattente. Di lui dice di aver perso le tracce. Ma lei è stata adesso arrestata per aver trasferito migliaia di dollari per conto dell’organizzazione terrorista. L’Isis continua infatti a lavorare clandestinamente in tutto l’Iraq, dove diversi membri fanno da tramite per mantenere e trasmettere il suo capitale. È un fatto del tutto eccezionale che il giudice conceda all’Espresso di assistere all’interrogatorio della donna. «Trentamila dollari la prima volta, ventimila dollari la seconda, la terza solo trecento. È lei stessa ad indicarci con precisione somme e luoghi di incontro e a fornire dettagli della modalità», sottolinea il giudice, prendendo appunti. «Anas chiama Khaled, Khaled chiama Ahmed e Ahmed chiama Anis e così via: sono tutti nomi fittizi, nessuno di loro sa né chi lo sta chiamando né chi ha fornito il numero. Quello che sanno tutti invece è che la telefonata non è giunta all’improvviso né per caso: la stavano aspettando». Sono definite cellule dormienti dell’Isis ma in verità non stanno dormendo affatto. Lo dimostra anche questa donna che, prima di essere arrestata, prelevava somme di denaro e le passava ad altri. «Appuntamento di fronte la moschea di Nabi Yunes, appuntamento di fronte al centro commerciale, appuntamento di fronte al mercato… poche parole chiave, un orario preciso e un sacchetto di plastica per la spesa con decine di dollari dentro da portare via. I destinatari del denaro sono principalmente i familiari dei combattenti dell’Isis che si nascondono nel deserto tra Iraq e Siria o di quelli in carcere di cui spesso non hanno notizie». Come tutte le mafie nel mondo, anche l’Isis ha bisogno di tener viva la fede dei suoi sostenitori, fede che si traduce in banconote da distribuire. Col suo sguardo cordiale ma deciso e la sigaretta spesso in bocca, il giudice Raed al-Maslah sta raccogliendo diversi testimoni e i tabulati telefonici degli indagati per ricostruire lo spostamento di questo capitale immenso e capire come lo Stato islamico stia provando a risorgere in Iraq. «Un’altra fonte ci ha detto che al telefono hanno ordinato di trasferire cinquantacinquemila dollari in un colpo solo. Gli arrestati, come questa donna, finora si sono dichiarati sempre innocenti, dicendo di farlo dietro minaccia, ma i loro numeri di telefono non sono composti a caso: chi chiama sa già per certo che quella persona è disponibile, è affiliata: è fedele. E se davvero lei fosse innocente, perché non è tornata a fare l’insegnante come molte donne di Tell Afaar che sono tornate al proprio lavoro statale con uno stipendio regolare? Che sia colpevole o innocente, lo stabiliranno le indagini. Ma in ogni caso chiunque abbia lavorato per l’Isis è una vittima di quel sistema criminale». Il 7 luglio 2019 l’esercito iracheno e la coalizione internazionale a guida statunitense hanno lanciato la campagna “Will of Victory” per colpire le cellule dell’Isis in vaste aree del paese che, dopo la sconfitta di Mosul, hanno continuato ad organizzare attentati e reclutare nuovi militanti. Raed al-Maslah è di Baghdad, ma da quando quasi due anni fa ha preso servizio alla Corte di Mosul torna a casa una volta ogni quaranta giorni. Per tutta la settimana, notte compresa, lavora in Tribunale dove alla mattinata di interrogatori seguono visite agli arrestati, lettura di documenti, visione di centinaia di video, tutto il materiale utile alle indagini. A ridosso della scrivania quasi ordinata, una porta conduce alla sua stanzetta dove trascorre le brevi notti, prima di cominciare l’ennesima lunga giornata. Dietro la scelta di limitare gli spostamenti, non vi è soltanto l’enorme mole di lavoro da fare, ma motivi di sicurezza. Anche Raed, come molti giudici iracheni, è sotto costante minaccia di morte per le indagini che svolge. La giustizia irachena ha tra le mani migliaia di casi: i militanti arrestati durante la battaglia e le decine di nuovi arresti, come la donna di Tell Afaar. Tante persone vengono regolarmente scarcerate per mancanza di prove o perché ingiustamente accusate di far parte dell’Isis, come è accaduto a un dottore «che è stato costretto dall’Isis a lavorare in ospedale, ma che dopo un anno e mezzo è riuscito a scappare. Era innocente», riporta il giudice, chiedendo al suo assistente di chiamare di nuovo il medico, ormai in attesa della scarcerazione, perché sia lui stesso a raccontarsi. Il superiore di al-Maslah si chiama Salem Nuri, giudice Presidente della Corte di Appello di Mosul. In uno scaffale accanto alla scrivania, Nuri conserva una piccola scultura a lui molto cara. Si alza in piedi per prenderla e poggiarla sopra la pila infinita di carte sul tavolo. «Questo è il Codice di Hammurabi, uno dei primi codici di legge esistenti al mondo», dice con uno sguardo severo, quasi in tono di rimprovero, tenendo in mano il modello raffigurante la stele in basalto nero. «Questa è la storia dell’Iraq: da questo codice di leggi babilonese dell’Antica Mesopotamia a oggi, possiamo affermare di credere nella giustizia e nello stato di diritto. Non è un caso che siamo stati il primo obiettivo di attentati dei leader dello Stato islamico, anche prima che occupassero Mosul nel giugno 2014». Nuri, come tutti i suoi colleghi, a seguito dell’occupazione della città, è scappato insieme alla famiglia verso Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove tuttora risiede. Ogni mattina si reca a Mosul per lavorare alla Corte, in una città ancora semidistrutta dalla feroce battaglia per scacciare l’Isis. Della sua casa a Mosul, al posto dei suoi ricordi, non sono rimaste che macerie. In un sistema prevalentemente cor­rotto ed eccessivamente burocratico, con la tortura regolarmente praticata nelle carceri per estorcere le confessioni, questi giudici stanno lottando dall’interno per riformare il sistema. Ma il primo grande ostacolo è proprio la legge anti-terrorismo del 2005 che prevede la pena di morte o venti anni (in Iraq considerato l’ergastolo) per leader e affiliati di organizzazioni terroristiche senza distinzione di ruoli e crimini commessi. Una legge che rimane vaga su diversi punti. Da Baghdad è il giudice Ahmed di Mosul, collega e amico dello stesso al-Maslah, a parlare delle pecche del sistema iracheno. Anche lui scappato da Mosul nel 2014, ha continuato il suo lavoro a Baghdad al Tribunale Penale di Rusafa e poi di Karkh, i due distretti di Baghdad rispettivamente a est e ovest del fiume Tigri che attraversa la città. «Il problema è la legge che deve essere riscritta, guardando alle sfide di oggi. Spesso devo emettere sentenze che non mi rappresentano, che non rappresentano la mia cultura, come la pena di morte», confessa Ahmed che preferisce non venga pubblicato il suo cognome. «Avevo dichiarato innocenti delle donne perché non le ritenevo affiliate dell’Isis: da come parlavano ho capito che non avevano nulla a che vedere con Daesh. Eppure poi in appello sono state condannate». Ogni frase è interrotta dall’aspirare profondo della sigaretta e dal sorseggiare del caffè. Poi conclude: «Dobbiamo lottare per affermare la giustizia, ma ricordare che il lavoro di indagini che precede la sentenza è serio e si basa su robusti dossier di indagini, spesso ignorati dalla stampa internazionale». Molti dei giudici hanno un’esperienza da diversi anni e si ritrovano a processo dei militanti estremisti che avevano già condannato ai tempi di al-Qaeda, come racconta Jawwad Hussein, giudice a Rusafa, Baghdad: «Alcuni li conosco personalmente, li avevo condannati nel 2010 e sono fuggiti da Abu Ghraib nel 2013. Per dimostrare la loro affiliazione all’Isis, hanno compiuto subito dei massacri», spiega senza mezzi termini. Uno dei primi passi positivi dell’Iraq post-Isis è stato già fatto: la Corte Internazionale dell’Aja nel luglio del 2018 ha organizzato un pilot training coi giudici iracheni e altri esperti di indagini criminali internazionali che hanno così unito le forze. Al-Maslah era presente e ha presentato alla conferenza la sfida del suo lavoro nella raccolta di prove, nello svolgimento delle indagini e dei processi. Ad ascoltarlo anche Karim Khan, avvocato penalista britannico, oggi a capo della missione investigativa dell’Onu in Iraq per i crimini di Daesh (acronimo arabo di Stato islamico). Khan e al-Maslah non si perderanno di vista un attimo, almeno per i prossimi due anni di mandato investigativo che potrebbe portare alla Norimberga d’Iraq. Mentre a Mosul si trovano solo gli indagati di crimini commessi nella regione di Ninive, di cui Mosul è capoluogo, a Baghdad ci sono anche i cosiddetti foreign fighters, cittadini provenienti da decine di paesi del mondo che si sono uniti allo Stato islamico. Negli primi mesi del 2019, la condanna a morte di dodici cittadini francesi a Baghdad ha riportato al centro dell’attenzione internazionale il tema della giustizia in Iraq, il paese in cui una delle più grandi organizzazioni terroristiche internazionali, l’Isis per l’appunto, ha provato a costruire uno Stato, ambendo a ridisegnare i confini tra l’Iraq e la Siria in guerra. Che gli stranieri siano giudicati alla Corte di Baghdad dipende soprattutto dalla presenza delle ambasciate nella capitale, permettendo così ad ambasciatori e interpreti di seguire le udienze. Raramente invece sono presenti avvocati dei paesi di origine degli imputati. Gli stessi stati del resto non hanno alcun interesse ad estradarli. «Siamo pronti a lavorare a questi casi, ma abbiamo anche bisogno della cooperazione internazionale», ricorda Raed al-Maslah. «Gli Stati in possesso di informazioni e prove devono condividerle con noi e solo così potremo sconfiggere questa minaccia globale: con un’alleanza globale tra i diversi paesi. Non lasciateci soli», sono le ultime parole che riecheggiano infine tra i nostri pensieri. Perché si sa che Daesh può tornare. Basterebbe solo averne consapevolezza, e non scrollarsi di dosso tutto ciò, come se non ci riguardasse.

ATTENTATO CONTRO I MILITARI ITALIANI IN IRAQ: CI SONO CINQUE FERITI. Da repubblica.it il 10 novembre 2019. Attentato esplosivo contro militari italiani in Iraq: cinque i feriti, di cui tre in gravi condizioni ma nessuno in pericolo di vita. Lo si apprende da fonti della Difesa. L'attentato è avvenuto in mattinata vicino a Kirkuk. L'esplosione è stata molto violenta. A uno dei militari feriti è stata amputata una gamba, ha riferito Nicola Lanza de Cristoforis, comandante interforze, intervistato da Rai News 24, un altro ha subito gravi lesioni interne e un altro ha riportato danni al piede. Un ordigno esplosivo rudimentale (Ied - Improvised Explosive Device), nascosto sotto terra, è detonato al passaggio di un team misto di Forze speciali italiane. Due dei feriti sono effettivi al nono reggimento d'assalto paracadutisti Col Moschin dell'Esercito e tre appartengono al Gruppo operativo incursori Comsubin della Marina militare. Il team, parte della Task force 44, stava svolgendo attività di addestramento ("mentoring and training") in favore delle forze di sicurezza irachene impegnate nella lotta all'Isis. Missone che - fanno sapere dalla Difesa - andrà avanti. I cinque militari coinvolti sono stati subito soccorsi, evacuati con elicotteri Usa e trasportati nell'ospedale americano di Baghdad, dove stanno ricevendo le cure del caso. I soldati devono la loro salvezza all'essersi trovati su un mezzo corazzato. Le famiglie sono state informate. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, "è stato prontamente messo al corrente dell'attentato dal capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, e segue con attenzione - viene sottolineato - l'evolversi della situazione". Ha commentato l'attentato, il generale Marco Bertolini, ex comandante della Folgore e del contingente italiano in Afghanistan, spiegando che contro gli ordigni rudimentali Ied, "non esiste una contromisura che garantisca la sicurezza assoluta". "I militari che operano sul campo sono persone preparate, che sanno quello che fanno e lo fanno con passione", ma ci sono dei rischi che corre chi "opera sul campo".

Solidarietà e vicinanza ai feriti. In queste ore si susseguono le dichiarazioni di vicinanza ai feriti da parte delle più alte cariche dello Stato e da parte di politici di ogni colore. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha informato immediatamente il Presidente della Repubblica Mattarella e il Presidente del Consiglio Conte. Il ministro, viene sottolineato alla Difesa, "in queste ore di preoccupazione, esprime la più profonda vicinanza alle famiglie e ai colleghi dei militari coinvolti". Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, su Facebook ha commentato la notizia: "Sto seguendo con dolore e apprensione quel che è accaduto in Iraq ai nostri militari, coinvolti in un attentato". "I nostri ragazzi erano impiegati in attività di formazione delle forze di sicurezza irachene impegnate nella lotta all'Isis. - prosegue il ministro - . In questi casi il primo pensiero va ai soldati colpiti, alle loro famiglie e a tutti i nostri uomini e donne in uniforme che ogni giorno rischiano la vita per garantire la nostra sicurezza. Seguiamo con attenzione ogni sviluppo". Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fa sapere una nota del Quirinale, "appresa la notizia del gravissimo attentato contro il contingente militare italiano in Iraq", ha fatto pervenire al ministro della Difesa, e al capo di stato maggiore della Difesa, "un messaggio di solidarietà per i militari rimasti feriti". Una nota di Palazzo Chigi ha riferito che il "Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è stato informato tempestivamente dal ministro della Difesa, in merito all'attentato che ha coinvolto questa mattina cinque militari italiani in Iraq. È Stato aggiornato sulle loro condizioni di salute e continua a seguire costantemente e con attenzione la situazione. Il presidente Conte esprime vicinanza ai militari feriti, che stanno ricevendo in queste ore le cure mediche, e alle loro famiglie". La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per attentato con finalità di terrorismo e lesioni gravissime in merito a quanto avvenuto in Iraq nella mattinata di oggi e che ha portato al ferimento di 5 soldati italiani. L'indagine è coordinata dall'aggiunto con delega all'antiterrorismo Francesco Caporale. Il 12 novembre, tra soli due giorni, ricorre il 16esimo anniversario dell'attentato di Nassiriya del 2003, in cui morirono 19 italiani.

Lorenzo Cremonesi per corriere.it l'11 novembre 2019. Kirkuk è una città difficile, contesa, cuore di ambizioni contrastanti e tensioni irrisolte. Non è affatto strano che proprio qui le truppe italiane — parte del contingente internazionale di sostegno e addestramento sia ai Peshmerga curdi che all’esercito nazionale iracheno dispiegato nella regione con modalità e obbiettivi diversi nel tempo da dopo la guerra del 2003 — siano prese di mira. In attesa dei risultati dell’inchiesta, la prima pista che viene in mente per individuare i responsabili è quella dell’Isis, o almeno di ciò che resta delle sue cellule combattenti dopo le sconfitte subite negli ultimi tre anni nelle sue roccaforti tra Iraq e Siria e l’uccisione dello stesso Califfo Al Bagdadi il 26 ottobre. Se ne era già parlato tre giorni fa, quando 17 razzi Katiuscia avevano colpito una base nei pressi di Mosul dove sono acquartierati alcuni contingenti delle forze speciali irachene assieme agli addestratori americani. Sembra che i tiri partissero dalla zona urbana di Mosul: non hanno provocato vittime. Eppure, si è trattato dell’azione più seria dalla disfatta dell’Isis a Mosul, e in effetti dalla sua ritirata generale dall’Iraq, nell’estate del 2017. La spiegazione? «Con lo scoppio delle rivolte popolari in tutto il Paese contro il governo del premier Adel Abdul Mahdi, le forze di sicurezza irachene sono costrette ad abbandonare la sorveglianza anti-Isis per controllare le piazze. Ovvio che le cellule del Califfato hanno così spazio e opportunità per rialzare la testa», notavano già la sera del 8 novembre i commentatori locali ripresi dai media americani. Il ragionamento appare sensato. Da oltre un mese l’Iraq è gravemente destabilizzato. I rivoltosi chiedono pane, lavoro, ma soprattutto denunciano la corruzione endemica negli apparati dello Stato e vorrebbero la sostituzione della classe politica. Un movimento che ha assonanze con le attuali sommosse in Libano. Però i bilanci di sangue in Iraq sono molto più pesanti. Mahdi inizialmente ha reagito col pugno di ferro. Poi si è aperto a trattare offrendo riforme. Ma la piazza chiede la sua testa. La polizia ha quindi ripreso a sparare sule persone. I morti superano quota 300, migliaia i feriti. Le grandi città, specie del centro-sud, sono paralizzate. Non è strano che le cellule dell’Isis possano agire con maggior facilità nel caos, approfittando comunque del malcontento sunnita contro gli apparati dello Stato dominati dalla maggioranza sciita sin dalla caduta di Saddam. Gli attentati sono così in crescita. Lo scenario di Mosul appare molto simile a quello di Kirkuk. Due poli petroliferi centrali dell’Iraq settentrionale, contesi sin dal tempo delle mire coloniali inglesi, francesi e della nuova Turchia ricavata dalle ceneri dell’Impero Ottomano dopo la fine della Grande Guerra. Non a caso oggi il presidente Erdogan si fa paladino della minoranza turcomanna per riguadagnare influenza sulla regione. Ma, in particolare, fu Saddam Hussein negli anni Ottanta e Novanta a fare la guerra ai curdi a suon di trasferimenti forzati di centinaia di migliaia di arabi sunniti a Kirkuk, allontanando i curdi a nord del governatorato. Dopo i conflitti del 1991 e soprattutto del 2003 i curdi ripresero però il controllo di Kirkuk e dei pozzi. Vantaggio che rafforzarono dopo il loro intervento, garantito dagli americani, contro l’Isis vittorioso a Mosul nel giugno 2014. Ma la scelta curda di indire un referendum per la totale indipendenza da Bagdad il 15 settembre 2017 fu il classico passo più lungo della gamba. L’esercito iracheno reagì con durezza, riprese Kirkuk con le armi, i curdi si divisero tra loro e vennero internazionalmente criticati anche dagli alleati più fedeli, tra cui l’Italia. La regione curda ne risultò gravemente indebolita, isolata. Oggi la città conta circa 900 mila abitanti, in maggioranza arabi-sunniti, l’esercito iracheno sta nel centro, nelle periferie, controlla i poli petroliferi.

Iraq, i video dopo l'attacco alle forze speciali italiane. IlGiornale.it pubblica in esclusiva le immagini subito dopo l'attacco subito dalle nostre forze speciali. Guarda i video esclusivi. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, Lunedì 11/11/2019, su Il Giornale.

Gli elicotteri Usa trasferiscono i militari italiani feriti...Sono questi i primi momenti subito dopo l'attacco ai nostri militari impegnati in Iraq nella lotta contro le bandiere nere dello Stato islamico. Ma poi cosa succede? Viene subito richiesto l'intervento degli elicotteri Usa, che trasferiscono i nostri feriti in un ospedale Role 3, dove vengono curati. Le ferite, in alcuni casi, sono davvero gravi e i chirurghi della Coalizione sono costretti ad amputare una gamba e un piede a due uomini delle nostre forze speciali. Ad aver riportato i traumi peggiori, se mai si può fare una classifica dell'orrore, sono gli uomini del Nono reggimento Col Moschin. Vengono trasportati in fretta e furia. C'è poco da fare. È una vera e propria corsa contro il tempo per salvare la vita ai nostri soldati. Ma non solo. Affinché l'operazione si possa svolgere in sicurezza, i soldati curdi cinturano la zona, sprando all'orizzonte. Già, perché perché i nostri soldati più che impegnati in una generica missione di addestramento erano stati impiegati in una vera e propria operazione militare volta a sgominare una cellula dell'Isis. Come spiegato sull'edizione cartacea de ilGiornale di oggi, che ripercorre i dettagli della guerra italiana in Iraq, i nostri militari si sono mossi in piena notte ed è difficile quindi pensare a una semplice operazione di addestramento. Ma non solo. Fonti militari affermano al Giornale.it che, quando le forze speciali escono dalle basi che le ospitano, è solo per colpire dei target precisi. E pericolosi. In questa parte di Iraq, non lontana da Kirkuk, sono infatti annidati diverse cellule - tutt'altro che dormienti - legate allo Stato islamico. L'obiettivo degli uomini della Task Force 44, a cui appartengono i cinque militari italiani feriti ieri, era quello di debellarle.

Sergio Rame per ilgiornale.it il 12 Novembre 2019. Parole di una violenza inaudita quelle pronunciate oggi ai microfoni dell'agenzia AdnKronos padre Alex Zanotelli, missionario e pacifista che si è più volte schierato contro Matteo Salvini. "I militari vittime dell'attentato a Nassiriya non andrebbero definiti 'martiri'", ha detto nel giorno in cui si ricorda l'attacco alla base Maestrale in cui morirono diciannove italiani (dodici carabinieri, cinque soldati e due civili). "Noi - ha continuato - eravamo lì per difendere con le armi il nostro petrolio". "Preti così possono far perdere la fede", ha subito ribattuto il vicepresidente del Senato, Ignazio La Russa, invitando apertamente papa Francesco a "esaminare le parole" pronunciate dal prete. E il leader della Lega, Matteo Salvini, promette di scrivere in Vaticano: "Questo signore non sa quello che dice, dovrebbe vergognarsi e chiedere scusa ai parenti dei nostri morti".

L'attacco shock di padre Zanotelli. A poche ore dall'attacco dei militari italiani in Iraq e, soprattutto, nel giorno in cui l'Italia ricorda i caduti a Nassiriya, padre Zanotelli rilascia una intervista al vetriolo contro i soldati in missione all'estero. "L'Iraq è davvero una grande patata bollente", tuona ai microfoni dell'AdnKronos invitando il governo a chiamarsi fuori da quel conflitto. "Non possiamo più stare in un Paese che abbiamo contribuito a distruggere", accusa il sacerdote puntando il dito contro lo Stato italiano reo di aver partecipato a una guerra "completamente ingiusta, tutta costruita sulle menzogne dell'Occidente". "Il popolo è stato annientato, tutte le relazioni sono saltate", incalza ancora invitando, quindi, il governo giallorosso e la comunità internazionale a far rientrare tutti i contingenti militari ancora presenti sul territorio. "Servono ben altre presenze per ricostruire quel territorio e rimettere in piedi quella società". Per padre Zanotelli, poi, anche i militari che il 12 novembre 2004 sono stati ammazzati nel drammatico attentato a Nassiriya, non andrebbero definiti "martiri". "Noi eravamo lì per difendere con le armi il nostro petrolio - attacca - guardiamoci in faccia e diciamoci queste cose, anche se purtroppo in Italia sembra impossibile dirlo e costa una valanga di insulti... ma è questa la cruda verità". Nell'intervista all'AdnKronos il prete non ha filtri e getta fango su tutti: "Cosa ci stanno a fare, ancora oggi, i soldati italiani in Iraq, come del resto anche in Afghanistan? Noi occidentali li aiutiamo a fare la guerra all'Isis? Ma se in Siria abbiamo abbandonato i curdi, che hanno davvero lottato contro l'Isis...".

L'ira del centrodestra. Le parole pronunciate da padre Zanotelli non possono certo passare inosservare. Non solo calpestano l'impegno del nostro Paese per mantenere la pace in un Paese fiaccato dagli scontri interni e dagli attentati islamisti, ma gettano anche odio e livore contro militari e civili che hanno dato la propria vita per difendere questi ideali. Il deputato della Lega, Gianni Tonelli, fa notare all'AdnKronos che la Chiesa sta vivendo "un travaglio fortissimo". E punta il dito contro "sacerdoti senza il senso della misura e dell'opportunità che anziché predicare il Vangelo e difendere i valori cristiani si gettano con irruenza nella mischia politica abbandonandosi a posizioni e interventi degni di un centro sociale". Per Giuseppe Moles, vicecapogruppo di Forza Italia al Senato, è "inutile stupirsi delle indegne parole di questo pretucolo politicante con la kefiah". "Anche oggi non perde l'occasione per cercare di avere un pò di visibilità anzichè stare per la prima volta zitto - incalza poi - lo fa offendendo la memoria di italiani in divisa". Per Francesco Lollobrigida di Fratelli d'Italia, poi, certe dichiarazioni "non offendono solo la memoria delle vittime della strage, ma infangano il lavoro quotidiano di chi indossa una divisa e ogni giorno, in Italia come all'estero, rischia la propria vita per la sicurezza e la libertà di tutti noi. Zanotelli compreso".

I distinguo della sinistra. Anche dalla maggioranza giallorossa sono arrivate prese di posizione contro padre Zanotelli. Ovviamente sono state mediate dai soliti distinguo. "Martiri? Non saprei...", commenta il piddì Emanuele Fiano. Che poi si fionda a dire: "La lotta contro l'Isis è una lotta giusta". Anche in area Cinque Stelle i toni non sono diversi. Giovanni Luca Aresta, membro della Commissione Difesa di Montecitorio, invita, per esempio, a distinguere "tra il giudizio politico e storico sulla partecipazione dell'Italia alla guerra contro l'Iraq nel 2004 e il sacrificio dei militari italiani a Nassiriya". "Quanto al primo aspetto il nostro giudizio è che la guerra fu un tragico errore - attacca - non c'erano armi di distruzione di massa e le conseguenze dell'invasione militare ci hanno consegnato un Iraq spaccato per via settaria e preda di Al Qaeda e poi di Daesh (Isis)". Poi, però, commenta: "Il sacrificio dei militari, che sono stati mandati li dal Governo dell'epoca, è altra cosa e merita il rispetto che gli stiamo tributando. La critica, anche feroce, può essere fatta ai governi ma non certo ai nostri militari".

Quello che i buonisti dimenticano: i militari muoiono pure per loro. I radical chic delirano ogni volta che un militare cade sul campo. Ma la loro libertà di parola è garantita dal sacrificio di quei giovani. Andrea Indini, Mercoledì 13/11/2019, su Il Giornale. C'è un punto in particolare che sembrano ignorare tutti questi pseudo pacifisti da strapazzo che ingrossano le file della sinistra giallorossa. E cioè che i soldati in missione all'estero, come anche tutti gli uomini e le donne in divisa, rischiano quotidianamente la propria vita per difendere anche la libertà di certi soggetti di dire nefandezze come quelle pronunciate ieri da padre Alex Zanotteli. In una intervista all'agenzia AdnKronos il missionario arcobaleno, che in passato ha dimostrato di tenere più all'ideologia cattocomunista che al magistero della Chiesa, se l'è presa con gli italiani morti il 12 novembre 203 a Nassiriya. "I militari vittime di quell'attentato non andrebbero definiti 'martiri'", ha detto accusando lo Stato italiano di essere lì, in Iraq, solo "per difendere con le armi il nostro petrolio". Parole di una violenza inaudita che vanno di pari passo con lo stillicidio che si consuma quotidianamente per screditare l'esercito e, più in generale, le forze dell'ordine. A impressionare non sono soltanto le parole di padre Zanotelli. Certo, quelle infangano la memoria dei nostri caduti e aprono nuove ferite nei familiari che sedici anni fa hanno perso un caro nell'attentato rivendicato dai jihadisti di Al Qaeda. La loro violenza, però, va ben oltre questo brutale oltraggio. Mettono infatti in discussione l'impegno del nostro esercito che all'estero si impegna in prima persona a combattere, in Iraq come altrove, l'odio islamista e danno spazio anche a chi siede in parlamento per fare distinguo imbarazzanti. "Martiri? Non saprei...", ha detto per esempio il piddì Emanuele Fiano pur riconoscendo che "la lotta contro l'Isis è una lotta giusta". Nulla a che fare con l'ennesimo delirio del missionario che in passato aveva proposto di dare il premio Nobel a Carola Rackete dopo che questa aveva speronato i nostri militari per portare (illegalmente) un manipolo di clandestini nel porto di Lampedusa. In quei giorni la capitana della Sea Watch 3 era, infatti, diventata l'eroina di democratici e talebani dell'immigrazione perché si era opposta fisicamente alle leggi volute da Matteo Salvini. Per anni i muri della nostre città sono stati imbrattati dagli antagonisti e dai violenti dei centri sociali con la scritta "10, 100, 1.000 Nassiriya". E ancora oggi nelle manifestazioni targate sinistra vengono scanditi slogan violenti contro le forze dell'ordine. È nel loro dna. Tant'è che non mancano di dimostrarlo ogni volta che c'è da prendere di mira un poliziotto o un carabiniere. È il caso, per esempio, di chef Rubio che, dopo la morte di due agenti a Trieste, si è fiondato su Twitter a scrivere che erano "impreparati". O quando Roberto Saviano, sempre sui social, ha definito la polizia come il "servizio d'ordine" di Salvini. O ancora: tutte le volte che il piddì propone di mettere sui caschi un numero identificativo o vuole usare il "reato di tortura" per incastrarli. Eppure politici, gente dello spettacolo, radical chic e no global che sventolano in piazza e in parlamento le bandiere arcobaleno devono capire che la loro sicurezza è garantita dalle divise che mal sopportano o la loro libertà è permessa anche da quei soldati che, lontani dalle loro famiglie, combattono per garantirci un futuro tranquillo.

"Mio figlio eroe caduto invano". Il dolore di mamma Rosa Papagna. Ha perso in Afghanistan Francesco: "Non valeva la pena". Chiara Giannini, Lunedì 11/11/2019, su Il Giornale. «Io le capisco quelle mamme che hanno ricevuto la notizia terribile del ferimento dei loro figli. Il cuore delle mamme è quello che soffre di più». Rosa Papagna, madre del caporalmaggiore Francesco Saverio Positano, caduto in Afghanistan il 23 giugno 2010 usa le parole di chi conosce fin troppo bene il dolore lacerante di apprendere che è successo qualcosa di terribile al sangue del tuo sangue. «Lo senti prima - racconta -, lo abbiamo sentito tutti prima. Era la terza volta che Francesco partiva per quella terra, ma in quell'occasione era diverso. Qualcosa mi diceva di non farlo andare. Era il periodo in cui ne morivano troppi. Una bara a settimana solcava la linea volo dell'aeroporto di Ciampino, non volevo che capitasse a mio figlio. Mio marito Gino e io glielo dicemmo, man non volle ascoltarci e ci salutò per sempre». Rosa lo seppe nel peggiore dei modi. «Eravamo in auto - prosegue - quando vedemmo nel centro di Foggia, dove abito, delle auto del comando militare di Bari. Dissi a Gino: è per Francesco. Li vidi venire verso di me in silenzio e notai scendere mia nuora e sua mamma e il mio cuore straziato capì. Gridai di dolore e poi svenni». Sono passati più di nove anni, ma il cuore di quei due genitori non riesce a darsi pace. La loro è una battaglia perenne che non dà pace, un viavai tra casa e il cimitero, un accontentarsi di poco, perché il tutto sembra niente di fronte a una perdita così grande. Per la morte del figlio sono finiti sotto processo otto commilitoni, perché inizialmente fu detto che era caduto da un mezzo, quando pare che invece fu schiacciato tra due blindati. Sarà la giustizia a stabilire come morì davvero Francesco, uno dei 54 caduti in Afghanistan. «Troppe volte si nasconde la verità - tiene a dire Rosa - e non capisco perché non dirla ai genitori. Non cambia niente, ma almeno si evitano anni di sofferenze, si trova un po' di pace e si ha la percezione di non essere abbandonati dalle istituzioni. Abbraccio virtualmente quelle mamme e vorrei dire loro che sono loro vicina». Ufficialmente i 5 feriti erano a Kirkuk per fare mentoring, ovvero addestramento e riaccompagnare i curdi alla loro baseErano a piedi, sono saltati su un ied, un ordigno inesploso. Tutti giovanissimi, tutti delle forze speciali. Qualcuno ha subito l'amputazione degli arti. Chi di una gamba, chi di un piede, a chi è stato tolto un pezzo di intestino. La loro vita cambierà per sempre. «Ne vale la pena? - conclude Rosa Positano - Non ne è mai valsa la pena e mai ne varrà. Considero mio figlio un eroe, così come tutti i militari che vanno laggiù. Hanno una forza incredibile di fare cose che pochi farebbero, spesso per uno stipendio non adeguato».

Una scia di sangue lunga settant'anni. Il primo a cadere fu un finanziere a colpi di scimitarra. L'orrore fu in Congo. Chiara Giannini, Lunedì 11/11/2019, su Il Giornale. I caduti italiani in missione all'estero dal secondo dopoguerra in poi sono moltissimi. Il primo fu, nel 1949, il finanziere Antonio Di Stasi, ucciso in Eritrea da banditi che lo trafissero con colpi di scimitarra. Fu solo la partenza di una lunga scia di sangue che nei decenni ha visto morire, in missione di pace in nome della Patria, centinaia di soldati. Per citarli tutti, assieme alle loro storie, occorrerebbe un'enciclopedia. E moltissimi sono anche i feriti. I fatti che si ricordano di più sono quelli di Kindu, dove nell'eccidio persero la vita 13 aviatori della 46esima Brigata aerea dell'Aeronautica militare, trucidati in Congo. Mogadiscio, 2 luglio 1993, Checkpoint Pasta: nello scontro a fuoco morirono 3 militari e altri 22 rimasero feriti, tra questi l'allora sottotenente Gianfranco Paglia, medaglia d'oro al valore militare. Nassiriya, 12 novembre 2003. In uno dei primi attentati nella città irachena morirono 28 persone, tra cui 19 italiani. Nel corso dell'operazione Antica Babilonia molti furono i caduti italiani a causa di attentati terroristici o incidenti sul campo. Afghanistan, missione Isaf: sono 54 i morti in missione. Le famiglie ancora oggi chiedono di ricordarli, ma lo Stato sembra averli dimenticati. «Caduti e feriti - racconta l'ex comandante del Coi (comando operativo di vertice interforze), generale Marco Bertolini - ci sono perché ci troviamo in zone sostanzialmente se non in guerra comunque interessate da situazioni conflittuali molto difficili dove sono le armi a essere utilizzate per affrontare i problemi. Spesso dimentichiamo: è come se facessimo finta di non saperlo, ma abbiamo militari che operano in zone dove c'è un'opposizione armata al governo che i nostri cercano di supportare». E prosegue: «In Iraq siamo per dare una mano al governo iracheno che ancora fronteggia lo Stato islamico e i nostri addestrano i militari locali. Ne vale la pena? Il nostro non è un piccolo Paese, ma è immerso in una fetta di mondo molto turbolenta e non possiamo far finta di essere in mezzo all'Atlantico o sulla luna. I fatti nostri, purtroppo - conclude - sono anche questo, perché quello che accade laggiù può avere ripercussioni anche da noi». Oltre ai caduti nelle varie missioni di pace abbiamo anche numerosi feriti, molti dei quali oggi fanno parte del gruppo sportivo paralimpico Difesa, che ha ottenuto numerose medaglie in varie discipline. I militari italiani che operano all'estero sono 6.290 stabili e un migliaio in flessibilità (ovvero che operano per un tempo limitato). Il 46 per cento del totale è impiegato in Asia, il 34 in Europa e il 20 per cento in Africa. Le missioni attive allo stato attuale sono in Iraq, Afghanistan, Libano, Kosovo, Somalia, ma abbiamo militari anche in Palestina, Libia, Tunisia, Egitto, Gibuti, Mali, Niger, Somalia, Repubblica Centrafricana, W.Sahara, Albania e sulle navi per l'operazione Mare Sicuro. 

Isis rivendica l’attentato contro i militari italiani in Iraq. «Feriti 4 crociati e 4 apostati». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. Isis rivendica l’attacco ai militari italiani in Iraq. Lo riferisce il Site. «I soldati del Califfato hanno colpito un mezzo blindato 4x4 con a bordo esponenti delle forze della colazione internazionale crociata e dell’antiterrorismo dei peshmerga nella zona di Qurajai, a nord di Kufri, tramite l’esplosione di un ordigno piazzato sul terreno», si legge in un comunicato ripreso da Site, il gruppo di monitoraggio del terrorismo di matrice jihadista online. «Il veicolo - continua la nota - è stato distrutto e sono stati feriti quattro crociati e quattro apostati». La rivendicazione è stata diffusa dall’agenzia di propaganda dell’Isis, Amaq. Intanto è arrivata in Procura a Roma, all’attenzione del pm Sergio Colaiocco, una prima informativa dei carabinieri del Ros sull’attentato in cui sono rimasti feriti 5 militari italiani. A Piazzale Clodio si è tenuto un vertice tra carabinieri e magistrati che procedono per il reato di attentato con finalità di terrorismo e lesioni gravissime. Sulla ricostruzione dei fatti gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo.

Militari italiani feriti in Iraq, Isis rivendica l'attacco: "Feriti quattro crociati e quattro apostati". Il comunicato diffuso attraverso l'agenzia di propaganda Amaq. Il Consiglio Supremo di Difesa: "Terrorismo resta minaccia, importante mantenere presenza nelle aree di instabilità". Ministro degli Esteri Luigi Di Maio: tre dei cinque militari "hanno riportato ferite serie, ma nessuno è in pericolo di vita". La Repubblica l'11 novembre 2019. L'Isis ha rivendicato l'attacco ai militari italiani in Iraq, nei pressi di Kirkuk. Lo riferisce il Site. Il comunicato è stato diffuso attraverso l'agenzia di propaganda Amaq: "Con l'aiuto di Dio, soldati del Califfato hanno colpito un veicolo 4X4 con a bordo esponenti della coalizione internazionale crociata ed esponenti dell'antiterrorismo peshmerga nella zona di Kifri, con un ordigno, causando la sua distruzione e ferendo quattro crociati e quattro apostati". Al termine della sua riunione, il Consiglio Supremo di Difesa ha emesso un comunicato per ribadire, anche alla luce dell'attentato contro il contingente italiano, l'importanza della presenza delle forze armate in Iraq come nelle altre "aree di instabilità" in funzione di contrasto al terrorismo.  "Il recente attacco al nostro contingente in Iraq - si legge - conferma che il terrorismo transnazionale resta la principale minaccia per l'Italia e per tutta la Comunità Internazionale. È necessario continuare a garantire la nostra presenza nelle principali aree di instabilità e contribuire con decisione alle strategie tese a sviluppare un efficace sistema di contrasto comune al fenomeno". Dei cinque militari, tre sono in gravi condizioni ma "nessuno è in pericolo di vita. Alcuni di loro hanno riportato ferite serie", ha chiarito questa mattina il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: "Il pensiero va alle loro famiglie". Due militari hanno subito amputazioni a causa delle gravi ferite riportate. A un militare dell'Esercito è stata amputata la gamba sopra al ginocchio, mentre un militare della Marina ha subìto l'amputazione di parte del piede. A ferire i militari italiani è stato un ordigno esplosivo rudimentale (Ied - Improvised Explosive Device). "Il ministro Di Maio ci ha informati dell'attacco" avvenuto in Iraq "e ho espresso la mia solidarietà nei confronti dell'Italia così come anche gli altri ministri", ha dichiarato l'Alto rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini al termine del vertice dei ministri europei degli Affari esteri a Bruxelles. "In generale - ha aggiunto - ci siamo concentrati sulla necessità di continuare a mantenere un livello di attenzione molto alto e continuare a impegnarci per la stabilizzazione dell'Iraq. Non dobbiamo mai dimenticare che ci sono paesi, l'Iraq ma non solo, che devono essere accompagnati nel loro percorso incidentato e di consolidamento. I ministri hanno anche convenuto sulla necessità di lavorare fianco a fianco con le autorità irachene", ha concluso.

Giampaolo Cadalanu per “la Repubblica” l'11 novembre 2019. L'unico punto chiaro è lo scopo dell'operazione che ha coinvolto le forze speciali italiane: bisognava ripulire la zona dalle forze dell'Isis che hanno rialzato la testa dopo l' offensiva turca sul Rojava e la liberazione di centinaia di jihadisti. L' area di Kirkuk, indicata in termini molto generici come luogo dell' attentato, è una delle più delicate, dove la presenza di fondamentalisti sotto copertura, le cosiddette cellule "dormienti", è considerata molto diffusa. La fine del Califfato era stata celebrata con troppo anticipo. Gli analisti sottolineano un fermento inatteso un po' dappertutto: persino dopo la morte di Abubakr al Baghdadi i giuramenti di fedeltà allo Stato islamico da parte di gruppi fondamentalisti sono continuati, spinti senz'altro dall' arruolamento di jihadisti nelle file dei miliziani filo-turchi e soprattutto dal rilancio, durante la campagna contro il Rojava, di parole d' ordine mai tramontate. Ma tutte le altre informazioni disponibili sulla giornata in Iraq sono confuse, se non persino contraddittorie. Il primo mistero è il "dove" sia successo l' incidente che ha coinvolto gli italiani. Nemmeno allo Stato maggiore sono in grado per ora di dare i dettagli: qualche fonte parla di una zona non precisata a un centinaio di chilometri a sud di Kirkuk altre di Suleimaniyah, in pieno Kurdistan iracheno, oppure di Palkana, a metà strada fra Erbil e Kirkuk, o persino di Makhmour, città a maggioranza curda che sta però al di fuori del Kurdistan autonomo. Ma c'è qualcosa che non va: tre diversi ufficiali dei Peshmerga, interpellati al telefono, hanno smentito a Repubblica ogni coinvolgimento nelle operazioni di ieri: "Sappiamo che erano attive le forze armate di Bagdad, ma non siamo in grado di dare altri dettagli. E nessun soldato curdo era impegnato in operazioni con gli italiani". E allora "con chi" erano i militari feriti dall' ordigno stradale? Un ufficiale peshmerga garantisce che erano con l'esercito di Bagdad, impegnato, secondo i media iracheni, in operazioni complesse contro l'Isis nella zona di confine fra la provincia di Kirkuk e quella di Salahaddin. Diversi siti specializzati segnalano intenso traffico di aerei militari in quella zona. E i curdi non hanno una loro aeronautica...Soprattutto non è chiaro quale fosse l'impegno dei nostri soldati. Ma per le truppe speciali, questo rientra nella norma. Sembra poco probabile che fossero impegnate nella rimozione di ordigni, perché usare le forze speciali per questo compito sarebbe follia. L'assistenza durante le operazioni contro le cellule nascoste, o contro nuclei jihadisti, sembra più plausibile. In ogni caso, a 16 anni dalla strage di Nassiriya, possiamo pensare che l' attacco non sia diretto specificamente contro i nostri soldati, ma piuttosto legato alle misure di difesa delle aree dove l'Isis è ancora presente. L'impegno dell' Italia nella coalizione contro il Califfato prevede assistenza e addestramento in favore delle forze curde a Erbil, oltre che delle forze di polizia di Bagdad. Apparentemente, non si tratta né delle une né delle altre, anche perché i militari coinvolti sono forze speciali, che per definizione operano in ambiti di massima riservatezza.

Le truppe d'élite - l'equivalente italiano della Delta Force o dei Navy Seals americani, o delle Sas di Sua Maestà britannica - schierate in Iraq sono inquadrate nella Task Force 44 e impegnate nell'"Operazione Centuria". E' un piccolo contingente di incursori di Marina del Comsubin e di assaltatori del 9° Reggimento "Col Moschin" (forse affiancati dai Carabinieri del Gis e dai Raider del 17esimo stormo aeronautico, ma sulla composizione c'è massimo riserbo), messo a disposizione dell'alleanza contro lo Stato Islamico, che risponde al comando internazionale. In altre parole, l'Italia fornisce un contingente con un compito determinato: il comando internazionale decide nello specifico come utilizzarlo, ma non può cambiarne la missione, spostarlo in altre aree o ri-schierarlo. Infine, un'ulteriore ambiguità è "nell'essenza stessa della guerra", sottolinea Marco Bertolini, ex responsabile del Comando operativo interforze: "I nostri soldati sono schierati da una parte, la assistono e la sostengono. Danno un supporto indiretto al combattimento, ma non prendono parte alle attività cinetiche". Quest'ultimo termine è usato di norma per indicare gli scontri. Ed è proprio qui che le regole di ingaggio si scontrano con la realtà imprevedibile del terreno. E' un luogo comune: dopo i primi colpi, nessun piano resta com' era. Ogni forza militare, quale che ne sia la norma di schieramento, ha sempre il diritto/dovere di difendersi. In altre parole: in battaglia, il limite fra assistenza ai combattenti e partecipazione allo scontro diventa difficile da individuare e da rispettare. Che gli italiani possano partecipare alla guerra da osservatori, insomma, è solo un' illusione.

Fausto Biloslavo per “il Giornale” l'11 novembre 2019. La guerra allo Stato islamico in Irak non è mai finita, come dimostra il primo e grave attacco ai soldati italiani. E i nostri corpi speciali vi hanno preso parte, anche se fra mille limitazioni dettate dai soliti pruriti politici. «Cinque soldati italiani e due Peshmerga sono stati feriti durante un' operazione nelle montagne Ghara, fra Kirkuk e Kfre en Duz», hanno dichiarato le forze di sicurezza curde. «L'obiettivo della missione erano cellule dell' Isis annidate nella zona», ha scoperto il Giornale. Nei video che pubblichiamo oggi sul sito si vede un elicottero americano che vola basso, evacuando i feriti, e i curdi che sparano da un blindato per garantire la sicurezza. I militari feriti sono inquadrati nella Tf 44, una task force di unità d'élite. Una cinquantina di uomini provenienti dal 9° Reggimento d' assalto paracadutisti «Col Moschin» e dal Goi, Gruppo operativo incursori della Marina militare, eredi della Decima flottiglia Mas della Seconda guerra mondiale. Il loro compito è addestrare i corpi speciali curdi e iracheni, oltre che garantire appoggio nelle operazioni contro le cellule del terrore che si annidano ancora in diverse aree del Paese. Ovvero assistenza, anche sul terreno, supporto di intelligence, appoggio aereo ed evacuazione medica. La trappola esplosiva che ha ferito i 5 militari italiani è scoppiata mentre ripiegavano, appiedati, verso i mezzi alla fine dell' operazione. Una missione in un'area molto delicata e infestata da cellule neanche tanto dormienti dell'Isis. I corpi speciali curdi conducono con il nostro aiuto operazioni di «ricerca e distruggi» di depositi di armi, basi dei terroristi o di cattura di comandanti dell'Isis. Lo stesso, scarno, comunicato ufficiale della Difesa spiega che «il team» coinvolto nell' esplosione «stava svolgendo attività di mentoring and training (tutoraggio e addestramento) a beneficio delle forze di sicurezza irachene impegnate nella lotta a Daesh». La zona dell' attacco è molto delicata e infestata dai resti dell' Isis. Difficile che i corpi speciali fossero impegnati solo in addestramento in una missione iniziata in piena notte, ben prima dell' alba, e siano incappati per caso su una trappola esplosiva. L'area non lontana da Kirkuk, oltre il fiume Tigri, è quella montagnosa di Ghara ,non lontana da Palkana, dove si sono insediati diversi combattenti dell' Isis sopravvissuti alla disfatta di Mosul e all' eliminazione della sacca di Hawija. In marzo era stato catturato un «corriere» dell' Isis che aveva il compito di spostare clandestinamente i militanti in armi dalle province limitrofe verso l' area di Palkana e Ghara. In maggio sono scoppiati scontri fra abitanti curdi e 300 arabi armati accusati di essere filo Stato islamico arrivati a bordo di blindati, che volevano piazzarsi nei villaggi circostanti. La Tf 44, prima della ritirata dei curdi da Kirkuk, aveva un distaccamento anche nella città strategica per il controllo dei pozzi di petrolio. Questo significa che gli italiani conoscevano bene l' area. Altri distaccamenti dei nostri corpi speciali sono operativi a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, e Baghdad. Nella capitale c'è il comandante della task force, un tenente colonnello. I nostri uomini d'élite non addestrano e appoggiano solo i curdi, ma pure due famose unità irachene, l'Emergency response division e la Golden division, che hanno liberato Mosul. I corpi speciali hanno anche il compito di raccogliere informazioni di intelligence per le operazioni anti Isis grazie ai nostri droni Predator e caccia Eurofighter di base in Kuwait, che non possono bombardare, ma solo filmare e fotografare. La missione in Irak si chiama Prima Parthica, dal nome della legione romana che arrivò fino a Sinjar, la capitale degli yazidi nel nord del paese, vicino al confine siriano. In tutto stiamo impiegando 1.100 militari, 305 mezzi terrestri e 12 mezzi aerei, secondo il sito della Difesa. A Erbil 350 militari, fra cui 120 istruttori, addestrano le forze curde (30mila dal 2015), che hanno difeso il nord dall' avanzata dello Stato islamico. Nell'aeroporto militare di Erbil opera il Task group Griffon con 4 elicotteri NH90, che ha compiti di trasporto dei militari alleati in tutto l' Irak. Prima Parthica e la Tf 44 fanno parte della grande coalizione che ha sconfitto l' Isis, almeno come occupazione territoriale di grandi città. A Baghdad addestriamo pure la polizia irachena con i carabinieri e abbiamo il generale di brigata Paolo Attilio Fortezza, un incursore, comandante di tutto il contingente. Fino a marzo presidiavamo la strategica diga di Mosul, ma abbiamo passato il testimone agli americani.

Chi sono e cosa fanno gli incursori del Comsubin. Paolo Mauri l'11 novembre 2019 su it.insideover.com. Comsubin, Comando subacquei e incursori: è questa la denominazione del raggruppamento di forze speciali della Marina militare italiana che ha sede al Varignano (Porto Venere – La Spezia) ed è alle dirette dipendenze del Capo di Stato maggiore della Marina (attualmente l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone), ma che dipende funzionalmente dal Cofs (il Comando interforze per le Operazioni delle forze speciali) istituito il primo dicembre 2004 con sede presso l’aeroporto di Roma-Centocelle e comandato oggi dal generale di divisione aerea Nicola Lanza de Cristoforis. Il Comsubin, e nella fattispecie il Goi (Gruppo operativo incursori), provvede a fornire personale ed equipaggiamenti per le missioni speciali stabilite del Cofs che, a livello istituzionale, è la struttura di comando che regola l’impiego delle forze speciali delle quattro forze armate che sono, oltre agli incursori di Marina del Goi, il Nono reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” e il 185esimo reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore” per l’Esercito, il 17esimo stormo incursori per l’Aeronautica e il Gis (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri.

La storia del Comsubin. Comsubin, Comando subacquei e incursori: è questa la denominazione del raggruppamento di forze speciali della Marina militare italiana che ha sede al Varignano (Porto Venere – La Spezia) ed è alle dirette dipendenze del Capo di Stato maggiore della Marina (attualmente l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone), ma che dipende funzionalmente dal Cofs (il Comando interforze per le Operazioni delle forze speciali) istituito il primo dicembre 2004 con sede presso l’aeroporto di Roma-Centocelle e comandato oggi dal generale di divisione aerea Nicola Lanza de Cristoforis. Il Comsubin, e nella fattispecie il Goi (Gruppo operativo incursori), provvede a fornire personale ed equipaggiamenti per le missioni speciali stabilite del Cofs che, a livello istituzionale, è la struttura di comando che regola l’impiego delle forze speciali delle quattro forze armate che sono, oltre agli incursori di Marina del Goi, il Nono reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” e il 185esimo reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore” per l’Esercito, il 17esimo stormo incursori per l’Aeronautica e il Gis (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri. Il raggruppamento subacquei e incursori della Marina Militare è stato costituito, nella sua forma attuale, nel 1960 per volere dell’ammiraglio Gino Birindelli, medaglia d’oro al valor militare per l’incursione condotta con mezzi d’assalto di quella che allora si chiamava Prima Flottiglia Mas (divenuta Decima nel 1941), nella base navale inglese di Gibilterra (operazione BG2) il 30 ottobre del 1940. La storia degli incursori e dei palombari di Marina, entrambe specialità del Comsubin, è però molto più antica e affonda le sue radici nel XIX secolo quando, il 24 luglio del 1849, venne costituita la prima scuola palombari a Genova. Nel 1910 la scuola venne trasferita presso l’attuale sede del Varignano e la Prima Guerra Mondiale vide gli esordi delle attività degli incursori di Marina: si ricordano infatti i tentativi di forzamento della munitissima base navale austriaca di Pola con i mezzi d’assalto di superficie tipo “Grillo” che per ben sei volte, nel 1918, tentarono di affondare le unità navali austriache alla fonda nel porto. Azioni che, in un’occasione, fruttarono l’assegnazione della medaglia d’oro al valor militare agli equipaggi. Come non ricordare anche quello che fu il progenitore del “Maiale”, il famosissimo mezzo d’assalto subacqueo ufficialmente chiamato Slc (Siluro a Lenta Corsa) della Seconda Guerra Mondiale protagonista della “Notte di Alessandria” in cui sei uomini mandarono a picco due corazzate inglesi e una petroliera nel porto egiziano. Stiamo parlando della “Mignatta” di Paolucci e Rossetti, ufficialmente denominata Torpedine Semovente Rossetti dalla Marina. Utilizzata nella notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre 1918 dai due ufficiali per mandare a picco la corazzata austriaca Viribus Unitis nel porto di Pola, impiegando più o meno lo stesso principio che poi sarà utilizzato dagli operatori degli Slc, ovvero quello di sistemare una carica esplosiva sotto la chiglia di una nave nemica. Innumerevoli le azioni condotte dagli incursori di Marina durante la Seconda Guerra Mondiale oltre a quelle già ricordate: i tentativi di assalto alla base navale di Gibilterra da parte dei nostri “uomini rana” che partivano da una base segreta in Spagna, presso Algeciras, ricavata all’interno del piroscafo Olterra ivi internato all’inizio del conflitto, non si contano, così come i tentativi, tutti purtroppo coronati da insuccesso, di forzare il porto di Malta. Un successo clamoroso fu invece l’affondamento dell’incrociatore pesante inglese York nella baia di Suda, a Creta, condotto con l’utilizzo di Mtm (Motoscafo da Turismo Modificato) ovvero di barchini esplosivi ad alta velocità, nella notte del 25 marzo 1941. L’armistizio del 1943 divise in due anche questa specialità così come avvenne per tutte le nostre Forze Armate. Al sud il gruppo di incursori venne ristabilito col nome di Mariassalto (con sede a Taranto) e collaborò con gli Alleati in diverse azioni, mentre a Nord, a La Spezia, l’attività continuò con gli “uomini gamma” della X Flottiglia Mas del comandante Borghese, eroe di Alessandria al comando del sommergibile Sciré che trasportò gli Slc in acque nemiche. Complessivamente il reparto dal 10 giugno del 1940 all’8 settembre del 1943 affondò o danneggiò gravemente naviglio da guerra per 72.190 tonnellate e naviglio mercantile per 130.572 tonnellate. La fine della guerra ed il successivo trattato di pace sembrarono porre fine a questa lunga tradizione di operazioni speciali. Nel 1947 venne costituito il Maricentrosub che aveva il compito di coordinare l’attività di palombari e sommozzatori nelle operazioni di sminamento dei porti e nel 1951 si organizzarono i primi nuclei Sdai (Sminamento Difesa Antimezzi Insidiosi). L’attività addestrativa dei reparti di assalto, però, continuò in segreto per non perdere una tradizione di eccellenza della nostra Marina e l’abolizione di alcune clausole limitanti del trattato di pace arrivò quasi contemporaneamente al trasferimento della scuola sommozzatori da Venezia al Varignano. Nel 1952 fu ricostituito ufficialmente il Gruppardin (Gruppo Arditi Incursori) poi denominato Maricentardin che introdusse per la prima volta anche operazioni di lancio col paracadute e la scalata di pareti rocciose. Si era così formato l’impianto di quello che è oggi il Comsubin sebbene con la denominazione di Marisubardin e poi Maricensubin.

L'organizzazione del Comsubin. Comsubin, Comando subacquei e incursori: è questa la denominazione del raggruppamento di forze speciali della Marina militare italiana che ha sede al Varignano (Porto Venere – La Spezia) ed è alle dirette dipendenze del Capo di Stato maggiore della Marina (attualmente l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone), ma che dipende funzionalmente dal Cofs (il Comando interforze per le Operazioni delle forze speciali) istituito il primo dicembre 2004 con sede presso l’aeroporto di Roma-Centocelle e comandato oggi dal generale di divisione aerea Nicola Lanza de Cristoforis. Il Comsubin, e nella fattispecie il Goi (Gruppo operativo incursori), provvede a fornire personale ed equipaggiamenti per le missioni speciali stabilite del Cofs che, a livello istituzionale, è la struttura di comando che regola l’impiego delle forze speciali delle quattro forze armate che sono, oltre agli incursori di Marina del Goi, il Nono reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, il Quarto reggimento alpini paracadutisti “Monte Cervino” e il 185esimo reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore” per l’Esercito, il 17esimo stormo incursori per l’Aeronautica e il Gis (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri. Il Comsubin è attualmente organizzato in sei distinti comandi:

Il Goi (Gruppo Operativo Incursori) ovvero l’unico vero e proprio reparto di Forze Speciali della Marina Militare.

Il Gos (Gruppo Operativo Subacquei), il reparto alle cui dipendenze sono posti i palombari.

L’Ufficio Studi, cioè il cervello tecnologico della ricerca del Comsubin che si occupa dello sviluppo dei materiali e dei mezzi utilizzati dai due gruppi operativi e, oltre a rappresentare l’unica realtà del genere nelle FFAA, è un’eccellenza a livello internazionale.

Il Gruppo Scuole a sua volta suddiviso in scuole Subacquei, Incursori, e Medicina Subacquea e Iperbarica che, oltre a selezionare il personale e formarlo, ha il compito di addestrare gli operatori subacquei di tutte le altre FFAA e dei corpi di Polizia dello Stato e VVFF.

Il Gruppo Navale Speciale che presiede alla gestione delle unità navali per il supporto al personale del Comsubin, ovvero le navi Anteo, Pedretti e Marino oltre alle nuove unità da assalto veloci tipo Unpav.

Il Quartier Generale del Raggruppamento che assicura i servizi di gestione logistica e amministrativa in modo quasi del tutto autonomo per aumentare la prontezza e l’efficacia degli interventi.

Gli incursori del Goi. Il reparto incursori del Goi è, senza peccare di superbia, uno dei migliori reparti di Forze Speciali del mondo. La sua organizzazione interna, così come l’identità degli operatori, è coperta dai massimi livelli di segretezza. Quello che possiamo dire, però, è che l’unità fondamentale del Goi è composta da un Distaccamento Operativo (Do) composto da 12 uomini divisibili in due sezioni (team) da sei. Complessivamente gli operatori del Gruppo Incursori ammontano ad un numero compreso tra i 100 ed i 150 elementi.

L’addestramento. Il ciclo di formazione di un operatore del Goi si articola su un’attività molto dura e selettiva che consente di arrivare, dopo tre anni, alla qualifica combat ready, raggiunta solamente dal 10% dei volontari. L’addestramento, infatti, è uno dei più duri al mondo. Gli aspiranti, dopo una prima selezione psicoattitudinale effettuata presso il centro di selezione della Marina Militare di Ancona, affluiscono al Varignano per una prima scrematura effettuata tramite esami medici più approfonditi. Dopodiché i “superstiti” accedono ad una prima fase, della durata di otto settimane, che ha l’obiettivo di fornire i primi rudimenti delle attività acquatiche e aumentare e testare le capacità atletiche. Sino qui le strade gli incursori del Goi e dei palombari del Gos sono intrecciate per separarsi al termine di questa fase dove cominciano le prime 12 settimane di addestramento degli incursori durante le quali vengono effettuate attività “terrestri” ed impartiti i fondamentali del combattimento: marce forzate, peculiarità delle Forze Speciali, cartografia, utilizzo delle armi ecc. Questa è forse la fase più dura dell’iter addestrativo che vede, ad esempio, marce con zaino affardellato di 40 chilogrammi su terreno accidentato per collaudare la resistenza psico-fisica.

La fase successiva è detta “fase acqua” e ha la durata di altre 12 settimane durante le quali gli allievi devono prendere la definitiva confidenza con l’ambiente acquatico di superficie e sottomarino. La terza fase viene detta “fase anfibia” e in questa parte l’aspirante incursore deve mettere in pratica le nozioni acquisite nelle fasi precedenti dimostrando la propria capacità di muoversi agilmente a terra e in acqua. La formazione si conclude con cinque settimane in cui l’allievo dovrà pianificare due missioni: una a carattere più “marittimo”, l’altra a carattere più “terrestre”. Superato questo ultimo scoglio l’allievo ottiene il brevetto ed il tanto agognato basco verde degli incursori di Marina, ma il suo addestramento non è ancora finito: l’ultima fase è rappresentata da nove mesi in cui l’operatore familiarizza con il ruolo più marittimo della sua specialità, ovvero a utilizzare mezzi subacquei e di superficie e a operare da sottomarini. Durante i tre anni di addestramento l’allievo acquisirà quindi diverse abilità: dai corsi subacquei a quelli di roccia passando per il lancio col paracadute e la conduzione di mezzi navali.

I compiti. A livello generale i compiti del Goi si possono riassumere nei tre ruoli delle Forze Speciali in ambito Nato: l’azione diretta, la ricognizione speciale e l’assistenza militare. L’azione diretta prevede operazioni militari di carattere strategico o tattico volte a eseguire colpi di mano, sabotaggi, imboscate, liberazione di ostaggi, neutralizzazione di strutture sensibili (C3, porti aeroporti) ecc. Le missioni di ricognizione speciale vengono effettuate per raccogliere dati tattici in ambiente ostile la dove non sia possibile farlo con altri assetti tecnologici come satelliti o velivoli spia: questi possono riguardare le capacità del nemico in un determinato settore o teatro oppure dati meteo, topografici, batimetrici. L’assistenza militare riguarda l’appoggio in situazioni di crisi alle attività delle forze militare di un Paese terzo in caso di disordini, insurrezione o azioni sovversive. Il Goi nello specifico è quindi in grado di operare in modo occulto e senza preavviso per portare attacchi a unità navali con l’impiego di diversi sistemi d’arma, attacchi a installazioni portuali o costiere con proiezione dal mare, operazioni di controterrorismo con liberazione di ostaggi su unità navali o in installazioni marittime o su terraferma, infiltrazione e permanenza in territorio ostile per missioni di carattere informativo o supporto di fuoco aereo o navale.

I mezzi e le armi del Goi. I mezzi utilizzati dal Goi, così come l’identità degli operatori, sono uno dei segreti meglio custoditi dalle nostre Forze Armate. Le informazioni che abbiamo sono frammentarie e derivano tutte da avvistamenti avvenuti nel corso degli anni effettuati nel mare antistante il Varignano. Alcuni di questi sono stati riportati dalla stampa e se ne trova traccia nel web anche oggi. Si ricorda un mezzo semi-sommergibile, con scafo a idroplano e wave-piercing, visto durante la visita del presidente Ciampi nel 2000 e accreditato di una velocità di 30 nodi anche in immersione, oppure quello che è stato definito “Nessie” (dal nomignolo dello sfuggente “mostro di Lochness”) negli anni ’70 e che si ritiene essere stato un altro tipo di mezzo sommergibile. Possiamo però affermare che i mezzi creati dall’Ufficio Tecnico del Comsubin siano derivati dall’esperienza originata sin dalla Prima Guerra Mondiale, con il Grillo, i MAS, o la “Mignatta” di Rossetti e maturata durante la Seconda, con i Siluri a Lenta Corsa. Oggi, tra i vari mezzi a disposizione dei singoli operatori si annoverano quelli chiamati Sdv (Single Delivery Vehicle), ovvero di “microsommergibili” utilizzati per la propulsione sottomarina degli operatori che si ritiene siano di caratteristiche superiori rispetto a quelli dei Navy Seals. Tali sistemi sono in grado di operare dai sottomarini classe Sauro IV o U-212A e si ritiene siano capaci di elevate capacità di infiltrazione occulta. Non vanno dimenticati poi gommoni e altre imbarcazioni veloci come i nuovissimi Unpav, concepiti appositamente per essere utilizzati dal Goi. Per quanto riguarda le armi individuali un incursore di Marina è in grado di utilizzare efficacemente tutte quelle presenti negli arsenali mondiali, ma ha in dotazione una serie di carabine, pistole mitragliatrici, fucili di precisione e mitragliatrici di squadra ben precise. Queste sono la carabina Heckler & Koch 416 e il Colt M-4 ma è anche disponibile l’H&K 417 in calibro 7,62 e i Sig Sauer MCX .300. Onnipresente la pistola mitragliatrice MP-5 nelle varianti silenziata (SD) e super compatta (K), oltre alla moderna H&K MP-7. L’arma corta per eccellenza è la Glock 17 che ha sostituito quasi totalmente la Beretta 92FS. Per il fuoco di squadra il Goi utilizza la ben nota FN Minimi e la Maxi Minimi in calibro 7,62. I fucili di precisione spaziano dal AWM .338 al Sako TRG-42.

L’ex generale dei Marines: «Italiani preziosi in Iraq. L’Isis senza califfo resta forte». Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 su Corriere.it. «Non credo che cambi molto», risponde il generale John Rutherford Allen quando gli si domanda quali effetti avrà nella lotta allo «Stato Islamico» la recente morte di Abu Bakr al Baghdadi, il principale capo dell’organizzazione. Lo dice con un disincanto dovuto ai vari ruoli ricoperti in passato: comandante di 150 mila militari in Afghanistan tra truppe americane e forze della Nato, inviato speciale del presidente statunitense Barack Obama per consolidare la coalizione internazionale contro i fondamentalisti musulmani di Daesh, o Isis, marine arrivato in alto nelle gerarchie che diresse operazioni in Iraq. Adesso Allen presiede la Brookings Institution, uno dei principali centri di studi e riflessione americani su un mondo meno ordinato di prima. In questa intervista esclusiva parla di attività delle forze speciali in teatro di guerra senza illudersi che bastino le armi a garantire vittorie. Occorreranno grandi sforzi, è convinto, per riparare i traumi inferti da quasi un decennio di combattimenti al popolo e alla gioventù siriana, a cominciare dai bambini.

Signor generale, lei è al corrente del ferimento di cinque militari italiani vicino Kirkuk. Gran parte del nostro Paese prima di domenica non sapeva neppure che abbiamo ancora militari in Iraq. Di certo non sa che cosa fanno le forze speciali alle quali appartengono i cinque uomini colpiti da una bomba nascosta. Del resto, le azioni di queste unità sono per lo più segrete. Lei che le ha conosciute può spiegare se sono utili nella lotta a Daesh e perché?

«L’Italia è stato uno dei primissimi Paesi a impegnare forze, i carabinieri, per sostenere gli iracheni nel rimettere in piedi la loro polizia. Lo Stato Islamico la aveva devastata. Ma a un altro livello abbiamo avuto anche una coalizione di operatori speciali. Da tanti anni addestriamo militari iracheni e curdi, i peshmerga».

Vengono addestrati in che cosa?

«Nel difendere le loro aree ed eliminare la presenza dello Stato Islamico. La sua domanda è importante perché il popolo italiano dovrebbe essere fiero di quello che i carabinieri e le vostre forze speciali hanno fatto. Anche grazie a loro gli iracheni e i curdi sono stati capaci di difendersi. Non so quanto si resterà in Iraq, ma la coalizione è lì finché gli iracheni non saranno in grado di affrontare Daesh da soli».

Un mestiere duro.

«Le persone delle forze speciali vivono in un mondo molto duro. É un mondo spesso nell’ombra, è importante che nessuno sappia chi sono e che cosa stanno facendo. L’altro lato della medaglia è che gli iracheni da addestrare sono quelli tenuti a combattere direttamente lo Stato Islamico. Il contributo dell’Italia e degli altri Paesi della coalizione comporta due cose. La prima: gli iracheni alla fine recupereranno l’integrità territoriale. La seconda: il successo dell’Iraq contro lo Stato Islamico non dovrà preoccuparvi di dover combattere i suoi uomini in Italia. Conta».

La fine di al Baghdadi, morto in ottobre durante un’azione di unità speciali americane in Siria, cambia qualcosa nella lotta all’Isis?

«Non credo che cambi molto. Presi il comando delle forze in Afghanistan subito dopo la morte di Osama bin Laden. Si ripeteva che da allora la storia sarebbe cambiata, che al Qaeda sarebbe svanita. Ciò che accade con questi gruppi è che velocemente si dotano di un nuovo leader, il quale diventa la invisibile guida spirituale dell’organizzazione». In Siria e Iraq Daesh ha perso il controllo di territori. Perché resta pericoloso?

«Rimane molto pericoloso in Iraq e Siria. Lo Stato Islamico ha tre teste. Una è la presenza sul terreno laggiù. La seconda è la dimensione provinciale: anche in Nord Africa, con Boko Ahram in Nigeria, nel Sinai, in Afghanistan, Pakistan, nel Sud Est asiatico. La terza testa è su Internet: recluta e raccoglie danaro».

Dunque dopo al Baghadi?

«Qualcuno ne prenderà il posto. Morto bin Laden, toccò ad Ayman al-Zawahiri. Dunque dobbiamo tenere alta la pressione».

Il presidente statunitense Donald Trump, che nel ritirare forze americane dal Nord della Siria ha permesso l’offensiva turca contro i curdi, riceve oggi a Washington il presidente della Turchia Recep Tayyp Erdogan. Quale accoglienza prevede?

«Da parte di Congresso e popolo, mista. É stato terribile l’abbandono dei curdi, alleati preziosi. I soldati americani hanno sgomberato postazioni sotto lanci di verdura, poi sono entrati i russi. Mai visto nulla di simile. E frutta e verdura venivano tirate contro i nostri perché la gente riteneva di essere stata abbandonata».

Negli Stati Uniti, in seguito alla sanguinosa offensiva voluta da Erdogan contro i curdi, la Camera dei rappresentanti ha approvato una risoluzione che riconosce come genocidio il massacro di armeni compiuto dalla Turchia nella prima parte del XX secolo. Secondo lei quali sono le vere intenzioni del presidente Trump, piuttosto ondivago verso Ankara anche se a contare è stato il suo sostanziale via libera agli attacchi turchi?

«Ciò che a me è evidente sono i precedenti».

Quali?

«Nel 2014 e nel 2015 in Siria non avevamo scelte. Lo Stato Islamico aveva sequestrato i territori dopo il confine con la Turchia. Allora ero impegnato in negoziati diretti con il governo turco. Avevamo davvero poche opzioni. Il primo vero sfondamento fu la battaglia di Kobane. Era un villaggio di curdi, una piccola città proprio dopo il confine turco. L’intento dello Stato islamico? Cacciarli. Fu il momento in cui il presidente Obama, penso molto con molto coraggio, scelse di proteggerli. Impiegammo forze speciali e la combinazione tra i nostri operatori speciali e i curdi in Kobane ci dette risultati. Improvvisamente...».

Improvvisamente?

«Improvvisamente ci rendemmo conto che avevamo un alleato. Cominciammo a lavorare con vari gruppi nel Nord della Siria finché divennero noti come Forze democratiche siriane. In gran parte erano formate da curdi, ma c’erano anche arabi, cristiani, siriani. Tutti contro lo Stato islamico, e avrebbero dovuto decidere più avanti che cosa avrebbero fatto rispetto a l presidente siriano Bashar el Assad. Fu un notevole risultato. Non privo di costi».

Quali costi ha in mente?

«I curdi subirono la morte di circa 12 mila di loro. Caduti nel combattere contro lo Stato Islamico che furono i curdi, in definitiva, capaci di spazzare via. L’idea di un numero molto piccolo di operatori speciali che accelera e ingrandisce gli effetti di quanto compiuto da curdi e Forze democratiche siriane fu un grande successo. La regione cominciò a stabilizzarsi. I bambini tornavano a scuola, riaprivano gli ospedali, le donne gettavano via il burqa. É stato un momento magnifico. Poi ci siamo svegliati con la decisione del presidente di mandare via le nostre forze , passo che ha permesso le operazioni militari turche contro le Forze democratiche siriane. Un momento terribile. Terribile per i curdi e per noi perché stavamo abbandonando un alleato sul serio prezioso. Non erano poi solo i curdi, ma anche i cristiani, i siriani. É stato così confuso».

Perché lo ritiene anche confuso?

«Perché il presidente Trump ha cominciato a minacciare Erdogan, poi Erdogan ha avuto un incontro con il presidente russo Vladimir Putin. Questi ultimi due hanno deciso: io, Putin, adesso che gli americani sono andati via fornirò truppe russe per aiutare a guarnire quell’area che voi turchi aprirete mandando via i curdi. Gli americani hanno sgomberato le proprie postazioni e i russi sono entrati dentro». Generale, che cosa di altro non vediamo della guerra in Siria? Di certo gli aspetti non palesi di una guerra civile diventata anche internazionale sono numerosi. Lei ne ha presente uno in particolare?

«Nel parlare di ricostruzione della Siria in genere si pensa a strade, ponti, città. Ma il danno alla dimensione umana è stato incommensurabile: anni e anni nei quali i bambini sono stati impossibilitati ad andare a scuola, tanti soffrono di malnutrizione e disordine da stress post-traumatici. Non credo che oggi possiamo immaginare quanto drammatici saranno gli effetti sulla popolazione siriana. Metà è sfollata, ha dovuto abbandonare la casa o il Paese, e questo è di per sé drammatico. In più larghi settori della popolazione hanno visto la guerra in modo molto serio, i bambini non hanno ricevuto le cure necessarie. Tanti vivono in campi profughi nei quali gli uomini non ci sono più e quelli che restano si danno da fare per radicalizzarli».

Ossia renderli islamici ostili ad altri musulmani e all’Europa, agli Stati Uniti, ad altri Paesi.

«Numerosi di questi bambini sono privi di cittadinanza. Sono cresciuti privi di ogni senso dell’ordine che possiamo avere io, lei o altri italiani. Alcuni sono la prossima generazione dello Stato Islamico. Occorrerà ricostruire la popolazione, dobbiamo porre molta enfasi su come sarà ricostruita la popolazione».

Sarebbe indispensabile, quando la guerra sarà finita, una grande offensiva civile a sostegno della ricostruzione.

«Sì».

Finita al momento è l’intervista. Ci si saluta. A entrambi è chiaro che quella offensiva civile, con la sua capacità di fornire aiuti e progetti per la rinascita della Siria, non è certa per niente. A esistere, oggi, è innanzitutto l’estesa quantità di dolore descritta da quest’uomo che di guerre ne ha conosciute.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 12 Novembre 2019. «Don' t ask, don' t tell» è la formula magica con cui la sfera militare statunitense gestisce le situazioni più imbarazzanti. E "non chiedere, non dire" è anche la pratica seguita in Italia da governo, Parlamento e alti comandi di fronte alle operazioni delle forze speciali. Difficile stabilire dove finisca la ragione di Stato e cominci l'ipocrisia istituzionale, ma nessuno ha mai voluto fare luce sulla realtà di quello che i nostri incursori compiono all' estero. Di sicuro combattono: uccidono, catturano nemici, subiscono perdite. Lo fanno da 14 anni. In questo lungo periodo tutti i partiti si sono alternati al potere, senza premurarsi di chiarire quanto accadeva. Se in passato si potevano chiamare in causa gli obblighi verso la Nato e i relativi patti segreti, pure questo alibi ormai ha perso valore. Resta solo il buco nero nella nostra democrazia. Anzitutto bisogna ricordare che i commando non vanno a rischiare la vita per iniziativa personale: agiscono per ordine dei governi e nel limite, spesso spinto all' estremo, del mandato stabilito dal Parlamento. Le indagini delle procure militari non hanno mai sanzionato il loro comportamento. Eppure i vertici delle forze armate e i ministri non hanno mai reso nota la natura di queste azioni - "don' t tell" appunto - mentre nessun movimento politico si è mai mobilitato per saperne di più, osservando la prassi del "don' t ask". Alle Camere le interrogazioni si contano sulla punta delle dita e nelle votazioni annuali sulle missioni internazionali la questione non viene mai sollevata. Tutto comincia alla fine del 2006, quando dall' Afghanistan trapelano indiscrezioni sull' operazione Sarissa, il nome della lancia delle falangi macedoni, pubblicate da L' Espresso. A condurla è la Task Force 45, un reparto composto dal meglio delle forze speciali. Primo problema: il reparto non dipende dalla gerarchia italiana ma direttamente dal comando Nato, dove sono presenti ufficiali italiani, che non ha bisogno del permesso di Roma per mandare all' assalto questi incursori di Esercito, Marina e Carabinieri. Secondo problema: contrariamente alla retorica dominante delle "spedizioni di pace", la Task Force 45 fa la guerra. Va alla caccia dei capi talebani e qaedisti, scopre e "neutralizza" i laboratori dove si confezionano le micidiali bombe artigianali, elimina e cattura i nemici. Anche se nei rapporti ufficiali non c' è mai traccia di vittime né di prigionieri, che non si sa se vengano consegnati alle autorità di Kabul o a quelle Usa. Non è neppure chiaro se il ministro della Difesa Arturo Parisi fosse pienamente informato di questa entità guerriera. I documenti statunitensi svelati da Wiki-Leaks, oltre a fornire dettagli sulle attività belliche top secret, spiegano come davanti alle insistenze della Casa Bianca per un maggiore impegno in Afghanistan, il premier Prodi e il ministro degli Esteri D' Alema avrebbero promesso di mantenere immutato il numero dei militari, aumentando però la quota di combattenti. La Task Force 45, appunto: una soluzione rapida e invisibile. All' epoca, soltanto Rifondazione ha presentato interrogazioni, senza particolare insistenza. Poi quando a Palazzo Chigi è tornato Berlusconi la spedizione afghana viene moltiplicata, quasi 5000 uomini, e lanciata in vere offensive. Solo l' uccisione di un ufficiale della Task Force 45 ha risvegliato l' opposizione, con alcuni deputati Pd pronti flebilmente a chiedere ragione di una squadra d' assalto creata dai loro compagni di partito. L' ambiguità è proseguita fino al 2016, quando Matteo Renzi ha cambiato le regole: le forze speciali potevano agire agli ordini di Palazzo Chigi, equiparate così agli 007 con riservatezza e immunità totali. Un modo di assumersi la responsabilità politica delle azioni, che però le rendeva formalmente segrete e rivoluzionava le tradizioni in materia. Questa copertura istituzionale, usata in Libia contro l' Isis, non riguarda la Task Force 44, spuntata dal nulla in Iraq per debellare lo Stato Islamico. Ufficialmente, il mandato è di mentoring: consigliare le truppe locali e se necessario accompagnarle in battaglia. Un altro escamotage sperimentato in Afghanistan e in Somalia. M5S ha contestato l' attività irachena, pur non facendone una campagna come per l' F-35. Poi la ministra Trenta è andata a Bagdad a incontrare gli uomini della Task Force 44 e ieri Di Maio ha giustamente tributato solidarietà ai feriti, definendoli "impegnati nella formazione delle forze irachene". Il solito rituale farisaico, per tutelare il silenzio. Fino ai prossimi caduti, sacrificati in guerre che non esistono. Ma da cui dipende anche la nostra sicurezza.

Massimo Calandri per “la Repubblica” il 12 novembre 2019. «Stai zitto». La regola numero uno è la discrezione: meno persone sanno quel che fai, meglio è per tutti. Non parlarne nemmeno in famiglia. Niente foto in pubblico, guai a dare il numero del tuo cellulare. Facebook, Instagram? Per carità. Gli uomini dei reparti speciali non devono avere un volto, neppure una storia personale. Se ce l' hanno, è importante appaia più "normale" di quella di un impiegato del catasto. Fantasmi, camaleonti. Comsubin sta per Comando Subacquei e Incursori: si addestrano e vivono a Porto Venere, La Spezia: nella baia del Varignano, di fronte al Golfo dei Poeti dove si tuffava Shelley. Molti hanno messo su famiglia alle Grazie, accanto al Comando "Teseo Tesei". La storia va avanti da un secolo, è cominciata con la prima scuola di palombari del 1910. E nel suggestivo borgo marinaro, un migliaio di abitanti, 4 famiglie su 5 hanno almeno un parente militare. Se chiedete notizie dei 3 incursori feriti nell' attentato iracheno, faranno finta di niente. Perché sanno poco o nulla. Davvero. Il trentenne Andrea Quarto, ferito più gravemente a un piede, è l' ultimo arrivato dopo l' Accademia di Livorno: era già stato in Iraq. Ha un alloggio di servizio in caserma, ma - visto che l' ultima missione durava 4 mesi - la moglie è tornata in Campania col piccolo. Michele Tedesco ed Emanuele Valenza abitano nello Spezzino: il primo è torinese, il secondo di Milano. In passato sono stati in Afghanistan. Di solito quando rientrano dagli incarichi, passano altri 4-5 mesi ad addestrarsi. Escono solo nel tardo pomeriggio di venerdì. Dopo il Comando c' è un pub, O Goto, e poi il bar Povea cà. «Ma non parlano mai di quel che fanno. Non siamo sicuri di sapere chi siano. Anche perché qui nessuno ha voglia di fare domande». A Porto Venere, tra Gruppo Operativo Incursori e Gruppo Operativo Subacquei, i militari sono circa 400. Solo per entrare nella scuola del Comsubin, hanno superato una selezione comune a tutti i reparti speciali: 4 settimane di preparazione fisica e test che prevedono durissime prove tra corsa e nuoto, piegamenti e marce; 2 settimane di selezioni psico- attitudinali, le più difficili. «Non cerchiamo Rambo, ma persone equilibrate », spiega uno degli istruttori spezzini. Poi 3 mesi tra paracadutismo e operazioni speciali, quindi la fase di specializzazione (55 settimane) con corsi di combattimento e di sopravvivenza in qualsiasi ambiente, l' uso di esplosivo e delle radio, la capacità di resistere agli interrogatori. Negli ultimi anni, su 40 candidati i promossi si contavano sulle dita di una mano. Lo stesso succede negli altri 3 reparti speciali militari: il 9º Reggimento Paracadutisti d' Assalto Col Moschin (Esercito), di cui fanno parte gli altri due feriti dell' attentato iracheno; il 17º Stormo incursori (Aeronautica) e il Gruppo Intervento Speciale dei carabinieri. Quattro corpi integrati dal 4º Reggimento Alpini Paracadutisti e 185º Reggimento Ricognizione e Acquisizione Obiettivi Folgore. Quattromila uomini, persone "normali" lontano dalle missioni. Che parlano poco.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 12 novembre 2019. Quando la bomba rudimentale è esplosa travolgendo i cinque militari italiani delle forze speciali era in corso una massiccia operazione anti-Isis nella zona a ridosso delle montagne di Makhmour. Gli incursori del reggimento Col Moschin e del Comsubin erano insieme ai peshmerga curdi e stavano tornando a piedi verso il blindato, dove aver scoperto uno dei rifugi nei quali continuano a nascondersi gli ultimi superstiti dell'Isis. Tutto il gruppo è rimasto ferito, anche due uomini dell'esercito locale, oltre ai nostri soldati. Probabilmente per via di un ied, un ordigno artigianale, messo a difesa di un nascondiglio. L'operazione era di quelle più a rischio. Nella zona di Kifri stavano sorvolando anche gli aerei della Coalizione internazionale a comando Usa. E l'attacco era mirato a fermare l'ondata di attentati che nell'ultimo mese gli uomini del califfo nero hanno messo a segno. Circa un centinaio. Le forze speciali italiane della Task force 44 sono a fianco degli eserciti iracheni e dei peshmerga curdi, perché a loro spetta questo tipo di addestramento. Mentoring che viene effettuato proprio sul campo, mentre si entra in azione. Ed è la ragione per cui vengono coinvolti gli uomini dei corpi speciali, perché il rischio è più elevato, ed è necessaria una preparazione e una esperienza maggiori. Difficile, quindi, immaginare che fossero impegnati nella rimozione di ordigni. Più plausibile l'assistenza fornita contro nuclei jihadisti. Ieri, poi, è arrivata la rivendicazione dell'Isis ed è stata rilanciata dal sito americano Site. Ma quello che emerge dal comunicato dei miliziani è una certa confusione sulle modalità dell'attentato. I numeri dei feriti non tornano. E comunque nessun riferimento viene fatto all'Italia. L'obiettivo non sembrerebbe Roma, ma la Global coalition. Tutto questo mentre il pm Sergio Colaiocco ha ricevuto dal Ros dei carabinieri una prima informativa su quanto accaduto. A piazzale Clodio, però, mantengono uno stretto riserbo, anche per ragioni di sicurezza legate al fatto che nella zona dell'attentato, a circa cento chilometri da Kirkuk, sono tuttora presenti militari delle forze speciali italiane. Dopo l'esplosione e i feriti, una forza congiunta irachena è scesa in campo per individuare gli esponenti dell'Isis che si trovano nel distretto di Hawija e nelle aree di Al Rashad e di al Abbasi. A confermarlo ad Agenzia Nova è il colonnello Ahmed al Samawi, alto ufficiale del quartier generale del comando delle operazioni congiunte a Kirkuk. Un team coordinato dal generale Saad Alì Ati al Harbiyah, sta ispezionando fattorie, campi e sta seguendo le tracce delle bande jihadiste. «Durante l'operazione sono stati arrestati cinque terroristi», ha dichiarato Al Harbiyah. Il colonnello ha spiegato che le forze irachene hanno fatto brillare quattro ordigni esplosivi e hanno scoperto un campo di addestramento riconducibile allo Stato islamico, che è stato raso al suolo dall'aviazione dell'Esercito iracheno. Sono stati distrutti anche undici nascondigli dell'Isis con all'interno scorte alimentari e varie strumentazioni per fornire supporto logistico.

Gabriella Colarusso per “la Repubblica” l'11 novembre 2019. A prima vista, l'Italia è un cattivo alleato della Nato. Spende solo l'1,15% del Pil in Difesa, una cifra inferiore alla media dei Paesi che fanno parte dell' Alleanza. Non svolge missioni di combattimento, a differenza di quanto fanno i francesi o gli statunitensi - un approccio che ha creato anche diversi malumori con Parigi, per esempio sulla missione italiana in Niger. Ma sul terreno le cose sono un po' diverse. L' Italia ha più di settemila soldati impiegati in aree di crisi e di conflitto, dalla Libia all' Iraq, passando per il corno d' Africa e il Sahel. Si tratta nella gran parte di missioni di addestramento, mentoring and training , come in Iraq, o di peacekeeping, come la missione Unifil in Libano, nata nel 1978 ma che dal 2006, al termine dell' ultima guerra fra Israele e il Libano, è stata rafforzata ed ha il compito di presidiare la blue line , la linea di confine fra i due Paesi. «Non si tratta di guerra e di pace, ma di stabilizzare intere aree percorse da conflitti latenti, a bassa intensità ma ad alto rischio», dice un funzionario della Difesa che ha lavorato in Medio Oriente. A luglio, il Parlamento ha licenziato il decreto che autorizzava il rinnovo delle missioni militari all' estero fino alla fine del 2019: 7.343 operativi impiegati sul campo (erano 7.967 l' anno scorso), 37 missioni in 22 Paesi; un costo totale che supera 1 miliardo e 100 milioni di euro. Se si guarda al numero di militari inviati in teatri di crisi, il Medio Oriente e l' Asia sono sicuramente le zone dove la presenza italiana è più forte. Ma dal punto di vista strategico è l' Africa la regione su cui l' Italia ha spostato ormai da qualche tempo la sua attenzione. Nel 2015, quando era ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni lo definì il Pivot to Mediterranean , la svolta Mediterranea: ridurre gradualmente la presenza in Medio Oriente, in Iraq e Afghanistan soprattutto, per concentrarsi sul Mediterraneo, la Libia, in primis, e nella regione del Sahel, centrale sia per il controllo dei flussi migratori che per il contrasto del terrorismo. Nacque così l' idea di una missione militare in Niger per controllare il confine sud della Libia, ma partita di fatto solo all' inizio dello scorso anno e ancora non pienamente operativa. «Per ora siamo a Niamey, la capitale. Il progetto iniziale prevedeva un ampliamento della missione di addestramento anche ad Agadez, al confine con la Libia, ma al momento è fermo», spiega Gianandrea Gaiani, analista esperto di affari militari. I contrasti con i francesi, che chiedevano il coinvolgimento italiano nelle operazioni di combattimento, hanno ritardato l' avvio della missione. La presenza degli americani, poi, a cui Roma fa riferimento, e che in Niger hanno la loro principale basi di droni nel Sahel, non ha facilitato il dialogo con Parigi. Poi c' è la Libia, un Paese in guerra cruciale per la sicurezza e gli interessi nazionali. L'Italia sostiene il governo di unità nazionale di al Serraj di Tripoli, che è appoggiato dalle Nazioni Unite, e foraggiato, economicamente e militarmente, da Turchia e Qatar. Il contingente italiano è a Misurata, e dall' inizio della nuova guerra di Libia, il 4 aprile scorso, la città è stata più volte attaccata dall' aviazione del generale Haftar. In Libia, come in Iraq e in Afghanistan, non operano solo reparti ordinari, un peso crescente ce l' hanno le forze speciali. I soldati feriti nell' esplosione in Iraq fanno parte della Task Force 44, gemella della Task Force 45 attiva in Iraq, unità speciali formata da incursori della Marina e dell' Esercito, e da alcuni reparti dei carabinieri, che hanno compiti di " mentoring and training" , affiancano e addestrano le forze speciali locali: formalmente non sono lì per combattere, ma per il ruolo che svolgono è facile che vengano coinvolti in combattimenti. «Il loro impiego è secretato», spiega Gaiani, non si sa quante forze speciali italiane operino nel mondo e con quali regole di ingaggio. Hanno uno status diverso dai reparti normali, ambiguo, dipendono direttamente da Palazzo Chigi. «Rispondono alla catena di comando nazionale ma vengono assegnati al comando della coalizione internazionale in questo caso quello di base a Baghdad». Negli ultimi anni, il peso delle forze speciali nei teatri di guerra di tutto il mondo è cresciuto, non tanto numericamente dal punto di vista strategico: i militari che appartengono a questi corpi sono gli unici ad avere il polso di quello che succede sulla prima linea.

Missioni fantasma. L'Italia fa la guerra ma non si dice. In Afghanistan, Iraq, Siria e Libia i nostri soldati d'élite combattono battaglie vere, con dei morti. Ma la retorica li racconta come "impegni di pace". Fausto Biloslavo il 4 dicembre 2019 su Panorama. In Afghanistan gli elicotteri Mangusta continuano a volare e sparano, come è successo pochi mesi fa. Solo che non se ne parla più. I corpi speciali hanno sempre fatto operazioni “combat” pure in Iraq. Per anni le unità di élite delle task unit Bravo e Alfa a Herat e Farah sono andate a caccia degli obiettivi di alto profilo indicati dalla Nato: i comandanti talebani da catturare. Ma non si può dire perché è una missione di pace» racconta a Panorama un veterano delle operazioni all’estero. I cinque incursori dei corpi speciali feriti gravemente in Iraq il 10 novembre scorso hanno gettato una luce sulle «guerre fantasma» dell’Italia sempre smentite o mascherate dai vertici militari e governativi in nome del «politicamente corretto». In realtà, le unità d’élite che all’estero dipendono dal Comando interforze per le operazioni dei corpi speciali (CO.F.S.) dopo l’11 settembre 2001 hanno combattuto duramente per anni e, tuttora, dall’Afghanistan alla Libia, sono impegnati in missioni dove non si portano solo caramelle ai bambini. Lo dimostra il drone italiano MQ-9 Predator B precipitato nella zona di Tharuna, dove sono posizionate le truppe del generale Khalifa Haftar che assediano Tripoli. Per far risaltare l’ipocrisia di politici e generali basta leggere le motivazioni delle medaglie conferite a chi è caduto nelle «guerre fantasma» degli italiani. Il tenente incursore Alessandro Romani del Nono reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin venne ucciso il 17 settembre 2010 a Farah, Afghanistan occidentale. Le ragioni delle decorazioni alla memoria, compresa la medaglia d’oro al valor militare, parlano chiaro: «Impegnato in un’operazione finalizzata alla cattura di elementi ostili, individuati in precedenza nell’atto di occultare un ordigno esplosivo rudimentale, ingaggiava con questi, unitamente alla propria unità, un violento conflitto a fuoco. (…) Colpito gravemente al torace (…) negli ultimi istanti di vita anteponeva il dovere alla propria incolumità, preoccupandosi del buon esito della missione e delle condizioni di salute dei suoi uomini». In Iraq opera la Task force 44 con compiti anche operativi di «advise and assist», consigliare e assistere, e quindi non solo «di addestramento»: una cinquantina di uomini del Col Moschin e del Gruppo operativo incursori della Marina militare. La Difesa e il comandante delle operazioni speciali, il generale dell’Aeronautica Nicola Lanza de Cristoforis, si sono prodigati nel tentativo di mascherare come «addestramento» la missione che ha provocato il ferimento dei cinque incursori, tre del Nono e due della Marina. Ricostruendo l’accaduto, hanno anche raccontato che erano appiedati, nonostante le ferite da amputazione facciano sospettare che fossero a bordo di un mezzo. E per di più sembrava che fossero saltati in aria quasi per caso. Poi lo Stato islamico ha rivendicato l’attentato e un giovane tenente dei corpi speciali curdi ha alzato il velo sul ruolo della Tf 44 in Iraq. L’obiettivo della missione congiunta (22 italiani e 25 peshmerga curdi) era un deposito di armi, munizioni e probabile fabbrica artigianale di trappole esplosive dei terroristi. «Fin dall’inizio dell’anno la nostra unità conduceva con i corpi speciali italiani operazioni nella zona montagnosa di Palkana» ha spiegato Ranj Rizgar Noah, ufficiale dell’unità curda Hezakani Pshtiwany 2. L’area, vicina a Kirkuk, forziere petrolifero nel Nord dell’Iraq, è infestata da 80-120 militanti dell’Isis che la usano come base d’appoggio. «Noi eravamo davanti e gli italiani dietro» ha confermato il tenente. «Non diamo il via ad alcuna operazione senza i vostri corpi speciali, che sono sempre al nostro fianco e ci appoggiano con la logistica o quando dobbiamo evacuare dei feriti. Oltre a chiamare sempre in supporto due elicotteri da combattimento della coalizione alleata». Gli incursori sono stati feriti da un ordigno improvvisato (Ied) mentre si stavano allontanando in segreto, alla fine dell’operazione, a bordo di un pick-up scoperto dei peshmerga. «Li ho visti saltare nel veicolo che era incolonnato dietro al mio» ha raccontato Rizgar Noah, poi trasferito a operare con i corpi speciali americani. In Iraq, gli incursori in usano mezzi non protetti per mimetizzarsi meglio con i curdi. La Tf 44 addestra anche l’Emergency response division e la Golden division, le grandi unità irachene che hanno liberato Mosul. Però, durante la battaglia contro l’Isis nella «capitale» del Califfato, il ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva imposto ai corpi speciali di restare a non meno di 7 chilometri dalla prima linea, a differenza di americani e francesi. Poi il caveat è stato superato, ma «la retorica delle missioni di pace ha nascosto per anni all’opinione pubblica le azioni di combattimento dei contingenti italiani incluse le attività delle forze speciali per loro natura riservate» afferma Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. In Afghanistan la gloriosa Task force 45 è stata sciolta con la fine delle operazioni Nato più importanti, ma sul terreno sono ancora impiegati più di 50 Ranger. Gli alpini paracadutisti del Quarto reggimento, che fanno parte dei  corpi speciali e utilizzano una versione del blindato Lince per le truppe scelte. «Sono gli stessi compiti dell’Iraq, “advise and assist”, ma con le unità d’élite della polizia e dell’Nds (i servizi segreti afghani, ndr)» fa notare una fonte militare di Panorama. Reparti afghani che vanno a caccia anche di cellule dell’Isis. Negli anni dei combattimenti più violenti nel settore occidentale c’erano 200-300 uomini del Nono Col Moschin, noto come Condor, della Marina, carabinieri del Gis e incursori dell’Aeronautica oltre ai Ranger. Fra il 2008 e 2010 la Tf 45 era impegnata in un’operazione «combat» a settimana. «Siamo andati anche in ricognizione verso il confine iraniano, sulle vie dei traffici di droga e armi» racconta un veterano dei corpi speciali. «E talvolta si usciva per provocare il contatto e stanare il nemico con un conflitto a fuoco». La missione «Sarissa», approvata dal governo Prodi, ha compiuto centinaia di operazioni «combat» e raid per catturare comandanti talebani di una lista di un migliaio di «obiettivi» della Nato chiamati «high value targets». Chi ha partecipato sul campo spiega a Panorama come funzionava: «Gli americani le chiamano “cerca e uccidi” e noi “cerca e cattura”, ma è chiaro che quando il capo talebano non si arrendeva e cominciavano a volare proiettili, noi rispondevamo al fuoco e l’obiettivo finiva in orizzontale». La Tf 45 spesso ha portato con sé un procuratore afghano per l’arresto formale del comandante talebano messo nel mirino. In Libia, uno dei fronti più caldi, gli incursori operano sotto il cappello speciale dell’intelligence «e lavorano bene anche in operazioni di combattimento» conferma una fonte di Panorama. Oltre al Nono Col Moschin è presente un distaccamento degli incursori di Marina. Al largo, sugli assetti navali della missione «Mare sicuro» ci sono reparti del San Marco e i Comsubin, sempre truppe scelte della Marina, pronti a intervenire in caso di attacchi alle piattaforme petrolifere offshore o anche a terra. Da presidente del Consiglio, Matteo Renzi fece approvare una legge che autorizza l’impiego in zone di crisi «di forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto». Se fosse necessario, il premier può ordinare l’utilizzo di droni, elicotteri, navi e aerei. Non occorre un voto del Parlamento, ma è sufficiente informare il Copasir, il Comitato per la sicurezza della Repubblica. Il 20 novembre scorso un drone Predator italiano, non armato, è stato abbattuto o è caduto per malfunzionamento a sud-ovest di Tripoli, nell’area di Tarhuna, sotto il controllo dell’Esercito nazionale libico, che assedia la capitale. Il velivolo senza pilota faceva parte del dispositivo «Mare sicuro», ma sorvolava la zona non certo in missione di contrasto dell’immigrazione illegale. Probabilmente «spiava» fotografando le posizioni di Haftar sul terreno. Le truppe scelte italiane hanno l’immunità, ma agiscono sotto il cappello dell’intelligence «equiparate (...) al personale dei servizi di informazione per la sicurezza». Gli incursori fanno da scudo ai nostri agenti. Il problema è che su 1.600 uomini dell’Aise, all’estero sono solo 250 quelli impegnati sul campo. In Libia si avvalgono di una cinquantina di incursori come protezione e per l’appoggio al governo di Fayez al-Sarraj riconosciuto dall’Onu. I corpi speciali «fantasma» sono impegnati in operazioni segrete in un Paese devastato dalla battaglia per Tripoli e dove l’Isis, mai sconfitto, ha giurato fedeltà ad Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, il nuovo Califfo. 

Il governo americano ha mentito sulla guerra in Afghanistan. Futura D'Aprile su it.insideover.com il 10 dicembre 2019. “Cosa stiamo cercando di fare qui (in Afghanistan, ndr)? Non avevamo la minima idea di quello che stavamo facendo”. A pronunciare questa frase è stato nel 2015 Douglas Lute, generale che si occupò della strategia in Afghanistan tanto per l’amministrazione di George W. Bush quanto per quella retta da Barack Obama. Le sue parole rivelano come il governo degli Stati Uniti non avesse una reale concezione della guerra che aveva intrapreso nel 2001 in Afghanistan e fosse ancor meno consapevole della direzione e dell’esito di un conflitto che oggi, dopo 18 anni, non si è ancora concluso. La dichiarazione del generale Lute fa parte dell’inchiesta pubblicata dal Washington Post e da cui emerge come l’amministrazione degli Usa abbia sempre mentito sul conflitto afghano, presentando all’opinione pubblica una visione edulcorata della guerra e alterando le informazioni che diffondeva pur di non ammettere la verità: pacificare l’Afghanistan ed esportare la democrazia non erano obiettivi raggiungibili.

Cosa dicono gli “Afghanistan papers”. Che il governo e l’esercito americano avessero mentito sull’andamento della guerra nel Paese asiatico non è una novità, ma le 2mila pagine di documenti pubblicate dopo anni di battaglie giudiziarie dal giornale statunitense hanno riaperto il dibattito sul conflitto afghano in un momento particolarmente delicato. L’amministrazione Usa è attualmente coinvolta in un nuovo tentativo di negoziare una pace con i talebani, con l’obiettivo di ritirare definitivamente le truppe ancora presenti sul territorio afghano. Nonostante gli annunci di un accordo imminente, la fine del conflitto sembra ancora lontana e solo di recente le due parti sono tornate a sedersi al tavolo dei negoziati, dopo un periodo di stallo. Un copione che si ripete, quindi, quello che vede gli americani continuamente sicuri – almeno a parole – che la pace in Afghanistan sia oramai dietro l’angolo nonostante tutto indichi il contrario. Dai documenti del Washington Post e che riguardano un’indagine condotta dal 2014 al 2018 dall’Ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan emerge infatti lo stesso scenario. La situazione sul campo era disastrosa, il personale militare non aveva una corretta visione del Paese e dell’andamento della guerra, eppure le informazioni che venivano diffuse sia internamente che all’opinione pubblica erano sempre positive o per lo meno edulcorate.

Gli errori commessi in Afghanistan. Per poter condurre la guerra in Afghanistan, gli Usa avevano bisogno di conoscere i loro nemici, ma le informazioni che i funzionari dell’esercito ricevevano dall’alleato pakistano o da altre fonti in loco non erano considerate attendibili. L’amministrazione americana, quindi, non aveva nemmeno un’esatta concezione di chi fossero “i nemici” da sconfiggere come dimostrano le parole scritte da Donald H. Rumsfeld, ex segretario alla Difesa, in un memo del 2003.

Non ho una chiara concezione di chi siano i cattivi. La scarsa conoscenza non solo del nemico, ma anche degli “amici” è stato un altro punto debole della strategia americana. L’intervento militare dei primi anni di guerra si è in seguito trasformato in un’operazione finalizzata a stabilizzare il governo di Kabul e riportare unità e pace nel Paese attraverso l’addestramento delle truppe locali e l’importazione della democrazia. Due strategie che si sono rivelate fallimentari. Gli ufficiali americani non sono riusciti a pieno nel compito di addestrare le forze afghane e ancora meno nell’imporre un sistema democratico di stampo occidentale in un Paese che fino a quel momento era stato retto da una monarchia prima e da un regime sovietico dopo, per poi sprofondare in un caos che aveva ridato piena linfa alle affiliazioni settarie e alla spartizione del territorio tra signori della guerra. Un altro errore riguarda invece la gestione dei fondi stanziati per il conflitto afghano. Come affermato durante una deposizione del 2016 da un ufficiale anonimo.

Ci venivano dati dei soldi, ci veniva detto di spenderli e noi lo abbiamo fatto senza una ragione precisa. Un simile comportamento aveva danneggiato la strategia americana in Afghanistan, dando vita a quella che il colonnello Christopher Kolenda nel 2016 ha definito una “cleptocrazia“, per cui “la priorità del governo afghano era (…) mantenere in vita questa cleptocrazia”. Senza contare che buona parte dei finanziamenti erogati dagli Usa finivano nelle mani dei signori della guerra, già arricchitisi con quella produzione di oppio che gli americani non sono stati in grado di debellare. La guerra in Afghanistan quindi è andata avanti per 18 anni senza che gli obiettivi Usa venissero raggiunti, nella più totale manipolazione delle informazioni perché, come affermato dal consigliere militare Bob Crowley in una deposizione del 2016, “la verità non era benvenuta”.

Afghanistan papers, tutte le bugie di un conflitto lungo 18 anni. Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington. In duemila pagine pubblicate dal Washington Post le strategie fallimentari di tre amministrazioni. «I talebani trasformati in nemico mortale». È la «storia segreta» della guerra in Afghanistan. Diciotto anni di proclami frettolosi, errori di valutazione, senza riuscire a identificare i nemici e a trovare una via d’uscita. Dopo tre anni di battaglia legale il Washington Post ha ottenuto il rilascio degli «Afghanistan Papers», i documenti riservati custoditi dal governo: oltre 2 mila pagine di appunti, messaggi, interviste confidenziali con alti ufficiali, generali compresi, diplomatici, funzionari coinvolti nel conflitto cominciato nel settembre del 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Dal 2001 gli Stati Uniti hanno schierato circa 775 mila militari in Afghanistan e hanno dovuto contare 2.400 vittime e oltre 23 mila feriti. Quando George W.Bush decise di attaccare Kabul l’obiettivo era chiaro: distruggere Al Qaeda, evitare che si ricreassero le condizioni per un altro attentato come quello del 11 settembre. Ma quella lucidità strategica durò solo pochi mesi. È questo il dato di fondo che emerge dalla lettura dei documenti: il presidente e i ministri, in particolare quello della Difesa, Donald Rumsfeld, smarrirono quasi subito il senso originario della missione. Distrutta Al Qaeda si iniziò a combattere con i talebani. Gli americani si fecero come risucchiare in un conflitto non pianificato, con nemici quasi invisibili, radicati sul territorio. Jeffrey Eggers, un ufficiale dei Navy Seal, all’epoca consigliere prima di Bush e poi di Barack Obama, rivela in una delle interviste raccolte dai funzionari dell’amministrazione: «Che cosa ha trasformato i talebani nei nostri nemici, quando eravamo stati colpiti da Al Qaeda? Il nostro sistema, nel suo complesso, era incapace di fare un passo indietro». Nel 2003 gli americani, appoggiati dagli alleati e dalla Nato, controllavano a mala pena poche aree del Paese. Ma per Bush la questione era già archiviata. La sua attenzione si era spostata sull’Iraq. Richard Haas, il coordinatore per l’Afghanistan, mise sull’avviso il presidente: «Suggerii di aumentare il numero dei soldati, portandoli da 8 mila a circa 20-25 mila. Ma non riuscii a vendere l’idea. Non c’era entusiasmo. C’era un senso profondo di impotenza». Eppure il primo maggio del 2003 Bush dichiarava la vittoria in Iraq; quello stesso giorno Rumsfeld annunciava la fine «dei massicci combattimenti» in Afghanistan. In quel periodo si compiono scelte importanti, ancora oggi in discussione. Bush, Obama e l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton rifiutarono ogni tipo di trattativa con i talebani. I due presidenti tollerarono il doppio gioco del Pakistan. Ashfaq Kayani, capo dei servizi segreti pakistani, confidava all’ambasciatore americano Ryan Crocker: «Certo che noi puntiamo su diversi tavoli. Un giorno voi ve ne andrete e noi non vogliamo ritrovarci con un nuovo nemico mortale: i talebani». Il 1 dicembre 2009 Obama lancia il piano «surge»: invio di altri 30 mila militari in Afghanistan in aggiunta ai 70 mila già presenti e agli altri 50 mila dislocati dalla Nato e dagli alleati. Il generale David Petraeus, all’epoca al capo del «Central Command», annota in un colloquio riservato: «Due giorni prima di quel discorso fummo tutti convocati nello Studio Ovale. Nessuno di noi (generali, consiglieri ndr) aveva mai sentito parlare di quel progetto. Ci fu un giro di opinioni, ma il tono era: prendere o lasciare». Dopo quella riunione, però, Obama aggiunse un particolare fondamentale: gli americani avrebbero cominciato a ritirarsi dopo 18 mesi. Commento di Barnett Rubin, esperto di Afghanistan al Dipartimento di Stato: «Restammo tutti stupefatti. C’era una contraddizione insanabile in quella strategia. Se metti una scadenza ai rinforzi, è inutile inviarli». I talebani dovevano semplicemente tenere un basso profilo per un anno e mezzo. I «papers» pongono questioni a tutt’oggi irrisolte: l’Afghanistan può essere pacificato? Si deve trattare con i talebani? Oppure vanno combattuti inviando altri militari? E per quanto tempo? Ci si può fidare del Pakistan? Ora tocca a Donald Trump che forse ha la possibilità di scrivere l’ultimo capitolo della guerra più lunga e meno compresa.

Giordano Stabile per “la Stampa” il 10 dicembre 2019. È stato il «Vietnam dell' Unione sovietica» e sembra destinato a diventare un secondo Vietnam per gli Stati Uniti. La guerra in Afghanistan è già la più lunga mai combattuta dalle truppe americane e, secondo documenti riservati pubblicati dal «Washington Post», anche quella condotta peggio, con alti funzionari che hanno ammesso in maniera confidenziale di non sapere «quello che stiamo facendo», e quali siano gli obiettivi reali della missione. Funzionari che poi in pubblico affermavano che tutto procedeva bene e la vittoria era a portata di mano. I documenti sono stati definiti gli «Afghanistan papers», un riferimento ai «Pentagon papers» pubblicati nel 1971 dal «New York Times «e che contribuirono a mettere fine al conflitto in Vietnam.

Le testimonianze. Il Wapo ha raccolto 2.300 documenti, soprattutto attraverso interviste riservate. Ha condotto una lunga battaglia per poterli pubblicare e si è appellato al Foia, il Freedom of Information Act per ottenere il permesso. Il quadro che emerge è soprattutto di menzogne, improvvisazione e una volontà prolungata di nascondere la verità all' opinione pubblica. Dal 2001 775 mila soldati statunitensi hanno prestato servizio in Afghanistan. Oltre 2300 sono morti, 20.589 sono rimasti feriti. Secondo il Costs of War Project alla Brown University, il governo americano ha speso 978 miliardi di dollari, un conto che non include le spese per contractor e di agenzie minori. I risultati sono sconfortanti. «Che cosa abbiamo ottenuto con questo sforzo da mille miliardi di dollari?», si chiede Jeffrey Eggers, ex Navy Seal e consigliere alla Casa Bianca con i presidenti George W. Bush e Barack Obama. «Dopo la sua uccisione - continua - mi sono detto che Osama bin Laden probabilmente sta ridendo dalla sua tomba in fondo all' Oceano considerando quanto abbiamo speso in Afghanistan». Un generale a tre stelle, Douglas Lute, ammette invece che «ci manca la comprensione fondamentale del Paese, non sappiamo che cosa stiamo facendo». Per Douglas, che è stato "zar" della guerra in Afghanistan con Bush e Obama, gli Stati Uniti «non hanno la più vaga idea di quello che stanno cercando di ottenere». Anche i rapporti sulla ricostruzione del Paese, delle sue forze di sicurezza, sono stati sistematicamente falsati. Esercito e soprattutto polizia non sono in grado di controllare il territorio, come si può constatare sul terreno e come spiega un altro alto ufficiale al Wapo: «Un terzo dei poliziotti sono o drogati o infiltrati dei talebani», gli altri sono «ladri ossessivi» che «hanno rubato talmente tanto carburante dalle basi americane da puzzare in permanenza di benzina».

Afghan Papers, l’attivista Malalai Joya: «Denuncio la corruzione da anni e per questo vivo sotto scorta». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 da Andrea Nicastro su Corriere.it. Gli Afghan Papers ottenuti dal Washington Post hanno mostrato che nascosti dietro dichiarazioni ufficiali praticamente identiche per 18 anni («Stiamo vincendo», «Siamo sulla strada giusta», «La strategia è corretta») i responsabili della guerra americana in Afghanistan hanno dubbi, incertezze e spesso finiscono per pensare il contrario di quel che dicono: non riusciamo a vincere perché non sappiamo come fare. Nessun generale, politico, ambasciatore può dire: «Avevo ragione io». Malalai Joya sì. Era il 2003, Malalai era stata eletta nell’assemblea costituente dell’Afghanistan post talebano. A dirigere la riunione un religioso con turbante e barba bianca che se nulla fosse cambiato da quando gli studenti del Corano vietavano la musica e frustavano le caviglie che spuntavano dal burqa delle donne. Nella grande tenda c’erano mantelli, veli, tuniche, kajal sotto gli occhi dei maschi ed hennè sulla punta delle barbe: pareva un film su antiche tribù delle steppe. Lei, ragazzina, chiede la parola. Le tv internazionali registrano, il presidente acconsente. E lei attacca. «Perché i Signori della Guerra dirigono quest’assemblea? Perché i responsabili della distruzione del nostro Paese sono qui? L’Afghanistan è al centro di un conflitto internazionale dobbiamo uscirne». I comandanti militari si alzano, i loro vassalli insorgono, quelli che gli Afghan Paper definiranno «persone malvage anche secondo gli standard afghani» esigono la sua cacciata. La ragazzina viene espulsa dall’assemblea. «Da allora vivo sotto scorta. Continuamente minacciata. Ospite di amici, in case più sicure di quella di mio marito che rischia a farsi vedere con me. Come mio figlio di sette anni che riesco ad abbracciare di rado per non mettere in pericolo anche lui». Malalai Joya deve contare sulla famiglia per pagare la scorta armata. Sulla famiglia e sui diritti d’autore di un libro che ha venduto in tutto il mondo, “Finché avrò voce” (Piemme), in cui ha continuato a denunciare la collusione tra il governo post talebano di Kabul sostenuto dalla comunità internazionale e i Signori della Guerra che si arricchiscono combattendo al servizio di una o di un’altra potenza. Di passaggio a Milano per una serie di incontri organizzati dalla onlus Cisda, ha parlato con il Corriere.

Malalai com’è cambiato l’Afghanistan dal 2001?

«Tre milioni di afghani sono tossicodipendenti. Abbiamo il record mondiale per la morte infantile. I diritti umani sono calpestati continuamente, per le donne certo, ma anche per gli uomini. I talebani controllano molte aree del Paese, hanno i loro tribunali e le ragazze non hanno il permesso di studiare. Nei palazzi del potere sovvenzionati dall’Occidente ormai è chiaro che oltre a tangenti e droga si vendono posizioni di lavoro in cambio di rapporti sessuali. La nazionale di calcio femminile ha avuto il coraggio di denunciare i propri manager per violenza sessuale. Coraggiose, no? Ma il presidente della Federazione calcio che gestiva lo spogliatoio come un postribolo non è stato punito. Era e resta un potente Signore della guerra, con milizie armate che lo difendono e nessuno ha il coraggio di metterlo in cella. L’eccezionalità della storia è che abbia perso la poltrona, non che sia impunito».

E i miliardi spesi dall’Occidente?

«Sono finiti alle vostre fabbriche di armi o nelle tasche dei nostri Signori della guerra. Hanno inventato un proverbio a Kabul: l’unico lavoro sicuro in Afghanistan è il becchino. Si muore per gli attentati suicidi, per i bombardamenti sbagliati e per l’inquinamento».

Per questo tanti scappano?

«Già e ormai vengono rispediti indietro. Anche dall’Europa. Basterebbe seguire il destino dei deportati per capire la tragedia del Paese. Per arrivare da voi si sono indebitati. Quando tornano senza soldi possono solo arruolarsi in qualche milizia, drogarsi o suicidarsi. Una via d’uscita positiva non c’è».

Chi li arruola?

«Tutti: polizia, esercito, talebani o Isis. Cambiano le sigle, ma gli stipendi sono simili attorno ai 600 dollari al mese. E i fondi vengono dall’estero. Se le potenze straniere ci lasciassero in pace, noi afghani riusciremmo a fare la pace. Nel frattempo muoriamo: negli ultimi 4 anni quasi 50mila soldati della “dollar army”, l’esercito regolare, sono stati uccisi».

Cosa pensi delle trattative di pace con i talebani?

«La pace senza giustizia non vale nulla. Questa gente che tratta in Qatar con gli americani ha le mani sporche di sangue e non si è mai pentita. E poi, chi rappresenta? Basta l’esempio di Gulbuddin Heckmatiar, un Signore della guerra che nonostante abbia bombardato Kabul per anni, è stato tolto dalla lista dei criminali, accettato come candidato presidenziale e oggi è seduto in un bell’ufficio nella capitale. E’ servito a qualcosa riabilitarlo? Nelle sue aree continua a spadroneggiare come prima. Lo stesso faranno i talebani anche perché quelli che trattano con Washington sono solo una fazione. Poi c’è l’Isis, poi i talebani finanziati dai russi, quelli foraggiati dal Pakistan, dalla Cina, dall’Iran. Senza un accordo internazionale ci sarà sempre qualcuno pronto a combattere. Il rischio della pace è che abbia successo e unisca più gruppi talebani rendendoli più forti e ancora più capaci di massacrare civili».

Perché non ci sono ancora i risultati delle elezioni presidenziali di settembre?

«Perché sono state una barzelletta: non un’elezione, ma una selezione, devono ancora decidere chi far vincere. Purtroppo in queste condizioni è più importante chi conta i voti piuttosto di chi li mette nell’urna. Quando gli americani avranno deciso, verrà annunciato il risultato. Magari com’è successo nel 2014 quando hanno inventato uno Stato bicefalo con i due più importanti candidati a spartirsi lo stesso osso. Tecnocrati filoamericani da una parte e Signori della guerra dall’altra. Adesso vorranno inserire nel banchetto anche i talebani, ma l’osso è sempre quello: droga, armi e violenza contro i civili».

Neppure un barlume di ottimismo?

«Sì, molti lavorano per il bene del Paese, molti hanno preso consapevolezza in questi anni, hanno capito che ci vuole giustizia, che non c’è futuro se si scende a compromessi con chi non ha scrupoli, non si vergogna a massacrare innocenti».

Il Vietnam della Francia, morti 13 militari in Mali durante un'operazione di soccorso. Sono morti ieri sera nello schianto accidentale tra due elicotteri durante un blitz anti-jihad in Mali, non lontano dal confine con Niger e Burkina Faso. Questo nuovo dramma porta a 41 il numero soldati francesi morti dall'inizio della missione, nel 2013. La Repubblica il 26 novembre 2019. La missione militare in Mali si sta trasformando in un Vietnam per la Francia. Durante un'operazione di “soccorso e messa in sicurezza”, secondo quanto riferito dallo stato maggiore della forze armate, tredici militari sono rimasti uccisi nello schianto tra due elicotteri. Il ministro della Difesa, Florence Parly, ha parlato di un incidente. La collisione tra i due mezzi, un Tigre e un Cougar, sarebbe dovuta alla cattiva visibilità nella zona. Gli elicotteri volavano "a bassa quota" e "partecipavano a un'operazione di appoggio ai commando della forza Barkhane che erano entrati in contatto con gruppi armati terroristici” al confine tra Burkina Faso e Niger. Secondo la ricostruzione ufficiale da alcuni giorni i commando francesi erano impegnati sul campo e avevano intercettato un gruppo di terroristi, con moto e pickup. Lunedì sera, sono stati inviati dei rinforzi, gli elicotteri e una pattuglia di Mirage 2000. Il Cougar è intervenuto per coordinare le attività e garantire "'l'estrazione immediata di un elemento a terra” mentre il Tigre, elicottero da combattimento, aveva una funzione di appoggio e messa in sicurezza. Ma verso le 19.40, ora di Parigi, c'è stato lo scontro fatale. Per l'esercito francese è il bilancio di vittime più grave dal 1983, quando morirono in due attentati cinquantottotto soldati. Davanti ai deputati che hanno fatto un minuto di silenzio in onore ai caduti, il premier Edouard Philippe ha ribadito che la missione in Mali è “indispensabile” per la lotta al terrorismo nel Sahel, dove ci sono gruppi affiliati all’Isis. L'operazione “Barkhane” è stata lanciata nel 2014, in seguito all'operazione “Serval” servita a difendere il regime politico in Mali contro i ribelli. La missione voluta all'epoca dal presidente socialista François Hollande mobilita 4500 soldati in una regione grande quanto l'Europa a cavallo tra Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Ciad. Con l’incidente di ieri i soldati francesi morti salgono a 46. La Francia sta combattendo la guerra più lunga e fatale degli ultimi decenni dovendo far fronte a una moltiplicarsi degli attacchi negli ultimi mesi.

Durante il G7 di Biarritz, Macron aveva sottolineato l’aggravarsi della situazione e aveva lanciato insieme ad Angela Merkel un appello per aumentare gli sforzi della comunità internazionale nella lotta al terrorismo nella regione del Sahel.

Terroristi infiltrati di Francia. A Parigi è allarme radicalizzazione tra gli uomini delle forze di sicurezza come successo con Mickael Harpon. Luciano Tirinnanzi e Stefano Piazza il 15 novembre 2019 su Panorama. Dopo la bufera politica seguita alla strage nella prefettura di Parigi lo scorso 3 ottobre, il ministro degli Interni francese Christophe Castaner, nel corso di una non facile conferenza stampa ha dichiarato che Mickaël Harpon, l’autore della morte di quattro agenti, era «già stato fermato dai nostri servizi qualche giorno prima». Castaner non ha rivelato altri dettagli. Al titolare del dicastero Panorama ha chiesto un’intervista, per spiegare cosa accade all’apparato di sicurezza dello Stato francese. Lo staff del ministro, dopo averci fatto rimbalzare tra i vari uffici che si occupano di comunicazione, non ha dato seguito alla richiesta. Qualcosa, però, è trapelato lo stesso: Harpon non era un semplice poliziotto radicalizzato, ma un informatico del dipartimento di intelligence della prefettura, da tempo in stretto contatto con l’imam salafita Ahmed Hilali (che però smentisce ogni collegamento). Il personaggio è noto ai servizi d’intelligence per il suo estremismo religioso e il network di fedeli. I contatti tra i due si sarebbero fatti più serrati negli ultimi tempi, tanto da far ipotizzare che il killer possa aver contato su una discreta rete di complicità. Le perquisizioni nella casa di Harpon a Gonesse, cittadina nell’Île-de-France, e nel suo ufficio presso la prefettura di Parigi, hanno portato al rinvenimento di una chiavetta Usb, dove Harpon aveva archiviato una serie di video di propaganda dello Stato islamico. Ma, soprattutto, aveva conservato le coordinate e i dati personali di dozzine di suoi colleghi. Il che porta a domandarsi com’è possibile che l’informatico originario della Martinica, nonostante fosse noto per il suo estremismo religioso, abbia potuto accedere tranquillamente alle banche dati delle oltre 30 mila «Fiche S»: sigla che contrassegna individui considerati «grave minaccia alla sicurezza nazionale». Infine, non è stata approfondita la denuncia di due colleghi di Harpon, che hanno dichiarato di essere stati minacciati perché non svelassero gli allarmi sul suo comportamento. Qual è la verità? Come mai quest’omertà intorno all’uomo? Secondo quanto rivelato da un rapporto parlamentare sulla radicalizzazione islamista in Francia, pubblicato a giugno del 2019, tra i funzionari dello Stato sono 30 i licenziati perché radicalizzati. Il ministro Castaner ha innalzato quella cifra a 40, 20 dei quali avrebbero già lasciato la polizia. E gli altri? Il numero non è elevato, considerati i 150 mila membri delle forze di sicurezza, tra i quali molti musulmani. Tuttavia è enorme se pensiamo che, come Mickaël Harpon, altri possono aver passato informazioni sensibili alle cellule jihadiste francesi. Tutto ciò agita assai la sicurezza nazionale. Lo scorso 2 ottobre migliaia di agenti di polizia sono scesi in piazza a Parigi per chiedere migliori condizioni di lavoro. Durante la «marcia della rabbia», com’è stata definita, hanno denunciato la mancanza di sostegno da parte dello Stato e di un’opinione pubblica sempre più ostile alle divise. Al punto che Frederic Govin, ufficiale di un’unità antisommossa nel nord della Francia, ha dichiarato all’agenzia stampa Afp: «Siamo diventati la feccia della società». A manifestare sono stati 27 mila agenti, quasi il 18 per cento del totale degli operativi a livello nazionale, che hanno preso parte alla più grande manifestazione indetta dai sindacati di settore degli ultimi vent’anni. I motivi di una presenza così alta sono numerosi: le 23 milioni di ore di straordinari mai pagati; le 13 mila aggressioni e i 687 agenti feriti da arma da fuoco, che si sommano ai 26 agenti morti ammazzati soltanto quest’anno; l’ondata di suicidi tra le forze di polizia e dell’esercito, che a ottobre 2019 sono già raddoppiati rispetto ai 68 del 2018; le azioni terroristiche compiute (18) e quelle sventate in Francia (60) dal 2013; i crescenti casi di radicalizzazione tra le forze dell’ordine. A questo si somma la condizione del personale che opera nelle carceri, che ogni anno subisce tra le 4 e le 5mila aggressioni fisiche, da cui scaturiscono in media circa 15 rivolte che finiscono con la presa di ostaggi. Il presidente Emmanuel Macron, durante la campagna elettorale del 2017, promise che avrebbe assunto 10 mila agenti durante il suo mandato quinquennale. Ma quell’obiettivo è lungi dall’essere raggiunto. Prima di lui, era stato Nicolas Sarkozy ad affrontare la questione delle forze di sicurezza. Provenendo dal Ministero dell’Interno, era perfettamente a conoscenza della materia. Ciò nonostante commise degli errori che la Francia paga ancora oggi. Nel 2008, nell’intento di razionalizzare le risorse e di tagliare i costi, mise mano all’apparato più delicato dello Stato francese, l’intelligence. L’allora presidente francese decise infatti di fondere la General intelligence (Gr) con il controspionaggio (Dst), e di creare al suo posto la Direzione centrale dell’intelligence interna (Dcri, in seguito rinominata Dgsi). Tale scelta, secondo molti analisti, ha portato alla scomparsa di quella vasta rete di agenti sul campo e fonti informative pazientemente costruite in mezzo secolo di storia dello spionaggio francese, che sarebbe stata indispensabile a contenere, per esempio, la minaccia del jihadismo. Sintomatico il caso del comune di Saint-Denis, sempre nella regione dell’Île-de-France, alle prese con l’aumento esponenziale dell’estremismo di matrice salafita: qui la struttura di intelligence che operava attorno alle moschee e alle associazioni islamiche venne completamente smantellata. Il risultato ha portato alla presenza indisturbata di numerosi estremisti che, con i loro sermoni, hanno fatto deragliare centinaia di giovani musulmani verso la Jihad. Da allora qualcosa è cambiato, ma resta molto da fare. Come dimostrano le 60 azioni terroristiche sventate sul territorio francese e il continuo afflusso di capitali oscuri dal Golfo e dalla Turchia. Più di ogni altro Paese europeo, la Francia oggi teme la vendetta per la morte di Abu Bakr al Baghdadi. Il ministero degli Interni non ne fa mistero: «Nelle prossime ore, la possibile intensificazione della propaganda jihadista e possibili atti di vendetta deve condurci alla massima vigilanza, soprattutto in occasione di eventi pubblici che potrebbero essere programmati nel vostro dipartimento […] Si chiede di rinnovare alla polizia le istruzioni di vigilanza che dovrebbero essere rispettate per la loro protezione nell’esercizio della loro missione, ma anche al di fuori del servizio». L’allarme è stato innalzato.    

I fuorionda dei terroristi: il video di Al Qaeda che prende in giro Isis. Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Corriere.it. I terroristi di Isis come gli attori di una serie tv. Jihadisti alle prese con errori (bloopers) e scene buffe durante le registrazioni dei loro video di propaganda , tra frasi ripetute più volte e risate imbarazzate. Il filmato è stato diffuso dalla «Hidayah Media Production», casa di produzione vicina ad Al Quaeda , per screditare i miliziani del Califfato, dipingendoli come attori di basso livello, che non sono nemmeno in grado di lanciare i loro messaggi di propaganda senza commettere errori. La diffusione del video da parte di Al Qaeda si inserisce nella rivalità tra i due gruppi terroristici dalla Siria allo Yemen, ed è solo l'ultimo episodio. Secondo Bbc Monitoring il filmato sarebbe stato girato nel 2017 da una sezione dell'Isis in Yemen dove da tempo il Califfato e la rete fondata da Osama bin Laden si contendono l'egemonia della galassia jihadista.«Hidayah Media Production» non ha rivelato come sia entrata in possesso del video ma secondo quanto scrive la Bbc potrebbe essere stato un disertore dell'Isis a consegnarlo, oppure potrebbe essere stato trovato in un covo abbondato dagli uomini del Califfato. Già in passato la casa di produzione «Hidayah» aveva diffuso filmati per prendere in giro gli uomini dell'Isis: nel 2016 per esempio li accusarono di aver utilizzato una bevanda rossa al posto del sangue durante la registrazione di uno dei loro video di propaganda.

Il futuro del terrorismo in Asia. Siddharthya Roy il 17 maggio 2019 su it.insideover.com. Non appena si è diffusa la notizia degli attentati in Sri Lanka avvenuti la domenica di Pasqua, si sono susseguiti febbrili tentativi di addossare gli attacchi a note organizzazioni terroristiche internazionali come lo Stato islamico e Al Qaeda nel Subcontinente Indiano(Aqis). Mentre alcuni esperti hanno affermato che il “Dna degli attacchi” corrisponde allo Stato islamico e che la portata degli attentati mostra chiaramente i segni del coinvolgimento di una mano straniera, altri non sono d’accordo e sostengono che il modus operandi è quello di Aqis. Martedì, due giorni dopo gli attacchi, un account Telegram che affermava di essere vicino allo Stato islamico ha inviato un messaggio in cui si rivendicavano gli attacchi. Il messaggio è stato seguito da un comunicato stampa e da un video che mostra gli attentatori di fronte alla bandiera nera dell’Isis mentre giurano fedeltà alla causa del Califfato. Anche se queste rivendicazioni inevitabilmente mettono fine al dibattito su quale organizzazione viene considerata responsabile, qualcosa non quadra. Gli attentati della domenica di Pasqua potrebbero in realtà annunciare un’inedita era di violenza jihadista in Asia meridionale, una nuova ondata di brutalità che ha impartito alcune dure lezioni dopo la caduta del Califfato a Mosul.

È stato l’ISIS? Ancor prima che lo Stato Islamico rivendicasse l’attacco, i sostenitori della colpevolezza dell’Isis hanno citato tre motivazioni principali a sostegno delle loro teorie. La prima è incentrata sulla scelta di colpire chiese cristiane (al posto di obiettivi appartenenti alla maggioranza buddista dello Sri Lanka) e sull’ipotesi che gli attacchi siano stati una vendetta per la sparatoria alla moschea di Christchurch. La seconda è la “portata degli attacchi” che, secondo alcuni, non avrebbe potuto essere tale senza un aiuto straniero. Durante un discorso al parlamento dello Sri Lanka, il primo ministro Ranil Wickremesinghe ha detto che “sono state trovate prove riguardanti i collegamenti stranieri degli attacchi”. Un terzo elemento citato da coloro che sostengono la colpevolezza dell’Isis è l’uso di kamikaze: raro in Asia meridionale ma molto comune per l’Isis in Medio Oriente. È importante esaminare da vicino le supposizioni su cui si basano queste teorie, perché a un esame più attento nessuna è priva di interrogativi. Tra il 1983 e il 2009, quando il movimento secessionista Tamil era al suo apice, lo Sri Lanka ha visto una delle guerre civili più lunghe e sanguinose della storia moderna. Durante quel periodo, gli attentati con ordigni esplosivi improvvisati (ied) erano all’ordine del giorno. Le Tigri Liberatrici del Tamil Eelam (Ltte) hanno ampiamente utilizzato ied contro una vasta serie di obiettivi: zone residenziali singalesi, bersagli di grande importanza, come legislatori e capi di Stato, e centri finanziari come la Banca centrale dello Sri Lanka. I separatisti Tamil non erano gli unici a usare queste tattiche: i rami maoisti dell’ex Partito Comunista di Ceylon usavano regolarmente Ied e mine artigianali per effettuare imboscate e attacchi. Di fatto, attraverso l’ormai defunto Movimento rivoluzionario internazionalista, i guerriglieri dello Sri Lanka avevano canali ben consolidati per condividere competenze e addestramento con i maoisti dell’India e del Nepal. Il separatismo Tamil può anche aver esaurito le sue forze, ma le abilità richieste per produrre ird, le materie prime necessarie e l’addestramento per piazzare e innescare all’unisono gli ordigni sono alla portata di molte organizzazioni locali. “Gli esplosivi utilizzati in questi attacchi sono disponibili in tutto lo Sri Lanka”, ha dichiarato Sirish Thorat, esperto di intelligence specializzato sui territori delle Maldive e della penisola dell’India meridionale, durante un’intervista rilasciata a The Diplomat. “Persino i pescatori li usano per la pesca con l’esplosivo! L’Isis non avrebbe potuto procurarsi qualcosa di meglio?”, ha aggiunto Thorat. Per quanto riguarda gli attentati suicidi, prima della nascita dell’Isis e di Al Qaeda l’Ltte aveva già un intero reparto dedicato a questa forma di guerra.

Già nel 1987, Ltte utilizzava tattiche basate su attacchi suicidi: il 5 luglio di quell’anno, Vallipuram Vasanthan guidò un camion carico di esplosivo contro una base militare singalese a Jaffna e uccise 40 militari, scuotendo l’ordinamento politico del Paese. Il successo dell’attacco portò alla formazione delle Tigri Nere, una temuta e venerata unità di attentatori suicidi. Proprio come fanno i jihadisti con i loro kamikaze, le Tigri Nere venivano esaminate personalmente dal capo (nel caso dell’Ltte, Velupillai Prabhakaran in persona) ed erano costrette a subire almeno un anno di indottrinamento prima di diventare agenti operativi. Nel corso degli anni, i kamikaze delle Tigri Nere hanno compiuto numerose stragi simili all’attacco della domenica di Pasqua e hanno ucciso obiettivi di altissimo profilo come il primo ministro indiano Rajiv Gandhi nel 1991 e il presidente dello Sri Lanka Ranasinghe Premadasa nel 1993, oltre a diversi ministri e parlamentari. Le Tigri Liberatrici del Tamil Eelam hanno imparato a usare attacchi suicidi e camion carichi di esplosivo dalle insurrezioni mediorientali contemporanee, ma il rigore e la disciplina che le Tigri hanno portato a questa forma di guerra l’hanno cambiata per sempre. In un certo senso, i movimenti jihadisti post 11 settembre hanno imparato dalle Tigri Tamil e non il contrario. Quindi vedere l’influenza dell’Isis in un uomo che porta uno zaino pieno di esplosivo e si fa saltare in aria è nel migliore dei casi un’argomentazione miope e nel peggiore una conclusione con secondi fini tratta ignorando intere pagine di una storia recente e ben documentata.

Di gran lunga, il comportamento più anomalo è stato il tempo impiegato dall’Isis per rivendicare l’attentato. Parlando a The Diplomat, Hormis Tharakan, specialista nel campo dell’India meridionale ed ex capo dell’agenzia di intelligence indiana Research and Analysis Wing (R&AW), ha mostrato perplessità riguardo la responsabilità dell’Isis dichiarando: “Sembra che l’Isis abbia saputo (degli attacchi) dai media”. Prima di un attacco, in passato, l’Isis ha spesso inviato messaggi che rendevano nota l’intenzione di colpire una determinata città o regione. Nessun avvertimento simile è stato dato prima degli attentati della domenica di Pasqua. Inoltre, lo Stato Islamico ha diverse volte rivendicato azioni minori compiute da ribelli musulmani, indipendentemente da quanto vicini essi fossero alla rete principale con sede in Siria e Iraq; questa abitudine è una parte essenziale della loro tattica propagandistica di apparire più grandi e più internazionali di quanto essi non siano in realtà. Per l’attacco all’Holey Artisan Bakery di Dhaka, in Bangladesh, l’Isis non ha impartito agli attentatori alcun addestramento militare né ha fornito denaro o equipaggiamenti; tuttavia il materiale propagandistico era già pronto da molto prima che l’attentato iniziasse e, ancor prima che il fumo e la polvere si depositassero nella panetteria, le foto degli attentatori che posavano con le bandiere nere erano già state condivise su internet, accompagnate da dichiarazioni di gratitudine e lodi per i martiri caduti. Anche nel caso dell’attentato al terminal degli autobus dell’autorità portuale di New York, l’aspirante terrorista bengalese Akayed Ullah era un “auto-radicalizzato”, nel senso che egli aveva solamente guardato video e consumato materiale propagandistico jihadista online. Anche la bomba che Ullah aveva provato a far detonare la vigilia di Natale era stata un fiasco e non aveva provocato seri danni; i canali internet dell’Isis, però, avevano immediatamente inneggiato al bengalese come se egli fosse uno di loro. Oggi questo genere di terrorismo ha addirittura un nome specifico: attacchi che “si ispirano” all’Isis. Ma nel caso dello Sri Lanka, per due giorni nessun profilo sui social media riconducibile all’Isis ha pubblicato rivendicazioni o materiale di propaganda. Persino i siti sul darknetfrequentati dai sostenitori dell’ISIS non hanno rotto il silenzio mortale che è sceso su di loro dopo l’offensiva russo-siriana-Pkk a Mosul. La prima rivendicazione dell’Isis è arrivata martedì, attraverso un account Telegram che sostiene di appartenere ad Amaq, l’organo di stampa ufficiale dello Stato Islamico.

La connessione con Al Qaeda. “Rispetto all’ISIS, Al Qaeda è sempre stata più brava a sfruttare i conflitti locali”, ha detto Sirish Thorat. “Ci sono state molte lotte tra musulmani e altre comunità in Sri Lanka e ovviamente esiste una buona dose di risentimento e rabbia che può essere sfruttata per compiere atti come l’attentato di Pasqua”. Esiste un’altra buona ragione per considerare Al Qaeda nel Subcontinente Indiano (Aqis) come più probabile responsabile degli attentati della domenica di Pasqua: il fatto che gli indiani e i bengalesi hanno saputo dell’attacco prima di chiunque altro. Secondo fonti vicine all’intelligence indiana che hanno parlato a The Diplomat, l’R&AW e l’Intelligence Bureau (IB) avevano intercettato “conversazioni tra estremisti” tramite la National Technical Research Organization (Ntro), agenzia che si occupa dello spionaggio di segnali elettromagnetici. Anche una fonte interna al Directorate General of Forces Intelligence (Dgfi) del Bangladesh ha confermato di aver captato qualcosa e di averlo trasmesso agli indiani. Questa informazione è stata passata alle autorità di sicurezza dello Sri Lanka attraverso un canale diplomatico, sotto forma di un report che The Diplomat ha avuto modo di vedere. Il report è dettagliato come qualsiasi briefing di un’agenzia di intelligence ed elenca gli obiettivi nominando con precisione gli agenti coinvolti. Ma oltre a fare il nome di un gruppo locale, il National Tawhid Jamaat, le agenzie hanno continuato a non nominare alcun gruppo internazionale coinvolto. Parlando con chi scrive, un nuovo membro del comitato consultivo del National Security Advisor dell’India ha dichiarato: “Ho ragione di credere che l’intelligence indiana abbia intercettato alcune conversazioni tra estremisti che hanno portato a sospettare che l’Alta Commissione Indiana a Colombo e alcuni hotel potessero presto diventare il bersaglio di attentati suicidi; quindi forse lo Sri Lanka era stato avvertito. Devono però ancora lavorare sull’informazione iniziale e capire esattamente chi ci sia dietro l’attacco”. Le capacità di SIGINT e HUMINT dell’India sono quasi interamente focalizzate sul Pakistan. Dato che le tradizionali reti di Al Qaeda in Asia meridionale sono state molto vicine all’organizzazione militare pakistana, gli indiani avrebbero potuto intercettare le “conversazioni tra estremisti” solamente dalla rete di Aqis. Rana Banerjee, ex agente dell’R&AW responsabile per la regione dell’Af-Pak, ha dichiarato: “L’India si è focalizzata su quella regione (l’Af-Pak) e lì ha concentrato le sue forze. Otteniamo un buon SIGINT da queste postazioni d’ascolto. Quindi sì, c’è una forte probabilità che le notizie si diffondano attraverso la rete di Aqis”. Eppure, nello stesso discorso, Banerjee ha aggiunto: “Ma quello che abbiamo (sugli attacchi in Sri Lanka) è troppo poco per trarre conclusioni”. Se il coinvolgimento dell’ISIS può essere ragionevolmente messo in dubbio, confermare il coinvolgimento di Aqis è alquanto difficile. In parte, lo scetticismo sul coinvolgimento di Aqis è radicato nel fatto che la gerarchia dei gruppi jihadisti anti-India, che un tempo operava regolarmente, è ora nel caos. Da una parte Bangladesh, Nepal, Bhutan e Afghanistan hanno effettuato continue attività di repressione contro i gruppi anti-indiani che avevano basi sul loro territorio; dall’altra l’esercito pakistano e la sua intelligence, l’Inter-Services Intelligence (Isi), sono gravemente a corto di denaro e non riescono a mantenere uniti i ranghi. Di conseguenza, anche gli agenti di lunga data del subcontinente hanno cambiato casacca, sono diventati freelance oppure hanno appeso al chiodo la divisa da terrorista in favore di lavori normali.

I locali. Mentre c’è poco da discutere riguardo la “mano straniera” negli attentati della domenica di Pasqua, la scena politica e criminale locale richiede un attento esame: ciò che si trova al suo interno fa pensare a progetti che vanno ben oltre gli attentati del 21 aprile. “Questo non è un fallimento dell’intelligence”, ha dichiarato Saikiran Kannan, un hacker di lingua tamil di Singapore, durante un’intervista rilasciata a The Diplomat. Consulente finanziario di giorno, Saikiran è specializzato in investigazioni open source, monitoraggio e analisi dei jihadisti sui social media. “Dimenticatevi degli indiani che danno informazioni straniere al governo dello Sri Lanka, ci sono stati input provenienti dalla popolazione musulmana del Paese che dicevano che c’era qualcosa in ballo. Gli organi di sicurezza dello Sri Lanka semplicemente non hanno agito”. Secondo Saikiran, ci possono essere solo due spiegazioni per questa inerzia. O l’esercito e la polizia dello Sri Lanka non sapevano come agire, cosa che secondo Saikiran è “… piuttosto difficile da credere”, oppure elementi interni alla politica del Paese, inclusi gli istituti di difesa e sicurezza, volevano che tutto questo accadesse per danneggiare il governo in carica. Lo Sri Lanka va alle urne nel 2020: considerando che il Paese ha una tradizione di acerrime lotte politiche, usare un evento brutale come gli attentati di Pasqua per ottenere vantaggi politici a breve termine non è così inverosimile. Il primo ministro Ranil Wickremesinghe e il presidente Maithripala Sirisena sono stati acerrimi rivali politici da quando quest’ultimo ha improvvisamente dato il ben servito al primo nell’ottobre 2018 e ha nominato nuovo premier Mahinda Rajapaksa, ex presidente del Paese. Sebbene Rajapaksa sia stato rimosso meno di un mese dopo, la rivalità tra Wickremesinghe e Sirisena non si è conclusa. In effetti, alcuni giornalisti di Colombo (che hanno collaborato alla stesura di questo report) si sono espressi senza mezze misure nel descrivere come gli attentati si incastrino alla perfezione con il periodo elettorale e le lotte interne che caratterizzano la politica dello Sri Lanka. Ciò che dà credito a questa teoria del complotto è anche il palese pregiudizio mostrato dall’establishment militare a favore del presidente. Infatti, il presidente Sirisena svolge anche il ruolo di ministro della difesa e l’establishment militare risponde a lui; la polizia civile, invece, fa riferimento a Wickremesinghe. Secondo il dottor Rajitha Senaratne, portavoce del governo, a partire dal 4 aprile c’erano stati diversi segnali d’avvertimento e il 9 aprile un primo memorandum era stato fornito all’ispettore generale della polizia da Sisira Mendis, capo dell’intelligence nazionale. L’11 aprile, il viceispettore generale Priyalal Dassanayake ha scritto chiedendo un rafforzamento delle misure di sicurezza a una serie di agenzie, tra cui: divisione sicurezza, divisione sicurezza giudiziaria, divisione sicurezza degli ex presidenti, direttori facenti funzioni della divisione sicurezza diplomatica e direttori facenti funzioni della divisione sicurezza degli ex presidenti.

Nulla è stato fatto. Sirisena, che prima degli attentati di Pasqua aveva lasciato il Paese per un viaggio a Singapore, fino a oggi ha rifiutato di confermare o negare la conoscenza di questi report. Inoltre, quando il primo ministro Wickremesinghe ha convocato una riunione d’emergenza dei capi della sicurezza immediatamente dopo gli attentati, diversi membri chiave non si sono presentati. “Posso dire con una certezza del 90% che all’interno delle agenzie (di sicurezza) c’era una qualche forma di supporto ispirata dall’Isis”, ha detto Saikiran. Le opinioni di Saikiran sulla deliberata inerzia delle agenzie di sicurezza dello Sri Lanka si collegano con la suddetta fonte del The Diplomat all’interno del comitato consultivo del National Security Advisor dell’India. La fonte ha detto: “Non potevamo costringere lo Sri Lanka ad agire, ma non potevamo permetterci un attacco all’Alta Commissione Indiana. Così abbiamo autonomamente incrementato le misure di sicurezza in maniera esponenziale e abbiamo adottato una serie di misure per proteggerci. Abbiamo rinforzato il perimetro interno, rallentato l’elaborazione dei visti e aumentato notevolmente i controlli sui visitatori dell’ambasciata”.

I soliti sospetti. Un altro clamoroso aspetto che merita attenzione riguarda il fatto che, apparentemente, il governo dello Sri Lanka abbia chiuso un occhio sulle prediche piene d’odio fatte da Zahran Hashim, il presunto leader degli attentatori suicidi, e sugli affari della ricca famiglia Ibrahim che lo ha sponsorizzato e in seguito ha partecipato all’attentato della domenica di Pasqua. Hashim non era un personaggio che viveva nell’ombra; anzi, era piuttosto noto. L’attentatore aveva studiato in diverse madrase fondamentaliste in Sri Lanka, India, Pakistan e Maldive; secondo quanto riferito, egli era anche stato in Siria. Quando Hashim era tornato nella sua terra natale, a Kattankudy, aveva deciso di fondare una moschea e una madrasa. Successivamente, Hashim era uscito dal famoso Tawhid Jamaat dello Sri Lanka e aveva dato vita a un gruppo chiamato National Tawhid Jamaat: era questo il gruppo che l’intelligence indiana citava nel suo report. Per diversi anni, Hashim aveva apertamente predicato l’odio e invocato la jihad. Al-Ghuraba, portale video ufficiale dell’ISIS, aveva mostrato i filmati in lingua tamil fatti da Hashim in cui egli esortava i giovani musulmani dello Sri Lanka a dedicarsi alla causa del Califfato imbracciando le armi, donando denaro e aderendo alla jihad. Hashim aveva anche avuto diversi scontri con la legge, inclusa una volta in cui diverse famiglie musulmane di Kattankudy avevano denunciato i suoi tentativi di seminare odio e creare fratture nella comunità. Il coinvolgimento della famiglia Ibrahim è un altro chiaro indicatore della presenza di forti correnti politiche sotterranee. Gli Ibrahim sono una famiglia di ricchi commercianti di spezie che ha stretti legami con l’élite politica dello Sri Lanka. Tre membri della famiglia Ibrahim facevano parte del commando suicida: i fratelli Inshaf e Ilham e Fatima, moglie di Inshaf. Fatima non è stata nominata prima, ma secondo Saikiran Kannan la donna può essere vista dietro gli uomini nella foto dell’Isis. Il 24 aprile, M.L.A.M. Hizbullah, governatore della Provincia Orientale, è stato interrogato dal CID a causa dei suoi rapporti con il National Tawhid Jamaat. Oltre a essere vicino agli Ibrahim, Hizbullah è un noto lealista fedele a Sirisena/Rajapaksa che ha scelto di andare contro Ranil Wickremesinghe durante i disordini dell’ottobre 2018. In conclusione, gli attentati della domenica di Pasqua potrebbero aver dato nuova vita all’ISIS nella sua esistenza post-Mosul. Ma questa nuova versione dell’Isis non sarà solo una copia di ciò che il gruppo terroristico è stato in Siria e Iraq. Sarà invece una variante che appartiene all’Asia meridionale: una nuova organizzazione che ha imparato, disimparato e si è evoluta dopo il fallimento dalla missione in Siria.

Isis, il terrorismo oltre lo Sri Lanka. Con la sconfitta in Siria la strategia dell'Isis è cambiata; ora si cercano piccoli gruppi di estremisti, ricchi ed istruiti. Panorama il 6 maggio 2019. C’è l’orrore e c’è anche la propaganda. Gli attentati contro le chiese cristiane e gli hotel di lusso dello Sri Lanka, che hanno fatto oltre 250 morti e centinaia di feriti nella domenica di Pasqua, sono un salto di qualità nel terrorismo nella regione e segnano il consolidamento di un fronte del terrore globale dopo la sconfitta dell’Isis in Siria e Iraq. Dal Paese asiatico, secondo l’intelligence, in questi anni sarebbero partiti e rientrati una quarantina di foreign fighters; proprio loro sarebbero stati il collegamento tra lo Stato Islamico e il piccolo gruppo locale National Thowheeth Jama’ath. Oltre a questo, la propaganda nascosta nell’oscurità di internet, tra i vari social media e il Deep web, ha facilitato la radicalizzazione del gruppo, nato come autodifesa per gli attacchi subiti dagli estremisti buddisti del Bodu Bala Sena (Bbs) attivi nel Paese. «L’Isis, cercando di raggrupparsi, si sta insediando con successo tra piccoli gruppi che finora lottavano su base locale, spesso difendendo la loro religione da attacchi esterni, sia da parte dello Stato, sia da parte di altri gruppi etno-religiosi» spiega a Panorama Zach Abuza, professore al National War College di Washington ed esperto dell’area. «Unendosi allo Stato Islamico ricevono sostegno e competenze tecniche. Spostano i loro obiettivi, amplificano le azioni e hanno la sensazione di lottare per qualcosa di molto più grande». È chiaro che la strategia dell’Isis, con la perdita di territorio in Medio Oriente, sia cambiata. Sempre alla ricerca di nuove linee di fuoco dove combattere la propria e folle «guerra santa», lo Stato islamico sta puntando molto in questa parte di mondo, dove ha trovato terreno fertile anche grazie al gran numero di persone di fede musulmana e di conflitti locali mai del tutto conclusi. Non è un caso che negli ultimi anni molti gruppi si siano affiliati ai tagliagole del Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, radicandosi e compiendo attentati in Asia. In particolar modo colpendo i cristiani e chiunque venga considerato infedele. Attacchi che hanno fatto crescere la popolarità di queste organizzazioni nell’area, calamitando nuovi adepti. Un episodio eclatante. Il 27 gennaio scorso, durante la celebrazione della messa nella cattedrale della città di Jolo, nel sud delle Filippine (teatro da decenni di una guerra per l’autonomia da Manila)un’esplosione di due ordigni artigianali ha ucciso una ventina di persone e provocato il ferimento di più di 80. La strage dei fedeli è stata opera degli jihadisti di Abu Sayyaf, un gruppo locale che prima si ispirava ad Al Qaida e negli ultimi anni, dopo i successi in Medio Oriente, ha giurato fedeltà all’Isis. L’organizzazione, da tempo nella black list degli Stati Uniti e del governo filippino, si è macchiata di decine di attentati, decapitazioni e sequestri di persona, tra cui il rapimento dell’italiano Rolando Del Torchio, rimasto prigioniero degli islamisti per sei mesi. Abu Sayyaf, insieme al Maute, gruppo filippino affiliato alle bandiere nere, nel maggio del 2017, con l’intento di instaurare il primo Califfato del Sud-Est asiatico, ha poi assediato Marawi, sempre nel Sud del Paese. Le truppe governative sono riuscite a liberarla dopo quasi cinque mesi di durissimi combattimenti, più di mille morti, 400 mila sfollati e la completa distruzione della città. Ancora oggi deserta. «La battaglia di Marawi è stata un punto di svolta per lo Stato islamico in Asia: anche se alla fine sono stati sconfitti sul campo, hanno tenuto sotto scacco per mesi un potere statale che aveva il sostegno attivo di Stati Uniti, Singapore e Australia» afferma Abuza. «Mentre perdevano territorio in Siria e Iraq, si stavano aprendo su altri fronti. È stata la loro vittoria più grande a livello propagandistico». Anche in Indonesia nel mirino degli jihadisti ci sono i cristiani. Il 13 il 14 maggio 2018 due famiglie militanti di Jamaah Ansharud Daulah (Jad), un’organizzazione che ha giurato fedeltà all’Isis nel 2015, si sono fatte esplodere, colpendo tre chiese e due stazioni di polizia a Surabaya, la seconda città più popolosa del Paese. L’attacco ha causato la morte di 27 persone, compresi 13 attentatori, e decine di feriti. È stato uno dei più gravi episodi terroristici in Indonesia degli ultimi vent’anni, dopo quello di Bali nel 2002, che ha fatto oltre 200 vittime. Il Distaccamento 88, l’élite dell’antiterrorismo, nell’ultimo periodo ha aumentato i controlli. Soprattutto per monitorare il possibile rientro in Indonesia dei miliziani andati a combattere in Medio Oriente, considerati un elemento chiave per nuovi attacchi. Anche se in questo caso i cristiani non c’entrano, c’è poi l’incognita Thailandia. Lontano dalle rotte turistiche, al confine con la Malesia, l’etnia musulmana dei Malay rivendica l’autonomia da Bangkok. Lo fa con attentati e attacchi armati, ormai da decenni. La guerriglia separatista è divisa in vari gruppi e ognuno opera autonomamente. Le violenze, soprattutto contro le autorità e la maggioranza buddhista, hanno provocato più di 7 mila morti. E se è vero che non si hanno notizie concrete su possibili collegamenti con gruppi legati all’Isis, non si possono escludere contatti nell’ultimo periodo. Nel dicembre del 2016, poco prima di alcuni attentati - mai rivendicati - in diverse zone del sud, infatti, i servizi segreti di Mosca avevano riferito ai loro omologhi thai che almeno dieci miliziani siriani erano entrati nel Paese con lo scopo di compiere attacchi. Nella crescita della violenza islamista nella regione troviamo anche il Bangladesh. Il primo luglio 2016, un commando ha attaccato il ristorante Holey Artisan Bakery a Gulshan, la zona diplomatica di Dacca, uccidendo 23 persone. Tra loro anche nove cittadini italiani. Un attentato che ha molte similitudini con quello avvenuto in Sri Lanka. L’organizzazione Jamaat ul Mujahidee, infatti, accusata di aver organizzato l’attacco, fino a quel momento era semi sconosciuta, proprio come il National Thowheeth Jama’ath. Inoltre i profili degli attentatori sono simili: giovani ricchi e istruiti, che hanno studiato all’estero. Un cambio di rotta su cui riflettere. Se in precedenza si era abituati a pensare che chi si arruolava nelle file degli jihadisti era povero, radicalizzato nelle scuole coraniche e lo faceva non vedendo un futuro, questi due stragi portano verso una strada diversa, più imprevedibile. Perchè i terroristi si potrebbero trovare ovunque, in qualsiasi ambiente e ceto. «E con il ritorno in patria dei foreign fighters e l’esposizione di figure carismatiche, il rischio di nuovi attacchi in Asia è ancora più alto» avverte il professore Abuza.

Al Baghdadi è vivo, rivendica la strage di cristiani e annuncia nuovi attentati dell’Isis. Davide Ventola, lunedì 29 aprile 2019 su Il Secolo d'Italia. La strage del 21 aprile in Sri Lanka è “una parte della vendetta che attende i crociati e i loro seguaci” dopo che al sedicente Stato islamico (Isis) è stata strappata l’ultima roccaforte siriana di al-Baghuz. A sorpresa Abu Bakr al-Baghdadi torna a mostrarsi dopo cinque anni di silenzio. Nel video diffuso da al-Furqan, parla dei “fratelli in Sri Lanka” che “hanno scaldato i cuori dei musulmani”. Al-Baghdadi sostiene si tratti di una “vendetta parziale” per i “fratelli a Baghuz”, nell’est della Siria. In Sri Lanka, dice il califfo, ci sono state “mille” vittime “tra morti e feriti fra i crociati”. Nel filmato al-Baghdadi plaude al “giuramento di fedeltà dei suoi seguaci in Burkina Faso e in Mali” e al comandante dell’Isis nell’Africa subsahariana, Adnan Abu al-Walid al-Sahrawi, chiedendo di “intensificare gli attacchi contro la Francia crociata e i suoi alleati”. Il filmato è il primo che mostra al-Baghdadi da quando nel 2014 da Mosul, in Iraq, annunciò la nascita dell’autoproclamato Stato islamico. “Ospiti da al-Baghdadi”, si intitola il video diffuso sul web. Nel video, che dura poco più di 18 minuti, al-Baghdadi appare ingrassato e invecchiato, con una lunga barba. Il filmato non reca una data e non è possibile stabilire a quando risalga. Al-Baghdadi, più volte in passato dato per morto o ferito, è seduto in terra e interagisce con i tre interlocutori, tutti e tre a volto coperto. A diffondere il filmato è stato l’organo di propaganda video dell’Isis: è la prima volta dal celebre sermone nella Grande Moschea di Mosul nel 2014 che vengono rilasciate informazioni su al-Baghdadi. La notizia è stata confermata da Site, il sito che monitora il jihadismo sul web.

Giordano Stabile per “la Stampa” il 30 aprile 2019. Seduto con le gambe incrociate, con a fianco il kalashnikov, il califfo Abu Bakr al-Baghdadi sembra imitare Osama bin Laden. Il califfato che era riuscito a creare, a differenza del leader di Al-Qaeda, non esiste più. E i destini dei due terroristi jihadisti più pericolosi al mondo sono tornati ad assomigliarsi. Come Bin Laden dalle grotte dell' Afghanistan o del Pakistan, Al-Baghdadi è nascosto in qualche rifugio in mezzo al deserto fra la Siria e l'Iraq, incita alla guerra santa e alla vendetta sui nuovi fronti aperti dall' Isis, in particolare in Africa e nello Sri Lanka, mentre eserciti e forze speciali di mezzo mondo gli danno la caccia. La "rinascita" nel 2014 Ingrigito, con la barba un po' rossiccia, corpulento, leader dell' Isis appare molto diverso dall' uomo poco più che quarantenne, tutto in nero, che dal pulpito della grande moschea Al-Nuri di Mosul il 29 giugno del 2014 proclamava la rinascita dell' impero islamico. Quelle immagini avevano sconquassato gli equilibri del Medio Oriente alla stessa velocità delle colonne di automezzi dello Stato islamico che conquistavano una dopo l' altra le città lungo il corso dell' Eufrate in Iraq come in Siria. Per quasi cinque anni il video della moschea di Al-Nuri è stato l' unico a mostrare il califfo. Da allora Al-Baghdadi si è fatto vivo soltanto con una mezza dozzina di audio, a volte con pause di quasi un anno. L'ultimo, lo scorso agosto, esortava i combattenti a perseverare, nonostante le disfatte a Mosul e Raqqa. La strenua resistenza nell' ultimo villaggio dell'Isis, a Baghuz in Siria, aveva fatto credere che Al-Baghadi fosse circondato lì, difeso da un migliaio di irriducibili fedelissimi. Invece era fuggito ancora, forse attraverso un tunnel sotterraneo, dopo essere stato dato per morto dai servizi iracheni e poi da quelli russi, sicuri di averlo centrato con un raid alla periferia di Raqqa nel maggio del 2017. Le immagini diffuse ieri sono considerate autentiche dagli analisti specializzati. Di certo arrivano in un momento cruciale. Anche se il califfato fisico è distrutto, l'Isis ha mostrato di essersi riorganizzato in modalità Al-Qaeda, un gruppo del terrore mondiale capace di portare attacchi devastanti in ogni angolo del pianeta. La vendetta Al-Baghdadi cita «92 operazioni» già condotte in «otto Paesi» come rappresaglia «per i nostri fratelli», esorta i suoi a intensificare gli attacchi «in Mali e Burkina Faso» contro «la Francia crociata e i suoi alleati». Il califfo plaude al «giuramento di fedeltà», la cosiddetta bayah, di suoi seguaci nell' Africa occidentale e Sahel ed elogia il comandante locale dell' Isis, Abu al-Walid al-Sahrawi. Poi annuncia «vendetta» per i jihadisti uccisi e fatti prigionieri. Ma il riferimento più importante è agli attacchi nello Sri Lanka. L'audio che li cita sembra sovrapposto alle immagini, il che fa supporre che il video sia stato girato prima, all' inizio di aprile, e diffuso adesso per sottolinearne e amplificarne l' effetto. Gli attentati della domenica di Pasqua sono i più sanguinosi nella storia del terrorismo jihadista dopo quelli dell' 11 settembre. La rete creata nell'isola è impressionante, con centinaia di militanti pronti a immolarsi per il loro leader, un arsenale di livello militare, esplosivi ad alto potenziale, una organizzazione in grado di colpire in una decina di punti diversi nello stesso momento. Anche la strategia usata, quella di cooptare un piccolo gruppo locale nella propria rete globale, assomiglia a quella adottata da Al-Qaeda dopo la disfatta in Afghanistan. Nel suo nuovo ruolo di redivivo Bin Laden, Al-Baghdadi vuole adesso superare il «maestro», almeno fino a quando riuscirà a sfuggire alla caccia e alla taglia da 25 milioni posta sulla sua testa.

Guido Olimpio per il “Corriere della sera”  il 30 aprile 2019. Il video è un segnale preciso, dal valore operativo e propagandistico. Cinque i punti.

Primo. Lo hanno dato per malato, ferito, persino ucciso nei raid. Invece al Baghdadi, citando fatti recenti, dimostra non solo di essere in vita, ma anche al comando. Nel video discute con gli «emiri» - i comandanti -, si rivolge alle fazioni che gli hanno giurato fedeltà, riorganizza i «wilayat», le province del Califfato. E' davvero la guida, per nulla scalfito dalla lunga vita in clandestinità.

Secondo. Ribadisce la sua rilevanza, lega la sua fazione ad attacchi importanti. Dal Sahel allo Sri Lanka passando per il Centro Africa. Spazza via le supposizioni sui rapporto tra alcuni attacchi e la casa madre. Al Baghdadi stende il suo mantello sui mujaheddin, si assume la responsabilità delle loro missioni. Celebrando il sacrificio dei combattenti di Baghouz, in Siria orientale, trasmette un messaggio importante ai seguaci. Esaltando gli uomini-bomba di Colombo rafforza l' immagine del suo schieramento, dimostra che alle parole corrispondono fatti, con centinaia di vittime.

Terzo. Il leader dello Stato islamico annuncia una guerra d'attrito, un confronto che deve logorare gli avversari. Le sue «brigate» non hanno la forza di una battaglia in campo aperto, hanno perso santuari. Dunque i militanti torneranno alla guerriglia, alla tattica mordi e fuggi, agli agguati, agli omicidi dietro le linee, agli assalti alle prigioni e al terrorismo indiscriminato. Con i «crociati» e i cristiani come bersagli principali, a seguire gli altri.

Quarto. Con una mossa teatrale il movimento ha confermato la centralità del suo capo, lo ha rimesso in mezzo ad una cornice più ampia. Useranno gruppi locali (affiliati) per dimostrare di essere capaci di colpire ovunque. L'eccidio di Pasqua è il modello, lo rivedremo. Interessante la coreografia: le immagini del Califfo con al fianco un fucile AKS-74U rammentano quelle di Osama e al Zarqawi, i due fari dell' estremismo jihadista.

Quinto. Per 5 anni il leader è rimasto al coperto, protetto da un meccanismo efficace. La decisione di uscire dalla bolla di sicurezza, fatta di corrieri, nascondigli, scorte camuffate, «silenzio radio» e trucchi rappresenta un rischio e al tempo stesso una sfida nei confronti di taglie milionarie o intelligence.

Al Baghdadi riappare in video dopo 5 anni: «La battaglia  di Baghouz è finita». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Marta Serafini Guido Olimpio su Corriere.it. «Vendetta per i fratelli morti e detenuti». Vivo e con un kalashnikov al suo fianco, la barba lunga e grigia. Abu Bakr al-Baghdadi è vivo e riappare in un filmato diffuso dalla divisione media dell’Isis Al Furqan, in cui parla di 92 operazioni in 8 Paesi diversi, per vendicare le persecuzioni e l’uccisione dei fedeli nello Sham.  Si tratta della seconda apparizione ufficiale, dopo il sermone nella Moschea di Al Nuri Mosul del luglio 2014 nel quale si autoproclamò Califfo. A darne notizia è tra gli altri Site, il sito che monitora il jihadismo sul web. Appesantito, all’apparenza in buona salute, nel filmato il Califfo è seduto a gambe incrociate con l’arma appoggiata alla sua destra, segno che ricorda i filmati di propaganda qaedisti che avevano come protagonista Osama Bin Laden. Al Baghdadi si rivolge ad altri tre uomini, presumibilmente altri emiri del gruppo terroristico, seduti vicino a lui i cui volti però sono oscurati. In questi anni al-Baghdadi è stato dato per morto diverse volte. Ma in diverse occasioni sono circolati dei messaggi audio, senza che però ne venisse mostrato il volto. Nel filmato, diffuso su Telegram con il titolo «In the Hospitality of the Emir of the Believers», Al Baghdadi cita la battaglia di Baghouz, la dichiara conclusa, un dato che fa pensare ad un video abbastanza recente. Cita anche il jihadista francese Fabien Clain e suo fratello. Jean-Michel Clain. I due erano noti alle forze di sicurezza francesi perché erano stati le voci del messaggio di rivendicazione dell’ISIS degli attentati a Parigi del 13 novembre 2015: Fabien Clain, 40 anni, aveva registrato il messaggio vero e proprio, mentre la voce di Jean-Michel Clain, 38 anni, era stata identificata nelle canzoni religiose contenute nell’audio. L’attacco nel quale sono stati uccisi i due miliziani francesi è stato compiuto a Baghouz, al confine tra l’Iraq e la Siria. Tra le altre cose menziona le operazioni dell’Isis in Libia e dà il «benvenuto» alle nuove legioni del Sud Sahara, con un riferimento probabilmente alle milizie jihadiste del Mali e del Burkina Faso. Parla poi delle elezioni in Israele e glorifica gli attacchi in Sri Lanka nonché il tentato attacco in Arabia Saudita. Segno, dunque, che non solo è vivo. Ma che è ancora a tutti gli effetti il leader del gruppo terroristico più pericoloso del mondo. 

Comunicazioni criptate  e tangenti: così il Califfo sfugge alla cattura. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Marta Serafini su Corriere.it. È l'uomo più ricercato al mondo. E sulla sua testa pende una taglia da 25 milioni di dollari. Nonostante questo, Abu Bakr Al Baghdadi, il leader della più pericolosa organizzazione terroristica del mondo responsabile di migliaia di morti, non solo è ancora vivo ma è a piede libero. Secondo gli analisti di intelligence, Abu Bakr Al Baghdadi potrebbe nascondersi in una zona montuosa situata al confine tra la Siria e l'Iraq, sulle montagne di Sinjar oppure nel deserto a sud di Hasakah. A confermalo le temperature nell'aerea che coincidono con i vestiti pesanti indossati dal Califfo. E' infatti qui, abbastanza vicino al suo luogo di nascita — Falluja— e non in Afghanistan o in Libia che più facilmente Al Baghdadi riesce ad evitare il tradimento. Una delle ipotesi è che paghi letteralmente il silenzio di chi è conoscenza dei suoi spostamenti, attraverso mazzette e donazioni ai capi delle tribù dei territori dove di volta in volta si sposta. L'altra ipotesi è che non comunichi più via radio e abbia adottato il sistema dei «pizzini» (messaggi scritti o orali) già utilizzato da Osama Bin Laden e Al Zawahiri. Secondo quanto riferisce la Bbc, nel 2016 infatti il Califfo ha commesso un errore che ha rischiato di costargli la vita. Per 45 secondi ha parlato via radio ai suoi seguaci per esortarli a resistere mentre erano impegnati nella battaglia per la città di Mosul, che sarebbe poi caduta. Quel messaggio è stato intercettato e ha dato il via ad un frenetico tentativo della coalizione anti Isis di trovarlo e ucciderlo in un raid. Tuttavia quando è stato individuato il punto da cui era partita la chiamata, il Califfo se ne era già andato. Se in passato dunque si è parlato di un sistema di comunicazione criptato attraverso il quale il leader dello Stato islamico comunicava con i suoi uomini, ora è facile pensare che abbia imposto il silenzio radio. E che il video della scorsa settimana sia anche un mezzo per mandare messaggi ai suoi luogotenenti, oltre a quelli presenti nel filmato. Altro segreto che gli permetterebbe di sopravvivere in fuga, è quello di muoversi circondato da un gruppo selezionato e ristretto di fedelissimi. Secondo quanto ricostruito dall'intelligence, il suo cerchio magico è composto da tre persone: il suo fratello maggiore Joumouaa, il suo autista e guardia del corpo Abdellatif al-Juburi, suo amico di infanzia, e il suo messaggero, Saud al-Kourdi. Per arrivare a lui dunque bisogna agganciare una di queste figure. Una mossa dell'intelligence sarà quella di ricostruire i movimenti del filmato del 29 aprile. Presumibilmente le immagini sono state consegnate ad un corriere e poi passate di mano per essere caricate in rete e diffuse. Dunque, come fu per Osama Bin Laden, per catturare Al Baghdadi una via è quella di risalire al «messaggero». Oppure trovare una talpa tra i suoi luogotenenti, qualcuno interessato a vederlo cadere. O costretto a tradirlo.

Sulla testa di Abu Bakr Al Baghdadi pende una taglia da 25 milioni di dollari promessa dagli Stati Uniti. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Marta Serafini u Corriere.it., di Marta Serafini. Fonti del Pentagono lo hanno detto tra le righe alla Cnn all’inizio di giugno. «Non abbiamo ragione di credere che Al Baghdadi non sia più vivo, ma non abbiamo sue notizie dalla fine dell’anno scorso». Che, tradotto, significa: «Non sappiamo dove sia». O, almeno, questa è la versione ufficiale. Sulla testa di Ibrahim Awwad Ibrahim Ali al Badri alias Abu Bakr Al Baghdadi pende una taglia di 10 milioni di dollari. Ma nessuno finora l’ha tradito. Come Osama Bin Laden prima di lui, da oltre cinque anni Al Baghdadi è l’uomo più ricercato al mondo.

Ottobre 2004. Al Qaeda in Iraq assorbe le milizie jihadiste di Al Zarqawi.

Giugno 2006. Al Zarkawi (sotto nella foto) viene ucciso in un raid a Bagdad. Gli succede Al Masri.

Ottobre 2006. Al Masri trasforma Al Qaeda in Iraq nello Stato Islamico dell'Iraq.

Maggio 2010. Dopo che Al Masri è stato ucciso in un raid Al Baghdadi diventa capo dello Stato Islamico.

Giugno 2014. Al Baghdadi si auto proclama Califfo dello Stato Islamico.

Nato nel 1971 a Samarra, città dell’Iraq a pochi chilometri da Bagdad, da una famiglia sunnita, secondo quanto scrivono gli esperti di terrorismo statunitensi Jessica Stern e J.M Berger in «Isis The State of Terror», a 18 anni si trasferisce a Tobchi, un sobborgo di Bagdad. Nella capitale frequenta l’università di Al Azamiyya, diventa dottore in cultura islamica e sharia. Un vicino di casa, Abu Ali, lo descriverà anni più tardi al Sunday Telegraph come «una persona tranquilla, molto educata». Di questo periodo della sua vita si sa pochissimo. Ha una moglie, successivamente ne prende una seconda che lo descriverà in un'intervista televisiva come un uomo «buono con i bambini». Ha dei figli. Poi gli Stati Uniti nel 2003 invadono l’Iraq. Ibrahim Ali al Badri si unisce alla resistenza. E all’inizio del 2005 viene catturato a Falluja. Viene rinchiuso a Camp Bucca, dove gli americani lo registrano come detenuto comune. Non un jihadista dunque, e nemmeno un terrorista. Ma è qui, nella Harvard del terrorismo, che inizia quel percorso che lo farà diventare Al Baghdadi. In prigione incontra i leader baaathisti che diventeranno i suoi luogotenenti. Scala i vertici del jihadismo, succede ad Al Zarqawi, contribuisce alla scissione del gruppo iracheno da Al Qaeda. Combatte in Iraq, in Siria. Fino al luglio 2014, quando a Mosul viene proclamato Califfo e leader dello Stato Islamico. Per tutti diventa il numero uno del gruppo terroristico più feroce al mondo. Dal passato, al presente, la vita del Califfo è sempre più complicata da decriptare. Secondo gli americani, negli ultimi mesi del 2015 avrebbe trascorso parecchio tempo a Raqqa, ora minacciata dalle forze curde e da quelle siriane. Ma non esistono immagini che lo ritraggono nella capitale dell’Isis. Sarà questa l’Abbottabad di Al Baghdadi? Sarà qui che il Califfo morirà come successo a Bin Laden in Pakistan? Difficile dirlo. Di sicuro si sa che il Califfo è stato spesso in Iraq, nelle città sunnite che bene conosce e dove si sente più sicuro. Meno probabile che sia riuscito ad entrare anche in Libia, come hanno sostenuto gli iraniani, spostarsi dall'Iraq o dalla Siria fino a Sirte lo esporrebbe molto. Ognuno ha le sue teorie. I peshmerga curdi ne sono convinti, l’uomo più ricercato al mondo si sposta su un arco «sicuro» tra l’Iraq e la Siria. Ed è proprio quel corridoio di territori conquistati che le forze della coalizione stanno cercando di tagliare. Interromperlo significa mettere in trappola Al Baghdadi tagliando allo stesso tempo i rifornimenti al suo regno. Per sei mesi nel 2015, da marzo in poi, il Califfo non si sarebbe mai mosso da Ba’ej, vicino al confine tra la Siria e l’Iraq. A scriverlo, questa volta è il Guardian. Al suo fianco un gruppo di leader scelti che non lo abbandonano mai. Anche in questa zona le tribù gli sono fedeli, non importa che i suoi miliziani abbiano stuprato le donne e abbiano tagliato gole. Nessuno si azzarda a denunciare il Califfo. Miti e leggende circolano anche suoi sistemi di sicurezza. Su Twitter nel 2014 girava l’ipotesi che Al Baghdadi si spostasse su Suv super blindati e dotati di antenne satellitari collegate a canali criptati da cui impartisce gli ordini agli altri miliziani. C’era anche chi si era divertito a disegnare le automobili raffigurandole con le parabole installate sul tettuccio. Ipotesi, certo. Ma un medico fuggito da Mosul, con cui abbiamo parlato a Sulaymaniyah in un campo profughi, ha spiegato al Corriere «All'alba del 4 luglio (2014, ndr) un lungo corteo di automobili moderne è entrato in città, poi Al Baghdadi è salito sul pulpito della moschea di Al Nouri per tenere il suo discorso e pochi minuti dopo le comunicazioni via smartphone si sono interrotte». Una circostanza confermata anche da fonti curde al Guardian: dove passa il Califfo i collegamenti via rete e via satellite vengano oscurati per evitare di esporlo al rischio di intercettazioni. L’ultimo filmato di propaganda in cui compare il Califfo è stato diffuso nel febbraio 2016 e sarebbe stato girato a Falluja. Pochi frame postati in rete in cui lo si vede in una moschea non specificata, difficile scoprire quale: nel bastione sunnita i luoghi di culto musulmani sono almeno 200. Barba nera e lunga, una sciarpa beige che gli copre il capo. Al Baghdadi parla con un gruppo di ragazzini, a uno di loro sembra consegnare una sorta di diploma. Il Califfo infatti è un leader religioso oltre che militare e politico. Il «credente» lo chiamavano quando studiava la sharia a Bagdad. Quella di Falluja è la sua seconda apparizione pubblica immortalata dalle telecamere, dopo il discorso della moschea di Al Nuri nel quale si è autoproclamato Califfo. Ma anche in questo caso le certezze non esistono. «Potrebbe essere un sosia», avvertono gli analisti del Terrorism Research and Analysis Consortium. Poi, le voci che si sono rincorse negli ultimi due anni. «È ferito», «è morto in un raid. È stato colpito alla schiena, no è ancora vivo e sta bene». Servizi iracheni, siti iraniani, finiti comunicati di Amaq (la sedicente agenzia di news del Califfato messi in rete dalla contro propaganda). Immagini diffuse su Telegram, una delle chat usate dalla propaganda. Audio con la sua voce, diffusi subito dopo le voci sulla sua morte. Mai però queste notizie hanno trovato conferma dagli «officials», più attendibili, del Pentagono. Quello di cui siamo sicuri è che il suo “mito” tra i supporter dell’Isis è più vivo che mai, come dimostrano i tweet postati dai fan boys ogni giorno sui social. «Il mondo raccontato dal leader diventa pian piano il mondo che il militante inizia vedere, comprese le ingiustizie, i nemici e i giusti conflitti da combattere. Non solo; questi leader irraggiungibili diventano l’esempio da perseguire in un processo che li trasforma, nel caso di un gruppo religioso, in una sorta di modello di perfezione divina in terra», spiega Eugenio Dacrema dottorando dell’Università di Trento ed esperto di jihadismo. Perché il marketing del terrore funzioni è fondamentale che l’immagine del leader resti scollata dalla gestione pratica. Soprattutto in periodi di grave difficoltà militare come quello che Isis sta vivendo. «A questo fine la scarsa visibilità fisica del Califfo Al-Baghdadi, affidata a poche immagini riprese in pochi luoghi e date simbolici, diventa cruciale. Perché lui deve rimanere al di sopra dei banali problemi di amministrazione, economici e, soprattutto, al di sopra delle sconfitte militari», conclude Dacrema. Così mentre il mondo lo cerca e mentre si avvicina a «celebrare il suo secondo anniversario, il Califfo continua la sua corsa “invisibile” come un fantasma di morte.

MA L’ISIS NON ERA STATO SCONFITTO? Gianluca Di Feo per “la Repubblica” 24 aprile 2019. Non ha più un territorio, è stato spazzato via dalla Siria e dall' Iraq, lasciando sul campo migliaia di caduti. Eppure lo Stato Islamico è ancora capace di gestire attacchi devastanti ovunque o, quantomeno, di coordinarsi con i gruppi terroristici in altri continenti. Il video di rivendicazione delle stragi in Sri Lanka è un messaggio terribile, perché dimostra che l' Isis non si è spento nelle macerie dell' ultimo caposaldo siriano. «Lo Stato Islamico è stato sconfitto al 100 per cento», aveva twittato Donald Trump lo scorso 23 marzo. Meno di un mese dopo, la smentita è arrivata con un' ondata simultanea di bombe che hanno ucciso più di trecento persone. E la certezza che i kamikaze cingalesi fossero come minimo in contatto con la rete telematica del Califfato, sopravvissuta ai bombardamenti e alle operazioni di disturbo occidentali. Il filmato è stato diffuso ieri dai canali di Amaq, una delle sigle usate dalla propaganda jihadista sin dall' agosto 2014. Mostra otto uomini vestiti di tuniche scure e armati di coltelli che mettono in scena il cerimoniale già visto in occasione di decine di attentati. Annunciano la loro scelta di morire punendo gli infedeli e giurano fedeltà a Al Baghdadi, l' introvabile fondatore dello Stato Islamico. Degli otto, uno solo è a volto scoperto: Zaharan Hashim, il predicatore che secondo le autorità dello Sri Lanka ha organizzato la catena di attacchi provocando la morte di oltre trecento persone. È la sua presenza a provare l' autenticità della rivendicazione. E a indicarci come la minaccia di Daesh resti ancora attiva. Una centrale dell' Isis infatti ha ricevuto il video prima delle stragi. Ha atteso che venissero messe a segno e ieri lo ha diffuso in quattro fasi: una scelta dei registi del terrore mediatico, che ha permesso di raccogliere la massima audience tra i sostenitori del Califfato. Amaq ha inizialmente lanciato un breve comunicato, poi uno più lungo a cui sono seguite le foto del commando e infine il video. Un' altra prova di forza: nessun apparato di intelligence è riuscito a ostacolare la diffusione del proclama sul web. Zaharan Hashim è il leader del Ntj, acronimo per National Thowheeth Jamaath, la formazione islamica cingalese immediatamente indicata come responsabile degli assalti. Hashim era noto per i suoi sermoni violenti, diffusi su Internet: incitazioni all' odio che si erano intensificate dopo l' eccidio nelle moschee neozelandesi di Christchurch del 15 marzo. Le autorità di Colombo erano state informate del suo piano per colpire le chiese cattoliche, ma l' allarme è stato ignorato. Il Paese, devastato da una lunghissima guerra civile di natura etnica, non aveva mai conosciuto il terrorismo di matrice religiosa. E l' allerta è stata sottovalutata anche perché nessuno riteneva Ntj, un gruppo minuscolo, capace di azioni su larga scala. Invece il commando di Zaharan Hashim ha condotto un assalto di geometrica ferocia, pianificato meticolosamente e realizzato con precisione unica. Nella mattina di Pasqua una prima ondata di kamikaze ha colpito il Santuario di Sant' Antonio e tre hotel di lusso. Uno dei jihadisti aveva preso una camera la notte prima nel Cinnamon Gran Hotel, un cinque stelle accanto al World Trade Center di Colombo, e si è fatto esplodere domenica mentre era in coda per il buffet della colazione. Poche ore dopo sono stati colpiti i fedeli nella chiesa di San Sebastian e in quella di Zion. Complessivamente sono stati attaccati nove obiettivi, mentre altri ordigni sono stati disinnescati lunedì e c' è il sospetto che alcune bombe possano non essere state individuate. Un' operazione di risonanza mondiale che ha gettato lo Sri Lanka nel baratro. Gli uomini di Hashim non possono averla progettata da soli. Ed ecco il sospetto che il legame con l' Isis non sia solo telematico, ma che in Sri Lanka siano intervenuti veterani delle battaglie di Mosul e di Raqqa, decisi a proseguire la lotta senza confini. Tra il 2014 e il 2018 nel Califfato sono arrivate squadre di volontari provenienti da tutta l' Asia, dove vivono 800 milioni di musulmani: alcuni persino dalle Maldive, il paradiso delle vacanze non lontano dallo Sri Lanka. Molti sono morti combattendo. Altri sono stati addestrati e rimandati nei loro Paesi: missionari del terrore, destinati a formare nuove cellule kamikaze e diffondere il credo oltranzista di Al Baghdadi. Quanto siano pericolose le ramificazioni asiatiche dell' Isis lo si è capito nel luglio 2016 con il massacro di Dacca: nella capitale del Bangladesh vennero assassinate 24 persone, tra cui nove italiani. Esecuzioni trasmesse in diretta, senza che nemmeno allora la rete internet dell' Isis venisse bloccata. Ed è questa resilienza digitale del Califfato oggi a spaventare gli investigatori di tutto il pianeta. La rivendicazione dell' eccidio di Pasqua è un segnale micidiale: la centrale di Al Baghdadi è ancora in funzione, pronta a coordinare i reduci della Siria e dell' Iraq ovunque si trovino. Guerrieri che non si sentono sconfitti, anzi: restano convinti che l' esperienza del Califfato abbia testimoniato al mondo la forza della loro idea violenta di Islam. Uno scenario che preoccupa particolarmente l' Italia: in Libia l' offensiva del generale Haftar si sta trasformando in una guerra di tutti contro tutti. Dove cresce il peso delle milizie religiose salafite, attive con entrambi gli schieramenti. E dove anche l' Isis, battuto due anni fa nella battaglia di Sirte, sta velocemente riconquistando spazio.

·        Anti-islamista: Ecco il coraggio della paura.

NON ERA MEJO BIANCANEVE? Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 5 maggio 2019. «Taglieremo le teste» degli ebrei e «li sottoporremo a eterna tortura» in nome di Allah. Per liberare Gerusalemme invocano i «martiri» kamikaze e si dicono pronti a fare lo stesso sacrificando «i nostri corpi e () le nostre anime senza esitazione». Non siamo a Gaza a un' adunanza di Hamas per alimentare la guerra contro Israele, ma a Philadelphia, una grande e normale città americana. Nove ragazzini, femminucce e maschietti, hanno inscenato in occasione del giorno della Ummah, la comunità islamica, una «recita» che incita a conquistare Gerusalemme, a far fuori gli ebrei e a immolarsi come kamikaze. Tutti bardati con i colori della Palestina davanti a pseudo educatori e alle famiglie venute ad assistere all' incredibile sceneggiata. Una bambina legge un proclama riferendosi agli ebrei: «Taglieremo le loro teste e libereremo la dolorosa ed esaltata moschea di Al-Aqsa (simbolo musulmano di Gerusalemme, ndr). Condurremo l' esercito di Allah per adempiere alla sua promessa e li sottoporremo alla tortura eterna». La «recita» kamikaze è stata ripresa in video il 22 aprile e scoperta da Memri, un'associazione no profit che monitorizza in rete le minacce dell' estremismo islamico soprattutto nei confronti di Israele. Il fattaccio è avvenuto nel centro islamico, di fatto una moschea, dell' Associazione musulmana americana di Philadelphia. Una potente e discussa organizzazione messa sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche dagli Emirati arabi. Ieri la tv americana Fox ha mandato in onda il video scatenando una valanga di proteste e polemiche. L'Associazione musulmana ha condannato i contenuti del filmato ribadendo la propria posizione contro ogni forma di «odio», ma è troppo tardi. Nel video nove ragazzini divisi su due file seguono un copione dettato dagli adulti. I bambini cantano in coro: «Ribelli, ribelli, ribelli. Gloriosi destrieri ci chiamano per guidarci sui sentieri che conducono alla moschea di Al-Aqsa. Il sangue dei martiri ci protegge, il Paradiso ha bisogno di uomini veri!». Una ragazzina inneggia ai kamikaze, «i nostri martiri, che hanno sacrificato la loro vita senza esitazione raggiungendo il Paradiso. Il profumo di muschio emanava dai loro corpi. Gerusalemme sarà la loro capitale o un focolaio per codardi?». L'assurda «recita» auspica un' invasione di Israele a bordo delle navi del Profeta Maometto e invoca uno dei più famosi condottieri musulmani contro i crociati: «Oh Saladino, la Palestina deve tornare nostra. La vergogna sarà spazzata via». A Gaza i fondamentalisti di Hamas fanno sfilare i bambini in mimetica e con le bandane verdi dell' Islam utilizzate dai kamikaze prima di farsi saltare in aria. Oppure gli stessi ragazzini portano in spalla missili di cartapesta per simboleggiare quelli veri che vengono lanciati contro Israele. Se sono abbastanza grandi imbracciano pure i kalashnikov, ma è sconvolgente che l' apologia degli attacchi suicidi e della liberazione sanguinosa di Gerusalemme venga messa in scena negli Stati Uniti. L' aspetto paradossale è che i bambini pronti al «martirio» ed i loro genitori, che hanno assistito allo spettacolo intriso di violenza, saranno pure cittadini americani accolti come profughi o perseguitati.

Ornella Mariani sull'islam: una pratica tribale a cui abbiamo dato patente di religione. Ornella Mariani sull'islam: ''una pratica tribale a cui abbiamo dato patente di religione''. Intervento sull'islam di Ornella Mariani, storico e scrittore, nel programma Notizie Oggi Linea Sera del 26 aprile 2019. dal titolo: ''Radicalizzazione e illegalità" condotto da Vito Monaco con: Armando Manocchia, Souad Sbai, Gianmarco Landi, Adriano Segatori. Lo "Scrittore", così vuol essere definita, Ornella Mariani, in un dibattito sull'islam su Canale Italia, ha descritto la religione come un'accozzaglia di terroristi. Parole pesanti verso la Boldrini, Mogherini, Taiani, e chi più ne ha, più ne metta. Un bel siparietto per farsi due risate ma anche per riflettere.

Magdi Allam: "Fermate l'islam, deve essere messo fuori legge. Occuperà l'Italia". Pietro Senaldi 30 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Musulmano, cattolico, editorialista di Repubblica, Libero e Giornale, vicedirettore del Corriere della Sera, scrittore, europarlamentare indipendente eletto nelle liste dell' Udc, iscritto al Ppe e poi transitato nel gruppo euroscettico Europa delle Libertà e della Democrazia, dove sedevano gli eletti della Lega, già capeggiati da Salvini, per un breve periodo membro dell' ufficio di presidenza di Fratelli d' Italia, studente modello del collegio salesiano del Cairo, dove ha imparato l' italiano giovanissimo e grazie al quale, in quanto miglior diplomato, ottenne nel 1971 la borsa di studio per trasferirsi a Roma a studiare sociologia alla Sapienza, uomo più scortato d' Italia da che il terrorismo islamico l' ha messo in cima all' elenco dei nemici di Maometto da uccidere, per apostasia e per i suoi libri. Magdi Cristiano (da quando nella Pasqua di undici anni fa ufficializzò la propria conversione) Allam è un crocevia vivente. Attraversa i mondi della nostra contemporaneità maturando certezze incrollabili; sull' islam, l' Unione Europea, l' immigrazione, l' Italia. Ha compiuto 67 anni giusto una settimana fa ed è in pensione da dicembre. «Mi concentro sulla scrittura di libri e nella mia attività di conferenziere. Giro l' Italia per diffondere informazione corretta su quel che accade nel mondo». Magdi ha in uscita un testo destinato a far parlare molto, "Stop Islam", un volume nel quale si propone di dimostrare come quella religione sia «incompatibile con le leggi laiche dello Stato, le regole di civile convivenza e i valori fondamentali della civiltà occidentale, dalla sacralità della vita, alla parità tra uomo e donna al diritto di fare libere scelte individuali». È il lavoro finale di una trilogia, iniziata nel 2017 con "Maometto e il suo Allah, ovvero l' invenzione del Corano" e proseguita con "Il Corano senza veli", nei quali Allam racconta la vita del profeta e fornisce una guida per decifrare il testo sacro dell' islam, illustrando le sue difficili e spesso luttuose declinazioni nell' incontro con il nostro mondo. La tesi di "Stop Islam" è molto forte, e già si prevedono guai e polemiche.

«Scrivo» spiega Magdi «che l' unico modo per salvaguardare la nostra civiltà è mettere fuori legge l' Islam, come è stato in Occidente per 1300 anni».

Sai anche tu che è impossibile «Fino a pochi decenni fa l' Europa considerava l' islam il suo nemico principale e non ne consentiva la legittimazione. Se non avessimo fermato i guerrieri di Allah con la forza, a Poitiers, Vienna e Lepanto, oggi saremmo completamente sottomessi.

«Bisogna avere la forza intellettuale di ammetterlo».

Ma oggi in Europa vivono decine di milioni di musulmani, la maggior parte dei quali sono moderati, vuoi metterli fuori legge tutti?

«Bisogna distinguere tra le persone e la religione. Gli individui vanno giudicati per i loro comportamenti. Anche io sono stato musulmano, per 56 anni, ma ho sempre anteposto la ragione e il cuore alla fede, recependo del Corano solo quello che è compatibile con le leggi dello Stato. I fedeli possono essere moderati, ma la fede in Allah non lo è, perché prescrive l' odio verso i miscredenti e la loro sottomissione attraverso la violenza. Pensa agli attentati di Pasqua in Sri Lanka: per noi i ragazzi che si sono fatti esplodere sono terroristi, ma nel loro mondo sono considerati dei buoni musulmani, perché si sono comportati come Maometto, che decapitava personalmente i propri nemici, e hanno ottemperato a quanto prescrive la Sunna, ovverosia il codice di comportamento islamico».

Sono stato colpito dal fatto che fossero tutti istruiti, di buona famiglia e con prospettive.

«Come i kamikaze dell' 11 settembre. Mohammed Atta, il capo del commando, era figlio di uno dei più importanti avvocati del Cairo. Sono giovani che, pur accettando la dimensione materiale della modernità, da internet ai soldi ai viaggi, non si riconoscono in quella spirituale. L' Occidente è in decadenza e non attira, perché è relativista, mentre l' islam conquista perché dà certezze: quei giovani hanno sete di valori. Il problema è che quando uno entra in un' organizzazione islamica terroristica, dopo poco si rende conto di essere un morto che cammina, la sua alternativa è farsi esplodere o essere ammazzato per apostasia dai suoi fratelli musulmani».

Ti aspettavi l' attentato di Pasqua?

«Francamente no. Peraltro, poteva essere ben più sanguinoso, visto che è rimasto inesploso un centinaio di ordigni, piazzati anche nelle stazioni. Il vero pericolo mortale però non è il terrorismo, che possiamo sconfiggere perché siamo superiori militarmente e come intelligence, ma l' occupazione capillare che l' islam sta facendo del nostro territorio attraverso la proliferazione di moschee, scuole e centri di assistenza islamici finanziati da Paesi che sono nostri nemici. Per questo dico che l' Europa dovrebbe opporsi a tutto questo e mettere fuori legge l' islam, invece lo legittimiamo, dandogli valore al pari del cristianesimo e dell' ebraismo. Ci siamo addirittura inventati il concetto di islamofobia, attraverso il quale si è introdotto il divieto assoluto di criticare e condannare l' islam».

Pensa che Vittorio Feltri ha subito un processo dall' Ordine dei giornalisti per aver attaccato l' islam in un editoriale dopo una strage.

«È una follia. C' è una strategia in atto per sanzionare ogni critica all' islam. Siamo masochisti: sul Papa e sui cristiani si può dire qualsiasi cosa, perché rientra nella libertà d' espressione, sul Corano invece non è ammesso nulla. Anch' io sono stato processato, l' Ordine voleva radiarmi per islamofobia per le mie critiche a quella religione, ma hanno dovuto rimangiarsi tutto, perché io non ho mai diffamato i musulmani come persone ma l' attacco all' islam è legittimo, anzi è costituzionale, visto che l' articolo 21 della Carta, quello sulla libertà di stampa, consente la critica alle idee».

Perché questa sottomissione culturale all' islam?

«Abbiamo paura. Temiamo la loro reazione violenta e per questo, un pezzo alla volta, ci arrendiamo a essi. E poi ci sono le implicazioni economiche: la necessità di acquisire petrolio e gas dai Paesi arabi e di vendere loro armi, il bisogno di accedere ai fondi sovrani, l' attrazione e la cupidigia verso i loro soldi e i loro investimenti in Europa. Noi ci facciamo invadere dalle loro moschee e dalla loro cultura come contropartita per i soldi che ci danno».

A proposito di Europa, da ex europarlamentare, che direzione sta prendendo?

«Il progetto dell' Unione Europea è globalista, punta a eliminare la sovranità degli Stati e le identità localistiche per creare un unico mega soggetto. Solo così, ci dicono, possiamo competere con i colossi Usa e Cina. Ma è una bugia, in realtà lo scopo è uniformare l' umanità, spalancare le frontiere a un' immigrazione incontrollata e creare un enorme meticciato. Così la gente, senza radici né valori comuni, diventa un semplice strumento di consumo. Stiamo creando un immenso sottoproletariato mondiale di individui che producono al più basso costo possibile. Quello che non dice chi sostiene che dobbiamo competere con Pechino è che in Cina ci sono trecento milioni di ricchi ma un miliardo e duecento milioni di servi della gleba. Questo è il modello che gli eurocrati vogliono replicare nella Ue».

È un processo irreversibile?

«Certo è un errore madornale. Se l' Unione Europea esistesse come comunità politica e non come ente economico dovrebbe mettere al centro non i conti ma la qualità della vita dei propri cittadini».

È la tesi dei partiti sovranisti: li sostieni?

«Nessun politico è davvero sovranista, perché il sovranismo implica l' uscita dall' Unione Europea e dall' euro e, da che i politici hanno capito che la tesi non è maggioritaria, nessuno ne parla più. Specie sotto elezioni».

Se l' Europa si sta sottomettendo all' islam, l' Italia si sta sottomettendo alla Ue?

«Sì, ma sarebbe più corretto dire a Germania e Francia, che sono i Paesi forti dell' Unione. Bisogna sempre partire dai numeri. Nel mondo il denaro virtuale, tra cui i titoli tossici e i derivati, è pari a 33 volte il Pil del pianeta. In Europa questo rapporto è 1 a 44. Significa che c' è una massa di denaro illiquido non convertibile in beni e servizi. A detenerne la percentuale maggiore sono proprio Francia e Germania, la Deutsche Bank è l' istituto di credito più intossicato in Europa, che pertanto hanno bisogno di controllare politicamente gli altri Stati per non fallire».

L' Italia secondo te dovrebbe uscire dalla Ue?

«Uno Stato si fonda su tre pilastri: leggi, moneta e sicurezza. L' Italia ha perso tutte e tre: l' 80% delle norme che regolano la nostra vita arriva sono trasposizioni di normative Ue, abbiamo l' euro e, per rispettare i parametri di Maastricht, siamo costretti a tagli che hanno inciso profondamente sulle nostre forze dell' ordine, che non hanno mezzi adeguati per tutelare il patrimonio pubblico e privato e oggi sono tutelate meno dei criminali. Quanto alla moneta unica, prima del suo ingresso gli italiani avevano un reddito pro capite superiore a quello dei tedeschi. Da che c' è l' euro non è più stato così. Siamo stati il Paese che ha pagato il prezzo più alto alla Ue. L' hanno detto cinque Nobel per l' economia, non io».

Chi e che cosa può salvarci?

«In queste condizioni, nessuno. L' euro ha creato un meccanismo inarrestabile e inestinguibile, con lo Stato costretto a indebitarsi per ripagare i propri debiti. Siccome però lo Stato non può fallire, fa fallire le famiglie e le imprese, strangolandole di tasse. L' Italia è il Paese più tassato al mondo».

Molti italiani sono convinti che Salvini possa salvarci.

«Gli italiani sono sempre alla ricerca del salvatore della patria. Cinque anni fa era Renzi, che fu votato non solo dalla sinistra ma soprattutto dai moderati e dai berlusconiani delusi. Poi si è rivelato uno che predicava bene ma razzolava maluccio. Oggi tocca a Salvini. Dal punto di vista mediatico e di raccolta del consenso è il più bravo, annusa la realtà. Per resistere deve ragionare da statista, pensando alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni».

Sull' immigrazione ti è piaciuto?

«Nel fermare l' ondata di sbarchi si è mosso bene, ma il problema è un altro. Nei 28 Paesi Ue ci sono 500 milioni di abitanti, e solo il 16% di essi ha meno di 30 anni. Nell' area che va dal Marocco all' Iran ci sono altri 500 milioni di persone, il 70% delle quali ha meno di 30 anni. Siamo destinati a essere colonizzati demograficamente. Può salvarci solo una decisa politica per la natalità. Mi sembra che la Lega e Fratelli d' Italia siano i soli a parlarne». Pietro Senaldi

Amis: "Sono anti-islamista". Ecco il coraggio della paura. Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 da Massimiliano Parente su Il Giornale.it. Immaginate se chiedessero a uno scrittore italiano se è contrario all'islamismo, subito farebbe no no con la testolina, per carità. Uno come Martin Amis invece non ha nessun problema a dirlo: "Sono un islamismo-fobo, nel senso di anti-islamista, perché il termine fobia indica una paura irrazionale, e non c'è niente di irrazionale nell'avere paura di gente che dichiara di volerti uccidere". Il bello degli americani (sebbene Amis sia inglese, ma vive negli Stati Uniti da molti anni), è che esistono intellettuali non catalogabili, come da noi, nelle categorie di destra e sinistra. E non prevedibili. Non essendovi dubbio che Amis sia decisamente di sinistra. Ma non della nostra sinistra ammuffita e perbenista.Se già amate i suoi romanzi, potete farvi un'idea del suo pensiero nella raccolta di saggi e interventi scritti nell'arco di un trentennio appena uscita per Einaudi, intitolata L'attrito del tempo. Dentro c'è di tutto e di più, aneddoti personali, riflessioni letterarie, incontri, reportage, pubblicati sulle più importanti riviste degli Stati Uniti. Dove, come afferma Amis, gli scrittori contano ancora qualcosa, in quanto si tratta di "una società di immigrati, sterminata, senza una forma ben precisa, nella quale gli scrittori da sempre occupano una posizione indiscussa perché tutti fin dall'inizio hanno intuito che avrebbero avuto un ruolo importante nella costruzione della proteiforme immensità del paese". Magnifici i suoi articoli su Nabokov, un grande scrittore che oggi in epoca di #metoo rischia di essere messo al bando, basti pensare al suo capolavoro Lolita. Nabokov "si spinge fino ai limiti estremi dell'universo morale" e senza mai tentare una spiegazione, una giustificazione. Che è quello che dovrebbe fare uno scrittore. D'altra parte Humbert bramava "un mondo dove più nulla avrebbe avuto importanza e tutto sarebbe stato permesso", e in Ada o ardore l'amante del sessantenne Van ha addirittura dieci anni. "Bisogna spingersi fino alle frange estreme della letteratura - Lewis Carroll, William Burroughs, il marchese De Sade - per trovare un'attenzione altrettanto morbosa per attività che giustamente consideriamo sempre e comunque imperdonabili". Comunque anche l'America ha le sue pecche nei riconoscimenti tardivi. Basti pensare a uno dei capolavori di tutti i tempi, Moby Dick di Herman Melville: comparve, e scomparve, nel 1851, e già all'età di quarant'anni l'autore era dimenticato e non più pubblicato, ridotto a lavorare in un ufficio della dogana di New York, e "il revival melvilliano è cominciato esattamente cento anni dopo la sua nascita". I classici, insomma, critici e lettori se li sono spesso trovati sotto gli occhi senza accorgersene se non decenni o talvolta secoli dopo. Martin Amis infilza in una lunga invettiva Donald Trump e i suoi elettori, "perché ogni tanto gli americani sentono il bisogno di elevare al rango di eroe uno zotico qualsiasi" (aggiungerei non solo gli americani), elogia lady Diana, "portatrice di una bellezza che faceva apparire brutti i Windsor" e incontra estasiato John Travolta, nel momento in cui tutti se lo erano dimenticato, quando fu riscoperto da Quentin Tarantino, che per Pulp Fiction mise un aut aut ai produttori: "O con Travolta o niente". Ma non solo letteratura e star del cinema, Amis non disdegna di dedicarsi al porno, vedendosi con varie pornostar e con il regista John Stagliano, in un reportage il cui titolo dice tutto, La fica è una presa per il culo, riferendosi alla prevalenza del genere anal. Con tanto di statistiche per tutti i moralisti, da far cascare i capelli a piccole autrici predicatrici femministe nostrane come Michela Murgia o Elena Stancanelli, perché "il porno rappresenta una fetta di mercato più ampia di quella della musica rock e molto più ampia di quella di Hollywood". Tanto per farci un'idea, nel 1975 il valore di mercato totale della pornografia hardcore solo negli Stati Uniti era tra i cinque e gli otto milioni di dollari, oggi supera gli otto miliardi di dollari all'anno. "Qualunque cosa sia la pornografia, qualunque cosa faccia, può non piacere, ma non possiamo cancellarla. Parafrasando Falstaff: chi mette al bando la pornografia, mette al bando il mondo intero". E poi si parla di Burgess, di Updike, di Kubrick, ma non poteva mancare un capitolo dedicato a un altro grande intellettuale britannico naturalizzato statunitense, Christopher Hitchens, scritto quando Hitchens era ancora in vita. Anche lui inclassificabile, di sinistra e feroce avversario di ogni religione ma attaccato dai democratici perché favorevole alla guerra in Iraq contro Saddam e contro ogni dittatore islamico. Ricordando la sua totale indipendenza (in Italia uno come Hitchens sarebbe stato messo al bando da qualsiasi giornale), e quando qualcuno gli diceva che non aveva capito un suo pensiero gli rispondeva: "La cosa non mi sorprende affatto". Citando molte frasi di "The Hitch" diventate celebri, tra cui quella sul matrimonio gay, che "è una questione di socializzazione dell'omosessualità, e non di omosessualizzazione della società. Il che dimostra quanto tra i gay sia diffuso un atteggiamento conservatore, anziché estremista". Oppure un pensiero che toglierebbe a medici come Roberto Burioni il gravoso compito di combattere con documenti e studi ogni panzana dei no-vax: "Se qualcosa si può affermare senza prove, si può anche confutare senza prove". Infine Amis torna a ragionare di letteratura, ma anche qui mettendo in guardia i benpensanti, (le signore mie del nostro Alberto Arbasino) perché "il principio fondamentale della letteratura è il decoro, che è l'esatto contrario della definizione che ne dà il dizionario: comportamento in linea con il buon gusto e la decenza, cioè la sottomissione a un consenso pecoresco".

Gad Lerner grottesco: persino davanti allo Sri Lanka inneggia al 25 aprile. Scrive mercoledì 24 aprile 2019 Ezio Miles su Il Secolo d'Italia. Il terrorismo islamista è l’odierno nemico della nostra civiltà. Le bombe nello Sri Lanka ne sono l’ultima, atroce manifestazione. È un nemico alieno, un nemico che viene da un altro mondo. Lo combattiamo, ma ancora non lo conosciamo nelle sue dinamiche profonde.  L’ultima cosa che dovremmo fare è applicare le categorie dell’ideologismo europeo del Novecento alle belve del Jihad. Non sarebbe solo inutile, sarebbe anche dannoso e fuorviante,  Ma è inutile fare questo  discorso a tipi come Gad Lerner. Il fanatismo di questa gente è tale da portarli a ricondurre sempre tutto ai conflitti del secolo scorso.

Ideologismo come malattia senile dell’intellighenzia. Accade così che l’antifascistissimo Lerner trova il modo di inneggiare al 25 aprile anche di fronte all’orrore per lo stragismo islamista di questi giorni,  Ecco come commenta su Facebook la foto dei terroristi dello Sri Lanka. «Camuffati da guerrieri antichi, i criminali jihadisti dell’Isis rivendicano così il massacro di 359 persone innocenti in Sri Lanka, come vendetta contro i cristiani dopo la recente strage di musulmani nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda. A noi italiani ricorda il metodo della rappresaglia nazista. Viva il 25 aprile». L’ideologismo è diventato  la malattia senile dell’intellighenzia progressista.

La Boldrini (come all’asilo) contro Mario Giordano: “Con te non ci parlo”. Scrive mercoledì 24 aprile 2019 Carlo Marini su Il Secolo d'Italia. Laura Boldrini non si smentisce mai. L’ultima sparata dell’ex presidente della Camera è andata in onda in diretta tv su La7. «Con te non ci parlo», ha bofonchiato nei confronti del giornalista Mario Giordano. La colpa di Giordano? Avere scritto delle notizie che la Boldrini ha definito “bufale”. Il metodo, ovviamente, non è quello che ci si aspetta da una politica che si riempie la bocca di termini come “democrazia”, “tolleranza” e rispetto dell’altro. Concetti che, evidentemente, valgono solo per gli immigrati e non per gli italiani. «Io con Giordano non voglio parlare, con chi scrive bufale da anni, non voglio parlare». Così l’esponente di Leu contro l’ex direttore di Studio Aperto. «No, così non funziona, mi perdoni. Se ogni volta che parlo qualcuno mi deve andare sopra non funziona», le parole dell’ex presidente della Camera, a cui ha replicato il conduttore Floris: «Facciamo così, mi incarico io di fare da passaparola tra una e l’altro». La colpa più grave di Giordano? Portare avanti tesi in favore della famiglia, degli interessi italiani e contro l’immigrazione selvaggia. Tesi che fanno inorridire la sinistra italiana. Una reazione più da asilo Mariuccia che da Montecitorio, ma non è la prima volta che la Boldrini sceglie la linea della “censura preventiva” nei confronti dell’interlocutore. Ma come si legge tra i commenti su Twitter, «la Boldrini sapeva a priori che avrebbe interloquito con Giordano. Il suo modo di imporre la linea al conduttore (“Floris, così non va bene”), delinea solo il suo becero concetto di democrazia. Democraticamente, se non apprezzava il contraddittorio, poteva starsene a casa».

Cacciamo l'islam da casa nostra. L'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà, hanno le mani sporche di sangue dei nostri figli e non sono sazi. Il problema è questo, le altre sono chiacchiere. Scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 23/03/2016, su Il Giornale. Altri attentati, altri morti. Ora non colpiscono neppure più a sorpresa, a freddo, ma rispondono colpo su colpo, come si fa in guerra. Perché quella dichiarata dall'islam all'Occidente è una guerra. Basta con le balle dei «cani sciolti», dell'islam moderato, del dialogo possibile. A poche ore dall'arresto a Bruxelles della belva Salah, membro del commando terrorista che entrò in azione a Parigi quattro mesi fa, volontari islamici si sono fatti esplodere ieri nell'aeroporto e nel metrò della capitale belga, già blindata e in stato di allerta. Hanno riempito le bombe di chiodi per fare più male. Non si fermano, non si fermeranno. Non sono dei disperati, sono la borghesia dell'islam che qualcuno ha definito «integrato», quello di cui dovremmo fidarci. L'islam e il suo Allah sono incompatibili con la nostra civiltà, hanno le mani sporche di sangue dei nostri figli e non sono sazi. Il problema è questo, le altre sono chiacchiere. Fanno leva sul mal interpretato principio della tolleranza occidentale per minare l'Europa là dove fallirono, nel 1571, i loro antenati nella battaglia di Lepanto, ultimo ostacolo alle flotte musulmane verso l'annientamento del cristianesimo. I morti di ieri, come quelli degli anni e mesi precedenti, sono vittime oltre che dell'Isis anche della tolleranza. In nome dell'accoglienza, dell'egualitarismo e del buonismo nessuno li ha difesi, oggi come nei decenni passati, quando il Belgio, primo Paese europeo, spalancò le porte all'immigrazione senza regole e limiti. È la fine che faremo anche noi se non diciamo, ammesso di essere in tempo, subito basta. Basta con le Boldrini, basta con le ricette della sinistra, basta con preti e vescovi che tradiscono il Vangelo, sindaci, presidi e insegnanti che negano il problema e calpestano la Costituzione che è stata fatta per difendere noi, con magistrati che legalizzano l'illegalità. Basta con l'accoglienza «valore assoluto», basta con politici purtroppo non solo di sinistra - che tentennano. Stiamo salvando, nutrendo e allevando i nostri nemici. Lo saranno anche se «moderati», anche se non maneggiano bombe, perché fanno e faranno da brodo di coltura, da rete di protezione e complicità a chi le bombe le metterà. Devono stare a casa loro, devono tornare a casa loro. Non è razzismo, è legittima difesa.

Ho letto l’articolo di Sallusti: “Cacciamo l’Islam da casa nostra”. Scrive il 23/03/2016 Giornalettismo. Oggi il Giornale apre con un titolo a nove colonne: “Cacciamo l’Islam da casa nostra”. Tutti voi ricorderete quello di Libero dopo i fatti di Parigi “Bastardi islamici” e lo sconforto umano e civile che ha provocato, quindi bisognava superarlo, per non essere da meno. E Sallusti, in un editoriale francamente sconfortante, è riuscito nell’improba impresa. Ieri avevamo criticato l’instant marketing di Matteo Salvini sull’attentato di Bruxelles: fra le altre cose avevamo detto che: Cosa vuole ripulire Matteo Salvini? Esattamente come intende rastrellare le “cose” da cui vuole ripulire le città? Come deciderà chi deve essere oggetto di “pulizia” e chi invece no, sempre se intendere fare dei distinguo? Questa ultima domanda è forse la più drammatica, ed è una delle emergenze da affrontare per tentare di affrontare il problema senza lasciarsi andare agli isterismi. Se prima di dar ragione a simili posizioni vi soffermaste a pensare come, secondo voi, davvero, si possano mettere in atto, scoprireste che è impossibile. Che sono soluzioni senza senso. E chi le propone lo sa. La chiosa cade a fagiolo anche per l’editoriale di Sallusti, che molto brevemente dice: i musulmani sono tutti animali incompatibili con l’umanità quindi bisogna cacciarli da “casa nostra”. Ne segue che la sinistra e l’accoglienza hanno rotto le balle, perché questi ci vogliono ammazzare tutti, “difendila! E se fosse tua moglie, tua sorella, tua figlia?” La citazione grafica non è per niente casuale: dimostra che questi sono temi che da sempre sono ricorrenti nelle dinamiche comunicative inerenti una comunità che si sente minacciata, e d’altra parte ci sono fior di studi sociologici e di propaganda che spiegano come questo genere di “chiamata alle armi” serva a “comandare” meglio una società che si sente in pericolo contro l’esterno. Come dicevamo ieri, ovviamente la proposta di Sallusti è irricevibile. E non per la “cultura dell’accoglienza” o altre menate simili buone soltanto a solleticare il tifoso che è in noi. Perché semplicemente non si può fare. Ci sono musulmani italianissimi nati in Italia da famiglie italiane doc e dop: che fate? Li cacciate da casa loro perché la religione che hanno scelto non vi piace? Come decidiamo chi cacciare? In base alla gradazione del colore della loro pelle? Alla lunghezza delle loro barbe? Insomma, impossibile da fare. Inutile da discutere. E Sallusti lo sa. Lo sa benissimo. E perché allora se ne parla? Perché giornalisti e politici lo dicono, se sanno che è impossibile farlo? Perché ci suggeriscono soluzioni che sanno bene siano impossibili da realizzare? Perché Sallusti invoca la cacciata di tutti i musulmani da casa nostra se sa che non si può fare e non per colpa della sinistra, ma perché è tecnicamente impossibile? Già, bella domanda.

·        La Mattanza silenziosa dei cristiani.

Attentato in una chiesa del Burkina Faso: tra le vittime molti bambini. Jacopo Bongini l'1/12/2019 su Notizie.it. Attentato in una chiesa del Burkina Faso: tra le vittime molti bambini. 14 persone sono morte e diverse sono rimaste ferite in un attentato ad una chiesa protestante ad Hantoukoura, nello stato africano del Burkina Faso. Allarme in Burkina Faso, dove intorno alle ore 12 del primo dicembre 14 persone sono morte in un attentato compiuto all’interno di una chiesa protestante ad Hantoukoura, nella provincia di Komandjoari. Stando a quanto riportato dai media internazionali, l’attacco sarebbe stato effettuato da una sigla terroristica jihadista legata ad Al-Qaeda. Un commando composto da 12 persone avrebbe infatti fatto irruzione nella chiesa durante una funzione uccidendo i fedeli presenti.

Attentato a una chiesa in Burkina Faso. Secondo alcune fonti locali le donne sarebbero state risparmiate e le vittime della strage sarebbero dunque tutti maschi, tra cui anche diversi bambini nonché il pastore della comunità religiosa. Attualmente le autorità del luogo hanno provveduto a far partire un’operazione di rastrellamento al fine da rintracciare ed identificare gli autori dell’attentato, i quali sono fuggiti via a bordo di alcune motociclette. Non appena appresa la notizia, il governatorato della regione del Fada ‘n Gourma, al confine con il Niger, ha diffuso il seguente comunicato: “Una chiesa protestante di Hantoukoura, nel dipartimento di Foutouri, al confine con il Niger, provincia di Komondjarie, è stata vittima di un attacco mortale perpetrato da uomini armati non identificati“.

Gli attacchi contro i cristiani. Nell’ultimo periodo sono notevolmente aumentati in Burkina Faso gli attentati contro comunità cristiane, sia cattoliche che protestanti, da parte di gruppi jihadisti locali. Lo scorso 26 maggio 4 cattolici furono uccisi a Toulfe mentre il 13 maggio altri 4 fedeli persero la vita durante una processione religiosa nella cittadina di Zimtenga. Gli attentati dei fondamentalisti islamici sono iniziati circa quattro anni fa, ma nel corso di questo periodo hanno avuto modo di prendere di mira anche individui di religione musulmana, tra cui anche diversi imam.

Venerdì di sangue in Europa. Torna la paura nel nostro continente. Un terrorista ha ucciso 2 persone a Londra. Un folle ne ha ferite altre 2 a L'Aia. Serena Pizzi, Venerdì 29/11/2019, su Il Giornale. È tornato il terrore in Europa. Non che fosse scomparso prima di oggi, ma sembrava che questi folli ci avessero dato una piccola tregua. Prima l'accoltellamento a Londra, sul London Bridge, poi l'accoltellamento a L'Aia, hanno fatto ripiombare il nostro continente nella paura. I fatti del Regno Unito e dell'Olanda hanno sicuramente fatto rivivere (e ricordare) in tutti noi gli spari al mercatino di Natale di Strasburgo dello scorso anno, l'auto che ha investito i pedoni sul Westminster Bridge nel 2017, il camion contro la folla a Berlino nel 2016 e tutti quegli altri attentati di matrice islamica che hanno segnato il nostro passato, presente e futuro. Perché è difficile dimenticare questo genere di violenza immotivata, queste persone che muoiono perché si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato. È impossibile non avere il sangue in gola quando un folle inizia ad accoltellare passanti a caso. Ma nonostante tutto, non dobbiamo avere paura. Loro non devono vincere. Oggi a Londra sono morte due persone e una decina sono rimaste ferite. Il terrorista - che aveva legami con l'Isis, era già stato "condannato per reati di terrorismo" ed era in libertà con un braccialetto elettronico - è stato ucciso. A L'Aia- al momento - ci sono tre feriti (tre minorenni) e il criminale è in fuga. La polizia parla di un "uomo fra i 45 e 50 anni dalla carnagione leggermente scura". Lo stanno cercando. La morte ha portato via queste povere vittime innocenti, ma questo folle poteva chiudere gli occhi a ciascuno di noi. Il vero nodo del discorso è che questo terrore non deve esserci. Questi criminali non devono essere liberi di ammazzare le persone. A Londra, il terrorista è già stato ricollegato all'Isis, a L'Aia non ancora. Ma che siano terroristi o meno, squilibrati o non, questi non devono essere liberi di ammazzare. Non devono essere liberi di decidere sulla nostra vita. Ricorderemo questo venerdì come un venerdì di sangue per l'Europa. Un venerdì di paura, di terrore e di odio. Un venerdì che ha segnato la vita di tutti noi, ma soprattutto di tutte quelle persone che sono rimaste coinvolte nei due attentati. E adesso, che i vari governi, le figure politiche o i benpensanti stiano in silenzio, si riuniscano nel dolore e diano degli assassini a questi criminali conta poco o nulla. Condannare serve, ma serve ancora di più prevenire. Bisogna evitare queste morti, questi massacri, queste follie, questo terrore immotivato. Bisogna evitare che un pazzo decida di uscire di casa con un coltello e ammazzare chiunque gli passi sotto tiro.

 London Bridge 2.0, un Terrore già noto. Piccole Note de Il Giornale il 30 novembre 2019. “Al solito, gli assassini di Londra erano noti alla polizia ed erano stati denunciati”. Iniziavamo così un articolo sull’attentato terroristico, avvenuto sempre a London Bridge ma il 3 giugno del 2017, quando funzionari dell’Isis investirono la folla con un veicolo per poi scendere e iniziare il lavoro di coltello (Piccolenote).

Tutto come allora. Allora i morti furono otto, stavolta due, oltre a diversi feriti. Usman Khan, l’aggressore di ieri, era affiliato a un clan terrorista ed stato condannato per aver progettato un attentato; girava con un braccialetto elettronico. Noto, sorvegliato, e però libero di uccidere… esattamente come la scorsa volta. Anche la dinamica dell’intervento della polizia risulta stucchevolmente uguale alla precedente: anche allora i poliziotti bloccarono a terra gli aggressori e li freddarono. Anche allora si disse nella ricostruzione ufficiale che indossavano false cinture esplosive. E oggi come allora, nessun prigioniero da interrogare, da cui cioè attingere  informazioni preziose sulla rete del Terrore, sui suoi fiancheggiatori e sponsor. Una coazione a ripetere stucchevole. Un film già visto, banalità del male alquanto nota. Peraltro è ovvio che le Agenzie del Terrore hanno eletto London Bridge come luogo simbolo per portare attacchi, da cui certa mancanza di attenzione che si potrebbe definire criminale.

London bridge is falling down. Forse ad attrarre il Terrore è la nota canzoncina “London bridge is falling down”, che legherebbe il destino di un ponte che si vuole cadente, al destino di una nazione. Colpirlo suonerebbe cioè come un monito nefasto per l’Inghilterra stessa, destinata a cadere anch’essa. Una spiegazione come un’altra, ovvio, non ce ne innamoriamo. Resta però che dopo lo scorso attentato si immaginava che il luogo fosse sorvegliato, che ci fosse almeno un poliziotto in zona o fosse stata piazzata una qualche telecamera. Ma i poliziotti sono arrivati dopo l’intervento dei civili, che hanno bloccato e disarmato l’aggressore da soli, evitando altre vittime. E i filmati andati in rete sono riprese da cellulari, nessun video tratto da telecamere di sorveglianza. Tanta leggerezza sconcerta, o forse no.

Davvero i russi sono peggio dell’Isis? Poco da aggiungere se non la celebre frase di John McCain, il senatore repubblicano superfalco venerato come un eroe negli Stati Uniti e altrove, che a una precisa domanda rispondeva che la Russia è una minaccia più grande dell’Isis (alla quale forse si deve questo attacco; e se non è l’Isis è lo stesso, sempre di terrorismo di marca islamista si tratta). Non si tratta dell’enunciato di un pazzo, ma di una massima alla quale si attengono potenti ambiti internazionali legati in vario modo ai neocon e tanta intelligence occidentale, mobilitata così a contrastare l’asserito pericolo russo più che il Terrore. Finché questo atteggiamento perdurerà, la lotta al Terrore sarà sempre in secondo piano. Peraltro l’agitare il pericolo russo impedisce quella necessaria collaborazione internazionale tra Oriente e Occidente che sola può dare efficacia alla lotta al Terrore. Si tenga presente peraltro che il Terrore dalla Siria – dove è risorto dopo il silenzio di al Qaeda – è stato debellato più dai russi che dagli americani, come dimostra l’attuale situazione sul campo, che vede le cellule terroriste sbaragliate nelle aree controllate da Damasco, supportata dai russi, e presenti invece in quelle controllate dai curdi, supportati dagli Usa. Per non parlare dell’enclave di Idlib, al confine siro-turco, area da anni controllata dai terroristi al Qaeda, che i russi vorrebbero riconquistare incontrando il fermo contrasto dell’Occidente, Stati Uniti in testa (simpatico che i media, quando trattato di Idlib, la descrivono come controllata da ribelli anti-Assad). Simpatico, a tal proposito, notare che quando gli Stati Uniti dissero di aver ucciso quello che è considerato il capo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, dissero di averlo colpito proprio a Idlib… in fondo anche lui quando combatteva Damasco poteva esser considerato “ribelle moderato”.

Primavera araba 2.0 e Terrore 2.0. Un’ultima notazione d’obbligo. In questi giorni tutti i giornali occidentali stanno magnificando le proteste che stanno flagellando Iraq e Libano, come segnali incoraggianti di un risveglio popolare contro l’influenza iraniana nei due Paesi. Segnali che vanno in direzione di una Primavera araba 2.0 (Piccolenote). Anche non tenendo conto che l’Iran ha contrastato come e più dei russi il Terrore dilagato in Iraq e Siria, va da sé che tali proteste rischiano di sprofondare l’Iraq e il Libano nel caos, creando nuovi spazi di manovra alle Agenzie del Terrore. Si potrebbe derubricare l’entusiasmo per le proteste a ingenuo abbaglio. Speriamo sia così. Ma il dubbio che anche in questo caso valga la massima di McCain, dati i rapporti tra Iran e Russia e l’avversità verso l’Iran di neocon e affiliati, resta. Questo divagazione serve anche a indicare che se l’attuale fermento mediorientale non trova una qualche soluzione stabilizzante, le vittime contate ieri saranno solo le prime di una nuova stagione del Terrore.

Alla Primavera araba seguì il rilancio del Terrore, di cui l’Isis fu il volto più mostruoso. A una Primavera araba 2.0 seguirebbe un’Isis 2.0.

Terrorismo, Londra, L'Aia e la "rete". Obiettivo, "vendetta di Natale", stragi "rituali" e a basso costo. Libero Quotidiano il 30 Novembre 2019. Dal London Bridge a L'Aia, è il "terrore a basso costo". Come nota Guido Olimpio sul Corriere della Sera, i due attentati avvenuti a poche ore di distanza in Inghilterra e Olanda rappresenterebbero il ritorno a un modello di terrorismo islamico "rituale", e molto più "pratico" per i jihadisti: coltelli e pugnali, armi facili da reperire, nessun particolare addestramento come richiesto invece da gesti eclatanti come ordigni, sparatorie o auto-bombe sulla folla. Una strategia "imprevedibile e replicabile", secondo gli esperti dell'antiterrorismo che ora, a maggior ragione, temono una escalation alla vigilia del Natale, festa considerata dai fondamentalisti musulmani un simbolo cristiano e occidentale da abbattere nel sangue. Il terrorista di Londra, Usman Khan, faceva parte di una rete molto attiva negli scorsi anni e messa fuori legge nel 2012. Quello dell'Aia, ancora in fuga, sembrerebbe il classico lupo solitario. In ogni caso, scrive il Messaggero, dietro c'è l'ombra dell'Isis che prova a rialzare la testa, magari con una "rete leggera" e meno strutturata rispetto a quella che ha seminato morte e terrore in Europa tra 2014 e 2017. Ma sufficiente per progettare un "Natale di vendetta". 

Londra, la sconcertante verità sull'eroe che ha fermato il terrorista: "Strangolata e sgozzata", chi è davvero. Libero Quotidiano il 30 Novembre 2019. Ha fermato a mani nude il terrorista islamico che ha ucciso due persone sul London Brigde a Londra e per questo James Ford è uno degli "eroi" del Black Friday inglese. Ma come rivela il Mail Online, è a sua volta un assassino. Il 42enne era in libertà vigilata proprio come il jijadista Usman Khan, poi ucciso dalla polizia inglese: non per reati legati al terrorismo, ma per la brutale esecuzione di una ragazza di 21 anni, strangolata e sgozzata nel 2004. Incastrato dalla confessione di un appartenente al gruppo dei Samaritani, non ha mai spiegato il motivo dell'efferato gesto (la ragazza, con età mentale di 15 anni, fu ritrovata in un mucchio di rifiuti vicino alla sua casa nel Kent) ed è uscito pochi giorni fa, dopo aver scontato la pena minima di 15 anni. Come ricorda ancora il Mail Online, i parenti della ragazza uccisa hanno scoperto che l'assassino della loro figlia era libero solo grazie ai video dell'attentato. "Non è un eroe, ma un assassino e non dovrebbe essere libero", il loro commento. Strazio nello strazio di una giornata d'orrore. 

"È un pericoloso jihadista". Ma il killer di Londra era libero di uccidere. Il killer di Londra aveva 28 anni ed era in libertà vigilata. Nel 2012 fu condannato per terrorismo e rilasciato nel 2018. Chiara Sarra, Sabato 30/11/2019, su Il Giornale. Aveva 28 anni ed era già conosciuto alle forze dell'ordine perché già nel 2012 era stato condannato per terrorismo e per aver pianificato insieme ad altre 8 persone un attentato. Non solo: era in libertà vigilata e indossava il braccialetto elettronico. Eppure è riuscito ad arrivare con un coltellaccio sul London Bridge e a uccidere due persone prima di finire ammazzato dalla polizia. Il killer di Londra si chiamava Usman Khan e le intelligence lo conoscevano bene. Nel 2010, appena 19enne, faceva parte di un gruppo di jihadisti di origine pakistana, ma residenti a Stoke-on-Trent, Cardiff e Londra. I nove estremisti avevano preparato un piano per far esplodere la Borsa, nel cuore della City, piazzando una bomba nei bagni. Inoltre stavano raccogliendo fondi tra le comunità islamiche britanniche per finanziare un "centro di addestramento militare per terroristi in Kashimir, proprio nelle proprietà della sua famiglia d'origine. Il gruppo era stato trovato in possesso di copie di "Inspire", il magazine in lingua inglese di Al Qaeda e avrebbero in passato anche pianificato attacchi con pacchi bomba. Tra i loro target - oltre alla London Stock Exchange - c'erano l'allora sindaco di Londra, Boris Johnson, il dean di St Paul's Cathedral, due rabbini e l'ambasciata Usa a Londra. Per questo Khan e gli altri otto erano considerati "pericolosi jihadisti" e sono stati condannati nel 2012 al carcere. Nella sentenza il giudice si era persino raccomandato di non rilasciarli, ma il 28enne - spiega il capo dell'anti terrorismo britannico Neil Basu - è rimasto in cella solo fino al dicembre 2018 con la condizionale. Non aveva finito di scontare la sua pena: infatti era in libertà vigilata e, sostengono i media locali, pare indossasse persino il braccialetto elettronico. Resta da capire come una persona che - secondo i giudici - aveva perpetrato una "seria attività terroristica a lungo termine" e pianificasse insieme a un gruppo organizzato di jihadisti di "portare a termine attacchi" in tutta la Gran Bretagna, possa aver ingannato chi lo seguiva nel suo programma di recupero ed eluso i controlli. Pare che prima dell'attentato, Khan avesse partecipato a un evento organizzato dalla Cambridge University nella Sala Fishmonger, intitolato "Learning together".

Attacco anche in Olanda: tre persone accoltellate. Paura a La Aia, nella via principale dello shopping. In fuga un uomo "di carnagione scura". Ha scelto le vittime a caso. Serena Pizzi, Venerdì 29/11/2019, su Il Giornale. Un uomo tra i 45 e 50 anni, ora in fuga, ha accoltellato diversi passati a La Aia, città sede del parlamento olandese e del governo dello Stato. Stando a quanto riferisce l'agenzia Reuters che cita fonti di polizia, tre minorenni sono rimasti feriti nel corso di un attentato in una strada centrale, in una delle vie dello shopping. L'accoltellamento è avvenuto sulla Grote Marktstraat. L'aggressore, infatti, avrebbe accoltellato queste persone che si trovavano nel negozio di Hudson's Bay nel Grote Mark. L'attentatore, un uomo fra i 45 e 50 anni, è ancora in fuga. L'attacco arriva a poche ore di distanza da un episodio di terrorismo avvenuto sul London Bridge a Londra, che ha causato la morte di due persone. Il killer, che indossava un finto giubbotto esplosivo, è stato in quel caso ucciso dalla polizia dopo essere stato bloccato dai passanti. La polizia, spiega il quotidiano de Volskrant, è sulle tracce di un "uomo dalla pelle leggermente scura, con capelli scuri e ricci" di età compresa tra i 45 e i 50 anni, con indosso una maglia nera, sciarpa e pantaloni da jogging grigi. L'aggressore avrebbe accoltellato un numero ancora non precisato di persone che si trovavano in una zona commerciale della città, molto frequentata anche per il "black friday". Una fonte ben informata della polizia riferisce che le vittime sembrano essere state scelte a caso e che l'uomo in questione è un nordafricano. I servizi di soccorso e le forze di sicurezza stanno presidiando la zona, mentre un elicottero della polizia si trova in questo momento a sorvolare la città. Intorno alle 23, la polizia ha fermato un uomo nelle vicinanze di Grote Markstraat. Non si sa ancora se si tratti dell'uomo che era fuggito dopo l'aggressione. Il fermato ha circa 35 anni, indossa pantaloni verdi e una giacca nera con bordure di pelliccia. Ha fatto resistenza mentre gli agenti lo facevano salire su un furgone. Il movente terroristico dell'aggressione al momento non appare l'ipotesi più probabile dell'episodio, anche se non viene escluso.  

Attacco London Bridge, il padre del ragazzo ucciso: "La morte di Jack non sia pretesto per inasprire condanne". Una delle due vittime dell'attentato di ieri a Londra era il 25enne Jack Merritt, laureato a Cambridge. Lavorava per "Learning Together", l'iniziativa per la riabilitazione dei detenuti che aveva organizzato la conferenza alla Fishmongers'Hall dove è iniziato l'attacco. La Repubblica il 30 novembre 2019. Ha un nome la prima delle due vittime dell'attacco di London Bridge, ucciso dal killer Usman Khan, nella sala all'imbocco del ponte in cui il raid è cominciato. Si chiamava Jack Merritt, 25 anni, laureato dell'università di Cambridge, lavorava per Learning Together, l'iniziativa per la riabilitazione per i detenuti che aveva organizzato la conferenza alla Fishmongers'Hall dove è iniziato l'attacco. Il padre lo ha ricordato come "un bello spirito". In una serie di tweet, David Merritt, il padre di Jack dichiara di non volere che la morte del figlio serva da pretesto per un inasprimento delle pene. "Mio figlio Jack, che è stato ucciso in questo attacco, non avrebbe voluto che la sua morte fosse usata come pretesto per sentenze draconiane o per trattenere le persone in carcere senza necessità - ha scritto il padre - riposa in pace Jack, eri una bella persona che stava a fianco dei perdenti". Un  testimone oculare ha riferito a Sky News che Merritt è corso verso la scena dell'attacco nella Fishmongers 'Hall dopo aver sentito le urla all'interno del locale. Khan, armato di due coltelli e con indosso un finto giubbotto suicida, lo ha ucciso insieme a una donna - che non è stata identificata - ferendo altre tre persone prima di essere ucciso a colpi di pistola dalla polizia. Su Twitter si allunga la lista di condoglianze. Il profilo di Jack su Twitter, è ancora attivo. Il padre lo definisce un "campione" per coloro che "avevano perso la via, finendo nel sistema carcerario". La comunità di Cambridge, spiega, è "sconvolta" dalla sua morte. Sulla scia della tragica notizia, gli amici continuano a condividere tributi a Jack. Uno di loro scrive: "David, ho conosciuto tuo figlio attraverso Learning Together e l'ho amato, era la persona più dolce, più premurosa e altruista che abbia mai incontrato". E ancora: "Gentile, una persona di cuore, aveva sempre per chiunque. Insostituibile, piangerò molto per la sua perdita e onorerò la sua memoria".

Attacco a Londra, una 23enne l'altra vittima. Anche lei lavorava al convegno con ex detenuti dove Khan ha colpito. Saskia Jones uccisa con Jack Merritt nella sala dove si teneva la conferenza sulla riabilitazione dei condannati. Usman Khan era tra quelli in libertà vigilata ospitati all'evento; come James Ford, uno di coloro che lo hanno poi neutralizzato. Intanto il premier Johnson annuncia stretta sulla sorveglianza nei confronti di 74 terroristi scarcerati. La Repubblica l'1 dicembre 2019. Si chiamava Saskia Jones e aveva solo 23 anni la ex studentessa dell'Università di Cambridge seconda vittima dell'attacco sul London Bridge di venerdì. La sua identificazione finisce per chiarire del tutto il contesto in cui è nato il dramma londinese. Saskia Jones e il 25enne Jack Merritt, l'altra vittima, erano due giovani laureati di Cambridge che partecipavano al progetto "Learning together", un programma di formazione dell'Istituto di criminologia della prestigiosa università, che prevedeva incontri tra studenti e detenuti, soprattutto tra quelli che hanno intrapreso percorsi di riabilitazione. Merritt era in coordinatore del progetto, mentre Jones vi lavorava come volontaria. Venerdì scorso l'istituto di Cambridge aveva organizzato a Londra un incontro pubblico sulla riabilitazione dei detenuti; incontro al quale erano stati invitati dei detenuti in libertà vigilata. Usman Khan era tra quelli e probabilmente lo stesso invito aveva ricevuto James Ford, il 42enne che aveva ottenuto da poco la libertà vigilata dopo aver scontato 15 anni di prigione per l'omicidio, nel 2003, di una 21enne affetta da lieve ritardo mentale. Quella conferenza, ospitata presso la Fishermongs Halls, storico edificio una volta sede della principale azienda importatrice di pesce per il mercato di Londra, è stata dunque il teatro inziale dell'attacco premeditato di Khan che lì era giunto armato di coltelli e con una finta cintura esplosiva. Da lì sono usciti per inseguirlo e fermarlo, dopo che aveva colpito i due laureati di Cambridge, alcuni di coloro che poi hanno neutralizzato Khan, trattenendolo e disarmandolo fino all'arrivo della forze di sicurezza: sia James Ford, sia Lukasz, il cuoco polacco che è uscito dalla Fishermons Hall brandendo il dente di un narvalo, sia l'uomo non identificato che ha usato un estintore per bloccare l'attentatore. Non è stato identificato neppure l'uomo in giacca e cravatta che nei video postati sui social si vede allontanarsi dal luogo della colluttazione gettando un fazzoletto e tenendo in mano il coltello insanguinato usato da Khan. Non è escluso che anche lui fosse tra gli intervenuti alla conferenza. I familiari di Saskia Jones hanno detto che la figlia aveva "una meravigliosa sete di conoscenza" e aveva fatto domanda per un programma di reclutamento di laureati della polizia perché desiderava specializzarsi nel supporto alle vittime: "Aveva un meraviglioso senso del divertimento - hanno detto - ed era generosa al punto da voler sempre vedere il meglio in tutte le persone". Ieri Jack Merrit era stato identificato come prima vittima dell'attentato al London Bridge. Il vice rettore di Cambridge, Stephen J Toope, ha inoltre fatto sapere che anche alcuni dei feriti sono membri dello staff dell'Università. Tutti avevano preso parte a un evento per celebrare i cinque anni del programma Learning Together. "Quella che sarebbe dovuta essere un'occasione gioiosa per celebrare i risultati di questo programma unico e socialmente importante è stata invece interrotta da un indicibile atto criminale", ha aggiunto Toope. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha annunciato intanto di aver fatto aumentare la sorveglianza nei confronti di 74 terroristi scarcerati prima di aver scontato l'intera pena cui sono stati condannati. Il governo ha deciso l'irrigidimento delle misure di controllo dopo che l'attentato di venerdì effettuato da Usman Khan, rimesso in libertà nel dicembre scorso e sottoposto al braccialetto elettronico. Johnson ha detto alla Bbc: "Facciamo immediatamente questo passo". Johnson vuole anche inasprire le pene, arrivando a un minimo di 14 anni di reclusione per reati di terrorismo. "Questo sistema deve finire, lo ripeto, deve finire", ha detto Johnson, nel mezzo della campagna per le elezioni parlamentari del 12 dicembre. "Se sei condannato per un grave reato di terrorismo, dovrebbe esserci una pena minima obbligatoria di 14 anni e alcuni non dovrebbero mai uscire", ha detto, "questi criminali devono scontare ogni giorno della loro pena, senza eccezioni".

La breve vita di Usman Khan, terrorista al London Bridge: campo per jihadisti camuffato da madrassa. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Il terrorista della strage al London Bridge: da «pendolare» con il Pakistan a «soldato dell’Isis». Dopo otto anni di carcere, libero di circolare con il braccialetto elettronico. Un pericoloso terrorista lasciato libero di circolare per le strade di Londra: questo era Usman Khan, il responsabile dell’attacco al London Bridge dell’altro ieri. Il killer era stato infatti arrestato nel 2010 nel corso di una vasta operazione antiterrore che aveva portato a sgominare una cellula, legata al Al Qaeda, che progettava di far saltare in aria la Borsa di Londra. Khan e i suoi otto complici dell’epoca intendevano inoltre organizzare un campo di addestramento in Pakistan, su un terreno di proprietà della sua famiglia, per «trasformare un numero significativo di musulmani britannici in efficaci terroristi». E la stessa cellula si proponeva di andare in Pakistan per «allenarsi». Durante le indagini che avevano preceduto gli arresti, Khan e i suoi complici erano stati ascoltati discutere i piani per il campo in Pakistan, che doveva essere «mascherato» da madrassa, ossia da scuola religiosa islamica. C’erano tre esiti possibili per la loro azione, sosteneva allora Khan: «La vittoria, il martirio o la prigione». L’ultima l’ha avuta subito, il secondo (per così dire) lo ha trovato venerdì, la prima gli è stata negata per sempre. Durante il processo i complici di Khan avevano ammesso di voler fa esplodere la Borsa, mentre lui aveva confessato solo di aver raccolto fondi. Ma il giudice che li aveva condannati aveva bollato le azioni del gruppo come «una iniziativa terroristica seria e a lungo termine» che avrebbe potuto sfociare in atrocità commesse su tutto il territorio britannico. «L’obiettivo di tutti loro era tornare assieme ad altre reclute trasformate in esperti terroristi allo scopo di condurre attacchi nel nostro Paese». Di conseguenza Khan era stato condannato in un primo momento al carcere a tempo indeterminato, ma nel 2013 aveva fatto appello e aveva visto la sentenza ridotta a sedici anni, con la possibilità di essere preso in considerazione per la libertà condizionata. E a partire dall’autunno scorso lui e i suoi complici erano stati progressivamente rimessi in libertà. Un elemento importante per capire il percorso di radicalizzazione di Usman Khan è la sua affiliazione al gruppo di Anjem Choudary, il famigerato «predicatore dell’odio» islamico che tre anni fa era stato condannato a cinque anni e mezzo per il suo sostegno all’Isis, ma che pure è stato riemesso in libertà l’anno scorso. Khan, prima del suo arresto, aveva partecipato alle manifestazioni del gruppo di Choudary e la sua casa era stata perquisita proprio per i suoi legami col predicatore estremista. Il killer del London Bridge era uno dei migliori «allievi» di Choudary e aveva il suo numero privato sul proprio telefono. Gli esperti di radicalizzazione ritengono che almeno il 25 per cento dei terroristi britannici abbiano qualche legame col gruppo di Choudary e pertanto c’è chi adesso chiede che il «predicatore dell’odio» venga rimesso in galera prima che i suoi seguaci spargano altro sangue. L’avvocato di Kahn ha tuttavia sostenuto ieri che l’attentatore, durante il periodo trascorso in carcere, si era allontanato dall’estremismo islamico e aveva chiesto di essere messo in un programma di de-radicalizzazione, ma che non gli era stato dato ascolto. Di conseguenza, una volta tornato in libertà, sarebbe stato di nuovo «circuito» dagli islamisti.

L’attacco a Londra, omicida in libera uscita tra i passanti coraggiosi che hanno fermato il terrorista. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. C’è un risvolto al limite dell’incredibile — rivelato dai tabloid online britannici — nell’intervento dei passanti riusciti a immobilizzare il jihadista Usman Khan che stava seminando il terrore per London Bridge. Uno di loro è un femminicida di 42 anni — James Ford, evidentemente in libertà vigilata proprio come il terrorista che aveva il braccialetto elettronico — accusato di aver ucciso nel 2004 una ragazza, Amanda Champion, il cui cadavere venne trovato abbandonato su un mucchio di rifiuti vicino alla sua casa di Ashford, nel Kent. La vittima aveva 21 anni, ma un’età mentale da bambina. La vicenda viene raccontata dal Daily Mail, la cui redazione è stata contattata dai familiari della povera Amanda che hanno riconosciuto Ford nei servizi televisivi di queste ore. Il Mail riporta, tra l’altro, che fonti di sicurezza hanno confermato la presenza dell’uomo sul London Bridge. La zia di Amanda, Angela Cox, 65 anni, ha dichiarato al giornale: «Quell’uomo non è un eroe. È un assassino in libera uscita, circostanza di cui noi come famiglia non sapevamo nulla». Che Ford fosse intervenuto per fermare Khan, la donna lo ha appreso, a sua volta, da un funzionario di polizia che conosceva. L’agente le avrebbe telefonato dicendole: «Hai sentito di quel che sta succedendo a London Bridge? Guarda chi compare in video...». «Io non sapevo ancora nulla e ho acceso la tv — è il suo racconto — imbattendomi nel volto di quell’uomo, un assassino a sangue freddo. Non mi interessa quello che ha fatto oggi. È una feccia. Amanda era mia nipote, era una ragazza vulnerabile e le ha tolto la vita». Quanto al femminicidio, Ford — nella vita operaio e lottatore dilettante — venne arrestato dopo che un operatore di un’associazione religiosa di volontariato confidò alla polizia che un uomo aveva telefonato al centralino della sede, addirittura 45 volte, per dire che voleva suicidarsi per via di un atroce crimine che aveva commesso.

Alberto Custodero per repubblica.it il 30 novembre 2019. C'è una storia nella storia di questo nuovo episodio terroristico di Londra. L'aggressore, prima dell'arrivo della polizia, è stato affrontato e bloccato da alcuni civili. Uno di questi eroi, che si è buttato addosso al terrorista cercando di salvare la vita di una donna, è James Ford, un assassino che da poco ha ottenuto - come il terrorista - la libertà vigilata. lo rivela il Mail online. Uno strano gioco del destino ha voluto che proprio lui, condannato per aver ucciso una donna a coltellate, diventasse eroe per un giorno per aver difeso una donna dal coltello di Usman Khan. Ora 42enne, Ford è stato incarcerato a vita - con una pena minima di 15 anni - nell'aprile 2004 per l'omicidio di Amanda Champion, strangolata e sgozzata: il suo corpo fu  trovato abbandonato su un mucchio di rifiuti vicino alla sua casa di Ashford, nel Kent, nel luglio precedente. Aveva 21 anni, ma un'età mentale di 15. Ai tempi del delitto la polizia non aveva indizi, la svolta nelle indagini arrivò quando un dipendente dei Samaritani - infrangendo la rigorosa politica di riservatezza dell'organizzazione - confidò alla polizia che Ford (allora operaio in fabbrica e lottatore amatoriale) aveva telefonato decine di volte confessando di avere ucciso una ragazza e minacciando di suicidarsi. Una volta arrestato, non ha mai dato spiegazioni al suo gesto. I parenti della donna uccisa hanno saputo solo ieri, vedendo i video in televisione, che era stato liberato. Commentando l'accaduto, hanno dichiarato di non considerarlo affatto un eroe, ma un assassino. E di essere contrari alla sua liberazione.

Da ilmessaggero.it il 30 novembre 2019. C'è un'immagine dell'attacco sul Londron Bridge che più di ogni altra sta facendo il giro dei social: è quella in cui si vede l'assalitore messo all'angolo da due passanti armati uno di un estintore e l'altro di una zanna di narvalo. Il Daily Mail pubblica in esclusiva non solo le foto ma anche il video del coraggioso intervento dei due uomini che sono riusciti a bloccare il terrorista prima che la polizia lo uccidesse. Una zanna di narvalo? Perché un automobilista a Londra avesse con un sé una zanna di narvalo (non commercializzabile o esportabile) è una storia nella storia, un dettaglio impazzito in una vicenda tragica, che verrà magari chiarita oggi: il narvalo è un cetaceo  dei mari artici che ha solo due denti nell'arcata superiore uno dei quali non si sviluppa mentre l'altro, nei maschi, si allunga fino a 3 metri. Questi denti non servono per mangiare o cacciare, mentre quello più sviluppato, ricco di terminazioni nervose, forse è usato dal narvalo (parola norvegese) per orientarsi "sentendo" temperature dell'acqua e correnti. 

"Il pensiero è rivolto alle famiglie delle vittime". La Regina Elisabetta parla dopo gli attacchi di Londra. Dopo l'attentato che ha stravolto il centro di Londra, la Regina Elisabetta esprime in un post sui social tutto il dolore e la vicinanza al popolo inglese. Carlo Lanna, Domenica 01/12/2019, su Il Giornale. L’assalto di un lupo solitario al cuore di Londra, avvenuto qualche giorno fa nei pressi del London Bridge, ha fatto piombare (di nuovo) tutto il Regno Unito nella paura del terrorismo. Sotto colpi di Usman Khan sono morte due persone e altre tre ne sono restate gravemente ferite. Il killer è stato braccato dalle unità e poi è stato freddato da diversi colpi di arma da fuoco. L’evento ha scosso nel profondo la società inglese, già segnata da diversi dissidi politici. Per fortuna la Regina Elisabetta resta un faro di speranza per tutti i cittadini, una voce calda e pacata su cui contare e su cui poter far affidamento. La sovrana infatti, dopo un momento di meditato silenzio, dal suo staff ha fatto diramare una nota sul profilo social della Royal Family, come atto di grande umanità per tutta la popolazione. Poche righe appena in cui Elisabetta ha dimostrato la sua vicinanza alle vittime e, soprattutto, spezzando una lancia a favore delle forze dell’ordine che sono intervenuti immediatamente, permettendo così di evitare che la situazione potesse diventare più grave del previsto. "Il principe Filippo ed io siamo molto rattristati per gli attacchi terroristici di London Bridge che hanno sconvolto la città – si legge nella nota pubblicata sui profili social della famiglia reale -. Inviamo i nostri pensieri, le preghiere e la più profonda solidarietà a tutti coloro che hanno perso i cari e che sono stati coinvolti nei terribili atti di violenza". La parte finale del toccante messaggio poi è rivolta alle forze dell’ordine e ai passanti che hanno aiutato nei primi soccorsi, ancor prima che le ambulanze arrivassero sul luogo del misfatto. "Inoltre la nostra più profonda gratitudine va alla polizia, ai servizi di emergenza e alle coraggiose persone che hanno messo a rischio la loro vita per proteggere gli altri". Infatti come hanno riportato le notizie che si sono susseguite in quei brevi ma intensi attimi di terrore, sono stati proprio alcuni passanti coraggiosi che hanno bloccato la furia cieca dell’assalitore, impedendo che la conta delle vittime potesse aumentare considerevolmente. Una lode è arrivata non solo dalla Regina Elisabetta, ma anche dallo stesso premier Boris Jhonson che ha ringraziato le persone che sono state coinvolte in uno “straordinario atto di coraggio per proteggere la vita degli altri”. Per fortuna la paura è rientrata, ma c’è una nuova ferita nel cuore del Regno Unito.

L’Isis rivendica l’attacco a Londra: l’aggressore era un combattente. Laura Pellegrini l'01/12/2019 su Notizie.it.  Nella serata di sabato 30 novembre l'Isis ha rivendicato l'attentato al London Bridge: Usman Khan era considerato un "combattente". Site, il sito di monitoraggio della galassia jihadista, ha riferito che l’Isis ha rivendicato l’attacco al London Bridge avvenuto nel pomeriggio di venerdì scorso. Da quanto si apprende, inoltre, l’assalitore, Usman Khan era considerato un “combattente”. Il 28enne era stato condannato nel 2012 e dal 2018 era in libertà vigilata, rilasciato “su licenza”. Inoltre, aveva partecipato a un programma governativo di deradicalizzazione e riabilitazione dei detenuti estremisti. Nella serata di sabato 30 novembre l’Isis ha rivendicato l’attentato al London Bridge di venerdì scorso, affidato all’agenzia di propaganda “Amaq”. Da quanto si apprende, il bilancio sarebbe di due morti (un uomo e una donna) e tre feriti; l’attentatore, invece, è stato ucciso dalla Polizia. Diversi media locali, inoltre, hanno riferito che il 28enne indossava un braccialetto elettronico alla caviglia. Il ragazzo di origini pachistane ma residente nello Staffordshire, in Inghilterra, avrebbe dovuto scontare 16 anni di carcere. Dopo appena 7 anni dietro le sbarre, però, era stato rimesso in libertà vigilata “su licenza”. Era considerato un “combattente”. Il viceministro dell’Interno e responsabile del portafogli della Sicurezza Nazionale inglese, Brandon Lewis, ha riferito ai media: “Dobbiamo e vogliamo fare una valutazione completa” sul caso. Johnson, inoltre, aveva già definito nei gironi scorsi, “un errore consentire a criminali violenti di uscire di prigione in anticipo”. La comandante di Scotland Yard Cressida Dick, infine, ha spiegato che “allo stadio attuale dell’indagine”, la pista rimane quella di un attacco solitario e isolato.

Il fallimento della de-radicalizzazione. Laura Cianciarelli l'1 dicembre 2019 su it.insideover.com. Il terrorismo bussa di nuovo alla porta dell’Europa. Venerdì scorso (29 novembre), poco prima delle 14:00, un giovane di 28 anni, cittadino britannico con origini kashmire, ha accoltellato a morte due persone e ne ha ferite altre tre nei pressi London Bridge. Una scena già vista per il popolo britannico: due anni fa (4 giugno 2017), proprio sul London Bridge, un furgone ha investito una ventina di pedoni per poi schiantarsi sulla riva sud del Tamigi; poco dopo, i tre attentatori – simpatizzanti dello Stato islamico – hanno raggiunto il vicino Borough Market, sparando sulla folla e accoltellando almeno 7 persone. Sono trascorsi due anni tra il primo e il secondo episodio; un periodo cruciale nella lotta contro il terrorismo jihadista, durante il quale si è assistito alla caduta del Califfato (marzo 2019) e all’uccisione di Abu Bakr Al-Baghdadi (ottobre 2019). Ma come dimostrato dagli eventi, il terrorismo non può essere considerato definitivamente sconfitto.

L’attentatore. A ventiquattro ore dall’attacco terroristico che ha sconvolto Londra, emergono nuovi dettagli sulla figura dell’attentatore. Usman Khan. Simpatizzante di Al-Qaeda, è stato arrestato per la prima volta nel 2010, per aver partecipato alla pianificazione di un attentato: una bomba nelle tubature idriche, nei pressi della Borsa di Londra. Ma non è l’unica accusa: insieme ad altre otto persone, Khan stava raccogliendo denaro per fondare un “centro di addestramento militare per terroristi” in Kashmir; una struttura che sarebbe sorta in un terreno di proprietà della famiglia Khan. Il viaggio di sola andata per il Kashmir era previsto per il gennaio 2011. Dopo un anno di custodia cautelare e dichiarandosi colpevole del fatto, nel 2012 Khan è stato condannato a una “pena indeterminata” per reati connessi al terrorismo. Il giudice competente ha definito il suo piano “un’impresa terroristica seria e a lungo termine”, descrivendo Khan come una “minaccia per la sicurezza pubblica, da non scarcerare”. Nel 2013, il ricorso in appello: la pena viene fissata a 16 anni di carcere, più 5 di libertà vigilata. Ma così non è stato, e il giovane è stato rilasciato nel dicembre 2018 con la condizionale, dopo aver trascorso “soltanto” otto anni in carcere.

I programmi di de-radicalizzazione. Monta, quindi, la polemica in Gran Bretagna, su come sia stato possibile per un soggetto in libertà vigilata – con indosso il braccialetto elettronico e, quindi, costantemente monitorato dalla polizia – realizzare un attacco terroristico nel centro di Londra. Ma c’è di più: già nel 2012, l’attentatore aveva fatto domanda per partecipare a un corso di de-radicalizzazione, volendo dimostrare di essere cambiato. “Vorrei partecipare a questo corso” – aveva dichiarato il giovane – “per provare alle autorità, alla mia famiglia e alla società che non ho più le stesse opinioni di prima del mio arresto. Allora ero immaturo, mentre ora sono molto più maturo e voglio vivere come un buon musulmano e un buon cittadino britannico”. Parole al vento: proprio mentre stava frequentando un corso di questo genere – una conferenza organizzata dall’Università di Cambridge sulla riabilitazione dei criminali presso il Fishmongers’ Hall – Khan ha dato il via all’attacco terroristico. Pur non essendo ancora chiaro se il giovane sia stato effettivamente inserito in un programma di de-radicalizzazione, la Gran Bretagna ha già sottoposto molti returnee dell’Is a due progetti di questo genere: “Prevent” – un programma di prevenzione della radicalizzazione – e “Channel” – mirato ad aiutare gli individui a rischio di radicalizzazione -. Purtroppo, però, ancora oggi, questi programmi risultano molto lacunosi e gli effetti della loro efficacia ancora ignoti. Nel 2019, il programma “Prevent” è stato sottoposto a un processo di revisione indipendente, dopo essere stato definito “ingiusto, discriminatorio e contro produttivo” dalle comunità musulmane e dagli attivisti per i diritti umani. L’incertezza in merito all’effettiva efficacia dei programmi di de-radicalizzazione è legata anche al fatto che alcuni attacchi terroristici nel Paese sono stati compiuti proprio da partecipanti al programma. È il caso, ad esempio, Ahmed Hassan, responsabile dell’esplosione su un treno della linea District alla stazione metropolitana di Parsons Green (settembre 2017). Il tema della de-radicalizzazione, attraverso programmi ad hoc, rimane in primo piano non solo per la Gran Bretagna, ma per tutta l’Europa. La recente decisione della Turchia di rimpatriare forzatamente i foreign fighter europei che si trovano sotto la sua custodia non fa che renderlo più drammatico.

Terroristi della tolleranza, due anni e mezzo più tardi…Augusto Bassi il 30 novembre 2019 su Il Giornale. You must RUN, HIDE, TELL. Questo il vivido tweet della City of London Police dopo gli «incidenti» di questa notte. Correre, fuggire verso un posto sicuro; silenziare i telefoni e barricarsi; chiamare il 999. Allarmante ed esilarante vademecum – se anche nel tragico si preserva il senso del ridicolo – di una comunità sotto assedio, la nostra. Inebetita, inerme, impotente. «Integralisti dell’accondiscendenza» avevo titolato il 30 maggio. Ma forse non è più il caso di essere così accondiscendenti. Siamo nelle mani di autentici terroristi della tolleranza; criminali di pace che hanno sgozzato la verità minimizzando l’orrore, esorcizzandolo con una benevolenza artefatta e suicida, che ancora stanotte parlavano di «gravi incidenti» per ciò che era appena accaduto a Londra. Martiri del dio Perbenino che hanno trascinato un’intera civiltà nella crociata benpensante, la più grottesca di cui la storia abbia memoria. Campagna in cui ci si arma per non offendere, per non turbare, per comprendere, per integrare il nemico che ti scanna. Ebbene, lo abbiamo integrato: ora ci scanna fra le mura di casa, a giorni alterni e di buona lena. Ma di nuovo, da domani torneranno a definire «scioccante» ciò che continua a ripetersi – Jeremy Corbyn già lo ha fatto poche ore fa – a non capacitarsi, a interrogarsi sulla matrice: sarà stata responsabilità di una cellula già nota alle forze di sicurezza o l’improvvisata azione di lupi solitari? Dove hanno sbagliato i servizi segreti? Che sia stato un errore abbassare il livello di allerta dopo i fatti Manchester? Eppure sotto le braci della titubanza brucia ancora l’orgoglio di una qualche consapevolezza. Fiammeggia la baldanza di chi non ci sta a darla vinta ai fondamentalisti. Manifestando timore, spiegano gli statisti progressisti più avvertiti, lasciandoci prendere dall’emotività, faremmo soltanto il loro gioco. La paura è il miglior alleato del terrorismo e conduce dritto al populismo. Perché le stragi alimentano l’insicurezza e l’insicurezza nutre le destre demagogiche, reazionarie, razziste. Populista come certamente è Magdi Cristiano Allam, che proprio su queste pagine ebbe a scrivere: «I governi che ci esortano a “non modificare il nostro stile di vita” ci renderanno presto schiavi dell’Islam». Financo un poco razzista, va da sé. Ma come dovremmo comportarci allora nei momenti di maggiore inquietudine? Con spavalderia? Passeggiando nel periglio con piglio blasé? Che cosa suggeriscono l’intelligence, l’antiterrorismo, la pubblica sicurezza? Scappate… svelti! Nascondetevi! Barricatevi! Chiamate il 999! Tutto questo fu scritto il 4 giugno 2017. E ancora scappiamo.

Il ruolo dell’Italia tra jihadismo internazionale e islamismo radicale. Giovanni Giacalone su it.insideover.com il 30 novembre 2019. L’Italia è da tempo diventata un centro logistico e di supporto al jihadismo. Ma non c’è soltanto questo. Vi è infatti tutto quel filone legato all’islamismo politico, di stampo radicale e ideologicamente vicino alla Fratellanza Musulmana, che risulta più attento nel muoversi con l’obiettivo di acquisire legittimità sia sul piano mediatico che politico; un fenomeno non violento, ma che non può non destare preoccupazione per le sue espressioni radicali e i relativi collegamenti con Paesi che hanno sostenuto e che sostengono gruppi armati che agiscono in nome del jihad. Bisogna però affrontare il discorso con la dovuta attenzione, evitando di sovrapporre contesti che magari si muovono su terreno comune ma che si differenziano per natura, dinamiche e modus operandi. Accomunare in maniera inappropriata le diverse espressioni di un fenomeno complesso e poliedrico come quello islamista rischia infatti non solo di creare confusione e dunque di non permetterne un’adeguata comprensione, ma anche di complicare l’implementazione delle necessarie misure per contrastarne l’operato.

Un comun denominatore ideologico. Prima di passare al fenomeno jihadista in contesto italiano è bene aprire una breve parentesi sulla differenza tra islamismo politico (radicale) e jihadismo. Troppo spesso la questione viene infatti affrontata in modo riduttivo, identificando i Fratelli Musulmani (attualmente la massima espressione dell’islamismo politico) come filone “moderato” che negli anni ’80 in Egitto ha deciso di dissociarsi dalla lotta armata (jihad) per cercare di inserirsi all’interno di meccanismi istituzionali dopo aver brillantemente infiltrato la società egiziana su più livelli. Tale lettura semplificata porta infatti a pensare che i Fratelli Musulmani abbiano improvvisamente accettato i meccanismi istituzionali (e in alcuni casi democratici) rinunciando dunque al “jihad” (inteso come lotta armata) come mezzo per raggiungere il potere. Da qui al cercare di sdoganare il movimento indicandolo come “forza islamica democratica” è un attimo ed è anche un grosso errore di valutazione, come hanno del resto dimostrato gli esecutivi “democraticamente eletti” in Egitto con Mohamed Morsi e in Turchia con Recep Tayyip Erdogan, che di democratico hanno manifestato ben poco a parte le modalità con le quali sono andati al potere (ed anche su questo si potrebbe aprire una lunga discussione). Siccome per comprendere la reale natura di un partito, gruppo o organizzazione non ci si può fondare soltanto su ciò che dice ma piuttosto sulla comparazione tra il dichiarato e quanto messo poi effettivamente in atto, è sempre bene analizzare i fatti. In aggiunta, è bene tener presente come la scelta o meno di abbracciare la lotta armata riguardi esclusivamente il modus operandi dell’organizzazione in questione. I principi ideologici e gli obiettivi a lungo termine non sono però di secondaria importanza. Il cosiddetto islamismo politico è pronto a rinunciare alle idee di Hassan al-Banna? Sayyid Qutb? Come pensa di porsi questo filone ideologico nei confronti della separazione tra religione-politica e società? E per quanto riguarda lo Stato fondato sulla Sharia come unica fonte legittima? Come intendono porsi gli islamisti nei confronti degli omosessuali? Nei confronti dei musulmani che decidono di abbandonare la propria fede? Che dire poi di quegli spazi socialmente separati e sulla separazione tra uomini e donne, ancora messi in atto da gruppi islamici italiani che si definiscono “moderati”? Queste sono alcune delle tematiche su cui far leva, perchè non è sufficiente dire di aver abbandonato la lotta armata se poi i principi ideologici che si portano avanti sono agli antipodi della democrazia e della libertà di pensiero e di attuazione. E’ bene ricordare che fu proprio la guida spirituale dei Fratelli Musulmani, Yusuf Qaradawi (lo stesso che ha invocato il jihad contro Assad in Siria e la resistenza contro al-Sisi in Egitto) nel suo documento “Towards a Worldwide Strategy for Islamic Policy” a parlare di “flessibilità” intesa come strategia che incoraggia gli islamisti ad adottare temporaneamente valori occidentali, senza deviare dai principi basi dell’Islam. L’obbiettivo è chiaro: infiltrare i vari sistemi politici, sfruttandone i meccanismi a seconda del contesto di riferimento. Una strategia forse più pericolosa della lotta armata. Secondo quanto rivelato dal libro “Qatar Papers” l’Italia risulta oggi essere il principale paese europeo dove i Fratelli Musulmani spingono per ottenere spazio. Le attività dei principali due Paesi sponsor della Fratellanza (Turchia e Qatar), anche in relazione alla politica estera italiana in Libia, erano tra l’altro già state esposte qualche giorno fa.  Del resto il Viminale ha recentemente dato il via libera alla sanatoria su Milano per la moschea turca di Mili Gorus, considerata la “lunga mano” di Erdogan in Europa; ennesima mossa azzardata.

Il jihadismo e l’Italia. Se da una parte c’è tutta la questione legata all’islamismo politico radicale, dall’altra c’è quel fenomeno jihadista che in Italia ha mostrato tratti distintivi rispetto agli altri Paesi europei, sia sul numero di foreign fighters partiti per i territori di guerra siriani-iracheni che per la quasi assenza di attentati in territorio italiano (a parte alcuni casi ricollegabili a soggetti che si sarebbero mossi di propria iniziativa, senza il sostegno di un’organizzazione vera e propria alle spalle; aspetto che non esclude però eventuali contatti non-strutturati). Sulle cifre dei foreign fighters partiti dall’Italia si è tanto parlato, con una cifra totale che si aggira intorno ai 125 di cui meno di una ventina con effettiva cittadinanza italiana, mentre negli altri casi si tratta di extracomunitari residenti o transitanti in territorio nazionale. C’è però un punto fondamentale che riguarda la tipologia di foreign fighters. Sotto certi aspetti infatti, sembra quasi che vi sia una pseudo-classificazione ufficiosa e non totalmente sdoganata, secondo cui chi si è arruolato nell’Isis è ritenuto a tutti gli effetti foreign fighter jihadista e soggetto pericoloso; chi si è unito ai qaedisti come l’ex Jabhat al-Nusra, oggi Hayyat Tahrir al-Sham è in una zona grigia (magari in base anche alle relative esigenze politiche internazionali) e i cosiddetti “ribelli moderati”, seppur magari ferocemente islamisti, sono invece tollerabili in quanto appunto “moderati”, oppure “siriani che decidono di rientrare nel proprio Paese per combattere perché dopotutto c’è una guerra e comunque Assad ha messo in atto un genocidio”, considerazioni palesemente soggettive che non possono avere alcuna valenza analitica, ovviamente. Un caso eclatante è quello di Haisam Sakhanh, elettricista residente per lungo tempo nel milanese e condannato all’ergastolo da un tribunale svedese per aver partecipato al massacro di militari siriani disarmati, tutto ripreso in video. Oltre a Sakhanh vi sono poi diversi suoi “confratelli” arruolatisi nei gruppi armati anti-Assad. Sorge lecito a questo punto chiedersi se debbano essere considerati “jihadisti” o “miliziani”. Del resto, come affermato dal direttore dell’International Center fot Counter-Terrorism di Herzliya, Boaz Ganor, il confine tra terrorista e “combattente per la libertà” spesso combacia con differenti visioni e necessità politiche. Due parole vanno inoltre dedicate anche a coloro che si sono arruolati nelle file di Jabhat al-Nusra/Hayyat Tahrir al-Sham, gruppo apertamente qaedista; per essere chiari, chi si è unito a questo gruppo si è di fatto unito ad al-Qaeda, principale “nemico dell’Occidente” dopo l’11 Settembre 2001. Poi si può fare tutto il vittimismo che si vuole sulle ragioni per cui dei “poveri ragazzi” sono stati attirati nelle grinfie di questo o quel gruppo. Come già precedentemente detto però, sono i fatti che segnano il destino, non le parole.

Italia come centro logistico e di supporto al jihad. L’Italia è fin’ora risultata immune da attentati  di matrice jihadista del calibro di quelli perpetrati in Francia, Germania o Gran Bretagna, questo lo si è più volte fatto notare e ci si è anche chiesti il perchè, arrivando addirittura a ipotizzare accordi segreti in stile “Lodo Moro”. In realtà è noto alla stampa come vi siano stati alcuni tentativi di colpire in territorio italiano, come nel caso della ben nota cellula kosovara fermata a Venezia prima che potessero mettere in atto il piano. È bene poi ricordare gli arresti avvenuti a Napoli tra aprile e giugno del 2018, dei gambiani Sillah Ousman e Alagie Touray. I due avevano partecipato a un addestramento militare in un campo mobile in Africa dove si addestrano i futuri kamikaze dell’Isis ed erano pronti a compiere attentati in Europa.  Non va dimenticato che l’Italia ha una lunga esperienza nel contrasto al terrorismo (sia rosso che nero) negli anni ’60 e ’70, fattore da non trascurare quando ci si chiede il perchè sull’assenza di attentati. Bisogna però tenere anche presente che l’Italia, grazie alla sua particolare posizione geografica, svolge un ruolo di primaria importanza per quanto riguarda il transito di jihadisti, sia tramite “rotta africana” che per quella “balcanica”. Sono infatti numerosi i jihadisti che hanno transitato o persino risieduto in Italia, tra cui il ben noto Anis Amri, che ha anche trovato la morte in territorio italiano. Sono risultate poi numerose le cellule di propaganda e reclutamento su tutto il territorio nazionale, da Bari a Belluno, isole incluse. Numerosi sono inoltre risultati i predicatori/reclutatori itineranti attivi in Italia, tra cui il bosniaco Bilal Bosnic, che ha girato in lungo e in largo il nord Italia prima di venire arrestato dalla Sipa. Se dunque l’Italia ha svolto un ruolo di “ponte” per i jihadisti, sciocco sarebbe andare a colpirlo.

Paolo Borrometi e il sogno di Antonio Megalizzi: «Lui un esempio per tutti». Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. Morto Antonio Megalizzi, l’italiano ferito nell’attentato al mercatino di Strasburgo. Sembra di vederli, Mimmo e Anna Maria seduti sul sedile posteriore mentre Luana guida e Federica le fa da navigatore. Forse si tengono per mano, aggrappandosi all’unico pensiero accettabile, che il figlio sia ancora vivo. E invece arriva una telefonata a Federica, la sorella di Antonio: le dicono che è stato colpito in testa da un proiettile. «Cala il gelo — racconta Luana Moresco, la fidanzata —. Nessuno ragionava più, solo dolore e pianto». Il sogno di Antonio non è un libro «su» di lui, ma un libro «per» lui. Paolo Borrometi lo chiarisce subito nel prologo del saggio che ha scritto per Solferino, in libreria dal 21 novembre (186 pp., 18 euro). E lo rimarca per telefono parlandoci di Antonio Megalizzi, una delle cinque vittime degli attentati ai mercatini di Strasburgo dell’11 dicembre dell’anno scorso. ««Era tutto quello che un ragazzo della sua età dovrebbe essere. Ma non gli sarebbe piaciuto che qualcuno scrivesse un libro per commemorarne la memoria rendendolo un martire o un eroe. E nemmeno diventare un simbolo di chissà quale “meglio gioventù”. In lui mi sono rivisto, la sua passione è stata la mia. Io oggi sono vicedirettore dell’Agi, ma fino a ieri ero un giornalista precario, quando sono stato aggredito nel 2014 prendevo 3,10 euro lordi ad articolo». Il libro parte dall’alba del 10 dicembre, Antonio aveva lavorato fino a mezzanotte, mamma Anna Maria si era alzata alle quattro per preparargli il caffè, lui era diretto a Milano per prendere il Flixbus per Strasburgo dove avrebbe seguito la plenaria del Parlamento europeo. «Vado e vengo. È che devo farcela. Punto!», aveva scritto agli amici. Ma a Luana aveva detto: «Questa volta non voglio partire». Non era una premonizione, Antonio non credeva nel destino, ma nell’impegno di ognuno a «rendere magiche le cose belle e meno tragiche quelle brutte. È il nostro escamotage preferito per dare un senso forzato a cose che un senso non ce l’hanno». La cosa più insensata di tutte gli accade passeggiando tra i mercatini di Strasburgo. «È successo in un istante», racconta Caterina Moser, l’amica con cui aveva condiviso la trasferta per Europhonica, il format internazionale delle radio universitarie europee. L’ultima immagine che lei ha è quella di «Antonio che sorride a Bartek, loro due che parlano intensamente, come facevano sempre». Bartek, il polacco Barto Pedro Orent-Niedzielski, muore pochi giorni dopo a causa dei colpi di Cherif Chekatt. Antonio si spegne il 14 dicembre. Il seguito, è un viaggio nella vita e nei testi che scriveva, sempre in quel modo semplice e diretto di spiegare le cose difficili in modo facile. La Brexit? «Immaginate di giocare la Champions senza il Manchester United, l’Arsenal, il Chelsea e il Liverpool». La post-verità? «Una verità che ognuno di noi ritaglia a proprio piacimento». Il voto? «Il rumore di una matita sulla scheda di voto sarà anche minimo, ma il suo effetto potrebbe generare un boato assordante». «Ho avuto il privilegio di accedere al telefonino di Antonio, ai suoi scritti. Ho letto cose che resteranno solo dentro di me», spiega Borrometi, sotto scorta da quasi sei anni per le minacce della mafia. «Fin dalla prima sera che ho cenato a casa con i genitori e la sorella, il 31 gennaio scorso, mi sono sentito accolto come uno di famiglia, compresi i cinque uomini della mia scorta. Il libro lo abbiamo scritto praticamente insieme: finivo un capitolo e glielo mandavo, abbiamo anche pianto insieme. Tra le tante cose che ho fatto a dispetto dei miei 36 anni, dovessi scegliere la più bella sarebbe questa». Ne Il sogno di Antonio ci sono i ricordi degli amici, la lunga dichiarazione d’amore di Luana, le scarne e pudiche parole dei genitori. Di quando disse alla madre che Babbo Natale non esiste, aveva sei anni: «Ho pensato una cosa, mamma, Babbo Natale non esiste perché non può esserci un Babbo Natale che porta a uno una macchinina e a un altro una bicicletta». La loro commozione per la sensibilità di Mattarella: «È stato dolcissimo con noi, sia all’arrivo a Ciampino (della salma di Antonio, ndr) sia in occasione dei funerali. Ci disse che dovevamo essere orgogliosi di un figlio così impegnato. Poi ci richiamò il 25 dicembre per farci gli auguri. E apprezzammo molto anche le sue parole nel discorso di fine anno». L’idea del libro è nata quando i genitori di Antonio hanno proposto a Paolo Borrometi di mettere insieme tutti i suoi scritti per la Fondazione che ne porta il nome. «Quando mi hanno chiesto se me la sentivo ho provato una grande gioia. Per me è stato un onore».

Germania, trenta casi di cristianofobia in due mesi. Dall'inizio di aprile all'inizio di giugno 2019, in tutta la Germania sono stati segnalati 30 attacchi che spaziano dai furti agli incendi dolosi. Matteo Orlando, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. In Germania, in soli due mesi sono stati registrati ben trenta attacchi contro chiese cristiane di diverse confessioni. I dati sono stati diffusi dall'Osservatorio sull'intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa che ha sede a Vienna. E sono dati preoccupanti. Dall'inizio di aprile all'inizio di giugno 2019, in tutta la Germania sono stati segnalati 30 attacchi contro chiese, atti che spaziano dai furti agli incendi dolosi. "A volte, hanno violato un recinto o messo in atto delle rapine semplicemente per motivi legati al denaro. Tuttavia (...) scegliendo di attaccare le chiese, vandali e ladri mostrano una profonda mancanza di rispetto, se non vero e proprio odio, per i luoghi di culto", hanno detto dall'Osservatorio. Uno degli ultimi attacchi riguarda una chiesa protestante di Dieforf, peraltro già vandalizzata nel luglio 2017. Nei ripetuti attacchi i vandali hanno fracassato delle finestre, bruciato alcuni prodotti, rovinato muri e porte dipinte, e buttato giù panchine. "Il danno alla proprietà ha raggiunto decine di migliaia di euro", hanno quantificato dall'Osservatorio. Un altro atto di vandalismo si è verificato all'inizio di giugno quando, intorno a mezzogiorno, i vigili del fuoco del comune di Ankum sono stati allertati di un incendio nella chiesa cattolica di San Nicolás. Grazie alle telecamere di sicurezza, la Polizia ha scoperto che l'incendio era stato causato da alcune ragazze. Un altro caso ha riguardato la comunità di Großholbach dove ignoti hanno prima lanciato pietre contro la Chiesa Cattolica della Santissima Trinità poi, entrati nel tempio, hanno saccheggiato oggetti sacri e statue di santi e bruciato un simulacro di Gesù dopo averlo staccato dalla croce. Infine hanno urinato nei corridoi e scaraventato per terra diverse panchine. A Nordhausen uno dei corridoi della chiesa protestante di San Biagio è stato intenzionalmente dato alle fiamme e su un balcone della chiesa sono state trovate tracce di una corda bruciata. A Dillenburg sconosciuti hanno vandalizzato la chiesa cattolica del Sacro Cuore di Gesù danneggiando prima l'acquasantiera e le candele e poi disperdendo dei volantini sul pavimento. La Germania non è l'unico grande paese europeo cristiano dove si registrano episodi di cristianofobia. Se in Italia, almeno per il momento, ci si è limitati ad attacchi "intellettuali" ai cristiani come, da ultimo, quello del giornalista di Repubblica Michele Serra nei confronti di Marina Nalesso, conduttrice del Tg2, "rea", secondo Serra (che è stato sommerso di critiche sui social), di indossare il crocifisso durante il telegiornale, in Francia la situazione è veramente allarmante. Come ha scritto recentemente Fausto Biloslavo, nel paese transalpino si registra una media di oltre due chiese sotto attacco al giorno.

L'inchiesta shock sulla radicalizzazione in Francia: scuole, aeroporti e polizia in mano agli islamisti. Secondo un rapporto parlamentare che verrà reso pubblico il prossimo 26 giugno sono sempre di più gli integralisti islamici nelle file della pubblica amministrazione francese, dalle scuole alle forze di sicurezza. Cristina Verdi, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. Aeroporti, scuole e trasporti pubblici nelle mani dei fondamentalisti islamici. A dirlo è un rapporto parlamentare redatto dal deputato dei Républicains, Éric Diard, e da Éric Poulliat, parlamentare di La République en marche, il partito del presidente Emmanuel Macron, i cui contenuti sono stati anticipati dal quotidiano Le Point. Quello che è emerso dal documento, basato su oltre cinquanta audizioni con funzionari della pubblica amministrazione francese appartenenti a diversi settori, è un quadro inquietante. Nel Paese della laicità per antonomasia si prega rivolti verso la Mecca durante l’orario di lavoro e, secondo alcuni sindacalisti del trasporto pubblico parigino, la Ratp, nei capolinea dei bus sarebbero nati addirittura uffici per soli uomini. Tra i dipendenti musulmani della società c’è anche chi si rifiuta di mettersi alla guida dei bus dopo che al volante c’è stata una donna. Le segnalazioni di episodi del genere sarebbero oltre cinquemila. Ma oltre al rispetto dei diritti, secondo la relazione che sarà resa pubblica il prossimo 26 giugno, c’è in ballo anche la sicurezza. Decine di sospetti radicalizzati lavorano per le società che si occupano di garantire la sicurezza negli scali parigini di Charles-de-Gaulle e Orly. Novantacinque dipendenti con simpatie islamiste che pregano negli spogliatoi e che attraverso uno speciale tesserino rilasciato dallo Stato hanno accesso alle aree riservate e alle sale dove vengono stipati i bagagli da imbarcare negli aerei. Dopo gli attentati al Bataclan, nella capitale francese, settanta badge rouge, come ricorda Libero, erano stati ritirati ad altrettanti sospetti islamisti. Ma i potenziali attentatori anziché essere licenziati furono trasferiti, in osservanza alla legislazione vigente in Francia, in un luogo prossimo all’aeroporto. Anche nelle scuole sono in crescita le aggressioni a bimbi e adolescenti cattolici da parte dei loro coetanei musulmani per motivazioni religiose. Non solo, a Parigi per rispettare il Corano un insegnante avrebbe persino separato i piccoli studenti a seconda del genere. I rappresentanti sindacali dei pompieri, invece, raccontano di come in un caso sia stato necessario l’intervento di un Imam per convincere un agente ad alimentarsi durante il periodo del Ramadan. Nelle banlieu a maggioranza musulmana ormai è diventato difficoltoso anche prestare soccorso alle donne se i soccorritori sono di sesso maschile. A preoccupare è anche la presenza di musulmani radicali tra le forze di polizia. Di per sé la radicalizzazione, spiega il quotidiano francese, non può essere causa di esclusione dal corpo di polizia e così si cerca di espellere i sospetti islamisti con altre motivazioni. È un rappresentante della categoria a raccontare la vicenda di un agente di fede musulmana, con un fratello in Siria. L’uomo, secondo la testimonianza, aveva chiesto di accedere a diversi documenti, ed è potuto essere allontanato dal corpo di polizia soltanto dopo aver avuto una discussione in auto con un’altra persona. Una fotografia allarmante, che preoccupa le autorità francesi, soprattutto in vista dei grandi eventi che verranno ospitati nel Paese, come i Giochi Olimpici del 2024.

BURKINA FASO E NIGER, ATTENTATI CONTRO CRISTIANI. Morti e feriti durante processione. Niccolò Magnani 14.05.2019 su Il Sussidiario. Burkina Faso, terzo attentato contro i cristiani in 2 settimane: 4 fedeli uccisi in processione, distrutta la statua della Madonna. Attacco anche nel vicino Niger. Dopo il Burkina Faso, nuovo attacco nella giornata di oggi contro vittime cristiane nel vicino e confinante Niger a riconferma dell’assoluta emergenza per l’impennata di attacchi ai cristiani nell’Africa nord-occidentale: mentre a Singa si cerca di salvare quei fedeli feriti durante l’attacco omicida (4 morti in tutto) alla processione, a circa 200 km si consumava un attentato contro il parroco di Dolbel don Nicaise Avlouké, ferito ad una mano e alla gamba e ora ricoverato nel campo militare del Sahel. «Da tempo c’erano ‘rumors’ di possibili attacchi alla parrocchia e ai preti in particolare. Quest’ultimo fatto non fa che confermare il deterioramento della situazione della sicurezza nella zona frontaliera col Burkina Faso», commentano dall’Agenzia Fides mentre le forze di difesa si dimostrano ancora una volta assai poco preparate all’ondata del terrorismo islamista saheliano di recente ri-esploso. Sempre da Fides giungono pesanti novità sull’attuale situazione del Niger: «L’attacco alla Parrocchia di Dolbel è il terzo avvenuto nella giornata del 13 maggio: nel pomeriggio individui armati hanno assaltato la prigione di alta sicurezza di Koutoukalé, uccidendo un sottufficiale e portandosi via un veicolo militare. Poco dopo altri assalitori hanno saccheggiato un magazzino contenente mezzi di comunicazione a Mangaizé».

TERZO ATTENTATO CONTRO I CRISTIANI. In Burkina Faso, non si può più “nasconderlo”, c’è (di nuovo) un enorme problema di sicurezza per i cristiani, cattolici e non: dopo l’attacco del 29 aprile a Silgadji e dopo l’attentato dello scorso 12 maggio a Dablo dove furono trucidati due preti e alcuni fedeli, di nuovo questa mattina va segnalata una terza offensiva jihadista contro inermi vittime “crociate”. Quattro fedeli cattolici sono stati uccisi a Singa – nella regione centro-settentrionale del Burkina Faso – mentre erano in processione verso la chiesa locale con la statua della Madonna per celebrare il mese di maggio, mariano per eccellenza. L’attentato è avvenuto in quella stessa regione dove solo due giorni fa Don Siméon Yampa, parroco di Dablo, assassinato insieme a 5 fedeli all’interno di una chiesa durante al Santa Messa. Oggi invece è capitato ad una processione di fedeli, tutti però del tutto innocenti e inermi di fronte al potere del male violento e rinnovato contro i “nemici” e “odiati” crociati. Stando alle prime informazioni pervenute all’Agenzia Fides, «i fedeli cattolici del villaggio di Singa, nel comune di Zimtenga, dopo aver partecipato ad una processione dal loro villaggio a quello di Kayon, situato a circa dieci km di distanza, sono stati intercettati da uomini armati».

BURKINA FASO, I CRISTIANI SONO IN PERICOLO. I terroristi jihadisti hanno lasciato andare i minori, ma hanno giustiziato quattro adulti ed hanno distrutto la statua della Madonna al centro della processione: riecheggia dunque oggi ancora più forte il richiamo per la pace fatto da Sua Ecc. Mons. Séraphin François Rouamba, Arcivescovo di Koupéla e Presidente della Conferenza Episcopale di Burkina Faso-Niger, durante i funerali del parroco ucciso a Dablo. Un appello alla pace sì ma anche alla coesistenza pacifica tra Islam, cristiani e altre minoranze in un Paese tra i più poveri al mondo: a quelle esequie parteciparono tutti assieme cattolici, protestanti, musulmani e rappresentanti delle religioni tradizionali. Purtroppo oggi il nuovo attentato riaccende il gravissimo problema di sicurezza e di libertà religiosa in Burkina Faso: «Il Santo Padre ha appreso con dolore la notizia dell’attacco alla chiesa a Dablo, in Burkina Faso. Prega per le vittime, per i loro familiari e per tutta la comunità cristiana del Paese», ha fatto sapere ieri il direttore della sala stampa Gisotti dopo l’appello di Papa Francesco. «Don Simeon Yampa era una persona umile, obbediente e pieno d’amore, amava i suoi parrocchiani, fino al sacrificio finale», scrive ancora oggi mons. Theophile Nare, vescovo di Kaya, in comunicato rilanciato dall’Agenzia Fides. 

Burkina Faso, attaccata chiesa cattolica: uccisi un prete e 5 fedeli. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Corriere.it. Sei persone, tra cui un prete, sono state uccise domenica mattina in un attacco contro una chiesa cattolica a Dablo, una città nella provincia di Sanmatenga, nel nord del Burkina Faso. «Verso le 9, durante la messa, persone armate hanno fatto irruzione nella chiesa cattolica e hanno iniziato a sparare mentre i fedeli cercavano di fuggire», ha detto il sindaco di Dablo, Ousmane Zongo. Gli aggressori «sono stati in grado di immobilizzare alcuni fedeli, hanno ucciso cinque persone e il sacerdote che stava celebrando la messa», ha aggiunto. A fare irruzione nella chiesa è stato un gruppo di uomini armati tra i 20 e i 30 anni: sono entrati in azione intorno alle 9, bruciando la chiesa, un ambulatorio e alcuni negozi. In città, affermano testimoni, si è diffuso il panico. La gente è chiusa in casa e le attività commerciali sono state interrotte. Il sacerdote ucciso è Abbé Sime’on Yampa, di 34 anni. È il secondo attacco in chiesa in due settimane in un Paese tradizionalmente noto per la sua tolleranza religiosa.

Sri Lanka, strage di Pasqua; diverse esplosioni, un massacro di cristiani, scrive il 21 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Pasqua di sangue in Sri Lanka, nel mirino i cristiani. sei esplosioni simultanee in tre chiese della capitale Colombo, altrettante bombe in hotel frequentati da turisti. Dunque altri due attentati. Una strage, un'ecatombe: i morti accertati sono oltre 200, sarebbero 35 gli stranieri. Oltre 600 i feriti. La Farnesina ha già attivato l'unità di crisi. Le forze di sicurezza sospettano che due delle esplosioni in chiesa siano state causate da attentatori suicidi. Una delle chiese colpite, il santuario di Sant'Antonio, e i tre alberghi sono a Colombo e frequentati da turisti stranieri. Le altre due chiese si trovano una a Negombo, città a maggioranza cattolica a nord della capitale, e l'altra nella città orientale di Batticaloa. Dopo le prime indagini è stata confermata la matrice religiosa dell'attacco, probabilmente ad opera di un gruppo di estremisti islamici (gli attacchi coordinati sarebbero opera dello stesso gruppo). Si è anche appreso che la polizia locale ha sottovalutato alcuni allarmi arrivati dalle intelligence straniere negli ultimi giorni. La polizia di Colombo dopo una caccia all'uomo durata per ore ha fermato sette persone. Sarebbero i sette terroristi che avrebbero portato avanti gli attacchi. Molte altre persone sono state fermate ma non interrogate. La polizia dice di essere ancora all'oscuro degli autori e del loro movente. "Non possiamo dire chi c'è dietro gli attacchi e quali sono le loro intenzioni fino al completamento dell'indagine", ha spiegato il portavoce della polizia SP Ruwan Gunasekara. Adesso si cercherà con gli interrogatori di ricostruire l'esatta dinamica dell'attacco simultaneo. La polizia infine ha confermato che l'attacco ha una regia unica e sarebbe stato portato avanti da un unico gruppo terrorista. Due esplosioni si sono verificate nella chiesa di Sant'Antonio di Colombo e nella chiesa di San Sebastiano Negombo, una città a nord della capitale. Almeno una delle vittime è morta nel Cinnamon Grand Hotel di Colombo, situato vicino alla residenza ufficiale del Primo Ministro, ha dichiarato all'Afp un funzionario di questo stabilimento, secondo cui l'esplosione sarebbe avvenuta nel ristorante. Il primo ministro dello Sri Lanka, Ranil Wickremesinghe, ha condannato gli attacchi che hanno ucciso centinaia di persone come "codardi" e ha assicurato che il governo stava lavorando per "contenere la situazione". "Condanno fermamente gli attacchi vigliacchi contro la nostra gente", ha scritto in un tweet dal suo account. "Invito tutti i cittadini dello Sri Lanka in questo tragico momento a rimanere uniti e forti. Il governo sta prendendo provvedimenti immediati per contenere questa situazione". Intanto la farnesina ha avviato alcune verifiche per accertare la presenza di nostri connazionali tra i feriti o tra le vittime. In tutto lo Sri Lanka è stato proclamato un coprifuoco di 12 ore: dalle 18.00 alle 6.00 ora locale.

Revocato il coprifuoco  ma contro «odio» e fake news restano chiusi tutti i social. Pubblicato lunedì, 22 aprile 2019 da Corriere.it. Ancora non c’è una rivendicazione per gli attacchi di Pasqua che hanno causato oltre 150 morti, ma lo Sri Lanka ha una lunga storia di terrorismo nel suo passato recente. Dal 1983 al 2009 l’isola tropicale a sud dell’India, l’ex Ceylon diventato indipendente nel 1948 dopo quasi 150 anni di dominio britannico, è stata insanguinata da una guerra civile: da una parte le forze del governo, espressione della maggioranza singalese, dall’altra i guerriglieri delle «Tigri Tamil», un gruppo estremista, comunista e secessionista che ha combattuto con attacchi terroristici di ogni tipo a sostegno della minoranza etnica Tamil. In 26 anni sono morte oltre 70 mila persone, forse addirittura 100 mila, finché dieci anni fa il presidente Mahinda Rajapaksa — dopo un’offensiva in cui è stata denunciata una sistematica violazione dei diritti umani — ha dichiarato sconfitte le Tigri, che hanno deposto le armi. Eppure le accuse di violenze da entrambe le parti sono continuate negli anni. Dopo la fine della guerra civile nel 2009, gli episodi di violenza sono stati sporadici ma legati a motivi religiosi. Ci sono stati attacchi da parte di estremisti della maggioranza buddista Sinhala a moschee e proprietà musulmane, finché nel marzo 2018 non è stato dichiarato lo stato di emergenza, che ha permesso alle autorità di arrestare decine di persone. In Sri Lanka il governo a marzo dello scorso anno aveva bloccato temporaneamente Facebook, perché sui social erano diventati virali alcuni post che incitavano alla violenza di massa verso la minoranza musulmana. Secondo un report statunitense, su Facebook le campagne di odio verso i musulmani e altre minoranze religiose vanno avanti dal 2013. E, dopo l’attacco di Pasqua, mentre è stato revocato il coprifuoco, resta il blocco totale dei social. Il buddismo Theravada è la religione più diffusa nel Paese che conta circa 21 milioni di abitanti: il 70,2% dei cittadini, secondo un recente censimento citato dalla Bbc, fa parte di questo culto, la religione della maggioranza singalese che trova espressione anche nelle leggi del Paese e nella costituzione. La seconda religione più praticata è l’induismo (dal 12,6% della popolazione, praticato dai Tamil), prima dell’Islam (9,7%). Nel Paese vivrebbero anche 1,5 milioni di cristiani (il 7,8%), secondo il censimento del 2012, per la maggior parte cattolici. Dal gennaio 2015 il Paese è guidato dal presidente Maithripala Sirisena, ex ministro della salute, che ha sconfitto a sorpresa l’uomo forte Rajapaksa. Tra le sue promesse c’era anche quella di superare le atrocità della lunga guerra civile. Rispetto a molti altri Paesi del sud dell’Asia, lo Sri Lanka ha un tasso di alfabetizzazione molto alto e una crescita economica costante poco inferiore al 6% l’anno: il tasso di povertà è passato dal 15,3% al 4,1% dal 2006 al 2016, anche grazie a un turismo florido, che ha visto quadruplicare i visitatori negli ultimi dieci anni, da 448 mila a circa 2 milioni l’anno. Rimangono però aree estremamente povere e molti problemi sociali.

Sri Lanka, la grande preparazione dietro il massacro di cristiani e turisti. Otto in tutto le esplosioni, sei delle quali in simultanea: i terroristi hanno preso di mira chiese cristiane affollate di fedeli per la Pasqua e hotel frequentati da occidentali, scrive Guido Olimpio il 22 aprile 2019 su Il Corriere della Sera. Il «day after» degli attentati in Sri Lanka è ancora pieno di interrogativi, l’unica certezza resta il bilancio di vittime spaventoso. Rivediamo gli spunti investigativi mentre gli Usa rilanciano un avviso sulla possibilità di nuovi gesti terroristici. 

Il modus operandi. La raffica di attentati ha messo in evidenza una grande preparazione. Una dinamica che ha ricordato le stragi di al Qaeda e Stato Islamico con luoghi di culto e hotel presi di mira da almeno 7 kamikaze, un modo per unire i bersagli. I cristiani locali, gli stranieri. Un’agenda locale mescolata con una internazionale. Sono serviti diversi «ingredienti»: l’esplosivo, la preparazione degli uomini-bomba, il coordinamento, i movimenti, la ricognizione sui target per studiare punti deboli, la mimetizzazione per non essere scoperti. All’Hotel Shangri-la, ad esempio, due terroristi hanno preso una camera dal giorno precedente per mescolarsi tra i clienti ed avere un accesso più facile.

Le polemiche. Salgono le critiche nei confronti della polizia. Dieci giorni fa c’era stato allarme su possibili attacchi suicidi nelle chiese, comunicazione arrivata da un’intelligence straniera. Ci si chiede perché non siano state adottare contromisure efficaci. O, se ci sono state, perché abbiano fallito. Tra l’altro in un Paese che, per molto tempo, ha fronteggiato la violenza politica e le azioni kamikaze – oltre 160 – delle Tigri Tamil, tra i primi movimenti a sposare questa tattica. Il fallimento dei controlli, inoltre, potrà avere un impatto sulla situazione politica interna piuttosto instabile, con accuse e manipolazioni. 

I responsabili. Le autorità hanno accusato – in modo generico – un gruppo islamico. La segnalazione arrivata alla polizia chiamava in causa una piccola fazione, National Thowheeth Jama’ath. E nelle ore successive gli agenti hanno compiuto 23 arresti, sono sembrati quasi andare a colpo sicuro. È stato davvero questo nucleo di estremisti? Il sospetto è che possano aver avuto il supporto di qualche «veterano» reduce da un conflitto. Infatti, lunedì, un portavoce del governo ha parlato di una “rete internazionale senza la quale non sarebbe stato possibile provocare il massacro”. Sui media si è anche ricordata la pattuglia di militanti partiti dallo Sri Lanka e unitisi al Califfato. Tutti indizi che dovranno trovare conferme nell’inchiesta fino ad oggi coperta da una censura piuttosto stretta.

Sei kamikaze e 87 detonatori  Il piano segnalato già da gennaio. Pubblicato lunedì, 22 aprile 2019 da Corriere.it. Non è facile dare risposte anche per l’atteggiamento delle autorità, in guerra tra loro, e colpevoli di aver sottovalutato segnalazioni precise. I terroristi hanno dovuto prepararsi, un lavoro iniziato con ricognizioni e il furto d’esplosivo. A gennaio la sicurezza ne sequestra circa 100 chilogrammi, vengono arrestate diverse persone sospettate di legami con Jama’ath. Forse alcuni sono rimessi in libertà perché godono di protezioni. L’episodio non ferma il piano. La missione prosegue con la costruzione delle bombe, quindi con gli aspetti logistici. I mezzi per arrivare a Colombo, case sicure come appoggio e lo «schieramento» negli alberghi inseriti tra i bersagli. All’Hotel Shangri-la due attentatori arrivano qualche ora prima dell’attacco, al Cinnamon l’uomo-bomba si presenta la sera precedente e l’indomani si mette in fila con i clienti davanti ai tavoli del buffet. Qui attiva la carica. Scelta letale, come quella degli altri kamikaze, tra i sei e i sette a seconda delle versioni. Il ritrovamento di 87 detonatori, l’esame degli ordigni inesplosi — uno da 50 chilogrammi — la neutralizzazione di veicoli-trappola e gli arresti eseguiti sono indizi di una minaccia ancora presente. È evidente che la fase di ingaggio non poteva passare inosservata. I servizi di sicurezza indiani allertano i singalesi citando sempre Jama’ath, avvisi seguiti da altri: il 4, il 9 e l’11 gli apparati sono informati, ma la notizia si insabbia nelle beghe politiche segnate dal contrasto presidente-governo. Gli assassini sono invece più agili, non è una sorpresa. Nello scenario investigativo il gruppo è composto da elementi del posto, alcuni noti per le loro posizioni violente, uno avrebbe postato materiale jihadista fin dal 2017, un simpatizzante di Al Baghdadi. E, infatti, sul web account pro-Isis hanno diffuso una sua foto davanti ad una bandiera nera, una sorta di rivendicazione non ufficiale. La cellula — sempre in base alla versione ufficiale — avrebbe ottenuto l’appoggio di un network esterno «senza il quale non avrebbe mai potuto compiere la strage», dicono i funzionari. E i sospetti virano sullo Stato Islamico, magari su qualche veterano rientrato dai fronti di guerra. Gli americani non lo escludono, rilanciano l’idea di un gesto ispirato dal Califfo. I media ricordano gli oltre 30 volontari, in gran parte figli della buona borghesia singalese, andati in Siria e in Iraq per poi tornare in patria. Altri esperti non escludono connessioni qaediste e rapporti con un movimento indiano. Si ipotizza persino una vendetta per l’eccidio nelle moschee della Nuova Zelanda. Aspetti che hanno bisogno di riscontri, senza dimenticare il clima velenoso che rischia di inquinare i giudizi e le prove. Chi ha seminato morte, però, ha seguito una coreografia consolidata. Ha preso di mira le chiese e gli hotel perché cercava luoghi gremiti in modo da provocare un alto numero di vittime e obiettivi che avessero una risonanza internazionale. Ha mescolato agenda locale e globale con l’azione stessa. Ha manovrato per dividere le comunità religiose, mettere in imbarazzo l’esecutivo, evidenziare i buchi nelle difese. Ha suscitato reazioni, compresa quella del Papa, per dimostrare l’efficacia della missione. Ha sfruttato le tensioni nelle istituzioni dello Sri Lanka per passare sotto il radar. Questo nonostante il Paese abbia sofferto decenni di guerra civile e sperimentato le azioni suicide condotte dalle Tigri Tamil, capaci di usare le donne e fasce esplosive per gesti spettacolari. Forse i killer hanno scelto l’isola perché ritenevano non fosse in guardia contro i jihadisti, uno schema — sottolinea qualche analista — che potrebbe ripetersi in altre aree periferiche del mondo con conseguenze comunque pesanti. Bastano un luogo di culto e un albergo.

Dalla Siria all’Isis: così gli attentatori hanno pianificato la strage a Pasqua. Pubblicato sabato, 4 maggio 2019 da Guido Olimpio su Corriere.it. L’uomo delle bombe, i finanziatori-esecutori, la guida spirituale e un elemento di contatto con lo Stato Islamico. Sono queste le figure chiave della strage in Sri Lanka, i perni della macchina di morte individuati in un’inchiesta dove comunque mancano ancora dei tasselli. Aspetti rivelati al New York Times da una fonte direttamente coinvolta nel lavoro di ricerca. Gli ordigni erano composti con la madre di Satana, il mix di sostanze «civili» facilmente acquistabili, a cui hanno aggiunto biglie di ferro e chiodi. Sulle pareti degli edifici sono ben visibili i segni delle schegge. E migliaia di altre di queste sfere sono state sequestrate nei giorni successivi in uno dei covi. Per attivare le bombe hanno escogitato un sistema a strappo. A fabbricarle, in un garage, l’artificiere Achchi Mohamed Hassthun, responsabile dell’attacco all’interno della chiesa di San Sebastian. La polizia ha trovato nel suo computer le formule per la miscela ed un manuale. Sembra che l’uomo abbia ricevuto un addestramento in Turchia, forse in qualche nucleo jihadista. Un altro attentatore, Abdul Jamil, è stato in Siria ma potrebbe essersi radicalizzato in Australia. Un’esperienza da guerrigliero – come hanno aggiunto i media britannici – rafforzata da possibili contatti con una cellula attiva nel Califfato e guidata da Jihadi John, accusato di aver assassinato diversi ostaggi occidentali. Un estremista locale, identificato come Sadiq, ha rappresentato il canale tra Isis e il predicatore Zahran Hashim, anche lui morto facendo detonare una carica. Una bomba ad orologeria, invece, non è esplosa: avrebbe dovuto deflagrare 90 minuti dopo il primo «colpo» per provocare vittime tra i soccorritori. E’ stato di nuovo confermato come proprio Hashim fosse stato indicato più volte alle autorità come un personaggio pericoloso. Lo avevano perfino definito il «rappresentante» dello Stato Islamico nello Sri Lanka, ma tutto questo non ha comportato conseguenze. Significativo il ruolo di Insham e Ilham Ibrahim, i due figli del ricco imprenditore e mercante di spezie: hanno finanziato l’operazione e, alla fine, si sono immolati insieme ai loro complici. Secondo la fonte citata dal New York Times Insham, in un messaggio lasciato sul telefono della moglie poco prima del massacro, elenca i nomi di chi gli deve del denaro, le spiega quale auto vendere e la saluta con una frase religiosa. Al dossier si possono aggiungere alcuni risvolti. Il primo sugli allarmi. Oltre a quelli passati da New Delhi allo Sri Lanka – non meno di tre -, non si esclude che anche l’intelligence marocchina abbia fornito una segnalazione preziosa. Lo ha scritto un’agenzia indiana qualche giorno fa e indiscrezioni da noi raccolte sembrano avallare la notizia. E’ noto che i servizi di Rabat sono riusciti a infiltrare loro agenti nei ranghi del Califfato – dove non sono pochi i mujaheddin arrivati dal Marocco - e traggono dritte preziose da qualche «veterano» rientrato in patria o posto sotto controllo. Anche il capo del commando del Bataclan, Abaaoud, venne identificato grazie alla collaborazione dei marocchini. Infine resta da chiarire il tipo di legame tra il nucleo che ha agito nello Sri Lanka e lo Stato Islamico. Chi ha innescato la «catena»? Prima ipotesi. Alcuni seguaci del Califfo, che ha messo il suo sigillo con una rivendicazione, sono stati preparati ad hoc per questa operazione e inviati sull’isola dove hanno poi reclutato il resto del network. La seconda. Gli estremisti cingalesi si sono offerti alla casa madre usando le conoscenze nate nella nebulosa integralista, ormai molto estesa. E’ comunque evidente come lo schema abbia funzionato e possa riprodursi: un paio di militanti con esperienza diretta si uniscono ad un gruppo locale, magari messo insieme contando sui parenti più stretti. Fratelli, mogli, persino i figli. Tutti uniti, in un modo o nell’altro, in una missione senza ritorno.

Bin Laden, Zawahiri e il radicalismo islamista delle classi agiate. Scrive il 24 aprile 2019 Renzo Guolo su La Repubblica.

L'identikit sociale degli attentatori di Colombo. Ben istruiti e di classe media o medio alta. Questo l’identikit sociale degli attentatori di Colombo, che desta stupore in Occidente. A torto, dato che non si tratta di una novità: almeno nel radicalismo islamista asiatico e mediorentale. Un dato di fatto che non riguarda soltanto i leader storici, come l’ingegnere Bin Laden o il medico Zawahiri, ma anche militanti di primo piano: dall’architetto urbanista Muhammad Atta all’ingegnere Khalid Sheikh Mohammed, gli...

Sri Lanka, figli di ricchi mercanti e studi all’estero:  chi sono i kamikaze di Pasqua. Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Corriere.it. C’è una famiglia al centro del massacro di Pasqua. Una cellula composta da fratelli, mogli, parenti secondo una tradizione consolidata jihadista. Ha iniziato al Qaeda, l’hanno seguita altre fazioni dal Medio Oriente fino in Europa. Alcuni attentatori dello Sri Lanka vengono dalla media borghesia, un paio di loro sono figli di un ricco mercante di spezie amico di personalità. Uno dei kamikaze ha studiato in Gran Bretagna, poi si è specializzato in Australia, un percorso simile a quello di altri giovani asiatici. Un profilo non diverso da quello dei killer del ristorante di Dacca, dove morirono nel luglio 2016, anche nove italiani. Le indagini ora si concentrano sul clan Ibrahim. Il padre, Mohamed, è un noto imprenditore dell’isola. Riverito, facoltoso, con grandi agganci nell’establishment. La polizia lo ha arrestato insieme al figlio Isas. Loro possono dire molto. Non è la stessa cosa per gli altri tre figli. Imsath, 33 anni, e Ilham, 31, si sono fatti saltare per aria quasi simultaneamente usando la stessa tecnica. Uno ha prenotato una stanza al Cinnamon Hotel, l’altro allo Shangri-la. Hanno atteso la mattina e si sono messi in fila davanti al grande buffet pasquale, qui hanno detonato le bombe. Di loro è rimasto poco. Ma uno dei kamikaze ha commesso un errore in quanto ha fornito alla reception un indirizzo reale, quello di una bella palazzina a Dematagoda. Traccia seguita dagli inquirenti. Gli agenti si sono precipitati sul posto, hanno fatto irruzione ma sono stati colti di sorpresa. La moglie di uno dei terroristi – o forse un complice – ha attivato una carica esplosiva: nel “botto” sono morti tre agenti, la donna e i due suoi bambini. Dinamica che ricorda quella di un nucleo estremista in Indonesia, con l’intera famiglia dedicata al “martirio”. Ora la sicurezza è alla ricerca di un altro membro del clan, Ismail, il quarto figlio di Ibrahim. Il suo nome è emerso in gennaio dopo l’operazione che ha portato alla scoperta di una base, con esplosivo al plastico di tipo militare, detonatori e armi, a Wanathawilluwa. Un covo del gruppo NTJ. Secondo gli inquirenti gli estremisti hanno prima vandalizzato siti buddisti, quindi ucciso un politico critico verso l’Islam radicale. Una marcia verso il grande attacco, quello di domenica contro gli alberghi e le chiese. Forse con il sostegno di elementi più esperti, come suggeriscono report dell’intelligence indiana, tempestiva nel trasmettere quattro segnalazioni a Colombo. L’ultima ad appena due ore dall’ora X. I servizi di Delhi, per mesi, hanno seguito le mosse di tre figure. Zahran Hashim, un predicatore che ha vissuto tra Sri Lanka e India, un “missionario viaggiante” che non ha mai nascosto le sue simpatie per il Califfato. Ismail Ibrahim, finito nei ranghi del NTJ e parte del network cingalese. Rilwan Hashim, fratello di Zahran che – secondo la ricostruzione di Firstpost – ha mantenuto rapporti con numerosi connazionali e maldiviani unitisi in Siria allo Stato Islamico, quindi un ex soldato, Badrudeen Mohiudeen, sospettato di essere uno degli artificieri. La CNN ha aggiunto un aspetto-chiave. Gli indiani hanno catturato un militante e lui ha confessato di aver addestrato Hashim. Quindi ha indicato nomi e dettagli, i possibili target, le chiese, una rappresentanza diplomatica. Il nucleo ha comunicato, protetto da sistemi criptati, con esponenti Isis in Medio Oriente e forse ha ampliato il canale poi impiegato per la rivendicazione del massacro diffusa martedì. Un aspetto investigativo non ancora completo. Si vuole comprendere se l’ordine di attacco sia venuto direttamente dal Califfato o se si è trattato di disposizioni più generiche frutto dell’adesione ideologica. Resta comunque il mix di estremismo locale e disegno globale. All’interno di questa “bolla” jihadista sarebbe cresciuta la formazione responsabile dell’eccidio, composta – dicono le autorità – da nove attentatori più la rete d’appoggio. Hashim si è immolato allo Shangri-la – anche se la prova definitiva non c’è -, stessa cosa per la coppia Ibrahim mentre altri sono ancora in vita, pronti per una seconda ondata di attentati, temuta dall’esecutivo. I quotidiani parlano di una lista di 160 elementi vicini al NTJ e ad un’ala scissionista, di ordigni, di mezzi-bomba ancora da trovare. Gli ordigni sarebbero stati costruiti in un’officina per il rame, usando l’ormai nota “madre di Satana”, miscela di prodotti chimici e schegge rudimentali. Anche se alcuni esperti ipotizzano ingredienti più potenti. Sono indiscrezioni importanti in attesa di conferme, senza mai dimenticare come le faide politiche possano alterare il quadro. L’esecutivo di Colombo ha già annunciato un repulisti negli apparati di sicurezza dopo il clamoroso fallimento nella prevenzione, con gli allarmi ignorati. O, se è vera l’accusa di un ministro, insabbiati in modo deliberato da alcuni funzionari.

«Istruiti e benestanti»: chi sono i kamikaze delle stragi di Pasqua. Sri Lanka, svelata l’identità degli attentatori. Victor Castaldi il 27 Aprile 2019 su Il Dubbio. Altro che lupi solitari, disturbati mentali e disperati marginali: il commando responsabile delle stragi di Pasqua in Sri Lanka assomiglia in modo sinistro a quello degli attacchi dell’ 11 settembre 2001. «Istruiti, nati in famiglie della classe media o medio- alta, finanziariamente abbastanza indipendenti» : è il ritratto dei 9 kamikaze ( 8 uomini e una donna) fornito da Ruwan Wijewardene, vice- ministro della Difesa. Due di loro erano ricchissimi, i figli del miliardario cingalese, Mohamed Yusuf Ibrahim, uno dei maggiori commercianti di spezie al mondo. Uno di loro si era laureato in Gran Bretagna, e poi aveva continuato il dottorato in Australia. A tre giorni dall’attentato, le autorità cingalesi lavorano a ricostruire l’identikit dei terroristi che hanno compiuto l’attentato e che è stato rivendicato dall’Isis. Intanto, continua ad aumentare il numero delle vittime, arrivato a quota 359. I due figli del miliardario, Ilham Ahmed Ibrahim, 31 anni, e Imsath Ahmed Ibrahim, 33, si sono fatti saltare in aria in due degli hotel di lusso di Colombo: uno allo Shangri- La, dove l’uomo si è mescolato alla fila per la colazione del giorno di Pasqua, e l’altro al Cinnamon Grand. Poche ore dopo, la moglie si è fatta saltare in aria insieme ai due figli perchè le forze speciali aveva individuato l’indirizzo di casa e si erano presentati per perquisire l’abitazione: Fatima, incinta di vari mesi, si è fatta saltare in aria, e con lei sono morti i due figli. La casa era del padre, il miliardario, che è stato invece portato via per essere interrogato. Nella fabbrica di rame di proprietà di Imsath, nel quartiere di Wellampitiya, a Colombo, gli operai, in gran parte originari del Bangladesh, hanno raccontato che non lo vedevano da una settimana. I due fratelli, che secondo gli inquirenti gestivano una sorta di «cellula terroristica familiare», sono stati anche immortalati nelle telecamere di sicurezza dello Shangri- la: si vedono i due uomini, con un cappellino da baseball in testa, e lo zaino sulla spalla, che prendono un ascensore, verso il terzo piano. Wijewardene ha aggiunto che sono state arrestate quasi 60 persone e 32 di loro sono ancora in stato di detenzione. Nonostante le autorità cerchino legami con l’estero, gli arrestati sono tutti cingalesi. La terrificante ondata di attentati è stata rivendicata dall’Isis, con un secco comunicato che però non fornisce alcuna prova ( se fosse confermato, sarebbe il più grave mai condotto dal gruppo fuori da Iraq e Siria). Il governo invece ne attribuisce la responsabilità al gruppo nazionalista Islamist National Thowheeth Jamàath (Ntj).

KAMIKAZE MILIARDARI. Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 25 aprile 2019. Benestanti, istruiti e votati alla morte per Allah. La strage nello Sri Lanka sembra ripetere un repertorio già attuato nell' attacco all' Holey Artisan Bakery nel 2016, in Bangladesh, dove hanno perso la vita 20 persone, compresi alcuni italiani. Anche lì come a Colombo, il commando che è entrato in azione non era composto da disperati, ma da giovani di buona famiglia. Abdul Lathief Jameel Mohamed aveva studiato legge in un college del sud-est dell' Inghilterra tra il 2006 e il 2007 prima di trasferirsi in Australia per un master e tornare poi in Sri Lanka. Si è fatto esplodere nel giorno di Pasqua. Come lui, gli altri killer - nove tra i quali una donna - tutti provenienti da famiglie agiate. Ilham Ahmed Ibrahim e Imsath Ahmed Ibrahim, di 31 e 33 anni, erano fratelli e figli del miliardario Mohamed Yusuf Ibrahim, uno dei maggiori importatori di spezie del mondo. Hanno colpito negli hotel Shangri-La e Cinnamon. Mentre Fatima, moglie incinta di Ilham, ha azionato il detonatore di un ordigno che era nella sua casa quando è arrivata la polizia, uccidendo anche i suoi due bambini. È stato il ministro della Difesa cingalese, Ruwan Wijewardene, a tracciare il profilo dei membri del National Thowheeth Jama' ath che, con la regia quasi certa dell' Isis, ha fatto precipitare nel terrore l' intero Paese. «Gran parte di questo gruppo di attentatori suicidi proveniva dalla classe media o alta - ha dichiarato Wijewardene - Questo è un fattore preoccupante. Alcuni di loro avevano studiato in vari altri Paesi, avevano Llm (master in legge, ndr)». Nessuno dei killer era straniero. Non è la prima volta che terroristi eccellenti diventano protagonisti di massacri che segnano la storia, a riprova che la deriva jihadista non passa - solo - per le strade sudicie delle periferie del mondo. Un nome per tutti: Ziad Jarrah, uno degli attentatori dell' 11 settembre proveniva da una ricca famiglia libanese. O Mohammed Emwazi, meglio conosciuto come Jihadi John, il tagliagole dell' Isis ucciso in Siria che aveva studiato all' Università di Westminster a Londra. Resta da chiedersi quale possa essere l' obiettivo dell' Isis in questa strage. Se l' attentato è stato formalmente attribuito alla piccola organizzazione terroristica locale, è certo che non abbia potuto mettere a segno l' attacco in maniera indipendente. Isis potrebbe aver utilizzato le proprie cellule cingalesi per reclutare adepti anche tra i tamil, musulmani o meno. Non a caso, nel video di rivendicazione si fa riferimento agli assalitori e non ai martiri, e nelle dichiarazioni del portavoce dello Stato islamico Abu Mohammed al-Adnani la scritta in sovrimpressione compare proprio in lingua tamil. L' allerta, intanto, continua a essere massima, anche se sono state arrestate 60 persone. L' inviato Usa nello Sri Lanka ha avvertito che ci sono «piani terroristici in corso», l' Fbi ha inviato un team per assistere le autorità locali nelle indagini. E la polizia ha fatto brillare uno scooter imbottito di esplosivi che era parcheggiato vicino al cinema Savoy di Colombo. Sui warning arrivati dall' intelligence di New Delhi sono emersi nuovi dettagli: gli 007 cingalesi sono stati avvertiti 4 mesi prima delle stragi. Nel documento, oltre all' allerta, si forniva il nome del gruppo islamico coinvolto, dei suoi leader e di altri membri, indirizzi, telefoni e obiettivi che avrebbero colpito. C' era anche la presunta mente, Zahran Hashim, che è stato fermato, rimesso in libertà, e mai più rintracciato sul suo telefono cellulare.

STRAGE DI PASQUA. Scrive il 24 aprile 2019 L'Inkiesta. Sri Lanka, la vera notizia è che l’Isis è più letale che mai (e col terrorismo siamo punto e a capo). Solo dopo la rivendicazione dello Stato Islamico si è accesa davvero l’attenzione sulle stragi nello Sri Lanka. Centinaia di morti che ci riportano alla nuda realtà dei fatti: il terrorismo di matrice islamica è ancora presente e il lavoro da fare per sconfiggerlo è enorme. Ci voleva la rivendicazione dell’Isis per accendere davvero l’attenzione sulle stragi nello Sri Lanka, su quelle centinaia di morti (320 al momento in scriviamo) che negli scorsi giorni non sono mai state trend topic, sono apparse e scomparse dalle prime pagine dei siti, hanno provocato scarsi e distratti brividi tra gli “Easter worshippers” della nostra parte di mondo. Adesso, forse, grazie all’Isis, ci renderemo conto che quello compiuto nelle chiese e negli alberghi dello Sri Lanka è un attentato secondo solo a quello delle Torri Gemelle per numero di morti, qualità dell’organizzazione, potenza di fuoco (molte altre bombe erano state preparate, si parla addirittura di 50 kamikaze pronti a immolarsi) e ambizione strategica. E magari anche la tragedia ci parrà un po’ più vicina e importante. La rivendicazione dell’Isis pare convincente ma non per la ragione addotta, la più scontata. È impossibile dal punto di vista tecnico che queste bombe siano una vendetta rispetto al massacro nelle moschee di Christchurch (Nuova Zelanda) del 15 marzo, quando 50 persone, tutte musulmane, furono uccise dal suprematista bianco australiano Brenton Tarrant. Un attentato articolato e complesso come quello compiuto nello Sri Lanka non può essere organizzato in un mese. A convincere sono altri fattori. La tattica militare, per esempio, con l’impiego di diversi kamikaze su obiettivi diversi con attentati programmati in tempi successivi, tipica delle azioni di Al Qaeda e poi dell’Isis. L’acuta strategia politica, quella per cui Al Qaeda e l’Isis rispondono alle difficoltà su un fronte aprendo un fronte nuovo, scelto con cura nei Paesi che offrono linee di faglia delicate. Al Qaeda, quando fu attaccata in Afghanistan e poi in Iraq, esportò il terrorismo islamista nel Maghreb e nell’Africa del Nord, da dove poi si spostò nell’Africa subsahariana e nel Sahel. I Paesi toccati erano l’Algeria reduce dalla guerra civile degli anni Novanta, il Ciad e il Mali della rivolta tuareg, giù fino alla Nigeria per rendere ancor più micidiale Boko Haram. Con l’Isis succede la stessa cosa. Il jihadismo è in crisi in Siria? Ecco allora l’Egitto (il Sinai della perenne insofferenza beduina) e la Libia della disgregazione post-Gheddafi. Se il Califfato crolla, ecco lo Sri Lanka, Paese che offre al terrorismo infinite possibilità. È reduce da una guerra civile (cingalesi contro tamil, Governo contro ribelli) durata 25 anni. È un Paese multietnico e multireligioso (buddisti intorno al 70%, hindù 13%, musulmani e cristiani 10%), con le inevitabili tensioni che ne derivano o che possono derivarne. E ha una posizione strategica nell’Oceano Indiano, tanto da richiamare le attenzioni della Cina, che vuole farne un gioiello del suo Filo di perle, la collana di porti che dovrebbe garantirle la futura supremazia sui commerci marittimi. Tessendo la propria tela, la Cina è riuscita a intrappolare lo Sri Lanka in una ragnatela di debiti. E proprio il rapporto con la Cina è alla base del perenne dissidio tra il presidente Sirisena e il premier Wickremesinghe che potrebbe aver aperto la strada gli attentatori (pare che il Consiglio di Sicurezza, presieduto da Sirisena, fosse stato avvertito del pericolo ma non abbia ritenuto di informare il Governo) e che ora, addirittura, potrebbe portare a una svolta autoritaria nel Governo del Paese, visto che Sirisena ha decretato lo stato di emergenza che gli consegna i poteri speciali. Insomma, dal punto di vista dell’Isis un campo d’azione perfetto. Il terzo fattore che rende convincente la rivendicazione dell’Isis è questo: il carattere della strage nello Sri Lanka corrisponde perfettamente all’ideologia del Califfato. Sono stati colpiti le chiese dei fedeli e gli alberghi dei turisti perché, insieme, rappresentano i cristiani. Che nell’accezione di Al Baghdadi sono crociati, uomini e donne che, all’ombra della croce, intendono portare nella umma (comunità) islamica valori e costumi estranei e pericolosi. In altre parole, avviene oggi nello Sri Lanka ciò che è avvenuto negli ultimi anni in tutto Medio Oriente. Se questo è vero, gli eventi degli ultimi giorni riportano il problema del contrasto al terrorismo di matrice islamista alla casella del via. Al punto in cui eravamo quando, il 20 settembre del 2001, George Bush Junior proclamò la “war on terror” la guerra al terrorismo.Abbiamo militarizzato mezzo Medio Oriente, robuste porzioni di Asia e di Africa per quasi nulla. Certo per poco. Il terrorismo islamista è vivo e vegeto. Abbiamo tagliato le ramificazioni militari (Al Qaeda, Isis) ma la sua capacità strategica e organizzativa, quella più squisitamente terroristica, è intatta. È tuttora in grado, proprio come lo era prima del 2001, di trasformare un piccolo gruppo locale di fanatici quasi innocui, come il National Thowheeth Jamath dello Sri Lanka, in una micidiale macchina di morte. Quasi vent’anni dopo le Torri Gemelle, il lavoro da fare è ancora enorme. E anche in questo senso si torna alla casella del via. Il problema è sempre quello. Sappiamo con assoluta certezza, da infinite ricerche e dalle ammissioni di politici di mezzo mondo, prima fra tutte Hillary Clinton, che la centrale strategica del terrorismo islamista sunnita mondiale sta nelle petromonarchie del Golfo Persico, prima fra tutte l’Arabia Saudita. Bisogna intervenire lì. Ma forse, visto che la tendenza è piuttosto a ossequiarle, è più pratico rassegnarsi a tante altre Colombo. E Londra. E Madrid. E New York. E Parigi. E Bali. E Baghdad. E Cairo. E Kabul. E…

Cosa sappiamo e cosa non sappiamo degli attentati in Sri Lanka. Che si può dire del coinvolgimento dell'ISIS e degli attentatori, e a che punto sono le indagini. Scrive il 24 aprile 2019 Il Post. Sono passati tre giorni dai gravi attentati compiuti in Sri Lanka il giorno di Pasqua, che hanno provocato la morte di almeno 359 persone. Le autorità srilankesi stanno ancora indagando per capire come e da chi siano stati organizzati, e quali legami ci siano tra lo Stato Islamico (o ISIS) e un gruppo islamista locale individuato dal governo come il responsabile delle violenze. Facciamo un punto: cosa sappiamo e cosa ancora non sappiamo degli attentati?

Luoghi degli attacchi. Le esplosioni principali si sono verificate in tre chiese e in tre alberghi, in tre città diverse. Nel pomeriggio ci sono state altre due esplosioni, una in una piccola guesthouse e un’altra in un rifugio di un sospettato: in quest’ultima sono morti tre poliziotti. L’attacco più grave dovrebbe essere stato quello alla chiesa di San Sebastiano a Negombo, poco a nord della capitale Colombo, dove sono morte oltre 100 persone. Non si conosce ancora il bilancio dell’esplosione al santuario di Sant’Antonio a Colombo, mentre i morti alla chiesa di Zion di Batticaloa, sull’altra costa dello Sri Lanka, sono 28. Gli hotel colpiti, tutti a Colombo, sono lo Shangri-La, il Cinnamon Grand e il Kingsbury: nel primo si è fatto esplodere Mohammed Zaharan, leader del National Thowheeth Jama’ath, ha detto il vice ministro della Difesa. Sembra però che l’attentato allo Shangri-La sia stato anche l’unico a essere compiuto da due attentatori.

Bilancio. Il più aggiornato dice che i morti sono 359 e i feriti circa 500. Tra le vittime ci sono 39 stranieri, di cui almeno otto cittadini britannici, e poi danesi, indiani, turchi, olandesi, svizzeri, spagnoli, portoghesi, giapponesi e australiani. Secondo l’ONU, almeno 45 bambini sono morti.

ISIS. La rivendicazione dello Stato Islamico è arrivata martedì, con un ritardo inusuale per il gruppo, ha notato l’esperta di terrorismo Rukmini Callimachi del New York Times, ma forse spiegabile dalle recenti difficoltà dei vertici dell’organizzazione a trovare un posto sicuro da dove dirigere le operazioni. L’ISIS ha anche diffuso foto e “nomi di guerra” dei presunti attentatori suicidi. Il governo dello Sri Lanka aveva in precedenza accusato degli attentati il semisconosciuto gruppo terrorista locale National Thowheeth Jama’ath, sostenendo però la possibilità di legami con un’organizzazione terroristica straniera. Non è ancora chiaro quali siano stati i legami tra ISIS e National Thowheerth Jama’ath: ovvero se gli attentati siano stati diretti dall’ISIS o solo ispirati. Se fosse confermato il coinvolgimento dell’ISIS, sarebbe il più grave attentato mai diretto o ispirato dal gruppo, anche includendo i molti avvenuti negli ultimi anni in Siria e Iraq.

Christchurch. Martedì il ministro della Difesa dello Sri Lanka aveva detto che gli attacchi erano una ritorsione per l’attentato di Christchurch, la strage nelle moschee neozelandesi nella quale lo scorso marzo erano state uccise 50 persone di religione musulmana. Il primo ministro Ranil Wickremesinghe non ha voluto confermare questa ipotesi, che è stata commentata con prudenza e diffidenza da molti esperti: per preparare attentati come quelli di Pasqua servono infatti molti mesi di pianificazione. Nessuna delle comunicazioni ufficiali dell’ISIS, inoltre, ha citato la strage di Christchurch.

Arresti e indagini. Sono stati effettuati circa sessanta arresti, alcuni compiuti subito dopo le esplosioni, a testimonianza del fatto che agenzie del governo erano già a conoscenza di diversi indirizzi di persone sospettate di terrorismo. Le indagini si stanno attualmente concentrando sui possibili legami tra il National Thowheeth Jama’ath e l’ISIS, e sono aiutate da alcuni agenti dell’FBI. Wickremesinghe ha detto martedì che alcuni sospettati sono ancora in libertà, e potenzialmente in possesso di esplosivo.

Attentatori. Oggi il vice ministro della Difesa dello Sri Lanka ha detto che erano in tutto nove, una delle quali era una donna. Otto sono stati identificati, e martedì è stato diffuso un video che mostra un sospettato entrare nella chiesa di San Sebastiano a Negombo.

Avvertimenti e fallimenti dell’intelligence. Una delle principali questioni che si sta discutendo è quanto sapesse il governo dello Sri Lanka prima dell’attentato. Nei giorni scorsi sono state raccolte molte prove e testimonianze che raccontano di un importante fallimento dei servizi segreti, che erano a conoscenza di un concreto rischio di un attentato ma che non sono riusciti a evitarlo. Sappiamo che fin dal 4 aprile l’India avvisò lo Sri Lanka del rischio che il National Thowheeth Jama’ath stesse organizzando attentati nelle chiese del paese. Inizialmente i giornali americani avevano parlato di un avvertimento simile proveniente dagli Stati Uniti, ma mercoledì l’ambasciatore statunitense in Sri Lanka ha smentito. Il presidente srilankese Maithripala Sirisena ha ammesso una «mancanza» nel sistema di intelligence, e sono in corso indagini per verificare perché l’allerta non abbia portato ad azioni concrete per evitare gli attentati. Secondo il New York Times, almeno in parte questo fallimento nella catena di comando è da imputare a una faida politica in corso tra il presidente srilankese Maithripala Sirisena e il primo ministro Wickremesinghe, che l’anno scorso portò a una crisi e che ebbe come conseguenza l’esclusione di Wickremesinghe dall’accesso alle informazioni segrete più importanti. Intanto, un collaboratore di Sirisena ha detto che a breve il presidente sostituirà il segretario del ministro della Difesa e l’ispettore generale della polizia.

National Thowheeth Jama’ath. Non è ancora chiaro come abbia fatto uno semisconosciuto gruppo islamista che fino a pochi mesi fa era noto soltanto per aver vandalizzato alcune statue buddiste a organizzare un attentato così complesso. Sappiamo però che le autorità srilankesi stavano monitorando varie persone sospettate di essere affiliate al gruppo, compreso Mohammed Zaharan, leader del National Thowheeth Jama’ath: di lui sappiamo che si spostava tra India e Sri Lanka, e che era considerato poco più di un religioso di poco successo con idee estremiste e dedito a istigare violenza contro le persone non musulmane. L’intelligence indiana teneva d’occhio Zaharan dal 2018, dopo aver scoperto una cellula jihadista nell’India meridionale. Secondo il New York Times, i servizi segreti indiani si erano accorti di un’allarmante espansione nelle ambizioni del National Thowheeth Jama’ath, e perciò nelle scorse settimane avevano fornito nomi e indirizzi all’intelligence srilankese.

Polveriera indiana, la galassia jihadista tra al Qaeda e l’Isis che arde il continente. Chi sono i miliziani di National Thowheed Jamath. L’ultima frontiera del terrorismo islamista è un territorio immenso che va dall’India al Bangladesh, dove i gruppi estremisti soffiano sul fuoco dei vecchi conflitti. Scrive Alessandro Fioroni il 23 Aprile 2019 su Il Dubbio. Le autorità dello Sri Lanka sono sicure, dietro la strage di Pasqua, nella quale sono rimaste uccise 290 persone e altre 500 sono state invece ferite, c’è la mano di un gruppo jihadista locale, il National Thowheed Jamath. L’attacco coordinato a chiese cristiane e hotel di lusso dunque sarebbe opera di un’organizzazione che già lo scorso anno aveva danneggiato alcune statue buddiste nell’isola. Difficile dire se il National Thowheed Jamath fosse in grado di mettere in piedi un’azione così complessa e spettacolare, in questo senso fanno fede le parole del sottosegretario governativo Rajitha Senaratne per il quale è improbabile che «gli attacchi possano essere stati portati avanti solo da un gruppo di questo paese. C’è una rete internazionale senza la quale questi attacchi non sarebbero riusciti». Di tutto questo non esiste al momento evidenza, la tesi di un complotto arrivato da lontano potrebbe essere una mossa per allontanare le responsabilità dei servizi srilankesi i quali sarebbero stati avvertiti, dai colleghi stranieri, del pericolo di attentati, fin dal 4 aprile dagli. La polizia infatti non ha nascosto di aver ricevuto un allarme nel quale si evidenziava il pericolo di una vera e propria ondata di attacchi da parte dell’ NTJ, contro chiese e la sede diplomatica dell’India. In mancanza di rivendicazioni ufficiali lo spazio è stato conquistato dalle ipotesi. Negli ultimi mesi si sarebbero moltiplicate le segnalazioni di una crescente opera di proselitismo da parte dell’Isis. La notizia dell’uccisione di due cittadini srilankesi, che combattevano con lo Stato islamico in Siria e Iraq, nel 2015, ha indotto il primo ministro a ordinare indagini su possibili influenze dell’IS nel paese, per sondare i livelli di radicalizzazione tra la minoranza musulmana. In realtà la presenza di formazioni del radicalismo islamico in tutto il subcontinente indiano risale già a qualche anno fa. Nel 2014, Ayman al- Zawahiri, annunciò la nascita di al- Qaeda in the Indian Subcontinent (Aqis), un coordinamento di diversi gruppi che avrebbe dovuto sviluppare la jihad in un territorio immenso che comprendeva anche Pakistan e Bangladesh. Nel mirino, l’esercito indiano, la polizia e organizzazioni indù. L’opera di proselitismo fa leva sull’atteggiamento del governo indiano nei confronti dei musulmani in Kashmir. Quest’ultima è l’area principale nella quale si è concentrata l’ attenzione dei gruppi armati tanto da essere definita come nuova frontiera del terrorismo. Vi sono diverse formazioni che operano in India, tra i quali l’ Hizb- il- Mujahideen (Hm), Jaish- e- Mohammad (JeM) e gli Indian Mujaheddin (Im). Accanto ad essi agiscono le emanazioni dello Stato Islamico che, sebbene sconfitto in Siria ed Iraq, qui continua a soffiare sul fuoco di conflitti preesistenti causati dalla povertà che affligge le popolazioni musulmane. Anche l’Isis dunque ha tentato di infiltrarsi in Kashmir, al momento senza grande successo, attraverso il braccio politico creando la Wilayat Islamic State Jammu e Kashmir (Isjk). L’obiettivo dichiarato è quello dell’stituzione di uno stato islamico basato sulla legge della sharia.

Sri Lanka, Riccardi (Sant’Egidio): il martirio dei cristiani non è finito. «In troppi paesi del mondo si muore andando in chiesa. Ormai in molti Paesi frequentare le chiese di Cristo e cattoliche non è solo un rito ma un atto di coraggio», scrive  Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio il 21 aprile 2019 su Il Corriere della Sera. In troppi paesi del mondo si muore andando in chiesa. In Sri Lanka si viene uccisi anche il giorno di Pasqua, la festa più importante. Vari attentati hanno colpito tre chiese dell’isola e tre alberghi di lusso, dove soggiornano turisti stranieri. Il significato politico dell’attentato è ancora da decifrare. Si potrebbe pensare che sia un segnale agli stranieri e a una religione (il cristianesimo) considerata importata dagli stranieri. O un semplice atto per destabilizzare il paese.

Colpito luogo di convivenza multireligiosa. Ma la chiesa di Sant’Antonio, a Colombo, non solo è un santuario molto caro alla pietà dei cattolici dell’intera isola: basta andare ogni martedì per vederla affollatissima. C’è devozione anche da parte di musulmani, indù e buddisti alla statua del santo, in un luogo dove si conserva la memoria di un evento miracoloso. La chiesa è santuario nazionale, ma anche un luogo di convivenza multireligiosa, molto visitato a Colombo. La storia recente del Sri Lanka è gravida di tensioni. Nel 2009 sono state sconfitte dal governo le tigri tamil, insediate particolarmente nel Nord dell’isola. Ma i problemi non sono finiti, tanto che –dal 2018- è in vigore lo stato di emergenza, anche a seguito di alcuni attentati di estremisti buddisti contro i musulmani.

I buddisti sono la maggioranza. I buddisti rappresentano la maggioranza degli abitanti dell’isola, circa il 70%, mentre gli indù sono il 12% e i musulmani il 9,7%. I cristiani, minoritari, contano 1.500.000 fedeli, in larga parte cattolici. Rappresentano una comunità stimata e rispettata, anche per le sue opere educative e sociali. Del resto, il cardinale Ranjjt, la personalità cattolica più eminente del paese, ha dichiarato, dopo l’attentato che “si tratta di un momento molto, molto triste per tutti noi”. Non solo i cattolici sono le vittime dell’attentato, ma l’intera convivenza tra le religioni nel paese.

Le chiese cristiane sono divenute un obiettivo. E’ un fatto che le chiese cristiane, negli ultimi anni, sono divenute un obiettivo per chi cerca, con il terrorismo, di seminare divisioni e di attirare la pubblica attenzione. Per i cristiani, frequentare questi luoghi, in alcuni parti del mondo, non è un rito, ma un atto di coraggio, come in Egitto, Pakistan, Nigeria e altrove. Il martirio non è soltanto un fatto dei primi secoli del cristianesimo, ma una realtà del presente di tanti cristiani.

È una persecuzione mondiale 345 cristiani uccisi ogni mese. I dati sono allarmanti. I leader che ricordano le vittime di Colombo non hanno il coraggio di definirle cristiane, scrive Gian Micalessin, Martedì 23/04/2019, su Il Giornale. Sono i nostri Fratelli nella fede. Incarnano i nostri valori e le radici della nostra civiltà. Ma sono anche la comunità religiosa più perseguitata nel mondo. Eppure ce ne freghiamo. E prima di noi se ne fregano i rappresentanti di quella sinistra cultura del politicamente corretto che ha divorato l'Europa e sta contagiando un Vaticano sempre più incline a guardare ai Cristiani come ai propri figli minori. Eppure statistiche e medie mensili sono tremende. Ogni mese 345 Cristiani vengono uccisi per ragioni di fede, 105 chiese o edifici cristiani sono bruciati o attaccati, 219 credenti finiscono sotto processo o in galera per aver professato la fede nel Vangelo. Le inquietanti cifre, diffuse da Open Doors l'organizzazione americana che ogni anno certifica la condizione dei Cristiani nei paesi più ostili, sono il termometro della nostra ignavia. Le scopriamo solo quando i nostri fratelli nella fede vengono dilaniati dalle bombe nello Sri Lanka, vengono bruciati vivi in Nigeria ed India o fuggono dalle mattanza islamiste in Iraq e Siria. Certo coloro che per primi dovrebbero ricordarsene non sembrano assai propensi a farlo. Capita qui in Italia dove i migranti islamici sono il vero grande cruccio di un Vaticano raramente pronto a prendere le difese dei cristiani di Siria. È capitato in Birmania dove - durante la visita di Francesco - si è rischiato l'incidente diplomatico nel nome dei Rohingya musulmani, ma non si è spesa mezza parola per le minoranze cristiane oppresse dei Karen e dei Kachin. Capita nuovamente con i cristiani dello Sri Lanka trucidati dai jihadisti e perseguitati dagli estremisti buddhisti, ma ignorati, in passato, dalla Santa Sede. Eppure le persecuzioni dei cristiani sono la grande tragedia dell'epoca moderna. Rappresentano sia in termini quantitativi che qualitativi una delle più grandi ingiustizie e prevaricazioni di questo secolo. I numeri e le statistiche lo dicono con chiarezza. Ed è triste che fra le più ignorate, vi siano quelle di un'autorevole istituzione del Vaticano come l'Aiuto alla chiesa che soffre (Acs). Nei suoi rapporti Acs rivela che almeno 300 milioni di cristiani, cioè 1 su 7 dei nostri fratelli, vivono in paesi dove basta dirsi cristiani per subire violenza o finire in galera. E ancora peggiori sono i numeri raccolti tra l'1 novembre 2017 e il 31 ottobre 2018 da Watch List 2019, il rapporto annuale di Open Doors. In quei 12 mesi 4136 cristiani sono stati uccisi per ragioni legate alla loro religione, 2625 sono stati sbattuti in galera senza alcun processo e 1266 chiese sono state distrutte da violenze anti- cristiani. Ma il culmine dell'ipocrisia si nasconde nei twitter con cui Barack Obama, Hillary Clinton e Nathalie Loiseau, vice ministro per gli affari europei di Macron, ricordano la strage nello Sri Lanka. Per Obama e Hillary, le vittime non sono «cristiani» ma «Easter worshippers» ovvero «celebranti della Pasqua». Per la Loiseau semplicemente non esistono. Nel nome del politicamente corretto la parola Cristiani diventa tabù. Le vittime trucidate dentro le chiese mentre pregavano per la Resurrezione di Cristo diventano esseri senza identità, fedeli senza un nome. Se poi bisogna identificare i responsabili della mattanza la vaghezza diventa ancora più assoluta. I probabili assassini islamici si trasformano in non meglio identificati «estremisti religiosi» senza nome e senza fede precisa. Eppure il rapporto di Open Doors parla chiaro. «In almeno sette dei dieci paesi in testa alla classifica - scrive Watch List - la causa primaria della persecuzione e l'oppressione islamica. Questo significa che per milioni di Cristiani la fede in Gesù può avere conseguenze assai dolorose... In quei paesi i Cristiani possono essere trattati come cittadini di seconda categoria, venir discriminati nel lavoro o subire attacchi e violenze».

Trecento milioni di cristiani sotto attacco nel mondo. Sri Lanka, 290 le vittime delle stragi. Come ha documentato l’ultimo il rapporto sulla libertà religiosa di “Aiuto alla chiesa che soffre”, un fedele su sette vive in un paese che limita i suoi diritti. Scrive Gennaro Malgieri il 23 Aprile 2019 su Il Dubbio. Nel giorno di Pasqua il “terrorismo religioso” ha fatto irruzione nello Sri Lanka. La Cristianità ha subito il più terribile attacco che si ricordi nei tempi moderni. 290 morti ( almeno finora) ed un numero imprecisato di feriti: un bilancio agghiacciante. Il sistema di eliminazione dei credenti rimanda a quello utilizzato da Al Qaeda e dall’Isis: suicidi islamisti in tre chiese affollate di fedeli e in tre alberghi di lusso nei quali alloggiavano molti stranieri, soprattutto occidentali, dunque “crociati” per definizione. Le otto esplosioni, quasi simultanee, sono avvenute nella capitale Colombo e nelle città di Negombo, Batticaloa, Dehiwela. Da domenica mattina vige nel Paese il coprifuoco. Per quanto non rivendicato, l’attentato porta diritto al gruppo radicale islamico National Thowheeth Jama’ath che, secondo gli inquirenti, da tempo pianificava attacchi suicidi contro chiese cattoliche. Il mondo è scosso. La Cristianità è atterrita. La strage s’inquadra in una strategia terroristica che sembra intensificarsi con il passare del tempo. Dal 15 febbraio 2015, in Libia, quando un gruppo di di cristiani copti venne catturato e ucciso da militanti dell’Isis ad oggi sono state decine le sanguinose aggressioni alle comunità cristiane in tutto il mondo. Poi, tra le più cruente, quella dell’aprile 2015 nella Università di Garissa in Kenya dove un gruppo di estremisti islamici assassinò 148 giovani cristiani che si rifiutarono di recitare la professione di fede secondo il Corano; la strage del 4 marzo 2016 nello Yemen, dove un commando jihadista fece irruzione in un monastero ed uccise quattro suore che assistevano non disabili e anziani; Il 28 marzo 2016, a Lahore, in Pakistan un kamikaze si fece esplodere vicino ad una giostra facendo settanta morti dei quali circa una trentina di bambini; il 9 aprile 2017, Domenica delle Palme, due suicidi, in due chiese copte, ad Alessandria e a Tanta, in Egitto, provocarono decine di morti; il 27 gennaio 2018, a Jolo durante la Messa gli islamisti uccisero uccisi 23 cristiani. In Indonesia ed In Brasile nel 2018 altri cristiani furono assassinati. Il più recente attentato è stato messo a segno il 5 febbraio 2019, in Nigeria dove gli islamisti di Boko Haram, distintisi per deportazioni, stupri e violenza di ogni tipo contro giovani donne vendute come schiave sessuali ai miliziani dell’Isis, ha firmato la sua ultima impresa nel seminario di il seminario di Maiduguri facendo numerosi morti. Come ha documentato il Rapporto sulla libertà religiosa di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, un cristiano su sette vive in un Paese di persecuzione; quasi 300 milioni sono i cristiani a cui viene data letteralmente la caccia; in trentotto Stati, negli ultimi due anni, sono aumentate le violazioni della libertà religiosa. Dati che non sembrano destare inquietudini in quei governi, soprattutto occidentali, che della retorica dei diritti umani hanno fatto un mantra da utilizzare in ogni occasione. Ma non quando di mezzo ci sono cristiani che soffrono in ragione della loro fede. Anzi, con ben ventuno Paesi nei quali si registrano le più gravi a violazioni della libertà religiosa, i suddetti governi intrattengono buoni o ottimi rapporti, mai mettendo in evidenza, negli incontri bilaterali o vertici multilaterali, che il rispetto delle credenze e delle fedi dovrebbe venire prima dei molti preoccupati discorsi sulla crescita, sul Pil o sull’export. Con Afghanistan, Arabia Saudita, Bangladesh, Birmania, Cina, Corea del Nord, Eritrea, India, Indonesia, Iraq, Libia, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina, Siria, Somalia, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan e Yemen non c’è chi non cerchi accomodamenti di ogni tipo fino a dimenticare gli orrori che vengono perpetrati per esempio nella Corea di Kim Jong- un o nella Cina di Xi Jinping. Neppure vanno dimenticati gli Stati con cui l’Unione europea coltiva buoni rapporti per motivi commerciali soprattutto, mentre viene sistematicamente praticata la discriminazione nei confronti dei cristiani. Sono diciassette: Algeria, Azerbaigian, Bhutan, Brunei, Egitto, Federazione Russa, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Laos, Maldive, Mauritania, Qatar, Tagikistan, Turchia, Ucraina e Vietnam. L’India si segnala come il Paese nel quale l’intolleranza ha assunto proporzioni inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Il forte aumento delle violenze ai danni delle minoranze religiose e` coinciso con l’ascesa del Bharatiya Janata Party ( BJP): nel 2017 sono stati infatti compiuti 736 attacchi contro i cristiani, quasi il doppio rispetto ai 358 del 2016. La Cina, partner ormai strategico dell’Occidente, negli ultimi due anni ha adottato nuovi provvedimenti per reprimere i gruppi di fede percepiti come resistenti al dispotismo delle autorità comuniste. Nel gennaio 2018 il governo ha introdotto nuovi “regolamenti sugli affari religiosi”, che impongono ulteriori restrizioni ai gruppi religiosi, le cui attivita` sono limitate ad alcuni luoghi specifici. Ma è il Pakistan, Paese da sempre “strategico” e privilegiato dagli USA, che desta le maggiori preoccupazioni. La crescente dimensione degli gli estremisti islamici, fa ritenere che presto lo Stato adotterà la sharia come legge fondamentale. Intanto la la recente vicenda di Asia Bibi è già stata dimenticata. Adesso la croce è caduta sullo Sri Lanka. Quanto durerà l’indignazione e l’oblio seppellirà definitivamente i morti di Pasqua? 

Quell’esodo silenzioso dei cristiani di Siria, scrive il15 marzo 2019 Nidal Kabalan su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. La Siria, da molti considerata la culla del cristianesimo, si ritiene sia l’unico luogo al mondo dove ancora si parla e si insegna l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. La piccola cittadina storica di Maaloula, situata circa 65 chilometri a nord-est della capitale siriana Damasco, e i due vicini villaggi di Jubb’adin e Bakhah, hanno goduto per secoli di questo singolare privilegio. All’aramaico, la cui trasmissione si basa unicamente sulla comunicazione orale fra gli abitanti di questi tre piccoli centri abitati ai piedi dei monti Qalamoun (1500 metri sul livello del mare), il governo siriano ha dedicato speciali attenzioni e finanziamenti sin dal 2007. Il primo istituto ad insegnare a parlare e scrivere in neo-aramaico è stato aperto 12 anni fa e contava centinaia di studenti locali e nazionali, con lezioni ampiamente frequentate sia da cristiani che da musulmani. Nel 2013, fanatici islamisti fra cui i terroristi dell’Isis e di Al Nusra hanno invaso l’area e l’hanno devastata, infliggendo a tutta Maaloula vasti danni. Il monastero e la chiesa, edifici sacri dal valore storico unico, sono stati brutalmente saccheggiati. I jihadisti hanno distrutto o rubato statue, monumenti e artefatti rari. In seguito, la città è stata liberata dall’esercito siriano e dai suoi alleati, al caro prezzo di violente battaglie contro gli invasori. Oggi, la maggior parte degli edifici colpiti è stata restaurata. Maaloula può ora vantare la seconda statua di Gesù Cristo più grande al mondo, a cavallo di una sommità scenografica nei pressi di quest’area storica costellata di grotte, Mecca del cristianesimo globale. Analogamente alle sofferenze perpetrate dai gruppi terroristi islamici in Iraq negli ultimi anni, in Siria i cristiani, che rappresentano all’incirca il 12% di una popolazione di 23 milioni, prima del 1967 ne costituivano oltre il 30%, secondo alcune statistiche. I cristiani sono stati fra i principali bersagli del fanatismo islamico e delle milizie separatiste curde, appoggiate soprattutto dagli Stati Uniti, che nella regione mantenevano una forza militare di 2mila unità. Fra le aree maggiormente colpite si annoverano le città di Al Hasaké, nel nord del Paese, e Qamishli nel nord-est, da cui fuggì in massa la popolazione assira locale e dove i terroristi dell’Isis ridussero svariate chiese in macerie. Più di un milione di cristiani siriani ha abbandonato il Paese, man mano che i gruppi di estremisti, sostenuti da Arabia Saudita, Qatar, Turchia e persino da Israele, avanzavano devastando gli abitati cristiani nelle regioni nord e nordorientali, fino a quel momento caratterizzate da pace e prosperità. L’Isis e il resto della barbarie jihadista hanno ucciso, sequestrato, saccheggiato e stuprato ovunque siano arrivati e riusciti a prevalere; i territori cristiani non hanno fatto eccezione. Entrambi gli arcivescovi di Aleppo, Yazji e Bouloss, sono stati rapiti cinque anni fa da milizie islamiche pro-turche, nell’area di confine fra Aleppo e la Turchia, mentre facevano ritorno in città. Cosa ne sia stato di loro non è mai stato confermato, nonostante gli appelli e gli sforzi disperati per garantirne la liberazione incondizionata. Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case e a ristabilirsi in località diverse, più sicure, all’interno della Siria, e un numero ancora maggiore di siriani cristiani si è diretto perlopiù verso l’Europa, i Paesi scandinavi, l’Australia e gli Stati Uniti. I cristiani d’Oriente hanno sempre manifestato un forte sentimento nazionalista, un legame associativo incrollabile nei confronti delle loro radici orientali e del loro retaggio culturale. Secondo una percezione diffusa, sono loro i custodi della ricca storia e delle tradizioni locali, e persino dell’aramaico: tra i cristiani orientali, in patria e all’estero, si contano alcuni dei più importanti linguisti della regione, e dei più grandi poeti, scrittori, artisti e personalità politiche, specialmente in Siria, Libano e Iraq. L’appello di papa Giovanni Paolo II, in occasione del suo storico viaggio in Siria nel 2001, che rammentava ai Cristiani il “magnifico contributo” del Paese alla storia del Cristianesimo, qui è ancora ricordato con orgoglio. “Ricordiamo, infatti, che è in Siria che la Chiesa di Cristo scoprì il suo autentico carattere cattolico e assunse la sua missione universale”, aggiunse Giovanni Paolo II a Damasco, il 6 maggio 2001.

“Alle porte di Damasco, quando incontrò il Cristo Risorto, San Paolo apprese questa verità e ne fece il contenuto della sua predicazione. La realtà meravigliosa della Croce di Cristo, su cui era stata edificata l’opera della Redenzione del mondo, si manifestò davanti a lui”, proclamò il Papa, che ha inoltre elogiato gli importanti contributi dei santi siriani nel corso della storia. Insieme all’insanabilità della situazione politica, la brutalità della guerra in Siria ha assunto pericolose dimensioni di settarismo religioso, che hanno portato alla luce una struttura sociale squilibrata e hanno avvelenato, con un clima di diffidenza, ansia e incertezza che governa le vite di numerose minoranze, le comunità etniche, denominazioni religiose e segmentazioni settarie che caratterizzano la società siriana, storicamente coesa e armoniosa. Otto anni di conflitto catastrofico hanno colpito duramente i cristiani in Siria e quasi certamente hanno riportato alla mente le tragedie umanitarie e i massacri di cui i cristiani d’Oriente sono stati vittime. Memorie di questo tipo possono averli indotti a temersi destinati all’annientamento, cosicché la migrazione ha rappresentato per loro l’unica possibilità di sopravvivenza. I cristiani considerano la Siria la culla della loro fede, oltre che il sito di numerosi spazi di carattere sacrale, quali chiese, monasteri e santuari. Damasco ospita il Patriarcato ortodosso di Antiochia e dell’Oriente sia per la Chiesa ortodossa siriaca che per quella greco-ortodossa, ed è inoltre la sede del Patriarcato cattolico di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme per la denominazione greco-melchita. Mentre la guerra continua ad infuriare in Siria, la migrazione al contagocce dei singoli cristiani in fuga si è trasformata in un esodo di massa. Il numero di cristiani in Siria, dal 30% della popolazione nel 1967, è sceso a meno del 10%, secondo le statistiche recenti. I dati rilevati dalle Nazioni Unite per l’anno 2016 affermano che, dei 5.5 milioni di rifugiati Siriani, 825mila erano cristiani. Le gravi condizioni dei cristiani in Siria perdurano, e la continua minaccia alla loro esistenza è di enorme importanza per il Paese rispetto alla sua identità storica, al suo retaggio culturale e alla compagine della sua società. La Chiesa, e in senso più ampio il mondo, hanno la responsabilità morale e umana di impedire che la culla del cristianesimo svanisca completamente.

Francia, cristiani sotto attacco, scrive l'1 aprile 2019 Matteo Carnialetto su Gli Occhi della Guerra. “Figlia prediletta della Chiesa”. Così è stata definita la Francia dopo la conversione di Clodoveo I nel 496. Eppure di questa figlia è rimasto ben poco. Almeno a a guardare i numeri impietosi degli ultimi anni. Non c’è di mezzo soltanto la secolarizzazione, i credenti che sono sempre di meno e i parroci che si contano sulle dita di una mano. Oltralpe si sta registrando un vero e proprio attacco contro la civiltà cristiana, come racconta Avvenire che si è preso la briga di ricostruire e di mettere in ordine gli ultimi assalti. 

31 gennaio: nella cittadina di  Vendôme viene trafugato il tabernacolo. 

3 febbraio: è la volta di “Lusignan, nella periferia di Poitiers, e Talmont-Saint-Hilaire, sul litorale atlantico della Vandea”, dove vengono, ancora una volta, violati i tabernacoli.

5 febbraio: una volta entrati in chiesa, i fedeli rimangono di sasso. Qualcuno ha preso le ostie e, dopo averle gettate per terra, le ha imbrattate con degli escrementi. Il vescovo locale parla apertamente di “profanazione” e chiede, quindi, una pubblica riparazione.

9 febbraio: un attacco simile si registra a Notre-Dame di Digione. I criminali agiscono all’alba, profanando ancora un a volta le ostie. Negli stessi giorni, scrive sempre Avvenire, “altri 5 luoghi di culto sono stati saccheggiati in tutto il Paese, in modo anche grave sul piano materiale, ma senza violazione del tabernacolo”. L’ultimo fatto, in ordine di tempo, riguarda invece l’incendio della chiesa di Saint Sulpice, in circostanze ancora da chiarire.  Monsignor Olivier Ribadeau Dumas, portavoce della Conferenza episcopale, scrive invece su Twitter: “Chiese incendiate, saccheggiate, profanate. Non potremo mai abituarci a questi luoghi di pace in preda a violenze, al corpo di Cristo calpestato, proprio ciò che abbiamo di più bello e prezioso”. Del resto pare proprio che la Francia sia sotto attacco. E sono i numeri a dirlo. Solamente nel 2018 ci sono stati tre caso al giorno. I dati del ministero dell’Interno parlano chiaro: le azioni anticristiane sono state infatti 1063. Numeri in crescita rispetto al 2017 dove se ne erano registrati 1038. L’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani ha raccolto invece dati ancora più impietosi, con un aumento di attacchi pari al 25%. 

·        Fabrizio Quattrocchi ucciso dai jihadisti e ammazzato due volte da Pd e Anpi.

Quarta Repubblica, scontro Alessandro Sallusti-Vauro: "Se Quattrocchi è un mercenario lo era pure Che Guevara". Libero Quotidiano il 4 Dicembre 2019. Scontro durissimo in diretta da Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, tra Alessandro Sallusti e Vauro Senesi. In studio si parla di Fabrizio Quattrocchi: "Lui lo diceva che era un mercenario, lo ha detto in una intervista", sbotta il vignettista. "Quattrocchi era innanzitutto un contractor", contrattacca il direttore de Il Giornale: "non un mercenario. In secondo luogo, anche Garibaldi e Che Guevara seguendo il tuo ragionamento erano dei mercenari, allora". "Sì ma non erano fuorilegge rispetto alle leggi italiane", lo interrompe Vauro. Poi interviene il conduttore: "Era medaglia d'oro della Repubblica italiana. Di cosa stiamo parlando?". 

Lo sfregio dell'Anpi a Quattrocchi: "Il ponte non sia intitolato a lui". Caos sulla decisione del Comune. L'Anpi: "Troppo vicino alla piazza intitolata al partigiano Firpo". La famiglia: "Il ponte era già intitolato a Firpo". Francesca Bernasconi, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. Una targa, in memoria di Fabrizio Quattrocchi, una guardia di sicurezza privata, che nel 2004 venne rapito e ucciso in Iraq, da un gruppo di islamisti. E Genova ha deciso di rendergli omaggio, intitolandogli il ponte pedonale sul Bisagno. Ma non a tutti è piaciuta l'idea. Ad indignarsi davanti alla decisione del Comune è stata l'Anpi, che non sembra contestare in sé l'intitolazione del ponte a Quattrocchi. Il problema sarebbe la sua ubicazione e ha chiesto di sospendere la cerimonia, già fissata per domani, lunedì 2 dicembre, durante la quale saranno presenti anche le due sorelle della guardia di sicurezza italiana. Il problema, secondo quanto riporta il Secolo d'Italia, sarebbe la posizione del ponte pedonale: la passerella, infatti, collega corso Galliera con piazzetta Attilio Firpo. Firpo, nome di battaglia Attila, era un capo partigiano, fucilato dai nazisti nel 1945. Un accostamento che, per l'Anpi di Genova, sarebbe fuori luogo e in contrasto con la storia del partigiano: "Firpo è stato ucciso per liberare la propria patria, mentre Quattrocchi era una persona impegnata su teatri di guerra stranieri per scelta professionale". Per questo, l'Anpi ha chiesto al Comune di "sospendere la cerimonia e cercare una nuova e più adeguata collocazione alla targa di Quattrocchi". Contro la decisione anche la famiglia Firpo che, secondo quanto riporta Repubblica, avrebbe indirizzato al Comune una lettera aperta, chiedendo di non intitolare quel ponte a Quattrocchi: "La storia dovrebbe essere maestra - scrivono i Firpo - ma se ne distruggiamo la memoria rischiamo di ripetere gli stessi errori. I simboli servono a mantenere memoria e attenzione". La reazione della famiglia del partigiano deriva dal fatto che il ponte sarebbe stato precedentemente intitolato ad Attila, eventualità smentita dal Comune, che sostiene che la passerella non fosse intitolata a nessuno. Ma le mappe del comune di Genova dimostrano il contrario. Firpo, fucilato dai nazisti, è morto per difendere la patria. E, a detta dell'Anpi, la morte di Quattrocchi non avrebbe lo stesso significato, dato che la guardia italiana si trovava in Iraq per motivi professionali e la sua azione non era volta a difendere l'Italia. Ma, nel giugno 2004, il Sunday Times pubblicò un intervista a uno dei rapitori, che dichiarò di aver visto il video dell'uccisone dell'uomo. Secondo il rapitore, Quattrocchi, inginocchiato dentro una fossa con le mani legate, avrebbe chiesto: "Tu che parli italiano concedimi un desiderio, toglimi la benda e fammi morire come un italiano".

Fabrizio Quattrocchi ucciso dai jihadisti e ammazzato due volte da Pd e Anpi: la vergogna di Genova. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano l'1 Dicembre 2019. Vi prego, non uccidete Fabrizio Quattrocchi per la seconda volta, non aggiungete alla morte brutale per mano di terroristi devoti ad Allah la damnatio memoriae causata da squadristi rossi. Non impedite che di lui resti vivo almeno il nome, lui che perse la vita da martire e da eroe provando a togliersi la benda prima di essere fucilato in Iraq dai suoi rapitori nell' aprile 2004 e gridando «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano». E allora lasciate che domattina in modo meritorio gli venga intestata una strada, perlopiù nella città dove vennero celebrati i suoi funerali e dove ora egli è sepolto, Genova. E non state a sentire il blaterare livoroso e disumano dei rappresentanti locali dell'Anpi, che trovano quell' intitolazione inopportuna in quanto la passerella del ponte sul fiume Bisagno che verrà dedicata a Quattrocchi passa proprio vicino a una piazza intestata a un partigiano fucilato dai nazisti, Attilio Firpo. 

Due martiri - Secondo i custodi del Pensiero Unico e della Memoria Faziosa quei due martiri non possono convivere a pochi metri di distanza perché, spiegano gli Illuminati, «Firpo è stato ucciso per liberare la propria patria, mentre Quattrocchi era una persona impegnata su teatri di guerra stranieri per scelta professionale». Quindi mentre Firpo, cui vanno i nostri onori (fu prelevato dal carcere e trucidato), deve essere giustamente ricordato come patriota, Quattrocchi sarebbe a detta dei partigiani un mercenario, perché "reo" di essere stato un contractor, ossia una guardia di sicurezza privata, e non un volontario o un militare arruolato. Quasi che sia lo status professionale e il contratto di ingaggio a fare di un combattente, e più in generale di un cittadino e di un essere umano, un eroe o meno. Dall' Anpi potresti anche aspettartelo, ma è riprovevole che ad opporsi a quell'intitolazione sia anche un rappresentante istituzionale, ossia il presidente del municipio di Genova dove verrà dedicata la via a Quattrocchi, tale Massimo Ferrante del Pd. Il quale non sarà presente domani alla cerimonia in quanto l' intestazione, dice, «è inopportuna, considerato quello che rappresenta Firpo». Se proprio vogliamo attenerci alla forma, dovremmo ricordare a lui e all' Anpi che quell' intitolazione è stata decisa in modo democratico dal consiglio comunale di Genova attraverso una delibera: nessuna imposizione politica, nessuna scelta autocratica. Ma i compagni sono soliti intendere a modo loro la democrazia: e così, alla faccia della libertà, i partigiani continuano a far pressione affinché «il Comune sospenda la cerimonia e cerchi una nuova e più adeguata collocazione alla targa di Quattrocchi». La vicenda, oltre che grave in sé per l' offesa alla memoria di un uomo cui si dovrebbe solo rendere onore, è anche sintomatica della nuova egemonia ideologica che oggi la sinistra prova a esercitare: quella sulla toponomastica. Per questa ragione in una città come Roma è tuttora impossibile dedicare una via al più grande esponente della destra italiana nel Dopoguerra, Giorgio Almirante.

Lenin e il Che - E per lo stesso motivo, mentre nella Capitale sono state rimosse le targhe intitolate a due scienziati fascisti, Donaggio e Zavattari, firmatari del Manifesto della Razza (di cui certo non sentiremo la mancanza), non si capisce perché non si faccia lo stesso nei confronti di leader comunisti come Lenin e Che Guevara, che hanno seminato morte e terrore e a cui sono dedicate strade in tutta Italia. È come se, ormai incapace di riempire le piazze, la sinistra provi a lasciare nelle piazze una propria traccia attraverso i nomi dello stradario. E insieme impedisca non solo alla destra, ma in generale a chi si sente fieramente un italiano, di ottenere un riconoscimento nella toponomastica. È la sinistra ridotta alla app di Google Maps: avendo perso la bussola e la retta via, e non sapendo più che strada prendere per arrivare alla meta, prova ad avere il pieno controllo sui nomi delle strade. Peccato che in queste miserie ideologiche venga coinvolto anche il ricordo di un uomo come Quattrocchi che andò in guerra, combatté e ci rimise la pelle; e che ci insegnò come morire, mostrandoci che una vita spesso si riassume nel modo in cui finisce. Lui lo fece con dignità e amor patrio, a testa alta. Quella Vita merita di essere celebrata almeno con una Via. Gianluca Veneziani

Ponte intitolato a Quattrocchi, ma è polemica: Comune fa dietrofront. Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Corriere.it. La toponomastica può essere divisiva. Specie se a essere in gioco è la memoria storica. Succede a Genova, con l’intitolazione di una passerella pedonale sul fiume Bisagno a Fabrizio Quattrocchi, contractor militare rapito in Iraq il 13 aprile 2004, insieme ai colleghi Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. I suoi colleghi vennero liberati, lui venne ucciso quasi subito da un piccolo gruppo islamista chiamato «Falangi Verdi di Maometto». Il 13 marzo 2006, su proposta del governo di Silvio Berlusconi, il presidente Carlo Azeglio Ciampi gli conferì la medaglia d’oro al valor civile. La decisione della giunta comunale di Genova risale al 2017, all’indomani dell’elezione di Marco Bucci a capo di una maggioranza di centrodestra, su proposta di Fratelli d’Italia: ma quella stessa passerella era già nota per essere intitolata al partigiano Attilio Firpo (come risulta anche da un controllo su Google Maps), anche se per gli archivi del comune la passerella era ufficialmente «senza intitolazione». Curiosamente, Firpo, nome di battaglia «Attila» morì il 14 gennaio 1945 in un modo molto simile a Quattrocchi: con un proiettile alla nuca da parte dei nazifascisti, a freddo, dopo che gli era stata promessa la libertà. Dopo la decisione dell’amministrazione di centrodestra, l’Anpi ha emesso un comunicato nel quale ha stigmatizzato come inopportuna l’intitolazione del ponticello pedonale. L’inaugurazione era prevista per la giornata di lunedì 2 dicembre nonostante il dissenso aperto dell’opposizione di centrosinistra, che aveva invitato il governo del Municipio Bassa Valbisagno, governato dal Pd e dai suoi alleati, a disertare la cerimonia. Sembrava si andasse allo scontro, come quando a fine aprile 2018 il consigliere comunale Sergio Gambino, membro del gruppo Fratelli d’Italia, aveva presenziato a una commemorazione dei caduti della Repubblica Sociale Italiana presso il cimitero monumentale di Staglieno, in una cerimonia organizzata dall’associazione di estrema destra Lealtà e Azione. Più recentemente, in occasione delle commemorazioni dei defunti, il comune aveva inviato una corona di fiori per lo stesso motivo, ricevendo il plauso di Casapound. Stavolta però, è intervenuta la sorella di Quattrocchi, Graziella, chiedendo di scegliere un altro luogo da intitolare al civile caduto in Iraq, per evitare che la decisione generi «contrasti non voluti sia per noi, sia per la famiglia Bucci». A quel punto è arrivato il dietrofront del sindaco Bucci. Per Quattrocchi verrà trovata una nuova strada da dedicare. Nel frattempo però nella serata di domenica c’è stato un raid del gruppo neofascista denominato «Azione Frontale Genova» che ha deciso comunque di scoprire la targa e nelle vicinanze sono apparse le scritte «Ora e sempre Resistenza» e «Ponte Attilio Firpo» con vernice bianca. Insieme a un’altra, di dubbio gusto, che con vernice nera scrive «Quattrocchi mercenario». Quindi il ponte rimarrà intitolato a Firpo, in quella Val Bisagno che ricorda anche i partigiani Silvio Solimano, Giovannni Battista Cavagnaro e Romeo Guglielmetti nell’intitolazione di giardini e passerelle che solcano il corso del torrente.

·        Terrorismo Islamico. I media? Dalla parte dei carnefici.

Burkina Faso sotto i colpi del jihad: cristiani trucidati in chiesa in tutto il paese. Leone Grotti 29 aprile 2019 su Tempi. Cristiani protestanti e cattolici uccisi in chiesa, sacerdoti rapiti, villaggi saccheggiati. Nel paese si è passati dai 12 attentati islamisti del 2016 ai 158 del 2018. Un commando di jihadisti ha fatto irruzione in una chiesa protestante domenica, durante la funzione, uccidendo cinque cristiani, inclusi il pastore e due suoi figli. L’attentato, come riporta la Bbc, è avvenuto nella piccola città di Silgadji, vicino a Djibo, la capitale della provincia settentrionale di Soum. Il numero di attacchi da parte di terroristi islamici nel paese dell’Africa occidentale è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni. Secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled), Al Qaeda, Stato islamico e il gruppo locale Ansarul Islam ne hanno effettuati almeno 12 nel 2016, 33 nel 2017 e 158 nel 2018. Dal 2015, almeno 350 persone sono morte nelle violenze.

CHIESE E SCUOLE SOTTO ATTACCO. Solo pochi giorni prima dell’attentato alla chiesa, venerdì, un gruppo di jihadisti ha attaccato il villaggio orientale di Maitaougou, uccidendo sei persone, tra le quali cinque insegnanti e un dipendente del Comune. Il 5 aprile, presso un villaggio della diocesi settentrionale di Dori, durante la celebrazione della Via Crucis alcuni uomini armati sono entrati nella chiesa cattolica e dopo aver separato gli uomini dalle donne e dai bambini hanno ucciso quattro fedeli che avevano tentato la fuga. Come dichiarato a Fides dal vescovo Laurent Dabiré, «prima di andarsene i banditi hanno saccheggiato il villaggio». Solo tra il 31 marzo e il 2 aprile almeno 62 persone hanno perso la vita nei pressi di Arbinda, nel nord del paese, in un attacco jihadista.

NOTIZIE FALSE SUL SACERDOTE RAPITO. Il 17 marzo inoltre è stato rapito il parroco di Djibo, don Joel Yougbaré, e da allora non si sa nulla delle sue condizioni. Ieri sui social network è uscita la notizia del presunto ritrovamento del suo corpo, impiccato a un albero. Sempre secondo il vescovo, però, la notizia è falsa: «Si tratta di una notizia diffusa sui social media e poi ripresa da alcuni organi di stampa. Si indicava un luogo dove si sarebbe trovato il corpo impiccato di don Joël. Abbiamo effettuato delle ricerche nel luogo indicato ma non abbiamo trovato nulla. Non sappiamo chi ha diffuso questa notizia e perché».

LA CRISI DEL SAHEL INVESTE IL BURKINA FASO. La guerra che coinvolge il Sahel e che fino a pochi anni fa ha riguardato soprattutto il Mali, si è estesa al confinate Burkina Faso a partire dal 2015. Dapprima gli attacchi hanno coinvolto quasi esclusivamente il nord del paese e sono stati condotti da Ansarul Islam, il cui leader Malam Ibrahim Dicko, predicatore islamico, era diventato famoso per aver messo in discussione l’ordine sociale e religioso vigente nel nord. Il gruppo jihadista, che usa il Mali come base logistica, ha approfittato dello scontento della popolazione verso il governo statale (accusato di non sviluppare dal punto di vista economico e infrastrutturale l’area) e della debolezza dello Stato. L’insurrezione, cominciata nel nord, si è rapidamente estesa anche alla parte orientale del paese. Uno degli obiettivi dei terroristi islamici, secondo gli analisti di Crisis Group, sarebbe quello di estendere gli attacchi a tutto il paese per distrarre le forze anti-terrorismo francesi presenti nel Sahel e mettere in difficoltà la forza militare congiunta G5 Sahel. A farne le spese sono ancora una volta i cristiani, che sempre più spesso vengono presi di mira da gruppi jihadisti per garantirsi maggiore eco in tutto il mondo.

Sri Lanka: bombardamento in cerca d'autore. Scrive il 23 aprile 2019 Piccole Note de il Giornale. La settimana santa, iniziata con l’incendio (non doloso) di Notre Dame è finita con le bombe alle chiese dello Sri Lanka. In une delle ultime note avevamo accennato come il fumo levatosi dalla Cattedrale di Notre Dame fosse “di nefasto auspicio, per la Chiesa, in particolare, ma anche per il mondo” (Piccolenote). Così ci ritroviamo oggi a commentare un’oscurità presagita. Non un vanto, semplice registrazione della banalità del male – come da titolo del noto libro della Arendt -, il quale ha coazione a ripetersi in modalità diverse ma sempre uguale a se stesso. Attacco alla Chiesa, dunque, nel giorno di Pasqua. Non alla chiesa particolare, quella dello Sri Lanka (che piange le sue, nostre, vittime), ma a quella universale, dato che globale è la rete che ha ucciso e globale è il suo obiettivo. Ma anche un attacco all’ordine del mondo, almeno a certo ordine del mondo, in favore del caos al quale i signori del Terrore sono consegnati. Da qui l’attacco a turisti d’Occidente, che ha anche conferito maggior pubblicità alla strage. L’attacco non è stato rivendicato a lungo. Così si è dibattuto sulle problematiche locali, le tensioni interne che al tempo hanno causato in questa isola lontana una delle più feroci guerre per procura del mondo. Problematiche che pure esistono, ma di ordine secondario. Si è dibattuto anche sugli ignorati, reiterati, allarmi giunti nei giorni antecedenti, i quali indicavano anche i colpevoli, un gruppo estremista denominato National Thowheed Jamath. Avvisi incredibilmente ignorati nonostante. National Thowheed Jamath è ora accusata del misfatto, anche se con certa prudenza, data la risibilità del caso: finora il gruppo si è limitato a vandalizzare qualche statua buddista. Davvero arduo pensare possa aver compiuto un’azione tanto sofisticata, con sei esplosioni in contemporanea e altre due in micidiale successione. La strage presuppone un alto livello di intelligence. Tanto che, per supportare l’insupportabile, si è dovuto allargare il tiro: il gruppo locale sarebbe stato solo il terminale di una rete globale. Resta la bizzarria di un’organizzazione tanto sofisticata che per eseguire un attentato di tale portata si affida a una banda di cialtroni facinorosi. Arduo crederlo ma tant’è. Per quanto riguarda le menti vere e proprie si naviga a vista, stante che l’Isis conta 32 affiliati in Sri Lanka, conteggio preciso che indica un monitoraggio accurato (anche se pone domande sul fatto che tale manipolo non conosca le patrie galere). Detto questo, postuma e quindi alquanto incredibile nonostante l’accreditamento, è arrivata la rivendicazione dell’Isis. Usa a rivendicare un po’ di tutto, colpisce che non si sia precipitata a farlo nell’occasione, anche se farina del sacco altrui. Segno che nell’Agenzia del Terrore c’è dibattito, che può essere spiegato con il senso di tale Agenzia per i neocon e per le loro guerre infinite, così preziose alla loro causa (dato che generano caos). I neocon ad oggi stanno puntando tutto sulla rielezione di Trump, che pur essendo loro ostile è preferibile agli attuali democratici. Da qui il dubbio per l’Isis di rovinare la festa ai loro acerrimi quanto necessari nemici, dato che solo alcuni giorni fa l’America ha annunciato la vittoria sull’Agenzia del Terrore in Siria. La lunga assenza di un colpevole ha generato panico nel mondo e nei potenti, dato che tale vuoto non è accettabile in un pianeta consegnato alla narrazione. Così a spezzare l’attesa, e prima della postuma rivendicazione  dell‘Isis, è giunta la rivendicazione di Mike Pompeo, che a nome dell’amministrazione Usa ha addossato l’eccidio a radicali islamici. Accusa generica, ma che consentiva di alimentare le narrazioni di cui sopra. Va ricordato, en passant, che il dolore di Pompeo stride un pochino con il fatto che radicali islamici siano di fatto alleati degli Usa in Yemen (fonte Cnn), guerra che in questi giorni il Congresso Usa ha provato a chiudere infrangendosi contro il veto presidenziale; o che gli Usa e i loro alleati  impediscano a siriani e russi di attaccare i radicali islamici incistati a Idlib. E così via. Come stride il fatto che, ancora caldi i corpi delle vittime, Trump abbia stretto ancora di più la morsa contro l’Iran, nemico giurato dei radicali islamici di marca jihadista (vedi Financial Times – Piccole Note). Un mondo impazzito produce mostri. Banalità del Male, appunto. Quel Male che, dopo l’incendio (non doloso) di Notre Dame, si è manifestato in tutta la sua crudeltà il giorno in cui la Chiesa fa memoria della vittoria di Gesù. Quella vittoria per cui il tempo si è fatto breve. Da qui la fretta e quindi un di più di ferocia. Ps. Oggi giornata movimentata in altro luogo caro ai cristiani. Un pazzo, a Lourdes, ha preso in ostaggio due persone e sparato all’intorno. Pagina di cronaca nera finita bene, per fortuna. Non c’entra con la nota in questione, ma certa suggestione c’è.

Strage in Sri Lanka: la guerra Santa che non vogliamo vedere. I 290 morti del giorno di Pasqua sono l'ennesimo episodio di aggressione verso i cristiani, scrive il 22 aprile 2019 Panorama. I terroristi che hanno colpito con le bombe uccidendo 290 persone (almeno) e ferendone altre 500 hanno scelto proprio la Messa della Pasqua per il loro attentato. Le cerimonia più sacra, nel "giorno" per eccellenza di ogni cristiano del mondo. Hanno colpito quando le chiese erano stracolme, hanno colpito mentre si celebrava la resurrezione di Cristo. Tutto questo non è un caso. Avessero messo le stesse bombe in uno stadio o in una stazione ferroviaria all'ora di punta, o nel bel mezzo di una festa avrebbero fatto forse ancora più morti. Ma non era quello il loro obiettivo. Nel giorno in cui ancora questi terroristi restano senza una matrice, le bombe senza una rivendicazione, l'unica cosa sicura è che hanno voluto colpire ed uccidere dei Cristiani in nome di una "Guerra Santa" che oramai va avanti da decenni, in diverse parti del mondo, ma di cui nessuno parla. E chissà poi perché. Certo, la lontananza di questi episodi non ci porta ad un coinvolgimento totale ma questo non deve distogliere la realtà. I cristiani vengono uccisi in Africa, Asia ogni giorno. Ma facciamo finta di non vedere. Ci sono persone che mettono bombe in una Chiesa a Pasqua; ce ne sono altre che esultano sul web mentre Notre Dame brucia ("in nome di Allah"). Ma non si può dire. O, chi prova a farlo, è il solito "razzista" che fomentano "un pericoloso clima d'odio"...Sarebbe ora di smetterla di tacere e di raccontare le cose come stanno. La stessa chiarezza con cui, ad esempio, dell'uomo che ha fatto strage in una moschea di Christchurch, in Nuova Zelanda abbiamo detto che era: bianco, xenofobo, di destra e razzista. Se vogliamo almeno difenderci in questa "Guerra Santa" forse dovremmo cominciare anche a descrivere con tutti gli aggettivi del caso quelli che ci ammazzano.

Antonio Socci, la vergogna sulla strage di cristiani in Sri Lanka: "Cosa e perché ci vogliono nascondere", scrive il 22 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. C'è un aspetto a dir poco "surreale" il giorno dopo la strage di Pasqua in Sri Lanka, nella quale sono morti 290 cristiani, mentre 500 sono rimasti feriti. Delle otto bombe esplode in altrettante chiese durante le affollate messe pasquali, mancano dettagli fondamentali per avere un quadro chiaro di quanto accaduto. Come fa notare Antonio Socci: "Si tace sia il nome dei carnefici, sia il nome delle vittime". L'ecatombe che ha colpito la comunità cristiana cingalese, minoritaria rispetto a quella islamica e buddista, si sta guadagnando a fatica lo spazio che merita sui media internazionali. E il sospetto di buona parte del mondo cristiano è che "la nuova censura politically correct", come scrive Socci, si stia abbattendo sulla strage in Sri Lanka. "Perché non si dice chi sono gli attentatori? - si chiede Socci - E perché i cristiano non sono nominabili come vittime?". 

Barbara Palombelli, amarissima verità: "La strage dei cristiani e Notre-Dame...", scrive il 22 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "La strage di cristiani e di turisti occidentali nel giorno di Pasqua interessa meno del tetto di Notre Dame... incomprensibile indifferenza!". L'analisi stringata ma efficacissima è di Barbara Palombelli, che scrive il suo pensiero su Facebook. La giornalista fa riferimento al grado di partecipazione della gente alla strage in Sri Lanka dove sono morte 290 persone e al crollo del tetto della basilica francese che ha suscitato un'emozione pazzesca in tutto il mondo: lo testimoniano le foto sui social e i messaggi. Qui non è morto nessuno ma evidentemente è stato un fatto percepito più vicino a noi. 

Ora è vietato criticare l'islam anche quando è assassino: l'accusa di Renato Farina. Scrive il 24 Aprile 2019 su Libero Quotidiano.  Che Pasqua è questa. Il sepolcro vuoto di Cristo è inondato dal sangue di coloro che nel lontano Sri Lanka, isola favolosa dell' Oceano Indiano, erano accorsi a messa festanti per celebrare la resurrezione. Lontani ma così vicini alla nostra memoria che per un attimo abbiamo ritrovata. Dalle loro case avevano raggiunto le chiese dell' antica Ceylon, evocante la gentilezza di una tazza di tè, con quella capitale che ha un nome familiare: Colombo, nostri parenti anche in questo. Di primo mattino, come Maria Maddalena e le altre donne di Gerusalemme duemila anni. Ma le pie donne avevano trovato giovani in candide vesti, angeli probabilmente, ad annunciare: «Non è qui, perché cercate tra i morti colui che è vivo?». I bambini erano pronti anch' essi, come d' uso in tutto il mondo, ad agitare i campanelli insieme con i chierichetti alla proclamazione di quel fatto testimoniato e creduto oppure no, ma ineludibile per l' intero mondo. L' istante più sacro che esista è stato infranto dalla volontà di morte, che si fa fatica a ritenere opera di uomini. Invece sì. Sono uomini, mossi da una volontà di devastazione di ciò che sia un segno cristiano. Sono anni che accade e riaccade il giorno di Pasqua in Nigeria, in Pakistan, in Iraq, in Egitto. Sempre loro. Sono l' internazionale islamica del terrore che trova sempre nuovi capi, ma tagli la testa di Bin Laden in terra afgana, e salta su quella di Al Baghdadi in Siria. La schiacci lì e rinasce in Sudan, nelle Filippine, in Indonesia. In Sri Lanka! Le mamme e i padri, i nonni e le nonne avevano condotti lì per mano i piccini vestiti di colori sgargianti, le colombe della pace, le uova simbolo di vita nuova, l' ostia bianca consacrata. Alle 8 e 45 contemporaneamente in tre grandi chiese, dove c' è stato il massimo numero di morti, e in tre hotel a cinque stelle, sono esplose le bombe, con geometrica infame potenza. Il bilancio provvisorio, mentre nuove bombe esplodono qua e là vicino alle chiese, è di quasi 300 morti e 500 feriti. Tra essi, ufficialmente, 36 stranieri, specialmente americani, poi olandesi, danesi, un francese, un cinese...LA STATUA INTATTA La statua di Gesù della chiesa di Sant' Antonio a Colombo è rimasta intatta. Proprio come la croce in Notre Dame a Parigi. Ma questo Cristo è cosparso di sangue, come se fossero le sue lagrime, ed in fondo è così: è l' esplosione di sangue dei suoi poveri amici venuti a incontrarlo nel giorno della sua gloria. Una vecchia storia profetizzata dai Vangeli: «Vi perseguiteranno». Scelgono sempre i povericristi. Questo è il tempo dei martiri. A noi importa poco di loro, diciamocelo francamente. Se no sapremmo che i 300 morti ammazzati a 8mila chilometri da casa nostra, tra i quali la grandissima parte cattolici, sono un piccola porzione dei cristiani che sono stati meticolosamente ridotti a carcasse da fossa comune, solo perché credenti, nel 2018. Sono 4.300! Qui non consideriamo le vittime delle guerre, ma le persone o le comunità individuate precisamente in base al loro atto di fede festiva. La graduatoria vede al primo posto la Nigeria, poi il Pakistan, quindi l' India. In quest' ultimo caso i cattolici, quasi tutti provenienti dal mondo tribale, sono stati arsi vivi o linciati da folle inferocite di indù. Si rifletta: in passato venivano assassinati per lo più i missionari. In Algeria negli anni '90 sono stati uccisi dagli islamici fondamentalisti 19 monaci (tra cui un vescovo) e suore perché ritenuti propagandisti cristiani, venuti dall' estero a convertire i musulmani (e moltissimi algerini coraggiosi che li frequentavano pur devoti al Corano sono stati a loro volta giustiziati). Da qualche anno invece si colpiscono le minoranze per ripulire le nazioni dal cancro cristiano. O vi convertite o ve ne andate o vi uccidiamo. Questi ci tengono alla loro fede, e loro li ammazzano. E l' Occidente ben raramente adotta misure per rendere sconveniente questa orrenda decimazione. Lo ha denunciato il Papa il giorno di Pasqua, con il volto sconvolto dalle notizie dallo Sri Lanka: «Siamo indifferenti», ha detto. Messaggio alle Masse - E certo un po' di responsabilità però ce l' ha anche la predicazione delle gerarchie, in rima baciata con il sistema di pensiero global-progressista. Il messaggio che arriva alle masse è di colpevolizzazione delle periferie egoiste e della gente comune, con lo sguardo esclusivo solo al percorso e all' arrivo di chi emigra o fugge, piuttosto che coinvolgere le coscienze responsabilizzando tutti, governanti e cittadini, a una solidarietà che si diriga a combattere nel profondo le pulizie etnico-religiose nei Paesi di partenza. Magari invitando i cattolici occidentali a una presenza di amicizia collaborativa in Africa e Asia, coinvolgendo gli islamici che sono qui. E promuovendo non certo l' invio di eserciti liberatori (perniciosi: vedi Iraq ecc) ma investimenti culturali ed economici condizionati alla libertà religiosa. Quanti pensieri vengono. Difficile scacciarli. A me parrebbe slealtà non riferirli. Se la stessa cura con cui ci si inchina ogni giorno di persona e con i discorsi ai profeti dell' ecologia, fosse dedicata ai cristiani perseguitati, ci sarebbe meno ignoranza e meno indifferenza. Intanto gli sforzi generosi e per lui personalmente rischiosi per creare fraternità tra le religioni sembrano scontrarsi, con la constatazione della successiva devastazione della comunità cristiana locale. Il 13 gennaio 2015, Francesco aveva iniziato la sua visita in Sri Lanka con un appassionato incontro interreligioso a Colombo. Ceylon ha 22 milioni di cittadini. Di essi il 70% è buddista, gli induisti sono il 13%, i musulmani il 9%, i cristiani (in maggioranza cattolici) sono il 7%. Alla cerimonia quel giorno c' erano i leader di tutte le confessioni. Risultato? Nel 2018 il rapporto sui diritti dell' uomo del Dipartimento di Stato Usa denunciava che le organizzazioni cristiane e le varie chiese hanno subito pressioni per «interrompere tutte le loro attività», e le autorità hanno parlato a questo riguardo di «manifestazioni non autorizzate». Anche i buddisti infatti hanno i loro estremisti. Prima che sui siti jihadisti partissero gli «Allah Akbar!» di giubilo per le stragi, sono stati monaci arancioni a diffondere foto su internet con le dita a V. Al punto che all' inizio si è sospettato sì di una matrice religiosa, ma avrebbe potuto essere di tutti i tipi. Diciamo però che l' odore inconfondibile dell' islam terrorista ci è arrivato subito nelle narici. 4.300 martiri cristiani nel 2018... Ripeto la cifra: quattromilatrecento. Bambini, vecchi, madri, padri. Immaginiamoli in fila, stesi a terra. Anzi, impossibile. Molti sono spappolati. I numeri giungono, nel momento in cui li scopriamo, come una faccenda sconosciuta, vietato farlo sapere dalle nostre parti, per timore che sia considerata notizia poco consona alla pace sociale, come se la convivenza debba reggersi sull' oscurantismo e sull' ignoranza. Le teniamo nascoste. Ci interessa di più calmare le nostre paure che occuparci del sangue dei nostri fratelli. In fondo ci basta che i carnefici non spostino la loro macchina infernale a casa nostra, dove certo contano su sostenitori a iosa. Calcolo meschino. Calcolo miope. Noi viviamo in tempo di martiri. Impariamo da loro il coraggio. E chi può un po' di fede e di speranza. Renato Farina

OGGI QUI, DOMANI ALLAH. Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 23 Aprile 2019. La notizia dei morti ammazzati in Sri Lanka è risaputa: circa trecento vittime. Le televisioni l' hanno lanciata e rilanciata, ma con garbo. Come se fosse un fatto ordinario, tipo tamponamento sulla Salerno-Reggio Calabria. Niente di eccezionale. Pochi (o nessun giornalista) hanno detto fuori dai denti che gli assassini sono musulmani esaltati, kamikaze, terroristi spietati persino contro se stessi, visto che si annientano goduti allo scopo di sterminare cristiani e occidentali. Il motivo che induce la mia categoria a essere prudente nell' accusare i maomettani di stragismo è drammaticamente semplice. Il pensiero unico progressista è che i figli di Allah spesso non sono figli di puttana, bensì bravi ragazzi fedeli di una religione nobile che hanno varie ragioni per odiare noi che non adoriamo il loro Dio. Siamo intimiditi dagli islamici e li rispettiamo al punto di non imputare loro crimini orrendi. E la sinistra in particolare, non più dotata di voti sufficienti per governare, però ancora padrona di molte leve di potere, cerca di proteggere gli immigrati dal Medioriente nella speranza di rabbonirli e farseli amici. Il fine è evidente, traspare dalla maniera in cui gli ultrà rossi agiscono. Non hanno neanche il coraggio di ammettere che il monopolio del terrorismo ce l' hanno i cannibali dell' islam. E se tu cronista racconti le cose come stanno e affermi che la cultura di certa gente è in contrasto con la nostra e sarebbe bene osteggiarla, vieni punito. È vietato dall' Ordine dei giornalisti descriverla in forma corretta, ossia proclamare che faremmo meglio a prenderne le distanze. Non c' è verso di poter essere aderenti alla realtà, guai a fare un titolo che definisca bastardi gli attentatori. Non sei obbligato a lodarli, ma costretto a non deplorarli. Chi non si attiene a queste regole paradossali si becca la sanzione e deve stare attento se non vuole poi essere radiato. Insomma i carnefici che in Sri Lanka hanno massacrato una moltitudine di persone sono degli illustri sconosciuti non meritevoli di essere insultati. Quando verrà fuori, e ciò sta avvenendo, che sono islamici saremo indotti, in omaggio alla deontologia del cavolo, a giustificarli. Saremo pregati di usare, dandogli addosso, un linguaggio ossequioso perché - tutto sommato - chi uccide centinaia di uomini, donne e bambini, in fondo non ha torto. Così è anche se vi fa schifo, noi italiani siamo convinti che leccando i piedi ai musulmani avremo il vantaggio di essere soppressi per ultimi. Oriana Fallaci aveva intuito tutto, noi siamo persuasi che irrorando saliva su chi ci perseguita ce la caveremo, almeno per un po'. Illusione. 

ADORATORI DEL POLITICAMENTE CORRETTO. DAGONOTA il 23 Aprile 2019. A Dagospia non frega nulla della polemica sulla locuzione Easterworshippers. Noi peraltro non abbiamo parlato di ''adoratori della Pasqua'' con la connotazione negativa/pagana che qualcuno ha voluto dare, bensì di ''coloro che santificano la Pasqua'' nel senso dei cristiani che partecipano alle funzioni in chiesa. Il problema è che la locuzione – e chiunque conosca il mondo liberal americano lo sa – è grammaticamente e pure logicamente corretta, ma fa parte di quel portafoglio lessicale costruito in punta di piedi per evitare di offendere chicchessia, un po' come quell'''operatore ecologico'' che negli anni '90 da noi sostituì il netturbino/spazzino. Il problema non sta nei sovranisti italiani che non sanno l'inglese, come certi ultra-sapientoni di Twitter hanno subito scritto, perché le critiche nascono in America, tra persone che parlano inglese come lingua madre. Quella locuzione suona stonata e artificiale all'orecchio di chiunque l'ascolti, non c'è niente da fare, anche se (e nessuno lo ha messo in dubbio) è stata già usata in passato, e pure da conservatori. Chi dice che è più semplice di una lunga perifrasi non ha torto. Ma era ancora più semplice dire ''cristiani''.  Hillary Clinton e Barack Obama quando twittarono a proposito della strage di Christchurch in Nuova Zelanda parlarono di muslim community. Applicando lo stesso codice precisino, avrebbero dovuto scrivere mosque-goers, coloro che si recano alla moschea, visto che l'attentatore (un bianco razzista e suprematista) non colpì musulmani a caso in mezzo alla strada ma quelli che in un determinato momento erano in moschea, per pregare o per altri motivi. Era giusto presumere che chiunque si trovasse nella moschea in quel momento fosse di religione islamica, così come sarebbe stata appropriata la stessa presunzione per le vittime in Sri Lanka. La christian community si trasforma in un igienizzato ammasso di persone senza volto che in quel momento e per quella domenica si erano incontrate in chiesa, quasi per caso, a celebrare la Pasqua. E' un dato di fatto: dire ''cristiani'' è pericoloso, sono terrorizzati che qualcuno usi le loro parole per fomentare uno scontro di civiltà, e per lo stesso motivo nessuno (dei politicamente correttissimi) dice più ''radicalismo islamico'' o ''terrorismo islamico''. Tra i musulmani incazzati il problema non si pone, i cristiani li chiamano direttamente ''crociati'' e fanno prima.

Giampiero Gramaglia per ''il Fatto Quotidiano'' il 23 Aprile 2019. Si sa che meditazione e riflessione non sono carte vincenti sui social media, dove quel che conta sono spontaneità e immediatezza. Ma stavolta sul web circola il sospetto che Papa Francesco sia stato troppo flemmatico, sul suo account Twitter @Pontifex; e che Barack Obama e Hillary Clinton abbiano invece esagerato con il politically correct, reagendo agli attentati di Pasqua nello Sri Lanka che hanno fatto 290 vittime e centinaia di feriti. E c' è chi mette a confronto la tempestività di Francesco nell' esprimere su twitter la sua emozione, lunedì 15 aprile, per il rogo di Notre-Dame con la lentezza dopo le bombe nelle chiese di Colombo e di altre città dell' isola Stato, avanzando il sospetto che i cingalesi siano cristiani di serie B, rispetto a quelli di Europa, America, Africa, i continenti dove il cristianesimo è più radicato. Chi si lascia portare da emozione e dolore è l' arcivescovo di Colombo, cardinale Malcom Ranjith, che, a caldo, chiede che i responsabili degli attentati "siano puniti senza pietà", perché "solo degli animali possono comportarsi in quel modo". Parole poco cristiane, tanto più che nello Sri Lanka vige la pena capitale. Di fronte a critiche e sospetti, la difesa di Papa Francesco ha ottime frecce al suo arco. È vero che il pontefice solo ieri ha twittato così: "Uniamoci anche oggi in preghiera con la comunità cristiana dello Sri Lanka colpita da una violenza cieca nel giorno di Pasqua. Affidiamo al Signore risorto le vittime, i feriti e la sofferenza di tutti. #PrayForSriLanka". Ma il giorno di Pasqua, alla fine delle celebrazioni in Piazza San Pietro, in mondovisione e davanti a 70 mila fedeli, dopo la messa e la benedizione Urbi et Orbi, leggendo il messaggio pasquale, Papa Francesco aveva già detto: "Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che, proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore in alcune chiese e altri luoghi di ritrovo dello Sri Lanka. Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono tragicamente scomparsi e prego per i feriti e tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento". Favorito dal fuso orario, il Papa, con le sue parole, era persino arrivato prima del presidente Usa Donald Trump, che, quando c' è da twittare, non è secondo a nessuno, a rischio di spararle grosse. In un primo messaggio, infatti, parlava di "138 milioni di morti" e di "orribili massacri terroristici". Poi rimuove il tweet dalla rete e s' adegua alla realtà: "138 persone sono state uccise nello Sri Lanka, e oltre 600 gravemente ferite - era il bilancio a quel momento, ndr -, in un attacco terroristico a chiese e hotel. Gli Stati Uniti porgono le più sentite condoglianze al grande popolo dello Sri Lanka. Siamo pronti ad aiutare!". Trump non cita i cristiani e il suo tweet si colloca tra quello rituale di Buona Pasqua e una raffica d' aspre polemiche, che più l' appassionano, contro l' opposizione democratica sul Russiagate. Ma le polemiche non lo sfiorano. Le critiche, invece, investono Barack Obama e Hillary Clinton che, nel condannare su Twitter gli attacchi in Sri Lanka, usano il termine "adoratori della Pasqua" invece di parlare semplicemente di cristiani. "Cosa diavolo è un adoratore della Pasqua? Un termine per evitare di usare la parola 'cristiani'", si legge in un messaggio di risposta. E, in un altro: "Hey Hillary Clinton e Barack Obama, gli 'adoratori della Pasqua' cui vi riferite si chiamano cristiani. È qualche sillaba in più rispetto a musulmani, ma scommetto che riuscite a pronunciarla". Ieri, Trump ha fatto le condoglianze al premier dello Sri Lanka Ranil Wickremesinghe, deprecando "uno degli eventi terroristici più mortali sin dall' 11 settembre 2001". Trump ha assicurato allo Sri Lanka aiuto "nel perseguire i responsabili", nel quadro "del comune impegno contro il terrorismo globale".

Davide Piacenza per wired il 23 Aprile 2019. Non conoscere l’inglese è sintomo di una sincera adesione al sovranismo più illuminato? La domanda, ancorché retorica, è lecita, se consideriamo che per l’intera giornata di lunedì 22 aprile commentatori, giornalisti e semplici passanti dell’indignazione hanno parlato in toni apocalittici (il riferimento biblico è d’obbligo) di due tweet a commento dei tragici fatti dello Sri Lanka, dove, nella giornata di Pasqua, una serie di bombe di matrice terroristica ha ucciso 290 persone, tra cui moltissimi fedeli cristiani raccolti in preghiera. Al momento l’ipotesi più accreditata è che dietro la strage ci sia un commando jihadista. A finire nell’occhio del ciclone sono stati i messaggi di cordoglio affidati a Twitter da Hillary Clinton e Barack Obama: sia l’ex segretario di stato che il 44esimo presidente degli Stati Uniti, nell’esprimere la loro vicinanza alle vittime, hanno definito queste ultime “Easter worshippers”, fedeli che celebravano la Pasqua. E non l’avessero mai fatto: una fitta schiera di difensori della cristianità e dei valori dell’occidente ci ha letto una calcolata resa all’innominabile Islam, un tributo al politicamente corretto sulla pelle delle vittime a Colombo. Il giornalista del Foglio Giulio Meotti ha attaccato frontalmente “l’orrendo duo Obama-Clinton”, aggiungendo “‘cristiani’ non ce la fanno proprio a scriverlo”; il saggista Antonio Socci twitta su una “nuova censura politically correct”; un articolo apparso su Agi sostiene che i due liberal americani abbiano scelto una “formulazione volutamente asettica per non nominare i cristiani”, dato che i worshippers sarebbero “quelli che si trovavano dentro l’edificio di culto il giorno di Pasqua, e cioè quelli che vanno a Messa il giorno di Pasqua”, quindi anche le persone di fede ebraica. La questione, rimpallata sui social network di post in post, è finita addirittura in prima serata con l’immancabile servizio del Tg2, tutto dedicato al nemico interno della società occidentale. Eppure, come talvolta accade, la questione era molto più semplice degli alti moniti venuti dai defensor fidei: si trattava, per cominciare, di conoscere l’inglese, per l’appunto. Sì, perché nell’ambito della lingua inglese – come spiega la linguista Licia Corbolante su Twitter – la scelta di Obama è stata molto precisa: i worshippers sono infatti i fedeli riuniti nel place of worship, il luogo di culto, nel caso specifico le chiese cristiane; non bastasse, lo stesso Easter indica precisamente – ed esclusivamente – la Pasqua cristiana. “Easter worshippers”, dunque, non potevano essere altro che i cristiani riuniti in preghiera a Colombo. Obama come sempre è stato molto preciso nella scelta delle parole: "place of worship" è il luogo di culto e "worhsippers" sono i fedeli: in questo modo ha indicato che è stato colpito chi era in chiesa e stava assistendo a funzioni religiosi cristiane? Senza contare che la stessa identica espressione era stata usata appena il giorno prima degli attentati in un lancio d’agenzia di Associated Press relativo a Notre Dame, poi diventato un titolo finito su tutti i giornali, dal Washington Post alla trumpianissima Fox News – ironia della sorte. Quindi, fatta la tara alla traduzione errata in cui sono incappati più o meno tutti, cosa rimane della grande polemica a difesa della cristianità? Il fatto che Obama e Clinton avrebbero comunque potuto scrivere cristiani, come obietta ancora qualcuno: ma francamente non si capisce a questo punto se l’intento più auspicabile, in un’occasione del genere, a poche ore da una strage con centinaia di morti, debba essere il mostrare solidarietà a un paese colpito, o pigiare su un certo branding del terrore. Quello avvenuto in Sri Lanka è stato un atto di terrore islamico contro fedeli cristiani? Con ogni probabilità – e per quanto sappiamo mentre scriviamo – sì; Obama e Clinton hanno voluto sminuire l’accaduto cercando di depistare? No. E sostenere – come fa l’autore Corrado Ocone – che i due in tal senso rappresentino il “nemico interno dell’Occidente” fa un torto alla logica, oltre che a eventuali immeritati certificati linguistici. Dopo i fatti di Christchurch del mese scorso, quando un uomo in Nuova Zelanda ha aperto il fuoco in una moschea, uccidendo 49 musulmani in preghiera, il presidente americano in carica Donald Trump si è rifiutato di parlare di un atto di terrorismo suprematista bianco – ovvero esattamente di ciò che era appena successo – limitandosi a condividere (e poi cancellare) un tweet con un link all’homepage di Breitbart News, il noto sito americano divulgatore di propaganda e fake news antimusulmane. Lo stesso Trump che, per una beffarda coincidenza, ha commentato la strage in Sri Lanka con questo tweet, che parla solo di “persone”. In questo caso, stranamente nessun novello crociato ha voluto difendere i valori occidentali di libertà e solidarietà stigmatizzando la reticenza del presidente.

·         Terrorismo Islamico. La sinistra? Dalla parte dei carnefici.

Matteo Salvini svela la vergogna di Pd e Nicola Zingaretti: "Quello urlava Allah Akbar, e loro...". Scrive il 23 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Nel mirino di Matteo Salvini ci finiscono il Pd e Nicola Zingaretti. L'occasione per attaccare i dem è l'ultimo fato di cronaca avvenuto a Roma, una lite tra clochard al termine della quale uno dei due senza tetto è stato accoltellato poiché sfoggiava un crocifisso. E su Twitter, in calce a una foto di Zingaretti, il ministro dell'Interno picchia durissimo: "Il Pd è impegnato a negare il movente religiosonell'aggressione di Roma vicino alla stazione Termini ma dimentica che il giorno di Pasqua, a Torino, un senegalese ha aggredito due poliziotti urlando Allah Akbar", conclude Salvini. Già, compagni che sbagliano. E che soprattutto scordano...Il Pd è impegnato a negare il movente religioso nell'aggressione di Roma vicino alla stazione Termini ma dimentica che il giorno di Pasqua, a Torino, un senegalese ha aggredito due poliziotti urlando "Allah Akbar". 

Vittorio Feltri e i "cannibali islamici protetti dalla sinistra". La sfida: "Io li chiamo figli di...". Scrive il 23 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La notizia dei morti ammazzati in Sri Lanka è risaputa: circa trecento vittime. Le televisioni l' hanno lanciata e rilanciata, ma con garbo. Come se fosse un fatto ordinario, tipo tamponamento sulla Salerno-Reggio Calabria. Niente di eccezionale. Pochi (o nessun giornalista) hanno detto fuori dai denti che gli assassini sono musulmani esaltati, kamikaze, terroristi spietati persino contro se stessi, visto che si annientano goduti allo scopo di sterminare cristiani e occidentali. Il motivo che induce la mia categoria a essere prudente nell'accusare i maomettani di stragismo è drammaticamente semplice. Il pensiero unico progressista è che i figli di Allah spesso non sono figli di puttana, bensì bravi ragazzi fedeli di una religione nobile che hanno varie ragioni per odiare noi che non adoriamo il loro Dio. Siamo intimiditi dagli islamici e li rispettiamo al punto di non imputare loro crimini orrendi. E la sinistra in particolare, non più dotata di voti sufficienti per governare, però ancora padrona di molte leve di potere, cerca di proteggere gli immigrati dal Medioriente nella speranza di rabbonirli e farseli amici. Il fine è evidente, traspare dalla maniera in cui gli ultrà rossi agiscono. Non hanno neanche il coraggio di ammettere che il monopolio del terrorismo ce l'hanno i cannibali dell'islam. E se tu cronista racconti le cose come stanno e affermi che la cultura di certa gente è in contrasto con la nostra e sarebbe bene osteggiarla, vieni punito. È vietato dall'Ordine dei giornalisti descriverla in forma corretta, ossia proclamare che faremmo meglio a prenderne le distanze. Non c'è verso di poter essere aderenti alla realtà, guai a fare un titolo che definisca bastardi gli attentatori. Non sei obbligato a lodarli, ma costretto a non deplorarli. Chi non si attiene a queste regole paradossali si becca la sanzione e deve stare attento se non vuole poi essere radiato. Insomma i carnefici che in Sri Lanka hanno massacrato una moltitudine di persone sono degli illustri sconosciuti non meritevoli di essere insultati. Quando verrà fuori, e ciò sta avvenendo, che sono islamici saremo indotti, in omaggio alla deontologia del cavolo, a giustificarli. Saremo pregati di usare, dandogli addosso, un linguaggio ossequioso perché - tutto sommato - chi uccide centinaia di uomini, donne e bambini, in fondo non ha torto. Così è anche se vi fa schifo, noi italiani siamo convinti che leccando i piedi ai musulmani avremo il vantaggio di essere soppressi per ultimi. Oriana Fallaci aveva intuito tutto, noi siamo persuasi che irrorando saliva su chi ci perseguita ce la caveremo, almeno per un po'. Illusione. Vittorio Feltri 

La sinistra censura l’odio islamico. Scrive il 23 aprile 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Quante precauzioni senza senso. Non si riesce proprio a capire per quale strano motivo la sinistra abbia sempre paura di denunciare il terrorismo islamico. Non solo quando gli attentati sono lontani, si guardano dal fare qualsiasi allusione ai seguaci di Maometto. Anche quando l’emergenza è a casa nostra, chiudono gli occhi in nome di un imprecisato politically correct. Che cosa aspettano? Forse l’irreparabile? Oggi i progressisti si sono infuriati con Matteo Salvini perché ha scritto a Prefetti e Questori chiedendogli di “aumentare controlli e attenzione in luoghi di aggregazione di cittadini islamici” in modo da “prevenire ogni tipo di violenza contro cittadini innocenti”. La levata di scudi è stata generalizzata. Il responsabile della comunicazione del Pd, Marco Miccoli, ha accusato il ministro dell’Interno di “sollevare un polverone”. “Aumenta paura e insicurezza”, ha fatto eco la deputata Giuditta Pini mentre Lia Quartapelle gli ha dato dell’”irresponsabile” ed è addirittura arrivata a dire che “fomenta l’odio e l’aggressività”. E così via. Eppure i fatti sono davanti gli occhi di tutti. Sabato scorso un marocchino ha tentato di sgozzare un passante perché portava al collo un crocifisso. Certo, erano due clochard. E, forse, per la sinistra questo particolare fa derubricare le violenze a una banale lite. Ma l’africano ha urlato “Italiano cattolico di merda”. Tanto che il pm ha contestato al 37enne il reato di tentato omicidio con l’aggravante dell’odio religioso. Se questa aggressione non dovesse bastare a fare aprire gli occhi, domenica pomeriggio un senegalese, tal Ndiaye Migui, ha aggredito due poliziotti con una sbarra di ferro. Mentre gliela dava addosso ha urlato “Allah Akbar”, l’esclamazione che solitamente usano i terroristi islamici prima di attaccare. I due agenti se la sono cavata con una ferita alla testa e una alla mano. Ma avrebbe potuto andargli peggio. Come sarebbe potuto andare peggio se la polizia non fosse riuscita ad anticipare le mosse di due lupi solitari, Giuseppe “Yusuf” Frittitta e Ossama Ghafir, che volevano fare un’azione eclatante a bordo di un camion. Li hanno arrestati la scorsa settimana prima che potessero colpire. Al telefono dicevano: “La legge di Allah non si applica se non con la spada. E bisogna essere crudeli con i traditori. Devono morire tutti”. Per i dem “non bisogna dare giudizi affrettati”. Ogni volta trovano il modo di girare intorno alle parole per censurare chi sono i colpevoli. La parola “terrorismo” raramente viene affiancata dall’aggettivo “islamico”. Basta scorrere i titoli della stampa progressista all’indomani di un qualsiasi attentato. La matrice viene quasi sempre omessa. E lo stesso vale per i fatti di cronaca. E puntualmente, quando ci ritroviamo in campagna elettorale, tornano a proporre ricette che hanno sonoramente fallito: ius soli, accoglienza indiscriminata dei migranti e apertura dei porti, corridoi umanitari, cooperazione e così via. Mai nessuno di loro che abbia il coraggio di parlare di sicurezza, contrasto all’estremismo islamico e prevenzione nelle comunità musulmane. Mai. E i risultati sono davanti agli occhi di tutti noi.

·         Terrorismo Islamico. Il Papa? Dalla parte dei carnefici.

Il Papa a Pasqua: «Dolore  per lo Sri Lanka ma Dio  non abbandona chi soffre». Pubblicato domenica, 21 aprile 2019 da Corriere.it. « Cristo vive e rimane con noi. Egli mostra la luce del suo volto di Risorto e non abbandona quanti sono nella prova, nel dolore e nel lutto». A mezzogiorno, davanti ad una piazza colma di settantamila fedeli, Francesco si affaccia alla loggia centrale di San Pietro per il tradizionale messaggio Urbi et Orbi, alla città e al mondo, nel giorno di Pasqua. Sono passate poche ore dagli attentati in tre chiese e altrettanti hotel in Sri Lanka. Dopo il messaggio e la benedizione, il Papa prende di nuovo la parola: «Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore nello Sri Lanka. Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alle comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono così tragicamente scomparsi e prego per i feriti e per tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento». Francesco lo ha detto nel suo messaggio: «Davanti alle tante sofferenze del nostro tempo, il Signore della vita non ci trovi freddi e indifferenti. Faccia di noi dei costruttori di ponti, non di muri». Il Papa ripercorre le troppe situazioni di dolore del pianeta, a cominciare dalla Siria: «Cristo il Vivente, sia speranza per l’amato popolo siriano, vittima di un perdurante conflitto che rischia di trovarci sempre più rassegnati e perfino indifferenti. È invece il momento di rinnovare l’impegno per una soluzione politica che risponda alle giuste aspirazioni di libertà, pace e giustizia, affronti la crisi umanitaria e favorisca il rientro sicuro degli sfollati, nonché di quanti si sono rifugiati nei Paesi limitrofi, specialmente in Libano e in Giordania». Il pensiero di Bergoglio si rivolge a tutta la regione: «La Pasqua ci porta a tenere lo sguardo sul Medio Oriente, lacerato da continue divisioni e tensioni. I cristiani nella regione non manchino di testimoniare con paziente perseveranza il Signore risorto e la vittoria della vita sulla morte. Un particolare pensiero rivolgo alla popolazione dello Yemen, specialmente ai bambini, stremati dalla fame e dalla guerra. La luce pasquale illumini tutti i governanti e i popoli del Medio Oriente, a cominciare da israeliani e palestinesi, e li sproni ad alleviare tante sofferenze e a perseguire un futuro di pace e di stabilità». E ancora, «le armi cessino di insanguinare la Libia, dove persone inermi hanno ripreso a morire in queste ultime settimane e molte famiglie sono costrette a lasciare le proprie case», alza lo sguardo il Papa: «Esorto le parti interessate a scegliere il dialogo piuttosto che la sopraffazione, evitando che si riaprano le ferite di un decennio di conflitti ed instabilità politica». Francesco invoca la pace per «tutto l’amato continente africano, ancora disseminato di tensioni sociali, conflitti e talvolta da violenti estremismi che lasciano insicurezza, distruzione e morte, specialmente in Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria e Camerun». In particolare si sofferma sul Sudan «che sta attraversando un momento di incertezza politica e dove auspico che tutte le istanze possano trovare voce e ciascuno adoperarsi per consentire al Paese di trovare la libertà, lo sviluppo e il benessere a cui da lungo tempo aspira», e sul Sud Sudan, i cui leader si sono di recente incontrati in Vaticano per cercare un accordo dopo cinque anni di guerra civile: «Possa aprirsi una nuova pagina della storia del Paese, nella quale tutte le componenti politiche, sociali e religiose s’impegnino attivamente per il bene comune e la riconciliazione della Nazione».

In questa Pasqua, prosegue Francesco, «trovi conforto la popolazione delle regioni orientali dell’Ucraina, che continua a soffrire per il conflitto ancora in corso. Il Signore incoraggi le iniziative umanitarie e quelle volte a perseguire una pace duratura». Il Papa si rivolge poi a chi, nel continente americano, «subisce le conseguenze di difficili situazioni politiche ed economiche». In particolare, pensa «al popolo venezuelano, a tanta gente priva delle condizioni minime per condurre una vita degna e sicura, a causa di una crisi che perdura e si approfondisce» e prega: «Il Signore doni a quanti hanno responsabilità politiche di adoperarsi per porre fine alle ingiustizie sociali, agli abusi e alle violenze e di compiere passi concreti che consentano di sanare le divisioni e offrire alla popolazione gli aiuti di cui necessita». Infine, «il Signore risorto illumini gli sforzi che si stanno compiendo in Nicaragua per trovare al più presto una soluzione pacifica e negoziata a beneficio di tutti i nicaraguensi». Ma la preghiera del pontefice è universale: «Cristo, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore delle armi tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati. Il Risorto, che ha spalancato le porte del sepolcro, apra i nostri cuori alle necessità dei bisognosi, degli indifesi, dei poveri, dei disoccupati, degli emarginati, di chi bussa alla nostra porta in cerca di pane, di un rifugio e del riconoscimento della sua dignità».

Vaticano, Papa Francesco travolto dalla valanga: "Neanche una parola sulle stragi. Invece sui migranti...", scrive il 22 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Vietato parlare di strage di cristiani in Sri Lanka. Una nuova valanga su Papa Francesco all'indomani delle terrificanti carneficine nelle chiese di Colombo, che recano la firma di gruppi terroristici islamici attivi nell'ex Ceylon. Molti hanno notato, sgomenti, che su Twitter l'account ufficiale del Santo Padre, @Pontifex_it (decisamente più di un canale istituzionale), non una riga ha riservato alla condanna del gesto sanguinoso né al ricordo delle quasi 300 vittime (oltre a 500 feriti). Certo, c'è stato un fugace messaggio di cordoglio durante l'omelia dalla finestra di San Pietro, domenica. Ma l'ultimo post su Twitter è di oltre 24 ore fa, e come i precedenti recita messaggi eucaristici ed evangelici pasquali, senza alcun riferimento alla drammatica attualità che pure chiamerebbe in causa direttamente l'esistenza stessa della Chiesa nella aree a rischio del mondo. Non solo, dunque, Bergoglio proprio come Obama e Hillary Clinton, "fari progressisti" del mondo occidentale anche sui social, sembra disinteressarsi degli agguati (e molti che a sinistra ne parlano preferiscono non citare mai il fatto che le vittime siano cristiane). C'è di più: come sottolinea polemicamente anche Daniele Capezzone sempre via Twitter, insieme ad altri fedeli d'ispirazione conservatrice, durante l'Angelus pasquale il Pontefice "ha trattato l'eccidio in Sri Lanka come una pratica da sbrigare in 30-40 secondi per poi passare al tema successivo, uguale al precedente". Indovinate quale? Migranti e accoglienza: il solito, insomma.

DAGONOTA. Dagospia il 22 aprile 2019.  - Attentati in Sri Lanka, qual è la polemica del giorno dopo? L'atteggiamento del Papa e dei leader politici di fronte alla strage dei cristiani nel giorno di Pasqua. Bergoglio nel tradizionale discorso urbi et orbi, che è una specie di ''Stato dell'Unione'' ma dalla prospettiva del Vaticano, ha dedicato all'eccidio solo una trentina di secondi, infilandolo tra gli altri temi del giorno: l'immigrazione (of course), la Libia, il Venezuela, il Sud Sudan, eccetera. In effetti una cosa che colpisce è guardare la timeline su Twitter del pontefice: non un riferimento alla morte di centinaia di fedeli, colpiti proprio perché cristiani e nel giorno in cui celebravano la Resurrezione. Eppure non è mancato un tweet di cordoglio per Notre Dame, né dopo l'attentato di Christchurch, in cui un suprematista bianco ha fatto strage di musulmani in moschea. Invece per lo Sri Lanka, niente tweet. Forse il suo social media manager era alle prese con la Corallina e si preparava alla grigliata di Pasquetta? No, perché l'augurio di Buona Pasqua (ieri alle 12 passate) viene dopo gli attentati. Se non bastasse Bergoglio, ci hanno pensato i vari Obama, Hillary e i media liberal di tutto il mondo: non usano mai la parola cristiani, ma ''Easter worshippers'', una perifrasi da manuale di politicamente correttissimo che indica ''coloro che santificano la Pasqua'', mentre non si trova mezzo riferimento al terrorismo di matrice islamica, sebbene la stessa polizia di Colombo aveva avvertito 10 giorni fa del rischio di violenza da parte di kamikaze musulmani. Certo, tra le vittime ci sono i clienti degli hotel di lusso colpiti dalle esplosioni, ma quando si parla delle centinaia di persone che erano dentro CHIESE CRISTIANE, non si capisce perché non si possa pronunciare ''la parola che inizia con la C''. Sovranisti e conservatori, anche e soprattutto cattolici, vedono Bergoglio come un nemico accusato di distruggere la Chiesa, perciò la polemica ha una connotazione politica fortissima, ed è ingenui non capire che si tratti di una strategia. Ma se nella via crucis il Papa non fa mezzo riferimento alle persecuzioni di cristiani nei paesi musulmani (negli ultimi anni le stragi nel periodo pasquale sono aumentate in modo esponenziale), e poi quando ne avviene una di portata storica, questa non sia degna neanche di un tweet, è il Pontefice a dare armi potentissime ai suoi oppositori. Il suo breve passaggio sullo Sri Lanka nell'urbi et orbi è stato seguito dal ricordo dei 70 anni dalla prima apparizione in tv di un pontefice, Pio XII, ''i cristiani devono usare tutti gli strumenti che la tecnica metta a disposizione per annunciare la buona notizia di Cristo risorto''. Ecco, visto che il Papa conosce bene l'importanza dei social e della comunicazione, si dia una mossa a twittare e comunicare il suo sostegno alla comunità cristiana cingalese.

(ANSA) - Un appello affinché cessino le guerre in Siria, Yemen e Libia, è stato lanciato da Papa Francesco nel messaggio 'Urbi et Orbi'. Dio "sia speranza per l'amato popolo siriano, vittima di un perdurante conflitto che rischia di trovarci sempre più rassegnati e perfino indifferenti". "Un particolare pensiero rivolgo alla popolazione dello Yemen, specialmente ai bambini, stremati dalla fame e dalla guerra". "Le armi cessino di insanguinare la Libia", ha aggiunto il Papa auspicando che si scelga "il dialogo piuttosto che la sopraffazione".

(ANSA) - "La Pasqua ci porta a tenere lo sguardo sul Medio Oriente, lacerato da continue divisioni e tensioni. I cristiani nella regione non manchino di testimoniare con paziente perseveranza il Signore risorto e la vittoria della vita sulla morte". Lo ha detto il Papa nel messaggio 'Urbi et Orbi' auspicando che "la luce pasquale illumini tutti i governanti e i popoli del Medio Oriente, a cominciare da Israeliani e Palestinesi, e li sproni ad alleviare tante sofferenze e a perseguire un futuro di pace e di stabilità".

(ANSA) - "Davanti alle tante sofferenze del nostro tempo, il Signore della vita non ci trovi freddi e indifferenti. Faccia di noi dei costruttori di ponti, non di muri. Egli, che ci dona la sua pace, faccia cessare il fragore delle armi, tanto nei contesti di guerra che nelle nostre città, e ispiri i leader delle Nazioni affinché si adoperino per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati". Così il Papa nel messaggio 'Urbi et Orbi'.

(ANSA) - "Il Cristo Vivente doni la sua pace a tutto l'amato continente africano, ancora disseminato di tensioni sociali, conflitti e talvolta da violenti estremismi che lasciano insicurezza, distruzione e morte, specialmente in Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria e Camerun". Lo ha detto il Papa nel messaggio 'Urbi et Orbi' aggiungendo: "Il mio pensiero va pure al Sudan, che sta attraversando un momento di incertezza politica e dove auspico che tutte le istanze possano trovare voce e ciascuno adoperarsi per consentire al Paese di trovare la libertà, lo sviluppo e il benessere a cui da lungo tempo aspira". Un pensiero è poi dedicato alla situazione del Sud Sudan: "Il Signore risorto accompagni gli forzi compiuti dalle Autorità civili e religiose del Sud Sudan, sostenute dai frutti del ritiro spirituale tenuto alcuni giorni fa in Vaticano. Possa aprirsi una nuova pagina della storia del Paese, nella quale tutte le componenti politiche, sociali e religiose s'impegnino attivamente per il bene comune e la riconciliazione della Nazione".

(ANSA) - "In questa Pasqua trovi conforto la popolazione delle regioni orientali dell'Ucraina, che continua a soffrire per il conflitto ancora in corso. Il Signore incoraggi le iniziative umanitarie e quelle volte a perseguire una pace duratura". Lo ha detto il Papa nel messaggio 'Urbi et Orbi'.

(ANSA) - Tra le aree di crisi del mondo il Papa, nel messaggio 'Urbi et Orbi', parla del Venezuela, dove "tanta gente" è "priva delle condizioni minime per condurre una vita degna e sicura, a causa di una crisi che perdura e si approfondisce. Il Signore doni a quanti hanno responsabilità politiche di adoperarsi per porre fine alle ingiustizie sociali, agli abusi e alle violenze e di compiere passi concreti che consentano di sanare le divisioni e offrire alla popolazione gli aiuti di cui necessita". "Il Signore risorto - ha aggiunto Papa Francesco - illumini gli sforzi che si stanno compiendo in Nicaragua per trovare al più presto una soluzione pacifica e negoziata a beneficio di tutti i nicaraguensi".

(ANSA) - "Il Risorto, che ha spalancato le porte del sepolcro, apra i nostri cuori alle necessità dei bisognosi, degli indifesi, dei poveri, dei disoccupati, degli emarginati, di chi bussa alla nostra porta in cerca di pane, di un rifugio e del riconoscimento della sua dignità". Lo ha detto il Papa nel tradizionale messaggio di Pasqua 'Urbi et Orbi'.

(ANSA) - "Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che, proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore in alcune chiese e altri luoghi di ritrovo dello Sri Lanka. Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono tragicamente scomparsi e prego per i feriti e tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento". Così il Papa nel messaggio di Pasqua.

(ANSA) - Il Papa nell'augurio di Pasqua oggi ha ricordato i 70 anni della prima apparizione in tv di un pontefice e ha spronato i cristiani ad usare i mezzi di comunicazione per annunciare il Vangelo. Rivolgendo i suoi auguri "anche a coloro che sono uniti a noi mediante la televisione, la radio e gli altri mezzi di comunicazione", Papa Francesco ha ricordato che "settant'anni fa, proprio nella Pasqua del 1949, un Papa parlava per la prima volta in televisione. Il Venerabile Pio XII si rivolgeva ai telespettatori della tv francese, sottolineando come gli sguardi del Successore di Pietro e dei fedeli potevano incontrarsi anche attraverso un nuovo mezzo di comunicazione. Questa ricorrenza mi offre l'occasione per incoraggiare le comunità cristiane - ha sottolineato Bergoglio - ad utilizzare tutti gli strumenti che la tecnica mette a disposizione per annunciare la buona notizia di Cristo risorto".

Il Papa, la condanna timida e il silenzio sui boia islamici. Dai più critici dei cattolici ai laici esplode la polemica contro Bergoglio: sminuisce la gravità degli attentati, scrive Diana Alfieri, Martedì 23/04/2019, su Il Giornale. I presunti silenzi di papa Bergoglio stanno diventando un tormentone che dai settori della galassia cattolica più critica con Francesco si allarga al mondo laico. Dopo i rilievi sui tempi dilatati con i quali il Papa ha reagito al disastro di Notre Dame, ieri sul web è bastato un tweet di Daniele Capezzone, ex portavoce radicale, per appiccare un nuovo incendio. Questa volta il silenzio del pontefice avrebbe riguardato le orribili stragi dello Sri Lanka di matrice islamica che hanno massacrato centinaia di cattolici che partecipavano alla veglia della resurrezione in tre chiese. Francesco ne ha parlato nel discorso che accompagna la benedizione Urbi et orbi il giorno di Pasqua, poche ore dopo le prime esplosioni. Nel testo già scritto e tradotto in varie lingue è stato inserito il riferimento ai martiri srilankesi. «Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che, proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore in alcune chiese e altri luoghi di ritrovo dello Sri Lanka ha detto Bergoglio - Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono tragicamente scomparsi e prego per i feriti e tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento». Ieri il Papa è tornato a condannare gli attentati nell'Angelus del lunedì di Pasquetta: «Atti terroristici, disumani, mai giustificabili ha scandito - Auspico che tutti condannino questi atti terroristici, disumani, mai giustificabili. Prego per le numerosissime vittime e chiedo di offrire a questa cara nazione tutto l'aiuto necessario», ha aggiunto invitando i fedeli a pregare la Madonna per i morti, i feriti e le loro famiglie. Pochi minuti dopo è arrivato anche un tweet dall'account Pontifex: «Uniamoci anche oggi in preghiera con la comunità cristiana dello Sri Lanka colpita da una violenza cieca nel giorno di Pasqua. Affidiamo al Signore risorto le vittime, i feriti e la sofferenza di tutti». Anche se il Papa non ha taciuto sul martirio dei cattolici asiatici, la polemica è ugualmente divampata perché Bergoglio non ha puntato il dito contro i responsabili, cioè non ha detto che i terroristi sono islamici. In realtà, i papi non attribuiscono mai colpe prima che vengano dimostrate. Nemmeno Benedetto XVI chiamò in causa l'islam nel telegramma inviato (tramite il segretario di Stato Angelo Sodano) al primate inglese, cardinale Cormac Murphy-O'Connor, dopo la strage jihadista di Londra del luglio 2005: Ratzinger deplorò «gli attacchi terroristici» definiti «atti barbari contro l'umanità». Ma a Francesco, oltre al silenzio sui boia islamici, si rimprovera anche di avere sminuito la gravità degli attentati avendone parlato a Pasqua in mezzo agli altri temi del giorno, dopo il Medio Oriente, l'Ucraina e il Venezuela, dopo l'appello per «costruire ponti, non muri» e dopo l'invito ad accogliere «bisognosi, poveri, disoccupati, emarginati, chi bussa in cerca di pane, rifugio e riconoscimento della dignità». Sui social molti hanno fatto sapere di non avere voluto ascoltare né l'omelia di Pasqua né le meditazioni della Via Crucis, dedicate alla tratta delle donne invece che al martirio dei cristiani nel mondo. Così il Papa è stato equiparato ai leader «liberal» americani che hanno twittato solidarietà allo Sri Lanka senza accennare né ai terroristi islamici ma neppure ai cristiani trucidati, derubricati a «Easter worshippers», cioè semplici «adoratori di Pasqua».

Sotto processo la linea morbida di Bergoglio. Sul web attacchi mirati contro la cerchia di Francesco: "L'islam non è religione di pace". Scrive Riccardo Cascioli, Mercoledì 24/04/2019, su Il Giornale. Basterebbe leggere le risposte dure e arrabbiate di decine e decine di persone ai tweet e ai post su Facebook di padre Antonio Spadaro sulla strage in Sri Lanka, per rendersi conto dei mal di pancia che attraversano il mondo cattolico riguardo alla «linea» sul rapporto con l'islam. Padre Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, è la vera eminenza grigia di questo pontificato e dunque la sua interpretazione di quanto avvenuto in Sri Lanka inevitabilmente viene letta come quella ufficiale della Santa Sede. Dunque, la parola d'ordine è: parlare genericamente di terrorismo senza mai indicare l'islam; non sottolineare troppo che le vittime sono cristiane, e cattoliche in particolare; indicare che l'obiettivo del terrorismo sono tutte le religioni e la loro convivenza. «Analisi fasulla, superficiale e totalmente ipocrita», è uno dei commenti più gentili; «Dare notizie fasulle è grave, da lei è inaccettabile. I morti in Sri Lanka erano cristiani e gli assassini musulmani. Si informi»; e così via, e ogni tentativo di replica del direttore della Civiltà Cattolica moltiplica lo sdegno dei suoi interlocutori. Del resto, l'approccio di padre Spadaro viene replicato dagli altri uomini più vicini a Papa Francesco: Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, non nomina l'islam e si riferisce a non meglio identificati «fanatici anticristiani»; Alberto Melloni su Repubblica addirittura invita a non fare comparazioni tra vittime, essendo che tutte le religioni hanno da farsi perdonare qualcosa. E quindi ecco sullo stesso piano «la pulizia etnica dei cristiani nell'ex Jugoslavia e quella dei buddisti del Myanmar, la violenza nazionalista dei cattolici di Irlanda, e quella degli ortodossi di Ucraina», come se tutto fosse la stessa cosa. E anche Vatican News, il portale ufficiale della comunicazione vaticana guidato da Andrea Tornielli, è attento a non enfatizzare la matrice islamica dell'attentato e puntare piuttosto sull'obiettivo che sarebbe quello di distruggere la convivenza fra religioni. Tutto è, del resto, sulla linea di quanto più volte ripetuto da Papa Francesco: l'islam è una religione di pace, tutte le religioni hanno i loro fondamentalisti, si deve cercare ciò che ci unisce con tutte le religioni. «Il Papa sbaglia disse giusto due anni fa un gesuita egiziano, grande esperto di islam, quale è padre Samir Khalil Samir -, ha detto spesso che l'islam è una religione di pace e questo è un errore, semplicemente». Il dialogo con l'islam è certamente necessario, disse allora ai giornalisti padre Samir, che al tempo insegnava a Roma, e sicuramente molti musulmani vogliono la pace e ovviamente non tutti i musulmani sono potenziali terroristi, «ma non posso leggere il Corano e pretendere che sia un libro il cui orientamento è la pace. E neppure la Sunna, il libro dei detti e delle gesta di Maometto». Padre Samir aveva già detto queste cose direttamente al Papa, in un colloquio privato, ma la sua opinione non deve essere stata molto gradita visto che nel giro di poco tempo fu rimandato in Egitto. Più recentemente, l'Osservatorio internazionale del cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa ha dedicato un Rapporto proprio al problema del confronto con l'islam, mettendo in risalto che «la religione islamica è un fatto politico, lo è stato fin dall'inizio e lo sarà sempre», per cui circoscrivere il rapporto con l'islam all'interno del dialogo interreligioso è semplicemente inadeguato e foriero di grossi guai. Tra la linea imposta dalla Santa Sede e il sentire di gran parte del mondo cattolico le posizioni sono dunque diametralmente opposte e a ogni attentato anti-cristiano per mano islamica i mal di pancia crescono; e i goffi tentativi di padre Spadaro e soci di occultare la realtà che si presenta con tanta evidenza fanno solo salire lo sdegno di un popolo che si sente abbandonato. 

PERCHÉ IL PAPA NON HA PRONUNCIATO LA PAROLA ISLAM PER LA STRAGE IN SRI LANKA? Da Libero Quotidiano il 23 aprile 2019. "La strage di cristiani e di turisti occidentali nel giorno di Pasqua interessa meno del tetto di Notre Dame... incomprensibile indifferenza!". L'analisi stringata ma efficacissima è di Barbara Palombelli, che scrive il suo pensiero su Facebook. La giornalista fa riferimento al grado di partecipazione della gente alla strage in Sri Lanka dove sono morte 290 persone e al crollo del tetto della basilica francese che ha suscitato un'emozione pazzesca in tutto il mondo: lo testimoniano le foto sui social e i messaggi. Qui non è morto nessuno ma evidentemente è stato un fatto percepito più vicino a noi.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 23 aprile 2019. L' aggettivo islamico non va accostato alla parola terrorismo. Sarebbe fuorviante. Papa Francesco lo ha spiegato decine di volte. Si tratterebbe di un binomio improprio perché rischia di distorcere la percezione dell' Islam in Occidente, con il rischio di fare da detonatore ad uno scontro tra civiltà. E così anche stavolta, davanti alle notizie choccanti che, a più riprese, sono arrivate in Vaticano dallo Sri Lanka, ha preferito lasciar stare quell' aggettivo ancora una volta, evitando di pronunciarlo davanti al mondo sia il giorno di Pasqua che in quello di Pasquetta. Francesco ha parlato, invece, di «atti terroristici e disumani mai giustificabili», aggiungendo che ora si aspetta che «tutti» prendano le distanze. Anche dalla Loggia delle Benedizioni, il giorno prima, ha fatto la stessa cosa. L' aggettivo islamico veniva di fatto censurato nonostante la matrice culturale in cui si sono sviluppati gli attacchi nello Sri Lanka è ormai chiara. Qualche mese fa, mentre stava organizzando il viaggio negli Emirati e in Marocco, Papa Francesco ha fatto capire ai giornalisti che l' equazione tra terrorismo e islam «è una menzogna e una sciocchezza» ricordando soprattutto che il ruolo delle religioni è «la promozione della cultura dell' incontro, insieme alla promozione di una vera educazione a comportamenti di responsabilità nel prenderci cura del creato». Cosa che poi ha trasferito al centro dello storico documento islamo-cristiano sulla fratellanza, firmato tra l' università di Al Azhar e il pontefice ad Abu Dhabi, due mesi fa. Un viaggio breve ma per lui una esperienza grande, e quel testo (contestato successivamente da diversi teologi cattolici) ora dovrebbe iniziare ad essere diffuso anche in ambito teologico islamico. Glielo ha promesso l' Imam Al Tayyeb. Tra quelle pagine si parla di islamofobia persistente, di diritti dei cristiani nei paesi arabi da tutelare ma senza indugiare né sulla cristianofobia, né sulla reciprocità. Ai giornalisti spiegava che di cristianofobia ne parla anche troppo spesso e poi che ora è il tempo di diffondere un clima di fratellanza. Va da sé anche l' omissione della matrice islamica dall' appello di Pasqua. In compenso però a parlare di terrorismo islamico senza troppi peli sulla lingua ci hanno pensato alcuni cardinali, vescovi e associazioni da tempo impegnate sul territorio a soccorrere i cristiani perseguitati in vario modo e in varie zone. Nigeria, Pachistan, Iraq, Siria. L' Aiuto alla Chiesa che soffre ha denunciato una persecuzione (cristiana) che non conosce confini. Più esplicito il cardinale africano, Robert Sarah, prefetto del culto divino, che non ha avuto dubbi nell' etichettare la radice ben precisa di questo attentato («barbarica violenza islamista»).Il gruppo musulmano Comai, di Foad Aodi, però la pensa come Francesco: attenzione alle possibili conseguenze: una «guerra alle religioni». 

Papa Francesco, l'accusa pesantissima in Vaticano: il silenzio che sconcerta sui boia islamici. Scrive il 23 Aprile 2019 Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano. Diciamo che per 290 morti ci si aspettava di più che 30 secondi di discorso e 220 caratteri (tardivi) di un tweet. Molti osservatori, credenti e laici, non hanno apprezzato granché la reazione di Papa Bergoglio alla strage di cristiani in Sri Lanka, che ha sconvolto il Paese asiatico in occasione del giorno di Pasqua. Da parte del pontefice, c' era stato un intervento durante l' omelia urbi et orbi della domenica pasquale, in cui aveva annunciato di aver «appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che proprio oggi hanno portato lutto e dolore in alcune chiese»; e poi aveva manifestato «la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era in preghiera». Un passaggio veloce all' interno di un lungo discorso in cui, tra l' altro, aveva fatto riferimento a numerose altre situazioni critiche nel mondo, dalla Libia alla Siria, dal Sudan alla Venezuela, e ricordato i 70 anni dalla prima apparizione di Pio XII in tv. Quasi un inciso, insomma, che sembrava non dare il giusto peso a una strage di così grande portata, come era stato fatto notare anche da commentatori laici quali Daniele Capezzone, per cui «l' eccidio di cristiani è stato trattato ieri da Bergoglio come una pratica da sbrigare in 30-40 secondi». All' intervento laconico del Papa si era sommato il suo silenzio sui social per tutta la giornata di domenica, che aveva fatto parlare siti come Dagospia di un doppiopesismo rispetto alla sua reazione dopo l' attentato contro i musulmani a Christchurch in Nuova Zelanda (allora era stato pronto il suo tweet di condanna per l' attacco terroristico e di preghiera per le vittime).

IL TWEET. Dopo un giorno però, e verosimilmente dopo le polemiche che iniziavano a montare online, ieri Bergoglio ha rotto il silenzio e scritto un tweet sulla strage: «Uniamoci anche oggi in preghiera con la comunità cristiana dello Sri Lanka colpita da una violenza cieca nel giorno di Pasqua. Affidiamo al Signore risorto le vittime, i feriti e la sofferenza di tutti #PrayForSriLanka». Un' esternazione troppo in ritardo? Forse. Ma ciò che è da contestare a Bergoglio in realtà, più che la sua prontezza nelle reazioni social - dopo tutto resta un pontefice e non un influencer - è in generale il peso non eccessivo dato nel suo magistero alle stragi di cristiani nel mondo, che spesso diventano tema secondario rispetto agli argomenti che ha più a cuore: i migranti, l' ambiente, la critica al denaro, la condanna del potere ecc.

SCALETTA PASTORALE. È come se la sorte dei testimoni di Cristo, e dei suoi nuovi martiri, e quindi la sorte stessa del cristianesimo non fossero in testa alla scaletta pastorale di Bergoglio, perché altri sono i problemi Di sicuro, la vita e il destino dei cristiani - e sottolineiamo la parola «cristiani» - non sono in cima ai pensieri né all' interno del dizionario dei leader mondiali di sinistra per cui, anche in occasione di un eccidio come quello dello Sri Lanka, il riferimento al cristianesimo resta tabù. Né Barack Obama né Hillary Clinton nei loro tweet, come sottolinea il giornalista de Il Foglio Giulio Meotti, chiamano le vittime degli attentati di domenica scorsa per quello che sono, ma usano un giro di parole imbarazzante.

LINGUA DI LEGNO. Anziché definirli cristiani, li chiamano Easter worshippers, letteralmente «santificatori di Pasqua»: impossibilitati a pregare o addirittura sterminati nei Paesi asiatici, nell' Occidente laicizzato i cristiani vengono uccisi per la seconda volta, privati perfino della dignità di essere nominati per il Dio in cui credono. E questa negazione è ancora più dolorosa perché fa il paio con la rimozione di ogni riferimento all' identità dei carnefici (guai a pronunciare le parole «islam» o «estremisti islamici») e con la solidarietà esplicita verso i musulmani quando sono questi a essere le vittime (dopo gli attacchi a Christchurch sia Obama che Clinton avevano espresso parole di vicinanza verso la «Muslim community»). Poi ti chiedi perché molti cristiani siano insofferenti verso questo Papa e molti cittadini in Occidente non ne possano più delle élite radical-chic di sinistra. Gianluca Veneziani

·        L’enclave dell’islam radicale nel cuore del Messico. 

L’enclave dell’islam radicale nel cuore del Messico. Emanuel Pietrobon su it.insideover.com il 20 agosto 2019. Negli ultimi trent’anni l’America latina è divenuta un campo di battaglia georeligiosa fra le principali potenze del globo, che stanno utilizzando la fede come un instrumentum regni con il quale espandersi nel cortile di casa degli Stati Uniti. La graduale ritirata del Vaticano da quel che era conosciuto come il “continente cattolicissimo” fino al secolo scorso non è stata sfruttata soltanto dall’internazionale evangelica con sede a Washington, ma anche dai protagonisti del mondo islamico, in primis Turchia, Iran e Arabia Saudita. Da Città del Messico a Buenos Aires è ormai comune vedere moschee, edifici con la mezzaluna e stella islamica, e uomini e donne di origine latinoamericana, ispanoparlanti, vestiti in abiti tradizionali della cultura musulmana. Il Messico è uno dei casi studio più interessanti per ciò che riguarda i frutti della predicazione dei missionari giunti dall’estero per convertire gli autoctoni alla versione dell’islam seguita nei paesi di riferimento, anche perché si è scoperto permeabile alle infiltrazioni jihadiste.

L’arrivo dell’islam nel Chiapas. L’1 gennaio 1994 un’organizzazione paramilitare nota come l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), guidata dal subcomandante Marcos, lanciò un’insurrezione su larga scala nello stato del Chiapas per protestare contro l’entrata in vigore del North American Free Trade Agreement (NAFTA), un accordo di libero scambio siglato fra Messico, Stati Uniti e Canada, la cui implementazione aveva creato notevole opposizione nel paese. Gli zapatisti sostenevano che l’accordo avrebbe reso la già debole economia nazionale ulteriormente succube e dipendente dai rapporti con il Nord America, favorendo gli interessi di piccoli gruppi di potere legati alla grande produzione e al latifondo a detrimento delle classi meno agiate e, in particolare, degli indigeni. I diversi tentativi, sia militari che diplomatici, di riportare lo stato sotto il controllo del governo centrale sono falliti, consentendo all’EZLN di esercitare de facto una parziale sovranità su di esso e realizzare un sistema sociale ed economico di tipo comunistico, basato sulla condivisione, sulla proprietà comune, sul solidarismo comunitarista e sulla produzione per autoconsumo.

Nel 1995 una piccola missione di predicatori islamici guidata dallo spagnolo Muhammad Nafia si fermò sulle montagne della Sierra Madre, nella città di san Cristobal de las Casas. L’obiettivo di Nafia, al secolo Aureliano Pérez Yruela, era di sfruttare il clima di fermento culturale prodotto dall’insurrezione zapatista per creare una piccola comunità islamica. Gli zapatisti promossero il ritorno dei chiapanechi ai culti precolombiani, scoraggiando invece la pratica del cristianesimo in quanto ritenuto un’esportazione ideologica con cui gli spagnoli avevano sottomesso il subcontinente, e diedero a Nafia il permesso di fondare una missione nella città. La versione dell’islam veicolata dai predicatori venuti da oltreoceano era considerata, infatti, il possibile corollario spirituale della causa zapatista, in quanto antioccidentale, anticapitalistica ed indigenista, perciò possibilmente utile ad arruolare nuovi adepti e soldati. Il proselitismo di Nafia si è concentrato sulle comunità etniche maya, in particolar modo sugli tzotzil, con ottimi risultati. Sono più di 700 gli tzotzil che hanno deciso di recitare la shahada, e in molti casi la conversione è seguita dall’arruolamento nell’esercito zapatista. La tendenza si è consolidata nel tempo e, oggi, gli tzotzil sono il gruppo etnico che registra il più alto tasso di conversioni all’islam.

Le ombre dell’emiro. Nafia non è un predicatore indipendente e il Chiapas non è stato scelto per caso. L’insurrezione zapatista era stata seguita sin dall’inizio dal Movimento Mondiale Murabitun (MMM) e, dopo un’attenta valutazione, era stata ritenuta l’occasione ideale per creare un focolare islamico in quanto l’astio verso l’accordo di libero scambio era il probabile riflesso dell’insofferenza verso l’influenza maligna dell’imperialismo nordamericano nel subcontinente. Non appena giunto a san Cristobal de las Casas, Nafia scrisse una lettera al subcomandante Marcos, presentando il MMM come un movimento di liberazione dalla tirannide capitalistica impegnato a difendere popoli oppressi nei teatri più caldi all’epoca aperti, fra cui Cecenia e Paesi Baschi. Ciò che il predicatore propose, ed ottenne, era un patto di collaborazione militare-religiosa: gli zapatisti avrebbero permesso a lui e all’organizzazione di operare nello stato, e gli indigeni sarebbero stati convertiti e quindi convinti ad arruolarsi. In realtà, il MMM non segue alcuna agenda anti-imperialistica, ma è un’organizzazione a vocazione religiosa regolarmente registrata a Granada, in Spagna, i cui obiettivi sono lareinstaurazione del califfato nella penisola iberica (al-Andalus) e l’islamizzazione dell’Europa. La principale attività dell’organizzazione è proprio il proselitismo verso i non-musulmani, che viene sostanzialmente effettuato attraverso iniziative culturali, lezioni di religione aperte a tutti, e missioni di predicazione in paesi ritenuti culturalmente pronti a ricevere il messaggio islamico – come il Chiapas degli anni ’90. Il MMM predica una versione fondamentalista dell’islam, per certi versi simile al wahhabismo nella sua natura intrinsecamente antimoderna, antioccidentale e alla perenne ricerca di un ritorno all’epoca d’oro islamica. Ai seguaci viene richiesta l’adozione di uno stile di vita estremamente austero e ideologizzato, poiché l’obiettivo esistenziale è l’imitazione dei puri antenati. Il fondatore dell’organizzazione è Abdalqadir as-Sufi, nato Ian Dallas, celebre per le sue prese di posizione discutibili sul terrorismo islamico e sulla decadenza della civiltà occidentale e, soprattutto, per aver lanciato una fatwa contro Benedetto XVI in seguito alla controversia di Ratisbona. All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 la comunità islamica del Chiapas iniziò a ricevere maggiore attenzione sia dalle autorità messicane che da quelle statunitensi, perché presumibilmente vicina ad organizzazioni terroristiche internazionali come Al Qaida e focolaio di radicalizzazione religiosa. Nel 2005 fu lo stesso presidente Vicente Fox a denunciare la possibile presenza di elementi qaedisti fra i musulmani chiapanechi. Altre piste investigative hanno tentato di stabilire se esistessero legami anche con il celebre gruppo terroristico basco Eskadi Ta Askatasuna e con cellule jihadiste con base in Spagna, per via di un continuo e sospetto movimento andirivieni. Negli anni, Nafia ha acquisito grande prestigio presso la comunità islamica chiapaneca, dalla quale è venerato come massima guida spirituale e da essa è stato ribattezzato “l’emiro“, ma le indagini dei servizi segreti e le denunce degli ex adepti hanno scalfito la sua immagine e contribuito a dipingere uno scenario che potrebbe rivelarsi pericoloso per la sicurezza nazionale. Il Centro Culturale Islamico del Messico, che opera nella capitale, dopo aver ricevuto denunce da parte di musulmani chiapanechi, ha inviato alcuni esponenti nello stato per discutere di religione con gli imam e i fedeli e presiedere ai sermoni settimanali. Ciò che è emerso è che nella piccola enclave dell’emiro di San Cristobal de las Casas vengono predicate dottrine pericolose per la convivenza pacifica fra culture e religioni, che alienano, traviano e radicalizzano i fedeli, i quali vengono costretti a rompere ogni legame con conoscenti e parenti non-musulmani, a non ricevere alcun aiuto governativo, e a non mandare i figli nelle scuole pubbliche. Il monitoraggio delle autorità messicane ha appurato che la missione di Nafia è supportata da finanziatori con base in Malesia, Indonesia ed Emirati Arabi Uniti, e negli anni si è tentato di ridurre le capacità di proselitismo – che si sono estese all’intera America Latina – ricorrendo all’espulsione dei predicatori stranieri, spagnoli nella maggior parte dei casi. Secondo quanto dichiarato da Ibrahim Chechev, ex collaboratore dell’emiro e oggi alla guida di un’altra comune, nel corso degli anni Nafia avrebbe iniziato a ricevere denaro da organizzazioni islamiche delle petromonarchie del golfo persico. A quel punto, gli insegnamenti, e lo stesso comportamento del predicatore, sarebbero cambiati radicalmente, convincendo Chechev ed altri fedeli ad allontanarsi.

La situazione oggi. La comunità islamica chiapaneca continua a crescere, e l’enclave dell’emiro Nafia è stata affiancata da nuove realtà, che sono il prodotto delle predicazioni di nuovi missionari e di scissioni interne avvenute nell’originale comune dell’emiro. A San Cristobal de las Casas, ciascun gruppo, fra cui uno wahhabita, ha le proprie moschee – che oggi sono 4, luoghi di ritrovo, scuole coraniche e di lingua araba, ristoranti, panifici e altri punti di aggregazione dedicati all’intrattenimento; la missione di Nafia ha anche una biblioteca. Inoltre, i leader delle comunità si occupano anche di organizzare i pellegrinaggi a La Mecca e viaggi formativi all’estero per lo studio della lingua araba e dell’islam. Sia Chechev che Esteban Lopez Moreno, il segretario della missione di Nafia, concordano nel vedere un futuro roseo e prospero per l’islam chiapaneco: l’influenza zapatista sta lentamente scemando e gli abitanti son sempre più insofferenti verso l’ordine di Marcos, mentre le conversioni all’islam aumentano. Le autorità continuano a monitorare con attenzione ciò che avviene nella comunità islamica chiapaneca, come palesato dall’arresto nei giorni scorsi di Mohammed Azharuddin Chhipa, un cittadino statunitense sul quale l’Interpol aveva posto un avviso blu. Chhipa era ricercato dalla Fbi perché molto attivo nella pubblicazione di materiale jihadista in rete ed è stato arrestato a Huehuetan, al confine con il Guatemala, e trasferito negli Stati Uniti con il primo volo disponibile. Saranno le indagini ad appurare i motivi che hanno condotto il sospetto terrorista nel Chiapas, ma già il semplice fatto che si trovasse lì, in uno stato sotto osservazione per infiltrazioni jihadiste e in cui operano predicatori radicali legati alle petromonarchie del golfo, non può che alimentare legittimi dubbi su quale sia l’attuale situazione nell’area e se l’autoproclamato Stato Islamico sia riuscito a penetrare in essa.

·        In Germania porte aperte al jihadismo.

Polizia tedesca crea reparto contro estrema destra: "È più pericolosa del jihadismo". La decisione dei vertici della polizia è stata subito bollata dal partito sovranista AfD come diretta a "colpire i nemici del politicamente corretto". Gerry Freda, Martedì 20/08/2019 su Il Giornale. La polizia federale tedesca (Bka) si doterà presto di una nuova unità, specializzata nel contrasto alla “minaccia dell’estrema destra”. I dettagli della nuova strategia per la sicurezza nazionale elaborata dall’agenzia preposta all’ordine pubblico, e avallata dal governo Merkel, sono stati recentemente rivelati in esclusiva dal quotidiano Süddeutsche Zeitung. A detta dell’organo di informazione, la polizia avrebbe deciso di costituire il reparto in questione una volta constatato “l’allarmante livello di pericolosità raggiunto dalle organizzazioni xenofobe”, che costituirebbero ormai un rischio “più grande del terrorismo islamico”. A dimostrare il fatto che l’estremismo di destra sarebbe attualmente “fuori controllo” contribuirebbero i dati relativi alle violenze avvenute nella prima metà del 2019 e attribuite proprio ai movimenti nazionalisti radicali. In base alle informazioni raccolte dal Bka e diffuse dalla Süddeutsche Zeitung, da gennaio a giugno di quest’anno vi sarebbero state appunto ben 8,605 crimini commessi da sigle di orientamento razzista, ossia quasi mille in più rispetto a quelli accertati nel 2018 nel medesimo periodo. La pericolosità delle cellule estremiste sarebbe comprovata, inoltre, anche dal numero di militanti xenofobi oggi presenti sul territorio federale, stimati dai vertici della polizia in circa 24mila unità e tale cifra sarebbe “in costante crescita”. Di conseguenza, al fine di fronteggiare la nuova minaccia, spiega la testata, il Bka creerà un apposito reparto anti-estremismo responsabile di condurre una “lotta a tutto campo” contro la propaganda nazionalista radicale. La nuova unità verrà a breve istituita all’interno del “dipartimento ST”, preposto al mantenimento di contatti diretti tra i tutori dell’ordine e i servizi segreti di Berlino. Inizialmente, la divisione in questione potrà contare su un personale di “440 uomini”, che verrà reclutato al termine di rigorose procedure di selezione prossime all’avvio. Per stroncare con rapidità ogni potenziale minaccia di matrice xenofoba, il nuovo reparto applicherà un sistema di valutazione dei rischi per la sicurezza denominato "RADAR-rechts" (radar-destra), costituito dall’integrazione delle tradizionali tecniche investigative con i moderni strumenti di rilevazione dei pericoli presenti sul web. Proprio Internet, i social e i blog saranno un “terreno di caccia privilegiato” dell’unità in via di costituzione, poiché la rete rappresenterebbe attualmente il principale mezzo di trasmissione degli ideali razzisti e violenti. Quanto pubblicato ultimamente dalla Süddeutsche Zeitung ha subito indotto i sovranisti di AfD a condannare con forza la strategia varata dai vertici della polizia e dal governo Merkel. Innanzitutto, tale partito ha bollato come “scioccante” il fatto che le autorità abbiano deciso di profondere un maggiore impegno nella lotta all’estremismo di destra piuttosto che in quella al jihadismo. La formazione anti-Ue, per bocca del suo portavoce Jörg Meuthen, ha quindi etichettato la mossa del Bka come finalizzata a “perseguitare chi, andando contro il perbenismo e il politicamente corretto di media e istituzioni, condanna il radicalismo islamico e i rischi del multiculturalismo”.

Germania, trenta casi di cristianofobia in due mesi. Dall'inizio di aprile all'inizio di giugno 2019, in tutta la Germania sono stati segnalati 30 attacchi che spaziano dai furti agli incendi dolosi. Matteo Orlando, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. In Germania, in soli due mesi sono stati registrati ben trenta attacchi contro chiese cristiane di diverse confessioni. I dati sono stati diffusi dall'Osservatorio sull'intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa che ha sede a Vienna. E sono dati preoccupanti. Dall'inizio di aprile all'inizio di giugno 2019, in tutta la Germania sono stati segnalati 30 attacchi contro chiese, atti che spaziano dai furti agli incendi dolosi. "A volte, hanno violato un recinto o messo in atto delle rapine semplicemente per motivi legati al denaro. Tuttavia (...) scegliendo di attaccare le chiese, vandali e ladri mostrano una profonda mancanza di rispetto, se non vero e proprio odio, per i luoghi di culto", hanno detto dall'Osservatorio. Uno degli ultimi attacchi riguarda una chiesa protestante di Dieforf, peraltro già vandalizzata nel luglio 2017. Nei ripetuti attacchi i vandali hanno fracassato delle finestre, bruciato alcuni prodotti, rovinato muri e porte dipinte, e buttato giù panchine. "Il danno alla proprietà ha raggiunto decine di migliaia di euro", hanno quantificato dall'Osservatorio. Un altro atto di vandalismo si è verificato all'inizio di giugno quando, intorno a mezzogiorno, i vigili del fuoco del comune di Ankum sono stati allertati di un incendio nella chiesa cattolica di San Nicolás. Grazie alle telecamere di sicurezza, la Polizia ha scoperto che l'incendio era stato causato da alcune ragazze. Un altro caso ha riguardato la comunità di Großholbach dove ignoti hanno prima lanciato pietre contro la Chiesa Cattolica della Santissima Trinità poi, entrati nel tempio, hanno saccheggiato oggetti sacri e statue di santi e bruciato un simulacro di Gesù dopo averlo staccato dalla croce. Infine hanno urinato nei corridoi e scaraventato per terra diverse panchine. A Nordhausen uno dei corridoi della chiesa protestante di San Biagio è stato intenzionalmente dato alle fiamme e su un balcone della chiesa sono state trovate tracce di una corda bruciata. A Dillenburg sconosciuti hanno vandalizzato la chiesa cattolica del Sacro Cuore di Gesù danneggiando prima l'acquasantiera e le candele e poi disperdendo dei volantini sul pavimento. La Germania non è l'unico grande paese europeo cristiano dove si registrano episodi di cristianofobia. Se in Italia, almeno per il momento, ci si è limitati ad attacchi "intellettuali" ai cristiani come, da ultimo, quello del giornalista di Repubblica Michele Serra nei confronti di Marina Nalesso, conduttrice del Tg2, "rea", secondo Serra (che è stato sommerso di critiche sui social), di indossare il crocifisso durante il telegiornale, in Francia la situazione è veramente allarmante. Come ha scritto recentemente Fausto Biloslavo, nel paese transalpino si registra una media di oltre due chiese sotto attacco al giorno.

Vescovi tedeschi: "Il cristianesimo rischia di sparire dalla Germania". Secondo i vertici cattolici e protestanti tedeschi, la graduale scomparsa del cristianesimo in Germania procederà di pari passo con un aumento costante della presenza islamica nel Paese. Gerry Freda, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. Le autorità cattoliche e luterane della Germania hanno di recente lanciato l’allarme circa la graduale “scomparsa del cristianesimo” nel Paese teutonico. I vertici delle due confessioni hanno infatti denunciato la costante diminuzione dei cittadini tedeschi che si dichiarano fedeli in Cristo, certificata da un recente dossier sugli effetti della secolarizzazione e dei flussi migratori sulle storiche comunità religiose nazionali. Nel rapporto in questione, curato dalla Conferenza episcopale di Berlino in collaborazione con la Chiesa evangelica di Germania e con ricercatori dell’università di Friburgo in Brisgovia, si evidenzia la “profonda irreligiosità” della società tedesca contemporanea, incline ormai a considerare i valori spirituali “poco importanti” per la vita di tutti i giorni. Sempre più cittadini teutonici, inoltre, considererebbero il cristianesimo come un sistema di principi “adatto esclusivamente alla Germania e all’Europa del passato” piuttosto che al contesto globale attuale. Il crescente distacco dei Tedeschi dal retaggio culturale cristiano farà sì, in base alle previsioni contenute nel documento, che nel 2050 cattolici e protestanti costituiranno una “minoranza” nel Paese del papa emerito Ratzinger. Nella Germania del futuro, infatti, i fedeli passeranno dagli attuali 45 milioni di individui a “meno di 20 milioni”, decretando in questo modo la definitiva trasformazione della nazione teutonica in una realtà “scristianizzata”. Nel Paese “post-cristiano” del 2050, inoltre, il vuoto lasciato da cattolici e protestanti verrà colmato dagli adepti di un’altra religione abramitica: l’islam. In tale anno, sempre in base al rapporto curato da vescovi e pastori, i fedeli musulmani stanziati in Germania eguaglieranno la somma di cattolici e protestanti, passando dagli attuali 4,7 milioni a quasi 20 milioni. Tale incremento della presenza musulmana nella nazione teutonica viene attribuito dal documento, oltre al crescente “disinteresse” dei nativi per la loro identità cristiana, principalmente all’“alto tasso di natalità” riscontrabile nelle comunità di immigrati africani e mediorientali. I dati sul progressivo abbandono della fede cristiana da parte delle nuove generazioni di tedeschi hanno subito indignato la formazione politica nazionalista AfD. Gli esponenti del partito sovranista hanno infatti reagito ai moniti contro la scristianizzazione della Germania contenuti nel dossier accusando i governi del passato e quello attuale, capeggiato da Angela Merkel, di non avere salvaguardato con forza l’identità nazionale tedesca e di avere incoraggiato la “perdita di valori” all’interno della società. I partiti tradizionali, Cdu e Spd, sono stati poi biasimati dai deputati di AfD per avere “alzato bandiera bianca” davanti all’aggressiva penetrazione dell’islam nel Paese.

·        Libia 2011: quando la Nato supportò al Qaeda contro Gheddafi.

Libia 2011: quando la Nato supportò al Qaeda contro Gheddafi.  Piccole Note su Il Giornale il 16 agosto 2019. In Libia la Nato intervenne in supporto di al Qaeda. Lo rivela il documentato studio di Alan J. Kuperman, che ha analizzato l’immane documentazione pubblicata al tempo dai rivoltosi sul web. Fonti dirette, dunque, inequivocabili. Nell’articolo pubblicato sul National Interest il professore della lbj School of Public Affairs di Austin (Texas) dettaglia quanto avvenne in quel fatidico 2011, quando la Libia fu teatro di un’insurrezione contro Muammar Gheddafi, travolto poi dall’intervento Nato.

Libia: falsità di una narrazione. Kuperman rammenta quanto ormai acclarato da indagini precedenti, che cioè l’intervento dell’Occidente ebbe “false giustificazioni”. Non era vero che Gheddafii stesse “massacrando civili”, in realtà il regime stava contrastando “con attenzione delle forze ribelli che avevano attaccato per prime”. In secondo luogo, l’apparente “missione umanitaria” era in realtà un’operazione di regime-change che accrebbe “il bilancio delle vittime di almeno dieci volte, promuovendo l’anarchia che ancora persiste”. La narrazione ufficiale vuole che i disordini libici abbiano avuto inizio con proteste pacifiche, contro le quali. Il regime avrebbe usato la forza letale, costringendo i manifestanti a prendere le armi. “Questi ribelli dilettanti – secondo tale narrazione – presero poi il controllo della Libia orientale in pochi giorni, spingendo Gheddafi a schierare forze per commettere un genocidio, che fu interrotto solo dall’intervento” Nato. In verità, “studiosi e gruppi per i diritti umani hanno da tempo smentito parti fondamentali di questa narrazione: la rivolta è stata violenta sin dal primo giorno, il regime ha preso di mira i militanti e non i manifestanti pacifici e Gheddafi non ha minacciato nemmeno verbalmente i civili disarmati”.

La Nato in soccorso di Al Qaeda. Resta però il mistero su chi “ha effettivamente realizzato la ribellione nella Libia orientale”, ovvero su quei “militanti che hanno salvato i manifestanti dalla sconfitta e hanno aiutato a rovesciare Gheddafi”. La narrazione convenzionale suggerisce “improbabilmente” che i pacifici manifestanti, “reagendo spontaneamente alla violenza del regime, si siano in qualche modo impossessati di armi e abbiano conquistato metà del Paese in una settimana”. “La verità ha molto più senso: la ribellione è stata guidata da veterani islamici delle guerre in Afghanistan, Iraq e Libia. Pertanto, gli Stati Uniti e i suoi alleati, non rendendosene conto in quel momento, intervennero per sostenere Al Qaeda”. Questo, in sintesi, quanto scoperto da Kuperman, che dettaglia giorno per giorno, scontro per scontro, i primi giorni di insorgenza. E spiega come in realtà Gheddafi fu più che moderato rispetto ai manifestanti pacifici, “facilitando in tal modo la rivoluzione di al Qaeda”. Egli, infatti, “ha perseguito la riconciliazione politica con gli islamisti, liberando centinaia di prigionieri, che lo hanno ricambiato rovesciandolo e uccidendolo”. “In secondo luogo, all’inizio del 2011, Gheddafi si è astenuto da compiere forti ritorsioni contro l’insurrezione armata per evitare di recare danno ai civili, ma ciò ha dato slancio agli insorti e ha incoraggiato altri libici a unirsi a loro, aiutandoli a conquistare rapidamente l’Oriente”. Il leader libico, sostiene Kuperman, avrebbe invece avuto facilmente la meglio sugli insorti se non si fosse aperto a una riconciliazione con i suoi avversari e avesse lasciato in galera gli islamisti.

Al Qaeda, dalla Libia alla Siria. Per Kuperman gli errori di valutazione dell’Occidente furono causati da una mancanza di approfondimento da parte di media, intelligence e politici. Lettura minimalista, che nulla toglie al coraggio dell’autore dello studio. Resta però arduo credere che l’intelligence Usa, che dopo l’attentato alle Torri Gemelle monitorava costantemente al Qaeda, non fosse a conoscenza che i bastioni della rivoluzione anti-Gheddafi nella Libia orientale coincidevano con i presidi di al Qaeda. Insomma, una grande menzogna, la narrazione della rivolta libica propagandata allora, che nonostante tutto perdura. Pur non potendo negare la tragedia prodotta dall’intervento, evidente dal caos in cui è sprofondata la Libia, resta comunque consegnata alla storia l’idea di un regime che ha massacrato civili inermi, che andava comunque rovesciato. Solo, è l’autocritica di oggi, occorreva una pianificazione più accurata, che prevedesse un nuovo ordine post-Gheddafi. Ma al di là, la scoperta che l’intervento della Nato in Libia è stato in supporto di al Qaeda non ha solo implicazioni storiche. Riguarda anche il presente. Basti pensare alle Siria, dove l’ambigua convergenza tra Occidente e al Qaeda si è replicata, in maniera altrettanto tragica, contro Assad. Ma sul punto torneremo, limitandoci per ora a registrare che l’ultima enclave siriana di al Qaeda vacilla: l’esercito di Assad, infatti, sembra sul punto di riprendere il controllo di Khan Sheikhoun, città chiave dell’enclave di Idlib, ultimo baluardo del Terrore nella Siria tornata sotto il controllo di Damasco (resta agli Usa il Nord Est). Potrebbe rappresentare un punto di svolta decisivo dopo otto anni di tragedie inenarrabili.

·        Il Vaticano e la Diplomazia.

I tre imperi si incontrano a Roma. Andrea Muratore il 4 ottobre 2019 su it.insideover.com. Roma è l’unica città al mondo capitale di due Paesi, ma di questo solo uno è un impero. Immateriale, morale, diplomatico, ma pur sempre un impero. E quando leader o esponenti governativi stranieri fanno visita a Roma sia alle istituzioni italiane che a quelle vaticane molto spesso è la visita Oltretevere a risultare politicamente più importante. Questo è stato il caso sicuramente della visita di Stato del presidente russo Vladimir Putin svoltasi la scorsa estate e dell’attuale tour italiano del Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo. Pompeo, che pure per l’Italia ha una particolare attenzione dovuta sia al retaggio famigliare che a una particolare sensibilità politica, si è infatti approcciato in maniera diversa con l’Italia e il Vaticano. A Giuseppe Conte e Luigi Di Maio ha offerto consigli non proprio disinteressati, inviti alla “lealtà” e a una completa “affidabilità” sul sostegno alla linea Usa su dossier quali Iran e Venezuela. Ma soprattutto chiarezza nei rapporti con la Cina, in merito alla partecipazione italiana alle vie della seta e allo sviluppo del 5G targato Huawei. Richieste da fratello maggiore, quasi da ispettore dell’atlantismo del governo Conte II: fatto che non dovrebbe stupire se si pensa che proprio Pompeo ha ritenuto insufficienti le credenziali atlantiche di Matteo Salvini dopo la visita dell’ex ministro dell’Interno oltre Atlantico a giugno. In Vaticano, invece, Pompeo ha trovato in Papa Francesco e Pietro Parolin due interlocutori ritenuti a Washington parigrado. “La vera visita per Pompeo è quella in Vaticano: quella in Italia è solo una visita di cortesia, che avviene incidentalmente mentre a Roma si è formato un nuovo governo”, fa notare un analista come il professor Carlo Pelanda in un’intervista a StartMag. Pelanda, tra gli accademici italiani più favorevoli a un rafforzamento ferreo dell’atlantismo, non nega che la visita vaticana di Pompeo possa avere una motivazione nel tentativo di amplificare il contenimento della Cina. Gli “imperi paralleli” non sono più solo Vaticano e Usa: ora a queste due entità politiche va aggiunta la Repubblica popolare cinese, che nella riappacificazione con la Santa Sede avviata con l’accordo sui vescovi mira a compiere un vero capolavoro geopolitico conquistando la vicinanza politica del maggior attore mondiale che ancora non ne riconosce la legittimità. Dal canto suo, Bergoglio può a ben diritto vantare di aver convinto la Cina aconcedere la prima limitazione autonoma di sovranità della sua millenaria storia garantendo al Vaticano un diritto di voce nella nomina dei vescovi. Abbastanza da far scattare l’allarme rosso a Washington, per cui una convergenza Usa-Vaticano sarebbe politicamente inaccettabile. In primo luogo, come messaggio simbolico, certificherebbe come sia ancora Roma il ponte tra Oriente e Occidente; inoltre, sotto il profilo politico, un Vaticano non ostile alla Repubblica popolare fungerebbe da centro di gravità per quei Paesi europei desiderosi di un legame più stretto con Pechino. Tanto da ritenere possibile un sostegno della Curia all’adesione italiana alla Belt and Road Initiative. “L’America per mantenere una posizione di pressione sulla Cina ha bisogno che il Vaticano rimanga neutrale”, spiega Pelanda, e Pompeo mira a facilitare uno sviluppo in tale direzione. Soprattutto confrontandosi con Bergoglio sul tema della libertà religiosa Pompeo ha aperto una breccia laddove più forti sono le divisioni nella Chiesa: “Il Vaticano è molto diviso su questa questione, anche perché c’è una ribellione dei cattolici in Cina per l’accordo dell’anno scorso tra Santa Sede e Cina sulla nomina dei vescovi. C’è viceversa una corrente filo-cinese molto forte, che comprende anzitutto i gesuiti”, tanto che La Civiltà cattolica, organo dell’ordine, è il principale sostenitore dell’abbraccio con Pechino. La visita di Pompeo ci ricorda come la proiezione mondiale del Vaticano sia oramai enormemente maggiore rispetto a quella italiana. Senza una strategia di lungo periodo non ci resta che l’irrilevanza o il “richiamo all’ordine” dei nostri fratelli maggiori. Ma anche sfruttare i margini di manovra offerti dalla presenza in casa di una potenza diplomatica mondiale come la Santa Sede deve essere un obiettivo da coltivare cum grano salis e non attraverso mosse estemporanee: facilitando un dialogo a tre, Italia-Cina-Vaticano, Roma potrebbe ad esempio presentare il suo ruolo nel triangolo con la Città Proibita al mondo. Senza del resto apparire eccessivamente ambigua agli occhi della Cina. Sempre nella mente dell’amministrazione Trump e del capo della sua diplomazia. Anche dentro i confini delle mura petrine.

·        Il Papa e l’invasione dei migranti.

Papa Francesco, sfregio ai sovranisti: "Vogliono bloccare il meticciato e sterilizzare razza e famiglia". Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. "Si vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato. Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità". Papa Francesco, in una intervista a La Repubblica, insiste sull'importanza dell'immigrazione che porta al meticciato appunto: "Il meticciato è quello che abbiamo sperimentato, ad esempio, in America Latina. Da noi c'è tutto: lo spagnolo e l'indio, il missionario e il conquistatore, la stirpe spagnola e il meticciato". Invece, continua il Pontefice, "costruire muri significa condannarsi a morte. Non possiamo vivere asfissiati da una cultura da sala operatoria, asettica e non microbica". Poi l'attacco al sovranismo: "La xenofobia e l'aporofobia (la paura per la povertà, ndr) oggi sono parte di una mentalità populista che non lascia sovranità ai popoli. La xenofobia distrugge l'unità di un popolo, anche quella del popolo di Dio. E il popolo siamo tutti noi: quelli che sono nati in un medesimo Paese, non importa che abbiano radici in un altro luogo o siano di etnie differenti". Oggi, sottolinea Bergoglio, "siamo tentati da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sala operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura, come se ci fosse la paura di sporcarla, macchiarla, infettarla".  

Papa Francesco e quei "preti di frontiera" che favoriscono l'invasione di immigrati. Nicola Apollonio su Libero Quotidiano il 25 Ottobre 2019. Li chiamano «preti di frontiera». Sono i preti che, per non dispiacere Papa Bergoglio, hanno deciso di aprire porte e finestre a quell'esercito di immigrati clandestini che da anni, lentamente ma drammaticamente, sta invadendo il nostro Paese. Questi preti, fra l'altro, chiedono agli italiani di fare un piccolo sforzo e accogliere i disperati che non sanno dove andare, che cosa fare, come sopravvivere. E mentre in Italia si discute di manovre governative in cui si cerca di infilare qualche piccola risorsa per venire incontro ai bisogni dei senza lavoro e di chi si trova addirittura al di sotto della soglia di povertà, i sacerdoti di Santa Romana Chiesa non hanno nient' altro da fare che dedicarsi anima e corpo ai profughi - com'è giusto che sia - e ai richiedenti asilo, senz'arte né parte, ma provvisti di smartphone e catenine d'oro.

IL NUOVO LASSISMO - Negli ultimi mesi, l'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, era riuscito a ridurre sensibilmente gli arrivi dei migranti provenienti dai diversi Paesi subsahariani, ma poi, con le sue dimissioni e la nascita del nuovo esecutivo giallorosso, il problema si sta ripresentando in tutta la sua gravità. Numeri che crescono a dismisura. Sbarchi finanche nel Salento con natanti di fortuna. Vagabondi che s' imbucano nelle bande di spacciatori. Altri, guarda caso, che finiscono tra le braccia di certi preti che s' impossessano della chiesa in cui operano e diventano dispensieri di beni e servizi a spese della comunità. Anni fa, prim'ancora che Papa Francesco lanciasse agli africani l' appello urbi et orbi a venire dalle nostre parti, ci aveva pensato don Giusto della Valle, parroco di Rebbio (quartiere di circa 10.000 abitanti a sud di Como) a fornire assistenza prima ai minorenni non accompagnati e successivamente vera e propria ospitalità ai migranti in cerca di chissà quale fortuna. E su quella scia si sono poi aperte autentiche voragini che continuano a inghiottire migliaia di persone sprovviste d' ogni tipo di documento e che non mostrano alcuna voglia di volersi integrare. Né formazione-lavoro, né apprendimento scolastico, né rispetto delle regole. Basta vedere quei 250 ospitati da don Massimo Biancalani in una chiesa di Pistoia, trasformata in una specie di ostello/dormitorio per migranti e nella quale ogni spazio viene praticamente negato alle normali funzioni religiose. Quindi, in perfetta violazione di ogni principio sancito dalle regole liturgiche. Ma il prete fa spallucce, si mostra in televisione accanto ai suoi «ragazzi neri» nella chiesa occupata da letti a castello, materassi, stendini per la biancheria, armadi di fortuna, e si giustifica dicendo che lui, poveretto, ha solo risposto all' appello del Papa, «quando nel 2016 invitò i sacerdoti ad aprire le chiese a questa gente».

LE INCONGRUENZE - Naturale che alcuni comprensibili effetti si facessero sentire: riduzione dei bambini al catechismo e fuga dei parrocchiani da quella chiesa di Vicofaro. Ma non è l' unica a dover registrare un cospicuo calo delle presenze di fedeli, proprio per l'atteggiamento assunto da alcuni sacerdoti nei confronti di un' immigrazione selvaggia che rischia di mandare a carte quarant'otto il consolidato rapporto che c'è sempre stato tra società civile e mondo ecclesiastico. Probabilmente c' è qualcosa di deteriorato nelle alte sfere vaticane, visto che si è arrivati a vendere all'associazione musulmani la chiesa dei frati cappuccini nell'area degli ex ospedali riuniti di Bergamo. È stato lo stesso Papa a dire che non essendoci più molti giovani con la vocazione a farsi preti e non essendoci più nemmeno tanti fedeli interessati a frequentare i luoghi di culto, conviene allora disfarsi di qualche chiesa e, col ricavato, aiutare poi i più bisognosi. Dimenticando, però, che le chiese non appartengono né al Papa né ai parroci chiamati a gestirle: le chiese sono dei fedeli, che negli anni hanno contribuito a edificarle, ad arredarle e a conservarle in ottimo stato. Invece di acquistare altri stabili (sempre coi soldi dei fedeli) e tenerli chiusi, invece di commissariare senza alcuna spiegazione altre chiese destinate poi a rimanere chiuse come i palazzi, sarebbe più opportuno che le gerarchie vaticane (e anche quelle diocesane) avessero più considerazione dei risparmi di ognuno di noi.

Ma, se proprio hanno deciso di sostenere chi arriva in Italia senza uno straccio di documento (per cui: clandestini), senza un contratto di lavoro, senza una dimora, be', allora non reclamino che costoro - e sono decine, centinaia di migliaia - vengano mantenuti dallo Stato. Si aprano le casseforti di San Pietro e si provveda. L'Italia non può più far fronte a questi bisogni. Non ha la capacità per continuare a farlo. A meno che non arrivi un qualche miracolo! Nicola Apollonio

Questo nuovo Umanesimo nato già vecchio. Il pensiero che con Papa Francesco esalta l'accoglienza ad ogni costo nega valori identitari come origine e confini. E' il globalismo senza più comunità. Marcello Veneziani il 4 ottobre 2019 su Panorama. Ecco la nuova parola d’ordine italiana, europea ed ecumenica, il concetto chiave per la collezione autunno-inverno della politica, della religione e della cultura: il nuovo umanesimo. In principio ne ha parlato Massimo Cacciari col suo libro La mente inquieta (Einaudi), ma collegandolo all’umanesimo vero e proprio, nel tempo che precede la modernità. Poi fu immesso nell’arena politica dal trasformista «Giuseppi» Conte (l’uso del plurale da parte di Donald Trump è un lapsus che ben definisce la presenza di più Giuseppi in un Conte solo) che lanciò un nuovo umanesimo per dare fondamento etico al suo governo di voltagabbana. Al nuovo umanesimo ha alluso anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, riferendosi allo stile di vita europeo, aperto, accogliente, sensibile ai diritti umani. Ma la più grande predica sul nuovo umanesimo l’ha fatta Papa Bergoglio, insieme all’ecologismo. In una religione ridotta a soccorso umanitario, che mette tra parentesi Dio e i credenti, per occuparsi dell’uomo in generale e dei migranti in modo speciale, l’appello di Bergoglio evoca «la religione dell’umanità» di Auguste Comte, il filosofo positivista, che abbinò il culto dell’umanità - sorto sulle spoglie della religione tradizionale e sulla scomparsa di Dio - al culto della Terra, il Grande Feticcio. E fondò su queste basi umanitarie una Chiesa positivista, di cui vi è ancora traccia in Sudamerica, in particolare in Brasile. Il nuovo umanesimo di Bergoglio somiglia pure al Nuovo Cristianesimo di Saint-Simon, anch’egli positivista e fondatore del socialismo in Francia, che prospettò nel 1825 un Cristianesimo senza Dio, risolto nell’amore del prossimo.

Bergoglio è sui loro passi? Il sottinteso del nuovo umanesimo per coloro che l’hanno evocato è l’accoglienza dei migranti. Umanesimo per loro vuol dire non riconoscere più confini, nazioni, identità e civiltà che non coincidano con l’umanità intera. È l’utopia cosmopolita e filantropica, comtiana e saintsimoniana, comunista e marxista che torna nelle vesti papali di Bergoglio e dei suoi corifei. Questa prospettiva umanitaria evoca più la matrice laico-illuministica, atea, massonica, che l’umanesimo integrale e cristiano di Jacques Maritain o Emmanuel Mounier o d’altri. L’umanesimo per Bergoglio è nuovo non solo perché differisce dal vecchio umanesimo, pagano e classicista; ma perché si riferisce alla «nuova umanità» che approda sulle nostre coste. A questo messaggio evangelico o ideologico vorrei opporre tre obiezioni. La prima è che questa retorica umanitaria verso i migranti trascura il grosso dell’umanità: i restanti. Ovvero coloro che restano nella loro terra, nella loro vita, a volte nella loro civiltà e religione. Tra i restanti ci sono molti più bisognosi che tra i migranti, perché molti di loro, se pure lo volessero, non avrebbero nemmeno le risorse, l’età, la forza per partire. Se i migranti sono milioni, i restanti sono miliardi sulla terra. La Chiesa, il mondo, non dovrebbe occuparsi prima di loro? Un discorso analogo vale quando il Nuovo umanesimo pone l’accento sui «diversi»: e della gente comune, delle famiglie comuni, dei cosiddetti normali, chi se ne occupa? Eppure hanno anche loro bisogni e problemi e sono miliardi nel mondo, mentre i diversi sono milioni. Ma c’è un principio che viene usato nel nome del Vangelo come un argomento risolutivo: la carità verso i nostri fratelli lontani, sconosciuti, stranieri. Ma dei fratelli a noi più vicini, più cari, più famigliari, chi se ne occupa? Qui ci soccorre non un filosofo qualsiasi, ma il principale dottor Angelico della Dottrina cristiana, San Tommaso d’Aquino. Nella Summa teologica, in particolare nella «Questione 26», San Tommaso stabilisce una gerarchia ben precisa: Dio dev’essere amato più del prossimo e di noi stessi; l’uomo deve amare sé stesso più del prossimo ma deve amare il prossimo più del proprio corpo; tra i prossimi alcuni sono da amarsi più degli altri secondo il principio di prossimità, cioè di vicinanza: ovvero si devono amare di più i congiunti e coloro che sono uniti da vincoli di sangue; quindi le persone buone, poi tutti gli altri, per gradi. È l’ordine della carità, secondo natura e secondo ragione, che ci impone una gerarchia dell’amore. La grazia non abolisce l’ordine della natura, che ha sempre Dio come autore, nota l’Angelico. È la nostra indole naturale, la nostra umanità, che ci spinge ad amare più chi ci è caro e vicino rispetto a chi ci è ignoto e remoto. Un padre non può amare allo stesso modo i propri figli e quelli di persone sconosciute, non sarebbe un buon padre, anzi sarebbe snaturato; una moglie non può amare un viandante più di suo marito, e viceversa; un Papa non può preferire i lontani senza fede ai fedeli che sono spiritualmente figli suoi. Lo dicevano anche Dostoevskij e il nostro Leopardi: l’amore astratto per l’umanità si accompagna di solito all’indifferenza se non al fastidio, all’odio verso chi è vicino. E infine, un nuovo umanesimo che cancellasse le identità, rimuovesse le origini e le appartenenze, esortasse a violare i limiti e varcare i confini e facesse prevalere i propri desideri sulla propria realtà, i diritti sui doveri, la propria volontà sui legami sociali, naturali ed affettivi, cosa avrebbe ancora di umano? Cosa resta di umano in quest’umanità sradicata e intercambiabile, in cui le identità sono revocabili e prive di significato? Non è il trionfo dell’individualismo sulla persona e del globalismo sulla comunità? Altro che umanesimo, è il nuovo ordine mondiale.

LA CHIESA STA COI MIGRANTI. Paolo Rodari per ''la Repubblica'' il 9 luglio 2019. Gli abiti liturgici verdi, del tempo ordinario, il colore della speranza. A fianco, i membri del coro vestiti di nero, a ricordare il dolore e le tante vite che non ci sono più. Sei anni dopo il suo primo viaggio oltre le mura leonine, nella Lampedusa cuore del Mediterraneo che soffre, Francesco fa chiudere la basilica vaticana, e all'Altare della Cattedra, con circa 250 fra migranti, rifugiati e operatori del settore, celebra una messa per non dimenticare. E, insieme, per lanciare un segnale: la Chiesa sta dalla parte degli ultimi. Non a caso, al termine della liturgia, si ferma e saluta uno a uno i presenti, accarezzando le teste dei bambini, ascoltando pianti e speranze delle madri miracolosamente approdate sulle nostre spiagge. Molte cose sono cambiate dal 2013. Il Mediterraneo continua a essere la tomba di tante esistenze fuggite da guerre e sofferenze, la politica italiana a tratti regredisce alzando mura e incitando all'odio. Ne è consapevole Francesco che nella breve omelia ricorda a tutti che "i migranti sono persone". "Non si tratta solo di questioni sociali o migratorie!", spiega. E ancora: "I migranti oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata". "Mi sono sentita amata e abbracciata come mai prima d'ora", dice non a caso al termine della liturgia Matondo, una donna congolese che oggi abita in una comunità di ospitalità del Centro Astalli. Molti sovranisti citano Giovanni Paolo II dipingendolo, a sproposito, come vescovo di Roma che, difendendo le radici cristiane dell'Europa, ha chiuso all'arrivo di fedeli di altre religioni. Non così Bergoglio che, piuttosto, ricorda parole eloquenti del Papa polacco: "I poveri, nelle molteplici dimensioni della povertà, sono gli oppressi, gli emarginati, gli anziani, gli ammalati, i piccoli, quanti vengono considerati e trattati come "ultimi" nella società". "Il mio pensiero - fa eco Francesco - va agli "ultimi" che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono". Chi sono? Si tratta degli "ingannati e abbandonati a morire nel deserto", dei "torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione", di coloro "che sfidano le onde di un mare impietoso", degli "ultimi lasciati in campi di un'accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea". Come a Lampedusa, Bergoglio procede con contrizione. Non devia dal testo ufficiale. Parla delle periferie della nostra società "densamente popolate di persone scartate, emarginate, oppresse, discriminate, abusate, sfruttate, abbandonate, povere e sofferenti". E ricorda come "i più deboli e vulnerabili devono essere aiutati". Il Papa che l'altro ieri all'Angelus ha chiesto di aprire i corridoi umanitari per salvare più persone possibile, spiega che "si tratta di una grande responsabilità, dalla quale nessuno si può esimere". E ringrazia quei migranti che, giunti in tempi più recenti, stanno aiutando i nuovi arrivati: "Voglio ringraziarvi per questo bellissimo segno di umanità, gratitudine e solidarietà".

Immigrazione, le suore di clausura scrivono a Mattarella e Conte: "Pronte ad accogliere i migranti". Libero Quotidiano il  15 Luglio 2019. Ora le suore di clausura vogliono i migranti e girano la richiesta a niente di meno che il capo di Sato e il premier: "Egregio presidente Mattarella, egregio presidente Conte, siamo sorelle di alcuni monasteri di clarisse e carmelitane": non ci sono precedenti di suore di clausura (nonostante in Italia siano 62 in totale i monasteri) che abbiano scritto alle alte cariche dello Stato per prendere posizione e denunciare - come ricorda Il Corriere della Sera - i fatti di attualità. "Ai leader del mondo" di papa Francesco e dell'imam di Al-Azhar queste chiedono "che le istituzioni governative si facciano garanti della dignità" dei migranti e li "tutelino dal razzismo e da una mentalità che li considera solo un ostacolo al benessere nazionale". Così, precisano, molti monasteri si renderanno disponibili per l'accoglienza come già fanno molte Diocesi.

·        "Sbarchi? Un nuovo schiavismo". Quelle voci in dissenso nella Chiesa del Cardinale Robert Sarah. 

Il Cardinale nigeriano Francis Arinze attacca Papa Bergoglio sull’immigrazione. Guerra aperta nel Gotha Vaticano. Il papa nero Arinze: “Basta con l’immigrazione”. Il Carlo Franza il 15 agosto 2019 su Il Giornale. Lo chiamano il Papa nero, e in questi giorni è sbottato sugli interventi a raffica di Papa Bergoglio e del suo codazzo curiale smaccatamente di sinistra che fanno  politica tutti i giorni invece di predicare la diffusione del Vangelo, incoraggiando l’immigrazione clandestina. Il cardinale Francis Arinze, ottantaseienne, è uno dei cardinali dell’ordine dei Vescovi ed è tra gli attuali 6 titolari delle Chiese suburbircarie di Roma insieme  a  Angelo Sodano, Ostia – in quanto Decano del Collegio Cardinalizio – e Albano; Tarcisio Bertone, Frascati; Josè Saraiva Martins, Palestrina; Giovanni Battista Re – SottoDecano – Sabina-Poggio Mirteto e Francis Arinze, Velletri-Segni. Così chiare le parole del Papa Nero Cardinale Francis Arinze:“Gli europei devono smetterla di incoraggiare la partenza dei giovani africani. L’Africa ha bisogno di loro”. Parole sante che abbiamo letto in un’intervista pubblicata dal “Catholic Herald” la scorsa settimana, dove il cardinale nigeriano Francis Arinze (nella foto), in passato considerato uno dei principali candidati al papato, ha affermato che quando i paesi africani perdono i loro giovani a causa della migrazione, perdono coloro che possono  costruire il proprio futuro.E ancora: “Il miglior modo in cui i paesi dell’Europa e dell’America possono aiutare l’Africa non è incoraggiando i giovani a venire in Europa facendogli pensare all’Europa come un paradiso – un luogo dove il denaro cresce sugli alberi – ma aiutando i paesi da dove vengono”, ha affermato il cardinale 86enne. “ È meglio che qualcuno rimanga nel proprio paese e lavori lì”, afferma, pur riconoscendo che ciò non è sempre possibile. Ha anche detto che i capi di governo nei paesi africani con alti tassi di emigrazione dovrebbero esaminare la loro coscienza per determinare perché così tante persone lasciano i loro paesi. “Ogni governo ha bisogno di determinare quante persone può ospitare”, ha detto il cardinale. “Non è teoria. È un dato di fatto “, ha detto Arinze. “Dov’è il futuro dei giovani africani: lavoro, vita familiare, cultura, religione? Bisogna pensare a tutto ciò. Accoglierli senza dar loro prospettive non è la soluzione”. “Quindi queste sono aspetti che dobbiamo prendere in considerazione quando menzioniamo la parola ‘migrante'”, afferma il papa nero Francis Arinze. All’intervento del cardinale Arinze si aggiunge la sacrosanta storia del profugo cantante che con il suo “Non emigrate” convince gli africani a non partire.  Abdul Embalo, 27 anni, cantante del Gambia   ha fatto il viaggio della speranza ma ha scelto di rimpatriare. Oggi scrive canzoni per disincentivare l’emigrazione. Lo ha fatto con l’aiuto dell’associazione Mani Tese di Torino. Intervistato dal Corriere della Sera  ha detto: “Dobbiamo riflettere e capire che non è un nostro desiderio perdere la vita in un gioco, dobbiamo guardare alla nostra Africa. Ho avuto questa ambizione che mi ha portato a diventare immigrato clandestino… ma se avessi saputo non sarei mai partito. Mi chiedo se è davvero il mio destino scappare dalla polizia, cucinare nella stessa stanza in cui dormo, non avere una doccia e neppure la colazione. E quindi caro fratello, l’immigrazione clandestina non è la soluzione». Parole che vengono da un diretto interessato del popolo migrante, lo stesso popolo che viene invece incoraggiato da Papa Bergoglio e compagni  a sbarcare nei porti d’Italia; il cantante del Gambia nelle sue canzoni, a ritmo di musica pop prova a convincere gli africani a restare in Africa perché, come dice lui, “l’immigrazione non è la soluzione”. Carlo Franza

 “I MIGRANTI SONO I NUOVI SCHIAVI. È QUESTO CHE VUOLE LA CHIESA?”. Antonio Socci per "Libero" il 7 aprile 2019. A chi si è addormentato con le chiacchiere monotone e "politicamente corrette" delle élite clericali che lisciano il pelo ai salotti delle ideologie dominanti, il nuovo libro del card. Robert Sarah provocherà uno shock. È sulla linea del magistero di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II non solo sui temi dottrinali, ma anche sulle questioni sociali del presente. Il cardinale africano giganteggia nella Chiesa attuale per la sua autorevolezza, la sua spiritualità, per il suo distacco dalle lotte curiali e per la sua coraggiosa voce di verità. Del resto già da giovane vescovo in Guinea entrò in urto col regime socialista, cioè «con Sekou Touré sempre più inferocito contro questo nuovo pastore indomito difensore della fede. Dopo la morte improvvisa del tiranno, nel 1984, scopriranno che Sarah era il primo sulla lista dei nemici» (Sandro Magister). Specialmente sul tema dell' emigrazione lui, africano proveniente da un villaggio poverissimo, è totalmente controcorrente rispetto al clericalismo di sinistra. Mette in guardia dalla «barbarie islamista» (come dalla barbarie materialista), appoggia i paesi di Visegrad che difendono le loro identità nazionali e boccia il Global Compact sulle migrazioni.

Ormai - dice - «ci sono molti paesi che vanno in questa direzione e ciò dovrebbe indurci a riflettere. Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l' Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio - a causa della denatalità - che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo». Così, in un' intervista a Valeurs Actuelles, ha presentato il suo nuovo libro, appena uscito in Francia (in italiano arriverà a fine estate), che s' intitola Le soir approche et déjà le jour baisse, titolo che richiama il passo del Vangelo sui pellegrini di Emmaus. È un grido d' allarme sulla Chiesa, sull' Europa e sulla sua Africa che ritiene danneggiata dall' ondata migratoria: «C' è una grande illusione che consiste nel far credere alla gente che i confini saranno aboliti. Gli uomini si assumono rischi incredibili. Il prezzo da pagare è pesante. L' Occidente è presentato agli africani come il paradiso terrestre (). Ma come si può accettare che i paesi siano privati di così tanti loro figli? Come si svilupperanno queste nazioni se così tanti loro lavoratori sceglieranno l' esilio?» Il prelato si chiede quali sono le strane organizzazioni «che attraversano l' Africa per spingere i giovani a fuggire promettendo loro una vita migliore in Europa? Perché la morte, la schiavitù e lo sfruttamento sono così spesso il vero risultato dei viaggi dei miei fratelli africani verso un eldorado sognato? Sono disgustato da queste storie. Le filiere mafiose dei trafficanti devono essere sradicate con la massima fermezza. Ma curiosamente restano del tutto impunite». Non si può far nulla? Il prelato cita «il generale Gomart, ex capo dell' intelligence militare francese», il quale di recente ha spiegato: «Questa invasione dell' Europa da parte dei migranti è programmata, controllata e accettata. Niente del traffico migratorio nel Mediterraneo è ignorato dalle autorità francesi, militari e civili». Sarah si dice traumatizzato da quello che è accaduto negli anni scorsi: «La barbarie non può durare più. L' unica soluzione duratura è lo sviluppo economico in Africa. L' Europa non deve diventare la tomba dell' Africa». Perciò «si deve fare tutto affinché gli uomini possano rimanere nei paesi in cui sono nati».

Così il cardinale si schiera pure contro il Global Compact che invece è sostenuto da Bergoglio: «Questo testo ci promette migrazioni sicure, ordinate e regolari. Ho paura che produrrà esattamente il contrario. Perché i popoli degli Stati che hanno firmato il testo non sono stati consultati? Le élite globaliste hanno paura della risposta della democrazia ai flussi migratori?». Sarah ricorda che hanno rifiutato di firmare questo patto paesi come Stati Uniti, Italia, Australia, Polonia e molti altri. Poi il cardinale critica il Vaticano che lo appoggia: «Sono stupito che la Santa Sede non sia intervenuta per cambiare e completare questo testo, che mi sembra gravemente inadeguato». E boccia le élite europee: «Sembra che le tecnostrutture europee si rallegrino dei flussi migratori o li incoraggino. Esse non ragionano che in termini economici: hanno bisogno di lavoratori che possano essere pagati poco. Esse ignorano l' identità e la cultura di ogni popolo. Basta vedere il disprezzo che ostentano per il governo polacco».

Alla fine di questa strada - avverte Sarah - c' è solo l' autodistruzione. Secondo il cardinale si è approfittato della pur giusta lotta «contro tutte le forme di discriminazione» per imporre l' utopia della «scomparsa delle patrie». Ma questo «non è un progresso». Il multiculturalismo non va confuso con la carità universale: «La carità non è un rinnegamento di sé. Essa consiste nell' offrire all' altro ciò che di meglio si ha e quello che si è. Ora, ciò che di meglio l' Europa ha da offrire al mondo è la sua identità, la sua civiltà profondamente irrigata di cristianesimo». Invece, secondo il cardinale, l' attuale globalizzazione «porta a un' omologazione dell' umanità, mira a tagliare all' uomo le sue radici, la sua religione, la sua cultura, la storia, i costumi e gli antenati. Così diventa apolide, senza patria, senza terra. È a casa dappertutto e da nessuna parte». Perciò il prelato spezza una lancia a favore dei paesi cosiddetti sovranisti: «I paesi, come quelli del gruppo di Visegrad, che si rifiutano di perdersi in questa pazza corsa sono stigmatizzati, a volte persino insultati. La globalizzazione diventa una prescrizione medica obbligatoria. Il mondo-patria è un continuum liquido, uno spazio senza identità, una terra senza storia».

"Sbarchi? Un nuovo schiavismo". Quelle voci in dissenso nella Chiesa. Parla il cardinale Sarah: prelato africano, è proprio lui in un suo libro a criticare le posizioni del Vaticano sui migranti e le sue frasi iniziano ad avere un'eco importante dentro la Chiesa, scrive Mauro Indelicato, Domenica 07/04/2019, su Il Giornale. Voci dissonanti che, dalla profonda Africa, arrivano nelle stanze vaticane e mettono in discussione l’attuale linea della Chiesa Cattolica sull’immigrazione. Appare curioso che il primo a criticare la posizione di questi anni del Vaticano sui migranti sia proprio uno dei più autorevoli porporati africani: Robert Sarah. Fa discutere e non poco il libro uscito nei giorni scorsi, in cui il cardinale dichiara le proprie posizioni sull’immigrazione e su tanti altri temi dove la Chiesa, negli ultimi anni soprattutto, tiene posizioni controverse. Il testo, uscito in Francia, si intitola “Le soir approche et déjà le jour baisse”. Una volta presentato, le idee di Sarah iniziano ad infiammare i dibattiti interni al mondo cattolico e, in particolare, a dare linfa alla parte considerata più “conservatrice”. In realtà Sarah non è affatto un conservatore. Lui, guineano divenuto arcivescovo già a 34 anni con l’incarico di guidare la diocesi di Conacry quando ancora nel suo paese vi è il regime socialista di Sekou Touré, ne vede di tutti i colori. Risulta essere primo della lista tra i nemici di Touré, conosce molto bene il suo paese e la sua Africa, assiste popolazioni che vivono i flagelli di calamità e guerre di ogni tipo. Ma Sarah conosce molto bene anche la curia romana, visto che arriva in Vaticano su incarico di Giovanni Paolo II nel 2001. Il pontefice, in particolare, gli affida l’incarico di segretario della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli. Nominato cardinale da Benedetto XVI nel 2010, attualmente è prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Ma il suo libro tratta, in generale, di tanti argomenti e lui stesso lo definisce come un grido d’allarme della Chiesa per i tempi attuali. E a giudicare dalle sue parole nel libro come nelle interviste di presentazione, appare anche un grido rivolto all’interno della Chiesa. Soprattutto, è il tema delle migrazioni ad essere il più controverso: “Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità – afferma Sarah - È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa”. Parole e frasi in totale contrasto con la linea del Vaticano e della Cei in Italia. Parole che alimentano dunque intensi ed ampi dibattiti. Anche perché, Sarah si spinge anche oltre: “C’è un grande rischio che corre l’occidente, ossia che esso scompaia, invaso dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo”. Sotto il profilo politico, il divario più netto con il Vaticano si ha sul Global Compact, ossia il documento con il quale l’Onu intende regolare i flussi migratori: su questo testo, Papa Francesco è d’accordo mentre Sarah lo reputa profondamente ingiusto. “Questo testo ci promette migrazioni sicure, ordinate e regolari – dichiara Sarah – Ho paura che produrrà esattamente il contrario. Perché i popoli degli Stati che hanno firmato il testo non sono stati consultati? Le élite globaliste hanno paura della risposta della democrazia ai flussi migratori”. Da qui, l’affondo diretto alla posizione del Vaticano: “Come mai la Chiesa non si oppone a questo testo?”. In un’intervista in Francia, partendo da questi presupposto, il cardinale africano dichiara politicamente di appoggiare i paesi del cosiddetto “blocco di Visegrad”: “Fanno bene questi paesi a voler mantenere la propria identità – afferma Sarah – La globalizzazione diventa una prescrizione medica obbligatoria. Il mondo-patria è un continuum liquido, uno spazio senza identità, una terra senza storia”. Il cardinale fa discutere perché, soprattutto, quelle sue non sono solo posizioni personali, piuttosto sembrano il grido della Chiesa africana rispetto ad un Vaticano che pare lontano dai temi più sentiti dal continente nero. Eppure è proprio qui che la Chiesa cresce ed i fedeli aumentano, è qui dunque che dalla Chiesa ci si aspetta molto. E le parole di Sarah confermano una distanza che, nelle sale vaticane, in tanti iniziano a vedere con sospetto.

I migranti nel cuore del Papa e del cardinal Sarah, scrive Giovanni Marcotullio l'1 Aprile 2019 su it.aleteia.org. Quasi a porre un contraltare al magistero magrebino del Santo Padre, in questi giorni la stampa internazionale (oggi il Figaro) rilancia le pagine più critiche contro le migrazioni che si trovano nel nuovo libro del cardinal Sarah. Si tratta effettivamente di due posizioni distinte e parzialmente distanti: non possono tuttavia dirsi contrapposte, perché entrambi gli ecclesiastici concordano sulla diagnosi complessiva del fenomeno e perfino alcuni spunti operativi sono coincidenti. Approfondire per capire. Mentre sabato pomeriggio il Santo Padre ha voluto scrivere una pagina importante del proprio magistero, durante l’incontro coi migranti nella sede della Caritas diocesana di Rabat, vengono divulgate alcune parole del cardinal Robert Sarah, pronunciate in diverse interviste, che sembrerebbero contraddire la linea del Romano Pontefice e della Santa Sede nel trattamento dei flussi migratori internazionali (e tali sono nella massima parte dei casi le linee editoriali dei fogli che ospitano e rilanciano quelle dichiarazioni).

Qualche mese fa si è svolta, qui in Marocco, la Conferenza Intergovernativa di Marrakech che ha ratificato l’adozione del Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare. «Il Patto sulle migrazioni costituisce un importante passo avanti per la comunità internazionale che, nell’ambito delle Nazioni Unite, affronta per la prima volta a livello multilaterale il tema in un documento di rilievo» (Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2019). Questo Patto permette di riconoscere e di prendere coscienza che «non si tratta solo di migranti» (cfr Tema della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2019), come se le loro vite fossero una realtà estranea o marginale, che non abbia nulla a che fare col resto della società. Come se la loro qualità di persone con diritti restasse “sospesa” a causa della loro situazione attuale; «effettivamente un migrante non è più umano o meno umano in funzione della sua ubicazione da una parte o dall’altra di una frontiera».

Quando sono andato in Polonia [nell’ottobre del 2017, N.d.R.], paese che ho sovente criticato, ho incoraggiato i fedeli ad affermare la loro identità così come hanno fatto per secoli. Il mio messaggio è stato semplice: voi siete anzitutto polacchi, cattolici, e solo successivamente europei. Voi non dovete sacrificare queste due prime identità sull’altare dell’Europa tecnocratica e senza patria. La Commissione di Bruxelles non pensa che alla costruzione di un libero mercato al servizio delle grandi potenze finanziarie. L’Unione europea non protegge più i popoli, protegge le banche. Ho voluto dire di nuovo alla Polonia la sua missione singolare nel piano di Dio. Essa è libera di dire all’Europa che ciascuno è stato creato da Dio per essere messo in un ben preciso posto, con la sua cultura, le sue tradizioni e la sua storia. Questa volontà attuale di globalizzare il mondo sopprimendo le nazioni, le specificità, è pura follia. Il popolo giudeo ha dovuto vivere l’esilio, ma Dio l’ha ricondotto nel suo paese. Cristo ha dovuto fuggire Erode in Egitto, ma alla morte di Erode è tornato nel suo paese. Ciascuno deve vivere nel suo paese. Come un albero, ciascuno ha il suo suolo, il suo ambiente in cui può crescere perfettamente. Meglio aiutare le persone a realizzarsi nelle loro culture piuttosto che incoraggiarle a venire in un’Europa in piena decadenza. È una falsa esegesi quella che utilizza la Parola di Dio per valorizzare la migrazione. Dio non ha mai voluto questi strappi. Le dichiarazioni del cardinal Sarah sembrano andare in senso opposto, e ciò tanto con riferimento particolare al Global Compact quanto con più generale critica dell’immigrazionismo globalità. Io stesso, che del Cardinale ammiro la radicalità e l’austerità, ho tradotto un paio di giorni fa una di queste interviste(rilasciata a Laurent Dandrieu per Valeurs Actuelles), della quale anzi è utile riportare qui il passaggio relativo alle migrazioni:[…]

I leader politici che parlano come me sono minoritari, al giorno d’oggi? Non lo penso. Esistono molti paesi che vanno in questa direzione, e questo dovrebbe condurci a riflettere. Tutti i migranti che arrivano in Europa vengono stipati, senza lavoro, senza dignità… È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa. Se l’Occidente continua per questa via funesta esiste un grande rischio – a causa della denatalità – che esso scompaia, invasa dagli stranieri, come Roma fu invasa dai barbari. Parlo da africano. Il mio paese è in maggioranza musulmano. Credo di sapere di cosa parlo. In questo passaggio di Sarah convergono alcune importanti direttrici del pensiero politico-teologico del porporato: esplicitamente menzionata la similitudine con la crisi dell’impero romano; la tecnocrazia dell’Europa delle banche e l’immigrazione pianificata su tavoli opachi sono le due forze eversive che Sua Eminenza descrive in atto (altrove, richiamandosi alla similitudine con la decadenza tardo-antica, le chiama rispettivamente “barbarie materialistica” e “barbarie islamista”). Ci torneremo.

Un’anomalia metodologica in Sarah. Quel che colpisce invece in questi due paragrafi è che si dà una vistosa differenza metodologica nelle risposte, rispetto a quelle agli altri quesiti di Dandrieu: mentre infatti Sarah è solito rispondere richiamandosi sempre cristallinamente alle Scritture, alla Tradizione della Chiesa, al Magistero (specialmente pontificio) – e lo fa tanto vigorosamente da relativizzare senza mezzi termini le posizioni difformi di preti, vescovi e Conferenze episcopali – su questo punto il richiamo al depositum fidei si fa secondario e perfino arrancante. Sua Eminenza vuole affermare che «è una falsa esegesi quella che utilizza la Parola di Dio per valorizzare la migrazione»? Un’affermazione forte, ma da tanto prelato il lettore si aspetta un argomento competente, specie per affermare che «ciascuno deve vivere nel suo paese – come un albero, ciascuno ha il suo suolo, il suo ambiente, in cui crescere perfettamente». E accanto a questa ulteriore similitudine – debole invero, dacché gli alberi vengono trapiantati ed esportati, entro certi limiti – nessun vero argomento teologico. In realtà sarei rimasto più meravigliato se ne avessi trovati: tutta la storia della salvezza, da Abramo agli Apostoli, da Mosè a Zorobabele, è una narrazione di peregrinazione e migrazione su lunghe distanze, attraverso culture estranee quando non ostili. I missionari che hanno animato le grandi pagine di evangelizzazione della Chiesa (pagine magnificate dallo stesso Sarah nella medesima intervista!) contravvengono un tanto ingiustificato assioma: egli stesso, Robert Sarah, nato in Guinea e che ha trascorso gran parte della vita girando il mondo come servizio alla Chiesa universale, contravviene quell’assioma. Tutti i numerosi esempi che nel 1952 Pio XII riassunse nella Costituzione Apostolica Exsul Familia contravvengono l’assioma. Il cardinal Sarah si riduce allora a osservare «quanti leader politici» pensano le stesse cose, e non si può non cogliere del paradosso nel vedere che il principio della concordantia auctoritatum, rigettato per vescovi e Conferenze episcopali, sembra valere per i politici! Perché non esiste un fondamento teologico a una simile affermazione. È invece vero il contrario: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,33). La vitalità del cristianesimo non si pone l’essere minoranza come un problema, anzi – proprio come fa la pasta madre – si ravviva quando viene nuovamente trapiantata e posta in un contesto “non lievitato”. Coincidenza, lo diceva proprio ieri mattina Papa Francesco, mentre nella cattedrale di Rabat incontrava i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e il Consiglio ecumenico delle Chiese: (...)

Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 210). Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo. Essere cristiani è sapersi perdonati, sapersi invitati ad agire nello stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Naturalmente quella sola affermazione di Sarah è quella che detta i titoli dei giornali, alcuni dei quali hanno interessi politici a rappresentare il cardinale guineano come campione dell’ostilità alle migrazioni (e di sponda come antagonista del Romano Pontefice). Nello stesso passaggio sopra citato sono presenti altre osservazioni, inerenti alla dignità dei migranti, al bieco cinismo dei traffici d’uomini, al triste destino che spesso in Europa attende molti migranti, fra cui non pochi connazionali del Cardinale.

Il cardinale Robert Sarah avverte: “Basta immigrazione, si rischia invasione dei barbari”. Il cardinale Robert Sarah avverte l'Occidente sul rischio sparizione: la Chiesa non dovrebbe assecondare le migrazioni di massa, scrive Mattia Pirola il 4 Aprile 2019 su Ci siamo. Il cardinale Robert Sarah, non si è mai discostato da papa Francesco. Non fa parte dei sottoscrittori dei dubia su Amoris Laetitia. E non ha mai criticato Jorge Mario Bergoglio per quella che altri chiamano “confusione dottrinale”. Eppure si è lasciato andare sulla questione migranti, andando contro a quella che di fatto è la linea del pontefice. Come riporta il Giornale, nel terzo libro di Sarah, il cardinale si è interessato alla “decadenza del nostro tempo”, considerata da lui stesso alla stregua del “mortale”. Il libro non potrebbe avere un titolo più adatto: “Si avvicina la sera e il giorno è ormai al termine”. Appare quasi come un monito, l’ennesimo, sul tramonto della civiltà occidentale. Ci sono dei passaggi in particolare che stanno facendo discutere. In questi passaggi l’alto ecclesiastico attacca quei “pastori” che hanno “paura di parlare con tutta la verità e la chiarezza”. Il cardinale pare dell’opinione che il decadimento dell’occidente non dipenda dalla Chiesa. I cattolici hanno, però, il dovere di far fronte a un grande rischio: quello della scomparsa dell’Occidente così come lo conosciamo. Intanto alcuni media stanno rilanciando un’intervista, che il prefetto ha rilasciato a Valeurs Actuelles.

Posizioni critiche sul fenomeno migranti. In questa intervista emergevano posizioni molto critiche sull’attuale gestione dei fenomeni migratori. Sarah riflette in questi termini di coloro che ricercano sulle nostre coste quello che Stephen Hawking chiamava “Il nirvana di Instagram”. “Tutti i migranti che arrivano in Europa – ha detto – vengono stipati, senza lavoro, senza dignità… È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa”. E non è finita qui. L’Europa, lascia intendere, sta vivendo una situazione simile a quella che ha posto fine alla civiltà romana, avvenuta pure per via dell’ “invasione dei barbari”. “Il mio paese è in maggioranza musulmano – ha aggiunto – . Credo di sapere di cosa parlo“. Ma il cardinale Sarah va oltre. Lancia anche una freccia alle Ong. “Le strane organizzazioni umanitarie, vangano e rivangano l’Africa“. Queste organizzazioni, secondo il prelato, suggeriscono ai giovani africani la possibilità che dietro un viaggio si nasconda una svolta economica.

Sarah sulle migrazioni di massa: "Occidente rischia di sparire". Il cardinale Robert Sarah, all'interno di un'intervista, avverte l'Occidente sul rischio sparizione: la Chiesa non dovrebbe assecondare le migrazioni di massa. Il rischio? Finire come Roma invasa dai barbari, scrive Francesco Boezi, Mercoledì 03/04/2019, su Il Giornale. Il cardinal Robert Sarah, pur essendo considerato il "leader" spirituale dei conservatori, non si è mai discostato da papa Francesco. Non fa parte dei sottoscrittori dei dubia su Amoris Laetitia e non ha mai criticato Jorge Mario Bergoglio per quella che altri chiamano "confusione dottrinale". In questi tempi polarizzanti, però, la disamina del primo sul tema della gestione dei fenomeni migratori sembra allontanarsi dalla visione del Santo Padre. L'accoglienza dei migranti, nella pastorale del pontefice argentino, ha assunto i tratti di un mantra, di un diritto assoluto estendibile erga omnes, di un punto programmatico prioritario non soggetto a dialettica. Le ultime fatiche del porporato africano dicono altro. Nel suo terzo libro - interviste, che il prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha scritto insieme al giornalista francese Nicolas Diat, il cardinalesi è interessato soprattutto alla "decadenza del nostro tempo" , che Robert Sarah considera alla stregua di un"peccato mortale". "Si avvicina la sera e il giorno è ormai al termine" - questo è il titolo del libro in questione - appare soprattutto come un monito, l'ennesimo, sul tramonto della civiltà occidentale. Ci sono dei passaggi accorati, come abbiamo avuto modo di sottolineare, in cui l'alto ecclesiastico attacca quei "pastori" che hanno "paura di parlare con tutta la verità e la chiarezza". Robert Sarah sembra pensare, in sintesi, che il decadimento occidentale non dipenda dalla Chiesa cattolica, ma che i cattolici abbiano il dovere di far fronte a un rischio preciso: la scomparsa del Vecchio Continente nel baratro del nichilismo. Bisogna stare attenti a non presentare il porporato africano come un critico del pontefice argentino. Semplicemente perché non lo è. Alcuni media stanno rilanciando un'intervista, che il prefetto ha rilasciato a Valeurs Actuelles: ecco, all'interno di quei virgolettati, come si apprende su Aleteia, emergono posizioni molto critiche sull'attuale gestione dei fenomeni migratori. Punti di vista che difficilmente possono essere integrati con la narrativa sull'accoglienza a tutti i costi. Quella promossa dalla Santa Sede. Robert Sarah, per esempio, riflette in questi termini di coloro che ricercano sulle nostre coste quello che Stephen Hawking chiamava "Il nirvana di Instagram": Tutti i migranti che arrivano in Europa - ha puntualizzato - vengono stipati, senza lavoro, senza dignità… È questo ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può collaborare con la nuova forma di schiavismo che è diventata la migrazione di massa". Ma questa è solo la premessa. Sì, perché per il consacrato, l'Europa vive una situazione tanto emergenziale da rendere possibile un paragone con la fine della civiltà romana, avvenuta pure per via dell' "invasione dei barbari". E sul dialogo religioso con il mondo musulmano? "Il mio paese è in maggioranza musulmano - si è limitato ad asserire - . Credo di sapere di cosa parlo". Non è finita qui.

Il punto più rilevante della riflessione dell'uomo che ancora oggi ricopre uno dei più alti incarichi in Vaticano è quello in cui si accenna alle "strane organizzazioni umanitarie", che "vangano e rivangano l'Africa". Le stesse che, stando alla visione di Robert Sarah, suggeriscono ai giovani africani la possibilità che dietro un viaggio si nasconda una svolta economico - esistenziale. Sembra proprio di poter interpretare questo passaggio come una critica a certe Organizzazioni non governative. Il pensiero di Sarah è forte perché credibile: essendo africano, parla con cognizione di causa. Chi, più di lui, può dire di avere a cuore il destino dei migranti?

Il Cardinale Robert Sarah: “Fermate l’immigrazione o per voi sarà la fine”, scrive Maurizio Blondet il 4 Aprile 2019. Robert Sarah, cardinale e arcivescovo cattolico nato in Guinea, è tornato sulla questione immigrazione nel suo terzo libro di interviste. Il suo pensiero si distacca notevolmente da quello di Papa Francesco. “Bisogna fare di tutto perché gli uomini possano restare nel Paese nel quale sono nati”. Questo il contenuto di un tweet di Robert Sarah, cardinale e arcivescovo cattolico nato in Guinea. Un messaggio che suona come una risposta alle parole di Papa Bergoglio che proprio in questi giorni – di ritorno da Rabat dove ha incontrato esponenti del mondo islamico – ha lanciato un nuovo invito ad accogliere i migranti e a non costruire i muri. “Il Vaticano non può prenderli tutti, ma c’è l’Europa“, ha ribadito il Vescovo di Roma. Ma la linea del Pontefice al riguardo è sempre stata chiara e netta, tanto da scagliarsi contro le misure in materia immigrazione volute dal Vicepremier Matteo Salvini. L’appello di Robert Sarah, invece, vuole affermare esattamente il contrario e suona come un chiaro messaggio a bloccare l’immigrazione. Nel suo terzo libro di interviste – “Le soir approche et déjà le jour baisse” – il cardinale della Guinea prospetta un disastroso collasso dell’Occidente, conseguente ad una crisi culturale ed identitaria dovuta ai processi migratori. Un fenomeno incontrollato che porta l’Europa ad autodistruggersi: uno scenario apocalittico che si intravede già nel titolo che, se tradotto: “La sera arriva e già il giorno volge”. “L’Europa vuole essere aperta a tutte le culture e tutte le religioni del mondo, promette una migrazione sicura, ordinata e giusta”, sostiene nel libro, l’autore, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Eppure, il risultato è rovesciato e quello che si produce è il contrario: timori, squilibrio, situazioni incontrollate. Una visione che contrasta con quella di Papa Francesco ma che potrebbe trovare seguaci in in quanti piangono l’assenza di Ratzinger, che si espresse sulla necessità di riconoscere un diritto, prima che all’emigrazione, a restare nel proprio luogo di nascita. Il Papa deve aver accolto di cattivo grado le idee di Robert Sarah, già diffuse in svariate occasioni. In rapporti tra i due sono tesi fin da quando il primo gli inviò una sfiducia pubblica, che potrebbe portare ad un mancato rinnovo del mandato quinquennale. La decisione è recente ma i fatti risalgono allo scorso settembre quando il Papa aveva promulgato il motu proprio Magnum Principium, che affidava alle Conferenze Episcopali nazionali tutti i poteri circa la traduzione dei testi liturgici. Sarah, qualche settimana più tardi, aveva inviato a Bergoglio un suo parere sulla questione, sostenendo che non cambiava granché e che la Congregazione per il Culto Divino da lui presieduta avrebbe avuto ugualmente voce in capitolo. Con la sfiducia, in sostanza, Bergoglio ha richiesto di fare mea culpa pubblico su questioni che attengono al culto e, soprattutto, per averlo contraddetto. Ma le scuse non sono mai arrivate. “Nel prossimo futuro, sappiamo che ci sarà uno squilibrio in Europa di una rara pericolosa situazione demografica, culturale e religiosa”, si legge nel libro. La Chiesa farà appello all’idea di carità universale secondo la quale aiutare gli altri incondizionatamente è un dovere morale. “L’impresa multiculturale europea sfrutta un ideale incompreso di carità universale”: ma la carità, sostiene Sarah, non vuol dire negare se stessi, anzi offrire agli altri ciò che è meglio. E non sempre accogliere può essere la soluzione migliore. “Perché la morte, la schiavitù e lo sfruttamento sono così spesso il vero risultato dei viaggi dei miei fratelli africani verso un eldorado sognato?”, si chiede non a caso l’africano. E, non a caso, secondo le stime, la riduzione degli sbarchi salva più vite umane. Il sacerdote fa notare come l’Occidente, per gli africani, sia un paradiso terrestre. Ma né fame, né violenza, né guerra possono far correre il rischio di mettere a repentaglio la vita, tentando la sorte in mare. “Ma come si svilupperanno queste nazioni se così tanti lavoratori sceglieranno l’esilio? Quali sono queste strane organizzazioni umanitarie che attraversano l’Africa per spingere i giovani a fuggire promettendo loro una vita migliore in Europa?”, si chiede Sarah. E ha ragione. Le domande e le considerazioni sono legittime, mentre sbagliata è l’idea che abolire i confini sia cosa giusta e saggia, così come abolire la natura sia cosa moderna e innovativa. Nel caso del pericolo dell’Islamismo radicale, dice ancora il Cardinale, bisognerebbe stabilire con fermezza le condizioni entro le quali condividere il mondo con gli altri,  se gli altri mettono in pericolo vita e civiltà. Tirando le somme, l’obiettivo deve essere fare in modo che le persone possano restare nel paese in cui sono nati, in quanto “lo sradicamento culturale e religioso degli africani proiettato nei paesi occidentali che stanno vivendo una crisi senza precedenti è un terreno fertile”. L’unica soluzione duratura, per il sacerdote, è lo sviluppo economico in Africa.

Com’è che il cardinal Sarah è diventato l’uomo più pericoloso della cristianità, scrive Matthew Schmitz il 28 giugno 2017 su Tempi. Perché l’idea che il porporato guineano possa diventare “il primo papa nero” è il peggior incubo di tutti i cattolici liberal. Eppure non è stato sempre così. Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Matthew Schmitz apparso nel numero del 23 giugno del magazine cattolico londinese. Il testo originale in inglese è pubblicato in questa pagina. Una folla sempre più numerosa vuole la testa del cardinale Robert Sarah su un piatto. Aprite un qualunque periodico cattolico liberal e probabilmente vi troverete un appello al licenziamento del cardinale guineano che in Vaticano guida la Congregazione per il Culto divino: «È giunto il tempo per [papa Francesco] di sostituire il cardinal Sarah» (Maureen Fiedler, National Catholic Reporter); «Potrebbe esserci bisogno di vino nuovo alla Congregazione per il Culto divino» (Christopher Lamb, The Tablet); «I rappresentanti della Curia che si rifiutano di adeguarsi al programma di Francesco dovrebbero dimettersi. O il Papa dovrebbe mandarli da qualche altra parte» (Robert Mickens, Commonweal); «Papa Francesco deve puntare i piedi. I cardinali come Robert Sarah… possono credere che con un pontificato che va nella direzione sbagliata, sia un dovere resistere. Ma questo non significa che Francesco debba arrendersi a loro» (The Tablet).

Sarah non è sempre stato trattato come l’uomo più pericoloso della cristianità. Quando fu scelto per l’incarico da papa Francesco nel 2014, beneficiò della benevolenza anche di quelli che oggi lo criticano. Mickens lo descrisse come «poco ambizioso, un buon ascoltatore e, nonostante abbia mostrato chiaramente un lato conservatore da quando è arrivato a Roma… un “uomo del Vaticano II”». Le fonti di Lamb gli riferirono che Sarah sarebbe piaciuto ai liberal, il tipo di vescovo che guarda simpateticamente alla “inculturazione”. John Allen sintetizzò così il consenso intorno al Vaticano: Sarah è un vescovo di basso profilo, «caloroso, simpatico e modesto». Tutto questo mutò il 6 di ottobre del 2015, il terzo giorno del controverso Sinodo sulla famiglia. I padri sinodali erano divisi da due richieste apparentemente contrastanti, quella di avvicinarsi alle persone che si sentono stigmatizzate dall’insegnamento della Chiesa riguardo al sesso e quella di proclamare coraggiosamente la verità a un mondo ostile. In quello che divenne noto come il discorso delle “bestie dell’apocalisse”, Sarah insistette che entrambe le cose sono possibili. «Non combattiamo contro creature di carne e sangue», disse ai suoi fratelli vescovi. «Dobbiamo essere inclusivi e accoglienti verso tutto ciò che è umano». Ma la Chiesa deve continuare a proclamare la verità di fronte a due grandi sfide. «Da una parte, l’idolatria della libertà occidentale; dall’altra il fondamentalismo islamico: secolarismo ateo contro fanatismo religioso». Da giovane prete Sarah aveva studiato alla École Biblique di Gerusalemme e progettato una dissertazione su “Isaia, capitoli 9-11, alla luce della linguistica semitica nordoccidentale: ugaritico, fenicio e punico”. Perciò non sorprende che [al Sinodo] impiegò il linguaggio biblico per spiegarsi. La libertà occidentale e il fondamentalismo islamico, disse all’assemblea, sono come le due «bestie dell’apocalisse». L’immagine viene dal Libro della Rivelazione, che parla di due bestie che attaccheranno la Chiesa. La prima emergerà dal mare con sette teste, dieci corna e blasfemia sulle labbra. La seconda sorgerà dalla terra facendo grandi prodigi e convincerà il mondo ad adorare la prima. Questa strana dinamica – una minaccia mostruosa che porta gli uomini ad abbracciarne un’altra – è quella che Sarah vede all’opera nella nostra epoca. La paura della repressione religiosa induce alcuni a venerare una libertà idolatrica. (Mi ricordo la volta che fui l’unico a rimanere seduto mentre Ayaan Hirsi Ali terminava un suo discorso chiedendo alla platea di fare un’ovazione «alla blasfemia!»). D’altra parte, gli attacchi alla natura umana spingono altri ad abbracciare la falsa sicurezza del fondamentalismo religioso, che ha la sua espressione più terribile sotto l’insegna nera dell’Isis. Ciascun male tenta coloro che lo temono a soccombere al suo opposto. Così come con il comunismo e il nazismo nel XX secolo, bisogna resistere a entrambi.

L’arcivescovo Stanisław Gądecki, capo della Conferenza episcopale polacca, scrisse che l’intervento di Sarah aveva un «livello teologico e intellettuale molto alto», ma sembra che altri non ne abbiano inteso il significato. L’arcivescovo di Brisbane, Mark Coleridge, deprecò l’uso del «linguaggio apocalittico». (Viene da chiedersi che cosa pensi del resto della Rivelazione di Giovanni). «Ai giovani non piace che gli si ricordi il giudizio», ironizzò un cardinale dopo il discorso di Sarah. Un importante osservatore di cose vaticane mi scrisse da Roma: «[Sarah] è intervenuto oggi parlando delle due bestie dell’Apocalisse. Il suo potenziale papabile ha subìto un brutto colpo». Il padre gesuita James Martin dichiarò che Sarah aveva violato il Catechismo, «che ci chiede di trattare le persone LGBT con “rispetto, compassione, delicatezza”». A volte viene da chiedersi se, per i cattolici come padre Martin, esistano parole con cui l’insegnamento della Chiesa a riguardo del sesso possa essere difeso – dal momento che loro non le utilizzano mai. Comunque, la reazione al discorso di Sarah probabilmente aveva a che fare più con il semplice analfabetismo che con una qualche differenza di principio. Il cardinale di Durban, Wilfred Napier, alla vigilia del Sinodo disse che gli europei soffrono di una «diffusa ignoranza e rifiuto non solo dell’insegnamento della Chiesa ma anche della Scrittura». Aveva ragione. Coloro che non vivono nella Scrittura e non conoscono personalmente le sue immagini sono più propensi a ritenere il linguaggio biblico irrilevante o incendiario. Il 14 ottobre, una settimana dopo il discorso di Sarah, il cardinale Walter Kasper si lamentòdegli interventi africani al Sinodo. «Io posso parlare solo della Germania, dove una larga maggioranza vuole un’apertura verso i divorziati risposati. Lo stesso vale per il Regno Unito e ovunque». O meglio, non proprio ovunque: «Con l’Africa è impossibile. Ma non dovrebbero essere loro a dirci cosa fare». Il rigetto di Sarah e degli altri africani da parte di Kasper scatenò una immediata protesta. Obianuju Ekeocha, una cattolica nigeriana che si batte contro l’aborto, scrisse: «Figuratevi il mio shock oggi quando ho letto le parole di uno dei più importanti padri sinodali… In quanto donna africana che oggi vive in Europa, vedo le mie idee e i miei valori morali continuamente screditati come “questioni africane”». D’accordo il cardinale Napier: «È preoccupante leggere espressioni com “il teologo del Papa” riferite al cardinale Kasper… Kasper non è molto rispettoso verso la Chiesa africana e i suoi pastori». La dichiarazione di Kasper ruppe la diga. Da quel momento, una ondata di abusi si è abbattuta su Sarah. I suoi critici lo hanno descritto come arrogante, ignorante e un criminale potenziale – o quanto meno meritevole di una bella lezione. Michael Sean Winters del National Catholic Reporter ha ricordato a Sarah il suo ruolo («In fondo i cardinali di Curia sono dipendenti, dipendenti rispettati, ma dipendenti»). Padre William Grim su La Croix ha definito il suo lavoro «asinesco… palesemente stupido… idiozia». Andrea Grillo, un liturgista italiano liberal, ha scritto: «Sarah ha mostrato, da anni, una sostanziale inadeguatezza e incompetenza in ambito liturgico».

Su The Tablet, padre Anthony Ruff ha corretto Sarah. «Sarebbe bene che studiasse le riforme più approfonditamente e riuscisse a comprendere, per esempio, cosa significa “mistero” nella teologia cattolica». Massimo Faggioli, un vaticanista che frequenta le gelaterie di Roma, ha osservato innocentemente che il discorso delle bestie dell’apocalisse di Sarah «sarebbe passibile di denuncia penale in alcuni paesi». (Avendo amministrato per anni sotto la brutale dittatura marxista di Sékou Touré, Sarah non ha proprio bisogno che gli si ricordi che la professione della fede cristiana può essere un crimine). Dopo che papa Francesco ha respinto l’appello di Sarah ai sacerdoti a celebrare la Messa ad orientem, il disprezzo verso di lui è esploso in una scarica di botte: «È assai insolito per il Vaticano schiaffeggiare pubblicamente un principe della Chiesa, eppure non sorprende del tutto visto come si è mosso il cardinal Sarah…» (Christopher Lamb, Tablet); «Il Papa ha schiaffeggiato Sarah abbastanza sonoramente, salvandogli la faccia solo un po’» (Anthony Ruff, Pray Tell); «Il Papa schiaffeggia Sarah» (Robert Mickens su Twitter); «Papa Francesco… lo ha schiaffeggiato» (sempre Mickens, per Commonweal); «Un altro schiaffo» (Mickens ancora una volta, qualche mese dopo per La Croix). Sommato tutto insieme, fa una notevole lezione. Scambiarsi accuse di insensibilità probabilmente non è il modo migliore per risolvere le dispute dottrinali, ma la retorica dei critici di Sarah rivela qualcosa di importante a riguardo della vita cattolica oggi: nelle dispute dottrinali, morali e liturgiche, i cattolici liberal sono diventati nazionalisti ecclesiali. I cattolici tradizionali sono inclini a sostenere standard dottrinali e atteggiamenti pastorali coerenti a prescindere dai confini nazionali. Se non prediligono la Messa in latino, vogliono che le traduzioni nelle lingue locali ricalchino il latino il più esattamente possibile. Non sono scandalizzati dal modo in cui gli africani parlano dell’omosessualità o i cristiani d’Oriente dell’islamismo. I cattolici liberal, invece, si battono per le traduzioni scritte in stile idiomatico e approvate dalle conferenze episcopali nazionali, non da Roma. Le realtà locali esigono che la verità venga regolata ogni volta che oltrepassa un confine. Le affermazioni dottrinali cattoliche dovrebbero essere accennate in un linguaggio pastoralmente sensibile – sensibile cioè verso le sensibilità dell’Occidente ricco e istruito. Uno dei vantaggi del nazionalismo ecclesiale è che consente ai liberal di evitare di argomentare in campo dottrinale, dove i “rigoristi” tradizionali di solito hanno la meglio. Se la verità deve essere mediata dalle realtà locali, nessuno a Roma o ad Abuja avrà granché da dire sulla fede di Bruxelles e di Stoccarda (ecco qual era il punto dietro il rigetto degli africani da parte di Kasper). È quel che emerge in certi autori come Rita Ferrone di Commonweal, la quale dice che invece di badare a Sarah, chi parla inglese dovrebbe «fidarsi del nostro popolo e del nostro buon senso per quanto riguarda la preghiera nella nostra lingua». Il “noi” che sta dietro quel “nostro” non è globale e cattolico, ma borghese e americano. E se invece di essere rimesso al suo posto, schiaffeggiato e sbattuto in galera per aver violato i codici linguistici dell’Occidente, Sarah diventasse papa? Ecco quello che i suoi critici temono di più. Mickens scrive della cupa possibilità di un «Pio XII (anche noto come Robert Sarah». Lamb dice che Sarah potrebbe finire per essere «il primo papa nero». (Sarebbe stupendo – i genitori di Sarah, due convertiti del remoto villaggio di Ourous, in Guinea, immaginavano che solo gli uomini bianchi potessero diventare preti e risero quando il loro figlio disse loro che voleva entrare in seminario). Lo stesso osservatore bene informato che mi disse che il potenziale di Sarah era precipitato durante il Sinodo, ora dice che le sue prospettive stanno migliorando. «La gente ha visto tutti gli attacchi, e il suo generoso rifiuto di rispondere a tono».

È davvero notevole il fatto che Sarah abbia sopportato una tale gragnuola di insulti con tanta grazia. Nel suo nuovo libro La forza del silenzio sentiamo il suo grido soffocato di angoscia: «Ho provato sulla mia pelle la dolorosa esperienza dell’assassinio attraverso il chiacchiericcio, la calunnia e la pubblica umiliazione, e ho imparato che quando una persona ha deciso di distruggerti, non le mancheranno le parole, la cattiveria e l’ipocrisia; la menzogna ha una capacità immensa di costruire argomenti, prove e verità sulla sabbia. Quando tale è il comportamento degli uomini di Chiesa, e dei vescovi in particolare, il dolore è anche più profondo. Ma… dobbiamo restare calmi e in silenzio, chiedendo che la grazia non ceda mai al rancore, all’odio e alla sensazione dell’impotenza. Restiamo saldi nel nostro amore per Dio e per la sua Chiesa, nell’umiltà». Nonostante tutto questo, Sarah è un uomo indomito. Il suo libro ribadisce l’appello alla Messa ad orientem e al resto della “riforma della riforma”. «Se Dio vorrà, quando vorrà e come vorrà, sarà realizzata la riforma della riforma nella liturgia. Malgrado lo stridore di denti, essa avverrà, perché c’è in gioco il futuro della Chiesa». Se Sarah si è rifiutato di rendersi accondiscendente con quelli che comandano a Roma, non si metterà nemmeno al servizio altri schieramenti. In questo libro meravigliosamente personale, racconta vecchie storie popolari islamiche, ama profondamente i deboli e gli afflitti, e depreca gli interventi armati: «Come possiamo non essere scandalizzati e inorriditi dall’azione dei governi dell’America e dell’Occidente in Iraq, Libia, Afghanistan e Siria?». Sarah li considera spargimenti di sangue idolatrici «nel nome della dea Democrazia» e «nel nome della Libertà, un’altra divinità dell’Occidente». Si oppone allo sforzo di costruire «una religione senza confini e una nuova etica globale». E se questa vi sembra un’iperbole, ricordate che sei giorni dopo che i missili avevano colpito Baghdad, Tony Blair mandò a George W. Bush un promemoria che diceva: «La nostra ambizione è grande: costruire un’agenda globale attorno alla quale possiamo unire il mondo… per diffondere i nostri valori di libertà, democrazia, tolleranza». Sarah vede questo programma come qualcosa di contiguo alla blasfemia. Ha opinioni altrettanto taglienti sull’economia moderna: «La Chiesa commetterebbe un errore fatale se si logorasse nel tentativo di dare una specie di volto sociale al mondo moderno che è stato scatenato dal capitalismo del libero mercato». Guerra, persecuzione, sfruttamento: tutte queste forze fanno parte di una «dittatura del rumore» i cui slogan incessanti distraggono gli uomini e screditano la Chiesa. Per resistere ad essa, Sarah si rivolge all’esempio di Fratello Vincent, un giovane recentemente scomparso che Sarah amava con tutto il cuore. Solo se amiamo e preghiamo come Vincent possiamo sentire la musica callada, la musica silenziosa che gli angeli suonarono per Giovanni della Croce. Sì, questo libro mostra che Sarah ha molto da dire: sulla vita mistica, sulla Chiesa e sull’attualità mondiale. Ma su tutto il resto, rimane in silenzio – mentre il mondo parla di lui.

SE NON SUORA, QUANDO? ANCHE LE MONACHE SCELGONO LA TOLLERANZA ZERO: "SULL’ACCOGLIENZA BUONISMO TANTO TRISTE QUANTO IGNORANTE". LE VARIE ONG VENGONO PARAGONATE A “BECCHINI BEN REMUNERATI”.  Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 6 agosto 2019. E dire che tutto è partito da Avvenire. Il 13 luglio il quotidiano dei vescovi ha offerto «con gioia e ammirazione» ai propri lettori, come predica anti-salviniana del giorno, la lettera aperta firmata da un gruppo di suore clarisse e carmelitane e indirizzata a Sergio Mattarella e Giuseppe Conte. Le monache esprimevano «preoccupazione per il diffondersi in Italia di sentimenti di intolleranza, rifiuto e violenta discriminazione nei confronti dei migranti» e chiedevano di impegnarsi per quelli che, arrivati qui, «si vedono rifiutare ciò che è diritto di ogni uomo e ogni donna sulla terra: pace e dignità». La linea di Bergoglio e della Cei, insomma. Alla quale non sono mancate adesioni, anche perché, di questi tempi, niente è più facile che stare dalla parte del pontefice. Eppure c' è chi dice no, persino tra le suore. Bisogna leggere il blog di Aldo Maria Valli, uno dei pochi vaticanisti non allineati, per capire cosa sta succedendo davvero in certi conventi. Quell' appello non rappresenta affatto tutte le monache, e il sito di Valli è diventato il punto di riferimento delle tante che non lo condividono.

BUONISMO IGNORANTE. Per prima è uscita allo scoperto l' eremita diocesana Giovanna di Maria Madre della Divina Grazia. Secondo la tostissima suorina il testo delle consorelle «è oltremodo penoso e dimostra come il fumo di Satana sia penetrato anche dietro le grate (per chi le ha ancora) dei monasteri di clausura». Probabilmente, chiosa, «le monache che hanno partorito questa iniziativa non conoscono gli inviti che i vescovi africani continuano a fare ai migranti perché restino nei loro Paesi e non si facciano adescare da promesse di una vita facile e benestante, che non esiste». E siccome quelle suore preferiscono rifugiarsi «in un buonismo tanto triste quanto ignorante», non sanno nulla nemmeno «del traffico di esseri umani, che è una tragedia che grida vendetta al cospetto di Dio, e che vede le varie Ong in primo piano come becchini ben remunerati». È stato solo l' inizio. Dopo di lei ha polemizzato con le firmatarie dell' appello una monaca di clausura, «guerriera di Cristo Re», a nome di un gruppo di religiose: «Anche se la decisione di aprire i vostri monasteri ai migranti fosse giusta, e secondo me non lo è, perché fare in modo che tutti lo sappiano, contraddicendo uno stile di vita che ci caratterizza da sempre? Forse la clausura dei vostri monasteri è stata invasa dai mezzi di comunicazione, che vi hanno fatto perdere il contatto con la realtà?».

PRIMA GLI ITALIANI. A quel punto si sono rotti gli argini. Una carmelitana scalza ha rimproverato alle «care sorelle» di ignorare che l' immigrazione «è un fenomeno gestito dalle organizzazioni mondialiste per scristianizzare l' Italia e l' Europa». Quindi le ha invitate a esercitare la loro carità iniziando «dagli italiani poveri (e Dio sa se ve ne sono!), che sono magari persino cattolici praticanti». Una claustrale le ha accusate di «vestire i panni di sessantottine femministe che all' epoca furono contagiate dal virus dell' ideologia e si sentivano realizzate solo se urlavano la loro opinione nelle assemblee». Un' altra ha fatto notare alle consorelle «come, da persone consacrate, non siete capaci di difendervi da chi vi impone le sue idee». Nulla di cui stupirsi. Aiutarli "a casa loro", nelle missioni sparse in Africa e nel resto del Terzo mondo, portando la parola di Cristo assieme agli aiuti materiali, appartiene alla migliore tradizione della Chiesa. È durata sin quando i capitani delle imbarcazioni Ong sono stati proclamati santi e il «proselitismo» dei missionari è stato condannato da papa Bergoglio.

Migranti, l'altra voce della Chiesa. Cresce il numero di sacerdoti contro l'accoglienza per tutti i migranti, ma restano nel silenzio. Panorama ha raccolto le loro opinioni segrete. Lorenzo Bertocchi il 22 luglio 2019 su Panorama. «Moriremo di felpata prudenza». Così dice a Panorama un esponente del basso clero ben introdotto con vescovi e cardinali. Prudenza declinata a singhiozzo. Sarebbe questa la parola che ricorre quando si chiede ai vertici della Cei di esprimersi sul nodo legislativo dell’eutanasia, una questione pressante in Italia, visto che il 24 settembre la Corte costituzionale si dovrà esprimere se nel frattempo il Parlamento non batterà un colpo. Ma la stessa prudenza molla gli ormeggi quando, invece, i vescovi devono dire la loro sul fenomeno che riguarda i migranti e la loro tratta in corso sulle acque del Mediterraneo. «Il problema è che il tema migranti assume una connotazione sempre più spesso politica, sebbene ammantata di evangelismo». Così dice un altro sacerdote di una diocesi del Nord Italia, a testimonianza di uno scollamento non solo tra Chiesa e fedeli, ma anche tra alto e basso clero, tra vescovi e sacerdoti. Di questa politicizzazione parlò anche il cardinale Gerhard Müller a ridosso delle elezioni europee dello scorso maggio. «Dire, come hanno fatto il direttore di Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro, e il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, che Salvini non è cristiano perché è contro l’immigrazione, è stato un errore», dichiarò l’ex prefetto della Dottrina della fede al Corriere della sera. Sottocoperta c’è una Chiesa che non ci sta alle semplificazioni e agli slogan. Se in provincia di Pavia c’è un don Roberto Beretta, sacerdote a Pieve Porto Morone, che dopo aver parlato con il vescovo Corrado Sanguineti rinuncia a dir messa per Carola Rackete, la capitana della Sea-Watch 3, ci sono molti sacerdoti che prendono le distanze da questo movimentismo mediatico pro migranti coperto da istanze quasi divine. Solo che non si espongono. Chiedono di non essere citati, hanno paura di ricevere richiami, di essere puniti. «Tra il clero c’è una parte ideologizzata politicamente e che cavalca il tema migranti per una battaglia quasi partitica, questa parte è rumorosa, ma non maggioritaria. Un’altra parte si adatta cercando di barcamenarsi, e un’altra, spesso fatta di giovani sacerdoti, non comprende l’accoglienza declinata quasi come un nuovo dogma», dice ancora il prete ben introdotto. Conferme arrivano da almeno cinque diocesi italiane - da Nord a Sud - che abbiamo setacciato per questa inchiesta, sentendo diversi parroci e chiedendo qual è il clima nel loro presbiterio. «Soprattutto» risponde un prete del Centro Italia «ci sono tanti confratelli che mostrano un dissenso sull’eccesso di attenzione che viene riservato alla questione, a scapito di tanti altri problemi che riguardano la gente e che ci troviamo davanti ogni giorno. Sembra che l’unica categoria di poveri sia quella dei migranti». La questione è seria, perché il governo del fenomeno migranti non è un dogma, ma una questione laica, fatto salvo ovviamente il soccorso umanitario e il rispetto della dignità di ogni persona. Alcuni vescovi, nonostante il refrain ecclesiale martellante, hanno mostrato di articolare il problema con buon senso e secondo la dottrina sociale della Chiesa. Il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, in un’intervista al quotidiano Qn ha ricordato che «tra i doveri di uno Stato c’è anche quello di governare i flussi migratori con umanità, verità e senso delle proporzioni. Nell’ottica di una redistribuzione dei migranti fra i Paesi dell’Unione è comprensibile che si chieda di indirizzare le navi anche verso altri porti europei o comunque di condividere l’accoglienza con altre nazioni». Sempre Suetta ha dimostrato di guardare il problema in tutta la sua profondità. «Sono certo», ha detto al giornale bolognese, «che la Chiesa ha fatto e fa molto con grande umanità e retta intenzione. Rimane il rischio che alcune realtà “solidali” possano utilizzare il fenomeno migratorio per altri scopi: impoverire l’Africa per lasciarla alla mercé di certi potentati; favorire uno stravolgimento dell’identità europea attraverso l’approdo di masse umane disomogenee». Il riferimento all’Africa non è secondario, soprattutto se confrontato con una interpretazione del fenomeno migratorio che lo vorrebbe ineluttabile, epocale, quasi un segno di bibliche proporzioni. I vescovi di ben 16 conferenze episcopali dell’Africa occidentale, riuniti in Burkina Faso dal 13 al 20 maggio scorso, ci mostrano il problema da un altro punto di vista. «Voi [giovani]», hanno scritto, «rappresentate il presente e il futuro dell’Africa che deve lottare con tutte le sue risorse per la dignità e la felicità dei suoi figli e figlie. In questo contesto, non possiamo tacere sul fenomeno delle vostre migrazioni, in particolare verso l’Europa. I nostri cuori soffrono nel vedere le barche sovraccariche di giovani, donne e bambini che si perdono tra le onde del Mediterraneo. Certo, comprendiamo la sete di quella felicità e benessere che i vostri Paesi non vi offrono. Disoccupazione, miseria, povertà rimangono mali che umiliano. Tuttavia, non devono portarvi a sacrificare la vita lungo strade pericolose e destinazioni incerte. Non lasciatevi ingannare dalle false promesse che vi porteranno alla schiavitù e a un futuro illusorio! Con il duro lavoro e la perseveranza ce la potete fare anche in Africa e, cosa più importante, potete rendere questo continente una terra prospera». Le chiese in Africa si preoccupano da sempre di far restare i loro figli a casa. «I nostri giovani devono imparare a essere pazienti e a lavorare sodo nei loro Paesi d’origine» ha dichiarato al mensile Il Timone il cardinale nigeriano John Olorunfemi Onaiyekan, «Anche se ciò può essere difficile, sicuramente non è tanto drammatico quanto finire nel mercato degli schiavi o nelle prigioni della Libia». Peraltro, molti vescovi africani hanno più volte spiegato che il sistema di aiuti economici occidentali ha spesso ottenuto l’effetto contrario, applicandosi a Paesi in via di sviluppo con una serie di problemi interni di corruzione e con logiche di restituzione del debito che intrappolavano ulteriormente le economie locali. Inoltre, al doppio sinodo sulla famiglia celebrato in Vaticano nel 2014 e 2015, i padri africani sottolinearono come la concessione degli aiuti umanitari all’Africa viene spesso accordata dietro la promessa di promuovere politiche come quella gender, il matrimonio omosessuale o l’aborto. In tutto questo si nota che la strada da fare per «aiutarli a casa loro» è accidentata e dovrebbe richiamare l’Europa e l’Occidente a un esame di coscienza, per valutare se si fa tutto il possibile per favorire lo sviluppo dell’Africa e il diritto a non emigrare, o si promuove il fenomeno della migrazione di massa anche con il sistema di aiuti. Il cardinale guineiano Robert Sarah, prefetto al Culto divino, ha dichiarato alla rivista francese Valeurs actuelles che «tutti i migranti che arrivano in Europa sono senza un soldo, senza lavoro, senza dignità... Questo è ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può cooperare con questa nuova forma di schiavitù diventata migrazioni di massa. Se l’Occidente continua in questo modo fatale, c’è un grande rischio che, a causa della mancanza di nascite, sparisca, invaso dagli stranieri, proprio come Roma è stata invasa dai barbari». Monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, parlando con il quotidiano La Verità ha sottolineato che «i vescovi dell’Africa invitano i loro giovani a non emigrare e la dottrina sociale della Chiesa dice che esiste prima di tutto un diritto a “non emigrare” e a rimanere nella propria nazione e presso il proprio popolo. Del resto, si sa che dietro la marea migratoria si celano molti interessi anche geopolitici. Le migrazioni non sono quindi un bene in sé. Dipende se servono il bene dell’uomo o no». Il concetto riprende alcuni passaggi che il nono e il decimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, di cui Crepaldi è presidente, spiegano nel dettaglio: l’emigrazione non può essere in nessun modo forzata o pianificata; la comunità internazionale deve affrontare i problemi che nei Paesi di emigrazione spingono o costringono persone e famiglie ad andarsene dando il proprio contributo per la loro soluzione; e, infine, il dovere di chi emigra di verificare se non ci siano invece le possibilità per rimanere e aiutare il proprio Paese a risolvere le difficoltà. «Le politiche dell’immigrazione devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza» dice ancora Crepaldi.«Allo stesso tempo interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione oltre l’assistenza immediata e di altri problemi, come per esempio combattere la criminalità organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune Ong, non scaricare la responsabilità sull’Italia ma favorire la collaborazione europea. La carità personale getta spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in modo strutturale nel bene di tutti». La carità, punto imprescindibile per un cattolico che voglia definirsi tale, però richiede, dicono i sacerdoti che abbiamo interpellato, un paio di osservazioni. «Se si perdesse la connessione soprannaturale, la carità diventerebbe mera filantropia, e la Chiesa rischierebbe di trasformarsi in una pur benefica organizzazione assistenziale», scriveva in un libro del 2016 l’attuale prelato dell’Opus dei monsignor Fernando Ocáriz. In modo più diretto il vescovo emerito di Ferrara-Comacchio, monsignor Luigi Negri, ha detto che «ogni prossimo è in difficoltà, non solo qualcuno. E la prima difficoltà è che la maggior parte non conosce Cristo. Perciò il primo modo di assumersi la sfida della povertà del mondo è annunciare Gesù». Da questo punto di vista il problema dell’immigrazione e dell’integrazione incrocia il fatto dell’evangelizzazione. Un problema che comunque ha una portata laica di rilevanza fondamentale. L’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, avvertiva della questione culturale da considerare nel processo di integrazione, specialmente con immigrati fedeli dell’Islam. Nessun Papa ha mai messo in dubbio il dovere sull’accoglienza da riservare allo straniero, è falso affermare il contrario ed è riduttivo tirare per la talare Benedetto XVI rispetto a Francesco. Nello stesso tempo sarebbe falso sottacere il dissenso che si avverte nella Chiesa, nella gerarchia, nei sacerdoti e nei fedeli, circa un’interpretazione del fenomeno migratorio che sembra essere assunto come una specie di nuovo dogma e segno ineluttabile dei tempi. Per molti questa finisce per essere una mera «politicizzazione» del fenomeno. Il segreto di Pulcinella di questa situazione è frutto di una scelta precisa. Papa Francesco ha voluto ridimensionare i cosiddetti principi non negoziabili, nel senso che il povero e il migrante sono ora messi allo stesso livello dell’abortito o di un Vincent Lambert, lasciato morire in Francia togliendogli cibo e acqua. Tutti vittime della cultura dello scarto. Se c’è una attenzione da riservare a tutti i bisognosi, un cardinale che chiede di restare anonimo dice che si è scelto così di non riconoscere la gerarchia propria dei cosiddetti principi non negoziabili, il primo dei quali è il diritto alla vita, senza la quale non è possibile godere di nessun altro bene. «Quelle di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II» dice a Panorama il cardinale, «non erano fissazioni morali, ma indicazioni di ciò che è fondamentale per non perdere l’umano. Mettere sullo stesso piano della difesa della vita (contro aborto e eutanasia), o addirittura far precedere, principi gerarchicamente di rango inferiore, come quello dell’emigrazione o dell’ecologia, è una scelta precisa di natura teologica e antropologica». Sottocoperta c’è una Chiesa che va controcorrente.

Don Ermanno Caccia: "Non dividiamo il popolo cristiano sui migranti". Il sacerdote, emarginato per le sue idee sul governo, torna sul dissenso interno alla Chiesa sul tema migranti. Panorama il 2 agosto 2019. Don Ermanno Caccia è un vulcano. Non perde il sorriso nel dividersi fra la parrocchia di Mortizzuolo, in provincia di Modena, che fu epicentro del terremoto in Emilia, i pellegrinaggi e il suo blog. «Bisogna portare Gesù dove passano i viandanti» spiega. Don Ermanno è amato dalla sua gente e un po’ meno dal potere curiale, che lo ha costretto alle dimissioni da direttore del giornale diocesano perché aveva parlato bene di Matteo Salvini. «Il popolo ha scelto uno fidato» aveva scritto dopo le Politiche. Una bestemmia».

Ha senso per un cattolico oggi trovarsi al bivio: o Salvini o il Papa?

«No, non ha senso né il bivio né la contrapposizione. Non mi aspetto un granché da quelli che appaiono tanto devoti. Guardo piuttosto con fiducia in direzione di coloro che tengono la testa alta e la schiena dritta. Chi ha la coscienza formata e ha solidi principi non si ferma così in superficie».

Alla base di tutto c’è la politica sui migranti. Nella sua parrocchia qual è il pensiero dominante?

«I miei concittadini dicono che è doveroso salvaguardare ogni vita umana, ma l’accoglienza e il collocamento di queste persone non possono essere gestiti da una continua emergenza palesemente strumentalizzata. La gente vede che non c’è stata la stessa tempestività per le emergenze che hanno riguardato il dopo terremoto. E tira le somme».

Perché Papa Francesco ha come cavallo di battaglia l’immigrazione?

«Che il problema di diseguaglianza sia di difficile soluzione è sotto gli occhi di tutti. Francesco, un Papa venuto da lontano, ha ben presente lo scarto che esiste tra il mondo ricco e povero. Gli appelli che giungono sulla sua scrivania lo spingono a osare, ma il problema è un altro».

Quale, don Ermanno?

«Sta tutto nella parabola della zizzania. Chi cavalca a suon di proclami questi input, queste riflessioni giuste e umanitarie, divide lo stesso popolo cristiano dal di dentro. La zizzania, si voglia o no, intreccia inesorabilmente le proprie robuste radici con quelle del grano. Per unire bisogna distinguere: dialogo, diversità e distinzione viaggiano e camminano insieme».

Perché chi ha a cuore l’identità, le tradizioni, la dottrina deve considerarsi sovranista, quindi lontano da Dio?

«Questa è una semplificazione dei parolai, vale per i dibattiti tv ma non rappresenta la realtà. Lontananza e vicinanza da Dio: personalmente mi accontenterei di un po’ di silenzio e che qualche cervello vuoto fosse visitato da un pensiero serio. Sarebbe un evento prodigioso se questa vicinanza, questo cercare Dio, chiarisse a tanta gente svagata le idee circa la vita, il senso da darle e i valori su cui impostarla».

In una lettera aperta lei ha parlato dei danni compiuti da «campioni di una fede altezzosa e ostentata». Si riferiva ai teologi tifosi della Sea Watch, sempre più distanti dai sacerdoti in trincea.

«C’è una fedeltà di facciata, rispettosa nelle forme, che sovente fa da paravento all’opportunismo e al cinismo. C’è poi una fedeltà sofferta, che qualche volta si traduce in atteggiamenti scomposti, in un tono un po’ ribelle, ma che tradisce un impegno di fondo, una vita esemplare nella sostanza. Insomma ci può essere una deferenza ostentata verso la linea dominante, un’obbedienza esibita, che maschera il disamore».

Due milioni di italiani in meno hanno dato l’otto per mille alla Chiesa cattolica. È un allarme?

«Un vecchio adagio popolare dice che chi semina vento raccoglie tempesta. Un’informazione inefficace provoca emorragie. Nella mia terra mortificata dal sisma quell’8 per mille ha permesso la ricostruzione di chiese. La nostra gente è generosa, ma noi abbiamo il dovere di restituire ciò che ci viene elargito. E di farlo sul territorio».          

Papa Bergoglio e la grande fuga dall'8 per mille. Camillo Langone, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Questo sembra proprio l'inizio della fine. Il netto calo dell'otto per mille alla chiesa cattolica (in sette anni due milioni di crocette in meno sulla dichiarazione dei redditi) ha un triste suono di campane a morto. Non sono più opinioni, sensazioni soggettive. Le chiese semivuote potevano essere un fatto opinabile: grazie a Dio per andare a messa non si paga biglietto e dunque non esistono numeri precisi, statistiche affidabili sulla partecipazione domenicale. Molti dicono che un tempo le chiese erano piene di fedeli ma forse sono gli stessi che lamentano la scomparsa delle mezze stagioni. Già Orazio, oltre duemila anni fa, derideva la figura del laudator temporis acti, il lodatore del tempo passato ossia, guarda caso, del tempo della propria giovinezza. Anche il rigetto del popolo sovrano nei confronti dell'ossessione immigrazionista (e dunque antileghista) di Papa Francesco si è un po' persa nel groviglio dei flussi elettorali. Però stavolta i numeri ci sono, nero su bianco, indiscutibili: il papa venuto dalla fine del mondo ha preso l'otto per mille a quota 37,04 e lo ha portato a 32,78 (o pure meno visto che i dati appena resi noti dal Dipartimento delle Finanze sono provvisori, non si capisce il motivo, addirittura per quanto riguarda l'Irpef 2016). E' un'altra fine del mondo, non geografica bensì economica: di questo passo il prossimo papa dovrà vendere i Raffaello dei Musei Vaticani per pagare lo stipendio alle guardie svizzere... E' vero che i pontefici ricevono direttamente l'obolo di San Pietro, altra cosa rispetto all'Irpef, peccato che sia in calo pure quello, e qui confesso la mia parte di colpa perché la domenica in cui si raccoglie faccio una fatica enorme a mettermi la mano in tasca, come se fossi colpito da un episodio improvviso e acutissimo di artrite. Dopo una lunga lotta fra mente e mano è già molto se riesco a estrarre un paio di monetine. Strano perché nelle domeniche normali questa particolarissima artrite non compare... Nemmeno al momento dell'otto per mille: alcuni amici allergici a Bergoglio hanno cominciato a darlo agli ortodossi, io però non ce la faccio, quelle orientali sono chiese nazionali se non nazionaliste e, pur ammirando la verticale spiritualità bizantina, non sono né greco né russo né serbo né rumeno... Quella ortodossa è la scelta elitaria, ultraminoritaria, di chi ha compulsato documenti papali trovandovi eresia anziché cristianesimo. Escludo che due milioni di renitenti all'otto per mille si siano sorbiti la contorta, gesuitica prosa della Amoris laetitia o il prolisso panteismo della Laudato sì. Per quasi tutti il rifiuto del presente pontificato non è teologico ma sociologico: per chi ormai identifica vescovi e barconi mettere la crocetta sull'otto per mille equivarrebbe al metterci una croce sopra, alla cara vecchia Italia monoculturale e monoreligiosa.

A CHI GIRANO I BERGOGLIONI.  Camillo Langone per ''Il Foglio'' il 9 luglio 2019. Signore Gesù, davvero ci chiedi di amare e rialzare milioni di africani come dice il tuo vicario? A me non risulta, in Matteo 11,30 leggo: “Il mio giogo è dolce, il mio peso leggero”. Mi sembrerebbe dunque da escludere che sia il cristianesimo a voler imporre sulle spalle di una nazione piccola, senile e indebitata il peso di un grande continente.  Signore Gesù, dov’è che nel Vangelo indichi la “opzione preferenziale per gli ultimi” citata ieri dal tuo vicario nella messa per Lampedusa? Nel discorso della Montagna non è chiaro a quali poveri ti riferisci: poveri di spirito? Poveri di soldi? Nemmeno Matteo e Luca sono concordi su questo punto: com’è possibile che dopo duemila anni un pontefice capisca ciò che due Santi vicinissimi alla tua predicazione non avevano chiaro? E soprattutto, Signore Gesù, perché mai il tuo vicario insiste tanto sull’assistenza a giovani sani, spesso maomettani, anziché ai nostri vecchi malati, quasi tutti cristiani? Signore Gesù, sei stato tu a dire “chi non è con me è contro di me”: e allora perché il tuo vicario vuole riempire l’Italia di persone che sono e che saranno contro di te? Chi rappresenta davvero quest’uomo?

Antonio Socci per ''Libero Quotidiano'' del 9 giugno 2019. «Servire i poveri è nel Vangelo, non è comunismo», ha detto ieri papa Bergoglio per rispondere ai suoi critici. Dimenticando di aggiungere che il comunismo è stato il peggior nemico dei poveri. E dimenticando che nel Vangelo c' è scritto che anzitutto bisogna servire Dio. Gesù non vara un partito, non si occupa di elezioni e di politica, ma del Regno dei Cieli. Dei poveri Cristo parla in modo diametralmente opposto a Marx e Lenin, che non a caso detestavano il cristianesimo. Il magistero bergogliano è confusionario e genera confusione. Secondo una ricerca della Doxa negli ultimi cinque anni, che corrispondono al pontificato di Francesco, il numero di fedeli cattolici in Italia è crollato di quasi otto punti percentuali (il 7,7 per cento). Ma papa Bergoglio non sembra preoccupato di questa catastrofe spirituale (anzi, continua a colpire duramente gli ordini religiosi più ferventi e con più vocazioni cosicché si aggraverà tale crollo). Ciò che lo preoccupa sembra essere il crollo del numero di migranti da quando al Viminale è arrivato Matteo Salvini, il quale peraltro sottolinea che la fine delle partenze dei barconi, significa il quasi azzeramento del numero di morti nel Mediterraneo. Per Bergoglio i migranti rappresentano una specie di dogma di una nuova religione sociale, modello Teologia della liberazione. Con lui il cattolicesimo pare progressivamente sostituito da una religione globalista, comunisteggiante, tutta mondana, politically correct, non soprannaturale, tanto che nei giorni scorsi (sul tema dei rom) Bergoglio ha meritato addirittura un tweet di entusiastico appoggio da George Soros in persona. C' è chi lo ha definito «il Vescovo di Rom», anziché «il Vescovo di Roma». Ma anche «Vescovo di Romadan». Infatti i musulmani sono così felici di questo smantellamento del cattolicesimo che gli hanno dedicato il Ramadam. Cito da Vatican news un titolo eloquente: «La festa di fine Ramadan, in Italia, per la prima volta dedicata a papa Francesco». Bergoglio raccoglie dunque il plauso di laicisti, islamici, comunisti, atei, miscredenti e mangiapreti. Mentre i cattolici, sconcertati, sempre più spesso decidono di avversare pubblicamente la politica bergogliana proprio sul suo dogma fondamentale: l' immigrazione. È accaduto, in Italia, con le elezioni europee del 26 maggio, per le quali papa Bergoglio si era così ostinatamente schierato contro Matteo Salvini da essere indicato dalla Sinistra come suo simbolo e leader. Proprio in queste elezioni si è avuto il boom del voto dei cattolici per la Lega che oggi - secondo i dati di Ilvo Diamanti (pubblicati ieri da Repubblica) - è il primo partito dei cattolici italiani. E il loro consenso a Salvini è cresciuto enormemente negli ultimi mesi, in concomitanza con la sua demonizzazione da parte dei media bergogliani.

Il più votato tra i cattolici - Lo scontro interno alla Chiesa riemerge in queste ore per una vicenda surreale. È noto che con Bergoglio il Natale, più che l' Incarnazione di Dio, è diventato la festa del «Gesù migrante» (mai stato migrante). La Pasqua, più che la resurrezione di Cristo, celebra oggi la pace nel mondo e l' accoglienza del migrante. Adesso Bergoglio, indispettito per la cocente sconfitta subita nelle urne, sembra usare a scopo politico anche la festa di Pentecoste che si celebra oggi. Pare impossibile strumentalizzare a fini politici la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e su Maria, nel cenacolo di Gerusalemme, una festa che rimanda al mistero di Dio e all' eternità. Eppure lo fanno. I vescovi del Lazio - su ovvia spinta di Bergoglio - hanno preso a pretesto la Pentecoste per scrivere una "Lettera ai fedeli", da proclamare oggi in tutte le chiese della regione, proprio sull' accoglienza ai migranti. Per capirne il tono riporto il titolo che ha fatto La Bussola quotidiana (un sito cattolico non allineato): «Proclama immigrazionista a messa, preti laziali coscritti». Il sito definisce tale lettera «politicamente strumentale e quindi illegittima. Molti preti si interrogano se disubbidire a una violazione del genere: "Ho dato la vita per Cristo, non per un partito"». Più avanti la Bussola (che peraltro non ha simpatie leghiste) lo giudica «un documento veramente singolare, che sembra collocarsi a metà strada fra una forma di autolesionismo e l' ingerenza partitica». Il commentatore Marco Tosatti scrive ancora: «Sembra che molti parroci abbiano il buon senso di non leggere questo manifesto pro Pd nel corso della messa. Anche perché correrebbero il rischio di avere dei fedeli che si alzano in piedi e ricordano loro che in chiesa non si fa politica, e non si leggono documenti partitici». In effetti sull' account Twitter della diocesi di Roma, dove viene lanciata l' iniziativa, i commenti sono indignati. Uno è lapidario: «Documento squisitamente politico».

Beatrice Leoni commenta: «Speravo fosse una notizia "esagerata", al limite che la lettera esistesse, ma non (ci fosse) l' intenzione di leggerla durante le Messe. Per quanto mi riguarda mi alzerò ed uscirò alla lettura della citata lettera. A quanto pare non basta il Vangelo, ma il di più, si sa, viene dal Maligno». Antonio commenta sconsolato che «hanno snaturato anche la Pentecoste». Una certa Piperita Patti conclude: «Questo papa è eretico» (sull' account della Diocesi di Roma). Fabrizio Brasili ricorda l' insegnamento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, del tutto diverso dall' attuale. Cristina chiede ironicamente ai vescovi: «L' incoraggiamento a pregare, a evangelizzare e a non peccare l' avete poi messo nell' allegato?».

«Credo in Cristo, non nei partiti» - Maria scrive: «Prima fate stare bene quelli di famiglia nostra, quelli che vivono nelle macchine, quelli che non hanno lavoro, quelli che non vengono assistiti. Poi potremo volgere lo sguardo allo straniero che ha documenti, che voglia lavorare, che non stupra, non uccide e rispetta le leggi». Un certo "Trovo lavoro" è drastico: «Buffoni. Fondate un partito piuttosto. Così vi contiamo».

Memedesima scrive sconsolata: «Ma dobbiamo andare a messa fuori dal Lazio per non sentire strumentalizzazioni politiche? Ma cosa sta succedendo alla Chiesa?». Sangarre invita i vescovi a meditare «seriamente» sul Vangelo: «Siete immersi nel mondo caduco e transeunte tanto da non rendervi nemmeno più conto di chi parli davvero la Scrittura. E a chi».

Zot scrive ai vescovi: «Direi che siete solo un filino eretici». Poi riporta una pagina di Giovanni Paolo II, che definisce «vero papa», il quale rimandava «alle autorità pubbliche» il «controllo dei flussi migratori».

Papa Wojtyla scriveva: «L' accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi».

Luca cita il cardinale africano Robert Sarah e scrive: «Il card. Sarah sostiene la lettura fedele delle Sacre Scritture: "Dio non vuole le migrazioni Non possiamo accogliere i migranti in occidente, le persone vanno aiutate nei loro paesi"». Un altro richiama il Catechismo: «L' appello all' accoglienza e all' immigrazionismo viola il Catechismo secondo cui i pastori della Chiesa non possono intervenire direttamente nell' azione politica e nell' organizzazione della vita sociale». In effetti il n. 2442 del Catechismo che egli riporta recita: «Non spetta ai pastori intervenire direttamente nell' azione politica e nell' organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini».

Lucilla chiede: «È possibile parlarci di Cristo e lasciare fuori della Messa la politica?». Un altro aggiunge: «State distruggendo un' eredità millenaria di spiritualità».

Cicnus spera «che Dio abbia pietà» di questi pastori e prega «per la loro conversione». Anna Rota osserva: «Che tristezza una Chiesa ridotta ad una Onlus... Il Cielo non perdonerà questa blasfemia». E Lorenzo Stecchetti: «Anche la solennità di Pentecoste è occasione per voi per fare politica, anziché parlare di Cristo. Vergognatevi».

Papa Francesco, Antonio Socci: "Calano i migranti, Chiesa disperata. La mossa estrema pro-invasione". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 9 Giugno 2019. «Servire i poveri è nel Vangelo, non è comunismo», ha detto ieri papa Bergoglio per rispondere ai suoi critici. Dimenticando di aggiungere che il comunismo è stato il peggior nemico dei poveri. E dimenticando che nel Vangelo c' è scritto che anzitutto bisogna servire Dio. Gesù non vara un partito, non si occupa di elezioni e di politica, ma del Regno dei Cieli. Dei poveri Cristo parla in modo diametralmente opposto a Marx e Lenin, che non a caso detestavano il cristianesimo. Il magistero bergogliano è confusionario e genera confusione. Secondo una ricerca della Doxa negli ultimi cinque anni, che corrispondono al pontificato di Francesco, il numero di fedeli cattolici in Italia è crollato di quasi otto punti percentuali (il 7,7 per cento). Ma papa Bergoglio non sembra preoccupato di questa catastrofe spirituale (anzi, continua a colpire duramente gli ordini religiosi più ferventi e con più vocazioni cosicché si aggraverà tale crollo). Ciò che lo preoccupa sembra essere il crollo del numero di migranti da quando al Viminale è arrivato Matteo Salvini, il quale peraltro sottolinea che la fine delle partenze dei barconi, significa il quasi azzeramento del numero di morti nel Mediterraneo. Per Bergoglio i migranti rappresentano una specie di dogma di una nuova religione sociale, modello Teologia della liberazione. Con lui il cattolicesimo pare progressivamente sostituito da una religione globalista, comunisteggiante, tutta mondana, politically correct, non soprannaturale, tanto che nei giorni scorsi (sul tema dei rom) Bergoglio ha meritato addirittura un tweet di entusiastico appoggio da George Soros in persona. C' è chi lo ha definito «il Vescovo di Rom», anziché «il Vescovo di Roma». Ma anche «Vescovo di Romadan». Infatti i musulmani sono così felici di questo smantellamento del cattolicesimo che gli hanno dedicato il Ramadam. Cito da Vatican news un titolo eloquente: «La festa di fine Ramadan, in Italia, per la prima volta dedicata a papa Francesco». Bergoglio raccoglie dunque il plauso di laicisti, islamici, comunisti, atei, miscredenti e mangiapreti. Mentre i cattolici, sconcertati, sempre più spesso decidono di avversare pubblicamente la politica bergogliana proprio sul suo dogma fondamentale: l' immigrazione. È accaduto, in Italia, con le elezioni europee del 26 maggio, per le quali papa Bergoglio si era così ostinatamente schierato contro Matteo Salvini da essere indicato dalla Sinistra come suo simbolo e leader. Proprio in queste elezioni si è avuto il boom del voto dei cattolici per la Lega che oggi - secondo i dati di Ilvo Diamanti (pubblicati ieri da Repubblica) - è il primo partito dei cattolici italiani. E il loro consenso a Salvini è cresciuto enormemente negli ultimi mesi, in concomitanza con la sua demonizzazione da parte dei media bergogliani. Il più votato tra i cattolici - Lo scontro interno alla Chiesa riemerge in queste ore per una vicenda surreale. È noto che con Bergoglio il Natale, più che l' Incarnazione di Dio, è diventato la festa del «Gesù migrante» (mai stato migrante). La Pasqua, più che la resurrezione di Cristo, celebra oggi la pace nel mondo e l' accoglienza del migrante. Adesso Bergoglio, indispettito per la cocente sconfitta subita nelle urne, sembra usare a scopo politico anche la festa di Pentecoste che si celebra oggi. Pare impossibile strumentalizzare a fini politici la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e su Maria, nel cenacolo di Gerusalemme, una festa che rimanda al mistero di Dio e all' eternità. Eppure lo fanno. I vescovi del Lazio - su ovvia spinta di Bergoglio - hanno preso a pretesto la Pentecoste per scrivere una "Lettera ai fedeli", da proclamare oggi in tutte le chiese della regione, proprio sull' accoglienza ai migranti. Per capirne il tono riporto il titolo che ha fatto La Bussola quotidiana (un sito cattolico non allineato): «Proclama immigrazionista a messa, preti laziali coscritti». Il sito definisce tale lettera «politicamente strumentale e quindi illegittima. Molti preti si interrogano se disubbidire a una violazione del genere: "Ho dato la vita per Cristo, non per un partito"». Più avanti la Bussola (che peraltro non ha simpatie leghiste) lo giudica «un documento veramente singolare, che sembra collocarsi a metà strada fra una forma di autolesionismo e l' ingerenza partitica». Il commentatore Marco Tosatti scrive ancora: «Sembra che molti parroci abbiano il buon senso di non leggere questo manifesto pro Pd nel corso della messa. Anche perché correrebbero il rischio di avere dei fedeli che si alzano in piedi e ricordano loro che in chiesa non si fa politica, e non si leggono documenti partitici».

In effetti sull' account Twitter della diocesi di Roma, dove viene lanciata l' iniziativa, i commenti sono indignati. Uno è lapidario: «Documento squisitamente politico». Beatrice Leoni commenta: «Speravo fosse una notizia "esagerata", al limite che la lettera esistesse, ma non (ci fosse) l' intenzione di leggerla durante le Messe. Per quanto mi riguarda mi alzerò ed uscirò alla lettura della citata lettera. A quanto pare non basta il Vangelo, ma il di più, si sa, viene dal Maligno». Antonio commenta sconsolato che «hanno snaturato anche la Pentecoste». Una certa Piperita Patti conclude: «Questo papa è eretico» (sull' account della Diocesi di Roma). Fabrizio Brasili ricorda l' insegnamento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, del tutto diverso dall' attuale. Cristina chiede ironicamente ai vescovi: «L' incoraggiamento a pregare, a evangelizzare e a non peccare l' avete poi messo nell' allegato?». «Credo in Cristo, non nei partiti» - Maria scrive: «Prima fate stare bene quelli di famiglia nostra, quelli che vivono nelle macchine, quelli che non hanno lavoro, quelli che non vengono assistiti. Poi potremo volgere lo sguardo allo straniero che ha documenti, che voglia lavorare, che non stupra, non uccide e rispetta le leggi». Un certo "Trovo lavoro" è drastico: «Buffoni. Fondate un partito piuttosto. Così vi contiamo». Memedesima scrive sconsolata: «Ma dobbiamo andare a messa fuori dal Lazio per non sentire strumentalizzazioni politiche? Ma cosa sta succedendo alla Chiesa?». Sangarre invita i vescovi a meditare «seriamente» sul Vangelo: «Siete immersi nel mondo caduco e transeunte tanto da non rendervi nemmeno più conto di chi parli davvero la Scrittura. E a chi».

Zot scrive ai vescovi: «Direi che siete solo un filino eretici». Poi riporta una pagina di Giovanni Paolo II, che definisce «vero papa», il quale rimandava «alle autorità pubbliche» il «controllo dei flussi migratori». Papa Wojtyla scriveva: «L' accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi». Luca cita il cardinale africano Robert Sarah e scrive: «Il card. Sarah sostiene la lettura fedele delle Sacre Scritture: "Dio non vuole le migrazioni Non possiamo accogliere i migranti in occidente, le persone vanno aiutate nei loro paesi"». Un altro richiama il Catechismo: «L' appello all' accoglienza e all'immigrazionismo viola il Catechismo secondo cui i pastori della Chiesa non possono intervenire direttamente nell' azione politica e nell' organizzazione della vita sociale». In effetti il n. 2442 del Catechismo che egli riporta recita: «Non spetta ai pastori intervenire direttamente nell' azione politica e nell' organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziativa insieme con i loro concittadini».

Lucilla chiede: «È possibile parlarci di Cristo e lasciare fuori della Messa la politica?». Un altro aggiunge: «State distruggendo un' eredità millenaria di spiritualità». Cicnus spera «che Dio abbia pietà» di questi pastori e prega «per la loro conversione». Anna Rota osserva: «Che tristezza una Chiesa ridotta ad una Onlus... Il Cielo non perdonerà questa blasfemia». E Lorenzo Stecchetti: «Anche la solennità di Pentecoste è occasione per voi per fare politica, anziché parlare di Cristo. Vergognatevi». Antonio Socci

Vuole accogliere gli africani con i soldi degli italiani. Vittorio Feltri mai così duro contro Papa Francesco. Libero Quotidiano 2 Giugno 2019. Massì, apriamo questi benedetti o maledetti porti, obbediamo agli ordini pii del papa e dei progressisti favorevoli all'accoglienza. Forza, amici africani, venite in Italia e che sia finita questa storia salviniana dei respingimenti degli stranieri. Tutti dentro, belli e brutti. Così tra poco ospiteremo cinque o sei milioni di forestieri. Ospitare è un verbo impegnativo. Infatti non riusciremo a trovare un alloggio alla massa di immigrati che invaderanno la penisola, e allora per generosità cattolica e piddina sbatteremo i nuovi venuti per strada, dove dovranno arrangiarsi, dormire nelle aiuole, nei locali delle stazioni ferroviarie, pisciare sui tronchi degli alberi o sui marciapiedi. Dove mangeranno e che cosa? Non importa, questi sono dettagli. Si nutriranno di foglie, di rifiuti pescati nelle pattumiere o nelle discariche. I più fortunati saranno reclutati dagli schiavisti e costretti a raccogliere pomodori a due euro l' ora, chissenefrega. L' importante è non rifiutare l' ingresso nei nostri territori ad alcuno, viva i neri che sono risorse per la nazione che non fa più figli e ha bisogno di gente che arrivi qui a grattarsi la pancia oppure a servire nelle case dei signori in cambio di una paga misera.

È questo che vogliamo? Apriamo i porti e anche le porte del Vaticano che invece restano chiuse al punto che per accedere al regno di Bergoglio bisogna farsi raccomandare dal vescovo o almeno dal parroco, altrimenti non ci puoi mettere piede. Ovvio. Chi predica bene di norma razzola male. Avanzate povericristi del mondo, occupate le periferie, i quartieri popolari, ma state lontani dalle canoniche e dalla Santa Sede, dai palazzi dei ricchi i cui inquilini sono buoni e tuttavia non vogliono rotture di coglioni intorno alle loro lussuose dimore. Gli extracomunitari siano i benvenuti purché stiano alla larga dalle residenze degli abbienti che hanno appunto tutto tranne che la pazienza. Caro Papa, trasforma la tua bella Cappella Sistina in un dormitorio di senegalesi, dopo di che avrai il diritto di farci la morale. Sempre che ci spieghi cosa accadrà fra cinque anni, quando gli immigrati saranno più numerosi di noialtri. Continueremo a tenere aperti i porti o porteremo via te? Facile dire "correte qui, cari neri", poi però bisogna mantenerli. Coi soldi degli italiani? Ma andate in mona, e che Dio ci ascolti così almeno avrete altro cui pensare. Vittorio Feltri

Il Papa: «La paura rende intolleranti e razzisti». Bergoglio nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Per il pontefice: «Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il tornaconto personale o del proprio gruppo». Sergio Valzania il 28 Maggio 2019 su Il Dubbio. È stato presentato ieri mattina il messaggio del Santo Padre Messaggio a quanti parteciperanno alla Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà il prossimo 29 settembre, il cui tema sarà «Non si tratta solo di migranti». L’ammonizione «Non si tratta solo di migranti» ricorre martellante nel documento. Papa Francesco non si stanca di ricordarci che è impossibile vivere un cristianesimo destrutturato, del quale si accoglie quello che piace e si scarta ciò che pesa, che appare difficile, che mette alla prova. La cultura dello scarto è il rovescio dell’antropologia cristiana, fondata sull’incontro, sulla condivisione e sulla ricchezza delle identità, che arrivano ad essere fungibili. La parabola del Buon Samaritano è raccontata da Gesù per spiegare chi sia il prossimo. Si conclude con una domanda «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?» Soccorso e soccorritore si confondono nel rapporto d’amore, di dare e ricevere. Nel suo messaggio Papa Francesco propone quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare e avverte che non vanno riferiti solo ai migranti. Questi ultimi sono solo un caso particolare, di evidenza estrema, dell’esclusione e dello scarto degli ultimi, atteggiamenti che sono posti alla base di una concezione errata, ma diffusa, della società umana. Proprio perché più prossimi, i migranti ci interrogano con maggiore intensità, parlandoci di loro quanto di noi, del nostro egoismo e della nostra indisponibilità a fare quello che con ogni evidenza appare giusto. Il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”, ricorda papa Francesco. La riflessione del pontefice si allarga e abbraccia le problematiche che determinano l’emigrazione e quindi la presenza dei migranti, buona parte delle quali si annidano negli egoismi internazionali, nell’esportazione della guerra e nella vendita di armi a paesi ai quali viene negata in questo modo la possibilità stessa dello sviluppo. «Non si tratta solo di migranti» rifiuta quindi di essere un invito a sviluppare atteggiamenti superficiali di accettazione. Richiede per prima cosa di riconoscere le nostre responsabilità negli squilibri esistenti nel sistema delle relazioni internazionali e rifiuta come non cristiana ogni concezione che tenda a immaginare un’umanità divisa in entità statuali antagoniste e conflittuali. Nella visione cristiana il destino dell’umanità è chiaro, si tratta della salvezza raggiunta in comune, in quanto popolo di Dio, all’interno del quale non sono concepibili distinzioni fra essere umano ed essere umano. Il valore di ciascuno dei figli di Dio è infinito. In riferimento ai piccoli, in ogni senso, papa Francesco ha voluto inserire nel testo del messaggio una citazione evangelica di delicatezza poetica «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10) E si sa quanto sia importante il volto di Dio, il parlare con lui faccia a faccia nella tradizione profetica. Alcuni vogliono vedere nella decisione di presentare oggi il documento pontificio un distinguo per l’atteggiamento disinvolto nei confronti della cultura e della tradizione cattoliche che ha caratterizzato alcuni comportamenti messi in atto durante la campagna elettorale. Certo papa Francesco non intende polemizzare con chi ha convocato i santi e la stessa Madonna nei ranghi dei propri sostenitori durante un comizio. Scrivendo in chiusura che attraverso i migranti «il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio” il pontefice ha fatto un discorso più ampio e complesso. Sarebbe ingiusto e sbagliato riferire ad altri un monito che convoca tutti, ciascuno per la propria parte. Con il giusto desiderio di essere compresi nella benedizione conclusiva del messaggio, offerta in questi termini “per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio”.

Papa Francesco demolito da Ratzinger sull'immigrazione: il documento svelato da Alessandro Meluzzi, scrive il 21 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un tweet in cui, nel giorno di Pasqua, Papa Francesco non viene neppure nominato. Ma il riferimento è evidente, in modo lampante. Il tweet è quello consegnato alla rete da Alessandro Meluzzi, le cui posizioni sono assai differenti rispetto a quelle del Pontefice. E nel cinguettio si vedono Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E vengono riportate due loro frasi. Quella del primo: "Il diritto primario dell'uomo è vivere nella propria patria". Del secondo: "Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare". Due prese di posizione distanti anni luce da quelle di Papa Francesco, sostenitore dell'immigrazione e della possibilità di circolare ovunque si voglia. Insomma, il riferimento e la critica di Meluzzi sono evidenti.

Migranti, nuovo appello del Papa: "Non si lasci affogare la gente". Di ritorno dal Marocco Bergoglio torna a pungolare i Paesi che respingono i migranti. E attacca i populismi accostandoli a Hitler, scrive Sergio Rame, Lunedì 01/04/2019, su Il Giornale. Tornando in volo dal Marocco, i giornalisti chiedono a papa Francesco di Matteo Salvini e del convegno sulle famiglie di Verona. "Io di politica italiana non capisco - frena subito il Pontefice - non so cosa sia, davvero. Ho letto la lettera del cardinale Pietro Parolin (nella quale ha spiegato agli organizzatori perchè non sarebbe andato) e sono d'accordo, una lettera pastorale, di buona educazione". Ma poi, come riporta il Corriere della Sera, eccolo tornare a picchiar duro sull'immigrazione. E, invitando i Paesi europei a non "lasciare affogare i migranti in mare", attacca quei governi, come l'Italia, che hanno chiuso le frontiere ai barconi: "Abbiamo visto che è più bello seminare la speranza, che ci vogliono dei ponti, e sentiamo dolore quando vediamo le persone che preferiscono costruire dei muri, perchè coloro che costruiscono i muri finiranno prigionieri dei muri che hanno costruito". Ieri, durante la visita in Marocco, Bergoglio ha ribadito che "il fenomeno migratorio non si risolve con i muri" e ha puntato il dito contro la Spagna che proprio in Marocco "ha costruito due barriere con lame per ferire chi le vuole superare". Quindi, se l'è immancabilmente presa con Donald Trump rinfacciandogli di voler "chiudere completamente le frontiere". "Ho visto - racconta il Pontefice al Corriere della Sera - un pezzo di quella barriera, il filo spinato con i coltelli. Sono rimasto commosso e poi ho pianto, perché non entra nella mia testa e nel mio cuore tanta crudeltà. Non entra nella mia testa e nel mio cuore vedere affogare persone nel Mediterraneo, mettiamo un ponte ai porti. Questo non è il modo di risolvere il grave problema dell'immigrazione". Il Papa ammette che l'emergenza degli sbarchi e dell'immigrazione clandestina è una "patata bollente" per ogni governo che si ritrova a doverla risolverla. Ma comunque non perde l'occasione per attaccare e condannare chi "non lascia entrare" gli stranieri o "li lascia affogare" in mare o "li manda via sapendo che tanti di loro cadranno nelle mani di questi trafficanti che venderanno le donne e i bambini, uccideranno o tortureranno per fare schiavi gli uomini". Per papa Francesco l'Europa sta diventando come "un bastone contro i migranti". E se la prende con gli elettori, per la maggior parte cristiani cattolici, mentre loda la "gente di buona volontà" che a suo dire è "un po' presa dalla paura" a causa della "predica usuale dei populismi". "Si semina paura e poi si prendono delle decisioni - continua Bergoglio nell'intervista al Corriere della Sera - la paura è l'inizio delle dittature. Dopo la caduta della Repubblica di Weimar, con promesse e paure è andato avanti Adolf Hitler e conosciamo il risultato. Impariamo dalla storia, questo non è nuovo". Quindi, sostenendo che "l'Europa è stata fatta da migrazioni" e che questa "è la sua ricchezza", invita i fedeli ad aprirsi a quelle "persone che migrano per la guerra o per la fame". "Ma se l'Europa, così generosa, vende le armi allo Yemen per ammazzare dei bambini, come fa l'Europa a essere coerente?". In conclusione papa Francesco torna a chiedere maggior dialogo. Solo così, a suo dire, ci sarà "laboratorio umano". "Se è umano è con la mente, il cuore e le mani - conclude - e così si firmano dei patti".

I vescovi a gamba tesa: "Votate solo chi dice sì all'accoglienza". Il presidente dei vescovi abruzzesi e molisani stila un decalogo morale per scegliere chi votare: "Sì all'accoglienza e al rispetto dei diritti di tutti", scrive Chiara Sarra, Martedì 22/01/2019, su Il Giornale.  Il primo test elettorale del governo gialloverde è alle porte e anche stavolta la Chiesa entra a gamba tesa sul voto. In vista delle Regionali in Abruzzo, infatti, l'arcivescovo di Chieti-Vasto - nonché presidente della Conferenza episcopale Abruzzo Molise (Ceam) -, Bruno Forte, stila un "decalogo morale" per scegliere chi votare. "Tutti gli elettori esercitino il loro diritto al voto", spiega Forte nella sua lettera-appello in cui chiede di dare il proprio voto a chi dice "sì all'accoglienza", dà "attenzione a giovani, povertà, ricostruzione" e dice "no ai tagli indiscriminati alla sanità". "I sì riguardano anzitutto il rispetto della dignità di ogni persona umana, quale che sia il colore della sua pelle, la sua storia, la sua provenienza", sostiene l'arcivescovo come riporta il Messaggero, "Da un tale rispetto conseguono i doveri di solidarietà verso i più deboli e di accoglienza verso chi bussa alle nostre porte, fuggendo spesso da fame o violenza alla ricerca di un futuro migliore per sé e i propri cari. In collaborazione con l'azione della Prefettura varie nostre realtà ecclesiali hanno ben operato in tal senso e continueranno a farlo secondo il bisogno". C'è poi il tema della lotta alle povertà, quello "del fondamentale problema del lavoro dei giovani, fra cui si diffonde la paura del futuro data l'insicurezza delle possibilità che si aprono per loro" e quello "della situazione di emergenza del post-terremoto, che esige una sollecitudine da incentivare con determinazione". Non manda un richiamo speciale alla sanità e all'ambiente: "Pur convenendo sull'urgenza e l'opportunità del riassetto della rete ospedaliera, non si può non segnalare la necessità di tener conto dei bisogni della gente sul territorio, perché essi appaiono a volte sottovalutati a favore di una logica aziendale, che non si addice ai doveri di un servizio pubblico", dice Forte, "La tutela e la promozione di quello che è l'autentico patrimonio collettivo della nostra gente di Abruzzo è dovere primario di ogni amministratore. Un pericolo crescente cui badare con attenzione è quello dell'emergenza rifiuti, che esige soluzioni su vasta scala e lungimiranti, mentre l'urgenza dell'intervento sulla distribuzione e la certificazione della qualità dell'acqua è improcrastinabile".

Migranti, il vescovo di Milano: "Occorre contaminarci". L'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, difende i flussi migratori: "Fenomeno epocale". E avverte: "Cambiamenti inediti", scrive Luca Romano, Venerdì 01/02/2019, su Il Giornale. La parola chiave è "contaminazione". Per l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, il fenomeno migratorio va accolto e "appreso". Una "sfida" di fronte ad un "fenomeno epocale" in cui "siamo immersi" e da cui "non è più possibile prescindere". Durante la celebrazione eucaristica vigiliare della festività della Presentazione del Signore al Tempio, nel Duomo di Milano, il vescovo meneghino torna a parlare di migranti. E lo fa nei giorni in cui l'attenzione politica e mediatica è tutta concentrata su quanto sta succedendo tra Siracusa e Catania con la nave di Sea Watch.

Secondo Delpini i flussi migratori, l'incremento della popolazione di origine straniera e gli immigrati di 'seconda generazione', sono "tutti elementi che interrogano e sfidano tanto la Chiesa quanto la società". Un fenomeno destinato "per sua natura a segnare le nostre relazioni e il rapporto tra le culture e i popoli, introducendo cambiamenti inediti dai quali non è più possibile prescindere". E visto che dai flussi migratori non si può prescindere, per l'arcivescovo meneghino "occorre apprendere ad abitarli, a rigenerarci e a creare nuovi soggetti attraverso l'incontro e la contaminazione con nuove esperienze visioni del mondo (fenomeno che abbiamo designato con il termine di meticciato di civiltà e di culture)". Non è la prima volta che i vescovi si schierano a favore dell'accoglienza. Anzi: con il ministro dell'Interno Salvini è in corso un braccio di ferro non indifferente sul tema dell'accoglienza. Ecco perché, alla luce della posizione della Cei sui flussi migratori, le parole di Delpini non sorprendono. Ma sono un nuovo capitolo dello scontro tra la Chiesa e l'attuale governo.

I turisti di Allah. Cosa chiedono per portare i soldi in Italia. Il mercato è in espansione e i tour operator si attrezzano per fornire servizi islamicamente corretti, scrive Stefano Filippi, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Vacanze islamiche. La lussuosissima Villa Tangery di Amalfi, dove 4 notti a metà gennaio costano quasi 7.000 euro, è in grado di riservare sia la piscina coperta sia quella scoperta alla famiglia musulmana che richieda privacy assoluta. Villa Royal Citrus a Mazara del Vallo, sul mare di Sicilia, garantisce riservatezza alle donne velate e alla loro famiglia. Villa Valgarda di Toscolano Maderno, con splendida vista sulla sponda bresciana del lago di Garda, offre un menu con opzioni islamicamente corrette, oltre a hammam, sauna, jacuzzi e una piscina a sfioro. All'hotel Becher di Venezia, suggestivo 3 stelle a due passi da piazza San Marco, sono pronti a rimuovere l'alcol dal frigobar se si prenota attraverso il portale Halalbooking.com. Se invece il turista musulmano vuole un albergo dove tutto il cibo servito è halal e l'alcol è messo completamente al bando, deve ripiegare sulla terraferma, all'albergo Kappa di Carpenedo, frazione di Mestre: peccato che la graziosa balconata al primo piano dove viene servita la prima colazione si affacci non su un minareto ma sulla parrocchiale munita di uno svettante campanile che ricorda vagamente quello di San Marco.

LE REGOLE. Il turismo islamico è un mercato in rapida espansione. Secondo il rapporto Global Muslim Travel Index 2018, nel 2017 sono stati 131 milioni i musulmani che hanno viaggiato per il mondo: erano stati 121 milioni l'anno prima e si stima che saliranno a 156 milioni nel 2020. Una quota pari al 10 per cento del turismo mondiale. Sono tanti, sono in crescita e sono danarosi: il medesimo rapporto calcola che i sauditi in viaggio spendano oltre 10mila euro l'anno a testa. E quando un arabo benestante porta con sé famiglia e servitù, ogni nucleo può valere fino a 100mila euro. C'è pure la versione islamica di Airbnb, chiamata Muzbnb, una rete di case date in affitto da musulmani. Fiorisce pure il mercato di applicazioni per smartphone in grado di indicare moschee, ristoranti e negozi halal, direzione e orari della preghiera, versetti coranici. Il fatto è che il vacanziero islamico osservante richiede una serie di attenzioni che fanno la differenza. Il vademecum del turismo secondo Maometto prevede precise regole di accoglienza. La stanza d'albergo va attrezzata con il tappetino per la preghiera rituale e un indicatore che individui la qibla, ossia la direzione della Mecca, mentre in frigobar non dev'esserci traccia di alcol. I pasti devono essere halal, cioè cucinati con gli ingredienti e secondo i metodi di preparazione indicati dalla sharia. Nel mese di ramadan la prima colazione va servita prima dell'alba. Agli ospiti islamici più esigenti va poi garantito un alto grado di riservatezza, che può comprendere sale da pranzo esclusive o saloni adibiti alla preghiera comune, fino a piscine, spiagge o centri benessere separati per uomini e donne. Anche le compagnie aeree dovrebbero prevedere varianti halal nei menù serviti a bordo. Se presenta queste caratteristiche, l'hotel o il resort può essere considerato halal, altrimenti è semplicemente «muslim friendly», cioè amico dei musulmani. La certificazione è concessa da enti che attestano l'«islamicità» anche di cosmetici, farmaci, prodotti finanziari, assicurazioni, come Halal Italy, Halal Italia (legato al Coreis), Halal Italy development, World Halal Authority. Le grandi mete turistiche nel mondo si stanno attrezzando. La gran parte delle destinazioni vacanziere per musulmani si trova ancora in Paesi islamici, dove un fedele di Allah può trovare tutto quello che il Corano gli impone. Le più gettonate sono la Turchia, la Malaysia, gli Emirati Arabi, il Bahrain e naturalmente l'Arabia Saudita, di gran lunga il primo approdo anche perché accoglie i viaggiatori che si recano in pellegrinaggio alla Mecca. I Paesi «laici» più frequentati dai musulmani sono Russia, Spagna e Francia. L'Italia è sesta, dietro anche a Thailandia e Singapore.

VARIAZIONI DI MENU. Il boccone è grosso e appetitoso. Così, mentre Juventus e Milan si disputano la Supercoppa di calcio in Arabia Saudita, in Italia cominciano a vedersi alberghi e ristoranti che stendono tappeti rossi ai ricchi viaggiatori mediorientali. I numeri in realtà sono ancora risicati. Il portale Halalbooking.com offre soltanto 48 proprietà di lusso a misura di imam in Italia su quasi 1.200 nel resto del mondo. Il sito Halalando.com elenca 31 hotel, nessuno dei quali a sud di Roma. «Basterebbero pochi accorgimenti per richiamare molti più turisti islamici», dice Cristian Karim Benvenuto, leccese convertito, che ha lanciato pochi mesi fa un notiziario online, Dailymuslim.it e il portale Italymuslimfriendly.it in collaborazione con un tour operator che lavora con mediorientali e cinesi. Secondo Benvenuto, gli islamici non aspettano altro che l'Italia crei le condizioni per ospitarli: «Ci considerano un Paese sicuro a differenza per esempio della Francia garantisce. E poi amano la gastronomia, il clima e le bellezze artistiche. Certo non spenderanno facendo il giro delle cantine e non mangeranno salumi, ma per moltissimi altri piatti sono sufficienti minime varianti. I musulmani non vengono da noi per mangiare kebab o cuscus, ma la nostra cucina. E come esistono menù per celiaci, vegetariani e kosher, possono benissimo aggiungersi quelli certificati halal a chilometro zero. Questi turisti viaggiano tutto l'anno, cercano i climi temperati e appartengono a ceti benestanti che sono in rapida crescita in Medioriente e così pure in Paesi asiatici come Pakistan, India, Malaysia, Azerbaigian, Indonesia. In Cina vivono 20 milioni di musulmani. E non dimentichiamo il turismo islamico interno, quello delle coppie miste e degli immigrati che risiedono, lavorano e guadagnano in Italia da anni». Al momento mancano non soltanto le strutture certificate, ma anche i voli diretti, il marketing, la possibilità diffusa di prenotare online, il personale specializzato che sappia le lingue e sia in grado di gestire le necessità dei turisti musulmani. Per ora i tour operator portano i musulmani a visitare Milano, Venezia, Firenze e Roma. Il Sud è quasi completamente assente, nonostante le reminiscenze arabe e saracene, anche se in Puglia si sta creando una rete di masserie e ristoranti halal. A Venezia c'è un accordo tra l'Associazione veneziana albergatori e Halal Italy, il maggiore ente certificatore operante in Italia, mentre strutture «muslim friendly» sono segnalate in Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio. Gli alberghi di lusso a Capri, Portofino, Costa Smeralda, Milano, prediletti da sceicchi e familiari, sono in grado di soddisfare facilmente le richieste di questa loro speciale clientela anche senza certificazioni di sorta. Più problematico realizzare spiagge halal. Ci avevano provato un paio d'anni fa a Riccione e in Sardegna: tratti di litorale per sole donne con servizi specifici. L'esperimento è finito nel nulla.

Migranti Sea Watch, l'appello del Papa: "Leader Ue mostrino solidarietà". Bergoglio all'Angelus rivolge un pensiero alle 49 persone a bordo di due navi di Ong: "Cercano un porto dove sbarcare", scrive Franco Grilli, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale". Anche Papa Francesco interviene sulla questione di Sea Eye e Sea Watch, le due navi Ong ormeggiate al largo di Malta con 49 migranti a bordo. E lo fa dal palazzo del Vaticano in occasione del consueto Angelus domenicale. "Da parecchi giorni quarantanove persone salvate nel Mare Mediterraneo sono a bordo di due navi di Ong, in cerca di un porto sicuro dove sbarcare - ha detto Bergoglio dopo la conclusione della preghiera dell'angelo - Rivolgo un accorato appello ai leader europei, perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di queste persone". Papa Francesco dunque si schiera apertamente dopo le posizioni prese dalla Chiesa italiana e da diversi porporati. Ieri, per fare un esempio, il vescovo di Malta mons. Charles Scicluna, in un gesto altamente simbolico, è salito a bordo della Lifeline, nave Ong ormeggiata al Grande Porto di La Valletta. "La vita umana non ha prezzo e le trattative non dovrebbero mai avvenire a spese delle persone che sono in difficoltà", ha detto il prelato. "L'Europa agisca senza ulteriore ritardo per salvare i nostri fratelli e sorelle" che sono ancora in mare. Secondo monsignor Scicluna, sebbene "il fenomeno dell'immigrazione richieda soluzioni a livello europeo", è "una grande ingiustizia che questi fratelli e sorelle siano diventati vittime dei negoziati tra i leader europei". L'intervento del Papa segue le polemiche politiche, non solo europee ma anche italiane, sulle sorti dei 49 migranti delle Ong. Di Maio ha aperto allo sbarco di donne e bimbi in Italia, ma Salvini si è opposto e il progetto europeo per la redistribuzione pare essersi incagliato.

Il Papa guida il fronte anti Lega sui migranti. Bergoglio però non cita Salvini, ma anzi allarga la questione coinvolgendo Bruxelles, scrive Massimiliano Scafi, Lunedì 07/01/2019, su "Il Giornale". Cercasi leader disperatamente. Se Mario Draghi resta solo un sogno proibito, se Sergio Mattarella, nei limiti imposti dal suo ruolo di arbitro, sta già facendo la sua parte bastonando il governo sulla manovra e sulla «compressione» del Parlamento, se i sindaci in rivolta non sembrano in grado di rovesciare il tavolo, se i cortei delle associazioni sono ininfluenti, ecco allora il personaggio che può infiammare l'opposizione: il Papa. «Da parecchi giorni quarantanove persone a bordo di Sea Watch e Sea Eye, le navi delle ong, sono in cerca di un porto sicuro dove sbarcare. Rivolgo un accorato appello ai leader europei perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di questi uomini e donne». E ancora: «Non permettiamo alle nostre paure di chiuderci il cuore, ma troviamo il coraggio di aprirci ai fratelli e alle sorelle che hanno bisogno di aiuto». Poche parole, un paio di frasi pronunciate dal balcone del Palazzo apostolico, durante l'Angelus del giorno dell'Epifania, ma bastano a Francesco per condannare la politica italiana sull'immigrazione. Bergoglio ovviamente non cita Salvini, anzi allarga la questione coinvolgendo Bruxelles, però non sarà facile per il ministro dell'Interno trascurare un appello così forte del Papa. Infatti il Vaticano, che in Italia conta ancora parecchio, ha deciso di schierarsi e negli ultimi giorni la Santa Sede si è mossa con tutte le sue forze. La Conferenza episcopale, la Fondazione Migrantes, Civiltà Cattolica, diversi vescovi e cardinali, adesso addirittura il Pontefice: il governo si muova, dice, i porti vanno aperti, quegli uomini vanno salvati. Se si aprirà uno spiraglio, il Vaticano darà una mano. «Voglio dichiarare la disponibilità della Chiesa torinese ad accogliere alcune famiglie, come già fatto a settembre per il caso della nave Diciotti - annuncia l'arcivescovo Cesare Nosiglia - . Un gesto che ha un significato simbolico e concreto, un segnale preciso alle autorità italiane». Le parole di Francesco piacciono a sinistra. «Non potevano esserci espressioni più efficaci - commenta la pd Raffaella Paita - per chiarire che i porti devono restare aperti e che Salvini usurpa i poteri di altri». E Nicola Fratoianni, Leu, «da non credente ringrazio il Papa». Ma soprattutto si inseriscono nel duro braccio di ferro in corso nella maggioranza tra Lega e Cinque stelle sulla gestione degli sbarchi. Fico e Di Battista vorrebbero far scendere donne e bambini, Di Maio chiede una decisione collegiale del governo e il premier Conte lavora a una mediazione. Salvini però non vuole mollare. «Quanti ne accoglieremo? - scrive su Facebook - Zero». Il vicepremier non intende rinunciare alla sua battaglia, quella più popolare, e pazienza se il Papa non è d'accordo e se il Vaticano si è mobilitato. L'assenza dell'Europa e la posizione di chiusura di Malta, che non vuole «creare un precedente» autorizzando l'attracco due navi e cerca di «mantenere un equilibrio tra assistenza e sicurezza», aiutano il ministro dell'Interno a tenere il punto. «Giusto che si discuta, ma in materia di migranti quello che decide sono io. Fate quello che volete, però per chi non rispetta le leggi, i porti italiani sono e rimarranno chiusi».

«Disobbedire è una virtù», diceva don Milani. La lettera di don Lorenzo Milani ai cappellani militari sul diritto all’obiezione di coscienza (Firenze, marzo 1965), scrive il 4 gennaio 2019 "Il Dubbio". L’11 febbraio 1965 un gruppo di cappellani militari toscani in congedo votò in assemblea un documento in cui si dichiarava, tra l’altro, di di considerare «un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta ‘ obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà».A quel documento, pubblicato sul quotidiano La Nazione, don Lorenzo Milani rispose con una lettera aperta che pubblichiamo qui sotto. Per questa lettera (che fu pubblicata dal settimanale del Pci, Rinascita) don Milani fu processato insieme al direttore di Rinascita Luca Pavolini. Nel ’67 don Milani morì. Nel ’ 68 Pavolini fu condannato a 5 mesi di prigione per oltraggio alle forze armate (poi beneficiò di una amnistia). Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

PRIMO. Perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

SECONDO. Perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi. Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né d’un vostro silenzio, né d’una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria. Io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona. Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione. Articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…». Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia. Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?

Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni ( scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta a volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza. Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l’anno) l’esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza. L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo. Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare. 1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della Patria. A 100 anni di distanza la storia si ripete: l’Europa è alle porte. La Costituzione è pronta a riceverla: «L’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie…». I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell’Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei. La guerra seguente, 1866, fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme. Furono aggressioni certo le guerre ( 1867 - 1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant’è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant’è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: «L’insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia». Nel 1898 il Re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L’avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata. Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo. Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione?

Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?

Idem per la guerra di Libia. Poi siamo al ‘14. L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata. Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti? Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l’espressione non è d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa canonizzato).

Era nel ‘22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l’Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa). Nel ‘ 36, Cinquantamila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l’infelice popolo spagnolo. Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni libertà civile e religiosa. Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l’obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo. Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l’appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato. Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?

Poi dal ‘39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data. L’uno rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri. L’altro il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri. Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d’ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente). Che c’entrava la Patria con tutto questo? E che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l’ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?

Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»?

È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i «ribelli»?

Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati. Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro. (…) Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene. Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita? Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il comandamento del Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell’amore» allora non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete! (…)

Vittorio Feltri il 6 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": immigrati, vincerà Salvini alla grande. Chiesa e Pd si suicidano. Matteo Salvini è assediato da tutti coloro, e non sono pochi, che fanno un tifo sfrenato per gli immigrati pronti ad attraccare nei nostri porti per poi insediarsi in Italia e farsi mantenere dallo Stato. Il ministro dell'Interno reagisce e insiste nel bloccare gli sbarchi. Ha ragione da vendere. E i connazionali sono in maggioranza dalla sua parte. Sono ostili all' invasione incontrollata degli stranieri, cosicché si apprestano in massa ad appoggiarlo incondizionatamente. Solo una minoranza di stolti è favorevole all' accoglienza priva di limiti, tra i quali c' è perfino Di Maio che all' ultimo momento si è convertito al buonismo. Per non parlare del cardinale Bagnasco, il quale si è accodato pedestremente ai sindaci Orlando e De Magistris nel predicare la necessità di aprire le porte ai migranti per ragioni umanitarie e in omaggio al verbo Cristiano, secondo cui il prossimo va ospitato comunque, sebbene sgradito. Queste anime pie si sono lanciate in una campagna tesa a prendersi carico degli sfigati africani, senza tuttavia tirare fuori un centesimo di tasca loro, bensì addossando ogni spesa sul nostro gobbone. Essere generosi attingendo al portafogli del popolo è molto facile. Siamo capaci tutti di abbracciare gli extracomunitari affidandone gli oneri alla pubblica amministrazione, finanziata notoriamente dai nostri quattrini. Va da sé che una moltitudine di compatrioti non ne può più dell'andazzo e simpatizza per Salvini che, invece, si batte con forza per porre fine allo scempio. In effetti il Pd e la Chiesa, a causa delle posizioni tolleranti assunte in materia di immigrati, stanno dimagrendo in modo vistoso: gli ex comunisti perdono voti a vista d' occhio e le parrocchie hanno più candele che fedeli. Si stanno riducendo a club di reduci senza futuro. In compenso la loro politica piagnona ingrassa la Lega che interpreta alla perfezione i sentimenti dei cittadini, conoscendone le difficoltà esistenziali. Bagnasco, poverino, è un uomo di sacrestia e ignora il dramma delle periferie invase dai neri che delinquono per sopravvivere, mettendo a repentaglio la sicurezza dei locali. E i democratici e affini si illudono di recuperare suffragi spalancando i confini a qualsiasi disperato che intenda illegittimamente stabilirsi nella penisola. Ciascuno è libero di pensarla come crede, non è questo il punto. Però si renda almeno conto di un pericolo: chi disprezza la volontà degli elettori non sarà eletto. Vincerà Salvini alla grande. E noi saremo con lui. Vittorio Feltri

Antonio Socci il 6 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": Papa Francesco, i migranti e Satana Salvini, così la Chiesa si sta auto-distruggendo. Ma che sta succedendo nella Chiesa cattolica? La situazione non è solo catastrofica: è anche assurda. Infatti la realtà parla di chiese che si svuotano drammaticamente in Occidente e di un Oriente dove i cristiani sono duramente perseguitati. La realtà parla di sparizione dei tradizionali movimenti cattolici, di scontri interni alla Curia, di continui scandali e di enorme confusione fra i fedeli per le trovate rivoluzionarie di papa Bergoglio (che nei giorni scorsi ha pure "dimenticato" il dogma dell'Immacolata Concezione).

Ma di tutto questo gli ecclesiastici non si occupano e non si preoccupano. Ai pastori non interessano le pecore che si stanno smarrendo e disperdendo. La casta ecclesiastica è tutta presa dalla politica. È una vera febbre. Già questo è surreale, ma non basta. Infatti non vogliono portare nella politica la «dottrina sociale» della Chiesa o i «principi non negoziabili», come si potrebbe credere. Seguendo il verbo bergogliano hanno un solo tema teologico-politico da affermare con piglio fondamentalista: i migranti. Dunque i migranti ormai sono diventati la loro bandiera ideologica da sventolare, ma anche, addirittura, una sorta di soggetto messianico con cui ribaltare l'annuncio cristiano, perfino nel presepio: come se gli angeli avessero annunciato ai pastori l'arrivo del «migrante Gesù», anziché la nascita del Figlio di Dio. Secondo il sentire comune della gente, gli ecclesiastici ormai si occupano solo di migranti, solo di loro parlano. E in effetti le gerarchie clericali si tuffano in politica con il preciso intento fare la guerra a Salvini: è lui il Satana a cui gridare «Vade retro!», come proclamò la nota copertina di Famiglia cristiana. Proprio lui, che pure ha pubblicamente dichiarato di voler difendere le nostre radici cristiane, è il Male contro cui il mondo clericale si mobilita e si scatena.

La «chiamata» - Ieri Salvini, dall' Abruzzo, ha risposto: «Sono un peccatore, ma non fesso. Quest' anno invece che 120 mila, ne sono arrivati solo 20 mila: 100 mila in meno, con un miliardo di risparmio, molti morti in meno e molti reati in meno». Significa che il vicepremier non demorde e non vuole che l'Italia torni ad essere il campo profughi d' Europa e d' Africa. La maggioranza degli italiani e dei cattolici la pensa come lui. Proprio per questo ormai è continua la "chiamata" all'impegno politico contro Salvini, da parte dell'establishment bergogliano. Rispondono "presente" i giornali clericali, la Cei e - sia pure flebilmente - le associazioni cattoliche (o quello che ne è rimasto). Ieri perfino l'ex presidente della Cei (oggi presidente dei vescovi europei), il cardinal Bagnasco, arcivescovo di Genova, che finora era considerato uno dei pochi rimasti in linea con il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, si è schierato e si è guadagnato il titolo con cui La Stampa ha aperto la prima pagina: «"Obiezione di coscienza". La mossa della Chiesa contro il decreto sicurezza». Il riferimento era proprio all' arcivescovo di Genova: «La carica la suona il cardinale Bagnasco» che - secondo il giornale torinese - «schiera la Chiesa sul decreto sicurezza: "Sì all' obiezione di coscienza"». La Ue non si critica - Sul caso "migranti della Sea Watch" è intervenuto pure mons. Guerino Di Tora, presidente della commissione per le migrazioni della Cei, che ha tuonato: «Chi si tira indietro non ha la coscienza a posto». Anche l'arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, tuona invitando a non «rimanere in silenzio dinnanzi ai disumani decreti che aggravano la sofferenza di chi è vessato da povertà e guerra». Non risulta si siano viste le stesse mobilitazioni, né così aspre denunce della chiesa bergogliana, negli ultimi sei anni in cui, grazie all' euro, alle politiche della Ue e ai governi italiani allineati ad essa, da noi sono esplose la povertà e la disoccupazione (con migliaia e migliaia di aziende chiuse). Né si ricordano mobilitazioni papali e parole di fuoco in favore delle popolazioni terremotate e dei loro inverni al freddo. Sono solo due esempi (si potrebbero aggiungere la legge sulle unioni civili e altre trovate dei precedenti governi che avrebbero dovuto far reagire la Chiesa). Nelle (tante) invettive politiche ecclesiastiche non si trova mai la critica all' Unione Europea, anzi: proprio la Ue (da non confondere con l'Europa che è tutt' altra cosa) sembra sia diventata l'ancora di salvezza politica di questa gerarchia clericale. Proprio questa Unione Europea che è diventata la realtà politica più laicista e anticristiana dell'Occidente. I clericali ne parlano con gli stessi argomenti entusiasti di Emma Bonino. Quello che però sconcerta la casta ecclesiastica è il fatto che il popolo cattolico non li segua. Anzi, sembra fare la scelta opposta, dando la sua preferenza maggioritaria alla Lega e ad altri gruppi sovranisti. I cattolici, sia quelli più praticanti, che quelli meno praticanti, preferiscono rifarsi a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, cioè al tradizionale insegnamento cattolico, piuttosto che alle "rivoluzioni" bergogliane. Perciò il disappunto nell' élite clericale è palpabile. Sono generali senza esercito. Lo si percepisce in queste parole di padre Antonio Spadaro, che è lo stratega di papa Bergoglio: «Non basta più formare i giardini delle élite e discutere al caldo dei "caminetti" degli illuminati. Non bastano più le accolte di anime belle Facciamo discorsi ragionevoli e illuminati, ma la gente è altrove». In effetti la gente è altrove, i cattolici dissentono dalla gerarchia bergogliana, applaudendo Salvini. Anche se papa Bergoglio li bastona proclamando che è meglio essere atei che essere cattolici che rifiutano l'invasione migratoria (oltretutto islamica, dunque assai poco integrabile), una lista politica? I fedeli cattolici (con tutti gli altri) percepiscono, sulla propria pelle, che questo scombussolamento di popoli che entusiasma le élite (anche delle Nazioni Unite), è devastante sia per i Paesi di arrivo che per i Paesi di partenza (la pensano così anche i vescovi africani). Dunque padre Spadaro vorrebbe riportare "in linea" la gente che è altrove. Così nei giorni scorsi ha preso la parola per vergare una sorta di Manifesto politico, pubblicandolo sulla rivista dei gesuiti. Se il Decalogo dato da Dio a Mosè sul Sinai è chiamato «le dieci parole», padre Spadaro ha voluto far di meglio: a lui bastano «Sette parole per il 2019» per illuminare le genti (così spera). Purtroppo però sono parole già sentite e risentite, da anni, in qualunque intervento di esponenti del Pd e nei quotidiani articoli di Repubblica: la paura, le migrazioni, l'Europa, il populismo, la democrazia La sensazione è che tutto questo tuonare poi non porti alla formazione di una lista cattolica alle elezioni europee, perché contarsi sarebbe molto controproducente. I più ritengono che tutto si risolverà in un appoggio ecclesiastico al Partito democratico, ancor meglio se guidato da Zingaretti, perché - si dice oltretevere - gli ecclesiastici dell'epoca bergogliana si trovano meglio con i post comunisti che con Renzi. Antonio Socci

Clandestini. PERCHÉ NO «Caro Papa, prima mettiamo gli italiani». Marco Zacchera il 27 Aprile 2019 su Il Dubbio. Chi sono io per giudicare? Io, un cristiano pieno di dubbi, di incertezze, di incongruenze, non ho alcun titolo per giudicare un Papa, però a Papa Francesco vorrei comunque scrivere, senza polemica alcuna, pronto a riconoscere i suoi tanti meriti in ogni campo a cominciare dal volere un necessario rinnovamento nella Chiesa denunciando le sue tante mancanze morali e svolgendo un compito pieno di difficoltà. Credo che molti cristiani come me si interroghino sul perché di una nostra società sempre più lontana dalla religione – soprattutto quella cristiana e cattolica – nelle sue forme esteriori ma al tempo stesso anche di quanto spesso sembri sempre più lontana la nostra stessa Chiesa dalle realtà quotidiane pur cercando di correre dietro ( fin troppo) al “politicamente corretto”. L’importante figura del Papa non l’ho mai intesa come qualcuno che ordini: piuttosto come quella di un pastore che faccia riflettere, che sia da esempio e che da “padre” parli ai tanti suoi figli dispersi nel mondo. Per questo sono sconcertato da alcuni aspetti che mi sembrano diventati il cardine di un messaggio cristiano e che invece sono solo un aspetto di una realtà che però ha anche altre priorità. Alludo alle problematiche dei cristiani che soffrono e a quella dei “migranti” che sembrano diventati l’essenza di questo pontificato. Parliamoci chiaro: il cristianesimo è innanzitutto amore verso il prossimo e quindi anche accoglienza dello straniero, un dovere da compiere e su questo non si può transigere. Ma – proprio per poter aiutare in modo concreto ed utile servono regole, organizzazione, priorità, chiarezze o alla fine si creano situazioni insostenibili. E qui si apre una dei due aspetti principali dei miei dubbi. Per esempio il fatto che vengano considerati “prima” i migranti, ma non tanto rispetto agli italiani quanto ai loro stessi fratelli che restano a soffrire a casa loro: dimenticati, poveri ed oppressi. Ho scritto un libro su questo: non si può affrontare ogni giorno e in ogni omelia il problema creato dall’ultimo anello della catena ( i migranti sui barconi) senza affrontare mai quello iniziale ovvero i governi corrotti, violenti, incapaci, discriminatori, razzisti che creano le condizioni della schiavitù e quindi dell’esodo. Se la Chiesa vuole essere autorevole perché non impone attenzione al mondo prima di tutto sulla radice del problema? Perché – come ha sostenuto Papa Francesco nella Via Crucis del venerdì santo – se si entra nel merito e nel dettaglio di chi “chiude le frontiere per interessi politici” ( e quindi entrando di fatto nelle questioni politiche italiane) non si denuncia allora con esempi concreti anche chi distrugge il mondo, assoggetta continenti, sfrutta le risorse dei popoli e li spinge ad emigrare? Mi riferisco alla Cina – ad esempio – verso la quale sembra esserci una acquiescenza ed estrema tolleranza globale, ma anche i tanti governi verso i quali c’è troppo silenzio e complicità. Il secondo aspetto è che la Chiesa non è e non deve essere solo “assistenza sociale” ma prima di tutto una comunità di credenti e quindi – nella fraternità e nell’accoglienza, senza discriminazioni – avrebbe però anche il dovere di denunciare i soprusi, le atrocità, le ingiustizie che nel mondo soffrono i componenti della nostra stessa comunità cristiana perché il senso di appartenenza è il collante di ogni comunità, la forza interiore che spinge al sacrificio, all’aiuto, alla solidarietà. In questo senso mi sembra che la Chiesa cattolica abbia in questi ultimi anni spesso abdicato al suo ruolo, quasi paurosa di denunciare chiaramente le responsabilità degli estremisti di altre religioni, a cominciare da quella islamica. Penso alla Chiesa che soffre in tantissimi paesi del mondo, alle sofferenze dimenticate di troppi nostri fratelli in Cristo, alle persecuzioni politiche, religiose e sociali. In questo credo che il Papa dovrebbe essere più incisivo, autorevole, deciso. Questa Pasqua è stata contrassegnata dai morti cristiani in Sri Lanka, ma avvenne lo stesso l’anno scorso con i copti in Egitto e le tremende esplosioni in Pakistan – sempre a Pasqua – tre anni fa. Sono i martiri cristiani di oggi ( quasi sempre vittime di estremisti islamici, ma sembra non sia di moda dirlo) per i quali nella Via Crucis mi aspettavo almeno un ricordo perché sono tantissimi, troppi. Mi sembra che negli ultimi decenni si sia perso progressivamente il senso missionario, la carica emotiva della volontà di spiegare ad altri fratelli il senso del Vangelo. Una Chiesa che perde queste caratteristiche non cresce, si chiude in sé stessa, non ha carica vitale ed è con tanta tristezza che vedo le nostre chiese semivuote, abbandonate senza più sacerdoti giovani, relegata ai margini della società.

Clandestini. PERCHÉ SÌ «Bravo Papa, da soli non ci si salva». Sergio Valzania il 27 Aprile 2019 su Il Dubbio. Mi imbarazza sempre leggere di come vanno male le cose, di quanto sono distratti i cristiani, del disinteresse per i correligionari che soffrono persecuzioni che neppure immaginiamo e delle quali niente viene detto, del com’era bello il passato. Non c’è un passato buono, siamo sempre noi. Quelli di prima. Ci siamo così abituati alla pace, dono forse immeritato e conquistato anche per stanchezza, esaurimento fisiologico, eccesso di grassi e zuccheri nel sangue, da alzare il ditino davanti al viso emaciato di altri popoli per spiegare loro come si fa a vivere. Addirittura ci spingiamo a rifiutare uno dei principi cardine del cristianesimo, la corresponsabilità di fronte a tutto quello che succede è successo e succederà all’umanità, della quale siamo parte. Non ci si salva da soli. Neppure impartendo lezioni. Neanche alla Cina, che l’Occidente ha saccheggiato per anni, ha tentato di invadere in ogni modo, ha offeso e umiliato, ha consegnato in larga parte nelle mani del peggiore dei Giapponi possibili, quello che si era convinto di dover imitare alla perfezione le grandi potenze. Anche nell’imperialismo coloniale. Il razzismo è nella nostra storia, l’abbiamo inventato noi. Gli antichi non lo conoscevano, trovavano le differenze del colore della pelle significative quanto quelle dei capelli. Ne abbiamo fatto una piaga mondiale. È un sapere diffuso che le cose del mondo vadano male anche per colpa di politici corrotti, di speculatori senza scrupoli, di governanti incapaci e di persone disposte a tutto pur di ricavare un meschino guadagno. Se si scende nel dettaglio però tutti accusano tutti, e con una buona parte di ragione. Il peccato originale è anche questo, la responsabilità per il dolore del fratello, l’incapacità a fare fino in fondo quello che ci sembra giusto. La fuga da quello che si può fare in nome di quello che si dovrebbe fare ma risulta troppo difficile, lontano, incerto. Fa bene Papa Francesco a parlarci dei migranti, come ha fatto bene a recarsi a Lampedusa nel primo viaggio apostolico, quando ha detto Messa su di un altare fatto con il fasciame ammassato a sghimbescio delle barche di migranti distrutte dalla traversata. Siete cristiani? Chiede il Papa. Allora dimostratelo aiutando questi fratelli che per vostra comodità sono venuti davanti alle vostre case attraversando mille pericoli e violenze e umiliazioni, così da non costringervi ad andare voi fin da loro a soccorrerli. Persone che fino a ieri ospitavamo e che oggi respingiamo in mano alla criminalità organizzata, nei casi fortunati. Una scelta totalmente incongrua anche ai fini della “sicurezza” da garantire. Sappiamo bene che in Italia l’accoglienza è affidata al Ministero degli Interni, cioè alla Polizia, perché vogliamo credere che l’immigrazione sia un problema di ordine pubblico, anziché affidarla ai Sindaci, come sarebbe opportuno dato che si tratta di una questione di prossimità, di aiuto del vicino, non di controllo e repressione. Semmai quello che andrebbe represso è lo sfruttamento degli immigrati. Per non dire dello ius soli, o ius culturae che fa lo stesso, tanto nessuno lo vuole. Così succede che qualcuno – per un cristiano un fratello nato in mezzo a noi, ma da genitori con la colpa di avere un passaporto con la copertina di colore diverso dal nostro, che parla la nostra lingua e nessun’altra, che ha studiato come ogni italiano, non ha diritto la cittadinanza. Qui non si tratta di chiedere l’impossibile, ma di fare il possibile. Tutto e fino in fondo. E giustamente Papa Francesco non si stanca di ricordarcelo. Certo, lo sa bene anche lui che ci sono altri problemi, viene dall’Argentina, che si trova in Sud America, il continente delle favelas, che a Buenos Aires si chiamano villas miseria. Si può discutere a lungo su chi sia il colpevole della loro esistenza, dello scandalo della prossimità fra grandi ricchezze e infinite povertà. Nel 2012 erano 850 milioni gli uomini, le donne, i vecchi e i bambini che vivevano ai margini delle città in condizioni di degrado igienico, sanitario, culturale, di lesione grave dei diritti elementari. È giusto occuparsi di loro, forse è giusto persino rimproverare alla Cina di approfittare dell’incapacità degli occidentali nell’offrire una prospettiva di riscatto all’Africa per annettersi politicamente regioni delle quali finanzia lo sviluppo. Avremmo una credibilità molto maggiore e saremmo più sicuri nell’agire se a casa nostra i comportassimo come pretendiamo ci si comporti nei più remoti angoli del mondo. Come capita spesso il messaggio cristiano non chiede l’impossibile. È invece rispettoso della natura umana e ci invita a curarci di noi mentre ci occupiamo di quelli che non possiamo esimerci dal riconoscere nostri fratelli.

Vaticano, Papa Francesco nega il problema Islam: svuota i campi di migranti in Africa e li porta in Italia, scrive Fausto Carioti il 29 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Per Francesco e la sua corte il pericolo islamico continua a non esistere. Nei giorni scorsi hanno finto di non vedere che le stragi di cristiani compiute in Sri Lanka sono state opera di terroristi musulmani. Padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti e primo consigliere politico del pontefice, è giunto a definire quell' eccidio un «attacco allo Stato», anziché alla cristianità, in modo da derubricare la persecuzione religiosa a conflitto politico locale. Come se l' Isis non avesse rivendicato quegli attentati e nel Corano non fossero prescritti, a proposito di noialtri infedeli, trattamenti tipo «prendeteli, fateli morire ammazzati ovunque si trovino» e altre cortesie del genere. Adesso, in Vaticano, si ostinano a ignorare il rischio dei terroristi e dei foreign fighters nascosti in mezzo alle decine, forse centinaia di migliaia di persone pronte a partire dalle coste libiche verso l' Italia. La proposta di Jorge Mario Bergoglio è semplice e l' ha illustrata ieri: portare qui tutti i profughi, subito, iniziando da coloro che si trovano nei campi gestiti dal governo di Fayez al Serraj, dove secondo le agenzie delle Nazioni Unite sono rinchiuse 5.700 persone. Ai fedeli in piazza San Pietro, il papa ha detto: «Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per i profughi che si trovano nei centri di detenzione in Libia, la cui situazione, già molto grave, è resa ancora più pericolosa dal conflitto in corso». Quindi ha lanciato l' appello «perché specialmente le donne, i bambini e i malati possano essere al più presto evacuati attraverso corridoi umanitari». E vista la cartina geografica e l' atteggiamento della comunità internazionale - a partire dai Paesi arabi, impegnati ad alimentare la guerra tra il generale Khalifa Haftar e Serraj - ci sono pochi dubbi su dove terminerebbero quei «corridoi»: nei nostri porti. A incrementare i numeri che hanno fatto dell' Italia, nel 2018, il secondo Paese europeo, dopo la Germania, per la concessione di protezione internazionale ai profughi.

Miliziani - Il dubbio non riguarda la presenza di terroristi tra chi vuole arrivare qui: il fatto che ce ne siano è confermato da tutte le fonti. Come è certo che miliziani dell' Isis si trovino oggi a piede libero in Libia, impegnati a compiere attentati. Serraj, nei giorni scorsi, ha detto che «ci sono oltre 800mila persone, migranti africani e cittadini libici, gente arrivata di recente nei centri di accoglienza o semplicemente persone spaventate, che potrebbero cercare di raggiungere le coste italiane. E con loro possono esserci elementi criminali, oltre a unità di jihadisti pronte a colpire». Secondo il suo vicepremier, Ahmed Maitig, «circa quattrocento prigionieri dell' Isis detenuti tra Tripoli e Misurata» potrebbero fuggire verso le coste europee approfittando del caos. Parlano di «centinaia di terroristi islamici pronti ad arrivare in Italia» gli uomini del Viminale, i quali ricordano che proprio l' emergenza antiterrorismo ha spinto la Francia a chiedere di prorogare per sei mesi la chiusura delle frontiere.

Prudenza - Ce n' è quanto basta per mettere paura e consigliare prudenza anche a chi ha cuore la sorte dei profughi. Fosse pure il papa, perché le chiese sono tra i bersagli preferiti dei mujaheddin e si è visto che quelle europee non fanno eccezione. Il modo per salvare vite senza metterne a rischio altre e dare accoglienza a chi la merita c' è, ma prevede l' impegno dei Paesi musulmani e di organizzazioni come quella per la cooperazione islamica, che ha sede a Gedda, in Arabia Saudita, e raggruppa 57 Stati. Alcuni dei quali, come la stessa monarchia di Riad, hanno scommesso sul disordine libico, appoggiando Haftar, e sono stati premiati con il rialzo del prezzo del petrolio, che dall' inizio dell' anno è cresciuto del 55%. Un intervento umanitario organizzato da loro dovrebbe essere il primo obiettivo di Francesco, tramite quel dialogo interreligioso al quale tiene tanto, e della comunità di Sant' Egidio, grazie alle proprie relazioni diplomatiche. Vaticano e organizzazioni terzomondiste sono invece in prima fila tra chi vuole far credere che l' unica soluzione possibile passi per l' Europa, anzi per l' Italia. Così rafforzano il ricatto dei regimi islamici, che anziché accogliere i loro correligionari nell' ora del bisogno trovano più conveniente spedirli da noi, per la maggior gloria di Allah. Fausto Carioti

Sarah: «Chi è contro il Papa è fuori dalla Chiesa». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Alle pareti del salottino, nei suoi uffici del Dicastero vaticano, si vedono la foto di Francesco e i ritratti di Pio XI e Pio XII. «Nel mio libro parlo di “ateismo liquido”: si infiltra in tutto, anche nei discorsi ecclesiastici». Il cardinale Robert Sarah, 74 anni, africano della Guinea, parla piano, l’aria ieratica. «Sant’Ireneo ha detto che Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse diventare Dio», sorride. Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, il cardinale ha appena pubblicato in Italia il libro «Si fa sera e il giorno ormai volge al declino» (Edizioni Cantagalli, pp. 400, euro 24,90), un colloquio con il saggista Nicolas Diat che dalla Francia agli Usa ha creato nei mesi scorsi un grande dibattito soprattutto nella fronda a Bergoglio. Punto di riferimento dei conservatori dentro e fuori la Curia, nominato arcivescovo a soli 34 anni da Giovanni Paolo II e assai vicino a Benedetto XVI, Sarah La copertina del librha idee molto chiare e nette ma pone limiti altrettanto precisi, con buona pace della «galassia» ultraconservatrice in odore di scisma: «Chi è contro il Papa è ipso facto fuori dalla Chiesa. La Provvidenza ci vede benissimo, sa?». Nel rispondere alla domande del Corriere, parla di «apostasia silenziosa» e di «notte oscura» nella Chiesa, di «sacerdoti, vescovi e persino cardinali infedeli che mancano di portare la verità di Cristo», dice che la Chiesa dovrebbe parlare anzitutto di Dio e non dei migranti perché non è una Ong e «una Chiesa così non interessa a nessuno» e dispiega gli argomenti degli oppositori al Sinodo sull’Amazzonia appena iniziato: «Temo che alcuni occidentali stiano confiscando questa assemblea per far avanzare i loro piani. Penso in particolare all’ordinazione degli uomini sposati, alla creazione di ministeri femminili o alla giurisdizione dei laici. Questi punti toccano la struttura della Chiesa universale. Approfittare per introdurre piani ideologici sarebbe una manipolazione indegna, un inganno disonesto, un insulto a Dio che guida la sua Chiesa e le affida il suo piano di salvezza».

Eminenza, aveva dedicato il suo ultimo libro al silenzio. Adesso scrive, proprio all’inizio: «Ma ora non posso più tacere». Come se ci fosse stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Che cosa l’ha spinta a scrivere ancora?

«La mia non è ovviamente una reazione d’impulso, perciò non esiste una ragione particolare scatenante. Questo libro è il frutto di una riflessione che, per quanto mi riguarda, va avanti da molto tempo: non si tratta di un trattato accademico, esprime il mio grido di pastore partendo dall’analisi dei tempi che stiamo vivendo. Dunque non posso più tacere – ma oserei dire: non possiamo –, perché quello che vedo accadere nella realtà è grave: viviamo una crisi spirituale fortissima. Siamo di fronte a una apostasia silenziosa. Essa riguarda il mondo intero, ma ha la sua origine principalmente in Europa. E nasce dal rifiuto di Dio, rifiuto che è ormai incistato nella coscienza occidentale. Perché oggi è l’uomo che si è sostituito a Dio. Si rifiuta il Padre e si rifiuta Dio, perché non si ammette di poter dipendere da qualcuno. Ognuno vuole auto-determinarsi, nella vita, nella morte, nella sessualità, fino a modificare la natura sulla base delle proprie idee. È qualcosa di mai accaduto e di perverso. Questa non è il desiderio dell’uomo di fare sempre nuove scoperte, di progredire, di utilizzare in profondità e per il bene tutte le facoltà cognitive e intellettive che egli ha ricevuto in dono. Qui siamo molto oltre anche il superomismo di Nietzsche. Si tratta oggi di una barbarie che viviamo dall’interno, non come i Romani del IV secolo che la vissero da nemici esterni. Vi invito a rileggere un libro del 1978 del filosofo John Senior , La morte della cultura cristiana. Io qui voglio suscitare un grido di allarme, che è anche un grido d’amore per l’uomo. Torniamo in noi, torniamo al reale. L’uomo civilizzato è orgoglioso di essere un erede!».

Molti hanno letto o leggeranno il suo libro in contrapposizione al pontificato attuale. D’altra parte il testo è dedicato sia a Benedetto XVI sia a Francesco, «figlio fedele di Sant’Ignazio». Dove sta la verità?

«La verità è che tanti scrivono non per testimoniare la verità, ma per opporre le persone le une contro le altre, per danneggiare i rapporti umani. A costoro non importa la verità. La verità è che coloro che mi oppongono al Santo Padre non possono presentare una sola mia parola, una sola mia frase o una sola mia attitudine a sostegno delle loro affermazioni assurde, direi diaboliche. Il Diavolo divide, oppone la gente, l’una contro le altre. La verità è che la Chiesa è rappresentata sulla terra dal Vicario di Cristo, cioè il Papa. E chi è contro il Papa è ipso facto fuori dalla Chiesa. Capisco che la società umana – e il mondo intellettuale in particolare – abbia bisogno di contrapposizioni per definire le posizioni in campo, quasi che non avesse altri termini di comprensione se non l’alternativa tra un “noi” e un “loro”. Cosa che mi pare un errore grossolano, per non dire diabolico. Ma la storia della Chiesa, con buona pace del demonio che vuole dividerla, è una storia lunga, di difficoltà certo, di divisioni anche, ma sempre tesa alla ricerca dell’unità in Cristo, pur nel rispetto delle differenze: è una storia che si basa sulla fede in un Dio che si è fatto uomo per condividere con ciascuno il cammino della vita e il peso delle sofferenze. Le altre sono speculazioni assurde. Aggiungo che ogni Papa è “giusto” per il suo tempo, la provvidenza ci vede benissimo, sa? La domanda è: quello che lei e io abbiamo ricevuto dai nostri padri è ancora valido per i nostri figli? E se sì, come fare perché essi se ne riapproprino nella loro esperienza? È la verità di queste evidenze che siamo chiamati a riscoprire, sia con le impareggiabili analisi di pensiero di Benedetto sia con la grande e solare operosità di Francesco. Nella ovvia differenza delle sensibilità, c’è una grande sintonia e una grande continuità tra loro, come tutti hanno potuto vedere in questi anni. Bisogna sempre interpretare le parole di Papa Francesco con l’ermeneutica della continuità. Così come vi era tra Giovanni Paolo II e Paolo VI. La storia della Chiesa è bellissima e ridurla al macchiettismo politico tipico dei talk show televisivi è una operazione di marketing, non una via di ricerca della verità».

Quando è cominciata la «notte oscura» della Chiesa? E perché è successo?

«Trovare un preciso termine a quo non è mai facile e nemmeno corretto. Ognuno avrà qualcosa da ridire e troverà il modo di spostare in avanti o indietro la data più gradita, anche a seconda delle letture “politiche” che se ne fanno. Mi pare però che i recenti Appunti di Benedetto XVI circoscrivano bene il problema: non è una lettura del ’68 o della pedofilia, come è stato erroneamente e falsamente scritto. Quello è un testo sulla crisi della fede che stiamo vivendo. Certamente possiamo dire che l’Illuminismo prima, e il ’68 poi, hanno accentuato e spinto il processo, ma ecco non mi fermerei a questo. La notte oscura inizia prima di tutto nell’anima dell’uomo, nella sua sfrenata ricerca di creare oggi un “umanesimo senza Dio”, nel quale dio sia l’uomo stesso, con le sue facoltà, il potere della scienza, le luci della tecnologia, le ricchezze di un’economia sempre più globalizzata e disumana. È la tentazione del Padrone del mondo, per citare un libro di Robert H. Benson caro al Papa Francesco, che si è impadronito della nostra coscienza. Addirittura tornano gli accenti millenaristici: “Sbrighiamoci, perché o salveremo il mondo noi o noi saremo gli ultimi abitanti della terra!”, si sente dire, anche dentro la Chiesa e tra sacerdoti che si sono fatti ingannare da pifferai che promettono soluzioni infallibili per propri interessi personali. È un’isteria incontrollata. Una volta che ci avventuriamo su queste strade, a che serve lo scandalo della Croce, a che serve testimoniare Gesù Cristo? Ricordiamoci di quali nefandezze sono state protagoniste le ideologie totalitarie del recente passato che promettevano il paradiso in terra per i propri seguaci. Una società ispirata dal Vangelo protegge i più deboli dalle conseguenze del peccato. Al contrario, una società tagliata fuori da Dio diventa rapidamente una dittatura e una struttura di peccato. Come si legge nel Vangelo di Giovanni: “In lui era la via e la vita era la luce degli uomini, la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo… eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,4-5. 9-11)».

Ricorre il suo timore per la dottrina messa in dubbio o annacquata. Ma non c’è il rischio di una lettura troppo rigida? Non è naturale che ci si interroghi sulla dottrina? Che la comprensione del Vangelo possa evolvere nel tempo?

«Se per comprensione intendiamo una interpretazione che cambia continuamente per adeguarsi ai tempi le rispondo: no. Il Vangelo è quello, e così la parola di Dio. Essi valgono sempre e per sempre, perché trascendono la storia e la vita terrena degli uomini. L’epistola agli Ebrei dice: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per secoli. Non siate fuorviati da dottrine diverse ed estranee. La Parola e la Dottrina di Gesù non cambiano” (Eb 13:8). “Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre” (Is 40, 8). “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt 24,35; Mc 13,31; Lc 21, 33). La Chiesa o è profetica o non è Chiesa. Essa sta davanti alle fragilità dell’uomo, non per assecondarle, ma per accompagnare l’uomo nel suo cammino alla felicità, che passa anche per la Croce delle difficoltà, delle prove e per la sua radicale conversione. Per questo Gesù è venuto in mezzo a noi dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 15). Se poi vogliamo interrogarci sulla dottrina, ben venga, sarebbe strano se non lo facessimo: le domande innate nell’uomo sul proprio destino sono sempre aperte, ed è normale chiedersi se e che cosa stiano dicendo a me e a noi in questo tempo gli insegnamenti della Chiesa. Ma chiariamo: la dottrina non è la vetrina dell’antiquario, è un corpo vivo».

Che cosa intende?

«La dottrina non è un insieme di precetti moralistici, ma l’insieme degli insegnamenti che ci vengono dalle Scritture, dalla Parola di Dio e dalla Tradizione. Chi non lo capisce, forse, deve riscoprire cosa significhi essere cristiani e appartenere alla Chiesa, oggi. Il punto è che l’uomo non tollera di sentirsi dire cosa è giusto e cosa non lo è, perché come dicevo prima vuole determinarlo da se stesso, annichilendo la sua storia e la portata della sua identità. Ma la dottrina cattolica, in definitiva, è una persona! È Gesù nella sua Parola. Come possiamo pensare che il Vangelo sia espressione di qualcosa distaccato dalla realtà? O la nostra fede è fondata sull’incontro con una Persona, che è Dio fattosi uomo, attraverso suo Figlio Gesù, e quindi su una testimonianza che deve rinnovarsi ogni giorno per la morte e resurrezione quotidiana di Cristo, oppure la nostra fede è fallace ed è basata sugli idoli della modernità. Ma un padre o una madre che non indica al figlio la strada giusta, che padre è? E che madre è? Così si ritiene che l’apertura della Chiesa, a cui costantemente e giustamente ci richiama Papa Francesco, significhi la diluizione di ciò che noi crediamo nel pensiero della società contemporanea, che è secolarizzata e decadente. Ma Cristo non è venuto per assecondare la società, è venuto per salvare l’umanità dalla sua caduta, per portare la Verità e cambiare ciascuno di noi personalmente, nel profondo. La Verità e i dogmi di fede ci costringono ad alzare l’asticella, a puntare in alto, a vivere ogni giorno per diventare santi. Il relativismo è facile, perché nulla in esso ha valore e conta: porta al disimpegno dalla vita e, in sostanza, all’abbrutimento dell’uomo. Ripeto: la Chiesa entra in crisi quando, per compiacere il mondo e per rendersi accettabile, smette di essere profetica e si adegua al sentire comune o al pensiero dominante, che oggi è il relativismo».

Nel Sinodo sull’Amazzonia si parlerà anche dell’ipotesi di «viri probati». Nella Chiesa cattolica, dagli orientali agli anglicani tornati in comunione con Roma, un clero sposato esiste già. Ma Francesco, a gennaio, ha spiegato che non si tratta di questo e non avrebbe cambiato la disciplina del celibato nella Chiesa latina («Io non lo farò, è chiaro»): solo, si poteva studiare la possibilità di ordinare «anziani sposati» in «zone remotissime» che esercitassero solo il «munus sanctificandi», quindi «messa, confessione, unione degli infermi», senza funzione di guida né di insegnamento, i «munera regendi e docendi». Si vedrà. Ma perché questa ipotesi spaventa tanto alcuni?

«Non spaventa nessuno. La proposta è teologicamente assurda ed implica una concessione funzionalista del sacerdozio, in quanto pretende separare i tria munera (Santificandi, docendi e regendi) in totale contraddizione con gli insegnamenti del Concilio Vaticano (Lumen Gentium n° 20-22, Christus dominus n° 2, Presbyterorum Ordinis n° 4-6) e di tutta la Tradizione della Chiesa latina che ne stabilisce la loro unità sostanziale. E poi l’ordinazione presbiterale di uomini sposati significherebbe nella pratica mettere in discussione l’obbligatorietà del celibato in quanto tale. A questo proposito, forse va ricordata la frase di San Paolo VI, che Papa Francesco ha fatto sua nel discorso ad un gruppo di giornalisti, il 27 gennaio 2019: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del Celibato”. Ripeto: non c’è nessuno spavento. Il Sinodo studierà, poi il Santo Padre trarrà le conclusioni. La questione è un’altra: ovvero comprendere il senso della vocazione sacerdotale. Chiedersi perché non ci siano più persone disposte a dare tutte se stesse per Dio, per il sacerdozio e per la verginità. Invece si preferisce ragionare su escamotage, con la presunzione che questi possano aiutare a risolvere problemi più grandi e spesso di giustizia. Quante volte ho sentito dire: se i preti potessero sposarsi non esisterebbe la pedofilia. Come se non sapessimo che il problema, anzi il reato, riguarda soprattutto le famiglie, perché è lì che maggiormente avviene. Oppure: visto che non ci sono più vocazioni, mettiamo una pezza ampliando le opzioni per i laici. Questa è la presunzione degli uomini. E francamente non mi pare che le Chiese dove oggi il celibato sacerdotale non esiste siano molto più floride della Chiesa cattolica, se questo è lo scopo».

Perché il sacerdozio è in crisi?

«Sono convinto che la crisi del sacerdozio sia un elemento centrale della crisi della Chiesa: il nemico del sacerdozio oggi è l’efficientismo, la produttività, come se fossimo dipendenti di un’azienda. I sacerdoti sono stati evirati della loro identità. Sono stati portati a credere che dovevano essere uomini efficaci. Un sacerdote è fondamentalmente una continuazione tra noi della presenza di Cristo. Non deve essere definito da ciò che fa, ma da ciò che è: ipse Christus, Cristo stesso. Durante la Santa Messa il Sacerdote si trova faccia a faccia con Gesù Cristo ed in quel preciso istante, è identificato si è immedesimato in Cristo, divenendo non soltanto un Alter Christus, un altro Cristo, ma è addirittura Ipse Christus, lo stesso Cristo. Se veramente il Sacerdote è Cristo stesso, come immaginare di fabbricare, o ordinare sacerdoti “anziani sposati”? Questo sacerdozio non sarà un sacerdozio di Gesù Cristo, ma una fabbricazione umana, senza valore cristico. Ecco, è disperante che alcuni si incaponiscano invece nel voler rispondere con un legalismo a un problema che riguarda la fede e la vita: e questi “alcuni” sono poi gli stessi che il legalismo sono sempre pronti a contestarlo quando non sta bene. Perché viviamo questa situazione oggi? È questa la domanda che dobbiamo farci, ma è questa domanda che tutti vogliono rifuggire. Papa Francesco in maniera chiarissima ha già detto che non si possono attendere soluzioni di breve periodo solo per dare risposte immediate e succedanee. Il problema è la crisi della fede. I discepoli sono partiti in dodici: se ci affidiamo a ragionamenti numerici, nessun numero sarà mai sufficiente per giustificare e “riempire” l’orgoglio degli uomini».

Ma che ne pensa del Sinodo sull’Amazzonia?

«Ho sentito che alcuni vogliono fare di questo Sinodo un laboratorio per la Chiesa universale, altri hanno dichiarato che dopo questo Sinodo nulla sarà più lo stesso di prima. Se è vero, questo è disonesto e fuorviante. Questo Sinodo ha un obiettivo specifico e locale: l’evangelizzazione dell’Amazzonia. Temo che alcuni occidentali stiano confiscando questa assemblea per far avanzare i loro piani. Penso in particolare all’ordinazione degli uomini sposati, alla creazione di ministeri femminili o alla giurisdizione dei laici. Questi punti toccano la struttura della Chiesa universale. Approfittare per introdurre piani ideologici sarebbe una manipolazione indegna, un inganno disonesto, un insulto a Dio che guida la sua Chiesa e gli affida il suo piano di salvezza. Inoltre, sono rimasto scioccato e indignato dal fatto che il disagio spirituale dei poveri in Amazzonia sia stato usato come scusa per sostenere progetti tipici del cristianesimo borghese e mondano. È abominevole».

Scrive di aver voluto confortare i cristiani smarriti. A volte si ha l’impressione che i più smarriti, oggi, siano proprio i fedeli più rigorosi e assidui. Come se, mentre la Chiesa “in uscita” di Francesco si rivolge alle periferie e ai lontani, al “centro” si sentissero trascurati. Una situazione che ricorda la parabola del figliol prodigo e lo sconcerto del fratello maggiore, che ha sempre obbedito al padre e lo vede preparare il vitello grasso per il figlio che se ne era andato. Avverte questo smarrimento?

«Guardi, me lo faccia dire: qui il problema è che ci sono sacerdoti, vescovi e persino cardinali infedeli che mancano, e questo è altrettanto grave di altri peccati, di portare la verità di Cristo! Disorientano i fedeli cristiani con il loro linguaggio confuso, ambiguo e liquido. Dobbiamo avere il coraggio di tornare sui sentieri del combattimento spirituale: il combattimento della fede, come dice San Paolo a Timoteo, in quanto la nostra arma principale è la preghiera. Molti si sentono smarriti perché avvertono e sperimentano che la chiesa diventa una società per azioni o una Ong, che è esattamente il contrario di quanto dice Papa Francesco dall’inizio del proprio pontificato. Le diatribe tra il centro e la periferia interessano voi giornalisti: come prima, sempre alla ricerca di un “noi” e di un “loro”. La Chiesa non è questo! Vogliamo rendere la Chiesa una società umana e orizzontale. Vogliamo che parli una lingua mediatica. Vogliamo renderla popolare. Così i preti si spingono a non parlare di Dio e dello scandalo della croce di Gesù, ma a impegnarsi anima e corpo nelle questioni sociali: l’agricoltura, l’ecologia, il dialogo, la lotta contro la povertà, la giustizia e la pace. Non si parla più di Dio ma di migranti, di emarginati e di senza tetto!».

E ci mancherebbe, no?

«Si tratta di questioni importanti e vitali contro le quali la Chiesa non può chiudere un occhio. Ma nessuno è interessato a una chiesa del genere. “La Chiesa nel suo attuale slancio verso i valori della giustizia, dei diritti sociali se dimentica la sua anima contemplativa fallisce la sua missione e verrà abbandonata dai suoi fedeli perché non verrà riconosciuto in essa il suo specifico” diceva l’imam Yahya Pallavicini, Presidente del Coreis. La Chiesa è interessante solo perché ci permette di incontrare Gesù. La vera riforma è quella dello stile di vita dei sacerdoti. I sacerdoti devono sentirsi “perseguitati” dal desiderio di santità. A volte si ritiene che la storia della Chiesa sia segnata solo da riforme strutturali, che pure sono necessarie. Sono sicuro che sono i santi a cambiare la storia. Le strutture poi seguono e perpetuano solo l’azione dei santi. Perciò dico: le idee sulle riforme della società, su come indirizzare l’uomo a migliorare lo stile di vita o la cura del Creato, lasciamole al Papa, che le esprime benissimo, e noi lavoriamo per riportare i fedeli a Dio. Aggiungo: le problematiche sociali che affronta Francesco sono permeate e trovano la loro origine in Cristo, sempre. Ogni giorno il Papa parla di Gesù e dell’esperienza di un incontro personale con Cristo: ma quante volte i media le riportano? Non sono interessati, e così spesso i sacerdoti, perché è molto più facile fermarsi alle proprie categorie umane che aprire il cuore e chiedere “Dio, sono tuo, farò ciò che vuoi Tu”. Nel mio libro parlo di “ateismo liquido”. Si infiltra in tutto, anche nei nostri discorsi ecclesiastici. Consiste nell’ammettere accanto alla fede, modi di pensare e vivere radicalmente pagani e mondani. Dio non occupa il centro della loro vita, dei loro pensieri e delle loro azioni. La vita di preghiera non è più centrale. Sono convinto che i sacerdoti devono proclamare la centralità di Dio attraverso la loro vita. Una Chiesa dove il sacerdote non porta più questo messaggio è una Chiesa malata. E per tornare alla parabola del padre misericordioso da lei citata: mi dica, chi può sentirsi offeso perché il padre aspetta e accoglie il figlio che se n’era andato? O va a cercare la pecora smarrita? Chi? Solo chi è divorato dall’orgoglio e dalla pienezza di sé. Che segnale sta, invece, dando il Papa oggi! Lui, il pastore più in alto di tutti, che scende per andare a recuperare la pecorella, e non solo quella che si è persa, ma anche quella che nel recinto magari non ci è mai entrata e che, quindi, per natura, per educazione o per cultura è la più distante dalla Chiesa. È questa l’evangelizzazione. Ed è da questa testimonianza che tutti i sacerdoti dovrebbero essere ispirati, perché questo è vivere il Vangelo nella preghiera. Altro che l’efficientismo manageriale».

·        Gli Ordini in difesa del Papato.

Un principe contro l’Ordine di Malta: «Non ha difeso papa Francesco». Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Paolo Conti. Don Sforza Ruspoli, 92 anni, principe romano di una delle più antiche dinastie della nobiltà papalina annuncia: «Lascio dopo settanta anni». «La crisi in cui è piombato da tempo l’Ordine di Malta, con la sua perdita di identità e di valori, mi obbliga a rassegnare le dimissioni». Don Sforza Ruspoli, 92 anni, principe romano erede di una delle più antiche dinastie della nobiltà nera papalina, con una storia cominciata nel XIII secolo, dice addio all’Ordine di Malta. «Una decisione molto sofferta dopo ben 70 anni di servizio nell’Ordine, sono entrato nel 1949 ed è veramente doloroso lasciare il campo che per me è sempre stato quello della battaglia a difesa di papa Francesco e di Santa Romana Chiesa».

I suoi 70 anni di servizio sono tanti, tantissimi...

«Sono uno dei decani di Ordine e Devozione. Ho avuto l’onore di rappresentare e servire negli anni di maggiore espansione come commissario dell’AciSmom (l’associazione dei Cavalieri del Sovrano Ordine di Malta ndr), come Ambasciatore a La Valletta. Erano gli anni del Gran Maestro Andrew Bertie, protagonista di grandi cambiamenti nella vita dell’Ordine. Dallo sviluppo delle attività umanitarie alla riforma della Carta costituzionale. Da parte materna discendeva dalla famiglia Stuart, ed è stata introdotta la causa della sua Beatificazione. Erano anche gli anni di Carlo Marullo di Condojanni come Gran Can-celliere. Da 60 Stati che riconoscevano l’Ordine si passò a 110, fu ottenuta la concessione per novant’anni di Forte Sant’Angelo a La Valletta, divenuto con i restauri un rilevante gioiello di promozione dell’Ordine».

E ora cosa è successo, secondo lei?

«Devo constatare il venir meno delle finalità per cui l’Ordine nacque nel 1048 come baluardo della cristianità nel Mediterraneo: monaci guerrieri a difesa della fede cristiana. Oggi l’Ordine dovrebbe essere in prima linea nella lotta contro la globalizzazione e contro le forze finanziarie di rapina che creano povertà nel mondo. Cioè sempre in prima linea nel sostenere con coraggio e determinazione la grande battaglia di papa Francesco che denuncia le storture di uno sviluppo che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri».

E invece?

«Invece nessuna presa di posizione dell’Ordine, nessun sostegno al Santo Padre, un silenzio direi assordante anche sui ripetuti massacri dei cristiani nel mondo... Mi fa male verificare che gli eredi di una grande tradizione plurisecolare nemmeno a parole siano stati in grado di difendere i loro fratelli cristiani vittime di recenti attacchi armati. Né un comunicato, né una conferenza, né un convegno».

Ma cosa pensa dell’attuale realtà dell’Ordine?

«C’è chi opera per annullarne l’identità. L’istituzione, un tempo gloriosa, travolta dagli scandali, ammuffisce nelle stanze di qualche palazzo senza nemmeno mettersi al servizio del Papa e della cristianità».

Come giudica le recenti rivelazioni? Misteriose donazioni svizzere, investigazioni della magistratura elvetica...

«Non ho alcuna intenzione di entrare nel dettaglio. Non accuso nessuno ma constato il degrado. Dirò che non c’è da meravigliarsi se emergono storie di scandali. Penso che la maggioranza del Sovrano Consiglio sia ancora, almeno in parte, nelle mani dell’ex Gran Maestro Andrew Festing che si permise addirittura di rivendicare autonomia dal Papa Francesco...».

Ma ora c’è un altro Gran Maestro...

«L’attuale Gran Maestro, Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, che ritengo sia un grande gentiluomo, sembra non abbia forza e coraggio per contrastare i nemici del Santo Padre presenti nel Sovrano Consiglio... perché ce ne sono. Il mio motto era e resta “il Papa non si critica, si serve”. Ecco i motivi che mi hanno portato a prendere questa decisione. Con mio grande rammarico e dolore, vedo una mia assoluta incompatibilità col governo attuale dell’Ordine».

·        Il Papa Comunista.

Papa Francesco: «Mai vera pace senza un sistema economico più giusto». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. «Non si ottiene la pace se non la si spera». Il messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2020 è un’esortazione ad andare oltre la paura dell’altro e del diverso, a spezzare «il circolo vizioso della sfiducia, la logica morbosa della minaccia e della paura» che sta all’origine delle guerre, un invito a percorrere un «cammino di riconciliazione» che significa anche giustizia sociale, «non vi sarà mai vera pace se non saremo capaci di costruire un più giusto sistema economico più giusto», e quella «conversione ecologica» già richiamata dal Sinodo sull’Amazzonia, per «una relazione pacifica tra le comunità e la Terra». Sono passate tre settimane da quando Francesco, a Nagasaki e Hiroshima, ha definito «immorale» l’uso «e anche il possesso» delle armi nucleari, fino a sillabare, davanti ai superstiti dell’atomica: «Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace, ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della Terra». Così ora Francesco ripete che «la pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale», che «la dissuasione nucleare non può che creare una sicurezza illusoria». E invita a custodire la memoria: «Gli Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, sono tra quelli che oggi mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde nell’agosto del 1945 e le sofferenze indicibili che ne sono seguite fino ad oggi. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione». Il tono del Papa è solenne, un appello «alla coscienza morale e alla volontà personale e politica» rivolto ai popoli e soprattutto ai governanti di tutto il pianeta: «La nostra comunità umana porta, nella memoria e nella carne, i segni delle guerre e dei conflitti che si sono succeduti, con crescente capacità distruttiva, e che non cessano di colpire specialmente i più poveri e i più deboli. Anche intere nazioni stentano a liberarsi dalle catene dello sfruttamento e della corruzione, che alimentano odi e violenze. Ancora oggi, a tanti uomini e donne, a bambini e anziani, sono negate la dignità, l’integrità fisica, la libertà, compresa quella religiosa, la solidarietà comunitaria, la speranza nel futuro. Tante vittime innocenti si trovano a portare su di sé lo strazio dell’umiliazione e dell’esclusione, del lutto e dell’ingiustizia, se non addirittura i traumi derivanti dall’accanimento sistematico contro il loro popolo e i loro cari». Insomma, argomenta Francesco, «non possiamo pretendere di mantenere la stabilità nel mondo attraverso la paura dell’annientamento, in un equilibrio quanto mai instabile, sospeso sull’orlo del baratro nucleare e chiuso all’interno dei muri dell’indifferenza, dove si prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi dello scarto dell’uomo e del creato, invece di custodirci gli uni gli altri». Ogni guerra è «un fratricidio» che «comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio» Nasce «nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo». E «si nutre di perversione delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della differenza vista come ostacolo; e nello stesso tempo alimenta tutto questo». La sola via di uscita è «perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca». Alla fine del suo messaggio, il Papa cita il colloquio tra Pietro e Gesù nel Vangelo di Matteo: «“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”». È necessario un «cammino di riconciliazione» che esige di «trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle». Non c’è altra strada: «La cultura dell’incontro tra fratelli e sorelle rompe con la cultura della minaccia».

Estratto dell’articolo di Bruno Quaranta per “la Stampa” il 10 dicembre 2019. […] Che cosa la sconcerta nell'attuale papato.

«Preciso di aver scritto spesso elogi dei gesuiti . La loro chiave di lettura del mondo è l' et-et, sia questo, sia quello. Sono inclusivi. E per questo li ammiro».

E dunque?

«È il papato del gesuita Bergoglio, talvolta, a sconcertare. Il successore di Pietro deve innanzitutto tutelare il depositum fidei, Scrittura e Tradizione: la Chiesa e il suo insegnamento appartengono solo al Cristo. Il pontefice non è che un custode».

E invece questo papa?

«Per fare un esempio: ha cambiato motu proprio il catechismo in tema di pena di morte, dichiarandola inammissibile per i cristiani. Ora: si può considerare inopportuna quella pena (è il mio caso), ma non dimenticando che l'insegnamento cristiano non l'ha mai esclusa».

E ancora: la possibilità per i divorziati risposati di comunicarsi...

«La morale cattolica richiede eroismo. Non le si addicono le scorciatoie».

I migranti, il popolo dei barconi: fra i cavalli di battaglia di Salvini. Ruini invita a dialogare con il segretario della Lega. È d'accordo?

«Un cardinale può rifiutare di incontrare chiunque lo chieda per almeno ascoltare le sue ragioni?».

Due Papi, Ratzinger e Bergoglio. Come «legge» la loro compresenza?

«È un unicum. Un enigma. Papa emerito si è definito Benedetto XVI, disorientando: la qualifica è inedita per il diritto canonico. Ero convinto che si sarebbe ritirato in un monastero, e invece ha scelto di restare in Vaticano. Ma è uomo di fede, di preghiera, di riflessione, avrà di certo le sue ragioni religiose»...

Nell'attuale situazione, avverte il richiamo dei lefebvriani?

«Don Bernard Fellay, quando era Superiore di quei dissidenti, mi volle conoscere. Mi propose di arruolarmi fra i suoi. Io senza esitazioni, lo delusi: sto e starò sempre con la Chiesa, non con chi se ne è separato. Sto con i papi, i cardinali, i vescovi, i parroci anche quando mi sembrano discutibili certe loro azioni e dichiarazioni: mugugno, magari mi rattristo ma non dimentico che la Chiesa è il corpo stesso di quel Cristo che sempre, in duemila anni, ha sistemato al meglio cose ben peggiori. Succederà anche stavolta. Come diceva Eduardo De Filippo: "A' da passà a nuttata"».

Mario Giordano per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Fare il presepe? «Inaudita violenza». Chiedere di fare il presepe? «Razzismo». Anzi, «banalità del razzismo». Accidenti, non si smette mai di imparare nella vita: abbiamo appena finito di sentirci dire che la capanna con Gesù Bambino è una terribile offesa nei confronti delle altre religioni e che perciò va bandito dalle scuole; abbiamo appena finito di ascoltare parroci pronti a spiegare che il simbolo della tradizione cattolica va eliminato in quanto ipocrita, e già ci sembrava che fosse troppo. E invece no: adesso veniamo a scoprire di più. Veniamo a scoprire, cioè, che la Madonna con San Giuseppe, i Re Magi e i pastorelli sono un simbolo di razzismo e di violenza. Anzi «inaudita violenza». «Quadruplice violenza». Non ci credete? Chiedete al bue. E, soprattutto, all' asinello. A rivestire questa parte nel presepe vivente di giornata è lo storico d' arte Tomaso Montanari, già noto per la sua militanza a sinistra, che ha scritto sul Fatto Quotidiano l' indimenticabile articolo «Scuola, presepe & cotechino: la banalità del razzismo». Che sarebbe un po' come dire: «Asilo, crocifisso e polenta taragna: così si arriva ad Auschwitz». L' accostamento piuttosto ardito tra il presepe, il cotechino (con o senza lenticchie) e il razzismo, infatti, si fonda sull' assunto che rivendicare la propria identità significa commettere una «inaudita violenza». Il che, stando all' italiano (se non è diventato razzista anche l' uso della nostra lingua), significa una violenza che non si è mai sentita prima. Quindi, per l' appunto, siamo ad Auschwitz. Anzi, oltre. Chi l' avrebbe detto? Uno mette la stella cometa sulla capanna e zac, si rende complice senza saperlo dello sterminio. «Mi dai due pecorelle?», e rischia come niente Norimberga. A scatenare la furia di Montanari è la lettera che l' assessore (ovviamente lui la chiama «assessora») all' Istruzione del Piemonte, Elena Chiorino di Fratelli d' Italia, ha inviato alle scuole della regione chiedendo di «valorizzare presepi e recite di Natale» perché essi sono «parte fondante della nostra identità culturale». E, ha aggiunto, la «conoscenza delle nostre tradizioni» è «un supporto alla piena integrazione di chi arriva da altre realtà». Vi sembrano parole di buon senso? A me sì: il Natale è parte fondante della nostra cultura, anche per chi non è credente, è evidente a tutti. E a tutti è altrettanto evidente che il dialogo con gli altri è possibile solo difendendo la nostra identità: che dialogo possiamo fare se non sappiamo nemmeno più chi siamo? Invece a Montanari quelle frasi di normale buon senso sembrano l' anticamera di Birkenau. Non ci vede più. Impazzisce. «La banalità del razzismo», sentenzia. E aggiunge che le parole «grigie, usurate, burocratiche e dozzinali» (niente meno) con «le loro maiuscole retoriche» (in effetti: l' assessore ha scritto Natività con la maiuscola. Imperdonabile), ebbene, quelle parole «contengono ed esprimono una violenza inaudita». Inaudita. Proprio così. Un uomo di cultura come Montanari conosce il valore degli aggettivi, quindi è chiaro quello che vuole dirci: non c' è mai stato niente di così violento sulla Terra come cantare Astro del Ciel in una terza elementare. Non ridete. Lui lo pensa veramente. E infatti motiva la violenza, che oltre a essere «inaudita», è pure «quadruplice». E cioè: 1) nei confronti delle scuole, perché è noto che invitare (si badi bene: invitare) una scuola a fare il presepe è un atto di prevaricazione inaccettabile; 2) nei confronti della Costituzione che come è noto dice che l' Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e sulla negazione del presepe; 3) nei confronti dei cattolici «che ci credono davvero», che si distinguono da quelli che «non ci credono davvero» (chi sta in un gruppo o nell' altro lo decide evidentemente il noto pastore di anime, nonché teologo san Tomaso Montanari, che ormai si sente come san Pietro e tiene in mano le chiavi del paradiso); 4) nei confronti dei migranti che sarebbero costretti a fare il presepe per integrarsi. Quest' ultimo è il punto più interessante perché il critico d' arte prima rimprovera l' assessore di aver usato l' espressione «chi proviene da altre realtà», invece di «islamici e ne(g)ri» (insomma, questi razzisti: come si permettono di usare parole così «grigie e usurate», anziché fare i razzisti come si deve?). E poi dimostra di non aver capito una mazza. Perché un conto è obbligare uno straniero a fare il presepe per integrarsi, cosa che non sta nella testa di nessuno. Un conto è chiedere alle scuole di difendere le proprie tradizioni perché da qui (e solo da qui) può partire una vera integrazione. Ma come si fa a non vedere la differenza? Se io vado in un Paese che non è il mio e voglio integrarmi, la prima cosa che faccio è cercare di conoscere le tradizioni locali, la fede, la storia, la cucina. Ma se quel Paese non mi fa conoscere nulla di tutto questo, perché se ne vergogna, perché lo considera «inaudita violenza», come faccio a integrarmi? Con che cosa mi integro? Con il nulla. O con gli articoli di Montanari. Ammesso che ci sia una differenza tra le due cose.

Filippo di Giacomo per il Venerdì-la Repubblica il 7 dicembre 2019. I l 13 dicembre Jorge Mario Bergoglio taglierà un importante traguardo: 50 anni di sacerdozio. Nato il 17 dicembre 1936, ha ricevuto l' imposizione delle mani nel 1969. È vescovo da 27 anni e Papa da sei e otto mesi. Negli ultimi tempi pare che in Vaticano, nelle abituali sessioni di sussurri e spifferi, alludano a lui come al Terminator. Avrebbe cioè fatto precipitare le strutture curiali nella definitiva e irreparabile decadenza: le sezioni della segreteria di Stato, la Rota Romana, il capitolo di San Pietro, la cappella musicale, l' annona (i supermercati vaticani), il sistema finanziario della Santa Sede, i beni culturali, l' Università lateranense, il seminario romano, il vicariato di Roma, un numero consistente di diocesi italiane ed estere.

Tutti in banca. Nessuno si è ancora azzardato a riportargli, nei pur chiacchieroni corridoi curiali, l' epiteto che, tra i vaticanisti, suscita sorrisi ogni qualvolta si annuncia il capitombolo di un personaggio considerato potente perché nella manica del Pontefice: «Lo sterminatore dei chierici». E qui l' allusione è ai tanti sconosciuti personaggi, persino insigniti dell' episcopato, chiamati a ruoli apicali e spesso celermente rivelatisi inadatti oppure moralmente o penalmente esposti. Un mistero, questo, che neppure i più convinti ammiratori di papa Francesco riescono a spiegare. D' altronde, quale giustificazione può avere la nomina del plurinquisito (anche per abusi sessuali) ex vescovo di Oràn, in Argentina, monsignor Gustavo Óscar Zanchetta (in un' intervista, papa Francesco spiegava così la rimozione: «perché economicamente disordinato») all' Apsa, Amministrazione del patrimonio apostolico, con l' incarico di rimettere in ordine i conti della Banca vaticana? E quale teoria di management può giustificare l' avere rafforzato questa scelta inviando a presiedere l' Apsa quel monsignor Nunzio Galantino che era stato obbligato dai suoi confratelli a lasciare la segreteria generale della Chiesa proprio perché insoddisfatti della gestione dei fondi dell' otto per mille?

Fondi riservati. Da sempre, e fino a Benedetto XVI, l' appellativo criptato dei curiali per alludere al pontefice regnante era "Il Supremo". Ed era come dire che il Papa, qualunque fosse, era la punta di una piramide fatta di figure, strutture e, soprattutto, da una pluralità di "amministrazioni" ufficiali e, a quanto si sta apprendendo, anche "riservate" raggruppate sotto la dizione "Vaticano". Quelle ufficiali, desumibili dai volumi che raccolgono Leggi e disposizioni usuali dello stato della Città del Vaticano del canonista Winfried Schulz sono 17, ognuna con regolamenti, patrimoni, bilanci e livelli retributivi diversi. Cosa che in uno Stato che dichiara 4810 dipendenti è già una caratteristica fantasiosa. Poi ci sono le amministrazioni riservate che regolano, con inaccessibili leggi, i tesoretti (chiamati "fondi riservati") di almeno 64 enti tra segreteria di Stato, dicasteri, nunziature e uffici vari. Il numero preciso? Probabilmente è sconosciuto anche al Pontefice. Ciò che è palese, è che papa Francesco non ha mai voluto metterci mano, delegando ad altri il compito di indagare e cercare di sistematizzare tutto in chiave moderna e trasparente. Anzi, il primo segnale, qualche mese dopo la sua elezione, è stato il "dichiararsi fuori", rinunciando ad oltre il 50 per cento dell' appannaggio annuale (50 milioni, e comportava, grazie ai soliti "fondi riservati", le spese di manutenzione e gestione del palazzo apostolico e della pletora di personaggi che vi sono stipendiati). Nessuno ha seguito il suo esempio dal 2013 fino all' ottobre scorso.

60 sloane avenue. Forse qualcuno si convertirà dopo le rivelazioni del Financial Times sull' acquisto da parte della Santa Sede, verosimilmente con i "fondi riservati" amministrati dal sostituto alla segreteria di stato, dell' immobile londinese di Sloane Avenue 60, nel quartiere di Chelsea. Fatta la tara da fake news e relative manipolazioni, l' affaire londinese svela che ai tempi di Bergoglio in Vaticano sanno ancora bene come evangelicamente fare perché la mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Con effetti quasi comici. Leggendo le carte più o meno ufficiali, la "banca di Stato vaticana" Apsa opererebbe (paga anche migliaia di stipendi e pensioni) solo con dieci conti presso lo Ior, in differenti valute: 30 milioni in euro, 14,3 milioni in titoli, 500 mila dollari americani, 26 mila dollari canadesi, 80 mila sterline, 36 mila franchi svizzeri. Se fosse vero, non avrebbe mezzi neanche per far pulire le strade e i giardini del Vaticano. Di tesori e tesoretti nascosti si iniziò a parlare dopo l' era Marcinkus-De Bonis, i due vescovi coinvolti nei micidiali imbrogli del Banco Ambrosiano e in altre vicende mai chiarite come il passaggio di denaro, via Ior, dei fondi occulti destinati alla polacca Solidarnosc e alle altre resistenze antisovietiche di Croazia, Slovenia, Germania dell' Est e l' allora Cecoslovacchia. Ad Angelo Caloia, presidente dello Ior dal 1989 al 2009, vanno riconosciuti, seppure felpati e senza spinte oltranziste, gli sforzi per far emergere l' enorme sommerso delle stanze curiali. Ragion per cui fu la prima vittima di un sistema che ha "liquidato" via via con ignominia quanti hanno pensato di poter mettere occhi e intelligenza nei cassetti altrui: da Ettore Gotti Tedeschi a Libero Milone, dal cardinale australiano George Pell al tedesco Ernest von Freyberg, più una numerosa schiera di esperti esteri del calibro di Mary Ann Glendon. Tutti "espulsi" dal sistema nonostante le indicazioni prima di Benedetto XVI e poi, sempre più insistenti, di Francesco. Che il 14 novembre ha nominato prefetto del segretariato dell' economia il gesuita spagnolo Guerrero Alves. Si è appreso che è stato "prestato" dalla Compagnia di Gesù al loro confratello pontefice: resterà dunque semplice sacerdote e terminato il mandato tornerà là da dove è venuto. In altre parole, non avrà l' affanno di sintonizzarsi con alcuno poiché non farà "carriera" ecclesiastica. Non dimentichiamo che, negli anni 80, furono i gesuiti a pianificare la grande fuga degli Istituti religiosi internazionali, soprattutto quelli missionari, dallo Ior; organizzando fondi comuni garantiti da banche di Giappone, Singapore e Hong Kong. Con sguardo lucido e un realismo a prova di chiacchiere, hanno spostato uomini e risorse sul confine (la "periferia"), dove la Chiesa di questo millennio affronterà le maggiori sfide. Guerrero Alves è un esperto di dismissioni: come provinciale, ha ristrutturato la presenza della Compagnia in terra iberica anche "uscendo" da opere e case non più in sintonia con i gesuiti contemporanei. Sa rompere e sa ricostruire. Perché, mentre la curia affonda, la Chiesa avanza.

Papa Francesco da ieri è (anche) un perito industriale dell’albo di Roma. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Corriere.it. Forse non tutti sanno che Jorge Mario Bergoglio, prima di entrare in seminario per diventare sacerdote, si diplomò come técnico químico (perito chimico) presso la Escuela Industrial Hípolito Yrigoyen di Buenos Aires nel 1955. Da ieri è anche iscritto all’ordine dei periti industriali di Roma. Il riconoscimento è avvenuto in occasione dell’udienza generale del mercoledì dove il Papa ha ricevuto una rappresentanza dei periti industriali, tra cui il presidente dell’Ordine di Roma Giovanni De Baggis, il presidente del Consiglio nazionale Claudio Guasco e il presidente della Cassa di previdenza Valerio Bignami. A sancire ufficialmente l’ingresso è stata la consegna della tessera e del timbro professionale, nonché dell’attestato di iscrizione che riporta simbolicamente il numero 8888, a ricordare la devozione del Papa nei confronti della Madonna (il numero otto si identifica con Maria per via dell’8 dicembre, il giorno dell’Immacolata Concezione). «Il riconoscimento - si legge sul sito del Consiglio nazionale dei periti industriali - nasce dal fatto che Jorge M. Bergoglio si diplomò Técnico Químico (tecnico chimico) presso la Escuela Industrial Hipolito Yrigoyen del “Gran Buenos Aires”, un istituto tecnico della grande metropoli argentina, e a questo diploma seguì un periodo di insegnamento della materia in un’altra scuola del paese, un percorso che gli permise di conservare una grande attenzione ai temi relativi alla cultura scientifica. Non è così raro trovare, all’interno del clero cattolico, persone che abbiano intrapreso carriere scientifiche, ma Bergoglio è il primo pontefice ad avere una simile formazione». «E’ un grande privilegio per noi - hanno commentato De Baggis e Guasco - annoverare tra le fila del nostro Ordine di Roma il Papa e aver potuto consegnare direttamente a lui l’attestato di iscrizione e il sigillo professionale».

Il sogno di Papa Francesco. Emanuel Pietrobon su it.insideover.com il 3 dicembre 2019. Il primo pontefice nella storia del cattolicesimo a provenire dal Sud del mondo non si sta occupando soltanto di globalizzare la chiesa con l’agenda focalizzata sulle “periferie del pianeta”, come Asia orientale e Africa nera, ma anche di realizzare uno dei più grandi sogni reconditi di ogni suo predecessore: porre fine al grande scisma con i fratelli ortodossi.

L’asse Roma-Costantinopoli. Non c’è leader del mondo cristiano con il quale Papa Francesco abbia un rapporto tanto stretto e cordiale come con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. Furono i papi del secondo dopoguerra a decidere di riesumare l’antico legame con Costantinopoli, che è uno dei patriarcati più longevi del mondo, in quanto presente dalla storia delle origini, iniziando dallo storico incontro fra Paolo VI e Atenagora I, che produsse la dichiarazione comune del 1965 sulla volontà di riconciliazione. Dopo il paragrafo di Benedetto XVI, essenzialmente focalizzatosi sui problemi interni al Vaticano, il nuovo pontefice ha ripreso in mano il dossier ecumenico e fatto proprio il sogno di finalizzare il percorso di riunificazione fra la cristianità occidentale ed orientale. Il Papa ha avviato un intenso dialogo epistolare e diplomatico con la gerarchia di Costantinopoli, raggiungendo accordi di collaborazione in numerosi campi culturali e politici, e rendendosi protagonista di gesti eclatanti, come ad esempio il recente dono di reliquie appartenenti a San Pietro a fine giugno. Negli ultimi mesi hanno subito un’incredibile accelerata i lavori delle tavole di discussione cattolico-ortodosse in materia teologica e gli incontri interconfessionali patrocinati dal Vaticano e da Costantinopoli, sullo sfondo dei viaggi apostolici di Jorge Bergoglio in paesi a tradizione ortodossa, come Bulgaria e Romania. Il dono delle reliquie di San Pietro ha, in particolare, avuto un grande impatto su Bartolomeo I che, da quella data, ha aumentato la propria campagna lobbistica sul mondo ortodosso, tentando di dissuadere colleghi e fedeli che l’attuale frattura non è frutto di differenze teologiche quanto di un preciso percorso storico e che, perciò, la riunificazione “è inevitabile“. Della stessa opinione è anche Papa Francesco che, nella lettera inviata alla controparte per la festa di Sant’Andrea, il 30 novembre, ha espresso il proprio ottimismo circa la futura, piena comunione.

I limiti. Sebbene il patriarcato di Costantinopoli goda di grande prestigio all’interno del mondo ortodosso, poiché ritenuto “primus inter pares” e perciò avente vari diritti, fra cui la giurisdizione in tema di autocefalie, l’agenda ecumenica condivisa con il Vescovo di Roma è destinata a non avere sbocco fintanto che sarà appoggiata la campagna scismatica in corso nella cristianità orientale. Proprio Bartolomeo, infatti, ha sancito l’inizio dello scisma ortodosso garantendo l’autonomia da Mosca alla chiesa ortodossa ucraina che non è nata per soddisfare un’esigenza popolare od ecclesiastica ma in quanto parte di un preciso disegno geopolitico elaborato fra Kyev e Washington in chiave antirussa. La decisione del patriarca ha spinto le massime autorità ortodosse russe a rompere la comunione con Costantinopoli, dando vita ad una crisi che si sta gradualmente espandendo, minacciando adesso l’unità religiosa dei Balcani. Le chiese di Montenegro e Macedonia del Nord, infatti, sono intenzionate ad ottenere la piena indipendenza dalla Serbia, anche in questo caso non per ragioni dottrinali ma politiche. Se anche Bartolomeo riuscisse a convincere le chiese fedeli alla linea di Costantinopoli a riunirsi definitivamente con Roma, accettando quindi l’esercizio supremo dell’autorità petrina su di loro, a pesare non è soltanto l’incognita scismatica ma anche il fattore Russia, ossia le scarsissime probabilità di convincere il patriarcato di Mosca e di tutte le Russie – con i suoi satelliti al seguito, come Serbia, Bielorussia, Romania, Etiopia, Gerusalemme – a fare lo stesso. I rapporti fra la Prima e la Terza Roma sono buoni ed in costante miglioramento sin dal dopo-guerra fredda e il pontefice ha mostrato lungimiranza decidendo di non esporsi nella crisi fra Costantinopoli e Mosca, preferendo la linea della non interferenza, ma in gioco ci sono interessi che vanno al di là dell’orizzonte religioso e che rientrano in ambito geopolitico. Per questo motivo è altamente improbabile che i sogni ecumenici di Francesco, e di chi gli succederà, si realizzino.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. Una parola di troppo su Hong Kong nei telegrammi che il Papa manda abitualmente ai governi dei paesi che sorvola quando è in viaggio, avrebbe potuto mandare all' aria il fragile accordo con il governo di Pechino. Un termine sbagliato avrebbe rischiato di guastare, se non addirittura compromettere la friabile intesa siglata «ad experimentum» l' anno scorso. Così ha scelto una formula neutra e priva di commenti su quello che sta succedendo nell' ex protettorato britannico pur di non intaccare il cammino intrapreso in Cina dove Francesco si sta giocando la normalizzazione della Chiesa clandestina, quella ancora considerata illegale dal governo ma in futuro destinata a integrarsi con la cosiddetta Chiesa patriottica, sotto il controllo del partito comunista.

IL DILEMMA.  Il dilemma che si è trovato a gestire Papa Francesco non era facile e riguardava i testi dei messaggi da inviare ai governi di Pechino, Hong Kong e Taiwan, visto che il tragitto aereo da Bangkok a Tokio prevedeva l' ingresso nei rispettivi spazi aerei. Alle 10,20 ha sorvolato la Cina, alle 10,45 Hong Kong e alle 11,45 Taiwan. Considerando il braccio di ferro in corso tra Pechino e l' ex protettorato britannico ma pure quello con Taiwan, l' isola ribelle che la Santa Sede riconosce come uno stato - la grana da sbrogliare non era di poco conto. La Santa Sede ha sempre evitato di fare commenti sulla violazione dei diritti umani ad Honk Kong e sulla la rivoluzione degli ombrelli. Così come non ha mai espresso giudizi sulle continue minacce dei cinesi contro Taiwan. La soluzione individuata da Francesco di fatto era senza via d' uscita. Il testo della Cina era l' unico che includeva la parola «nazione», cosa non da poco per le orecchie cinesi. («Invio cordiali saluti a sua eccellenza il presidente Xi mentre volo sopra la Cina verso il Giappone. Assicuro le mie preghiere alla nazione e al suo popolo, invocando sopra ognuno di voi abbondanti benedizioni per la pace e la gioia»).

I MESSAGGI DI PACE. Con Hong Kong e Taiwan si è limitato ad mandare generici auspici di benessere e pace per «tutti i cittadini» ma senza fare alcun cenno alle ultime vicende, alle brutalità che sono cresciute, fino alla guerriglia attuale. Sinora il Papa e i suoi diplomatici hanno scansato i problemi evitando di esporsi su un tema che irriterebbe i nervi scoperti cinesi. Quest' estate è stata eloquente la reazione del ministro degli esteri vaticano, monsignor Gallagher. Durante il Meeting di Rimini era stato avvicinato per commentare la rivoluzione degli ombrelli. Alla domanda della giornalista il prelato è quasi impallidito, ha balbettato che non ne sapeva niente e si è dileguato, lasciando i presenti sbalorditi. Uno dei sogni nel cassetto di Papa Francesco è di poter mettere piede a Pechino. Al momento però questo sogno sembra destinato ad aspettare ancora. Oggi, intanto, il Pontefice sarà ad Hiroshima e Nagasaki, dove pregherà per le vittime del bombardamento e lancerà un messaggio sul disarmo nucleare.

La Chiesa a gamba tesa su Salvini: arriva il manifesto anti sovranista. A due mesi dalle regionali in Emilia Romagna, la Chiesa scende in campo contro Salvini. In arrivo il manifesto anti sovranista dal titolo Odierai il prossimo tuoi. Andrea Indini, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Si sono sempre fronteggiati a distanza. Sin da subito tra l'arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, fatto cardinale da papa Francesco lo scorso 5 ottobre, e il leader della Lega Matteo Salvini non è corso buon sangue. In più di un'occasione il porporato, che qualche mese fa non ha storto il naso quando alla festa del santo patrono sono stati serviti tortellini senza carne di maiale per non infastidire i musulmani, se ne è uscito incolpando i "porti chiusi" del leader leghista per i migranti che muoiono in mare. Da sempre considerato cappellano del Pd, la sua "promozione" è stata salutata con entusiamo non solo dagli ultrà dell'accoglienza, ma anche dalla sinistra più radicale e dalla comunità Lgbt. E ora, a due mesi dalle elezioni regionali in Emilia Romagna, arriva in libreria con un libro dal titolo già di per sé emblematico, Odierai il prossimo tuo (edizioni Piemme), che non solo è un manifesto anti sovranista ma anche un'accusa durissima all'ex ministro dell'Interno.

La mossa elettorale. Quando, nei giorni scorsi, è trapelata sui giornali la notizia che Zuppi e Salvini si fossero incontrati, è serpeggiato parecchio scetticismo. Perché i due sono ideologicamente lontanissimi e difficilmente potrebbero sedersi a un tavolo e trovare dei punti di contatto. "Non l'ho incontrato", ha subito smentito il leader del Carroccio parlando con i giornalisti a margine di un comizio a Rimini. "Sui giornali scrivono tante cose, ieri ho avuto una giornata ricca ma non ho incontrato Zuppi. L'ho scoperto anche io sul giornale". Capitolo chiuso. O quasi. Perché, da qui alle elezioni del prossimo 26 gennaio, i due torneranno a scontrarsi, anche se a distanza. E la doppia pagina che la Lettura del Corriere della Sera gli ha dedicato oggi, ribattezzandolo "l'anti sovranista", è la riprova che si andrà proprio in questa direzione. Il suo libro, che guarda caso viene pubblicato in piena campagna elettorale per le regionali, ripercorre i cavalli di battaglia della chiesa bergogliana e della sinistra anti leghista. "L'accoglienza non è un incubo da evitare, è il modo in cui la società cresce, ringiovanisce, matura", scrive il vescovo di Bologna denunciando il rischio di "non commuoversi più per la condizione di chi non ha nulla o è in pericolo".

Le tesi terzomondiste. "Qualche volta la povertà sembra una colpa e l'aiutare è ridotto a buonismo". Per Zuppi la ricetta sovranista per correggere la globalizzazione è non solo "ingenua", ma soprattutto "pericolosa". "L'enfasi sulle frontiere ha troppo in comune con le ossessioni dei nazionalismi che hanno avvelenato il secolo scorso con due guerre mondiali e il paganesimo della superiorità della razza - accusa il porporato - per dire che i diritti dei 'miei' sono più dei diritti dei 'tuoi' occorre coprire la realtà, creare narrazioni plausibili ma infondate, creare gerarchie tra persone, capri espiatori, nemici, congiure internazionali". Questo modo di pensare, a suo dire, genera odio contro "l'invasione dello straniero". "Oggi c'è ancora tanta fame, ma si rimprovera chi fugge - molti migranti cosiddetti economici - come se la povertà fosse una loro colpa e dovessero restare là, nella loro terra, 'a casa loro' - argomenta ancora - pensiamo come normale diritto di sovranità sbattere la porta in faccia senza nemmeno domandarci in maniera seria, almeno un po', perché sono venuti. 'Europa- fortezza' sembra a tanti una formula suggestiva, muscolare, ma copre una debolezza e ha gli occhi rivolti al passato, non prende sul serio nemmeno il declino demografico del nostro continente". Nel pamphlet, di cui anche Repubblica oggi ha pubblicato ampi stralci, trovano spazio tutte le tesi che fanno gola ai fan dell'immigrazione. Non solo per quanto riguarda l'accoglienza senza se e senza ma. L'apertura di nuove moschee ("nel rispetto delle leggi") viene, per esempio, vista come l'occasione per favorire il dialogo con gli islamici, mentre la cittadinanza facile viene letta come un'occasione per integrare gli extracomunitari. "Se una legge come quella dello ius culturae venisse approvata - spiega Zuppi nel suo libro - porterebbe all'integrazione completa di migliaia di bambini che vivono fianco a fianco con i nostri figli, che studiano le stesse materie, che fanno il tifo per le stesse squadre e amano gli stessi eroi, per farli partecipare da protagonisti alla nostra cultura, alle nostre tradizioni e alla nostra civiltà - continua l'arcivescovo - regole chiare, diritti e doveri ma anche un' opportunità che rende l'integrazione sicura, duratura, possibile".

La partita per le regionali. Oggi Zuppi è il cardinale italiano più giovane. E la sua teologia collima con quella di papa Francesco che all'ultimo concistoro ha appunto voluto premiare questo "prete di strada" che si è formato nella comunità di Sant' Egidio. Una scelta che valica l'organigramma della Chiesa cattolica e che sconfina nella politica. Tanto che, come sottolinea già il Corriere della Sera, il suo Odierai il prossimo tuo può già essere considerato una sorta di manifesto anti sovranista. Anche in Vaticano viene avvertita la portata del voto in Emilia Romagna. La Regione "rossa" per eccellenza rischia davvero di passare, per la prima volta, nelle mani del centrodestra e per di più di una candidata leghista, Lucia Borgonzoni. C'è un sondaggio "segreto" che gira ormai da qualche settimana e che dà il presidente uscente Stefano Bonaccini e il Pd a rincorrere Salvini &Co. Già alle europee dello scorso maggio il Carroccio ha portato a casa più del 33% dei voti. Ora, però, sembra che il Partito democratico si sia del tutto asserragliato nelle grandi città lasciando al "capitano" la possibilità di dilagare nelle periferie e nelle campagne. Da qui il tentativo delle "sardine" (tutte allevate nell'acquario dem) di riprendersi le piazze catalizzando l'odio contro l'ex ministro dell'Interno. Un tentativo, che nonostante l'assist fornito anche da Zuppi, potrebbe cadere a vuoto. Se Salvini e il centrodestra dovessero davvero riuscire nell'impresa di liberare l'Emilia Romagna dal giogo della sinistra, le ripercussioni di questo terremoto politico arriverebbero a farsi sentire sino a Roma. A quel punto Nicola Zingaretti non potrà più far finta di nulla, come ha invece fatto dopo la sonora sconfitta in Umbria, e il governo giallorosso avrebbe definitivamente le ore contate.

"Il Papa sostiene la sinistra. Sta creando confusione". Il leader di Tfp, Julio Loredo: "Il Papa ha sdoganato la Teologia della liberazione. Ma i fedeli cercano la tradizione". Francesco Boezi, Mercoledì 20/11/2019, su Il Giornale. La teologia della liberazione è ancora un problema. Anzi, con l'attuale pontificato, quel modo d'intendere il cattolicesimo ha acquisito spazi e posizioni. Ne sono convinti dalle parti deI cosiddetto "mondo tradizionale", che è molto variegato. Julio Loredo è il presidente per l'Italia dell'Associazione "Tradizione Famiglia Proprietà", che si è distinta pure per la critica mossa nei confronti delle deliberazioni del Sinodo panamazzonico.

Ma la disamina dell'intervistato tocca più punti. Il Sinodo panamazzonico ha contribuito a far emergere posizioni differenti. Voi siete tra coloro che meno ritengono necessario un intervento urgente e sovranazionale per quei territori. Sbaglio?

«L’Amazzonia appartiene ai Paesi amazzonici – Brasile, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Suriname, Guyana, Guyana Francese – che hanno pieno diritto di sovranità sul loro territorio. Introdurre una logica di internazionalizzazione di aree dichiarate di interesse sovranazionale aprirebbe una china pericolosissima. Anzitutto, chi dichiarerebbe una zona come di interesse sovranazionale? Poi, con quale tipo di forza si interverrebbe? Con la forza militare? Come si porrebbe la legittimità dei governi nazionali? Sarebbero ipso facto spodestati o, al meno, coatti da un’autorità mondiale? Che cosa resterebbe allora della democrazia?»

Quali conseguenze avrebbe una impostazione sovranazionale?

«È chiaro che così si aprirebbe una logica interventista e imperialista dalle conseguenze imprevedibili. D’altronde, desta sospetti che tale argomento sia utilizzato quasi esclusivamente contro il Brasile. Per esempio, dato che molti Paesi dell’Unione europea dipendono dal gas russo, dovremmo dichiarare la Siberia zona di interesse sovranazionale? O il Golfo Persico per quanto riguarda il petrolio? Ciò detto, ci sembra che i dati oggettivi – economici, sociali, culturali, ambientali – mostrino che il governo brasiliano sta facendo un lavoro soddisfacente nell’Amazzonia. In altre parole, non c’è nessun motivo per un intervento urgente e sovranazionale per quei territori».

Da un punto di vista dottrinale, è corretto parlare di ritorno del tradizionalismo?

«È un dato di fatto che il tradizionalismo sta crescendo ovunque. Basta vedere i numeri. Non parlerei, dunque, tanto di "punto di vista dottrinale" quanto piuttosto di un dato sociologico che mostra un profondo cambiamento nelle tendenze in crescenti settori dell’opinione pubblica. Si tratta, certo, di un “ritorno”, ma con una nota fondamentalmente innovativa. Infatti, la stragrande maggioranza delle persone coinvolte in questo fenomeno è giovane».

Ma i tradizionalisti sono dei nostalgici?

«Sono persone che non possono essere accusate di nostalgia, cioè di voler ritornare a qualcosa che avevano conosciuto. Che cosa attrae un numero crescente di giovani verso la Tradizione? È un fenomeno complesso, impossibile da analizzare in poche righe. Direi che è un qualcosa di simile al figlio prodigo del Vangelo. Essendo il processo rivoluzionario mondiale giunto a eccessi veramente sconcertanti – aborto, agenda lgbt, droga, eutanasia e via dicendo – dal profondo di molte anime sta sorgendo un desiderio di Ordine, che si traduce poi in vari modi».

Come si declina nella religione questa esplosione tradizionale?

«Questo rinnovato vigore del tradizionalismo è evidente nel campo religioso, per esempio con l’aumento esponenziale delle Messe in Rito antico, frequentate soprattutto da giovani e celebrate da sacerdoti giovani. Oppure nella grande bonanza che sperimentano gli ordini religiosi contemplativi di stretta osservanza. C’è voglia di religione, e concretamente da quella di sempre, non rammollita da elementi liberali. La tendenza è evidente anche in ambito politico, col progresso quasi generale dei partiti di centro-destra. Le recenti elezioni regionali in Umbria ne sono chiaro esempio. È evidente che il vento della storia sta cambiando».

La teologia della liberazione rappresenta ancora un problema?

«La condanna di Giovanni Paolo II nel 1984 e, soprattutto, il fallimento del progetto politico che le serviva da vettore – cioè, il socialismo reale – segnò un periodo di decadenza per la Teologia della liberazione. L’elezione, nel 2013, di un Papa latinoamericano vicino a questa corrente diede invece il via per una sua rinascita. Si parlò prima di "sdoganarla", poi di “farla diventare parte della vita della Chiesa. Oggi, ritengo che sia una delle colonne portanti dell’attuale pontificato».

Voi avete sollevato una serie di perplessità sul Sinodo panamazzonico...

«Ne è prova il recente Sinodo speciale per la regione amazzonica, pensato, organizzato e realizzato da persone e da organismi appartenenti al movimento della Teologia della liberazione, sia nelle sue forme originarie, di ispirazione marxista, sia nelle sue forme aggiornate, cioè la Teologia indigena e la Teologia ecologica. In questo senso, è ovvio che la Teologia della liberazione rappresenti ancora un problema. Anzi. Con questo Sinodo, ha dimostrato un alto grado di organizzazione e di motivazione ideologica. Per non parlare poi della gigantesca macchina di propaganda al suo servizio».

La teologia della liberazione è ancora maggioritaria nelle nazioni di origine?

«La domanda è se conta sull’appoggio dell’opinione pubblica latinoamericana. E la risposta credo sia un secco "No". Già negli anni Sessanta e Settanta, il movimento della Teologia della liberazione era piuttosto roba di minoranze molto agguerrite, sostenute da pochi prelati altrettanto agguerriti. L’immensa maggioranza del clero e dei fedeli rimaneva, invece, silenziosa, dando l’impressione che il movimento fosse corpulento e inarrestabile. Oggi la situazione è alquanto cambiata"».

Mentre il clero e la cosiddetta base...

«Mentre più prelati, sacerdoti e fedeli smettono di essere silenziosi, cresce la reazione contro la Teologia della liberazione. Come un’onda d’urto profonda e possente, la reazione contro il Sinodo amazzonico, per esempio, si è riversata sui social e sui giornali, coinvolgendo un numero enorme di persone. Elemento importante di questa reazione è stato, senza dubbio, l’azione promossa dall’Istituto Plinio Corrêa de Oliveira, specialmente attraverso il sito Pan Amazon Synod Watch».

Che idea vi siete fatti dell’approccio di papa Francesco con le priorità del continente sudamericano?

«Bisogna fare un po’ di storia. Negli anni Sessanta e Settanta, l’America meridionale fu sconvolta da processi rivoluzionari, stimolati da Cuba e speso violenti, che, con l’aiuto della Teologia della liberazione, condussero al potere governi socialisti e perfino comunisti. Senza eccezione, questi esperimenti socialisti si dimostrarono un fallimento, con grande sofferenza per le popolazioni. Con fatica, dagli anni Novanta il continente iniziò a rialzarsi, progredendo con tale forza che oggi vanta ben quattro Paesi nella categoria di "potenza emergente". In poco più di due decenni l’indice di povertà fu dimezzato mentre migliorava la distribuzione della ricchezza. Facevano eccezione Cuba e Venezuela che, afferrate a un socialismo anacronistico, sprofondavano sempre di più nella miseria».

Qual è la situazione in Sud America adesso?

«Mentre la maggior parte dei sudamericani si mostra contenta col ritrovato vigore del continente, i nostalgici del socialismo cercano in ogni modo di tornare al passato. Ciò configura, oggi, uno scontro fra due opposte concezioni dell’uomo, della società e anche della Chiesa, che si contendono la guida del continente. Uno scontro che si dà sia sulle dottrine sia sui progetti concreti. Dall’inizio del suo pontificato, papa Francesco mostrò simpatia per un lato del dibattito, incoraggiando e sostenendo persone e organismi legati alle correnti della sinistra. Ciò ha provocato non poca confusione, non solo per le implicazioni dottrinali di tali prese di posizioni, ma anche per le loro conseguenze concrete, già dimostratesi fallimentari».

La Chiesa a due velocità: Ruini dialoga con Salvini, il Papa pensa all'islam. E Bergoglio offre il pasto a 1.500 poveri senza carne di maiale per rispettare i musulmani. Fabio Marchese Ragona, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. Una Chiesa che dialoga con Salvini e una Chiesa che critica le sue posizioni, soprattutto in tema di migranti. Non si può parlare di spaccatura, forse di sensibilità diverse, ma sicuramente la contrapposizione tradizionalisti/progressisti dell'era Bergoglio che negli anni si è andata sempre più delineando, passa inevitabilmente anche attraverso il dialogo con il leader della Lega, accusato di strumentalizzare i simboli religiosi ma al contempo considerato, da alcuni esponenti della gerarchia cattolica, uno degli ultimi strenui difensori in politica delle radici cristiane. Salvini ha del potenziale e magari quando sfoggia il rosario è perché ci crede davvero, dice il cardinale Camillo Ruini che elogia pubblicamente l'ex ministro dell'interno, invitando la Chiesa a dialogare con lui (come aveva già fatto lo scorso maggio il Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin). Salvini ovviamente ringrazia e, a quanto risulta, grazie alla mediazione del fedelissimo Giorgetti, sarebbe già stato ricevuto in udienza dallo storico «don Camillo», 88enne che fu anima di diverse generazioni di cattolici in politica. Il precedente era del cardinale Raymond Leo Burke, americano esponente di spicco dell'ala tradizionalista, considerato nemico giurato di Papa Francesco (il porporato ha sempre smentito di essere contro Bergoglio pur essendo su posizioni nettamente diverse) che in più occasioni aveva incontrato il leader della Lega incoraggiandolo ad andare avanti. Rimane impressa la frase dell'ex ministro della famiglia, il leghista Lorenzo Fontana: «A Papa Bergoglio preferisco il cardinale Burke». Sarebbe stato proprio Fontana, in realtà, a consigliare a Salvini un avvicinamento al mondo cattolico, cosa che poi si è realmente realizzata, tra Ruini, Burke a altri esponenti della gerarchia incontrati in via riservata. La tanto sperata udienza con Papa Francesco invece non c'è mai stata, non perché il pontefice argentino ce l'abbia a morte col leader della Lega ma più semplicemente perché Salvini, che in passato non ha nascosto le sue critiche contro Bergoglio, non ha mai richiesto ufficialmente di incontrarlo. Del resto il Papa argentino è su posizioni totalmente contrarie a quelle dell'ex ministro; anche ieri lo stesso copione che ormai si ripete da anni: da un lato Salvini che annuncia battaglia per fermare lo ius soli e dall'altro Papa Francesco che alla messa celebrata in San Pietro per la Giornata Mondiale dei Poveri, ha invitato i fedeli a non seguire «chi diffonde allarmismi e alimenta la paura dell'altro, perché la paura paralizza il cuore e la mente». Due posizioni molto distanti l'una dall'altra e che difficilmente potranno trovare un punto d'incontro anche perché il leader della Chiesa può dialogare o ricevere chi non la pensa come lui, ma non può di certo accettare posizioni in contrasto con quanto dice il Vangelo, in questo caso sul tema dell'accoglienza dello straniero. Dopo la messa in San Pietro con centinaia di indigenti, Francesco ha accolto 1500 poveri nell'aula Paolo VI, trasformata per l'occasione in un grande refettorio, per un pranzo a conclusione della giornata di festa. Menù rigorosamente senza carne di maiale per rispettare gli ospiti di fede musulmana. Iniziativa che, come fu per il tortellino bolognese a base di pollo, adesso potrebbe innescare nuove polemiche.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 17 novembre 2019. Dopo i tortellini al pollo in rispetto dei musulmani, Papa Francesco ha fatto servire a 1.500 poveri le lasagne alla bolognese, con il sugo fatto senza la carne di maiale come, invece, vorrebbe la tradizione culinaria tradizionale. Nell'Aula Paolo VI, in Vaticano, è stato servito un menù rigorosamente halal, senza il maiale, per  permettere agli islamici presenti di mangiare senza alcun problema. A specificare questa variante gastronomica è stato  monsignor  Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio della Nuova Evangelizzazione, il dicastero che cura l'organizzazione della Giornata Mondiale del Povero istituita dal Pontefice. La disfida del tortellino al pollo, il modenese Guccini approva: «Che problema c'è?» «Qui non c'e' carne di maiale, anche gli altri ospiti possono mangiare tranquillamente tutto», ha detto Fisichella all'inizio del pranzo. Il mese scorso era stata sollevata una bufera nazionale senza precedenti, soprattutto in Emilia Romagna, dopo che il nuovo arcivescovo di Bologna Zuppi aveva fatto servire in piazza per la festa del santo patrono dei tortellini senza la carne di maiale, ma solo di pollo. Gli emiliani erano insorti indignati e si erano creati subito due partiti, quello dei puristi a difesa della ricetta secolare e quello degli aperturisti, propensi ad adattare le ricette tradizionali alle nuove culture dei migranti.

Papa Francesco, disastro islamico: le frasi antisemite dell'imam accolto in Vaticano. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 17 Novembre 2019. Ha dannatamente ragione, Jorge Mario Bergoglio: il mostro dell' antisemitismo contemporaneo sta rialzando la testa. Probabilmente si è solo dimenticato di ricordarlo a Bergoglio Mario Jorge, che ieri ha ricevuto con sommi onori in Vaticano un manifesto antisemita. Andiamo con ordine. E qualche giorno che Papa Francesco batte sul «rischio antisemitismo», che «non è umano né cristiano». Ieri ha scomodato anche lo spettro perenne del Novecento: «A volte ricompaiono emblemi e azioni tipiche del nazismo», che con le sue persecuzioni «rappresenta il modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell' odio», ha ricordato a una delegazione di penalisti ricevuta in udienza. Chiudendo con l' appello: «Occorre vigilare, sia nell' ambito civile sia in quello ecclesiale, per evitare ogni possibile compromesso - che si presuppone involontario - con queste degenerazioni». Si presuppone involontariamente, poche ore prima il Pontefice aveva abbassato un po' la guardia, e probabilmente si era scordato di «vigilare» sulle «degenerazioni» delle proprie frequentazioni. Sempre in udienza, infatti, aveva ospitato la visita di Ahmad Al-Tayeb, Grande Imam di Al-Azhar, la massima autorità spirituale del mondo islamico sunnita. «Mi riempie tanto di gioia vederla», avrebbe detto Francesco all' interlocutore, donando a lui e alla sua delegazione una scultura a forma di ulivo: «Siate messaggeri di pace», l' invito. Sostegno ai kamikaze - Ed ecco la storia e le gambe che dovrebbero portare in giro per il mondo quest' ambasciata sulla "Fratellanza umana", come si chiama il documento firmato dai due in un precedente incontro di agosto (ormai sono intimi, il che alla luce di quanto segue non lascia serenissimo chiunque sia preoccupato dall' antisemitismo montante). Già quand' era Gran Muftì d' Egitto, ovvero massimo giureconsulto islamico, Al-Tayeb proponeva una serie di pacifiche e fraterne riflessioni a proposito del disteso rapporto che intercorre tra islam e questione ebraica. «La soluzione al terrore israeliano risiede nella proliferazione degli attacchi suicidi che diffondono terrore nel cuore dei nemici di Allah». Attentati che sono legittimati politicamente: «I paesi, governanti e sovrani islamici devono sostenere questi attacchi di martirio». E perfino teologicamente (del resto nella cultura del Grande Imam sono due lati della stessa medaglia, in assenza di qualunque vago cenno di secolarizzazione): «Le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica». Per questi suoi reiterati inviti a far saltare in aria gli ebrei, i civili, le donne, i bambini, Al-Tayeb venne duramente attaccato da un rapporto del Congresso americano, ma evidentemente in queste posizioni Papa Francesco non ravvisa tracce di antisemitismo, nonostante "vigili" notte e giorno. Né pare aver turbato il Santo Padre quell' intervista rilasciata dal suo dirimpettaio al Canale 1 egiziano nell' ottobre 2013, in cui ricacciava il più trito topos dell' antisemitismo storico, quello secondo cui gli ebrei praticano sistematicamente l' usura. Del resto, Al-Tayeb non cela e nemmeno edulcora le proprie opinioni, anzi ha più volte chiamato all' unità il mondo arabo e musulmano contro il «comune nemico sionista». E si tratta di convincimenti radicati, dal momento che già nel settembre 2004, durante uno degli incontri interreligiosi di pace organizzati dalla Comunità di Sant' Egidio, offrì pubblicamente la propria interpretazione del dialogo con l' altro, approvando senza riserve le stragi dei kamikaze palestinesi. Durante una tavola rotonda intitolata "Disarmare il terrore. Un ruolo per i credenti", ebbe l' ironia tragica di affermare che non si può «affibbiare l' etichetta di terrorismo a quella che è solo una reazione di autodifesa per proteggersi da qualcosa, come nel caso della resistenza nei confronti di forze d' occupazione». Dialogo chiuso - Anche a un olfatto particolarmente pigro, pare proprio di sentire tanfo di antisemitismo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere di Ahmad Al-Tayeb. Il quale, per inciso, nel gennaio 2011 ruppe qualsiasi relazione con la Santa Sede, perché l' allora Papa Benedetto XVI aveva condannato l' attentato islamista di Capodanno in una chiesa cristiana copta di Alessandria. Un «intervento inaccettabile negli affari dell' Egitto», tuonò l' imam, altro che fratellanza universale. E aggiunse che avrebbe considerato chiuso qualsiasi dialogo con la Chiesa cattolica finché Benedetto non si fosse scusato pubblicamente. Cosa che ovviamente Ratzinger si guardò bene dal fare. Altri tempi, e altri Papi. Giovanni Sallusti

«Diffamò Matteo Salvini»: condannato don Giorgio De Capitani. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. Condannato per aver diffamato il leader della Lega Matteo Salvini. Don Giorgio De Capitani, 81 anni, casa a Dolzago, dove ancora celebra le funzioni religiose, ex parroco di Monte a Rovagnate, nella Brianza lecchese, dovrà versare una pena pecuniaria di 7.500 euro, oltre al pagamento delle spese processuali. Il giudice del tribunale di Lecco Nora Lisa Passoni ha disposto inoltre che il sacerdote paghi a Salvini 7 mila euro come risarcimento. Il religioso è stato riconosciuto colpevole per gli insulti rivolti al leader del Carroccio in quattro post pubblicati sul proprio blog tra marzo e ottobre del 2015. «Un’attività diffamatoria reiterata nel tempo. Il dissenso politico è un valore in sé da tutelare nella nostra democrazia, ma la critica deve avvenire nei modi e nei termini previsti dalla legge, senza offese», ha rimarcato il pubblico ministero Paolo Del Grosso. Il sacerdote, tra l’altro, era arrivato a dire in una trasmissione radiofonica che c’era «il diritto di uccidere Salvini». Soddisfatta della sentenza si è detta l’avvocato del leader della Lega, Chiara Eccher, al termine dell’udienza che lunedì ha visto la deposizione di Luca Morisi, responsabile della comunicazione di Matteo Salvini. I legali del sacerdote, Marco Rigamonti ed Emiliano Tamburini, avevano chiesto l’assoluzione. «La legge italiana è ottusa. Ho pubblicato un commento sul ruolo e l’attività del politico, non sulla sua persona. A Salvini non ho fatto alcun danno», il commento di don Giorgio.

Da ilgiorno.it il 18 novembre 2019. «Condannatemi ancora nei tribunali uscirò sempre a testa alta, “onorato” di aver dato per lo meno fastidio al potere, e di aver suscitato qualche allarme tra la massa che pensa solo a campare Spezzatemi pure ma non mi piegherò!». Così ha scritto sul proprio sito don Giorgio De Capitani, condannato a Lecco per diffamazione dopo una querela di Matteo Salvini. «I miei difensori hanno evidenziato che Salvini ha detto il falso sotto giuramento», ha scritto il sacerdote sottolineando che «hanno evidenziato che mi ha accusato di un reato grave, sapendo bene che non avevo istigato nessuno ad ucciderlo». «Né le querele né le condanne mi frenano - sottolinea l'ex parroco di Monete di Rovagnate - anzi servono a stimolarmi con maggiore determinazione». Condannato lunedì scorso a seguito di una querela di Matteo Salvini, don Giorgio ha spiegato che «più gli ostacoli sono tosti, le difficoltà sembrano insormontabili, la politica partitica fuoriesce di strada assumendo personalismi populisti da farmi inorridire, più tiro fuori dal mio essere interiore l'energia che ritengo la "migliore", anche se può assumere talora nel linguaggio toni e vocaboli poco ortodossi alle orecchie dell'opinione pubblica». «Non lotto solo contro un sistema politico corrotto o poco consono al perseguimento del Bene comune - ha aggiunto - ma vorrei che il mio lottare servisse anche per risvegliare la coscienza di qualcuno tra la massa dormiente. Ho più di 80 anni - è la sua conclusione - e per me sarebbe per lo meno da sciocco cedere ora, riponendo le armi e lasciando perciò via libera ai prepotenti».

Padre Sorge: «Ruini sbaglia a benedire Matteo Salvini. Il Vaticano fece lo stesso col Duce». Il grande gesuita racconta i suoi tre Papi, la politica e gli attacchi contro Bergoglio. «Ci vuole un sinodo della chiesa italiana. Per dire che odio, razzismo e chiudere  i porti ai naufraghi sono contro il vangelo». Marco Damilano su L'Espresso il 15 novembre 2019. Nella mia lunga vita ho avuto tre sogni: diventare un santo sacerdote gesuita; impegnarmi con tutte le forze nella costruzione della città dell’uomo; realizzare con fede e amore la Chiesa del Concilio, rinnovata, libera dal potere, povera, in dialogo con il mondo. Il primo sogno, ahimè, è ancora tale, ma ho fiducia che il Signore lo compirà. Il secondo sogno l’ho visto realizzarsi progressivamente nel lungo arco della mia vita, soprattutto negli anni ’80, quando mi trovai a combattere la mafia che in Sicilia mirava al cuore dello Stato. Gli undici anni vissuti a Palermo li ho passati quasi tutti sotto scorta armata. Agostino Catalano, uno dei miei “angeli”, saltò in aria con Paolo Borsellino. Purtroppo non potei essere vicino a lui e alla sua famiglia, perché mi trovavo in America Latina. Il terzo sogno lo rincorro da 50 anni (cioè, dalla fine del Concilio), metà dei quali alla Civiltà Cattolica, accanto a tre grandi papi». También están los jesuitas, si diceva in America Latina: se la situazione è disperata, ci sono i gesuiti. Eccone uno illustre, un grande vecchio italiano. Padre Bartolomeo Sorge il 25 ottobre ha compiuto novant’anni, parla nella casa di Gallarate che ospitò negli ultimi anni il cardinale Carlo Maria Martini. Ha diretto dal 1973 al 1985 la rivista Civiltà Cattolica, ha promosso la “primavera di Palermo” con il sindaco Leoluca Orlando negli anni ’80. Oggi usa i social. Un tweet su Matteo Salvini: «Non basta baciare in pubblico Gesù: l’ha già fatto anche Giuda». Si calca un basco nero sul capo e si racconta.

Nella leggenda nera dei suoi avversari lei è stato un potente gesuita, influente nella Chiesa e tra i politici cattolici. È vero che stava per essere nominato cardinale?

«L’ho saputo con certezza solo di recente, leggendo i documenti pubblicati da Stefania Falasca nel suo libro sulla morte di papa Luciani. Ho appreso che Giovanni Paolo I voleva mandarmi patriarca a Venezia al suo posto, rimasto vacante dopo la sua elezione al pontificato. Provvidenzialmente il cardinale Antonio Poma, presidente della Cei, si oppose e la ebbe vinta. Per due motivi. Il primo fu che, dopo la lettera di Enrico Berlinguer al vescovo Luigi Bettazzi, avevo auspicato che i cattolici non temessero di confrontarsi culturalmente con i comunisti. Il secondo, che fin dalla relazione finale che tenni al convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e promozione umana” (1976), prevedendo la fine della Dc, mi davo da fare affinché si trovasse un modo nuovo di presenza politica dei cattolici in Italia, diverso dal partito democristiano. Fu così che persi la gondola...».

Lei è un italiano del ’900. Che formazione ha avuto?

«Sono nato a Rio Marina, nell’isola d’Elba. La mia famiglia si trattenne qualche tempo in Toscana e poi si trasferì in Veneto. Morto mio papà in guerra, non ci siamo più mossi da Castelfranco. A 17 anni entrai nella Compagnia di Gesù, desideroso soprattutto di dedicarmi all’apostolato spirituale. Non avrei mai immaginato di finire in politica! Studiai filosofia nella facoltà dei gesuiti milanesi e teologia in Spagna, all’Università di Comillas. Erano gli anni della dittatura di Franco e, come da noi durante il fascismo, circolavano le barzellette. Un esempio? Un signore - raccontavano - giunge di corsa, tutto trafelato, al palazzo del Caudillo. Lo fermano: “Che cosa vuole? Perché tutta questa fretta?”. “Devo sparare un colpo a Franco”. “Beh! Allora si metta in coda!”».

Subito però i suoi superiori la spostarono sulla politica.

«È così. Terminata la formazione, nel 1960, fui inviato subito alla Civiltà Cattolica. Direttore era padre Roberto Tucci. Avevo appena 30 anni, mi concessero cinque anni di tempo per specializzarmi. Dopo un biennio alla facoltà di Scienze Sociali dell’Università Gregoriana, mi laureai in scienze politiche alla Sapienza di Roma e cominciai a “scarabocchiare” sulla rivista, Divenni così politologo, giornalista e vice-direttore, finché il generale dei gesuiti padre Pedro Arrupe, nel 1973, mi nominò direttore. In quella posizione, privilegiata ma piena di responsabilità, fui testimone diretto del periodo più difficile del post-Concilio. Gli anni esaltanti della rinascita e della nuova e tormentata primavera ecclesiale».

Gli anni, anche, dell’inverno: il terrorismo, le divisioni e la contestazione nella Chiesa, la fine del pontificato di Paolo VI e l’elezione del papa polacco Giovanni Paolo II che si abbatté sul cattolicesimo italiano.

«Finché visse Paolo VI, ebbi sempre le spalle coperte. Il papa mi voleva bene e mi incoraggiava. Un giorno, in un’udienza privata, mi disse: “Lei, padre, fa sempre un passo avanti, prima che arriviamo noi”, ma aggiunse subito: “vada avanti! Prosegua sempre nella fedeltà adulta al Magistero della Chiesa” (parole sue!). Nei dodici anni della mia direzione, la rivista fu sempre improntata alla linea di papa Montini. Le prime difficoltà iniziarono per me nel 1978 quando, morto Paolo VI e dopo la meteora di papa Luciani, venne eletto papa Giovanni Paolo II. Nella Chiesa italiana il clima cambiò visibilmente. A partire dal Convegno ecclesiale di Loreto nel 1985, l’interpretazione profetica del Concilio, sostenuta con coraggio e sapienza da Montini, fu lasciata cadere. La visione wojtyliana di una Chiesa “forza sociale”, apertamente schierata in difesa dei “valori non negoziabili”, prese il sopravvento sulla visione montiniana della Chiesa del dialogo e della “scelta religiosa”».

La scelta religiosa era il distacco dal collateralismo, del voto per la Dc. Contestata dal nuovo potere forte del mondo cattolico: Comunione e liberazione.

«Il modello principale dell’impegno dei laici nel mondo, costituito dall’Azione Cattolica, fu messo in discussione dall’affermarsi del nuovo stile battagliero e militante di Comunione e Liberazione, più vicino allo stile di papa Wojtyla. In una intervista al Sabato (settimanale di Cl) mi permisi di farlo notare: “Se oggi avessi 17 anni, sarei certamente un ciellino. Infatti trovo in Cl quell’entusiasmo che ieri, da ragazzo, mi attrasse nell’Azione Cattolica. Il problema è che, tra ieri e oggi, c’è stato di mezzo il Concilio, il quale ha spiegato chiaramente che il Signore ci comanda di salare il mondo, non di trasformare il mondo in una saliera!” Non l’avessi mai detto! Non me l’hanno più perdonato, neppure a distanza di anni».

Infatti lei fu estromesso dalla direzione di Civiltà Cattolica.

«Di fronte alle crescenti difficoltà che incontravo nel mantenere la rivista fedele alla linea montiniana, ne parlai con il padre generale Hans-Peter Kolvenbach: “Se bisogna cambiare linea editoriale, è meglio cambiare il direttore”. Quando fui destinato a Palermo, in molti scrissero: padre Sorge è stato spedito in esilio. In realtà, il Centro Studi Sociali dei gesuiti di Palermo stentava a decollare, mentre la situazione in Sicilia era drammatica. Bisognava fare qualcosa. Nacque così l’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe, che segnò l’inizio del proliferare delle scuole sociali e politiche, un po’ in tutte le diocesi italiane».

Il centro Arrupe approvò e sostenne la giunta di Leoluca Orlando con la Dc e insieme il Pci, che, alla fine degli anni ’80, diede origine alla Primavera di Palermo, divenendo un caso nazionale. Per questo, lei e padre Ennio Pintacuda foste attaccati dai socialisti con Claudio Martelli, dagli andreottiani e perfino dal presidente Cossiga. Vi paragonavano ai gesuiti rivoluzionari del ‘700 in America Latina, quelli del film “Mission”...

«Mi rendevo perfettamente conto della delicatezza della situazione politica, che si sarebbe creata dando vita alla giunta di Palermo. Ma era necessario farlo, se si voleva rompere il predomino che la mafia aveva in città. Ricordo il decisivo intervento di Sergio Mattarella, che al telefono, senza mai alzare la voce ma portando convincenti ragioni politiche, vinse in extremis le ultime resistenze di chi a Roma si opponeva al varo della giunta Orlando. Fu un’esperienza difficile, ma piena di speranza».

Il 16 novembre 1989, in Salvador, sei gesuiti e due donne furono trucidati all’università dagli squadroni della morte. Tra loro il rettore padre Ignacio Ellacuría. In Sicilia in quegli anni la mafia uccise un prete, padre Pino Puglisi, e lei girava sotto scorta.

«Furono anni terribili. Ma non dimenticherò mai la gioia che provai quando vidi l’intera città di Palermo reagire apertamente contro la mafia, superando la paura e l’omertà che l’avevano tenuta a lungo inchiodata. Finalmente si era svegliata la coscienza popolare, reagendo alla rassegnazione dominante, che mi aveva impressionato negativamente, quando giunsi in Sicilia».

Che pontefice è il primo gesuita papa, Francesco?

«Per me, è una prova che Dio guida la storia e la Chiesa. C’era bisogno di un papa che avesse il coraggio evangelico di riprendere il cammino della riforma interna della Chiesa, voluta dal Concilio, proseguendo l’opera iniziata da Paolo VI e rimasta interrotta con la sua morte, dopo che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, con altrettanta generosità, si erano spesi per rinnovare i rapporti ad extra della Chiesa con il mondo. Erano da prevedere le reazioni violente, che oggi si abbattono su papa Francesco da parte di chi, in fondo, dimostra solo di non aver veramente accettato il Concilio».

Qual è lo scontro nella Chiesa di papa Bergoglio?

«Il problema sta nella interpretazione del Concilio. Nella Chiesa si sono confrontate, fin dall’inizio, la lettura profetica, fatta da Giovanni XXIII, da Paolo VI e da Papa Luciani, e l’altra lettura (del tutto legittima) di natura prevalentemente giuridica, come si è sempre applicata in passato nella interpretazione dei testi dei 20 precedenti concili ecumenici. Non si tratta di un confronto astratto e teorico, coinvolge la vita concreta e le scelte quotidiane dei cristiani».

Vale anche per la Chiesa italiana? In Italia le chiese si svuotano e la maggior parte degli italiani si disinteressa delle discussioni interne dei vescovi e del clero. Mentre, per beffa, la rappresentazione del cristianesimo sembra occupata sulla scena pubblica da Matteo Salvini, che brandisce la corona del rosario nelle piazze e perfino nell’aula del Senato?

«Credo che nella Chiesa italiana si imponga ormai la convocazione di un Sinodo. I cinque Convegni nazionali ecclesiali, che si sono tenuti a dieci anni di distanza uno dall’altro, non sono riusciti - per così dire - a tradurre il Concilio in italiano. C’è bisogno di un forte scossone, se si vuole attuare la svolta ecclesiale che troppo tarda a venire. Solo l’intervento autorevole di un Sinodo può avere la capacità di illuminare le coscienze sulla inaccettabilità degli attacchi violenti al papa, sulla natura anti-evangelica dell’antropologia politica, oggi dominante, fondata sull’egoismo, sull’odio e sul razzismo, che chiude i porti ai naufraghi e nega solidarietà alla senatrice Segre, testimone vivente della tragedia nazista della Shoah, sull’assurda strumentalizzazione politica dei simboli religiosi, usati per coprire l’immoralità di leggi che giungono addirittura a punire chi fa il bene e salva vite umane. La Chiesa non può più tacere. Deve parlare chiaramente. È suo preciso dovere non giudicare o condannare le persone, ma illuminare le coscienze».

Però un ecclesiastico importante ha parlato, è il cardinale Camillo Ruini. Per dire che Salvini reagisce alla scristianizzazione e con lui la Chiesa deve parlare, per farlo maturare. Lei lo esorcizza, Ruini lo benedice.

«Nella storia della Chiesa italiana, Ruini è l’ultimo epigono autorevole della stagione di papa Wojtyla. Giovanni Paolo II, dedito totalmente alla sua straordinaria missione evangelizzatrice a livello mondiale, di fatto rimise nelle mani di Ruini le redini della nostra Chiesa, nominandolo per 5 anni segretario generale della Cei, per 16 anni presidente dei vescovi e per 17 anni vicario generale della diocesi di Roma. Per quanto riguarda il suo atteggiamento benevolo verso Salvini, dobbiamo dire che è del tutto simile a quello che altri prelati, a suo tempo, ebbero nei confronti di Mussolini. Purtroppo la storia insegna che non basta proclamare alcuni valori umani fondamentali, giustamente cari alla Chiesa, se poi si negano le libertà democratiche e i diritti civili e sociali dei cittadini».

Ruini afferma anche di considerare irrilevante e finito il ruolo dei cattolici democratici, che lui chiama «il cattolicesimo politico di sinistra», e invece si compiace per la sua scelta di influenzare il centrodestra: quasi la rivendicazione di un ruolo strategico. Anche per lei è così?

«Una opinione personale, per quanto autorevole e degna di rispetto, non riuscirà mai a cambiare la storia o a riscriverla in modo diverso da quella che essa veramente fu».

E di Matteo Renzi che pensa? Anche lui è un bersaglio dei suoi tweet.

«Ripeto il giudizio che ne ho dato pochi giorni fa. È impressionante vedere che, nel momento in cui la crisi politica si fa più acuta, emerge sempre l’uno o l’altro personaggio che mira a porsi come l’uomo solo al comando, l’uomo della Provvidenza. Sia Berlusconi, sia Renzi, sia Salvini mostrano la medesima propensione. Nessuno di loro, dopo le sconfitte subite, ha mai pensato di farsi da parte, come sarebbe stato logico e onesto. Ciascuno di loro ha continuato a ritenersi il salvatore d’Italia! È un sintomo caratteristico del populismo, di una malattia mortale della democrazia, che più di una volta, ha già spianato la strada a regimi totalitari e alla dittatura».

Faccia un altro sogno, in conclusione.

«La mia è un’età, nella quale i sogni non si fanno più, ma si raccontano. Rimane invece sempre viva la speranza, che come si dice è l’ultima a morire. La mia speranza è questa: che i giovani, dopo aver letto il racconto che ho fatto dei tre sogni della mia vita, continuino - loro sì - a sognare e s’impegnino con entusiasmo a proseguire il rinnovamento della Chiesa e dell’Italia».

La "rivolta" dei ruiniani contro il no dei vescovi al dialogo con Salvini. L'ex vertice della Cei Nunzio Galantino ha chiuso alle "vecchie collateralità" dopo le frasi di Ruini sul dialogo con Salvini. E i laici allora si organizzano. Nasce l'associazione dei "Ruiniani", che è presieduta dall'onorevole Eugenia Roccella. Francesco Boezi, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. La Cei non ha intenzione di aprire le porte alla dialettica con la Lega e con le forze affini? Nel caso fosse davvero così, vorrà dire che ci penserà qualcun altro. Le dichiarazioni del cardinal Camillo Ruini, quelle sulla necessità che la Chiesa cattolica dialoghi anche con Matteo Salvini, stanno producendo effetti. Uno di questi - forse il più importante - è la costituzione di un'associazione, denominata "Progetto Culturale", che intende in qualche modo dare seguito alle indicazioni dell'ex vertice della Cei. Sono i cosiddetti "Ruiniani" d'Italia: coloro che la pensano come il cardinale. Gli stessi che magari rimpiangono un episcopato attento a non alimentare fenomeni di polarizzazione politica e schemi troppo divisivi. Il presidente di questa rinnovata realtà è un'ex onorevole di Forza Italia, ossia Eugenia Roccella, che è stata una delle protagoniste indiscusse della stagione in cui i vescovi italiani hanno triangolato volentieri con le forze politiche in funzione di quello che viene chiamato "bene comune". Ricorderete del caso di Eluana Englaro. All'epoca la questione migratoria non era ancora esplosa. Le priorità dei consacrati della Cei erano altre. E le battaglie bioetiche rappresentavano il principale interesse dei presuli del Belpaese».

Onorevole Eugenia Roccella, qualcuno ha paura del cardinal Ruini?

«Sembra di sì. La sua intervista al Corriere è ormai di oltre 20 giorni fa, e da allora proseguono ininterrotte, ogni giorno, le prese di posizione a favore o contro. Il motto del cardinale, quando guidava la chiesa italiana, era "meglio contestati che irrilevanti", ed è evidente che la sua capacità di influire sul dibattito pubblico è rimasta immutata. Alcuni hanno rasentato il ridicolo per la violenza delle espressioni usate (ricordo che c'è chi ha parlato di Hitler), ma in genere l'acidità di certi commenti la dice lunga su quanto le misurate e sagge parole di Ruini, sia sul rapporto con la Lega che sulla delicata questione dei sacerdoti coniugati, abbiano dato fastidio».

Ma dialogare con il centrodestra non dovrebbe essere prassi per il mondo ecclesiastico?

«La Chiesa ha una lunga tradizione di alta diplomazia, che è stata spesso preziosa per appianare o ammorbidire i conflitti, e ha sempre dialogato con chiunque, anche con regimi ostili e dittatoriali. E' normale che parli con i rappresentanti del centrodestra italiano, non farlo vuol dire dare di sé un'immagine schierata, di parte, e consegnarsi all'irrilevanza. Ma aldilà dei commenti di qualcuno, sono convinta che la Cei sia ben consapevole di questo, e che agirà di conseguenza».

Eppure Galantino ha detto "no" alle "vecchie collateralità"...

«Qui non si tratta di collateralismo, che non c'è più dai tempi della fine della DC. Proprio per questo è più che mai necessario che la Chiesa parli con tutte le forze in campo. La visione creaturale dell'uomo fatto a immagine di Dio, e quindi l'idea della centralità della persona, la stessa concezione della politica come mezzo per perseguire il bene comune, si sta perdendo man mano che avanza la secolarizzazione, e che l'occidente, l'Europa in particolare, smarrisce le proprie radici cristiane. E' fondamentale oggi che la Chiesa faccia sentire la sua voce, e che sia un forte riferimento per tutti, anche per i non credenti».

Qual è l'obiettivo della associazione che avete costituito?

«Non è certo casuale che la nostra associazione prenda il nome dal famoso "Progetto culturale" di Ruini. E' da lì che vogliamo partire, dall'idea che il cristianesimo possa e debba influire sulla cultura contemporanea, intendendo per cultura non solo quella "alta" ma quella che viviamo tutti i giorni, il nostro stile di vita, la mentalità, il costume. I cattolici sono tra i pochi ad avere ancora una visione, un progetto per il nostro paese. Vogliamo poterlo offrire anche alla politica, che è sempre meno disposta a costruire il domani, perché deve inseguire il consenso giorno per giorno, in una perenne campagna elettorale».

Lei rimpiange i tempi della cosiddetta "gestione Ruini" della Cei? Il caso Englaro fu esemplificativo..

«Ruini è persona di grande intelligenza e carisma, ed è stato protagonista di una stagione molto intensa, in cui per esempio sulla questione antropologica, sulla difesa della vita umana e della famiglia, c'era un grande dibattito, che si allargava oltre il mondo cattolico: era l'epoca degli "atei devoti", l'epoca in cui il caso Englaro aveva scatenato una discussione che coinvolgeva l'intero paese. Per salvare una vita umana si arrivò al conflitto tra le più alte cariche dello stato: Berlusconi, allora presidente del consiglio, e Napolitano, presidente della repubblica, che rifiutò di firmare il decreto legge che avrebbe impedito la morte per fame e sete di Eluana. Ma dobbiamo prendere atto che i tempi sono profondamente mutati».

Quali preoccupazioni, da un punto di vista bioetico, in relazione all'avvento dei giallorossi?

«Non sono molto preoccupata, nonostante i 5S siano sempre stati i più estremisti sulle questioni etiche e antropologiche. Ma la verità è che ormai le leggi sui temi decisivi sono già tutte passate, e resta ben poco di cui preoccuparsi. E' passato il matrimonio omosessuale (chiamarle unioni civili è una finzione), con la possibilità di ricorrere tranquillamente all'utero in affitto, è passata l'idea della genitorialità fai-da-te, per cui la filiazione è un diritto individuale, non più legato alla coppia e alla procreazione naturale, è passata l'eutanasia, sia pure mascherata, con la legge sul testamento biologico, e oggi la Corte costituzionale ha completato l'opera. Di che dovremmo avere paura?»

Servirebbe un Ruini insomma...

«Credo che oggi tocchi a noi laici darci da fare, lavorare per sensibilizzare l'opinione pubblica e la politica sul futuro che stiamo costruendo, sui pericoli che corriamo, e di cui spesso non siamo pienamente consapevoli. Penso che oggi serva più che mai un progetto culturale, per riaprire un dibattito che si è appannato, ed evitare che il mondo cattolico si confini, o venga confinato, nella marginalità».

Papa Francesco, l'affondo di Antonio Socci: "Il suo slogan in sintesi? Prima gli islamici". Libero Quotidiano il 18 Novembre 2019. La carne di maiale non è solo gustosa cucina, ma anche civiltà italiana, come il vino e il parmigiano. Non a caso "November porc", che è in corso in Emilia, è la maggiore manifestazione europea dedicata al maiale. Chissà se un giorno sarà "scomunicata" o soppressa per non urtare i musulmani. Viene da pensarlo dopo che ieri papa Bergoglio, ritenendo di compiacere gli islamici, ha messo al bando il maiale dal pranzo dei poveri in Vaticano. Un' idea analoga ai ridicoli tortellini "demaializzati" inventati due mesi fa dalla Curia di Bologna, sempre per lo stesso motivo. Sul Corriere della sera, Marco Cremonesi, ieri ha definito quella dei tortellini una fake news. Ma è una notizia così certa che sullo stesso Corriere, il 3 ottobre scorso, Ernesto Galli della Loggia le dedicò l' editoriale intitolato: "Una sfida epocale alla Chiesa". Attualissimo oggi di fronte alla trovata di Bergoglio smanioso di piacere al mondo islamico. «Qui non c' è carne di maiale, anche gli altri ospiti possono mangiare tranquillamente tutto», ha spiegato mons. Rino Fisichella, che ha organizzato il pranzo. Così i poveri (cattolici, agnostici o atei) che per una volta avrebbero potuto mangiare carne hanno dovuto rinunciarci. Un' idea punitiva dei poveri non islamici. La trovata bergogliana si potrebbe sintetizzare con lo slogan: prima i musulmani. E non è solo una questione di cucina. Galli della Loggia in quell' editoriale scriveva: «ci sono ragioni ben più importanti di quelle dei buongustai per continuare a ragionare intorno alla decisione di bandire la carne di maiale dalla preparazione dei tortellini. Perché qui non si tratta tanto delle "nostre tradizioni" o di altre cose simili. Si tratta, a me pare, di alcuni decisivi indirizzi di fondo della Chiesa Cattolica». Galli parlava della «tendenza ormai avvertibile per mille segni» a sciogliere il cattolicesimo «nell' indistinto». Da anni - scriveva l' editorialista - a livello planetario avanza «un' ideologia etica» basata sui «diritti umani» e «di essa sono venuti progressivamente a far parte, insieme alla crescita continua dei suddetti diritti, il pacifismo, l' ecologismo, l'antisessismo e quant'altro potesse essere compreso in un' indistinta prospettiva mondialistico-buonista sotto l' egida di qualche organizzazione o movimento internazionale». Tutto questo ha posto il cattolicesimo davanti a «una sfida interamente inedita», perché «una morale anch'essa universale, d' ispirazione naturalistica e di tono fortemente laico» gli contende il campo. La Chiesa di Bergoglio risponde a questo fenomeno tendendo - dice Galli - «a deporre ogni tratto della propria identità storica che denunci uno scostamento troppo marcato dai principi dell' indistinto etico-mondialista». Cioè si arrende. Un' adesione suicida all' ideologia multiculturalista che porta a rifiutare ciò che è cristiano o occidentale per sottomettersi alle culture altrui come quella islamica. Benedetto XVI aveva così descritto questa ideologia: «C' è qui un odio di sé dell' Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l' Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L' Europa ha bisogno di una nuova - certamente critica e umile - accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie». Il Pd in perfetta sintonia con Bergoglio ieri - per bocca del segretario Zingaretti - ha rilanciato l' idea dello "ius soli" e dello "ius culturae" per migliaia di immigrati.

Perfino i grillini - con buon senso - hanno obiettato: «C'è mezzo paese sott'acqua e uno pensa allo ius soli? Siamo sconcertati». Oltre agli allagamenti è in corso la tragedia dell' Ilva, con ventimila famiglie che rischiano di trovarsi sulla strada e i "progressisti" pensano allo ius soli per gli immigrati. A loro non importano gli italiani. Del resto gli immigrati con lo ius soli potranno fare ciò che gli italiani non vogliono più fare: per esempio votare Pd. Antonio Socci

Quella parrocchia che ogni venerdì il parroco trasforma in moschea. Alla periferia di Roma un sacerdote ha messo a disposizione della comunità musulmana una sala parrocchiale. Il parroco assicura: "Pregano senza toccare i nostri simboli". Ma l'iniziativa fa discutere. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Venerdì 08/11/2019, su Il Giornale.  Centocinquantotto musulmani pregano all’ombra di un crocefisso d’oro, circondati da icone religiose e simboli cristiani. Una scena difficile da immaginare ai tempi d’oggi. Tempi in cui i simboli dell’Occidente sono sotto attacco. Non solo in Medio Oriente, dove i jihadisti hanno devastato centinaia di chiese, ma anche al di qua del Mediterraneo. All’ormai storica battaglia anti-crocifisso nelle aule si è unito anche il ministro grillino dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti che, di recente, ha dichiarato: “Ritengo che le scuole debbano essere laiche e permettere a tutte le culture di esprimersi non esponendo un simbolo in particolare”. È questione di rispetto e sensibilità, dicono. Eppure da Montespaccato, popolosa periferia multietinica a nord est della Capitale, arriva una lezione diversa. Da quasi quattro anni, infatti, nella parrocchia di Santa Maria Janua Coeli è in corso un esperimento di dialogo interreligioso che smonta le tesi propagandate dai crociati del laicismo. È iniziato tutto nel 2016 da un sequestro, quello della moschea abusiva di via Montenovesi, a Boccea. Che fare? L’idea viene all’imam, Nafea Ahmmad, che un bel giorno decide di bussare alla porta di padre Antonio Sconamila. La richiesta è da non credere: “Possiamo venire qui a pregare?”. Il sacerdote lì per lì rimane spiazzato. Temperamento cagliaritano e un trascorso da missionario alla periferia del mondo, dopo poco il don accetta la sfida. Da allora, ogni venerdì pomeriggio, la saletta parrocchiale al pianterreno accoglie centinaia di islamici. Ma ad una condizione: quella di non levare i simboli cristiani che ornano lo spazio. Una richiesta irricevibile per alcuni musulmani. “Qualcuno - confessa il leader religioso - si è allontanato dalla comunità, ma si è trattato di una minoranza”. L’essenza del Corano raccontata da quest’uomo barbuto è ben diversa da quella degli estremisti. “Siamo figli dello stesso Dio”, è la sintesi. Dal canto suo, anche padre Antonio, ha dovuto combattere con la diffidenza di parrocchiani e residenti. Non tutti ancora hanno accettato questa situazione. “Si sono presi i nostri negozi, le nostre case, adesso anche la chiesa? Non è giusto”, tuona un’ottantenne. C’è chi teme che la parrocchia si trasformi in un moschea e chi, invece, si pone il problema della sicurezza. “La polizia è al corrente di quello che accade qui e i controlli sono frequenti”, assicura il padre. Rassicurazioni che non sono servite a spegnere le polemiche. Anzi, sui gruppi Facebook dedicati al quartiere gli utenti si sono sbizzarriti a suon di meme e commenti. “Hanno pubblicato un fotomontaggio che mi raffigura accanto ad un kebab e uno della parrocchia sormontata da una mezzaluna”, spiega il religioso. La replica? “Sono contento di queste reazioni negative, Gesù Cristo ha detto con molta chiarezza: Beati voi quando vi insulteranno...”. Duro sulla questione il consigliere municipale della Lega, Daniele Giannini: “Sarebbe meglio che il parroco pensasse a fare proselitismo più che esperimenti sincretisti”. E ancora: “Il rischio è che in parrocchia, da qui a qualche anno, ci saranno più musulmani che cristiani”. Ma il sacerdote ha la risposta pronta. Ed è una vera e propria rivelazione: “Ci sono due musulmani che attraverso la frequentazione della parrocchia e della attività caritatevoli si sono avvicinato alla nostra religione". La conversione è vicina. 

Il Papa: «Perseguitare gli ebrei non è un atto umano né cristiano». Il Dubbio il 14 Novembre 2019. Il monito del Pontefice: sulla rinascita dell’antisemitismo: «gli ebrei sono fratelli e non vanno perseguitati». Perseguitare gli ebrei, come sta ricominciando ad avvenire, «non è umano nè cristiano». È l’avvertimento lanciato da Papa Francesco nel corso dell’udienza generale di ieri mattina. Lo spunto per la riflessione lo dà la lettura degli Atti degli Apostoli che racconta di Paolo ricevuto in casa da una famiglia di Corinto: moglie e merito costretti a lasciare Roma per il provvedimento di espulsione della locale comunità ebraica decisa dall’imperatore Claudio. «Apro una parentesi», ha detto il Pontefice interrompendo la lettura del suo intervento. «Il popolo ebreo ha sofferto tanto nella sua storia. Il secolo scorso ha visto le tante brutalità che compiute nei suoi confronti. Eravamo convinti che fosse finito, invece oggi inizia a riprendere l’abitudine di perseguitare gli ebrei. Non è nè umano, nè cristiano», ha proseguito, «gli ebrei sono fratelli e non vanno perseguitati».

Il Papa: «Non farsi sedurre da chi urla e alimenta paure». Pubblicato domenica, 17 novembre 2019 da Corriere.it. Pasta al forno, un secondo di pollo (bandita la carne di maiale per non escludere gli ospiti mussulmani) con contorno di purè. Poi frutta, dolce e caffè e da bere, oltre all’acqua, aranciata e Coca cola. E’ il menù del pranzo che papa Francesco ha offerto a 1.500 indigenti e senzatetto nell’Aula Paolo VI, in Vaticano, a conclusione della terza Giornata mondiale dei poveri, da lui istituita. Il Pontefice si è seduto accanto a un senzatetto di Domodossola, che ha pianto di commozione mentre lo aspettava. Alla fine del pranzo per tutti ci sono stati dei pacchi dono, offerti da una ditta molisana produttrice di pasta, come ha spiegato monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio della Nuova Evangelizzazione, che ha curato l’organizzazione. E ai poveri e all’invito a tutti i cattolici a prendersene cura è stata dedicata tutta la giornata di Francesco: a partire dalla Messa solenne celebrata in mattinata in San Pietro: «Quante volte ci lasciamo sedurre dalla fretta di voler sapere tutto e subito, dal prurito della curiosità, dall’ultima notizia eclatante o scandalosa, dai racconti torbidi, dalle urla di chi grida più forte e più arrabbiato, da chi dice «ora o mai più». Non va seguito chi diffonde allarmismi e alimenta la paura dell’altro e del futuro, perché la paura paralizza il cuore e la mente. Questa fretta, questo tutto e subito, non viene da Dio. Se ci affanniamo per il subito, dimentichiamo quel che rimane per sempre: inseguiamo le nuvole che passano e perdiamo di vista il cielo. Attratti dall’ultimo clamore, non troviamo più tempo per Dio e per il fratello che ci vive accanto. Nella smania di correre, di conquistare tutto e subito, dà fastidio chi rimane indietro. Ed è giudicato scarto: quanti anziani, nascituri, persone disabili, poveri ritenuti inutili. Si va di fretta, senza preoccuparsi che le distanze aumentano, che la bramosia di pochi accresce la povertà di molti». Ha aggiunto Francesco nell’omelia: «I poveri sono preziosi agli occhi di Dio perché non parlano la lingua dell’io: non si sostengono da soli, con le proprie forze, hanno bisogno di chi li prenda per mano. Ci ricordano che il Vangelo si vive così, come mendicanti protesi verso Dio. La presenza dei poveri ci riporta al clima del Vangelo, dove sono beati i poveri in spirito. Allora anziché provare fastidio quando li sentiamo bussare alle nostre porte, possiamo accogliere il loro grido di aiuto come una chiamata a uscire dal nostro io, ad accoglierli con lo stesso sguardo di amore che Dio ha per loro». Perché «non basta l’etichetta di “cristiano” o “cattolico” per essere di Gesù. Bisogna parlare la stessa lingua di Gesù, quella dell’amore, “la lingua del tu”. Il cristiano non parla la “lingua dell’io”, non segue cioè le sirene dei suoi capricci, ma il richiamo dell’amore». Che non va confuso con la «carità ipocrita»: «Molte volte anche nel fare il bene, regna l’ipocrisia dell’io: faccio del bene ma per esser ritenuto bravo; dono, ma per ricevere a mia volta; aiuto, ma per attirarmi l’amicizia di quella persona importante». E ha aggiunto ancora il Papa: «I poveri ci facilitano l’accesso al Cielo: per questo il senso della fede del Popolo di Dio li ha visti come i portinai del Cielo. Già da ora sono il nostro tesoro, il tesoro della Chiesa. Ci dischiudono infatti la ricchezza che non invecchia mai, quella che congiunge terra e Cielo e per la quale vale veramente la pena vivere: l’amore». E di amore, dell’amore di Dio, che è «più forte delle potenze del male», Francesco ha parlato anche all’Angelus: «I discepoli di Cristo non possono restare schiavi di paure e angosce; sono chiamati invece ad abitare la storia, ad arginare la forza distruttrice del male, con la certezza che ad accompagnare la sua azione di bene c’è sempre la provvida e rassicurante tenerezza del Signore. È Lui, il Signore, che conduce la nostra esistenza e conosce il fine ultimo delle cose e degli eventi». E ha concluso, ricordando anche il neo Beato padre Emilio Moscoso, gesuita martire in Ecuador nel 1897 nel clima persecutorio contro la Chiesa Cattolica: «Ci sono di esempio i martiri cristiani dei nostri tempi, oltre ai martiri del principio che, nonostante le persecuzioni, sono uomini e donne di pace. Essi ci consegnano una eredità da custodire e imitare: il Vangelo dell’amore e della misericordia. Questo è il tesoro più prezioso che ci è stato donato e la testimonianza più efficace che possiamo dare ai nostri contemporanei, rispondendo all’odio con l’amore, all’offesa con il perdono. Anche nella vita quotidiana, dopo che riceviamo un’offesa, anche se ci sentiamo offesi, perdonare dal cuore. Quando ci sentiamo odiati, pregare per la persona che ci odia». E concludendo, ha chiesto ai fedeli preghiere per il viaggio apostolico in Thailandia e Giappone, da martedì al 26.

Da “Avvenire” il 13 novembre 2019. Il Papa: «Ci sono tanti seminatori di odio nel mondo», anche tra i politici Il diavolo esiste e per la sua invidia per il Figlio di Dio che si è fatto uomo, semina l' odio nel mondo, che provoca morte. È il concetto chiave ribadito ieri da papa Francesco durante l' omelia a Casa Santa Marta. Punto di ispirazione della riflessione del Pontefice è stato il brano del Libro della Sapienza (Sap 2,23-3,9) proposto dalla liturgia nella Prima lettura. Il Papa ha analizzato il primo versetto, nel quale il profeta ricorda che «Dio ci ha creati a immagine sua, siamo figlio di Dio», ma subito dopo aggiunge «ma per l' invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo». Francesco ha spiegato che «l' invidia di quell' angelo superbo che non ha voluto accettare l' incarnazione » lo portò «a distruggere l' umanità». E così nel nostro cuore entra qualcosa: «La gelosia, l' invidia, la concorrenza» ha osservato Bergoglio, mentre invece «potremmo vivere come fratelli, tutti, in pace». Perché, ha ricordato ancora il Papa, "dentro di noi abbiamo la guerra", fin dall' inizio. "Caino e Abele erano fratelli - ha sottolineato Francesco - ma la gelosia, l' invidia di uno distrusse l'altro". È la realtà, basta guardare un telegiornale: "Le guerre, le distruzioni, gente che per le guerre muore anche di malattie". Il Vescovo di Roma ha ricordato la Germania e l'anniversario della caduta del Muro di Berlino (1989-2019), ma anche i nazisti e "le torture contro tutti coloro che non erano di 'pura razza'". E altri orrori delle guerre. E ha sottolineato: «E oggi dobbiamo dirlo chiaramente, ci sono tanti seminatori di odio nel mondo, che distruggono». Uno stato d' animo che contamina il mondo, ma anche contagia ed entra - a giudizio del Pontefice «nella mia anima, nella tua, nella tua». Per il «seme di invidia del diavolo, dell' odio ». «E - si è chiesto il Papa - di cosa ha invidia il diavolo? Della nostra natura umana. E voi sapete perché? Perché il Figlio di Dio si è fatto uno di noi. Questo non può tollerarlo, non riesce a tollerarlo». «Questa - ha spiegato il Papa - è la radice dell'invidia del diavolo, è la radice dei nostri mali, delle nostre tentazioni, è la radice delle guerre, della fame, di tutte le calamità nel mondo»". Distruggere e seminare odio, ha continuato il Papa, «non è una cosa abituale, anche nella vita politica», ma «alcuni lo fanno». Perché un politico ha spesso «la tentazione di sporcare l' altro, di distruggere l' altro », sia con bugie, sia con verità e non fa così un confronto politico sano e pulito «per il bene del Paese». Preferisce l' insulto, per «distruggere l' altro». «Io sono bravo, ma questo sembra più bravo di me?», pensa, e allora «lo butto giù, con l' insulto». «Vorrei che oggi ognuno di noi pensasse questo», l' invito finale: «Perché oggi nel mondo si semina tanto odio? Nelle famiglie, che a volte non possono riconciliarsi, nel quartiere, nel posto di lavoro, nella politica Il seminatore dell' odio è questo».

Papa Francesco, l'irritazione di Jospeh Ratzinger per i colloqui con Scalfari: la bomba di Luigi Bisignani. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. I colloqui di Papa Francesco con Eugenio Scalfari avrebbero stufato, e parecchio, il Papa emerito, Joseph Ratzinger. La bomba viene sganciata da Luigi Bisignani, sempre informatissimo su Vaticano e dintorni, in un suo intervento su Il Tempo di domenica 10 novembre. "È Scalfari che vorrebbe essere Bergoglio o Bergoglio che è tentato di fare Scalfari - s'interroga Bisignani -? Entrambi sembrano concedersi la licenza di confutare la dottrina. È questo il dilemma sul quale ci si interroga nei Sacri Palazzi, dopo la pubblicistica in libreria sul Grande Vecchio del giornalismo italiano", spiega l'uomo che sussurrava ai potenti. Nel mirino insomma c'è Il Dio unico e la società moderna, libro firmato da Scalfari e che raccoglie i suoi colloqui con Papa Francesco e il Cardinale Martini. Bisignani sottolinea che "i più raffinati tra i prelati dentro le Sacre Mura - e, si sussurra, addirittura di autorevolissimi teologi come il Papa emerito Ratzinger e il cardinal Ravasi - applicano volentieri il lapidario giudizio che all'epoca L'osservatore romano riservò all'opera letteraria di Papini: un libro colmo di errori scapigliati e clamorosi". "Gelosia, irritazione per questa strana coppia rappresentata da un gesuita che dovrebbe essere rigoroso e uno straordinario intellettuale che si professa bigamo e libertino? In effetti, di errori ne sono stati sottolineati e alcuni clamorosi", sottolinea Bisignani. Dunque, quegli errori li passa in approfondita rassegna. Ma non è finita. Già, perché l'uomo che sussurrava ai potenti si interroga su come stiano davvero le cose, sulla verità circa quei colloqui. E scrive: "Ma dopo le ripetute smentite della Sala Stampa Vaticana, a proposito dei contenuti dei colloqui, io credo che la verità sulle amnesie dottrinali di Scalfari e le accelerazioni di Bergoglio, che pare Ratzinger poco gradisca, per come io ho conosciuto il giornalista alla fine degli anni '70, sia un' altra". Ovvero, secondo Bisignani, quanto scritto da Scalfari di fatto rispecchierebbe perfettamente il pensiero di Papa Francesco.

Ratzinger non ne può più del “teologo” Scalfari. Luigi Bisignani per Il Tempo 10 novembre 2019. È Scalfari che vorrebbe essere Bergoglio o Bergoglio che è tentato di fare Scalfari? Entrambi sembrano concedersi la licenza di confutare la dottrina. È questo il dilemma sul quale ci si interroga nei Sacri Palazzi, dopo la pubblicistica in libreria sul “Grande vecchio” del giornalismo italiano. In Vaticano, usi a osservar tacendo, qualcuno ricorda che neanche su Giovanni Papini, quando pubblicò il suo ultimo libro Il diavolo (in cui sosteneva che Gesù avrebbe perdonato anche Satana perché necessario all’opera della salvezza), furono sollevate questioni “per riguardo alla canizie dell’autore”. Quello stesso riguardo, evidentemente, esteso anche all’ultimo libro di Eugenio Scalfari Il Dio unico e la società moderna, incontri con Papa Francesco e il Cardinal Martini cui, i più raffinati tra i prelati dentro le Sacre Mura – e, si sussurra, addirittura di autorevolissimi teologi come il Papa emerito Ratzinger e il Cardinal Ravasi – applicano volentieri il lapidario giudizio che all’epoca L’Osservatore Romano riservò all’opera letteraria di Papini: «un libro colmo di errori scapigliati e clamorosi». Gelosia, irritazione per questa strana coppia rappresentata da un gesuita che dovrebbe essere rigoroso e uno straordinario intellettuale che si professa bigamo e libertino? In effetti, di errori ne sono stati sottolineati e alcuni clamorosi. Che gli Apostoli di Gesù Cristo fossero dodici, si studia nella prima lezione di catechismo: gli Atti degli Apostoli, infatti, testimoniano che, dopo il tradimento e la morte dell’apostolo Giuda, i discepoli di Gesù scelsero al suo posto Mattia, costituendolo “apostolo”. E, quindi, dodici erano e tali rimasero. Sul ruolo “fondativo” del cristianesimo di San Paolo discutono i dotti da quando questa tesi fu postulata dai positivisti del primo Novecento. Inoltre sull’“autoconvincimento progressivo” di Gesù Cristo di essere il figlio di Dio, meglio stendere un velo pietoso. Quello che Scalfari invece “azzecca” è la tesi, certamente non inedita, che «il Dio creatore non può che essere uno solo per tutta l’umanità». E’ esattamente quello che Pietro, primo Papa, e così tutti i suoi successori dopo di lui, ha affermato nella sua prima omelia davanti al tempio di Gerusalemme. E qui, forse, avviene il fatto più curioso: il politicamente corretto impedisce persino al Papa di dirlo, per così dire, papale papale. Obbligandolo a delle iperboli non sempre molto felici, come quell’ormai suo «Dio non è cattolico», Eugenio Scalfari, che per età e condizione può ormai infischiarsi anche del politically correct, è invece libero di dire. E rimandando il suo “Verbo” ai colloqui avuti con il Pontefice, si erge a maître à penser del mondo cattolico autorizzato a ripetere i concetti più ovvi del cristianesimo, evitando al tempo stesso di passare per bacchettone e codino. Ma dopo le ripetute smentite della Sala Stampa Vaticana, a proposito dei contenuti dei colloqui, io credo che la verità sulle amnesie dottrinali di Scalfari e le “accelerazioni” di Bergoglio, che pare Ratzinger poco gradisca, per come io ho conosciuto il giornalista alla fine degli anni ‘70, sia un’altra. Ricordo bene quando veniva a intervistare l’allora Ministro del Tesoro, Gaetano Stammati. Ero sempre presente ed avevo stabilito con lui, per un breve periodo coincidente con la nascita di Repubblica, un bel rapporto. Ebbene, ascoltava il Ministro, scandiva le domande con aria grave, prendeva pochi appunti e poi, dopo qualche ora, rimandava il testo. Era sempre lo stesso copione. “Ma io molte di queste risposte non le ho date”, mi riferiva Stammati sornione. “Chiedo al direttore di cambiarle…?”. Ci pensava un attimo, raggomitolandosi come un micione bianco sulla poltrona dietro la scrivania di Quintino Sella, e aggiungeva: “No, non l’ho detto, ma è esattamente il mio retropensiero…solleverà un vespaio, ma vediamo poi cosa succede…”. Richiamavo il direttore e davo l’ok. E il giorno dopo grandi polemiche con sindacati e Confindustria. Chapeau! Forse sarà così anche con Bergoglio “ripreso” per le sue dichiarazioni da teologi e uomini di Curia! E, a proposito di retropensieri, dove Scalfari raggiunge invece un livello di sincerità davvero alto è in alcune pagine di Gran Hotel Scalfari (Marsilio editore), una confessione scritta da Antonio Gnoli e Francesco Merlo. Sono le pagine in cui racconta come sia vissuto per anni da bigamo con Simonetta, la sua prima moglie, e Serena, la sua seconda. Una confessione palpitante che certamente il suo amico Bergoglio si sforzerà di perdonargli. Le vie del Signore sono infinite. Luigi Bisignani per Il Tempo 10 novembre 2019

Alessandro Rico per “la Verità” l'11 novembre 2019. Sostiene la vulgata: papa Francesco vorrebbe riformare la Chiesa, ma un manipolo di avidi curiali glielo impedisce. Eppure i fatti mostrano che, nella migliore delle ipotesi, Jorge Mario Bergoglio ha pasticciato il suo disegno di «moralizzazione» della Santa Sede, perché l' ha affidato a persone inadatte, moralmente o penalmente esposte. Nella peggiore delle ipotesi - che per ossequio verso il Pontefice ci sentiremmo di escludere - quel progetto è un bluff. Cioè, Francesco non vuole davvero cambiare. L'esempio più eclatante degli scricchiolii del riformismo del Papa lo fornisce l' organismo vaticano che gestisce il patrimonio economico della Chiesa, l'Apsa, presieduta dall' estate 2018 da monsignor Nunzio Galantino. Un prelato in perfetta linea Bergoglio, grande sostenitore della linea sui porti aperti e l'accoglienza dei migranti. Sull' Amministrazione del patrimonio della Santa Sede c' è una grande domanda da porsi: perché non è stata «ripulita» come s' è fatto, almeno in parte, con lo Ior? Diciamo «in parte», perché all'Istituto per le opere di religione sono finiti personaggi discutibili. Ad esempio, Francesco vi ha nominato prelato monsignor Battista Ricca, dai chiacchierati trascorsi come nunzio apostolico in Uruguay. A Montevideo erano sulla bocca di tutti le sue frequentazioni di locali gay e una convivenza «sospetta» con un capitano delle guardie svizzere, Patrick Haari. Ma torniamo all' Apsa, la banca centrale del Vaticano. Proprio presso lo Ior essa opera mediante dieci conti in differenti valute: 30 milioni di euro più altri 14,3 milioni in titoli, 500.000 dollari americani, 26.000 dollari canadesi, 80.000 sterline, 36.000 franchi svizzeri. Ma ci sarebbe anche un sistema di conti sommersi e bilanci non pubblicati, già fotografato da Benedetto XVI, il quale ne aveva debitamente informato il suo successore. E Francesco, per fare chiarezza, chi aveva pensato di chiamare a Roma? Un uomo a lui molto vicino: Gustavo Óscar Zanchetta, nominato da Bergoglio vescovo di Orán, in Argentina. Senonché, monsignor Zanchetta, collocato all' Apsa nel dicembre del 2017, nel luglio di quell' anno si era dimesso dalla sua diocesi, adducendo mai precisati motivi di salute. In verità, su di lui incombevano le pesanti accuse di abusi sessuali di alcuni seminaristi, accuse per le quali, nell' estate 2019, è finito alla sbarra. Formalmente, Zanchetta era stato rimosso subito dopo lo scandalo. Eppure, pochi mesi fa, il giudice argentino lo ha autorizzato a rientrare a Roma «per continuare il suo lavoro quotidiano». A giustificazione era stato addotto un documento del 3 giugno 2019, firmato da un avvocato della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e da monsignor Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali della stessa Segreteria, secondo cui Zanchetta era ancora «impiegato dal Vaticano» all'Apsa e abitava «nella residenza di Santa Marta». Ossia, accanto al Papa. Come se non bastasse, un quotidiano argentino, El Tribuno, alcuni mesi fa aveva pubblicato delle carte che dimostravano come diversi vescovi, il primate di Argentina, il nunzio apostolico e anche il Pontefice fossero al corrente già dal 2015 delle macchie nel passato di monsignor Zanchetta. Un personaggio potenzialmente ricattabile era in grado di infilare liberamente il naso nei conti segreti dell' Apsa? Si poteva sperare che portasse a termine con successo una riforma così delicata? Tanto più che persino Francesco, interpellato da una giornalista messicana sui motivi di quella nomina, ha definito Zanchetta «economicamente disordinato». Ma come? Si incarica un uomo «economicamente disordinato» di sistemare i conti di una banca centrale? Non finisce qui. Sull'Apsa grava pure il dossier immobiliare. Una seconda branca dell'organismo gestisce infatti l' immenso patrimonio (2,7 miliardi di euro) di palazzi della Santa Sede. Una miriade di appartamenti di lusso affittati a canoni irrisori ad alti prelati. Come ha denunciato Gianluigi Nuzzi nel suo ultimo libro, si tratta di «4.421 unità, di cui 2.400 appartamenti e 600 tra negozi e uffici di proprietà diretta dell' Apsa». Tra questi, 800 risultano sfitti, altri 3.200 sono in locazione, ma il 15% è a canone zero, mentre il resto è a prezzi di favore, con morosità che «arrivano a 2,7 milioni». L' Apsa, sostiene Nuzzi, si è vista costretta a tamponare le perdite ricorrendo ai milioni tratti dall' Obolo di San Pietro. Il nuovo vertice dell' ente, monsignor Galantino, ha replicato che nei mastodontici palazzi della Chiesa, «se ci fai un albergo extra lusso è un discorso, se ci metti gli uffici della Curia romana, come adesso, non valgono niente». I canoni agevolati sarebbero «una forma di housing sociale» a beneficio dei dipendenti. E l'Apsa avrebbe invero un utile di 22 milioni, anche se il Vaticano sta lavorando alla spending review. Nel frattempo, nella bufera potrebbero finire pure alcuni investimenti immobiliari realizzati dall' Apsa per l' ospedale Bambin Gesù: un complesso in Villa Pamphili (32,8 milioni), la casa di cura Villa Luisa (15,2 milioni) e l' affitto del rinascimentale Palazzo Alicorni. L'Aif, Autorità vaticana di controllo finanziario realizzata da Benedetto XVI, tanto efficiente da aver scoperchiato lo scandalo degli investimenti a Londra collegati alla Segreteria di Stato, ha invece ribadito in più di un' occasione di non avere poteri di supervisione sull' Apsa. Papa Francesco aveva accentrato le funzioni di controllo nella Segreteria per l' economia, creata per accelerare il processo riformatore. Ma anche in questo caso, qualcosa s' è intoppato. Prefetto del dicastero era stato nominato, nel 2014, il cardinale australiano George Pell. Tre anni dopo, però, Pell è stato travolto dalle accuse di molestie su minori risalenti al 1996. Curiosa coincidenza: la tempesta giudiziaria si è scatenata solo dopo che Pell aveva dichiarato di aver scoperto un milione di euro di fondi custoditi in conti occulti. Non ha fatto in tempo ad annunciare un report, che è finito alla sbarra in Australia. Chi contesta la versione ufficiale evoca le forti resistenze dalla Segreteria di Stato e dagli uomini di Tarcisio Bertone. Quel che è certo, è che il processo a Pell, che ne ha portato alla condanna nel marzo 2019, si fondava su elementi tutt'altro che solidi: un'unica testimonianza, con parecchie incongruenze. In particolare, questa implicava che Pell avesse molestato i chierichetti nei corridoi della cattedrale di Melbourne subito dopo la messa, dove si radunavano i fedeli e dove tutti avrebbero potuto sorprenderlo in flagrante. Però nessuno si è mai accorto di nulla. Che Pell sia vittima di una congiura, o che fosse soltanto un'altra figura dal passato oscuro, come Zanchetta, è comunque un dato di fatto che la sua condanna abbia sancito una battuta d' arresto nell' attività della Segreteria dell' economia. E la prefettura del dicastero, cioè la carica occupata dal cardinale australiano, a mesi dalla sua rimozione, è ancora vacante. I riflettori sull' Apsa si sono spenti. Il suo nuovo vertice, monsignor Galantino, nega l' esistenza di conti occulti e celebra i passi avanti sulla spending review. Possibile che all' Apsa basti una cura Cottarelli?

DAGONEWS il 13 novembre 2019. Vaticanate d'autunno. Oltre le mura leonine i fronti sono chiari: ci sono quelli anti Bergoglio e quelli pro. Ma guardando più da vicino, si scopre che il secondo gruppo è suddiviso in due sotto-categorie, tra chi vuole una Chiesa povera e chi invece ama la bella vita e non vuole rinunciare ai privilegi curiali. A fare emergere questa frattura sono state, ancora una volta, le parole del segretario di Stato, il cardinal Parolin. Che prima ha definito ''opaca'' la vicenda degli investimenti londinesi (curati e voluti dal cardinal Becciu quando era alla Segreteria di Stato); poi a Belluno, in visita alle terre colpite dalla tempesta dell'anno scorso, ha parlato come se fosse un avatar di Papa Francesco: cultura della cura contro cultura dello scarto, lotta allo stile di vita iper-consumistico, una nuova visione del mondo compatibile con l'ambiente e le esigenze sociali. Insomma i cardini pauperistici del cattolicesimo secondo Bergoglio – che ormai solo di Parolin si fida – e che poco hanno in comune con chi vuole investire i soldi dei poveri in pozzi petroliferi africani o lussuosi palazzi londinesi attraverso spericolate operazioni finanziarie. D'altronde in molti sono convinti che l'affaire Mincione non sia affatto chiuso e che riserverà altre sorprese.

Il Papa ha scelto il tosto Giuseppe Pignatone come presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano anche perché è convinto che il malaffare che gira intorno al business sia legato anche a storie di ricatti e contro-ricatti, con alla base sempre le solite armi: scandali sessuali, rapporti proibiti, pedofilia.

Mentre Bergoglio è in battaglia dentro la curia, la battaglia per farlo dimettere divampa fuori dal Vaticano, con una spinta che viene dai conservatori americani, convinti che il pontefice stia destabilizzando il mondo, in particolare il Sudamerica, con le sue azioni e posizioni politiche. L'ultimo cruccio è lo storico viaggio del Papa a Pechino. Se ne parla da mesi, l'anno scorso la Cina e il Vaticano hanno firmato un misterioso memorandum di ''tregua'' e a marzo, quando Xi Jinping venne a Roma per firmare il protocollo della Via della Seta, l'ipotesi di un incontro tra i due fu concretamente sul tavolo, per poi sfumare. A spingere per il riavvicinamento tra Santa Sede e Dragone è sempre Parolin, alfiere del dialogo con un paese che si è ''fatto'' una sua chiesa cattolica con i suoi vescovi non riconosciuti da Roma. Ma ora la brusca frenata nel disgelo viene da Hong Kong, sull'orlo della guerra civile e con la madre patria in piena modalità repressiva. Il Papa non potrebbe mai andare in visita in Cina mentre è in corso la brutale soppressione delle manifestazioni, e al momento è stato tutto rimesso in freezer…

Vaticano, ecco tutti i cardinali che possono inguaiare il Papa. Dalla crisi del C9 agli scandali dei monsignori incaricati in Vaticano: il "cerchio magico" del Papa è tutt'altro che immune a critiche. E la Chiesa di Bergoglio è lontana dalla svolta auspicata. Giuseppe Aloisi, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Doveva essere il pontificato della svolta francescana, quello dove tanto il Papa quanto gli alti ecclesiastici sarebbero stati al riparo dagli scandali dei tempi precedenti. Ma non è andata proprio così. Pauperismo, ecologia integrale e prossimità politica con i movimenti popolari sono tra i nuovi paradigmi, ma le gerarchie del Vaticano, almeno in relazione ad alcuni esponenti, continuano ad essere attenzionate dalle cronache per motivi non auspicati o comunque opinabili rispetto alla missione originaria della Chiesa cattolica. Esistono almeno due livelli di collaborazione ecclesiastica che sfiorano l'operato di Jorge Mario Bergoglio: c'è il "fronte bergogliano" per prossimità dottrinale e quello composto dalle persone che il Santo Padre ha selezionato sua sponte per incarici di vertice. Entrambi questi emisferi sono balzati agli onori delle cronache. In relazione al primo elenco, sappiamo quale sia la ricostruzione dei tradizionalisti: Jorge Mario Bergoglio sarebbe stato eletto da chi intende imprimere una svolta progressista alla Ecclesia. Eppure la "filiera americana" dei cardinali Wuerl, Farrell, Tobin, Cupich, quelli che farebbero parte del naturale seguito teologico-pastorale dell'ex cardinal McCarrick, gli stessi che he avrebbero avuto un ruolo centrale nel passato Conclave, non è stata immune a critiche. McCarrick, com'è noto, è stato persino scardinalato per via di uno scandalo legato agli abusi. E il fatto che gli altri alti ecclesiastici americani e progressisti, quelli che sono comunemente considerati di sinistra, ricoprano ancora ruoli di vertice è stato a sua volta rimarcato dai più conservatori mediante disamine piccate. C'è anche un caso Donald Wuerl: il porporato si è dimesso dall'incarico che ricopriva a Washington, quello di arcivescovo, per una presunta "cattiva gestione". Poi c'è il C9: l'organo ristretto che l'ex arcivescovo ha voluto sin da subito con il fine di riformare nel profondo la Curia romana. Sono nomi che lo stesso pontefice argentino ha individuato per mettere in atto il suo progetto di riforma. Bene, ora il C9 si chiama C6, perché tre esponenti si sono dimessi: il cardinale George Pell, che in realtà è considerato un conservatore, è stato condannato in primo grado per abusi in Australia; il cardinale Errazuriz, cileno, è stato chiamato in causa nella sua nazione per il "collasso morale" della Chiesa cilena; il terzo a dimettersi è stato il cardinal Mosengwo, che si sarebbe defilato per occuparsi in maniera più certosina di quello che accade nella sua nazione, ossia il Congo. Comunque sia, la composizione iniziale, quella pensata dal vescovo di Roma, non c'è più. Volendo aggiungere altro, si può parlare del vertice del C9, ossia del cardinal Maradiaga: in questo caso si tratta di voci ventilate, ma anche questo cardinale è finito al centro di una ricostruzione giornalistica secondo cui sarebbe associabile ad "alcuni investimenti milionari in società londinesi poi scomparse nel nulla". Un'altra stratificazione ecclesiastica spesso tirata in ballo dalle cronache è quella in cui è possibile ascrivere alcuni monsignori che Papa Francesco ha voluto "premiare": dal vescovo argentino Zanchetta, che ora è all'Apsa ma che è accusato di abusi, a monsignor Parra, del quale abbiamo già parlato in funzione di un dossier che parla di "condotte immorali" e che adesso è il sostituto della segreteria di Stato. Le narrazioni che circolano sono essenzialmente due: o il Santo Padre è mal consigliato - questa è la tesi di chi tende a difendere strenuamente il vertice della Chiesa cattolica - oppure il mandato di Papa Bergoglio è meno rivoluzionario di quello che si prospettava dopo gli annunci seguiti allo scorso Conclave.

Paolo Rodari per ''la Repubblica'' il 12 Novembre 2019. Ci avevano provato già lo scorso aprile. Allora definirono Francesco "eretico". E ci riprovano oggi con una nuova raccolta di firme nella quale condannano "gli atti sacrileghi e superstiziosi" che Jorge Mario Bergoglio avrebbe commesso durante il recente Sinodo sull'Amazzonia. Insieme, mettono in guardia coloro che seguono il Papa dal rischio della "dannazione eterna". Sono ancora una volta i siti conservatori, da anni ostili al pontificato in corso, a rilanciare un documento redatto in sette lingue e firmato il 9 novembre da un centinaio di sacerdoti e persone definite "studiose" e "intellettuali cattolici laici". Si tratta degli stessi nomi che già avevano firmato altri testi analoghi, su tutti una "Correctio filialis" dedicata proprio a Francesco. I cento si rifanno a tesi precedentemente esposte dal cardinale Raymond Leo Burke, fra i cardinali più conservatori del collegio, il vescovo ausiliare di Astana Athanasius Schneider e monsignor Carlo Maria Viganò, l'ex nunzio negli Usa che nell'agosto del 2018 chiedeva le dimissioni del Pontefice per la sua cattiva gestione dei casi di abusi. In sostanza, riportano i malumori nei confronti del Papa di una minoranza conservatrice molto attiva sui social e sui media. I firmatari contestano a Francesco di aver partecipato "ad un atto di adorazione idolatrica della dea pagana Pachamama". Scrivono: "Ha permesso che questo culto avesse luogo nei Giardini Vaticani, profanando così la vicinanza delle tombe dei martiri e della chiesa dell'Apostolo Pietro. Ha partecipato a questo atto di adorazione idolatrica benedicendo un'immagine lignea della Pachamama". E ancora: "Il 7 ottobre, l'idolo della Pachamama è stato posto di fronte all'altare maggiore di San Pietro e poi portato in processione nella Sala del Sinodo. Papa Francesco ha recitato preghiere durante una cerimonia che ha coinvolto questa immagine e poi si è unito a questa processione. Quando le immagini in legno di questa divinità pagana sono state rimosse dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina, dove erano state collocate sacrilegamente, e gettate nel Tevere da alcuni cattolici oltraggiati da questa profanazione della chiesa, Papa Francesco, il 25 ottobre, si è scusato per la loro rimozione, e una nuova immagine di legno della Pachamama è stata restituita alla chiesa . In tal modo è incominciata un'ulteriore profanazione". Inoltre, "il 27 ottobre, nella Messa conclusiva del Sinodo, ha ricevuto una ciotola usata nel culto idolatrico della Pachamama e l'ha collocata sull'altare. Lo stesso Papa Francesco ha confermato che queste immagini in legno sono idoli pagani. Nelle sue scuse per la rimozione di questi idoli da una chiesa Cattolica, li ha chiamati specificamente Pachamama , nome di una falsa dea della madre terra secondo una credenza religiosa pagana del Sud America".

I problemi di Papa Francesco in Sudamerica. Il sostegno della Chiesa a Lula è un segnale eclatante e molti cattolici brasiliani sono disorientati. Paolo Manzo il 14 novembre 2019 su Panorama. «Togliete il Pt dall’altare. Per una Chiesa senza un partito». La scritta, dove Pt sta per il Partido dos trabalhadores di Lula, è apparsa lo scorso 30 settembre, a caratteri cubitali, su un cartellone affisso da un gruppo di cattolici in via Adhemar Pereira de Barros, nel quartiere di Bela Suiça, a Londrina, città di mezzo milione di abitanti nel sud del Brasile. Il cartellone, firmato dal movimento «Brasile cattolico», è una critica alle posizioni dell’arcivescovo locale, Dom Geremias Steinmetz, considerato dai fedeli un membro del partito fondato da Lula nel 1980. «Il movimento è nato quando il vescovo ha chiamato i cattolici a unirsi allo sciopero contro la riforma della previdenza sociale, in una mobilitazione che aveva come patrocinatori la Cut, il principale sindacato brasiliano, fondato da Lula, e gli stessi manifestanti del Pt, e noi cattolici non abbiamo aderito a questa iniziativa» spiega la 47enne Flávia Batistella, membro attivo di «Brasile cattolico». In seguito alla presa di posizione dell’arcidiocesi di Londrina contro la riforma pensionistica (approvata a fine ottobre dal Parlamento), in linea con quella della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, alcuni cattolici sono andati nelle cattedrali per dire il rosario in segno di protesta contro l’atteggiamento della Chiesa. «Perché sono due idee totalmente diverse, quella del vescovo e la nostra, cattolica» afferma Flávia. A preoccupare molti cattolici brasiliani è la deriva «a sinistra» della Chiesa cattolica verde-oro, sempre più legata al movimento che chiede la liberazione dell’ex presidente Lula e al Pt, partito nato 40 anni fa anche con l’aiuto, importante, di preti operai italiani e legato a filo doppio alla Teologia della liberazione, che Wojtyla e Ratzinger avevano isolato e condannato mentre Bergoglio ha riportato in auge. Ma, soprattutto, a sconcertare molti fedeli brasiliani è il sincretismo religioso propagandato attraverso l’idolatria alle statuette in legno della Pachamama, la «madre terra» degli indigeni. Idolatria promossa non solo durante il Sinodo dell’Amazzonia a Roma, lo scorso ottobre (quando la statuetta è stata presa da anonimi e gettata nel Tevere per alcune ore), ma anche nelle principali chiese brasiliane. «Sostituire la Nostra Signora del Rosario, la Santissima Vergine Maria, con la Pachamama è stato un gesto che ha ferito molti fedeli» dice un diplomatico vicino agli ordini religiosi tradizionali brasiliani che, a condizione di mantenere l’anonimato, parla di un «possibile scisma» all’interno dell’istituzione. Che potrebbe avvenire anche a causa di un’altra proposta uscita dal Sinodo:  consentire ai preti che evangelizzano gli indios di sposarsi. Bergoglio deciderà sul tema entro fine 2019 - limitandolo per ora all’Amazzonia - e ha chiarito che lo scisma non lo spaventa, ma molte voci dal Brasile parlano di «eresia». Capofila delle proteste il cardinale Raymond Burke che ha annunciato «una preghiera di 40 giorni e una crociata di digiuno» contro il documento sinodale, a suo dire macchiato di «errori teologici ed eresie», in primis proprio l’abolizione del celibato. Che la tensione sia alta, così come l’emorragia dei fedeli dalla Chiesa di Roma in Brasile, è evidente. Se da un lato,  il censimento del 2020 vedrà per la prima volta scendere sotto il 50 per cento i brasiliani che si dichiarano cattolici a vantaggio degli evangelici (nel 1980 erano il 99 per cento), dall’altro si susseguono le denunce, da parte dei fedeli, di politicizzazione degli altari. Paradigmatico il caso di quello che doveva essere un incontro interreligioso ecumenico per celebrare il Sinodo dell’Amazzonia nella cattedrale da Sé, la principale di San Paolo del Brasile, e si è invece trasformato in un manifesto politico della sinistra a favore della liberazione di Lula. Nella chiesa erano presenti rappresentanti di varie religioni ed esponenti politici di sinistra, da Eduardo Jorge del Partito verde a Eduardo Matarazzo Suplicy del Pt (tra i maggiori sponsor dell’asilo all’ex terrorista Cesare Battisti), passando per  Ivan Valente, del Psol, partito più a sinistra del Pt e tra le cui fila, durante la sua latitanza in Brasile, ha militato Achille Lollo: tra gli autori del rogo di Primavalle e  collaboratore del sito grillino Lantidiplomatico, che appoggia le dittature di Venezuela, Nicaragua e Cuba. In questo contesto, il 30 settembre un gruppo di giovani cattolici è entrato in chiesa per pregare e ha trovato una corda da bucato legata proprio ai piedi dell’immagine di San Paolo apostolo, con diversi teloni con la scritta «Lula libero» e l’immagine ricamata di un albero: l’intenzione, chiara, era collegare al Sinodo la richiesta di scarcerare l’ex sindacalista condannato per corruzione, riciclaggio e indagato in altri sette processi dov’è accusato di associazione a delinquere in seguito alle tangenti della multinazionale Odebrecht. Arrabbiati, i fedeli che non credono all’innocenza di Lula hanno iniziato a filmare ciò che stava accadendo. Nel video, diventato virale sui social media, si vede un giovane cattolico indignato mentre viene espulso dalla cattedrale da Sé dalle guardie di sicurezza e da supporter di Lula. Il parapiglia nella più importante chiesa cattolica di San Paolo si è verificato poche ore prima che apparissero i cartelloni a Londrina con scritto «Togliete il Pt dall’altare»; ignorato dai principali media del Brasile, sui social network ha fatto il botto. L’arcivescovo di San Paolo, il cardinale Dom Odilo Pedro Scherer, ha dichiarato ufficialmente di non aver notato lo scontro ma di aver visto il video, e ha smentito che il giovane sia stato espulso dal tempio (benché il filmato mostri il contrario); aggiungendo infine che non aveva neanche visto la manifestazione di «Lula libero». «Ma soprattutto non si si è scusato per i fatti avvenuti all’interno della cattedrale sotto la sua giurisdizione» afferma il reporter Everson Leal del Jornal da Cidade. Persino il Santuario di Nostra Signora di Aparecida, dopo San Pietro la maggiore chiesa cattolica al mondo, è diventata teatro di una manifestazione del Pt, sempre alla vigilia del Sinodo dell’Amazzonia, con il gruppo sociale «Coletivo Alvorada» che ha dispiegato enormi striscioni all’entrata chiedendo il rilascio di Lula. Su uno dei drappi si leggeva «La verità sconfiggerà la menzogna, Papa Francesco. Lula libero!». «Non è la prima volta che i “petisti” usano la cattedrale per promuovere rivolte e contraddire la dottrina della Chiesa cattolica, cercando di imporre il sincretismo religioso e le ideologie politiche attraverso eventi e manifestazioni all’interno della santa messa, chiedendo Lula libero nella preghiera dei fedeli» dice Alvaro Silva, un parrocchiano che aggiunge: «Peggio ancora è per noi cattolici vedere che tutto ciò è fomentato dai nostri sacerdoti e vescovi, cui è stata affidata la missione di Cristo di difendere la dottrina della Chiesa». Se non sarà scissione, di sicuro la politicizzazione della religione cattolica non piace alla maggioranza silenziosa dei fedeli cattolici, non solo brasiliani ma anche del resto delle Americhe. Fedeli che non a caso sono sempre meno numerosi. Secondo alcune proiezioni, inoltre, il boom delle chiese evangeliche farà sì che in Paesi come Uruguay, Argentina, Guatemala, Honduras, Cile e Perù, nei prossimi cinque anni i cattolici saranno in minoranza. Un fenomeno che si allarga persino tra gli ispanici statunitensi: in base a una ricerca del Pew Research Forum on religion and public life pubblicata a metà ottobre, sono ormai meno della metà, 47 per cento. Molto - forse troppo - sta cambiando nel Continente americano. 

Il Vaticano, Pechino e il rebus di Hong Kong. Ma il Papa non resterà in silenzio. Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 da Corriere.it. In Vaticano stanno analizzando da mesi la causa e le implicazioni delle proteste a Hong Kong. Ma non hanno ancora assunto una posizione ufficiale. Sanno che si tratta di un tema al quale la Cina è ipersensibile: ancora di più dopo gli ultimi scontri sanguinosi. Qualunque presa di posizione può incrinare l’accordo temporaneo e segreto di due anni con il regime di Pechino sulla nomina dei vescovi: un’intesa da confermare e rinnovare nel settembre del 2020, e tuttora circondata da un alone di mistero e diffidenze. In più, i vertici della Santa Sede indovinano in quanto accade a Hong Kong dinamiche ambigue: in parte messe in moto da problemi reali per l’ingerenza cinese crescente sull’isola-Stato, in parte «strumentalizzate e anzi fomentate da qualcuno negli Stati uniti. I cinesi lo dicono in modo piuttosto chiaro», si fa notare nella cerchia papale. La Santa Sede non sa come andrà a finire, e finora ha taciuto per non essere schiacciata su posizioni anti-cinesi. Ma si tratta di un attendismo che rischia di apparire, oltre che frutto di realpolitik, di subalternità a Pechino. Per questo, si è deciso di andare oltre le dichiarazioni del vescovo emerito di Hong Kong, John Tong Hon, al quale è stato delegato finora il compito di seguire la situazione. D’altronde, la prospettiva di una dura repressione è sempre più probabile, e le manifestazioni ormai durano da oltre sette mesi. Cominciarono a fine marzo scorso, per protestare contro una legge che permetterebbe l’estradizione di cittadini di Hong Kong nella Repubblica Popolare, invece di processarli nei tribunali della città che gode tuttora di uno status speciale. «Forse», è la novità delle ultime ore, «il Papa parlerà delle proteste a Hong Kong sul volo per il Giappone. Ma solo se sarà sollecitato da una domanda», spiegano gli uomini di Francesco. Si tratterebbe dunque di un commento sollecitato, non di una dichiarazione ufficiale e scritta: a conferma della delicatezza del tema. Quanto accade ha anche bloccato la scelta del prossimo vescovo della città-Stato, dopo che è venuto a mancare l’ultimo quasi in coincidenza con i primi moti degli «ombrelli colorati». «Per ora non lo nomineremo. Esistono rischi di strumentalizzazione troppo evidenti…», si ammette. La sede resterà vacante per evitare che anche quella nomina diventi materia di scontro: sia con la Cina, sia con una comunità cattolica di circa trecentomila persone, il 6 per cento della popolazione, nella quale è forte la voce anti-cinese del cardinale Joseph Zen, da sempre ostile a un accordo definito di «svendita» della Chiesa clandestina al regime di Pechino. E così, il Vaticano non smette di percorrere una strada guardinga, resa però stretta dalla radicalizzazione della protesta e delle reazioni delle autorità cinesi. L’agenzia di stampa cattolica Asianews non smette di sottolineare l’involuzione antireligiosa in atto in Cina, con i sacerdoti che resistono all’adesione alla «Chiesa patriottica» filogovernativa braccati e perseguitati. Trovare una risposta a quanto accade a Hong Kong senza sollevare qualche polemica, dunque, non risulta facile. Promette di scontrarsi comunque con la Casa Bianca di Donald Trump e la stampa di più di mezzo mondo, schierata con le ragioni della protesta. E, sul fronte opposto, con un Xi Jinping che, premuto dal Partito comunista cinese, appare sempre meno disposto a tollerare che Hong Kong diventi il focolaio di una protesta violenta, con morti e feriti; e a suo avviso con una regia straniera. E’ una ribellione opera di «terroristi», sono arrivate a dire le autorità di Pechino: un termine già usato per colpire e deportare in «campi di rieducazione» i dissidenti musulmani uiguri della provincia occidentale dello Xinjiang. Essere stretto tra il gigante asiatico e quello statunitense, per Francesco non deve essere comodo. Con Washington, soprattutto, da mesi esistono tensioni e incomprensioni profonde. E non attraversano solo la politica americana ma anche gli schieramenti nel mondo cattolico degli Stati uniti, additato dallo stesso Papa come un potente nido conservatore anti-Bergoglio. L’«accordo provvisorio» con la Cina, che Pechino ha voluto tenere segreto come condizione per sottoscriverlo, il 22 settembre del 2018, rappresenta uno dei motivi di scontro non dichiarati con la Casa Bianca. L’atteggiamento della Santa Sede su Hong Kong diventa così uno dei metri di misura della geopolitica di Francesco e del grado di adesione ai valori del mondo occidentale: schemi antiquati, nella strategia globale, e tendenzialmente senza nemici pregiudiziali, del pontefice argentino. Il tema risulta ancora più scivoloso perché incrocia il futuro di Taiwan, l’isola-Stato separata dalla Cina. Per gli Usa è un baluardo anticomunista da difendere perfino militarmente di fronte a un eventuale intervento di Pechino. Dal giorno dell’«accordo provvisorio», il nervosismo di Taiwan nei confronti delle mosse vaticane è palpabile: teme di essere abbandonato dalla Santa Sede. E negli scontri violenti di Hong Kong vede un riflesso e un presagio di quanto potrebbe accadere presto sul suo territorio.

Veleni in Vaticano, così Ruini attacca Bergoglio. Antonella Rampino il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. L’ex presidente della Cei e la destra cristiana battono un colpo contro I cattolici democratici spalleggiati da Papa Francesco. Chiunque avesse chiesto all’ottantottenne cardinal Camillo Ruini il suo pensiero circa il politico più bellicoso e divisivo dell’Italia di oggi, non avrebbe potuto che attendersi sguardi benevoli d’accompagno al precetto “la Chiesa con Salvini deve dialogare”, che il giornalista del Corriere della Sera ha infatti puntualmente raccolto. Nello scalpore suscitato, si tratta solo del segno dell’indomabilità di un vero e proprio protagonista, ai limiti dell’attivismo, della politica italiana, durante tutti i suoi 16 anni da presidente della Cei, la Conferenza dei vescovi italiani. Non solo per la lampante contrapposizione con le posizioni di Bergoglio, o perché sin dall’uscita di scena di Ruini prima e di Bertone poi a quel protagonismo politico della CEI si è tirato il freno e imposto il silenzio, rotto solo recentemente dall’attenzione per la società italiana di Papa Francesco – che peraltro rifiuta di incontrare Salvini, e non manca di stigmatizzare chi «in politica semina odio». Quanto perché la storia dell’interventismo nella politica italiana di Ruini è lunga, e di grande lena. Si iscrive nella sempiterna lotta del cattolicesimo tradizionalista ai cattolici democratici, certo. Ma il metodo, lo stile, e persino il fine sono ben diversi dal confronto che si usa far risalire a De Gasperi, politico cattolico democristiano che rifiutava le ingerenze vaticane, e Don Sturzo, sacerdote tra i fondatori della Dc che si provò ad appoggiare apertamente l’ipotesi di una alleanza per Roma coi missini. All’epoca, la politica incrociava comunque le idee, i metodi erano quelli del confronto alto e aperto. De Gasperi e Sturzo erano amici strettissimi. E, al primo tentativo di un impegno diretto in politica con sostegno d’Oltretevere, De Gasperi si sottrasse. Rompendo dolorosamente con Luigi Sturzo, e poi anche con Pio XII. La pratica di Ruini, e il suo protagonismo sulla scena politica italiana, vengono da lontano, e poiché si tratta di una mente acuta dotata di finissima abilità pratica, complice il tracollo morale della politica e della Dc in particolare, è tale da aver orientato e comunque di certo anticipato gli orizzonti politici italiani. Tutto comincia a metà degli anni Ottanta, sin dalle fasi preparatorie del Convegno di Loreto, che aveva ai vertici due uomini molto diversi tra loro, Carlo Maria Martini presidente e Camillo Ruini segretario. Wojtyla è stato eletto Papa il 16 ottobre 1978, a febbraio 1984 il governo Craxi vara il nuovo Concordato, noto anche come “accordo di Villa Madama”, che ribadisce l’indipendenza tra Stato e Vaticano e largheggia in garanzie per la Chiesa a cominciare dal varo dell’ 8 per mille, poi a dicembre 1985 si tiene l’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi. Dal quale la Cei esce, oltre che rafforzata ( anche finanziariamente) dal nuovo patto con lo Stato, legittimata e anzi spronata a scendere politicamente in campo dall’intervento conclusivo di Papa Wojtyla a Loreto. E commissariata sulla linea dei “presenzialisti” in politica proprio da monsignor Ruini, che della Cei diventerà poi presidente nel 1991. Anticipando quello che poi sarebbe accaduto con il tracollo anche morale della Dc a Tangentopoli, Ruini “usa” i cattolici tradizionalisti e militanti di Comunione e Liberazione ( che pure non ama) contro i cattolici democratici, contro le Acli e l’Azione Cattolica. L’interventismo cristiano, l’ “impegno dei cattolici in politica” – secondo una formula che si usa ancora oggi- cambia orientamento, muta di segno: non solo si prescrive l’azione in politica, ed è una vera novità, ma la si orienta a destra. Contro il “relativismo morale”. Nel giro di un paio d’anni, tracollata la Dc, scende in campo Berlusconi. A lui, e al centrodestra italiano, l’interventismo varato a Loreto fornirà la spina dorsale che il Polo delle Libertà, presunto liberale, non aveva: un sistema di valori. Un pantheon di riferimento giunto dal ‘ 94 – nell’aprile proprio di quell’anno Ruini lancia il suo “Progetto culturale” – sino all’elezione di Bergoglio che ha segnato la vera chiusura della stagione ruiniana, passando per i ratzingeriani teo- con italici. E negli interregni del ventennio berlusconiano in cui il centrodestra non è al potere, Ruini non sta con le mani in mano. È all’opposizione, in prima linea. Dal famoso editoriale «Non possumus» non firmato sull’Avvenire ( che della Cei è l’organo ufficiale) diretto da Dino Boffo, col quale si dichiarava guerra alla legge del governo Prodi sulle unioni civili, sino alla militanza in piazze a favore della legge 40, la folle norma sulla procreazione assistita che la Corte costituzionale ha dovuto negli anni cancellare interamente a colpi di sentenze. Ma non solo: poiché si tratta di un abilissimo tattico, Ruini aveva spinto perché in ogni schieramento venissero candidate personalità vicine ai suoi orientamenti, in modo da poter giocare politicamente e frantumare le posizioni avverse dall’interno. Nella Margherita guidata da Francesco Rutelli per esempio arrivarono cattolici integralisti o di destra come Paola Binetti e Luigi Bobba, alfieri della legge 40, e in quanto a Binetti proprio colei che fece deflagrare il caso dei Dico. Oltre le posizioni da guerra di religione, si era portata la battaglia contro il cattolicesimo democratico nel cuore dello schieramento di governo: il governo di Romano Prodi, dossettiano e “cattolico adulto”. Uno spettacolo poco entusiasmante soprattutto per la Chiesa, se si pensa alla finezza e all’abilità di un Silvestrini, che inventó contro i regimi comunisti quell’Ostpolitik del dialogo senza la quale i cristiani dell’Est sarebbero rimasti abbandonati a se stessi, e che permise a Woytjla di andare in visita Oltrecortina. Dunque, non meraviglia l’endorsement di Ruini a Salvini: il fine giustifica i mezzi. E il fine non è il sostegno a Salvini: è l’attacco a Bergoglio, ai bergogliani, e ai cattolici democratici. Del resto, la destra cristiana ha giustificato e anzi magnificato la guerra in Iraq: è tanto strano che consideri Salvini un interlocutore?

Marco Antonellis per Dagospia il 5 Novembre 2019. Sotto il Cupolone de settimane svolazzano corvi e affacciandosi Papa Francesco vede solo nuvole cariche di pioggia, per le note questioni squadernate da libri e giornali relative ai conti in sofferenza del Vaticano. A versare sale sulle ferite arriva una questione che irrita moltissimo Bergoglio fin dall'inizio del suo pontificato: la politica interna italiana. Argomento che appassiona la Curia Romana da secoli, assai poco un Papa che viene "dalla fine del mondo" e ha passato la sua vita lontano dai bizantinismi degli equilibri nostrani. Abituato a dividere il mondo in amici e nemici, Francesco ha chiaro che per la sua visione pastorale aperturista e misericordiosa l'avversario numero uno si chiama Matteo Salvini. E quando domenica gli è arrivata sulla pontificia scrivania l'intervista di Aldo Cazzullo al cardinale Camillo Ruini, il presidente della Cei più rimpianto dai tradizionalisti antibergogliani, che invitava la Chiesa ad aprire il dialogo con il leader della Lega elogiandone anche lo sbracciarsi con rosari e simboli religiosi, raccontano che il Papa non l'abbia presa per niente bene (eufemismo). L'eco della vicenda ha travalicato il Tevere e il sempre pronto Salvini ha rilasciato un'intervista pubblicata oggi sempre dal Corriere della Sera in cui l'ex ministro dell'Interno ottiene un altro titolo che non avrà mandato in estasi Bergoglio: "Io cerco il dialogo con i cattolici. Vedrò Ruini e non solo lui". Nel frattempo Avvenire ha controbattuto con una paginata intitolata: "Cattolici e politica, lavori in corso". Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana disegna una mappa dei soggetti pronti a rispondere al richiamo del Papa per formare un soggetto politico autonomo, certo non emanazione diretta della Chiesa ma comunque ad essa collegato, per fronteggiare l'avanzata di Salvini nella raccolta di consenso tra chi va la domenica a messa. In più conversazioni private, stando ai soliti bene informati d'oltretevere, Papa Francesco avrebbe indicato in Giuseppe Conte la personalità politica "da salvaguardare" e mettere a capo di un soggetto politico di centro da rendere effettivo in vista delle elezioni politiche, collocate dagli esperti vaticani subito dopo l'auspicata (dal Vaticano) riconferma di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. In questo lasso di tempo si proverà ad armonizzare lo spezzatino di sigle indicate dall'articolo di oggi di Avvenire: Politica Insieme di Stefano Zamagni, Rete Bianca di Giorgio Merlo, Popolari per l'Italia di Mario Mauro, Rivoluzione Cristiana di Gianfranco Rotondi, Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi, Italia Popolare di Giuseppe De Mita, Demos di Francesco Giro, Movimento Cristiano Lavoratori di Carlo Costalli, Federazione di Centro di Lorenzo Cesa. Ilvo Diamanti ha indicato ieri su Repubblica in un 10% lo spazio di elettorato per un raggruppamento centrista post-democristiano e senza dubbio la sommatoria di questi soggetti indicati nell'articolo di oggi del quotidiano dei vescovi potrebbe ambire ad occuparlo. Ma c'è nell'episcopato chi, come il presidente della Pontificia Accademia per la Vita mons. Vincenzo Paglia, fa il tifo per un soggetto politico che già c'è e già si candida a prendere i voti di quello spazio: Italia Viva di Matteo Renzi. E di certo Renzi è incompatibile con Conte. Salvini come intende rispondere a questa offensiva? Lo ha spiegato al Corriere della Sera. Intanto incontrandosi con il cardinale Ruini e dunque ottenendo dall'ancora carismatico ex presidente della Cei quella "photo opportunity" che il Papa in sei anni di pontificato gli ha ostinatamente negato, rifiutando qualsiasi possibilità di incontro con il leader leghista anche per mere ragioni istituzionali. Salvini facendosi ricevere da Ruini certificherà l'esistenza di una copertura cardinalizia italiana ai massimi livelli per la sua caccia al voto cattolico. Nel mirino di Salvini anche il Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi, l'unico soggetto politico dell'area cattolica presente sia alle politiche che alle europee, che con duecentoventimila voti effettivamente presi nelle urne è il boccone pregiato della lista di sigle fatta da Avvenire. Intervistato da Nicola Porro alla vigilia della manifestazione di San Giovanni, Salvini aveva dato per presente in piazza anche il PdF adinolfiano, fermato da una telefonata proveniente dai Sacri Palazzi. Il Popolo della Famiglia è stato ricevuto, infatti, da Papa Francesco sul sagrato di San Pietro con simboli e bandiere e ribadisce la sua ferrea obbedienza al Papa. E a obbedienza è stato richiamato. La road map salviniana è dichiarata nel titolo del Corriere della Sera: "Incontrare Ruini e non solo lui". Dunque aprire il fronte interno alla Chiesa esplicitamente, puntando dritto su elementi che Bergoglio considera proprie divisioni in campo, e il leader leghista può avere argomenti convincenti. Primo banco di prova è l'Emilia Romagna dove Francesco conta sul lavoro di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna da lui non a caso appena fatto cardinale, per fronteggiare quella che in Vaticano verrebbe considerata una catastrofe: la vittoria di Salvini nella regione che rischierebbe di azzoppare definitivamente quel Giuseppe Conte che il Papa vorrebbe "preservare".

Intervista al cardinal Ruini: “La Chiesa dialoghi con Salvini. I sacerdoti sposati? Un errore”. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. «Salvini ha notevoli prospettive davanti a sé, però deve maturare. Il rosario? Modo per affermare il ruolo della fede. Prima di entrare nella stanza del cardinale Camillo Ruini (Sassuolo, 1931, per sedici anni presidente dei vescovi italiani) si viene accolti dalla signora Pierina, tradizionale barometro della sua salute e del suo umore. Come sta? «È sempre il solito combattente» sorride lei.

Eminenza, sul «Corriere» Ernesto Galli della Loggia ha scritto che il voto in Umbria certifica «l’inconsistenza del richiamo politico di segno cattolico-democratico, nonostante l’impegno diretto della Chiesa». È d’accordo?

«In questi mesi Galli della Loggia ha scritto vari articoli molto acuti e penetranti. Penso anch’io che il “cattolicesimo democratico”, in concreto il cattolicesimo politico di sinistra, in Italia abbia sempre meno rilevanza. Sarei invece più cauto a parlare di impegno diretto della Chiesa».

In Umbria non c’è stato?

«Ha riguardato solo quella parte di uomini di Chiesa che sono a loro volta orientati a sinistra».

Ha l’impressione che i cattolici nella politica italiana non contino molto?

«Sì, oggi è così. E non per caso. Ma spero che non si tratti di una situazione irreversibile».

Dopo la fine della Dc e dell’unità politica dei cattolici, lei scelse la strada di influenzare gli schieramenti, in particolare il centrodestra. Non se n’è pentito?

«Non mi sono pentito. Senza mitizzarla, quella strada ha portato dei frutti. Si è trattato di sottolineare contenuti molto importanti, non solo per i cattolici, e di chiedere alle forze politiche di impegnarsi su di essi, o almeno di non contrastarli. Questa linea ha avuto maggiori adesioni nel centrodestra, ma ne ha trovate anche nel centrosinistra».

Cosa dovrebbero fare oggi i cattolici per far sentire la propria voce? Con il proporzionale non potrebbero fondare un loro partito?

«Domanda difficile. Non è questo il tempo per dar vita a un partito dei cattolici. Mancano i presupposti: per il pluralismo molto accentuato all’interno della Chiesa stessa, e per la sua giusta ritrosia a coinvolgersi nella politica. I cattolici possono però operare all’interno di quelle forze che si dimostrino permeabili alle loro istanze. È una strada oggi più faticosa di ieri, perché la scristianizzazione sta avanzando anche in Italia; ma non mi sembra una strada impossibile».

Salvini è così cattivo come lo dipingono? È possibile il dialogo con lui? O deve cambiare linea sui migranti?

«Non condivido l’immagine tutta negativa di Salvini che viene proposta in alcuni ambienti. Penso che abbia notevoli prospettive davanti a sé; e che però abbia bisogno di maturare sotto vari aspetti. Il dialogo con lui mi sembra pertanto doveroso, anche se personalmente non lo conosco e quindi il mio discorso rimane un po’ astratto. Sui migranti vale per Salvini, come per ciascuno di noi, la parola del Vangelo sull’amore del prossimo; senza per questo sottovalutare i problemi che oggi le migrazioni comportano».

Sbaglia a baciare il rosario?

«Il gesto può certamente apparire strumentale e urtare la nostra sensibilità. Non sarei sicuro però che sia soltanto una strumentalizzazione. Può essere anche una reazione al “politicamente corretto”, e una maniera, pur poco felice, di affermare il ruolo della fede nello spazio pubblico».

È vero che la Santa Sede rischia il crac finanziario?

«Attualmente non ho informazioni in merito, al di là di quello che leggo sui giornali. Però ho fatto parte per vent’anni del Consiglio dei cardinali per gli affari economici; e penso che la notizia sia fortemente esagerata. La Santa Sede non è così ricca come tanti pensano, e spesso i suoi bilanci sono in rosso; ma da qui a un crac finanziario la distanza è grande».

Il Sinodo sull’Amazzonia potrebbe consentire ai diaconi sposati di diventare preti. L’impressione è che possa essere il grimaldello per far saltare l’obbligo del celibato. O no?

«In Amazzonia, e anche in altre parti del mondo, c’è una grave carenza di sacerdoti, e le comunità cristiane rimangono spesso prive della messa. È comprensibile che vi sia una spinta a ordinare sacerdoti dei diaconi sposati, e in questo senso si è orientato a maggioranza il Sinodo. A mio parere, però, si tratta di una scelta sbagliata. E spero e prego che il Papa, nella prossima Esortazione apostolica post-sinodale, non la confermi».

Perché sbagliata?

«Le ragioni principali sono due. Il celibato dei sacerdoti è un grande segno di dedizione totale a Dio e al servizio dei fratelli, specialmente in un contesto erotizzato come l’attuale. Rinunciarvi, sia pure eccezionalmente, sarebbe un cedimento allo spirito del mondo, che cerca sempre di penetrare nella Chiesa, e che difficilmente si arresterebbe ai casi eccezionali come l’Amazzonia. E poi oggi il matrimonio è profondamente in crisi: i sacerdoti sposati e le loro consorti sarebbero esposti agli effetti di questa crisi, e la loro condizione umana e spirituale non potrebbe non risentirne».

Sta dicendo che un prete divorziato sarebbe un guaio?

«È così».

Ma lei non ha mai sentito la mancanza di una famiglia, di avere figli?

«Vivere il celibato non mi è stato facile: è un grande dono che il Signore mi ha fatto. Non ho però avvertito il peso di non avere figli, forse perché ho goduto dell’affetto di molti giovani. Quanto alla mancanza di una mia famiglia, sono tanto legato a mia sorella Donata (il cardinale indica una signora sorridente dalla fotografia che tiene accanto a quella di Wojtyla), e ho la fortuna di vivere con persone che per me sono come una famiglia».

Cosa si può fare allora per combattere il calo delle vocazioni? Per riempire i seminari? E anche le chiese, spesso disertate dai fedeli?

«A tutti questi interrogativi la risposta decisiva è una sola: noi cristiani, e in particolare noi sacerdoti e religiosi, dobbiamo essere più vicini a Dio nella nostra vita, condurre una vita più santa, e domandare tutto questo a Dio nella preghiera. Senza stancarci».

Papa Francesco è attaccato sia da coloro — come i vescovi tedeschi — che lo vorrebbero più riformatore, sia da coloro — come i vescovi nordamericani — che lo vorrebbero più conservatore. C’è il rischio di uno scisma?

«Non lo penso, e spero di no con tutto il cuore. L’unità della Chiesa è un bene fondamentale, e noi vescovi, in unione con il Papa, dobbiamo esserne i primi fautori».

Lei come giudica l’attuale pontificato? Sbaglia chi definisce Francesco un Papa «di sinistra», se non «populista»?

«Gesù Cristo ha detto: non giudicate, per non essere giudicati. Tanto meno io posso giudicare Francesco, che è il mio Papa, a cui devo rispetto, ubbidienza e amore. In questo spirito, posso rispondere che papa Francesco ha messo i poveri al centro del suo pontificato; e ricordo che anche san Giovanni Paolo II, molto diverso da lui, ribadiva di continuo l’amore preferenziale per i poveri».

Vede un declino dell’autorevolezza della Chiesa italiana?

«Lo vedo, purtroppo. Anche se non dobbiamo esagerare, e tanto meno disperare. Per recuperare autorevolezza dobbiamo esprimerci con chiarezza, coraggio e realismo sui problemi concreti; così la gente può comprendere che il messaggio cristiano la riguarda da vicino».

Il Papa emerito Ratzinger ha affermato che la crisi dell’Europa è antropologica: l’uomo non sa più chi è. Lei è d’accordo?

«Sì. Il principale motivo per cui non sappiamo più chi siamo è che non crediamo più di essere fatti a immagine di Dio; la conseguenza è che non abbiamo più la nostra identità, rispetto al resto della natura».

Lei ha scritto un libro sull’aldilà, «C’è un dopo? La morte e la speranza». Come se lo immagina?

«Ho 88 anni, e anche per questo all’aldilà penso ogni giorno, soprattutto nella preghiera. Immaginarlo è impossibile, se non per quello che ce ne ha detto Gesù Cristo: saremo per sempre con Lui e con Dio Padre, insieme ai nostri fratelli. Vivere già adesso il rapporto con Dio è il modo per pregustare la gioia che ci attende e che supera ogni nostro desiderio».

Ha mai qualche dubbio sull’immortalità dell’anima e sulla resurrezione della carne?

«Fino a Kant, l’immortalità dell’anima era l’idea prevalente tra i filosofi; il vero scandalo del cristianesimo è la resurrezione dei morti. Non i dubbi, ma più precisamente le tentazioni contro la fede nella salvezza futura mi hanno sempre accompagnato e affaticato. A vincerle aiuta la teologia, ma molto di più aiuta la preghiera. E ci confortano i segni che dall’aldilà talora arrivano».

Quali segni?

«Pensi alle tante guarigioni dovute all’intercessione di padre Pio. E anche a quelle — lo so per certo — dovute a san Giovanni Paolo II».

Mons. Mogavero: «Salvini? Non è in linea con il Vangelo». Ruini: «La Chiesa dialoghi». Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo e Aldo Cazzullo. Il vescovo di Mazara: «Lì si parla di accoglienza non c’è scritto “rimandiamoli a casa”» Le parole di Ruini: «Ha fatto bene ad aprire il dibattito, dobbiamo uscire tutti allo scoperto».

Monsignor Domenico Mogavero, il cardinale Camillo Ruini, sul Corriere invita a dialogare con il leader della Lega (qui l’intervista: «La Chiesa dialoghi con Salvini. I sacerdoti sposati? Un errore»). Lei che è stato con lui alla Cei e che da vescovo di Mazara ha criticato le posizioni contro gli sbarchi, cosa ne pensa?

«Non credo sia facile dialogare con lui».

Non lo incontrerebbe?

«Lo incontrerei volentieri. Figurarsi, volevo incontrare Gheddafi, lui è meno impegnativo. Ma con lui si può al massimo parlare. Non credo lasci aperti margini di confronto».

In che senso?

«O sei con lui o contro».

E con lui non c’è anche il popolo cattolico?

«Non penso che il popolo di Salvini sia il popolo cattolico. Anche se è fatto di cattolici».

Che differenza c’è?

«Si professa tale, ma non lo è. Sia per il rapporto con i migranti, sia nel dialogo con le altre religioni. Non basta brandire rosari e croci per definirsi cattolici».

Salvini lo fa. Non può essere, come dice Ruini, una «maniera sia pure poco felice di affermare il ruolo della fede nello spazi pubblico»?

«Credo che la sua sia piuttosto una scelta strategica. Fatta a tavolino. Per portare avanti la sua ideologia che non è che sia tanto in linea...».

Con la Chiesa?

«Con il Vangelo che parla di accoglienza e di porte aperte».

Salvini dice di portarlo in tasca. Non ci crede?

«Vorrei sapere quale Vangelo usa. Dove trova scritto: “rimandiamoli a casa loro”, “aiutiamoli là”, prima gli italiani. Io non le trovo queste cose. Trovo sempre la difesa degli ultimi».

Secondo lei allora il cardinal Ruini sbaglia?

«No, ha fatto bene ad aprire il dibattito. Ha gettato il sasso nello stagno. Ho riconosciuto l’innegabile intelligenza superiore e la immutata lucidità che gli conosco da qualche decennio: ho lavorato con lui a lungo e nutro per lui un grande affetto».

Perché ha fatto bene?

«Perché di queste cose tra di noi non se ne parla. E spero che ora si abbandoni il silenzio pudico di chi non sa che pesci prendere. Dobbiamo uscire tutti allo scoperto».

Ruini non auspica un nuovo partito cattolico. Lei?

«Per l’amor di Dio, nemmeno io. Portiamo addosso i segni di quando dovevamo essere un unico partito».

La Dc?

«Il periodo dei padri fondatori è fuori discussione. Ma i figli e i nipoti non è che siano stati di così specchiata coerenza. Col rischio che ciò che di male faceva il partito veniva addebitato alla Chiesa».

Quindi i cattolici non devono impegnarsi in politica?

«Secondo me sì. Ma portando la testimonianza della coerenza dei valori evangelici nella propria vita».

Questo Papa è di sinistra?

«Il Papa non fa politica, predica il Vangelo. E se fa questa scelta assoluta per i poveri non dice nulla di nuovo. È stata in qualche modo l’ideologia comunista a copiare».

Ma Ruini ha detto che la scelta di influenzare gli schieramenti di centrodestra è stata positiva. È così?

«Forse. Ognuno cerca di dare al Vangelo il coinvolgimento personale più congeniale. E quello era congeniale a chi ama una visione delle cose più tranquilla, dove c’è spazio per tutti, soprattutto per quelli che sanno gestirsi bene. Oggi poi la situazione è diversa. Appena c’è una dialettica interna si dice: basta, me ne vado, faccio da me. Ma in queste liste Salvini, Berlusconi, Berlinguer o che so io, tutto si identifica con una persona. E questo è rischioso. L’esaltazione del singolo può anche creare problemi al sistema».

Monsignor Mogavero, per il prelato "il Vangelo" è comunista e i leghisti non sono cattolici. Renato Farina su Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Il comunismo? È una fotocopia del Vangelo. Da cosa lo si capisce? Sono entrambi, Vangelo e «ideologia comunista per la scelta assoluta per i poveri». A scandire solennemente questa identità è un vescovo italiano. Dev' essere un pezzo molto grosso nella Chiesa, monsignor Domenico Mogavero, se il Corriere della Sera dopo aver intervistato domenica il cardinale Camillo Ruini, numero uno dell' episcopato italiano per sedici anni, ha deciso di contrapporgli in prima pagina, come interprete italiano dell' attuale pontificato, il prelato siciliano di Mazara del Vallo. Lasciamo perdere qui la scomunica de facto di Matteo Salvini, marchiato dal presule come «non cattolico», uno che finge la fede «a tavolino». Sono in fondo cose minime rispetto alla favolosa rivalutazione dell' essenza dottrinaria del comunismo, il cui immane spettacolo ha travolto qualche miliardo di persone e un paio di secoli di storia. La intemerata anti-leghista è una piccola storia, una faccenda contingente, riguarda il corso politico di quest' ultimo anno di un Paese secondario come l' Italia (ci limitiamo a notare, per sfizio, che quella di Salvini dev' essere l' unica coscienza che si può giudicare anti-evangelica e dannarla senza problemi, per tutti gli altri vale la sentenza papale «chi sono io per giudicare»). Ci importa questa identificazione: ideologia comunista=Vangelo. Si suppone alluda al "Capitale" di Marx in combinato disposto con "Marxismo ed empiriocriticismo" di Lenin. O Sua Eccellenza predilige il più movimentista Trotskij con "La natura di classe dello Stato sovietico"? Ma sì, che bella l' ideologia comunista, così amica dei poveri, così pronta a innalzare i miti e gli operatori di pace. Così aliena soprattutto dal perseguitare i cristiani. La sua applicazione magari un po' rigida ne ha ammazzati circa un trenta milioni, tra ortodossi, cattolici, evangelici e pentecostali, ma l' ha fatto per implementare con determinazione profetica la preferenza assoluta per i poveri. I Gulag russi e kazachi, coreani e vietnamiti, cubani e cinesi che cosa sono stati e sono in fondo se non monasteri staliniani di clausura, severi ma giusti?

LA SENTENZA. Domanda di Virginia Piccirillo: «Questo Papa è di sinistra?». Risposta di Domenico Mogavero: «Il Papa non fa politica, predica il Vangelo. E se fa questa scelta assoluta per i poveri non dice nulla di nuovo. È stata in qualche modo l' ideologia comunista a copiare». Conviene notare come questa sentenza sia stata pronunciata quasi per mettere al riparo il Papa dalla accusa di avere simpatie per il comunismo. Che colpa ne ha Francesco se il Vangelo è comunista? Questo dice Mogavero: la dottrina di papa Francesco e l' ideologia della barbuta e baffuta compagnia rossa si abbeverano alla stessa fonte. Certo, i comunisti lo fanno «in qualche modo», ma la sorgente della loro politica è stata, è e sarà il medesimo amore per i poveri. Come è possibile che una simile bestialità sia stata detta, senza che una schiera di martiri abbia attraversato in picchiata i confini dell' Empireo e sia venuta in candide vesti ad appenderne l' autore per il collarino del clergyman? Mi sto convincendo che davvero Dio è molto misericordioso. Infatti non solo sopporta me senza farmi sprofondare, ma riesce ad avere la pazienza fenomenale di non aprire una voragine e vedersela a tu per tu in qualche catacomba vaticana con il vescovo siculo spolverandogli la coppola. Uscendo dall' ironia. Com' è possibile dire queste cose senza sprofondare nella vergogna? Senza che dopo mezz' ora l' autorità della Chiesa, qualcuno di superiore ci dev' essere, esprima un minimo di disappunto. Il muro di Berlino a una certa parte dell' episcopato dev' essere caduto sui piedi, rovinandone i sogni. Le conosciamo le tesi di certi teologi, secondo cui il comunismo è l' utopia pratica, il tentativo di costruire il Regno dei poveri di Dio in terra. Era un così bel presepe, la Ddr... Loro sì che aspiravano e aspirano tuttora a questo Vangelo realizzato.

IL ROSARIO. Al contrario Matteo Salvini e il suo popolo si dicono cattolici ma non lo sono. Invece i comunisti non sono cattolici ma lo sono. Ecco infatti che cosa sostiene a proposito del leader leghista. Cattolico? Dice Mogavero: «Si professa tale, ma non lo è. Sia per il rapporto con i migranti, sia nel dialogo con le altre religioni. Non basta brandire rosari e croci per definirsi cattolici».

Domanda: «Salvini lo fa. Non può essere, come dice Ruini, una "maniera sia pure poco felice di affermare il ruolo della fede nello spazio pubblico"»? Risposta: «Credo che la sua sia piuttosto una scelta strategica. Fatta a tavolino. Per portare avanti la sua ideologia che non è che sia tanto in linea...». Domenica, in una bellissima intervista con Aldo Cazzullo, il cardinal Camillo Ruini aveva osato invitare la Chiesa italiana ad «un dialogo... doveroso» con Matteo Salvini. Non soltanto utile, bensì moralmente necessario per l' episcopato. Orrore: non aveva scagliato anatema contro Matteo e i suoi elettori cattolici. Aveva detto: «Non condivido l' immagine tutta negativa di Salvini che viene proposta in alcuni ambienti. Penso che abbia notevoli prospettive davanti a sé».

IL CONFRONTO. Non poteva passarla liscia. A Mogavero è giunto un via libera da un capo stazione del "nuovo umanesimo". Era domenica mattina, quando a Ruini è arrivato in testa da parecchio in alto nelle gerarchie ideologiche del bergoglismo (che non c' entra con Bergoglio, e lo ridico: Bergoglio non è un bergogliano!) un tweet di Alberto Melloni, in gara con Scalfari come interprete di Francesco su Repubblica, storico del Concilio e luminare accademico del cattolicesimo dossettiano. Scrive: «Per una beffa della storia quel che Ruini dice oggi sul Corriere delle possibili "prospettive" di Salvini è identico a quel che von Papen diceva di Hitler a Roncalli nel 1941 (P.S. Roncalli lo zittì citando i "milioni di ebrei" uccisi "nelle camere a gas")». Ha associato le parole di Ruini a quelle di von Papen, ambasciatore di Hitler ad Ankara. Un accostamento infamante per il vecchio cardinale. Il paragone in realtà è doppio. Hitler=Salvini. Von Papen=Ruini. Anzi quadruplo a ben vedere: quattro nazisti. Il furore è tale da accecare questo storico davvero molto scrupoloso, e fargli sostenere la tesi demenziale che l' arcivescovo Roncalli, plenipotenziario di Pio XII in Turchia, e dunque la Chiesa nei suoi vertici, fossero al corrente della Shoa nel 1941, addirittura un anno prima che cominciasse l' abominio dello Zyklon-B ad Auschwitz. E Mogavero in questo quadretto sarebbe quindi il Roncalli che sistema Ruini-Von Papen? Stiamo freschi. Renato Farina

Marco Bettazzi e Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” il 23 novembre 2019. L' aveva promesso, Matteo Zuppi, cardinale di Bologna e proprietario di una multinazionale: «Tutti gli utili saranno usati per la carità». E che utili: dieci milioni nel 2019, trentasei in cinque anni, finiti nelle casse della Curia e spesi per aiutare poveri, senzatetto, carcerati, studenti, famiglie sotto sfratto, migranti. Un welfare parallelo da far invidia alle casse di un Comune, che ha un inizio ben preciso: il giorno in cui, chiusa una porta, si spalancò un cancello automatico. Nel 2012 la Chiesa bolognese ereditò l' impero della Faac, 2.500 dipendenti con fabbriche in ogni angolo del pianeta. Il testamento scritto dal patron Michelangelo Manini prima della morte scatenò una furiosa battaglia legale con i parenti finché non fu scambiato un segno di pace: i nuovi proprietari versarono ai familiari sessanta milioni di euro in cambio della promessa di non vedersi più in un' aula di tribunale. Mai s' era vista, nella città di San Petronio, una tale commistione fra fede e affari, tra il dio del denaro e quello delle anime, una Chiesa-padrona col conto corrente a svariati zeri. Don Matteo, che non ha voluto un posto nel consiglio d' amministrazione del colosso - «Ognuno fa il suo mestiere, il vescovo fa il vescovo», disse lo scorso febbraio - ha seguito la strada tracciata dal suo predecessore, il cardinale Carlo Caffarra, in prima linea nella delicata fase della successione ereditaria. L' Arcidiocesi ha affidato la gestione dell' azienda a un trust di tre esperti, che a loro volta hanno scelto gli organi societari. Oggi la Chiesa si limita a indicare le linee guida e decide come spendere i profitti: «Con i fondi non si sostiene l' attività ordinaria ma si finanziano attività straordinarie. L' obiettivo è aiutare le famiglie a uscire da una fase di crisi in modo che una situazione grave non diventi drammatica», ha spiegato l' altro giorno il vicario generale Giovanni Silvagni. Dei dieci milioni a disposizione nel 2019, uno è andato via in tasse e altri sei e mezzo sono stati già spesi. Come? Alle parrocchie sono arrivati 1,3 milioni di euro per aiutare più di 1.700 famiglie con oltre duemila ragazzi minori. Trecentomila euro sono serviti a pagare l' affitto a chi non poteva più permetterselo, 358 mila per le bollette, 63 mila per coprire il costo di un esame in ospedale, 225 mila per varie voci, come quella che permette a uno studente di andare in gita con i compagni di classe. Nel 2017, il progetto "Insieme per il lavoro" di Curia, Comune e Città metropolitana portò a un investimento totale di 14 milioni per favorire l' inserimento dei disoccupati. Una commissione presieduta da Zuppi valuta i progetti da finanziare: dal reinserimento sociale per gli ex detenuti ai progetti per migranti e senza fissa dimora. C' è la storia del papà eritreo scappato dalla guerra che ha trovato casa grazie a una cooperativa, o quella del clochard Fortunato, 56 anni di cui 15 passati a dormire sotto i portici di San Luca: gravemente malato, ha trascorso i suoi ultimi giorni di vita sotto un tetto vero. Una fabbrica di solidarietà. Ma anche di soldi. La Faac non è certo un' associazione benefica o una parrocchia troppo cresciuta. È una multinazionale presente in 24 Paesi, nata nel 1965 da un' intuizione del fondatore Giuseppe Manini, che un bel giorno si accorge di come nei condomini i cancelli restano sempre aperti. E chissà da allora quanti ne sono stati chiusi pigiando un semplic tasto del telecomando. L' anno scorso la Faac ha sfiorato i 430 milioni di euro di fatturato, con un utile da 63 milioni, in forte crescita. Nel 2019 ha già chiuso due acquisizioni in California e in Brasile. Sono buoni anche i rapporti sindacali, persino coi duri e puri della Fiom. L' ultimo contratto aziendale del 2018 prevede commissioni miste sindacati- azienda su temi come flessibilità degli orari, borse di studio per dipendenti e i loro figli, bonus da mille euro per ogni figlio nato, premi di risultato da quasi 2.600 euro. Non sempre è stato tutto rose e fiori. A Bergamo, nel 2015, la Faac annunciò fra le polemiche la chiusura di una sede con 40 dipendenti. Ma i rapporti tra le parti non sono cambiati. «È una delle aziende dove ci sono migliori relazioni, sia nei modi che nei contenuti - conferma Stefano Zoli, della Fiom Cgil - C' è sicuramente più attenzione per certi temi. Come succede in tante altre imprese».

Matteo Zuppi, il leader di cui la sinistra ha bisogno. Il vescovo di Bologna fa quel che ogni sacerdote potrebbe e dovrebbe: parla a tutti. Perché usa “cristiano”, come sinonimo di persona. Luca Bottura il 04 novembre 2019 su L'Espresso.

Matteo Zuppi. Leader della sinistra. Dio ci deve delle spiegazioni, diceva Freak Antoni, dopo aver sostenuto che Egli esisteva, ma ci odiava. Stefano Benni scrisse che ci fa una figura migliore a non esistere, invece, se - il non detto - il suo creato è ’sta sbobba qua. John Lennon immaginava un mondo senza religioni e forse è per questo che non è finito né in Cielo né sottoterra, che peraltro sosteneva non esistessero, ma nella nostra memoria. Che, scintilla dopo scintilla, diventerà la memoria altrui. Frutto della finita trascendenza che l’Uomo porta con sé, pedestre e pauroso com’è. Tutto questo per dire, senza tema di noia, che il vostro recensore non crede. Credeva, credette, ha creduto, causa rimbalzi familiari e consuetudine ambientale, per la precisione cattocomunista. Ma un bel giorno ha conosciuto pure lui, pure io, quel bel monologo di Steve Carlin sull’essere perfettissimo che tutto vede, tutto dispone, tutto governa attraverso la lista delle dieci cose che non devi fare, trasgredita una sola delle quali ti manda a soffrire per l’eternità, ma ti ama, e vuole il tuo 8x1000 (questo nella versione di Daniele Luttazzi). E ha smesso, ho smesso, di credere. Così, a differenza dei cattolici, posso scegliere. Loro no. Loro dovrebbero prendere il pacchetto completo, che non prevede l’obbligo di baciare madonnine in pubblico, ma quello di amare il prossimo, da dovunque venga, su un barcone tra la Libia e l’Italia o in viaggio tra Gerusalemme e Gerico. Loro, non io, non dovrebbero fare figli fuori dal matrimonio, non dovrebbero tradire, dovrebbero porgere l’altra guancia. Loro, non io, dovrebbero considerare il Papa infallibile anche quando, invece di alzare barriere, abbatte muri. Di Berlino o, più recentemente, di ipocrisia. Loro non possono scegliersi i cardinali da ascoltare, io sì. A Bologna, dai cui lombi provengo, ci toccò in sorte Giacomo Biffi. Parlandone da vivo, un destrone mandato da Giovanni Paolo II a redimere le pecorelle rosse. Molto distante dalla Misericordia, almeno quella che frequentiamo noi senza Dio, ma di spessore. Gli succedette Carlo Caffarra, uno che pareva un filo troppo spigoloso persino a Ratzinger. Un cerbero. Un fustigatore. Un uomo d’altri tempi, se per altri tempi si intende il Concilio di Trento. Poi Papa Francesco ha nominato Matteo Zuppi. E Matteo Zuppi fa quel che ogni sacerdote potrebbe e dovrebbe: parla ai “propri” ma parla anche a quelli come me. L’altra sera, ospite da Fabio Fazio, con quella voce alla Flavio Insinna, il sorriso in levare, la parola pacata ma non debole, ha spiegato che possiamo fare grandi cose se non parliamo da grandi, ma se da grandi vogliamo bene. Ha aggiunto che l’amore è la vittoria sulla paura, il nemico che tutti cavalcano, e che non può essere neutrale, che si schiera sempre, si schiera con l’uomo. Ha difeso il suo principale dal turbinio di hater che usano l’odio per la loro essenza di cattivi cristiani. Dalle mie parti, la terra un tempo più rossa d’Italia, abbiamo sempre usato quell’aggettivo, “cristiano”, come sinonimo di persona. Ringrazio il mio vescovo per aver sovrapposto quei termini anche nel suo parlare. Aggiungendo che l’inferno non ha le fiamme: l’inferno è la rassegnazione. Una delle cose più di Sinistra che abbia mai sentito da quando sono nato. Grazie. Giudizio: Amen

Papa Francesco, gli incontri in gran segreto con Virginia Raggi: la confidenza sbagliata del sindaco M5s. Libero Quotidiano il 31 Ottobre 2019. Sicuri che Papa Francesco non faccia politica? Il retroscena scodellato da Il Messaggero è piuttosto clamoroso: il quotidiano capitolino infatti dà conto dei frequenti, e segreti, incontri tra il Pontefice e Virginia Raggi, il sindaco grillino di Roma. "Papa Francesco? È la mia guida spirituale", ha confidato ai suoi fedelissimi, a cui ha raccontato di un "rapporto speciale" col Pontefice. Fatto di cui in pubblico non aveva mai parlato. Incontri al di fuori delle visite istituzionali, segreti appunto, oltre a lunghe telefonate. Peccato che la confidenza abbia viaggiato di bocca in bocca, fuori dal Comune e dritta dritta sulle pagine de Il Messaggero. E il quotidiano fa notare come in una fase come questa, col M5s spaccato sulla Raggi e le elezioni all'orizzonte, l'appoggio del Santo Padre potrebbe avere molto peso "negli ambienti che contano".

Simone Canettieri per “il Messaggero” il 31 ottobre 2019. «Papa Francesco? È la mia guida spirituale». Virginia Raggi in pubblico, davanti ai taccuini, non ne parla mai. Ma quando si rilassa, magari lontana dal Campidoglio, racconta in libertà del suo «rapporto speciale» con il Pontefice. Una frequentazione assidua che esce dai protocolli e dalle visite istituzionali per nutrirsi di incontri segreti e lunghe telefonate. Raggi sembra molto gelosa di questo filo diretto: come regola ha dato ai suoi collaboratori di non parlarne mai. Al contrario suo, però. Visto che questa santa confidenza inizia a correre di bocca in bocca, dentro e fuori il Comune, soprattutto con l'approssimarsi della sfida elettorale che vede la grillina pronta a ricandidarsi. Tanto che in questa fase - con il M5S diviso sull'operato della sindaca e con pezzi di società civile che le hanno voltato le spalle, a partire dai sindacati - l'appoggio del Santo Padre potrebbe diventare negli ambienti che contano motivo di forza (e di vanto). Il rischio di un incidente diplomatico, certo, è dietro l'angolo. Basti ricordare che dopo sei mesi di governo M5S della Capitale, gennaio 2017, all'allora assessore Adriano Meloni scappò questa notizia: la volontà del Papa di pagare l'Imu sugli immobili commerciali della Chiesa. «Virginia glielo ha chiesto direttamente - disse a questo giornale - e lui si è dimostrato disponibile». La sindaca, il giorno dopo, andò su tutte le furie. E riprese pubblicamente Meloni, che ora non c'è più, volato nello iperspazio dei mille assessori cambiati dalla pentastellata in tre anni. Magari anche per questa leggerezza. «Virginia Bergoglio», la chiamano scherzando i pochi eletti che sono a conoscenza di questo segreto. Niente di nuovo: prima di Raggi c'è stato un altro sindaco che per un lungo periodo ebbe (ostentandolo) un legame con Papa Francesco. Esatto: proprio Ignazio Marino. Anche se il chirurgo dem finì, suo malgrado, schiacciato mediaticamente da una mitologica frase pronunciata da Bergoglio sul volo di ritorno dal Congresso mondiale delle famiglie di Philadelfia: «Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? E neppure gli organizzatori, ai quali l'ho chiesto, lo hanno invitato. Si professa cattolico, è venuto spontaneamente». Un pasticcio che non portò bene a Marino, che dopo un mese venne sfiduciato dai suoi consiglieri (non per questo motivo, va detto, ma anche sulla scia di un frontale del genere). Ora in Campidoglio c'è una donna capace di avere da subito un feeling particolare con il pontefice. «La sua guida spirituale», anche alla luce di tutti i momenti complicati che ha dovuto passare finora alla guida della città. Un motivo di forza che le fa superare qualsiasi mediazione con le gerarchie intermedie del Vaticano. Ieri, per esempio, al grande convegno per ricordare i 100 anni della nascita di San Giovanni Paolo II che si è svolto in Campidoglio - alla presenza tra gli altri, dell'arcivescovo Agostino Marchetto e del cardinale Angelo Comastri - Raggi non si è presentata. Nonostante fosse attesa per il saluto istituzionale. Un'assenza che non è passata inosservata. E giustificata, con un pizzico di malizia, proprio dal «rapporto speciale tra Virginia e Francesco che è solidissimo e diretto». Eppure le curve della recente storia cittadina dovrebbero aver insegnato altro.

Da liberoquotidiano.it il 23 ottobre 2019. Papa Francesco marxista? Non troppo. A rivelare la simpatia politica di Bergoglio è Aldo Duzdevich, giurista e scrittore argentino con una passato nel movimento terroristico Montoneros. "Papa Francesco più che comunista è un peronista. È un errore incasellarlo nell'ideologia marxista. Se Perón fosse ancora vivo, lui per primo direbbe che è Perón ad essere Franceschista". Proprio in questi giorni - racconta Il Messaggero - Duzdevich è stato a Santa Marta a portargli l'ultimo suo libro, quello relativo all'azione svolta dal giovanissimo gesuita in una Argentina squassata dalle violenze. "È stato un prete che ha rischiato in prima persona per aiutare i perseguitati della dittatura. Ci sono prove, testimonianze, attestazioni da parte di ex militanti di Montonero. Molti se oggi sono vivi lo devono proprio a quello che Bergoglio ha fatto per loro". Le assonanze tra la posizione teologica di Francesco e il Peronismo non sono così poche: "Perón aveva ben chiaro che poteva avanzare su tre pilastri: la giustizia sociale, l'indipendenza economica e la sovranità politica. Sapeva anche che per cercare un consenso più vasto doveva elaborare proposte vicine alla Chiesa sul tema della giustizia sociale, sulla ricerca della pace basata sull'amore per il prossimo. Perón ha sempre usato elementi della dottrina sociale della Chiesa". E sembra che Bergoglio ricambi: la frase di commiato che usa ogni qualvolta saluta la folla, 'vi prego pregate per me', sarebbe un chiaro rimando a quella usata da Peron con gli ospiti che si accomiatavano da lui.

Estratto dell’articolo di Paolo Rodari per “la Repubblica” il 22 ottobre 2019. «I soldi dell'Obolo di San Pietro usati per operazioni finanziarie? Non mi risulta. La segreteria di Stato ha in dote risorse di diversa provenienza, non soltanto quelle della carità del Papa le quali, per volere di Francesco, devono essere usate solo e soltanto per opere di bene. Non credo sia stato fatto diversamente». In un salottino di casa Santa Marta, la residenza dove Francesco ha deciso di abitare appena terminato il conclave, il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, porporato sudamericano a capo del C9, il ristretto consiglio composto da cardinali chiamati a riformare la curia di Roma e la Chiesa, […] commenta le ultime vicende vaticane dopo l' anticipazione fatta da Repubblica del libro di Gianluigi Nuzzi "Giudizio universale".

Eminenza, si dice che il Vaticano sia sull' orlo del fallimento. L'Obolo in dieci anni è dimezzato, e solo 2 euro su 10 vanno davvero ai bisognosi. Come mai?

«Ripeto, è una ricostruzione di cui non ho riscontro. Dire poi che il Vaticano è a rischio default è falso. La segreteria di Stato, fra l'altro, amministra anche le spese delle nunziature apostoliche. Gli ingressi economici di cui dispone vengono da più parti, non soltanto dall' Obolo. Ci sono, poi, le entrate dei musei vaticani che aiutano tutta la Santa Sede. A me sembra più che altro sia in atto una strategia di screditamento precisa».

Quale?

«Vogliono colpire il papato: prima dipingendo una Chiesa dove sono per la maggior parte pedofili, adesso mostrando una noncuranza economica. Ma non è così. Anche la vicenda che ha portato alle dimissioni del comandante della gendarmeria Domenico Giani merita approfondimenti diversi dai titoli di giornale».

In che senso?

«La pubblicazione del documento con i nomi delle persone sospese è stato un colpo basso contro di lui. A testimonianza che dentro il Vaticano continua a esserci un problema: qualcuno fa uscire le carte per destabilizzare». […]

Mi scusi eminenza, ma cosa esattamente si vuole destabilizzare con il passaggio delle carte?

«Intanto la gendarmeria, che ha visto fuoriuscire la sua guida. E poi il papato: durante un Sinodo dei vescovi dai contenuti decisivi si fa parlare d' altro».

[…] Perché il Sinodo sull' Amazzonia darebbe fastidio a qualcuno?

«Non userei il condizionale. Dà fastidio. Papa Francesco desidera che la Laudato Sì' , la sua enciclica ecologia dedicata alla cura del creato sia conosciuta nella Chiesa. Lo sa che in parte della Chiesa statunitense non sanno nemmeno cosa sia?».

Cioè?

«Fanno finta che non esista. Perché una parte della Chiesa sembra essere più interessata ai grandi donatori, alle politiche delle compagnie del petrolio e del carbone. In questo senso il testo del Papa che chiede sviluppo sostenibile e giustizia sociale dà fastidio a chi è interessato solo ai soldi».

Sta dicendo che esiste un mondo cattolico statunitense che snobba volutamente il Papa sui temi ambientali?

«Diciamo che è quantomeno incomprensibile il fatto che una parte della Chiesa cattolica, nonostante uragani, siccità, cambiamenti epocali come conseguenza evidente dell' azione dell' uomo, non ascolti questi messaggi della natura e non si interroghi». […]

I "viri probati", uomini anziani sposati ordinati preti, saranno la soluzione della mancanza di vocazioni?

«Il Sinodo sta discutendo. È una soluzione intelligente anche se gli oppositori l' hanno presa come una bandiera per attaccare. Un' altra soluzione che vedo possibile è quella di ordinare preti i diaconi sposati. Fra l' altro nella tradizione cattolica esistono già i preti sposati, mentre Benedetto XVI ha ammesso i preti anglicani sposati convertiti al cattolicesimo. Il diaconato permanente potrebbe rimanere, ma alcuni di questi diaconi potrebbero essere ordinati sacerdoti per celebrare l' eucaristia». […] 

Chiesa: tutti gli uomini di Bergoglio. Gli ultimi Cardinali sono di stretta osservanza "Bergogliana": accoglienza a tutti i costi, apertura alle altre religioni. Ma intanto i fedeli scappano dalle chiese. Alessandro Rico il 22 ottobre 2019 su Panorama. Magari è vero: la Chiesa non si governa con le Ave Maria. Ma un conto era sentirlo dire dal cinico monsignor Paul Marcinkus, ai tempi in cui era presidente dello Ior. Un conto è vedere che Jorge Mario Bergoglio, il Papa della «Chiesa in uscita», reggere la barca di Pietro in modo tutt’altro che collegiale, come aveva invece lasciato intendere all’inizio del Pontificato. Francesco è molto diverso dal suo clemente predecessore Joseph Ratzinger. Lui è un abile politico. A tratti spregiudicato. Nelle stanze vaticane alcuni lo descrivono come un uomo duro, che si aspetta che i suoi ordini vengano eseguiti bene e rapidamente. C’è chi è sicuro che i suoi inviti a sentirsi liberi di criticarlo servano a stanare gli avversari: ci sarebbe cascato il cardinale Raymond Leo Burke, con i rilievi sul sinodo sulla famiglia, costatigli l’allontanamento dalla presidenza del tribunale della Segnatura Apostolica, con la scusa di un incarico simbolico nell’Ordine di Malta. Ma c’è anche il caso del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia, purgato dai non allineati alla dottrina di Amoris laetitia. Al contempo, Bergoglio si premura di collocare nelle posizioni chiave i «suoi»: lo dimostra il modo in cui ha rivoluzionato il collegio dei cardinali elettori. Francesco, insomma, si è costruito un vero partito di fedelissimi, magari vinti dal timore più che dalla persuasione. Eppure le manovre di palazzo, la mondanizzazione della Chiesa, le aperture all’islam e i cedimenti al regime cinese, cifra di questo Pontificato, non paiono entusiasmare i fedeli. Un sondaggio Doxa ha rivelato che in Italia la percentuale di cattolici è calata del 7,7 per cento. Il Dipartimento di statistiche vaticano rileva una diminuzione di 387 sacerdoti tra 2016 e 2017, l’ultimo anno misurato. Il Viminale registra la perdita di 55 parrocchie tra il 2012 e il 2016. La partecipazione a udienze, celebrazioni e Angelus si è dimezzata tra il 2013 (il primo anno di Francesco) e il 2016. Il Pontificato di Bergoglio non è riuscito ad arrestare neppure l’emorragia di cattolici dell’America Latina, in fuga verso le sette protestanti. In Brasile, entro una decina d’anni, potrebbe consumarsi il sorpasso degli evangelici. Forse il gregge ha scoperto l’artificio del pastore, il quale, commenta un vaticanista che preferisce restare anonimo, parla «come il segretario generale dell’Onu o il capo di Greenpeace, più che come il successore di Pietro. Sembra che non voglia confermare i fratelli nella fede, ma essere ammirato dal mondo». Però se agnostici e progressisti apprezzano Francesco, i cattolici sono sconcertati da lui e dai prelati della sua cerchia, tutti pro immigrazione e nemici giurati dei populisti. E in effetti un parroco bolognese, don Alfredo Morselli, si sfoga così con Panorama: «Se il clero trascura la difesa dei principi non negoziabili per occuparsi solo di accoglienza, non è più credibile. Nemmeno quando esercita il proprio ministero, quando benedice o confessa. C’è sgomento tra i cattolici: le pecorelle stanno abbandonando l’ovile», conclude Morselli. «Ma c’è sgomento anche tra i sacerdoti: chi non si adegua viene punito. Addirittura, i seminaristi considerati troppo tradizionalisti hanno difficoltà ad arrivare all’ordinazione. Ne hanno cacciati alcuni con una motivazione assurda: pregavano troppo...». Per consolidare il proprio partito, Bergoglio ha accresciuto l’influenza dell’Ordine da cui proviene, quello dei gesuiti, di cui ha sponsorizzato la corrente di sinistra. A Bergoglio, comunque, non sta poi così a cuore il rigoglio della Compagnia di Gesù. Come ricorda Edward Pentin, del National catholic register, «in passato ha avuto una relazione burrascosa con i gesuiti, non è mai stato vicino a loro come si potrebbe pensare». La sua, forse, è soprattutto una partita personale. Lo storico Henry Sire, autore di un libro dal titolo eloquente, Il Papa dittatore lo spiega così: «Bergoglio ha una personalità autoritaria. Per certi versi, ricorda Juan Perón: è stato capace di passare da destra a sinistra, evita lo scontro aperto e dice ai suoi interlocutori quello che vogliono sentire. Salvo agire di testa sua». Quest’attitudine, distante dall’immagine bonaria del Papa che augura «buon pranzo» ai fedeli, è affiorata in svariate occasioni. Basta guardare al modo in cui ha silurato il cardinale Gerhard Müller, ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. O a come ha indebolito un altro cardinale scomodo, Robert Sarah, rimuovendo molti membri della Congregazione per la liturgia e rimpiazzandoli con altri di suo gradimento. Un po’ com’è successo con il rimodellamento del conclave. In sei anni di Pontificato, Francesco ha creato 67 nuovi cardinali elettori, sforando il limite di 120 porporati, stabilito da Paolo VI: adesso ce ne sono 128 e la maggioranza è indubbiamente bergogliana. Le nomine del 5 ottobre scorso sono significative. Tra i promossi figurano, ovviamente, alcuni gesuiti, a cominciare dal ceco-canadese Michael Czerny, che dal 2016 guida la sezione migranti del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Nel  suo stemma cardinalizio campeggia un barcone carico di immigrati e ha tenuto a specificare che il legno di cui è composto il suo crocifisso «proviene da una barca utilizzata per attraversare il Mar Mediterraneo e arrivare a Lampedusa». Perfetto spirito bergogliano: Francesco ha appena fatto installare in piazza San Pietro una grande scultura che raffigura una moltitudine di migranti. Eppure, al netto degli obblighi umanitari, il Catechismo ammette che «le autorità politiche» subordinino «l’esercizio del diritto di immigrazione (...) al rispetto dei doveri nei confronti del Paese che accoglie». L’osservanza della legge, al contrario, non pare essere una priorità del partito di Bergoglio. Una prova su tutte: il cardinale Elemosiniere, Konrad Krajewski, che a maggio era andato a riallacciare le utenze di un palazzo occupato dagli abusivi a Santa Croce in Gerusalemme, a Roma. L’altro gesuita neocardinale è il capo della Conferenza episcopale europea, Jean-Claude Hollerich. Il suo merito? Magari, aver castigato il leader della Lega Matteo Salvini per l’esibizione del rosario. O essersi fatto fotografare, il 4 ottobre, a tavola con il no global Luca Casarini, esponente della ong Mediterranea. «Colpisce» racconta a Panorama il ricercatore cileno dell’associazione Tradizione, famiglia e proprietà, José Antonio Ureta, «che nei suoi viaggi all’estero Francesco vada a visitare la sede locale dei gesuiti». D’altra parte, questi ultimi coltivano da decenni delle mire sui vertici della Chiesa. Secondo don Nicola Bux, teologo e stretto collaboratore di Benedetto XVI, «è almeno dagli anni Sessanta che una parte “deviata” dei gesuiti propugna un programma di sovvertimento della dottrina, di costituzione di una sorta di neo Chiesa o anti Chiesa». Don Bux riconduce proprio a questo milieu culturale le radici della negazione della divinità di Cristo, che in un editoriale su Repubblica della scorsa settimana Eugenio Scalfari attribuiva allo stesso Francesco: «Sì, il Vaticano ha smentito. Ma per esperienza posso affermare che, sulla scorta della teologia di Karl Rahner, tra i gesuiti c’è chi arriva ad affermare anche simili tesi». Nel cerchio magico del partito gesuita di Bergoglio non si può omettere il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, twittatore anti sovranista. L’Ordine, tuttavia, annovera personalità ben più estreme. Tipo James Martin, consultore della Segreteria per la Comunicazione, propugnatore della teologia arcobaleno e ospitato dal Papa a fine settembre. Martin aveva celebrato l’evento sui social: «Ho ricevuto un’udienza privata nel corso della quale ho condiviso le gioie e le speranze, i dolori e le preoccupazioni dei cattolici Lgbt e delle persone Lgbt in tutto il mondo». In fondo, chi è il Papa per giudicare? E c’è pure chi si spinge fino all’eresia. Il generale dei gesuiti, Arturo Sosa Abascal, cui Francesco, sottolinea Pentin, «è considerato molto vicino», è famoso per aver negato la veridicità di Satana: «Il diavolo esiste come realtà simbolica, non come realtà personale». Ma in questa rete del potere bergogliano, una menzione la merita pure un altro dei cardinali appena creati, non gesuita: è l’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, anch’egli sostenitore delle pastorali Lgbt e di recente protagonista della querelle sul tortellino filoislamico. Lui ha assicurato che non era al corrente dell’iniziativa, ma le sue credenziali di amico dei musulmani sono solidissime. La parola d’ordine di Zuppi a Bologna? È naturale: «accoglienza». Un curriculum in armonia con la dichiarazione di Abu Dhabi, siglata dal Papa e dal Grande imam di Al Azhar, in cui si scorgono passaggi in odore di indifferentismo religioso. Tipo quello in cui si asserisce che la «Sapienza divina» ha creato «il pluralismo e le diversità di religione». Con lo spoils system curiale, Francesco spera di garantire continuità alla sua agenda, riformista sulla dottrina ma sostanzialmente «immobilista» in tema di moralizzazione del clero. Tant’è che le vittime delle molestie sono rimaste scontente dal summit vaticano di febbraio sugli abusi. È Sire a illustrare come Bergoglio, al di là delle operazioni di facciata, tenda a circondarsi di persone «di dubbia moralità e quindi molto deboli, per controllarle». Uno «schema chiaro già dai tempi di Buenos Aires» sostiene ancora l’analista vaticano Edward Pentin. Da arcivescovo della capitale argentina, nel 1999, Bergoglio nominò come ausiliare monsignor Juan Carlos Maccarone (morto nel 2015). Nel 2005, Maccarone fu rimosso da Benedetto XVI perché era venuto fuori un video che lo immortalava con un escort omosessuale. Eppure Bergoglio lo difese: disse che era tutto un complotto volto a colpire un uomo per le sue idee di sinistra. Tra i casi più recenti c’è quello dell’ex vescovo di Orán, Gustavo Zanchetta, dimessosi all’improvviso per misteriosi problemi di salute. A giugno, una Procura argentina ha formalizzato nei suoi confronti l’accusa di abusi sessuali continui e aggravati ai danni di alcuni seminaristi. Tre mesi prima, Zanchetta aveva partecipato agli esercizi spirituali in Vaticano ed era stato nominato dal Papa assessore dell’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica. In un’intervista a una tv messicana, Bergoglio aveva giustificato in modo singolare l’incarico. Francesco avrebbe creduto che le foto compromettenti di monsignor Zanchetta erano state «hackerate». In seguito, avrebbe deciso di piazzarlo all’Apsa per consentirgli di svolgere una terapia in Spagna, pur riconoscendo che il vescovo «economicamente era disordinato. Non ha gestito male le opere che ha fatto. Era disordinato, ma la visione è buona». Di promozioni controverse e coperture di personaggi ambigui ce ne sono state diverse. Nel 2013, l’anno in cui fu eletto, Francesco nominò prelato dello Ior monsignor Battista Ricca, dai chiacchierati trascorsi in Uruguay come nunzio apostolico. A Montevideo si parlava di una convivenza «sospetta» con un capitano dell’esercito svizzero, Patrick Haari. Di una notte brava in un locale gay, durante la quale monsignor Ricca fu picchiato. Di un giorno dell’agosto 2001, quando fu sorpreso in ascensore in atteggiamenti intimi con un adolescente. Di un valigione contente una pistola, preservativi e film porno. Sempre nel 2013, Bergoglio aveva inaugurato il Consiglio dei cardinali, il C9, organo che doveva affiancarlo nelle riforme ecclesiali. E chi aveva coinvolto Francesco? L’arcivescovo di Tegucigalpa, in Honduras, Óscar Rodríguez Maradiaga, implicato in uno scandalo finanziario. Costui avrebbe convinto la vedova di un facoltoso amico a investire i suoi risparmi in un fondo londinese, gestito da un musulmano (a proposito di ecumenismo). Il mediatore però sparì con il bottino. La donna fece appello al Pontefice, che la ricevette in Vaticano. Francesco, tuttavia, non l’hai mai aiutata. E non ha mai rimosso Maradiaga. Su un aspetto gli osservatori non sono concordi: Francesco vuole rivoluzionare la Chiesa adesso? Oppure - e in questa direzione sono da leggere le mire sul conclave - vuole mettere le prime pietre di un edificio che sarà ultimato dopo di lui? Ureta assicura che «Bergoglio è consapevole di essere il rappresentante di una minoranza, che ha preso il potere con un’abile manovra». Un «capolavoro tattico», lo definirebbe Matteo Renzi. Fatto sta che «Francesco cerca di completare le riforme il più presto possibile, anche a costo di rischiare uno scisma». E nonostante si rincorrano i malumori per il sinodo amazzonico, che potrebbe sdoganare preti sposati e teologia della liberazione «in salsa verde», scatenando gravi reazioni. Altri analisti, come il vaticanista Sandro Magister, insistono invece da tempo sul principio, enunciato con chiarezza dal Papa nell’Evangelii gaudium, secondo cui «il tempo è superiore allo spazio». Ciò significherebbe, stando all’esortazione apostolica, che si può «lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immeditati». Dare priorità al tempo vuol dire «iniziare processi» che si concluderanno nel futuro: tanto, il conclave è blindato. «Questo però non è scontato», ammonisce don Bux. «O diciamo che la Chiesa è una realtà solo umana e allora gli stratagemmi politici sono sufficienti a plasmarla, oppure riconosciamo che c’è una variabile sovrannaturale, con cui prima o poi bisogna fare i conti». Questa «Chiesa in uscita» è in realtà più arroccata che mai. Assediata dagli scandali. Scossa dalle lotte di potere. Ma nel disegno di Bergoglio resta una legittima domanda: lo Spirito Santo ha preso la tessera del suo partito? 

Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 17 ottobre 2019. Padre perdonaci perché abbiamo peccato. Qui a Libero siamo (almeno in parte) persone semplici e di dispute teologiche ne seguiamo pochine. Abbiamo solo notato che, appena il Papa ha finito di parlare di cibo, a Matteo Salvini è venuta una colica, quindi vorremmo scaramanticamente allinearci ai nuovi dogmi sull' alimentazione con una certa celerità, per non rischiare di finire in corsia. Solo non capiamo: ma cos' ha di blasfemo la porchetta d' Ariccia? Perché scomunicare il capocollo? Ma soprattutto, perché devo aprire Twitter e trovare un comunicato del Vaticano che ci dice cosa dobbiamo ordinare a pranzo come un servizio di Bigodino.it? Siamo tormentati da queste domande da ieri, ovvero da quando Francesco ha mandato il seguente messaggio alla Fao (agenzia dell' Onu che si occupa di cosa mettiamo nello stomaco): «A causa della malnutrizione, le patologie legate all' opulenza possono derivare da uno squilibrio "per eccesso", i cui effetti sono spesso diabete, malattie cardiovascolari e altre forme di malattie degenerative». Insomma dovete piantarla con le salsicce e seguire gli esempi virtuosi. Il prelato argentino, per esempio, è celebre anche per avere un rapporto con la tavola quasi ascetico. Quando è diventato Papa, i suoi confratelli hanno raccontato di quanto erano terribili le visite nella sua parrocchia, dove si trovavano per pranzo e cena solo minestre, tozzi di pane e acqua del rubinetto. Con tutto rispetto, vorremmo anche conoscere la ricetta di questa benedetta zuppa, perché non è che Bergoglio sia filiforme, anzi. Al di là delle cronache agiografiche, lo abbiamo spesso visto addentare pizze, lasagne e così via. Detto ciò, la gola è un peccato e di conseguenza non vorremmo trascendere, solo un cretino potrebbe star qui a ironizzare sulla forma sferica di tanti cardinali, di preti voraci come squali-balena o di monsignori che non passano più dalla porta santa del Laterano. Qui parliamo di cose serie e applaudiamo quando il Pontefice ci dice che «i disturbi alimentari si possono combattere solo coltivando stili di vita ispirati ad una visione riconoscente di ciò che ci viene dato, cercando la temperanza, la moderazione, l' astinenza, il dominio di sé e la solidarietà». Una cosa però va chiarita. Non si può accusare l' Occidente di tutto. Il vescovo di Roma ha scritto anche che il problema dell' obesità ormai riguarda anche i «Paesi a basso reddito, dove si continua a mangiare poco e male, copiando modelli alimentari delle aree sviluppate». In pratica, è colpa degli italiani pure se nei bassifondi di Città del Messico s' ingozzano di tacos e sono diventati grassi come preti (già, a Milano si dice così, "grassi come preti", chissà perché)? Che poi non è neanche vero, le nazioni più lardose del mondo sono quasi tutte ricche, partendo dagli Stati Uniti per arrivare alla Germania. Per il resto, c' è sicuramente un dramma in atto nelle isole del Pacifico, dove pare che la metà della popolazione soffra di obesità. Ma esiste una classifica degli Stati più ciccioni e tra i primi dieci non ne figura neanche uno che definiremmo povero. E soprattutto non si possono accusare i Paesi evoluti di tutto: o stanno affamando l' Africa o la stanno ingozzando. Poi qualcosa di vero c' è: anche nelle società opulente le classi agiate sono tendenzialmente più in forma di quelle meno fortunate. Probabilmente a causa di una miglior informazione sui rischi di una cattiva condotta alimentare. O forse perché ci si consola mangiando. Ma potremmo anche perdonare: lasciate che questi poveracci si facciano un piatto di pasta di troppo senza lanciargli anatemi.

Antonio Socci e l'attacco a Papa Francesco: "Eugenio Scalfari come Cristo, gliel'ha detto lui". Libero Quotidiano l'11 Ottobre 2019. Continuano le rivelazioni di Eugenio Scalfari sulle personali (mis)credenze di papa Bergoglio. Ieri ha sganciato un'altra bomba. Prima il giornalista ha riassunto con parole sue un colloquio: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d' incontrarlo sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo». Fin qui si potrebbe glissare addebitando questa enormità all' impreparazione teologica di Scalfari, a scarsa memoria o a fraintendimento. Dopo però il Fondatore riporta un virgolettato, attribuendo a Bergoglio delle precise (ed esplosive) parole. In riferimento a certi episodi evangelici, il papa avrebbe detto a Scalfari: «Sono la prova provata che Gesù di Nazareth, una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio». Una simile affermazione è totalmente incompatibile col cattolicesimo: chi la pronuncia non solo non può più essere papa, ma nemmeno può dirsi più cattolico. È fuori dalla Chiesa. Quindi i casi sono due. Se è vera Bergoglio deve semplicemente andarsene. Nel caso in cui la frase attribuitagli non sia vera, per la sua gravità, essendo fra virgolette, quindi addebitata direttamente a lui da uno dei più famosi giornalisti italiani, sul quotidiano più venduto del paese, il Vaticano ha il dovere di smentirla chiaramente, ammonendo Scalfari a non attribuire più al papa frasi virgolettate false ed eretiche. Invece ancora una volta in Vaticano fanno i furbi. Ieri il direttore della Sala stampa si è arrampicato sugli specchi dicendo che «le parole che Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato». Ma come può essere «libera interpretazione» la negazione della divinità di Cristo attribuita a un papa fra virgolette? Si può "liberamente" attribuire un' eresia a un papa con un virgolettato non vero? Se uno intervista il Capo dello Stato e gli attribuisce una dichiarazione di guerra alla Francia che non è vera, il Quirinale se la caverà dicendo che quel virgolettato è «una personale e libera interpretazione» dell' intervistatore? No. Smentirà categoricamente. Più di un miliardo di cattolici hanno il sacrosanto diritto di avere una smentita chiara o di sapere se alla guida della Chiesa c' è un signore che non professa (più) la fede cattolica. Invece il pastore se ne infischia del gregge. Dal 2013 si assiste a enormità sconcertanti e i fedeli che dissentono vengono insolentiti. Nessun papa è mai stato così. Un teologo di fama mondiale come padre Thomas Weinandy, già membro della Commissione Teologica Internazionale, su The Catholic Thing in questi giorni ha scritto: «La Chiesa, nella sua lunga storia, non si è mai trovata di fronte ad una situazione come quella in cui si trova ora». Poi ha aggiunto: «Ciò con cui la Chiesa finirà, dunque, è un papa che è il papa della Chiesa cattolica e, contemporaneamente, il leader de facto, a tutti gli effetti pratici, di una chiesa scismatica. Poiché egli è il capo di entrambi, rimane l' aspetto di una sola chiesa, mentre in realtà ce ne sono due». Il teologo descrive la situazione come «scisma papale interno», perché «il papa, proprio come papa, sarà effettivamente il leader di un segmento della Chiesa che attraverso la sua dottrina, l' insegnamento morale e la struttura ecclesiale, è a tutti gli effetti pratici scismatico. Questo è il vero scisma che è in mezzo a noi e deve essere affrontato». Secondo il teologo cappuccino, Bergoglio «vede l' elemento scismatico come il nuovo "paradigma" per la Chiesa futura. Così, nel timore e nel tremore» conclude il religioso «dobbiamo pregare che Gesù, come capo del suo corpo, la Chiesa, ci liberi da questa prova». Nella Chiesa ormai Bergoglio è vissuto come un flagello. Antonio Socci

Papa Francesco: “Xenofobia una malattia. Sarà sconfitta da potenti invasioni”. Ludovica Colli su Il Primato Nazionale l'11 Settembre 2019. Papa Francesco, sul volo di ritorno dall’Africa, torna a lanciare uno dei suoi allarmi preferiti: quello contro la xenofobia. Stavolta l’ha definita una malattia e l’ha messa in correlazione con il populismo. E circa le sue posizioni sui temi sociali e politici, ci tiene a precisare che non è “comunista”, perché dice “le stesse cose di Giovanni Paolo II”. “Le xenofobie tante volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici. Ho detto la settimana scorsa o l’altra che delle volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34“. Così il Pontefice risponde ad una domanda su cosa nel pensa del problema dell’educazione dei giovani in Africa. “Si vede – ha aggiunto Bergoglio – che c’è un ritornello in Europa, ma anche in Africa. Io ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia. Ma non è un problema solo dell’Africa, è una malattia umana, come il morbillo. E’ una malattia, ti viene, entra in un Paese, entra in un continente. E mettiamo muri, no? E i muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangono dentro i muri rimarranno soli, e alla fine della storia sconfitti per delle invasioni potenti“. Il modo di non rimanere sconfitti è l’accoglienza, sembra essere il ragionamento del Pontefice. “Ma la xenofobia è una malattia: una malattia ‘giustificabile’, tra virgolette, non la purezza della razza, ad esempio, per nominare una xenofobia del secolo scorso”.

“Non sono comunista, dico le stesse cose di Giovanni Paolo II”. Alla domanda se tema uno scisma nella Chiesa Usa, Papa Bergoglio ha replicato che è “il Concilio Vaticano II che ha creato queste cose, forse lo stacco più conosciuto è quello di Lefevbre, sempre c’è l’azione scismatica nella Chiesa”. Secondo il Pontefice, “uno scisma è sempre uno stato elitario, dall’ideologia staccata dalla dottrina, una ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca, e diventa dottrina, tra virgolette, ma per un tempo”. Per evitare gli scismi, “io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o l’altro Papa o l’altro Papa… Ad esempio. Le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. "Ma il Papa è troppo comunista, eh", entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sulla ideologia, lì c’è la possibilità di uno scisma”.

Amazzonia e biodiversità. Papa Bergoglio ha parlato anche dell’Amazzonia, prendendo posizioni che farebbero la gioia della piccola Greta e di tutti gli integralisti ambientalisti. I “governanti stanno facendo di tutto per l’Amazzonia?”, la domanda di alcuni giornalisti. “Alcuni più, alcuni meno”, la sua risposta. Ma il Pontefice ha sottolineato che “la lotta più grande è quella per la biodiversità. La difesa dell’ambiente naturale la portano avanti i giovani che hanno una grande coscienza, perché dicono: Il futuro è nostro”. Ludovica Colli

DATE UNA MOGLIE AI PRETI.  Fra. Gia. per “il Messaggero”il 10 ottobre 2019. Il timore coltivato da cardinali e vescovi di stampo conservatore sulla possibilità che al Sinodo due questioni tabù potessero prendere piede e tenere banco, trascinandosi nei discorsi e probabilmente finire anche nel documento finale in attesa di eventuali decisioni future da parte del Papa, alla fine si è materializzato. Ha così preso forma il fantasma dell'abolizione del celibato sacerdotale e quello del sacerdozio femminile. Due autentici spauracchi. Nell'aula nuova del Sinodo, in questi primi tre giorni, si sono ascoltate diverse riflessioni sulla possibilità di ordinare in Amazzonia i cosiddetti Viri Probati, persone mature e già sposate, di particolare fede e indubbia statura morale da consacrare per far fronte ad una persistente carenza di sacerdoti. Una grana per la Chiesa non indifferente visto che si tratta di una regione grande 18 volte l'Italia, dove piccole comunità di indigeni cattolici per partecipare ad una messa o ricevere i sacramenti, fare la comunione, sposarsi, battezzare i figli, sono costretti ad aspettare anche un mese e mezzo. Il tempo stimato per l'arrivo di un missionario. Le distanze da percorrere nella foresta sono difficilmente comprensibili per chi non ha mai visitato l'Amazzonia. Al momento la proposta in ballo riguarda i Viri Probati che però, a detta di diversi cardinali può essere l'anticamera per arrivare in futuro all'abolizione del celibato. Allo stesso modo al Sinodo è affiorata un'altra grana potenziale, quella femminile. Su quasi 200 padri sinodali le donne invitate sono solo 35 e, ancora una volta, nonostante le insistenze, non hanno diritto al voto. Premono per avere il riconoscimento del diaconato ma anche questa possibilità resta remota. Una suora brasiliana presente ha affermato chiaro e tondo che le religiose in Amazzonia già svolgono importanti compiti, come per esempio celebrare i matrimoni o i battesimi. Che stavolta non sia un Sinodo come gli altri si capisce anche dalle pressioni che sta suscitando. Il presidente Bolsonaro fa di tutto per circoscrivere la gestione dell'Amazzonia ad una mera questione interna, ma il Papa di fatto ha acceso i riflettori sulla più grande foresta del pianeta facendola diventare un fatto globale e ineludibile.

Il sinodo sull’Amazzonia «Un ruolo ufficiale per le donne». Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 da Corriere.it. Eppur si muove. La formulazione ufficiale, nella sintesi quotidiana del Vaticano sui lavori del Sinodo sull’Amazzonia, è laconica ma chiara: «Lanciata l’idea di istituire un ministero laicale femminile per l’evangelizzazione». Oltre alla questione ricorrente dell’ordinazione sacerdotale (parziale) di uomini anziani sposati, come rimedio alla carenza di clero nelle aree più remote, nella discussione in assemblea si fa strada fin dai primi giorni la questione del ruolo delle donne nella Chiesa. Non è in questione il sacerdozio, «quella porta è chiusa», ha ripetuto più volte Francesco, ed anche l’ex Sant’Uffizio ha chiarito l’anno scorso che a dottrina della Chiesa cattolica è «definitiva», punto. Però il documento di lavoro del Sinodo già prospettava il riconoscimento di un «ministero ufficiale» alle donne. Il vescovo brasiliano Erwin Kräutler, nato in Austria ma da 54 anni missionario in Amazzonia, lo ha detto senza giri di parole: «I due terzi delle comunità indigene sono senza sacerdoti e coordinati dalle donne. Si parla tanto di valorizzare il loro lavoro, e allora che cosa aspettiamo? Io penso: il diaconato femminile, perché no?». Quanto alle diaconesse, in realtà, la faccenda è più complicata: nel 2016 Francesco aveva istituito una commissione di studio per approfondirne il ruolo nei primi secoli cristiani ma dopo due anni non è venuta capo di nulla, «ognuno aveva la propria idea», ha spiegato il Papa. Al di là delle formulazioni, tuttavia, si tratta in fondo di definire un ruolo che le donne, religiose e laiche, hanno già da tempo, in una regione sterminata come l’Amazzonia. Lo ha spiegato tranquilla, nel primo giorno del Sinodo, suor Alba Teresa Cediel Castillo, missionaria in Colombia tra le comunità indigene: «Noi siamo lì, presenti in ognuno di questi luoghi, e facciamo ciò che può fare una donna come battezzata: quando sacerdote non può essere presente e c’è bisogno di un battesimo, noi battezziamo, o se qualcuno si vuole sposare e c’è possibilità lo facciamo e siamo testimoni di questa coppia…A volte abbiamo dovuto anche ascoltare una confessione, magari di una persona che stava morendo, naturalmente non abbiamo potuto dare assoluzione ma ci siano messe in ascolto con umiltà…». Le donne al Sinodo sono in tutto 35, ancora senza diritto di voto (quello è riservato ai 184 padri sinodali) a dispetto dei proclami sulla loro importanza nella Chiesa. Suor Alba Teresa Cediel Castillo ha sorriso: «Anche secondo me il ruolo della donna dev’essere più grande, ci arriveremo ma piano piano, non possiamo fare troppa pressione». Quanto all’ordinazione di uomini anziani sposati - ci sono comunità remote che non possono fare la comunione - il vescovo Erwin Kräutler ha sostenuto ieri che «non c’è alternativa» anche perché «i popoli indigeni non capiscono il celibato», e ha aggiunto che «i due terzi dei padri sono d’accordo». Dei 184 padri sinodali, del resto, 113 arrivano dalle regioni amazzoniche. Alla fine, comunque, deciderà il Papa. Al contrario di quanto credono molti, nella Chiesa cattolica esistono già dei preti sposati. La disciplina monastica del celibato vale solo nella Chiesa latina, ma nelle Chiesa cattoliche orientali non c’è obbligo. Lo stesso Papa ha ricordato che nel rito orientale «si fa l’opzione celibataria o di sposo prima del diaconato». In ogni caso Francesco ha chiuso questa ipotesi: «Per quanto riguarda il rito latino, mi viene alla mente una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e non sono d’accordo a permettere il celibato opzionale. No. Io non lo farò, questo è chiaro. Sono uno chiuso? Forse, ma non sento di mettermi davanti a Dio con questa decisione». Nel caso dei «viri probati», invece, non si parla di giovani ma di «anziani sposati» che verrebbero ordinati seguendo condizioni precise. Di ritorno dal viaggio a Panama, in gennaio, Francesco ne aveva parlato con chiarezza ai giornalisti. Sarebbe una «possibilità» da valutare «nei posti lontanissimi, penso alle isole del Pacifico, ma è qualcosa da pensare quando c’è necessità pastorale». Il Papa si era riferito al libro «Preti per domani» del vescovo missionario tedesco Fritz Lobinger: «Padre Lobinger dice: la Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia fa la Chiesa. Ma dove non c’è eucaristia né la comunità, Lobinger chiede: chi fa l’eucaristia? Dice: si potrebbe ordinare prete un anziano sposato. Ma che eserciti solo il “munus sanctificandi”, cioè celebri la messa, amministri il sacramento della riconciliazione e dia l’unzione degli infermi. L’ordinazione sacerdotale dà i tre munera: il “munus regendi” (il pastore che guida), il “munus docendi” (il pastore che insegna), e il “munus sanctificandi”. Il vescovo gli darebbe solo licenza per il “munus sanctificandi”». Francesco aveva concluso: «Questa è la tesi, il libro è interessante e forse questo può aiutare a come rispondere al problema. Credo che il tema debba essere aperto in questo senso per i luoghi dove c’è un problema pastorale per la mancanza dei sacerdoti. Non dico che si debba fare, non ci ho riflettuto, non ho pregato sufficientemente su questo. Ma i teologi ne discutono, devono studiare».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 7 ottobre 2019. L'asse ideale con l'Amazzonia per riscattarla dalle brame predatrici delle multinazionali e dei fazenderos con la complicità dei governi, è stata tracciata a San Pietro ieri mattina. Il Papa ha usato parole durissime. E' sembrato quasi voler sfidare il presidente Jair Bolsonaro che continua a negare che in Brasile la deforestazione in atto non sia poi così dannosa come si vuole fare credere e che, comunque, resta un affare interno al Paese e non materia internazionale. Come dire: fatevi i fatti vostri. Francesco gli ha replicato a distanza aprendo il sinodo sull'Amazzonia con gli occhi del mondo puntati addosso. A San Pietro ha denunciato la devastazione degli incendi continui che «divorano popoli e culture». Ha accusato «l'avidità dei nuovi colonialismi» che spiana la strada ai criminali che appiccano il fuoco per interesse, distruggendo senza possibilità di recupero il polmone verde. Da ieri fino al 27 ottobre il tema amazzonico sarà al centro della maxi assemblea dei vescovi che il Papa ha indetto per trovare soluzioni a problemi che si trascinano da tempo. Si parlerà tanto di ambiente, di povertà, di esclusione, di politica internazionale e di come la Chiesa può farsi più missionaria in zone dove è difficile arrivare. Tra le pieghe del sinodo troveranno spazi di discussione anche alcuni temi teologici spinosi, veri e propri tabù, sui quali sono già cominciati gli scontri sotterranei: come la questione del celibato sacerdotale e se dare alle donne la possibilità di svolgere servizi di diaconato in zone impraticabili nella foresta. Già da tempo diverse voci di teologi, vescovi e cardinali si sono fatte sentire con pareri negativi ma le pressioni di alcuni vescovi brasiliani, tra cui l'influente cardinale Hummes, restano fortissime. Hummes vorrebbe persino che il Papa proclamasse in blocco il martirio di tutti gli indigeni che sono stati massacrati in questi decenni per difendere la foresta, il loro habitat naturale senza il quale le loro culture ancestrali non sopravviverebbero. A Roma sono stati invitati alcuni rappresentanti di tribù indios per testimoniare in prima persona il loro lento stillicidio. Alcuni giorni fa Hummes parlando delle riserve di ciascuno dei nove paesi che compongono la regione amazzonica, ha spiegato perché queste popolazioni sono fondamentali al fine di tutelare l'habitat. Una visione che viene rigettata in toto dal presidente del Brasile deciso a non creare alcuna altra riserva indios. Bolsonaro ha insinuato che ci sarebbero governi stranieri interessati a manipolare le popolazioni native per influenzare la sovranità brasiliana. Non è chiaro se il riferimento fosse rivolto al Papa, tuttavia offre l'idea del clima di tensione che si sta creando. A San Pietro è così risuonata un'altra denuncia: «Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d'amore della Chiesa. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia hanno speso la loro vita». Un po' come dei martiri. La novità di questo sinodo è l'introduzione del criterio di sostenibilità. Tanto per cominciare a ognuno dei 184 padri sinodali, dei 17 rappresentanti di popoli indigeni e delle 35 donne invitate che però purtroppo, ancora una volta, non hanno diritto al voto è stata donata una borsa in materiale eco. La plastica è stata bandita. Verrà usata carta riciclata anche per le posate e i bicchieri e i documenti verranno spediti via mail per evitare le fotocopie di carta. Unico punto sul quale ancora non è stata presa alcuna decisione è se verranno piantati degli alberi a compensazione dell'inquinamento dei viaggi in aereo della maggior parte dei partecipanti. A questo problema sembra che nessuno ancora ci abbia pensato.

Il Papa loda Greta e Ursula von der Leyen, ma si scorda di Cristo. L'intervista del pontefice alla Stampa è un'occasione unica per fare politica. Camillo Langone il 10 Agosto 2019 su Il Foglio. San Lorenzo martire, cadono le stelle, cadono i governi, cadono i divi (l’ictus di Alain Delon), e ricasca il Santo Padre, che intervistato dalla Stampa loda Ursula von der Leyen, patrona di Sodoma, dei matrimoni e delle adozioni omosessuali, e ancora una volta elogia la Papessa Greta, sacerdotessa di una religione pagana. In una simile intervista, sfacciatamente elettorale, a finire sulla graticola è Cristo, che non viene citato nemmeno una volta, nemmeno per buona gesuitica creanza. Tu, San Lorenzo, sulla brace ti vollero ben cotto (secondo Sant’Ambrogio) mentre Gesù lo vogliono incenerito e poi smaltito secondo il nuovo dogma della raccolta differenziata (secondo me che non sono un Santo ma un semplice orante ormai abbastanza disperante).

Papa Francesco, Marcello Veneziani estremo: "Hai ridotto la Chiesa a una ong, i cattolici si vergognano". Libero Quotidiano il 9 Agosto 2019. Papa Francesco che attacca il sovranismo definendolo foriero di guerra non è piaciuto a molti. In effetti la sua campagna elettorale contro Matteo Salvini e C. è piuttosto esplicita e, dopo l'apertura della crisi, è iniziata a tempo record. Tra i detrattori del Bergoglio schierato politicamente (a sinistra) c'è Marcello Veneziani, che su Twitter tuona: "Bergoglio si candida contro Salvini ed evoca guerra e nazismo per demonizzare il sovranismo. Così offende tanti cattolici che votano per i sovranisti, riduce la chiesa a una ong di sinistra ed erige muri di odio mentre dice di abbatterli". Anche il filosofo Diego Fusaro ha redarguito il Pontefice:  "Si scorda di dire che democrazia è sovranità del popolo nello Stato e implica sovranità dello Stato".

Ecco un altro prete “rosso”: si allea con i centri sociali al grido «no a Salvini». Federica Parbuoni lunedì 24 giugno 2019 su Il Secolo d'Italia. Non solo le intemerate di Don De Capitani. Ora l’invito a boicottare le leggi targate Matteo Salvini arriva esplicitamente anche dalle alte sfere vaticane: «Non tutte le leggi sono uguali e sono giuste. Ci sono delle leggi che un cristiano non può condividere proprio alla luce della fede». A parlare così è stato monsignor Paolo Lojudice, segretario della Commissione episcopale per le migrazioni, citando «l’obiezione di coscienza». Fra queste leggi alle quali ribellarsi ci sono anche quelle di Salvini? «Io direi di sì…», è stata la risposta il monsignore.

La strategia del Vaticano. Lojudice è stato intervistato dal Giornale, nel corso di un incontro organizzato dai movimenti per la casa al quartiere Eur di Roma. Insieme a lui c’era anche Andrea Alzetta, il fondatore di Action, meglio noto come “Tarzan”. E proprio Alzetta ha parlato di una precisa strategia vaticana. «Credo che il Papa si stia facendo promotore di un’alleanza tra le nuove povertà per costruire delle politiche che riducano le diseguaglianze e restituiscano i diritti alle persone», ha chiarito Tarzan.

Il precedente dell’elemosiniere. Un segnale in questo senso, del resto, era già arrivato forte e chiaro: l’intervento dell’elemosieniere del Papa, Konrad Krajewski, per riattaccare la corrente allo Spin Time Labs, l’occupazione di cui lo stesso Alzetta è animatore. Un intervento che fu difeso, si direbbe rivendicato, da Oltretevere. «Il gesto dell’elemosiniere è riuscito a ribaltare il racconto e a far vedere – ha raccontato Alzetta – che esistono persone che fanno dei lavori talmente mal pagati che non possono permettersi un affitto». E il risultato c’è stato. Tarzan ha rivelato che ora le istituzioni sono molto più disponibili nei confronti di quella occupazione (che al suo interno contempla anche numerose attività ludico-commerciali).

L’alleanza tra Vaticano e Action. Monsignor Lojudice poi ha chiarito che, in questa strategia di opposizione a leggi che loro giudicano sbagliate, «la cosa più importante è fare in modo di animare l’opinione affinché quella legge sia cambiata». Insomma, il Vaticano stringe un’alleanza politica con Action in chiave antigovernativa e lo ammette apertamente, inviando un suo messo a sancire il patto finora implicito. «Non è mio compito entrare nel merito, ma certamente i decreti sicurezza  su alcune cose lasciano un po’ perplessi. Bisogna affrontare queste questioni in maniera un po’ seria e non con slogan solo perché in questo momento – ha sentenziato Lojudice – si prendono più voti».

Don De Capitani insiste: «Salvini è un pezzo di merda e che lo vota è cretino». Il Secolo d'Italia mercoledì 19 giugno 2019. Doveva essere un intervento di distensione, un chiarimento rispetto a quell’esortazione a uccidere Matteo Salvini di qualche giorno fa. Invece è finita che don Giorgio De Capitani ha usato i microfoni de La Zanzara per lanciare un nuovo attacco, dando al ministro dell’Interno del «pezzo di merda».

Salvini? «Un pezzo di merda».

«Se spero veramente nella morte di Salvini? Era una cosa paradossale per dire come Salvini sbaglia quando gode che un negoziante uccide una persona, così io sbaglio dicendo che bisogna ammazzare Salvini», ha detto don De Capitani. «Un paradosso. Sto dicendo – ha spiegato – che il mio ragionamento è sbagliato, così lui capirà che il suo è sbagliato». Ma il tentativo di distensione è durato pochissimo e subito dopo il prete è tornato a prendersela con il ministro. «Salvini mette sempre quei suoi post dicendo che hanno fatto bene ad ammazzare il ladro, dai…», ha detto, ribadendo che il leader leghista «è un pericolo per la democrazia». «L’ho definito più volte un pezzo di merda», ha quindi rivendicato don De Capitani, aggiungendo che «non ho detto di farlo fuori perché via Salvini ne arriverà un altro che è peggio».

Per il don «il problema è il popolo». Ma, non contento, il prete se l’è presa anche con gli elettori. «Il problema è il popolo, chi lo vota ragiona con la pancia. Quando lui dice che bisogna difendersi anche ammazzando il ladro – ha sostenuto ancora – io allora dico bisogna che anch’io mi difendo ammazzando te che considero un ladro di democrazia. Ma è un puro ragionamento. «Cavoli, ci rendiamo conto a un certo punto che siamo in mezzo a una massa di cretini che non sanno neppure leggere tra le righe di chi si esprime?», ha quindi sentenziato il don, rivelando che lui ha «votato Pd turandomi il naso, ho sempre votato la sinistra. Il male minore. Una volta pure Bertinotti…».

Preti, società civile e oratori: così la sinistra vince nei comuni…Cristiano Puglisi 20 giugno 2019 su Il Giornale.  Perché alle elezioni amministrative (e solo in quelle) gli italiani continuano a votare PD? La domanda che in molti si saranno posti è il legittimo frutto dei risultati del voto comunale dello scorso 26 maggio e dei successivi ballottaggi che, a dispetto di dati per le consultazioni europee decisamente premianti per Lega e alleati di centrodestra, ha in diverse città italiane e, soprattutto, in svariati piccoli centri ribaltato pronostici che, in base alle preferenze espresse per l’emiciclo dell’europarlamento, sembravano davvero scontati. Eppure i cittadini che sono entrati nella cabina per partecipare al voto continentale sono stati gli stessi che hanno deciso, con un tratto di matita, il risultato del voto comunale. Che cosa è successo? Ebbene le dinamiche, in realtà, sono ovunque piuttosto simili. Innanzitutto è bene partire dal presupposto che il voto, nell’attuale e desolante panorama della politica-marketing, è ormai sempre meno fidelizzato e sempre più liquido e le appartenenze partitiche sono estremamente flessibili. In questo scenario l’elettore-cliente sceglie, come un vero consumatore, in base al principio di convenienza. Oppure di conoscenza personale, in base alla propria rete di relazioni sociali. E soprattutto in questo secondo caso si sono inserite le sinistre. Che, a livello di tessuto sociale, avendo conservato l’influenza sul mondo dei sindacati e su quello dei circoli per tradizione politicamente collocati (ARCI, ANPI e via dicendo) possono oggi, in aggiunta, disporre quasi liberamente di quell’universo che un tempo costituiva l’ossatura della presenza sui territori della Democrazia Cristiana: l’associazionismo e il volontariato, soprattutto quello di matrice “bianca”, cioè cattolica. Così, mentre i militanti dei partiti di destra sono spesso impegnati a fare campagna per tematiche nazionali, la sinistra (soprattutto il Partito Democratico) penetrando il tessuto sociale con le associazioni e i gruppi di volontariato che guardano alle parrocchie (la cosiddetta “società civile”, un tempo perno del “centro” politico), soprattutto nelle piccole comunità (nei grandi centri il voto a sinistra è dettato da altre dinamiche, come la dissoluzione delle identità congenita allo sviluppo di metropoli cosmopolite), è in grado di captare elettori che, normalmente, in sede di una consultazione diversa, sceglierebbero altri simboli, altre idee. Ma, in un piccolo centro, in un medio comune italiano, quella grande famiglia che è la comunità locale conta ancora. E contano ancora gli oratori. E i parroci… E i moderni “don Camillo” oggi hanno occhi, come (purtroppo) risaputo, solo per la sinistra del Padre…

L’Occidente e quella nuova alleanza tra Chiesa cattolica e sinistra. Francesco Boezi il 25 giugno 2019 su it.insideover.com. Ci si può arrivare per deduzione: se la Chiesa cattolica, come le elezioni europee hanno corroborato, è impegnata in una campagna di freno rispetto alle formazioni politiche sovraniste, allora vuol dire che le stesse istituzioni ecclesiastiche non disdegnano di avvalorare la tesi progressiste. Può sembrare un ragionamento forzato, ma facendo bene attenzione ai fatti non lo è. La scena è questa: il cardinale Rehinard Marx, subito dopo l’avvento della formazione ecologista in Germania, ha incontrato il leader dei Verdi. Gli ambientalisti sono appena diventati il secondo partito teutonico. La Spd non ha ancora finito di rimettere insieme i cocci, ma il vertice dei vescovi tedeschi sembra aver già in mente un altro interlocutore. Il Sinodo sull’Amazzonia è alle porte: l’ecologismo integrale sta per entrare a far parte della dottrina ufficiale. Politica e indirizzo pastorale procedono di pari passo. La Conferenza episcopale tedesca, poi, non si è mai risparmiata sulla gestione dei fenomeni migratori. L’Ong Lifeline dovrebbe aver presente quel finanziamento ricevuto dallo stesso porporato:era l’ottobre del 2018. Molto altro da segnalare, rispetto alla prossimità idealistica di quell’episcopato con le formazioni politiche e con generiche realtà ascrivibili alla sinistra che operano nell’agone germanico, non c’è. È tutto abbastanza chiaro. Poco dopo l’elezione di Emmanuel Macron come inquilino dell’Eliseo, l’episcopato transalpino – lo riporta ancora la Sir – ha parlato mediante un suo esponente di “clima di laicità pacificata con un presidente della Repubblica che ha dato più volte segnali concreti di apertura al dialogo con le religioni”. Bisogna affrancarsi dal linguaggio ecclesiologico, ma interpretando questo virgolettato in chiave d’apertura politica, i vescovi francesiapparvero tutto fuorché scontenti dall’avvento dell’enfant prodige. Non c’è stata la possibilità di registrare la stessa “contentezza”, quando Marine Le Pen e il Rassemblement National hanno primeggiato nelle urne, scavalcando En Marche! un mese fa. Anzi, in passato tre presuli d’Oltralpe – si apprende sempre sull’agenzia citata – hanno provato a porre qualche paletto elettorale ai cattolici, sconsigliando la preferenza lepenista. Le presidenziali sono andate come sappiamo. Cosa aggiungere rispetto alla presunta vicinanza tra certi alti ecclesiastici statunitensi e l’universo politico democratico a stelle e strisce? Si può procedere per esclusione. Quando Il Corriere della Sera si è occupato dei “cardinali che tifano Trump”, è emerso come si trattasse di “settori minoritari”. Lifesite News ricorda di quando l’ex cardinal Theodore McCarrick, che è poi stato ridotto allo stato laicale da Jorge Mario Bergoglio per vicende note ai più, ebbe a scrivere un articolo di sostegno sul Washington Post all’obamiano accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran. Anche in relazione ai rapporti della Chiesa americana con le formazioni politiche non è possibile sentenziare mediante preposizioni assolute, ma se i “cardinali trumpiani” sono tre o quattro, gli altri verso quale parte propendono? James Martin, gesuita e consultore della Segreteria per la Comunicazione, ha da poco bocciato il documento sull’ideologia gender della Santa Sede. Volendo incasellare il suo orientamento politico, dove lo collochereste? L’ecologismo integralista, con tutto quello che ne consegue in termini di panteismo naturalistico, e i “nuovi diritti” propagandati dalla comunità Lgbt non fanno di sicuro parte della Chiesa per come eravamo abituati a conoscerla. Sui migranti, come sapete, esiste un grande dibattito: la tendenza teologico-culturale maggioritaria si dice sicura che l’accoglienza sia insita nei precetti del Vangelo. La stretta delle istituzioni ecclesiastiche verso questo trittico prioritario, quello composto da ambientalismo e accoglienza assoluta, cioè erga omnes, nei confronti dei migranti e delle cause portate avanti dalla minoranze, forse giustifica un certo dissapore provato da quella parte di base cattolica che continua a preferire una presa di distanza dal progressismo. Rimane intatta, per ora, la fermezza papale sulla bioetica che allontana un abbraccio ideologico che, altrimenti, sarebbe davvero evidente.

Papa Francesco, gli strani silenzi sul comunismo: l'accusa di Antonio Socci. Libero Quotidiano 3 Giugno 2019. Incurante dell' ennesima, cocente, sconfitta elettorale (o forse proprio per questo), con rabbiosa ostinazione, papa Bergoglio prosegue la sua campagna elettorale, come leader politico della sinistra mondiale. Infatti continua a ripetere le sue invettive in perfetta sintonia con tale parte politica. I siti di tutti i giornali ieri titolavano: «Il Papa in Romania: "Non cedere alle seduzioni di una cultura dell' odio"». Espressione volutamente vaga, tipica di chi lancia il sasso nascondendo la mano, però sapendo che - trattandosi di una parola d' ordine della sinistra - verrà poi interpretata come accusa contro chi si oppone a un' emigrazione di massa e incontrollata (contro i Salvini, i Trump eccetera). Ecco infatti cos' ha detto: c' è «un senso dilagante di paura che, spesso fomentato ad arte, porta ad atteggiamenti di chiusura e di odio. Abbiamo bisogno di aiutarci a non cedere alle seduzioni di una "cultura dell' odio"». In realtà la frittata è facilmente rovesciata da chi è fatto bersaglio di tali accuse, perché in queste settimane si è visto tracimare odio ideologico soprattutto negli ambienti clericali. Inoltre - storicamente - l' odio è sempre stato il connotato tipico della sinistra. E qui c' è un problema di luogo e di tempo. Bergoglio ieri ha fatto una gaffe andando a pontificare sull' odio (ovvero contro chi si oppone all' emigrazione di massa), laddove per decenni ha imperversato l' odio vero: il crudele e sanguinario odio del regime comunista. Eppure è lo stesso viaggio in Romania che avrebbe dovuto far riflettere Bergoglio perché lo pone di fronte agli orrori di quell' ideologia dell' odio. Basti dire che, oggi a Blaj, il papa assisterà alla beatificazione di sette vescovi greco-cattolici martirizzati dal comunismo «in odio alla fede» tra 1950 e 1970. Ma Bergoglio non si sofferma mai sui macelli del comunismo, che è stato il più colossale, sanguinario e satanico tentativo di sradicamento del cristianesimo dalle anime dei popoli tramite la macellazione dei cristiani. Anzi, di fronte all' orrore planetario che questa ideologia dell' odio ha prodotto per tutto il Novecento (e che perdura tuttora) Bergoglio è arrivato ad affermare che la «cultura dell' odio» contro cui si scaglia lui, sarebbe quasi più pericolosa del comunismo: «Una cultura individualista che, forse non più ideologica come ai tempi della persecuzione ateista, è tuttavia più suadente e non meno materialista».

SCIENZIATI DELLA TORTURA. Parole pronunciate in un Paese, la Romania, che fin dal 1945, quando l' Urss ha imposto il comunismo a questo Paese, ha visto scatenarsi il terrore rosso con il suo terribile Gulag. «Secondo i dati forniti dall' Istituto di Investigazione dei Crimini del Comunismo in Romania» ha spiegato Violeta Popescu «durante il regime comunista, nel Paese esistevano 44 carceri e 72 campi di lavoro forzato in cui sono passati oltre 3 milioni di romeni, 800.000 dei quali sono morti» (nota bene: la Romania non arriva a 20 milioni di abitanti). Il regime comunista della Romania ha portato un suo speciale contributo alla storia degli orrori rossi elaborando forme di tortura e di distruzione della personalità umana che nemmeno nel Gulag sovietico si erano sperimentate. E il peggio assoluto è stato inflitto ai cristiani per ottenere il loro annientamento totale. Alle torture classiche sono stati aggiunti nuovi particolari supplizi destinati a ridurre in poltiglia non solo i corpi delle vittime, ma anche le loro anime. Nel famigerato carcere di Pitesti, ad esempio, i detenuti «erano obbligati a ingurgitare un' intera gamella di escrementi e quando vomitavano gli veniva ricacciato il vomito in gola», scrive Virgil Ierunca in «Pitesti, laboratoire concentrationnaire». Il quale riferisce anche i particolari supplizi a cui erano sottoposti i giovani cristiani che non volevano rinnegare la loro fede: tutte le mattine venivano «battezzati» con l' immersione della loro testa «in una tinozza piena d' urina e di materia fecale» e «perché il suppliziato non annegasse di tanto in tanto gli si tirava fuori la testa e lo si lasciava respirare un attimo prima di reimmergerlo in quella mistura». I seminaristi erano anche obbligati ad assistere a messe nere e cerimonie sacrileghe con corredo di bestemmie per «rieducazione». Il tutto sommato alle note torture fisiche. Un repertorio agghiacciante di esse si trova nel libro «Catene e terrore» di Ioan Ploscaru, vescovo rumeno morto del 1998, a 87 anni. Nel volume c' è il racconto dei quindici anni trascorsi nel lager comunista in condizioni bestiali. Lì - se Bergoglio volesse leggere - si trova descritto il vero odio satanico contro i cristiani e contro l' essere umano. Insieme al commovente eroismo di questi martiri cristiani che mai - neanche nei più atroci supplizi - hanno provato odio per gli aguzzini (si tratta di cristiani veri, quelli della Chiesa di sempre, la Chiesa di Pio XII, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI). Un' altra testimonianza impressionante è quella che padre Tertulian Ioan Langa, sacerdote greco-cattolico, lesse in Vaticano il 23 marzo 2004, a 82 anni, di cui sedici trascorsi nell' inferno del lager comunista (l' ha appena ripubblicata Sandro Magister nel suo blog «Settimo cielo»). Sottolineo: nel 2004. Al tempo di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI in Vaticano risuonavano le testimonianze dei martiri cristiani. Al tempo di Bergoglio in Vaticano si riceve il Centro sociale Leoncavallo con altri movimenti di estrema sinistra sudamericani.

COSA PENSERANNO? Questo è il punto. La visita in Romania, simbolo del martirio cristiano sotto il comunismo, ripropone la domanda sull' attuale vertice vaticano: cosa avrebbero pensato le vittime cristiane del comunismo nel vedere papa Bergoglio accettare, compiaciuto, da Evo Morales, il simbolo della falce e martello con sopra l' immagine di Cristo? E cosa possono pensarne i cristiani cinesi che, avendo resistito per decenni alle persecuzioni e ai lager comunisti, si sono trovati adesso abbandonati dal Vaticano, da quando Bergoglio ha sostanzialmente fatto arrendere la Chiesa al regime di Pechino con il noto e discusso accordo? A 30 anni esatti dal massacro di Tienanmen nulla è cambiato nell' universo comunista cinese in fatto di diritti umani. Ma il Vescovo di Roma che in passato ha definito i nostri «campi di rifugiati» dei «campi di concentramento» (suscitando la protesta di un' organizzazione ebraica, l' American Jewish Committee), poi non vede i campi di concentramento veri del nostro tempo: quelli cinesi. Il problema infatti non è solo il comunismo del passato, ma anche quello attuale. Ricordiamo che Bergoglio, durante il viaggio a Cuba, si recò a visitare il dittatore comunista Fidel Castro e fu immortalato mentre gli teneva amichevolmente le mani (lui che ha fatto sapere che non vuol dare la mano a Salvini). Cosa avranno pensato i cristiani di Cuba che per decenni hanno dovuto sopportare l' oppressione del regime di Castro? L' ambiguità di Bergoglio verso il comunismo è palese. C' è chi ritiene che sia tipica di una certa chiesa sudamericana. Nei giorni scorsi - dopo l' episodio del cardinale elettricista nel tombino per riattaccare la luce - il professor Francesco Margiotta Broglio, professore emerito di diritto ecclesiastico e presidente uscente (per la parte italiana) della Commissione per l' attuazione del Concordato, ha rilasciato al Messaggero un' intervista che era assai pungente su Bergoglio: «Ha importato il Sudamerica a Roma, uno stile da Chiesa della liberazione Il Papa somiglia a quelli della Teologia della Liberazione, del resto da quel continente lì arriva». L' episodio del cardinale elettricista, secondo il professore, «fa il paio con l' invito del Papa agli zingari in Vaticano. Con Francesco la Teologia della Liberazione è arrivata anche a liberare i contatori». La sua conclusione, rivolta ai cardinali, è questa: «Volevano un Che Guevara? Ed eccolo». Antonio Socci

LUTTWAK: “È UN SOCIALISTA. TACE SUI MORTI CRISTIANI MENTRE PIANGE PER GLI ISLAMICI. OGGI SE NON SEI GAY, DI SINISTRA O MUSULMANO LA TUA MORTE VALE POCO”. Da “la Zanzara – Radio24” il 25 aprile 2019. “Quando una persona ha attaccato i musulmani in Nuova Zelanda l’intero mondo è caduto per terra…che tragedia…islamofobia e così via. Ma nello Sri Lanka c’è voluto del tempo per dire che è un attacco di estremisti islamici. E nello stesso giorno nel nord della Nigeria gli islamici hanno attaccato e ucciso un bel po’ di cristiani. E non è stato raccontato e scritto da nessuno. Il Papa fa grandi dichiarazioni quando chiunque viene ucciso ma sui cristiani sta zitto”. Lo dice Edward Luttwak alla Zanzara su Radio 24. “Se c’è un attacco contro un gay – dice – va in prima pagina, se viene attaccato un povero pensionato tutti se ne fregano. Tutti si mettono a piangere se si tratta di musulmani o altri, mentre le città cristiane vengono attaccate ogni giorno e nessuno dice nulla. Il Papa in primis”. “Hanno creato un ordine di priorità – continua –ci sono le vittime privilegiate come i palestinesi, ammazzano centinaia di persone nello Yemen ed è a pagina 32, forse neppure. Deve essere giornalista, gay, musulmano e di sinistra. Se non sei queste cose non conti. Se ti uccidono non se ne parla. E Il Papa è partecipe insieme ai radical chic che hanno creato questa cultura: hanno deciso chi sono le vittime importanti e quelle che non sono importanti. Questo è un Papa anticapitalista e filosocialista, mentre il socialismo è fallito ovunque. E’ il prodotto della sinistra argentina, che funziona per i burocrati di sinistra. Anticapitalismo, è la prima cosa in cui crede: pensa che distrugga ambiente e uomini. Se ne frega della ricchezza”.

Papa Francesco, il sondaggio che lo condanna: come ha ridotto la sua Chiesa, scrive l'1 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Quale influenza ha la Chiesa sugli italiani? Se "la popolazione si definisce "cattolica": il 75%, secondo il Rapporto Eurispes del 2016", scrive Ilvo Diamanti illustrando il suo sondaggio su La Repubblica, "solo una minoranza, il 25%, afferma di recarsi a messa con frequenza e regolarità". Soprattutto: "Quanto all'autorevolezza pubblica, l'ultima indagine di Demos dedicata agli orientamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni (dicembre 2018) valuta il grado di fiducia verso Chiesa intorno al 38%. Sensibilmente in calo (20 punti in meno)durante gli ultimi dieci anni". Certo è un dato ancora elevato, visto che il Pontefice, quindi Papa Francesco, "riscuote un elevato grado di fiducia presso oltre il 70% dei cittadini". Ma il trend è negativo. "L'influenza della Chiesa risulta significativa anche sul piano degli orientamenti personali. Delle opinioni e dei valori della società. È ciò che pensano oltre 2 persone su 10", continua. "Per la precisione, il 22%: 4 punti in più rispetto a quanto emergeva da un'indagine realizzata nel 2005". E se sempre più persone ritengono che "la Chiesa dovrebbe limitare il proprio intervento all'ambito della fede", "il credito della Chiesa continua ad essere elevato. Oltre il 60%, però, va "oltre". Dà maggiore importanza alla coscienza personale. All'autonomia di scelta e di valutazione degli individui. Oppure nega ogni interferenza fra questi piani. Fra religione e politica. Fra religione ed etica civile". 

Antonio Socci smaschera Massimo Cacciari e la sinistra: cos'hanno in comune con Bergoglio, errore fatale, scrive l'11 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Le insanabili contraddizioni della sinistra non riguardano solo le sue leadership politiche, ma anche i suoi intellettuali e le sue idee di fondo. Massimo Cacciari e Mario Tronti sono due dei migliori pensatori dell'area post marxista. Ultimamente sono intervenuti - fra l'altro - sulla «questione europea», che diventerà calda con le prossime elezioni di maggio, e lo hanno fatto entrambi valorizzando un autore, cattolicissimo, che è agli antipodi delle idee circolanti a sinistra sull' Europa. Si tratta di Romano Guardini, sacerdote e teologo italiano, ma vissuto in Germania (nato a Verona nel 1885 e morto a Monaco di Baviera nel 1968).

Tronti ha pubblicato un libro-intervista, «Il popolo perduto (Per una critica della sinistra)», in cui - ad un certo punto - rammenta che «c' è un bellissimo testo di Romano Guardini, "Europa, realtà e compito"». Dopo averne sintetizzato il contenuto evoca «la mal gestita vicenda della mancata Costituzione europea. Ricordo, tra l'altro, il superficiale dibattito se andavano richiamate nella Carta le radici cristiane d' Europa. Ma il problema non era quello di una certificazione scritta. Il problema era riconoscere da parte di tutti, intimamente, che il sentire comune del cristianesimo, cattolico, protestante, ortodosso che fosse, era un legame spirituale che univa, non divideva. Forse l'unico che univa e non divideva. Lo aveva capito ed espresso tragicamente papa Ratzinger. Non è con la secolarizzazione che si dà spirito a un'azione. C' è anche una sacralità nell' idea di Europa». Bene, ma la sinistra italiana ha sempre avuto (ed ha tuttora) una politica diametralmente opposta, tutta identificata con quella Unione Europea laicista e tecnocratica che di fatto detesta e combatte le sue radici cristiane e le profonde identità dei popoli. È la sinistra della scristianizzazione.

Ancora più significativo è il saggio che Massimo Cacciari ha dedicato sempre a Guardini (e alla sua concezione di Europa) su Vita e Pensiero (2/2018) intitolato «L' aut aut sull' Europa di Romano Guardini». Cacciari spiega che per Guardini il «compito» dell'Europa non è quello di restare «un insieme di nazioni ciascuna in sé rinserrata», ma neanche il ripetersi del «sogno egemonico» dei grandi Stati europei che «non potrà condurre che ad altre catastrofi e infine al suicidio della stessa Europa». Serve una decisione - Non appartiene a Guardini - spiega Cacciari - nemmeno l'idea di Europa come un'artificiale forma-Stato: l'Europa «non ha natura pattizia, convenzionale; né può nascere dal "contratto" tra diversi interessi». Infine «la missione d' Europa» non consiste nemmeno nella rivendicazione archeologica delle proprie radici (classiche o giudaico-cristiane o illuministe). Ma sta piuttosto in una «decisione». Cacciari coglie bene il pensiero originale di Guardini: «Determinante per l'Europa è il Cristo. Qui l'aut-aut di Guardini, che richiede di esser colto in tutta la sua provocatoria radicalità, senza vani annacquamenti. Lo stesso mondo classico non sarebbe concepibile in Europa se non attraverso la mediazione cristiana». C' è dunque, in Guardini, molto più della nostalgia per le radici cristiane. Ciò che rende urgente e drammatica la decisione su Cristo - per lui, che aveva vissuto gli anni dei grandi totalitarismi - è il rischio rappresentato dalla possibile saldatura della Scienza e della Tecnica col potere economico e col potere politico. È un'intuizione profetica oggi ancora più vera considerata l'enorme espansione, in questi anni, della Tecnica e del potere economico. Sia chiaro, Guardini non ha nessuna nostalgia romantica o reazionaria e indica proprio nel cristianesimo la culla del pensiero scientifico e quindi della tecnologia: «Nulla di più falso dell'opinione che il dominio moderno sul mondo nella conoscenza e nella tecnica abbia dovuto essere raggiunto lottando contro il cristianesimo. È vero il contrario () L' enorme rischio della scienza e della tecnica moderna () è diventato possibile solo sul fondamento di quella indipendenza personale, che il Cristo ha dato all' uomo». Scienza e tecnica - Ma oggi - sottolinea Cacciari - «la scienza è intrinsecamente collegata alla Tecnica e perciò al mondo produttivo-economico. L' uomo faustiano ne governa i processi». Cacciari sintetizza il pensiero di Guardini: «La cristianità è la sola forza capace di contenere il prepotente "accordo" tra scienza, tecnica, economia, "accordo" capace di dominare il processo stesso della decisione politica». A questo punto Cacciari tratteggia l'inquietante scenario: «Il politeismo dei valori proprio delle società secolarizzate potrebbe rappresentare il prologo di un paganesimo ben più pericoloso, un paganesimo che si esprime nel culto di una sola Potenza salvifica - e quando in essa si sposino Tecnica e Potere politico, allora è "semplicemente" l'avvento dell'Anti-Cristo». Ecco perché «occorre una ri-conversione alla figura di Cristo per superare la riduzione dell'umano a materiale della Tecnica» e riportare tutto al suo Fine autentico. Infatti «soltanto se fondato sulla Rivelazione del Cristo, il Potere, le forme del potere politico, potranno ordinarsi al servizio di quel Fine, e non confondersi con il sistema tecnico-economico». Cacciari rilegge Guardini dunque indicando che «soltanto la Cristianità, nella sua stessa forma politica, operante nel mondo» può «affrontare e resistere allo scatenamento delle potenze anti-cristiche immanenti al mondo della Tecnica, ma anche indicare la possibilità reale di un "nuovo tipo umano, dotato di una più profonda spiritualità"». Il pensatore veneziano si chiede, a questo punto, se quella di Guardini è una prospettiva illusoria, ma ne sottolinea la natura realistica. Scrive che «occorre che si affermi l'idea cristiana di persona e di potere politico». Poi conclude: «Improbabile prospettiva? E quale altra opporle? Impossibile, forse? E non è proprio soltanto Dio a potere l'impossibile?». O forse oggi alle domande di Guardini si risponde con «una sovrana indifferenza»? Su strade opposte - Cacciari ha saputo andare al cuore del problema, esplicitando le domande fondamentali. Ma - come per Tronti - questo apprezzabile «Cacciari pensatore», non si ritrova nel Cacciari politico e polemista del quotidiano, tanto meno nella sua sinistra, che percorre strade opposte a quelle guardiniane.

Padre Giandomenico Mucci, un autorevole saggista della Civiltà Cattolica, nel numero della rivista di marzo, ha colto il valore e la novità dell'intervento di Cacciari. Ma si è limitato a sottolineare la «rinnovata riscoperta delle radici cristiane dell'Europa» e la «nostalgia» che traspare in tanti «agnostici tiepidi». Non ha tirato le conseguenze politiche, né ha indicato il compito illuminante che oggi spetterebbe alla Chiesa per aiutare questa riflessione sul cristianesimo e infine, addirittura, il ritorno a Cristo. Forse perché l'attuale chiesa bergogliana è agli antipodi della proposta di Guardini, un po' come la sinistra, come il Pd, con la cui narrazione - del resto - si confonde l'attuale predicazione papale. Antonio Socci

"Scola più votato di Bergoglio". Quella svolta che cambiò il conclave. Papa Bergoglio eletto anche grazie alle divisioni interne del fronte conservatore. Il retroscena svelato dal vaticanista O'Connell, scrive Francesco Boezi, Martedì 26/03/2019 su Il Giornale. Non erano in pochi a pensare che il successore di Joseph Ratzinger sarebbe stato scelto tra i cardinali sudamericani. C'è chi si riferisce a Jorge Mario Bergoglio in termini di "sorpresa" e chi ritiene invece che l'ex arcivescovo di Buenos Aires avesse già partecipato, da candidato, all'elezione del Conclave del 2005, quello che ha portato il teologo tedesco sul soglio di Pietro. Dove per "candidato" si deve intendere che era stato votato dai suoi ' colleghi' porporati, non che avesse avanzato ambizioni personali. Ma un libro, firmato dal vaticanista Gerard O'Connell, sembra destinato a chiarire una volta per tutte come siano andate le cose nel 2013, quando i "prinicipi della Chiesa" hanno optato per un pontefice di cambiamento e proveniente dall'Argentina. Stiamo parlando di The Election of Pope Francis: An Inside Account of the Conclave That Changed History, un'opera balzata alle cronache nel corso di queste ore. L'autore disegnerebbe esattamente il quadro di partenza e la sua evoluzione. Vediamo come sarebbero andate le cose. il primo uno contro uno, si fa per dire, doveva avere per protagonisti il cardinale Angelo Scola, che oltre a non considerarsi affatto come il grande sconfitto di quel Conclave, ancora oggi viene spesso dato "in quota Ratzinger", per una successione più naturale possibile e, in qualità di "avversario", un ecclesiastico riformatore. Si era pensato al cardinale Scherer, ma il porporato brasiliano al primo giro ha potuto contare su solo quattro preferenze. E per questo, stando alle ricostruzioni presentate, il suo nome è stato messo da parte. Ma perché l'ex arcivescovo di Milano non è stato sostenuto in blocco da tutti quei porporati che avrebbero voluto un altro papa conservatore? La spiegazione non è semplice. Secondo l'opera citata, quello che per semplicità chiameremo il "fronte conservatore", all'epoca si è diviso attorno a due nomi: il cardinale Angelo Scola, appunto, e il cardinale canadese Marc Ouellet. La distribuzione delle preferenze non ha consentito né al primo né al secondo di raggiungere una posizione maggioritaria. E al primo scrutinio, i voti che sarebbero dovuti arrivare a Scherer, sono finiti dalle parti di Buenos Aires. Una variabile indipendente poteva essere rappresentata dal cardinale O'Malley, votato a "sorpresa" - a sua volta - nel corso del primo turno. Nelle votazioni successive, però, gli ecclesiastici riuniti in Conclave hanno preferito far confluire i consensi sul nome di Jorge Mario Bergoglio. Con l'intervento decisivo, per chi crede, dello Spirito Santo. Questo, in estrema sintesi, è una parte di quanto svelato dalla fatica di O'Connell. Di retroscena su quel Conclave ne esistono tanti. Partendo da questa dettagliata analisi, però, è possibile notare come i cosiddetti 'ratzingeriani' si siano spaccati al loro interno, consentendo a un nome terzo di emergere. Secondo quanto riportato pure da Vatican Insider, l'autore ha messo in evidenza le scelte operate dai porporati italiani: i cardinali del Belpaese non hanno trovato la quadra. La stessa che, con ogni probabilità, avrebbe consentito la rielezione di un papa del Vecchio Continente. Vale la pena sottolineare, infine, come in alcuni ambienti vicini alle "cose vaticane", prescindendo per un attimo dal libro di O'Connell, si racconti spesso del ruolo svolto dal cardinale Donald Wuerl, dimessosi poco tempo fa dall'arcivescovato di Washington, nel convincere anche i cosiddetti "conservatori" a votare per quello che poi sarebbe divenuto il Santo Padre. Coloro che sono incaricati negli Stati Uniti, differentemente dagli italiani, avrebbero trovato subito compattezza.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 26 marzo 2019. Il genere è intrigante, tra il racconto e il retroscena, di per sé impossibile da verificare. Sono i segreti del conclave, l' assemblea dei cardinali chiamati a eleggere il nuovo Pontefice. In questi giorni è uscito negli Stati Uniti il lavoro di un vaticanista di lungo corso, Gerard O' Connell, corrispondente di America, la rivista newyorkese dei gesuiti. La fonte è autorevole e di area liberal, il titolo è The Election of Pope Francis: An Inside Account of the Conclave That Changed History (Orbis books). Secondo le anticipazioni, il primo voto del conclave 2013, quello che ha eletto papa Francesco, sarebbe andato così: «Scola 30, Bergoglio 26, Ouellet 22, O' Malley 10, Scherer 4», più altri in ordine sparso. Siamo alla sera del 12 marzo 2013 e, secondo le fonti di O' Connell, il grande favorito, l' allora arcivescovo di Milano Angelo Scola, era in testa, ma non con lo scarto che ci si aspettava. Che il cardinale milanese fosse il candidato numero uno per succedere a papa Benedetto XVI è dato per scontato in quasi tutte le ricostruzioni giornalistiche. Un' ipotesi a suo modo supportata dalla colossale gaffe dell' ufficio comunicazioni della Cei che fece uscire, alle 20.23 di mercoledì 13 marzo, quindi dopo la fumata bianca che segnalava l' elezione del nuovo Pontefice, un comunicato stampa che si congratulava con Scola. Colpa del «copia-incolla», si disse poi. Intanto però la diceria sulla candidatura di Scola come favorito, che già circolava, prese forza. Chi entra da Papa esce da cardinale, dice un noto adagio vaticano, e così sarebbe andata per l' arcivescovo di Milano. Se prestiamo fede alla ricostruzione di O' Connell, Scola però avrebbe raggruppato pochi voti rispetto al previsto, solo 30. Pochi soprattutto considerando i 22 che avrebbe raccolto il cardinale canadese Marc Ouellet, prefetto della congregazione vaticana per i vescovi. Entrambi, Scola e Ouellet, erano considerati candidati in continuità con i papati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma questi 22 voti al porporato canadese dimostrerebbero la divisione nel fronte conservatore all' interno del conclave 2013. Il brasiliano Odilo Scherer, allora indicato come avversario di Scola, se le cose fossero andate come dice O' Connell, era già fuori dai giochi al primo turno e l' outsider Jorge Mario Bergoglio (già protagonista nel conclave che elesse Joseph Ratzinger nel 2005) si profilava così come possibile soluzione. Il cardinale argentino, infatti, si posizionava a metà del guado, con 26 voti, che sarebbero stati 27 se un cardinale «non avesse sbagliato a digitare il suo nome, scrivendo "Broglio" invece di Bergoglio sulla scheda elettorale». Sommando i voti di Scola e quelli di Ouellet si raggiungerebbe così una considerevole cifra di 55 voti che potremmo considerare, con criteri giornalistici, di area conservatrice. Tra l' altro si potrebbero aggiungere a questi anche altri voti confluiti in modo sparso: due voti al cardinale George Pell, oggi in carcere in Australia per una condanna per abusi sessuali sui minori, due a Timothy Dolan, arcivescovo di New York, uno a Carlo Caffarra, uno a Robert Sarah e uno a Mauro Piacenza, oggi penitenziere apostolico. È chiaro quindi che quel gruppo consistente di voti si sia spaccato proprio sul cardinale Scola. Perché? Molte indiscrezioni, non solo quelle di O' Connell, portano a pensare che il gruppo dei cardinali di Curia, e in particolare quelli italiani, abbia remato contro l' arcivescovo di Milano. Eravamo in piena tempesta Vatileaks, e Scola sarebbe stato uno dei capofila dei cardinali che da tempo chiedevano a Benedetto XVI di fare piazza pulita di alcuni suoi strettissimi collaboratori (in primis l' allora segretario di Stato Tarcisio Bertone?). Questo gli avrebbe attirato le antipatie di molti, poi, forse, il suo essere italiano veniva visto come ostacolo al desiderio di fare pulizia. Alla fine, nonostante qualche cardinale avesse tentato di spostare i voti su Ouellet, la campagna pro Bergoglio, condotta in primis dai cardinali Óscar Maradiaga, Walter Kasper, Peter Turkson, Oswald Gracias e Donald Wuerl, ha avuto successo. Opera dello Spirito santo, dice il credente. Ingenuità di tanti porporati che pensavano a Bergoglio come a una specie di moderato, dicono le malelingue.

6 ANNI CON PAPA FRANCESCO. Come mantenere giovane l’attrattiva di Dio. Sei anni fa Jorge Mario Bergoglio veniva eletto al soglio di Pietro. Sceglieva di chiamarsi “Francesco”, rimettendo Cristo povero al centro del mondo, scrive il 13.03.2019 Marco Pozza su Il Sussidiario. Quello del 2013 fu un inizio di primavera al ritmo di porte e finestre. Mentre una porta si chiudeva – avvolgendo nel silenzio l’esile figura di Benedetto XVI – una finestra si aprì al mondo, sul mondo. Dal balcone s’affacciò un uomo, ai più sconosciuto, andato a scegliersi il nome più conosciuto dei nomi di Chiesa-vera: Francesco d’Assisi, trasmigrando corpo, diventava nome papale. E la storiaccia di quel giovanetto che dalle campagne d’Assisi tentò (riuscendoci) di rimettere il Cristo povero al centro della scena, divenne in un battibaleno il sogno di Chiesa del nuovo arrivato, Papa Francesco. D’allora, niente fu più come allora: sei anni, giusto oggi, vissuti nel nome del Padre, sotto lo sguardo custode della Madre, in scia a quel Figlio che Francesco va a recuperare nei cocci di quelle storie che ai più sembrano perdute, sfatte, striate. Persino luride di miseria, peccato, astio. Sei anni è poco più che un lustro, polvere di stelle al confronto dell’Eterno: la storia sacra non sopporta i bilanci, nel rendicontarla minaccia vendetta, è il festival della duttilità. E’ la storia, sia sacra che profana, a mostrarsi un perpetuo lavoro-in-corso: rallentamenti improvvisi, accelerazioni repentine, frenate, code, ingorghi. Incidenti. L’unico bilancio possibile, quando c’è di mezzo l’estrosità di Dio, è lo sguardo: verso dove fissa, cosa mette a fuoco, di quanta ampiezza è capace. Francesco è uomo di sguardo capace di ascoltare, ingrandire, sminuire e rammendare. Chi lo visita ammette la potenza di quello sguardo: è presente a se stesso, fa sentire unica la persona o la storia che ha di fronte, s’interessa. E’ lo sguardo della storia cristiana. Il cristianesimo non è sempre esistito: è nato in un preciso momento della storia, ne sta condividendo un tratto. E’ germogliato il giorno in cui Dio ha iniziato ad interessarsi in prima persona dell’uomo, finché è arrivato a sporcarsi di giorni, ore, attimi. Odorando, Lui pastore, dell’odore delle sue pecore. Francesco è di Cristo, nonostante in tanti dicano ch’è del mondo: si mantiene giovane, mantiene giovane l’attrattiva del suo Dio, non adeguandosi alla logica del mondo ma restando al ritmo della storia. Alla logica del possesso ha scelto da subito quella del processo, nella più fedele continuità di suo padre, Ignazio di Loyola: non conta il possedere una terra bensì l’aprire un processo. “Non ha portato a casa niente in sei anni”, dicono in tanti. E’ una frase di vittoria nella sua logica. L’importante non è conquistare ma aprire: con testa, cuore e intelligenza. Scegliendo di non arroccarsi nella difesa di un’immutabile presenza storica, ma abitando l’intreccio confuso della quotidianità: “Questa memoria non (è) fissa nel passato ma, essendo memoria di una promessa, diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via” (Lumen fidei, 9). Nel presente saper gettare lo sguardo al passato per disegnare il futuro: non è cosa da poco. A casa non ha portato nulla: è un Papa, dunque, sfaccendato o poltrone? Ad una lettura diabolica potrà anche sembrare: fare l’autopsia è di Lucifero. C’è anche una lettura simbolica, d’insieme: qualora fosse vero che non ha portato a casa nulla, ha portato fuori di casa lo sguardo. Che, per chi ne capisce, è come aver portato a casa il segreto per arricchire la casa. L’entrare nelle carceri – nel porto di Lampedusa, celebrare l’eucaristia vicino al muro messicano, scrivere il magistero più coi gesti che con le parole – è stato come prestare il suo sguardo al mondo per illuminare quegli anfratti dove l’ordinario racconta la lotta tra la vita e la morte, la verità e la menzogna. Aprire la porta, curare le ferite, annunciare stagioni di misericordia: annunci e incontri che si sono fatti complicità di sguardi tra il Papa e l’uomo. Tra il Cielo e chi il Cielo, per chissà qual motivo, l’ha perso. Nessun bilancio è possibile. Ciò che è palese, a sei anni da quella serata primaverile, è la forza d’urto di quello sguardo: rapace, amabile, netto. Per chi accetta d’abitare (in) quello sguardo, ciò che si contempla sono le manovre di Dio, niente facili da decifrare. E’ materia da trattare ed esplorare in ginocchio. 

Veneto, due vescovi aprono all’eucarestia ai divorziati: «Scusateci». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Stefano Bensa su Corriere.it. Era un dogma che sembrava insuperabile, e che costringeva migliaia di fedeli a rinunciare, loro malgrado, ad uno dei sacramenti fondamentali per un credente: la comunione, così come la confessione. Almeno fino ad oggi. Perché la «fuga di anime» dalle parrocchie, la disaffezione verso quella ritualità settimanale che, un tempo, affollava le chiese, e forse anche lo storico sorpasso dei matrimoni civili sul rito religioso sta spingendo i primi vescovi - da Vittorio Veneto a Belluno e Feltre - ad aprire le porte alle coppie separate e divorziate. Fino a rivolgere, come nel caso di monsignor Renato Marangoni, vescovo di Belluno, un appassionato appello pubblico che parte da un presupposto: le scuse. Un atto considerato al limite del «sacrilego» da parte degli oltranzisti della tradizione. I quali, per tutta risposta, hanno scatenato una campagna social che ha generato reazioni e commenti al vetriolo. Ma cominciamo dalla lettera di monsignor Marangoni a separati e divorziati: «C’è una parola iniziale da confidarvi: Scusate! C’ è in questa parola — afferma il vescovo di Belluno e Feltre — la nostra consapevolezza di avervi spesso ignorato. Forse avete anche sofferto per atteggiamenti tra noi di giudizio e di critica nei vostri confronti. Abbiamo anche per un lungo tempo dichiarato che non potevate essere pienamente ammessi ai sacramenti della Penitenza e dell’ Eucaristia». La presa di posizione trae spunto da «Amoris Laetitia», l’ esortazione apostolica di Papa Francesco (fu pubblicata nel 2016), che vagliava anche la realtà contemporanea della vita familiare. Un testo che scatenò un ampio dibattito nella comunità cattolica, ma che ha mutato le condizioni entro le quali le diocesi, come pure le singole parrocchie, possono muoversi. Non a caso monsignor Marangoni ammette che «ci siamo irrigiditi su una visione molto formale delle situazioni familiari. Abbiamo sbagliato a non considerare la situazione personale, i sogni che avevate alimentato, la vostra vocazione alla vita coniugale con i progetti di vita che comportava, seppure incorsi in vicende familiari travagliate». L’invito, esplicito, è di riavvicinarsi alle parrocchie, iniziando da un incontro organizzato domenica primo dicembre, alle 15, al Centro Papa Luciani a Col Cumano di Santa Giustina. Un palese tentativo di riconciliazione, insomma. Che però non è stato affatto gradito da chi non ammette deroghe alla tradizione. Radio Spada, un sito che ritiene «il Cattolicesimo Romano l’ unica forma di antagonismo culturale, sociale e politico alla grave decadenza e alle pulsioni dissolutrici del mondo in cui viviamo», ha avviato una battaglia contro l’ apertura del vescovo, definendo «surreale» la sua lettera. «Sebbene sia la lettera di un vescovo - scrive il sito, con un post commentato da decine di indignati - non c’ è nessun richiamo all’ abbandono della situazione gravemente peccaminosa che mette in pericolo il destino eterno delle anime, nessun richiamo agli alti valori cristiani della castità, della santità della famiglia, nessun richiamo all’ unità ed indissolubilità del matrimonio. Solamente un prostrarsi con la scusa delle vicende travagliate dei singoli a modi di vivere non secondo Dio, che condanna il divorzio ed il concubinaggio». Anche la chiosa finale non è del tutto cortese: «Più che della lettera di un successore degli Apostoli è la lettera di un successore degli Apostati». Ma la diocesi tira dritta: l’ incontro si farà. Del resto il vescovo di Belluno, in Veneto, non è solo: nei giorni scorsi il «collega» di Vittorio Veneto Corrado Pizziolo ha annunciato, tramite il settimanale diocesano L’Azione , quella che definisce «la novità»: «Consiste nel fatto di prevedere per certe coppie che non vivono in pienezza il matrimonio cristiano la possibilità di accedere alla partecipazione sacramentale». Il tutto, al termine di un «percorso di accompagnamento» gestito dal parroco o direttamente dal vescovo. E malgrado gli «indignados».

Così papa Francesco ha cambiato la Chiesa in sei anni. Il 13 marzo di sei anni fa veniva eletto al soglio di Pietro Jorge Mario Bergoglio. Un bilancio di questi primi sei anni del Papa argentino, scrive Francesco Boezi, Mercoledì 13/03/2019, su Il Giornale. Papa Francesco è stato eletto il 13 marzo di sei anni fa. Ci si aspettava un pontefice di rottura. Era una scelta che i cardinali riunitisi in Conclave ritenevano evidentemente necessaria per una Chiesa cattolica che appariva stantia, bloccata tra gli scandali e l'incapacità di portare avanti le riforme considerate necessarie, come quelle sulla trasparenza. Rispetto agli scandali legati agli abusi, a dire il vero, Joseph Ratzinger era già stato incisivo: è il recordman per numero di sacerdoti "spretati" in seguito all'emersione di casi ritenuti credibili o provati. Bergoglio ha di sicuro trovato degli ostacoli in questo cammino - il cosiddetto "blocco" che impererebbe in Vaticano da almeno tre pontificati, ma è - ancora oggi - un vertice spirituale ed ecclesiastico inviso, e persino contestato, a chi e da chi - partendo da posizioni conservatrici più che tradizionaliste - ha tirato in ballo una serie di questioni divisive per l'intera durata dei sei anni, a partire dall'esito del Sinodo sulla famiglia. Dubbi, in un caso "dubia", quelli su Amoris Laetitia e la concessione della comunione ai divorziati risposati, che hanno accompagnato - specie per mezzo di polemiche e pubblicazioni - lo svolgimento del magistero. In Europa - abituati com'erano, e come siamo, a un certo centralismo e a una certa impostazione teologica - si sono dovuti arrendere: l'ex arcivescovo di Buenos Aires ama le periferie e non sembra assecondare più di tanto le gerarchie vigenti. Alle prassi precostituite e alle abitudini pontificie, il papa regnante preferisce l'uscita della Chiesa dalle sua dimensione clericale: possiamo elencare il numero di visite apostoliche fatte, ma è facile pure annoverare tutti quei luoghi solitamente selezionati per donare alla Ecclesia dei cardinali. Non sono poche le arcidiocesi che oggi, per la prima volta, non possono vantare di aver espresso un porporato. Quello che riguarda Milano è uno di questi casi. Sono questioni diverse, ma semplificano, spiegando il modus operandi di Francesco. Partendo da queste poche riflessioni, diviene più semplice comprendere come mai Bergoglio insista così tanto sull'accoglienza dei migranti, che è - insieme alla dottrina e alla gestione governativa della Santa Sede - il punto che solleva più critiche, tutte provenienti dal cosiddetto "mondo tradizionale": la sua missione sembra quella di spostare il baricentro del cattolicesimo verso le estremità esistenziali, che è un disegno percepito come troppo pragmatico da chi si aspetterebbe qualcosa di più in termini spirituali. Il riformismo doveva essere declinato per mezzo di un consiglio ristretto composto da fedelissimi del papa. I nove erano stati chiamati per modificare nel profondo i meccenismi curiali. Ma proprio il C9 - pure per via degli scandali - è stato ridotto a un C6. Il "cerchio magico" del pontefice argentino è stato interessato da quella "crisi di credibilità" cui il Santo Padre ha fatto fronte, di recente, convocando un summit straordinario sulla prevenzione degli abusi ai danni dei minori e degli adulti vulnerabili. I cardinai Pell ed Errazuriz sono i due porporati del C9 finiti nella bufera, ma per motivi diversi. Il secondo è solo accusato di coperture, mentre il primo, ex prefetto della Segreteria per l'Economia, è stato soggetto a una condanna per abusi da parte della giustizia australiana. Un terzo si è dimesso banalmente per limiti d'età. Poi c'è stato il caso di "Zio Ted", il potente cardinale americano - finito al centro del "dossier Viganò - che è stato prima "scardinalato" e poi ridotto allo stato laicale. La vicenda dell'ecclesiastico americano ha tenuto banco per tutta la passata estate. Dal punto di vista diplomatico non si può non citare lo storico accordo sulla nomina dei vescovi stipulato con la Cina. Qualcuno - come il cardinale Zen - pensa che la Chiesa abbia abdicato a se stessa. Poi ci sono i rapporti con i grandi leader politici del mondo: papa Francesco non sembra apprezzare più di tanto la visione del mondo di Donald Trump, ma la segreteria di Stato mantiene rapporti più che positivi con la Russia di Vladimir Putin. La Chiesa cattolica, "grazie" alla scelta ricaduta sul cardinale Parolin, si è riseduta - come già abbiamo avuto modo di scrivere - al tavolo della geopolitica. Di punti da sciorinare ce ne sarebbero molti: uno che viene spesso sottolineato nelle analisi sul pontificato del gesuita riguarda le modalità di dialogo selezionate per avere a che fare con le altre confessioni religiose: illuminanti e aperturiste per alcuni, pressapochiste e un po' azzardate per altri. Questo che il papa ha davanti, comunque la si pensi, è un anno davvero denso d'insidie. Bisognerà capire, anzitutto, quali effetti concreti seguiranno al "sinodo straordinario" - come alcuni lo hanno chiamato - sugli abusi. A ottobre si svolgerà il Sinodo sull'Amazzonia, che dovrebbe disporre riguardo ai viri probati, quindi sulla parziale laicizzazione della vita della Chiesa. Sullo sfondo, infine, quella sorta di monito lanciato dal cardinale Kasper, bergogliano doc, che ha parlato di "nemici di Francesco" impegnati a osteggiare il papato. Il fine presunto? Un "nuovo Conclave".

I massimalisti di sinistra che contestano Bergoglio, scrive il 26 gennaio 2019 Francesco Boezi su Gli Occhi della Guerra de "Il Giornale". Quando il cardinale Walter Kasper si è soffermato sui “nemici” di Bergoglio, ha fatto riferimento al mondo conservatore, ma pure ai progressisti. Ci sarebbe un doppio attacco diretto all’operato del pontefice argentino: l’universo tradizionale contesta al papa lo sdoganamento di certe aperture dottrinali, la stipulazione dell’accordo per la nomina dei vescovi con la Repubblica popolare cinese, la pastorale pro migranti e gli altri punti focali che abbiamo imparato a conoscere nel corso di questo quinquennio. La sinistra ecclesiastica, dal canto suo, non è soddisfatta perché la rivoluzione – quella promessa agli inizi di questo pontificato – appare lungi dal compiersi. Amoris Laetitia, per citare un caso, ha sì disposto la possibilità per i divorziati risposati di accedere al sacramento della comunione, ma non ha messo in discussione alcuni istituti tipici della dottrina cattolica. I massimalisti vorrebbero una Chiesa cattolica sempre più laicizzata e sempre più incline ad abbracciare il mondo, senza la pretesa di rappresentare una “minoranza creativa”. Papa Francesco sembra aver desacralizzato in parte il ruolo di pontefice, nel senso di averlo umanizzato, ma pare non avere intenzione di scardinare l’autorità e il primato del successore di Pietro. E questo, al fronte progressista più estremo, non piace. Il cattolicesimo contemporaneo si muove nei meandri di una “legitima progressio”, pur continuando a badare alla “sana traditio”. I progressisti ritengono che la discontinuità col passato impressa dal Santo Padre non sia sufficiente: i laici, ancora oggi, sono subordinati ai consacrati nella gestione delle diocesi e nella celebrazione dei sacramenti; il diaconato femminile non è ancora stato introdotto; i viri probati potrebbero essere regolarizzati, ma solo per l’Amazzonia e per altre zone di mondo in cui esistono difficoltà a coprire il territorio per mezzo dei sacerdoti; la visione bioetica del Papa è di stampo conservatore; il cosiddetto “rito tridentino” non è stato cancellato; Bergoglio ha ribadito in più di una circostanza che le persone omosessuali non dovrebbero poter entrare nei seminari al fine di essere consacrate; in materia geopolitica, la Santa Sede ha sì stipulato un trattato provvisorio con il governo cinese, ma non ha disdegnato di dialogare con Vladimir Putin; la dialettica ecumenica procede spedita, ma non si è ancora arrivati a una vera e propria riunificazione confessionale e così via. Papa Francesco guarda a sinistra, ma non abbastanza. Per questo sembra di assistere a quello che – da un punto di vista narrativo – è già successo a Barack Obama: incensato sin da prima del suo insediamento alla Casa Bianca, l’ex presidente degli Stati Uniti venne progressivamente abbandonato da certa stampa progressista con l’avvicinarsi della fine del suo mandato. Quando il cardinale Walter Kasper agita lo spettro di quello che sembrerebbe essere un “complotto”, finalizzato all’ottenimento di un “nuovo Conclave”, si riferisce pure a chi vorrebbe destrutturare l’intera architrave dottrinale. Se per il campo conservatore è relativamente facile procedere attraverso un’elencazione di coloro che stanno contestando alcune scelte di Bergoglio, per il campo progressista quest’operazione è più complicata. Molto attivi, per esempio, sono i gesuiti statunitensi, che stanno alzando il tiro sugli scandali legati agli abusi con le stesse modalità dei tradizionalisti. Ma per verificare l’attendibilità del quadro descritto, basta notare il cambio d’atteggiamento nei confronti del papa di quelli che i populisti chiamano giornaloni. Quasi come se la sinistra si fosse pentita di aver elogiato – a scatola chiusa – il papa venuto “dalla fine del mondo”. 

"Così l'opposizione progressista si vuole sbarazzare del Papa". Papa Francesco al centro di attacchi provenienti da più parti. Ma per il fronte tradizionalista sono i progressisti a preparare un vero e proprio golpe, scrivono Alessandra Benignetti e Francesco Boezi, Mercoledì 30/01/2019, su Il Giornale. Proseguono i malumori tra papa Francesco e il "fronte tradizionalista". La soppressione della Ecclesia Dei, la commissione pontificia creata da san Giovanni Paolo II e poi riformata in parte da Benedetto XVI, rientra nella razionalizzazione dei dicasteri, che culminerà con la pubblicazione della nuova Costituzione Apostolica, oppure si tratta di uno sgambetto ai conservatori? È quello che si chiedono in molti. L'istituto, del resto, era stato sì pensato per reintegrare i fuoriusciti dalla Fraternità San Pio X, ma nel tempo - grazie a Ratzinger - aveva assunto il valore di garanzia per i fedeli che continuano a seguire il vetus ordo, cioè coloro che partecipano alla Messa secondo la liturgia preconciliare. Per monsignor Nicola Bux, liturgista, teologo ed ex collaboratore del papa emerito, non ci sarebbe nulla da temere riguardo possibili passi indietro rispetto al Motu proprio Summorum Pontificum, con cui Benedetto XVI liberalizzò la forma straordinaria del rito. La Commissione era "già in liquidazione", per il fatto di non avere un Presidente e, spiega il sacerdote, "l’accorpamento con la Congregazione per la Dottrina della Fede era già in programma sotto il pontificato precedente”. Il nuovo Motu Proprio di papa Francesco, quindi, segnala monsignor Bux, non sarebbe altro che “un mero atto amministrativo” da ricondurre, in generale, alla riforma della curia. Qualche dubbio in più, invece, è stato sollevato dal vaticanista Marco Tosatti, per il quale il futuro del vetus ordo dipenderà da come il nuovo ufficio riuscirà a portare avanti “quella forma di tutela operata sinora dalla Commissione nei confronti dei fedeli che frequentano il rito tridentino". Anche secondo lo storico Roberto De Mattei, l’iniziativa del Papa sarebbe “avvolta da un alone di mistero”. “Solo con la nomina del nuovo segretario si riuscirà a comprendere meglio quale sarà la linea che intraprenderà il nuovo ufficio”, ha spiegato il presidente della Fondazione Lepanto, che in passato fu tra i promotori della Correctio Filialis indirizzata a Papa Francesco. “Se parte dei poteri che la commissione deteneva venissero espropriati – precisa però De Mattei – potrebbe trattarsi del preludio ad un successivo tentativo di abolire lo stesso Motu proprio Summorum Pontificum”. Per ora, insomma, lo strappo non c’è stato, anche se nelle scorse settimane alcuni porporati, come il cardinale Walter Kasper, avevano puntato il dito contro i tradizionalisti, identificandoli come “nemici” del pontificato di Francesco. A tal punto da auspicare al più presto un “nuovo conclave”. Ma l’universo conservatore rispedisce le accuse al mittente. “Le ampie manovre che sarebbero in atto contro papa Francesco – afferma De Mattei - provengono soprattutto dal mondo progressista, ed in particolare da un'ampia parte di coloro che hanno sostenuto il Papa fino a questo momento e che ora se ne vogliono sbarazzare perché delusi dalle mancate riforme”. “Le nostre critiche al Papa sono state sempre rispettose, aperte e leali - sottolinea lo studioso – ma nella Chiesa c’è anche chi preferisce tramare nell’ombra”. Si riferisce a quei “falchi” dell’ala modernista che starebbero preparando un “golpe” contro Bergoglio, delusi dalla mancata rivoluzione, in senso sempre più laico, della dottrina, della tradizione e delle istituzioni ecclesiastiche. Tra le motivazioni alla base del malcontento ci sarebbe “la mancata approvazione del diaconato femminile e la messa in discussione solo parziale di alcuni precetti dottrinali”. La tensione, insomma, si taglia con il coltello, alla vigilia dell’assemblea di fine febbraio dove Papa Francesco ha chiamato a rapporto in Vaticano i vescovi di tutto il mondo per discutere di prevenzione sugli abusi ai danni di minori e adulti vulnerabili. C'è già chi è pronto a scommettere sul fatto che quella possa rappresentare una buona occasione per alzare il tiro contro il Santo Padre.

Papa Francesco, l'accusa di Socci sul caos in Venezuela: perché sta con il regime comunista, scrive il 27 Gennaio 2019 Antonio Socci su Libero Quotidiano. È sempre più chiaro che, per i popoli di oriente e di occidente, papa Bergoglio è ormai un grosso problema. Il "caso Venezuela" lo ha reso evidente, come pure l'"alleanza" vaticana col regime comunista cinese e, ancora prima, l'esplosione dell'emergenza emigrazione che ha destabilizzato l'Italia e l'Europa. Tutti e tre questi "temi" vedono confliggere frontalmente Bergoglio con i popoli interessati e con la politica della Casa Bianca. Non a caso Trump fu attaccato dal papa argentino già durante la campagna presidenziale. Il pontificato di Bergoglio è infatti un prodotto dell'epoca Obama/Clinton, di cui porta avanti l'agenda, senza più avere però quella sponda politica (e pure Macron ormai è un'anatra zoppa). La prima destabilizzazione bergogliana ovviamente si abbatté sulla Chiesa che aveva rappresentato, fino a Benedetto XVI, l'istituzione più autorevole, più rappresentativa e più antica del mondo. E che ora, con Bergoglio, è precipitata nella crisi più grave della sua storia. Bergoglio ha radicalmente stravolto i connotati del papato: non più un messaggio spirituale, ma mondano, niente più soprannaturale, ma sempre politica. All' annuncio di Cristo unico salvatore, si è sostituita un'imitazione dell'Onu politically correct, con un forte timbro di sinistra radicale.

VECCHIA TEOLOGIA. È la vecchia teologia della liberazione. Non a caso proprio in queste ore è stato "pensionato" il cardinale Cipriani, arcivescovo di Lima e capo della chiesa peruviana, sostituito da don Carlos Castillo, discepolo di Gustavo Gutiérrez, il fondatore della teologia della liberazione. Il pontefice argentino è amichevole o dialogante con i regimi illiberali (islamici o socialisteggianti o comunisti), mentre è duro con i paesi liberi occidentali (in particolare con il presidente Trump e con Matteo Salvini). In America latina infatti Bergoglio ha rapporti amichevoli con Cuba, con il Venezuela di Maduro e con il compagno presidente boliviano Evo Morales (quello che gli regalò la scultura del crocifisso con falce e martello).

LA LETTERA DI ACCUSE. Nei giorni scorsi c' è stata una clamorosa iniziativa di venti ex capi di Stato dell'America Latina che hanno contestato a Bergoglio, con una lettera pubblica, il suo solenne messaggio di Natale in cui invitava alla concordia il popolo del Venezuela e anche quello del Nicaragua. Gli ex capi di Stato hanno obiettato: «In questo modo non si mette affatto l'accento sul fatto che il primo Paese è vittima dell'oppressione di una narco-dittatura militarizzata, che non ha remore a violare sistematicamente i diritti alla vita, alla libertà e all' integrità personale e lo sottopone a condizioni di carestia diffusa e mancanza di medicine. Il secondo Paese, a metà del 2018, è stato vittima di un'ondata di repressione che ha seminato quasi 300 morti e circa 2.500 feriti». Le parole di Bergoglio, in quei termini, aggiungono i firmatari, «possono essere interpretate anche in modo negativo per la maggioranza dei venezuelani e nicaraguensi», perché rischiano di essere sentite come «una richiesta ai popoli oppressi, che sono vittime ad accordarsi con i rispettivi aguzzini», specialmente nel caso del Venezuela, dove «c' è un governo che ha causato 3 milioni di rifugiati». Ma per i profughi provocati da Maduro, Bergoglio non ha affatto l'interesse ossessivo che invece manifesta sempre per i migranti che vogliono venire in Italia. Anzi, ha fatto clamore il fatto che il Vaticano abbia voluto mandare un proprio rappresentante alla recente cerimonia di insediamento di Maduro che è stata disertata dalla maggior parte dei Paesi europei e sudamericani.

LA PROTESTA DEI VESCOVI. Intanto il popolo venezuelano, in miseria, protesta, i vescovi denunciano i soprusi del regime di Maduro e, proprio in questi giorni, in Venezuela è esplosa la crisi istituzionale, perché il presidente dell'assemblea nazionale Guaidò (con l'appoggio del mondo libero) si è fatto avanti per liberare il Paese dal successore di Chavez. Così adesso Bergoglio si trova in palese imbarazzo e, pur trovandosi a due passi (a Panama), non ha finora pronunciato parola. Va detto che anche la clamorosa intervista papale sulla Cina, che aprì la strada all' accordo col regime comunista, stupì, scriveva Sandro Magister, «per le parole con cui il papa assolveva in blocco il passato e il presente della Cina, esortandola ad "accettare il proprio cammino per quel che è stato", come "acqua che scorre" e tutto purifica, anche quei milioni di vittime che il papa s' è guardato dal nominare, neppure velatamente».

LA RESA A PECHINO. Così fu siglato l'accordo con cui il Vaticano ha sostanzialmente consegnato la Chiesa cinese al regime. La stessa indifferenza verso i cristiani perseguitati manifestata dal Segretario di Stato di Bergoglio, card. Parolin, quando, di recente, ha dichiarato che non c' è nessuna attività diplomatica del Vaticano a favore di Asia Bibi e della sua famiglia e che la tragedia di quella povera donna cristiana «è una questione interna al Pakistan». All' Italia invece Bergoglio ritiene di dover prescrivere perfino la politica migratoria, che sarebbe prerogativa dello Stato laico. Bergoglio ha giocato un ruolo importante durante la formidabile ondata migratoria degli ultimi sei anni. Non solo per i continui, quotidiani interventi ad abbattere le frontiere. Si è saputo di recente che fece pure un intervento diretto sull' allora premier Enrico Letta, dopo la tragedia di Lampedusa. Telefonata dell'ottobre 2013 dopo la quale fu varata l'operazione "Mare Nostrum", che di fatto spalancò le porte agli arrivi. Dunque un pontificato pernicioso non solo per la Chiesa, ma per i popoli. Antonio Socci

·        «L’Archivio vaticano non è più segreto: ecco perché».

«L’Archivio vaticano non è più segreto: ecco perché». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Franco. Alcune carte restano private. Francesco e la scelta di cambiare nome: «Trasparenza, l’aggettivo “segreto” ha cominciato a essere frainteso, colorato di sfumature ambigue». Muore l’Archivio segreto vaticano. Nasce l’Archivio apostolico vaticano. «Ecco il motu proprio di Papa Francesco che abolisce l’intestazione “secretum”...». Monsignor Sergio Pagano, custode dei misteri più ambiti del mondo, posa sulla scrivania i tre fogli con i quali, il 22 ottobre scorso, Jorge Mario Bergoglio ha deciso di cancellare quattro secoli di storia pontificia. È un ligure dai modi asciutti. Veste semplicemente, con una blusa talare grigia a mezze maniche col collarino ecclesiastico, che porta fuori dai pantaloni neri, e calza un paio di sandali di cuoio. Dalle grandi vetrate a mezzaluna protette dalle inferriate dello studio di Pagano, Prefetto di questa mitica istituzione da oltre vent’anni dei quarantadue passati lì, si scorge la casina dell’Accademia Pontificia delle scienze. E ai piani superiori e inferiori giacciono ben custoditi milioni di volumi e documenti che raccolgono quello che un tempo fu definito l’archivio centrale dell’Europa, e ora si può dire lo sia di un intero mondo. Si parlò di Archivum Secretum Vaticanum a partire dal 1646. Ma quell’aggettivo, «segreto», ha cominciato a «essere frainteso, colorato di sfumature ambigue, perfino negative», scrive Francesco nel documento reso noto ieri. Dunque, si cambia.

Perché Francesco ha deciso di cancellare l’aggettivo «segreto»?

«La decisione si deve alla forte sensibilità del Papa di fronte a un’esigenza di trasparenza. La sua volontà è che la Chiesa agisca senza quelle che possono essere considerate tendenze o tentazioni a nascondere, o faziosità».

Sì, ma in concreto che cosa cambia?

«Cambia il titolo. Non vengono modificate né la struttura né la funzione dell’archivio. Il problema è di avvicinarlo alla sensibilità della gente comune, di evitare l’“accezione pregiudizievole di nascosto da non rivelare e da riservare a pochi”, come scrive papa Francesco. Comunque, anche con l’aggettivo “segreto” l’archivio era stimato dovunque. Cambiando l’intestazione si avvicina agli altri archivi storici del mondo non segreti».

Per capire: significa che ad esempio gli archivi su Pio XII saranno consultabili liberamente nella loro totalità?

«Da marzo prossimo sì, come previsto. Vede, a prescindere dal cambiamento dell’intestazione, l’Archivio vaticano all’atto di ogni apertura di pontificato rende disponibili tutte le sue fonti. Quindi anche prima di questo motu proprio le fonti sono state preparate per la consultazione degli studiosi nella loro totalità».

Ma da adesso nell’archivio non ci sarà più nulla di segreto?

«Nulla, tranne alcuni tipi di documenti precisati nella legge del 2005 sugli archivi della santa Sede, emanata da San Giovanni Paolo II. Tutto il resto era ed è consultabile».

Quali sono i documenti che rimangono segreti?

«Gli atti dei Conclavi, i documenti del Pontefice e dei cardinali, i processi vescovili, le posizioni sul personale della santa Sede e le cause matrimoniali, oltre ai documenti indicati come tali dalla Segreteria di Stato. È tutto scritto».

Dell’ultimo Conclave, dunque, non si saprà nulla.

«Vi erano già disposizioni a riguardo del segreto del Conclave. E anche la legge sugli archivi di cui parliamo recepisce queste riserve. I risultati non potranno essere di dominio pubblico. D’altronde, le schede sono state bruciate. Ci saranno forse solo i sommari sui voti dei candidati».

Scusi, ma non rischia di essere un’operazione gattopardesca? Si cambia il nome dell’Archivio segreto ma tutto rimane come prima.

«Capisco che un simile sospetto possa venire in mente alle persone comuni. Tuttavia, conoscendo lo stile del Papa, così diretto e attento alla sensibilità dei nostri tempi, questo sospetto non ha motivo di sussistere».

Quando ha saputo che Francesco voleva cancellare il «segreto»?

«Ne siamo venuti a conoscenza il cardinale archivista José Tolentino de Mendonca e io alcuni mesi fa».

Nel redigere il documento il Papa le ha chiesto un parere?

«Come spesso avviene in Curia, è naturale che il Papa nella sua prudenza chieda pareri e suggerimenti a organismi interessati dalle sue decisioni. Così è capitato sia al cardinale de Mendonca che a me di offrire la nostra esperienza».

E al di là del Papa, chi premeva per questa novità?

«Di preciso non ne sono a conoscenza. Ma penso che le maggiori obiezioni sulla conservazione di un aggettivo così ambiguo come “segreto” provenissero dalla chiesa statunitense, tedesca e latino-americana».

Voi vivete anche di donazioni. Questa novità le favorirà o le danneggerà?

«Penso onestamente che in buona parte la mutazione del titolo non creerà perplessità in nessuno dei nostri benefattori. Per un’altra buona parte, penso che avere tolto ogni minimo sospetto o falsa concezione di segretezza possa anche indirettamente favorire di più le donazioni in diverse nazioni del mondo».

Lei è Prefetto dell’archivio segreto vaticano da oltre vent’anni. Non soffrirà una crisi di identità adesso?

«Neanche tanto... anche perché io ho sempre considerato l’Archivio segreto come tale nella sua accezione originaria di “privato”, senza intenderlo nel senso deteriore che gli si dà oggi. È da quattro secoli che siamo aperti a chi richiedeva copie dei documenti, sia studiosi laici che ecclesiastici. Gli storici sanno bene che intere collezioni di documenti papali dagli eredi dei secoli XVII-XIX (penso, ad esempio, ai Bullaria dei vari ordini religiosi, ma anche agli Annales di Cesare Baronio sulla storia della Chiesa) così come singole monografie sui papi e sul papato, non sarebbero state possibili senza l’aiuto prestato ai diversi studiosi dall’Archivio Segreto Vaticano in tali secoli».

Neanche un po’ di nostalgia come custode di tanti segreti? Lei è identificato con l’Archivio segreto.

«Come studioso e come prefetto fino a questo motu proprio e a quanto esprime in esso il Santo Padre, non ho mai avvertito la necessità di giustificare il titolo di Archivio segreto. E quando ne sono stato richiesto in conferenze, lezioni, articoli, ho sempre potuto spiegare agevolmente che quel “secretum” voleva solo dire “privato”. Non è mai stato l’archivio dello Stato pontificio prima, dello Stato vaticano poi. È solo l’archivio privato del Papa, sottoposto in tutto alla sua esclusiva giurisdizione. Tuttavia capisco bene che forse appartengo a una generazione per la quale il latino parla ancora, e il latino non è una lingua facilmente equivocabile. Ora, nella contingenza moderna comprendo pure le giuste osservazioni di papa Francesco legate al bisogno di avvicinare l’istituzione anche al sentire comune».

Scusi ma che differenza c’è tra «segreto» e «apostolico»?

«Si tratta di termini storicamente e giuridicamente quasi sinonimi. Segreto significa privato, apostolico vuol dire del domnus apostolicus, che nel lessico curiale antico e moderno indica solo il Papa. Quindi rimane l’archivio del Papa».

Non teme le critiche? Prima gliele facevano come prefetto dell’Archivio segreto, ora magari gliele faranno per avere accettato questa novità.

«Il Papa ha deciso, e io come tutti dobbiamo non solo obbedire ma collaborare».

Secondo Lei, tra quattrocento anni magari l’Archivio tornerà a chiamarsi segreto, se esisterà ancora?

«Non penso proprio. Questa decisione avvicina le due istituzioni “parenti” della Biblioteca e dell’Archivio. E segna una svolta storica di grande peso: soprattutto simbolicamente».

·        Il Vaticano ed il copyright.

“LO STEMMA DEL PAPA NON È EQUIPARABILE A UN MARCHIO DI ALTA MODA”. Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 13 settembre 2019. «Lo stemma del Papa non è equiparabile ai marchi di alta moda, come quello di una griffe famosa». Questo è il presupposto dal quale è partito il pm Silvia Pirro per chiedere l' assoluzione di Mizanur Rahman, bengalese, sotto processo con l' accusa di aver violato la legge vendendo oggetti contraffatti con l' immagine del Papa o con lo stemma pontificio. Richiesta accolta dal giudice Alida Bracone che ha assolto Raham con la formula perché «il fatto non sussiste». Sentenza che ha respinto la richiesta di condanna avanzata dello Stato Città del Vaticano, costituitosi parte civile nel processo attraverso l'assessore per gli Affari Generali, monsignor Paolo Borgia, rappresentato dall' avvocato Michele Gentiloni Silverj. La pronuncia di ieri scardina la protezione commerciale del copyright dello stemma pontificio? Il giudice accoglie la tesi del pm sul diverso valore giuridico tra un marchio commerciale e il marchio papale? Per dare una risposta alla domanda sarà necessario leggere le motivazioni della sentenza che verranno depositate tra novanta giorni. La formula utilizzata per assolvere il commerciante, titolare di un esercizio commerciale in corso Vittorio Emanuele dove si vendono souvenir turistici, lascia aperta ogni possibilità. Di certo dopo questa decisione la battaglia lanciata dal Vaticano nel febbraio del 2018 per difendere il suo marchio incontra una chiara battuta d' arresto. D' ora in poi vendere souvenir con l' immagine del Papa taroccata potrebbe non comportare più una condanna automatica. O perché l' imputato dimostra di essere inconsapevole di stare smerciando oggetti taroccati. O perché, essendo valida la tesi del pm, l' intera disciplina sulla difesa del copyright papale andrebbe ridiscussa da capo. Ecco la ricostruzione di questa storia: il 28 marzo del 2016 la Finanza sequestra nel negozio di Rahman, 40 anni, souvenir, rosari, portachiavi e tazze. In tutto 195 pezzi. A motivare il provvedimento, il fatto che sui monili siano state impresse immagini dei papi, in particolare Bergoglio e Giovanni Paolo II, senza avere il via libera della Santa Sede. Motivo per cui il pm Antonella Nespola dispone la citazione in giudizio del commerciante con l' accusa di commercio di prodotti con segni falsi. La procura individua il Vaticano come parte offesa, anche perché a inizio 2018 la Santa Sede lancia una campagna a difesa del copyright dello stemma papale. Obiettivo: stroncare l' uso commerciale di questo marchio contraffatto. Ieri nel corso della discussione, però, il pm ha messo in dubbio che lo stemma riconducibile alla Santa Sede possa godere delle stesse tutele di un marchio commerciale. «Non è un marchio alla moda il cui scopo è creare profitto», è stato il ragionamento dell' accusa in aula. Di conseguenza per il magistrato le immagini taroccate sulle tazze e sui rosari venduti da Rahman non rappresentano una violazione del Codice penale. Pertanto il bengalese - difeso dagli avvocati Marco Tedaldi di Tavasca e Raimondo Rossi- va assolto. Opposta la tesi della parte civile, secondo cui la violazione del copyright configura un reato. Ha vinto il bengalese. «Aspettiamo le motivazioni della sentenza per capire come muoverci in futuro», commenta l' avvocato Michele Gentiloni Silverj.

·        Il Vaticano ed i Bilanci.

Fabio Amendolara per “la Verità” il 31 ottobre 2019. Il bubbone che rischia di imbarazzare non poco il Vaticano sta per scoppiare nel board della Fondazione policlinico Agostino Gemelli, emanazione dell' Università cattolica del Sacro cuore (controllata dai vertici ecclesiastici, segreteria di Stato compresa, attraverso l' istituto Toniolo), la quale sceglie il direttore generale e amministra diversi ospedali riconducibili alla Santa sede (compreso il Gemelli, ospedale del Papa). I problemi iniziano quando la Fondazione prende sotto la propria ala la casa di cura Columbus, clinica a due passi dal Gemelli che si occupa di fornire prestazioni sanitarie e che è attualmente in amministrazione controllata, dopo il fallimento dichiarato nel maggio 2017 per colpa di un buco causato da cattiva gestione e da un' evasione fiscale milionaria. La Columbus, valore d' azienda stimato dalla curatela fallimentare in 10 milioni di euro, posti letto e ambulatori specializzati e accreditati con il Servizio sanitario nazionale, nel 2015 (quando a comandare in Vaticano erano già papa Francesco e i suoi uomini) è diventata un ramo d' azienda della Fondazione policlinico Gemelli, presieduta dal finanziere Giovanni Raimondi (nel Cda siede anche Gianni Letta), manager e presidente di una decina tra fondazioni e società d' orbita vaticana e non, come la Castello, una Spa di gestione del risparmio che investe anche in imprese del settore dell' energia. Tra Natale e l'Epifania del 2015, come risulta dai documenti depositati alla Camera di commercio, due suore missionarie del Sacro cuore di Gesù, Loredana Maria Manzoni e Annita Turnu, ricevono l' incarico di amministratrici dalla Fondazione. E da subito devono fare i conti con una perdita in bilancio da 30 milioni, provocata, spiega il revisore legale Antonio Maria Cipolloni, «da un progressivo peggioramento dei risultati economici dell' attività svolta, con una forte contrazione dei ricavi per le prestazioni e conseguenti ingenti perdite». Il problema più evidente, sottolinea l' esperto contabile, è legato al costo del lavoro. L' organico è di 850 unità su un totale di 242 posti letto, per un rapporto di 3,53 unità per posto letto, «ben oltre i limiti accettabili da qualsiasi conto economico», sentenzia Cipolloni. Troppi dipendenti (gli esuberi sarebbero 300) e poche entrate. Il conto gestito delle sorelle di Gesù è andato presto in default. Suor Loredana e suor Annita, ormai in difficoltà, a un certo punto avrebbero quindi interrotto il versamento dei sostituti d' imposta, fino ad accumulare un ritardo nei pagamenti per oltre 25 milioni di euro. Cifra alla quale va sommato anche il mancato versamento al 2016 dei contributi assistenziali e previdenziali per un milione di euro. Ma i nodi stanno venendo al pettine: le due suore manager, scaricate senza troppi problemi, sono finite nel mirino della Procura per l' evasione e della curatela per i conti e a questo si aggiunge che la convezione per il fitto di ramo d' azienda da parte della fondazione scade oggi. Motivo per cui 300 tra medici e paramedici rischiano di perdere il posto. A giugno una rappresentanza sindacale riuscì a incontrare il premier Giuseppe Conte e a lasciargli un plico che riassumeva la situazione. Una operazione inutile, visto che Giuseppi non si è fatto vivo. Stando a quanto racconta chi ha potuto parlare con i curatori del fallimento, la Fondazione avrebbe avanzato una proposta di salvataggio, al momento top secret, che a qualcuno sembra costruita per essere bocciata dal Tribunale, risolvendo il problema alla radice. In sostanza, la Fondazione avrebbe offerto di gestire la Columbus a condizioni invariate fino al 30 giugno 2020. Gli amministratori fallimentari, invece, vorrebbero che, come previsto dalla legge, la Fondazione si assumesse oltre agli onori, anche tutti gli oneri: ovvero, insieme ai rapporti giuridici attivi, anche quelli passivi. È facile intuire, però, che con quei numeri negativi la Fondazione si esporrebbe al rischio di compromettere l' equilibrio finanziario dell' intero ente. Che sembra aver clonato i problemi: sarebbe andata in crisi un' altra controllata dalla Fondazione policlinico Gemelli, la Mater Olbia hospital, dalla quale un gruppo di investitori arabi provenienti dal Qatar si sta sfilando, lasciando da solo Raimondi (che lì è amministratore delegato) a gestire perdite per circa 3 milioni di euro, stando al bilancio del 2018. E con l' azienda sarda per la tutela della salute che ha annunciato il taglio di contributi alla Mater Olbia da 25 milioni a massimo 5 milioni annui, i venti di crisi sono alle porte. Raimondi, insomma, ha due fronti aperti che fanno fibrillare la Fondazione. A Roma il pressing del manager fa leva sulla salvaguardia dei posti di lavoro e sulla continuità garantita di assistenza ai pazienti. Almeno per altri sei mesi. Sperando di spuntarla senza caricarsi debiti e passività, nonostante i curatori fallimentari storcano il naso. Oggi i ragionieri della Fondazione avanzeranno in extremis una proposta ritoccata, mentre i sindacati chiedono un tavolo urgente in Prefettura. In prima fila c' è il segretario provinciale dell' Ugl Sanità Valerio Franceschini, che spiega: «Da un lato c' è la sentenza fallimentare, con assegnazione ai creditori e a chi vanta diritti sui beni, dall' altro lato c' è la totale mancanza di garanzie sull' occupazione».

Dagospia il 24 ottobre 2019. Riceviamo da Gianluigi Nuzzi e pubblichiamo: Gentile direttore, le chiedo ospitalità per replicare alle parole del cardinale Oscar Maradiaga che su Repubblica di ieri affermava come fosse falso affermare che il vaticano sia a rischio default e che non abbia riscontro il fatto che dell’obolo di san Pietro ormai solo due euro su dieci finiscano realmente per la beneficenza diretta del santo padre. Insomma notizie che mirano a colpire il papa. Purtroppo i tremila documenti consultati per scrivere Giudizio Universale testimoniano questi fatti incontrovertibili:

- Default:  il bilancio consolidato è precipitato con perdite dai 12,5 milioni del 2015 ai 43,9 milioni del 2018 con un aumento del 300%, in pratica 120mila euro al giorno. Il 14 maggio 2018 il cardinale Marx incontra il santo padre prospettandogli tutti gli indicatori economici negativi, il papa gli risponde che “bisogna garantire la pensione a tutti i dipendenti”. L’indomani, martedì 15 maggio 2018 il Consiglio per l’Economia, organo di consultazione sulle questioni economiche e finanziarie per il santo padre, decide la creazione di un comitato che elabori “un piano di sviluppo economico per cinque,sette anni” come spiegò il consulente Zahra ai porporati, visto che ormai il “deficit è ricorrente e strutturale e rischia di condurre al default”, come si legge nei documenti. E di fronte alle solite lungaggini il 17 luglio 2018 Zahra sollecitò ancora a rendere operativo il gruppo ormai battezzato anche dal segretario di Stato.

- L’obolo di san Pietro è precipitato dai 101 milioni del 2006 agli 83 milioni del 2014 sino ai 51,6 di oggi come emerge dal verbale del consiglio per l’Economia del 12 febbraio 2019. Ha poi ragione Maradiaga che non siano più due euro su dieci a finire in beneficenza. Purtroppo sono meno, esattamente la metà, come affermò pubblicamente l’allora monsignor Angelo Becciu l’8 febbraio 2018. “Il 10-15% dell’Obolo va alle opere di carità, il resto serve per sostenere le strutture della Chiesa”. In relazione  a chi nega l’esistenza di conti correnti all’Apsa vorrei ricordare i conti del cardinale Lajolo, (come il n.203925 con titoli per 2,8 milioni) che venne chiuso su ordine di Bergoglio come quelli di altri quattro cardinali, o il conto intestato a “Enrico Capo sul quale si registrano numerosi prelievi in contanti per un ammontare di euro 956.506,62”, come evidenza la relazione Promontory consegnata al papa,  “con il ricorso a tecniche di frazionamento dall’entrata in vigore della normativa antiriciclaggio”. Mi permetta poi di sottolineare come né Giudizio Universale, né i miei libri mai siano stati pro o contro la Chiesa, pro o contro il papa: è la cronaca  e la ricostruzione che si basa in gran parte su documenti interni e visionati anche dal santo padre. Affermare che imprecisate entità vogliano colpire il papa è una risposta che va bene per tutte le stagioni ma non aiuta a capire e allontana dalle questioni preminenti: il calo delle offerte, l’aumento vertiginoso delle spese, una classe dirigente non messa nelle condizioni di operare, il rinvio costante delle questioni spinose. E anche la difficoltà di controlli, come per il dissesto dell’ospedale Idi che ha visto in vaticano dover sborsare 50 milioni di soldi di offerte o ottenuti da immobili ricevuti dai fedeli, pur di risanare i bilanci. Se si invertisse la pratica, se a posto della scarsa informazione ci fosse trasparenza, permettendo persino di “tracciare” ogni offerta, la gente avrebbe più desiderio di aiutare, amplificando così il messaggio quotidiano di Francesco. Gianluigi Nuzzi

Da liberoquotidiano.it il 24 ottobre 2019. "Non hai mai trovato una notizia in vita tua". Gianluigi Nuzzi gela così, durante un dibattito in diretta su Sky Tg24, il collega di Avvenire Mimmo Muolo, che proprio nelle scorse ore ha pubblicato sul suo quotidiano un'intervista esclusiva al presidente dell'Aministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), che smentisce le anticipazioni di stampa sul libro di Nuzzi Giudizio universale. Il libro parla dei soldi della Chiesa e delle faide interne. Dichiara Monsignor Nunzio Galantino: "Qui non c’è alcun crac o default. C’è solo l’esigenza di una spending review. Ed è quanto stiamo facendo. Glielo posso dimostrare con i numeri. Il tono scandalistico che leggo nelle prime anticipazioni va bene per il lancio di un libro, molto meno per descrivere una realtà articolata e complessa come la Chiesa. Laddove articolata e complessa non è assolutamente sinonimo di segreta o subdola".

Papa Francesco, Nuzzi e l'operazione "San Michael": la sicurezza di Bergoglio e del Vaticano fanno acqua. Filippo Manfredini su Libero Quotidiano il 18 Novembre 2019. Ma quant' è sicuro Papa Francesco? Com' è strutturato l' apparato che dovrebbe garantirne l' incolumità? E soprattutto, funziona a dovere oppure ci sono delle falle, tali da offrire a eventuali malintenzionati la possibilità di introdursi fin nel cuore del Vaticano e colpire il Pontefice, uno degli uomini più in vista del pianeta? Sono domande a cui Gianluigi Nuzzi cerca di rispondere nel suo nuovo libro, "Giudizio universale - La battaglia finale di Papa Francesco per salvare la Chiesa dal fallimento" (Chiarelettere, 368 pagg.). Un volume importante, ancora dedicato dal giornalista ai delicati affari interni che scuotono il Vaticano fin nel profondo. Opera il cui cuore è in realtà rappresentato dal delicato dossier finanziario. che rischia di portare la Santa Sede al fallimento. Nuzzi ricostruisce la situazione, pubblicando documenti riservati e anche il piano messo a punto sotto la supervisione dello stesso Francesco per portare finalmente in salvo la Chiesa. E, vista la delicatezza della questione, Nuzzi affronta per l' appunto anche il problema della sicurezza del Papa. Rivelando che, nel 2014, alcuni degli uomini di Bergoglio, in segreto, hanno dato vita a quella che sarà chiamata "operazione san Michael", in onore di san Michele Arcangelo, protettore della Gendarmeria. «Hanno commissionato - spiega Nuzzi - a degli esperti del ministero dell' Interno spagnolo la verifica sulla sicurezza di Francesco, Benedetto XVI e dei luoghi simbolo della cristianità, a iniziare da piazza San Pietro sino alla residenza estiva di Castel Gandolfo». Un lavoro mai compiuto prima, affidato a una squadra di analisti che per giorni, settimane, ha osservato il microcosmo vaticano in cerca di falle. «Tutto ciò all' insaputa dei responsabili della sicurezza, monsignori, cardinali e del papa». Ne è nato un dossier riservato, presentato in duplice copia, in inglese e spagnolo, reso pubblico nel libro di Nuzzi per la prima volta. Il dossier inizia illustrando organizzazione, composizione e compiti di due corpi di sicurezza del Vaticano, le Guardie Svizzere e la Gendarmeria. Il corpo delle Guardie Svizzere è formato da soldati stabili di nazionalità svizzera al servizio esclusivo del papa con il compito di provvedere alla sua difesa e protezione, così come alla sicurezza del palazzo apostolico e al controllo degli accessi all' interno del perimetro dello Stato vaticano. È fissato a 110 il numero dei membri che lo compongono, suddivisi in un comandante con il rango di colonnello, altri 5 ufficiali, 26 sottufficiali e 78 alabardieri. Per quanto riguarda il corpo della Gendarmeria Vaticana, è preposto a garantire la sicurezza e l' ordine pubblico, nonché a svolgere funzione di controllo dei confini, della sicurezza stradale e della legalità nel territorio vaticano. Si compone di circa 140 agenti su un totale di circa 200 funzionari, e al comando c' è un comandante avente il ruolo di direttore della sicurezza. È proprio la Gendarmeria che rilascia i documenti d' identità a coloro che sono legati in vario modo allo Stato vaticano: cittadini vaticani, funzionari o residenti. Chi possiede un documento d' identità può superare gli accessi e fare acquisti nei negozi situati nei pressi di Porta Sant' Anna: la farmacia, il supermercato, la profumeria e il distributore di benzina. E però, spiega il dossier, «i criteri di rilascio non sono chiari, in quanto non dipendono dal ruolo che si svolge all' interno dello Stato vaticano. Delle 50.000 unità che operano quotidianamente in seno alle strutture dello Stato, infatti, solo 41.000 sono in possesso di un documento d' identità vaticano». I controlli sono insufficienti: «I documenti d' identità sono provvisti di una banda magnetica, ma in nessuno degli accessi allo Stato sono stati rilevati dispositivi per la lettura di carte magnetiche. I controlli vengono effettuati a vista. Non viene raffrontata la foto presente sul documento con il volto del titolare. Viene invece verificata la validità del documento e gli eventuali rinnovi, anche se non in maniera regolare». Peraltro, prosegue il dossier, «per gli accessi in auto, pur in presenza di passeggeri, viene sottoposto a verifica del documento solo il conducente», e «si possono superare gli accessi esibendo una prescrizione medica, che consente l' ingresso ai negozi senza esibire un documento d' identità». L' accesso in auto all' interno dello Stato vaticano può effettuarsi attraverso tre varchi: Perugino, Petriano e Sant' Anna. Sono in effetti previsti controlli in corrispondenza dei suddetti varchi, e però «presso nessun varco sono presenti lettori di targhe o barriere fisiche per fermare i veicoli. Non sono stati osservati dissuasori fisici o sonori, elementi atti a rallentare il movimento delle vetture, o la presenza di una stazione di controllo fissa. Non sono stati osservati specchi per l' ispezione del fondo degli automezzi, né la presenza di unità cinofile per controlli specifici». Senza contare che «i veicoli che accedono in Vaticano non sono in possesso di un' autorizzazione», e anche «l' uscita dei veicoli avviene senza controlli; non viene verificato l' orario di uscita o l' eventuale permanenza all' interno». Il dossier fa poi notare che lo Stato Città del Vaticano ospita un supermercato, una farmacia con profumeria, due distributori di carburante, un piccolo centro commerciale nell' area dell' ex stazione ferroviaria che accoglie negozi di elettrodomestici, cosmetici, abbigliamento e accessori, alcuni dei quali di marchi prestigiosi, una tipografia, un ufficio postale e una filiale bancaria. «Tutte queste attività generano un notevole afflusso di persone, pur concentrato in una determinata area, ed elevano il livello di rischio in situazioni di emergenza». Un paragrafo è dedicato alla Domus Santa Marta, in sostanza l' albergo che si trova all' interno del Vaticano, vicino alla Basilica di San Pietro. Qui gli analisti che hanno compilato il dossier sono severi: «Dall' osservazione sono emerse molteplici criticità» scrivono. Ci sono due gendarmi presso la reception, «ma nessun sistema di videosorveglianza. Non è stata osservata alcuna apparecchiatura per la comunicazione via radio. Una guardia svizzera presidia in modo permanente il secondo piano. Quest' ultimo, che ospita l' appartamento pontificio, è accessibile tramite ascensore o scale, senza restrizioni fisiche o meccaniche. Non è noto se le finestre della residenza papale abbiano protezioni adeguate; le altre finestre della residenza ne sono prive. (...) È stata rilevata la presenza di diverse uscite di emergenza, che non sono tuttavia segnalate come tali, eccetto al pianoterra. Il piano di evacuazione dell' edificio non è noto». E fanno poi notare come «a 50 metri dalla residenza e ad appena alcuni dalle finestre dell' appartamento papale, sono presenti diverse pompe di benzina, che rappresentano un' ovvia fonte di pericolo». Come detto, le pratiche religiose espletate quotidianamente dal Pontefice, a orari e in luoghi pressoché fissi, danno la possibilità a chi volesse elaborare un piano per attentare alla sua incolumità di farlo in base a elementi piuttosto certi - e, come si è visto, l' apparato di sicurezza è tutt' altro che impenetrabile. Peraltro, «un altro aspetto da sottolineare è la regolare presenza di ospiti presso la residenza Santa Marta. Non è dato sapere se sono sottoposti ad alcun tipo di controllo o se sia sufficiente l' avallo degli alti funzionari della curia. Pur non esibendo nessun documento identificativo, condividono la quotidianità con sua santità, incontrandolo nel refettorio o in altri ambienti della residenza. Hanno assoluta libertà di circolare all' interno e in molte altre aree dello Stato vaticano». Infine, considerando che la quotidianità di Papa Francesco risponde a ritmi piuttosto ripetitivi, secondo gli analisti che hanno compilato il dossier «il suo servizio di scorta, pur poderoso, non sembra disporre di mezzi tecnici adeguati». La conclusione a cui arrivano gli esperti di sicurezza che hanno redatto il dossier è preoccupante: «Questo studio, basato sulla semplice osservazione da parte di esperti della sicurezza, ha messo in luce evidenti vulnerabilità nelle misure di protezione usate per la sicurezza di sua santità, il suo ambiente di lavoro, la residenza e la cerchia di persone che lo circondano quotidianamente». Filippo Manfredini

Il Vaticano verso la bancarotta: la profezia nel nuovo libro di Nuzzi. Speculazioni e operazioni finanziarie spregiudicate hanno portato il Vaticano sull'orlo del crac: lo rivela il nuovo libro-inchiesta del giornalista Gianluigi Nuzzi, basato su oltre 3mila documenti top secret. Alessandra Benignetti, Lunedì 21/10/2019, su Il Giornale. Il quadro che emerge dall’ultima inchiesta di Gianluigi Nuzzi è a dir poco cupo: la Chiesa di Papa Francesco sarebbe ormai sull’orlo del crac finanziario e la “linea rossa” potrebbe essere tracciata già nel 2023. A certificarlo è il contenuto di oltre 3mila documenti top secret raccolti dall’autore nel suo quinto libro sul Vaticano, Giudizio Universale. Un racconto che entra in presa diretta all’interno delle Mura Leonine e svela le preoccupazioni espresse dal Pontefice nelle riunioni con i suoi collaboratori più stretti negli ultimi due anni. “Il Vaticano è di fronte ad un deficit strutturale, per questo a maggio del 2018 il Santo Padre ha convocato un’unità di crisi e ha dato tempo cinque anni per risolvere questa situazione”, spiega Nuzzi ai microfoni del Giornale.it. Ma il trend negativo non è stato ancora invertito nonostante l'inizio del conto alla rovescia. A pesare sul bilancio 2018 dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), per la prima volta in rosso, sarebbero clientelismo, speculazioni, investimenti azzardati e gestione spregiudicata delle finanze. “Ci sono movimenti di denaro fino a 5 milioni di euro da parte di cardinali, affari immobiliari, case sfitte o cedute per pochi euro al mese agli amici degli amici”, spiega l’autore del libro-inchiesta che racconta lo scontro in atto tra Papa Francesco e la Curia sulla trasparenza nell’utilizzo dei fondi. “Il Santo Padre – continua - è intervenuto più volte per sollecitare i controlli perché c’è una ritrosia in questo senso”. A salire all’onore delle cronache nei giorni scorsi, grazie ad un’inchiesta de l’Espresso, è stato il caso delle acquisizioni milionarie di alcuni immobili di lusso a Londra. Un affare da 200 milioni di euro per cui i promotori di giustizia Gian Piero Milano e Alessandro Diddi hanno individuato "gravi indizi di peculato, truffa, abuso d'ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio”. Nel mirino ci sarebbe anche la gestione dell’Obolo di San Pietro. “Negli anni – chiarisce Nuzzi - le donazioni si sarebbero ridotte drasticamente proprio per via della perdita di fiducia da parte dei fedeli sull’impiego dei fondi”. Soldi che, sottolinea il giornalista, sempre più spesso vengono sottratti ai poveri. “Il rischio è quello di togliere risorse al pontificato stesso di Francesco”, osserva Nuzzi. Un esempio su tutti, secondo il giornalista, è quello degli appartamenti vuoti che "potrebbero essere messe a disposizione dei più bisognosi”.

“Con il numero di fedeli in calo nel mondo e con la crisi delle vocazioni sommata agli scandali finanziari e sessuali, ora il Vaticano davvero rischia di andare a sbattere dal punto di vista economico, se non si interviene subito a trasformare le opacità in casa di vetro”, ha detto il giornalista davanti alla folta platea riunita nello Spazio Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi a Roma per seguire la presentazione del volume. D’accordo con lui anche la direttrice dell’HuffingtonPost.it, Lucia Annunziata, tra i moderatori dell’evento assieme al corrispondente del The Times, Tom Kington. “Ci sono stati scandali morali, divisioni politiche, abusi, ma niente mi sembra così rilevante per la vita del Vaticano come scoprire che per corruzione interna i conti sono in rosso”, afferma la giornalista al Giornale.it.

Insomma, conclude Nuzzi, “la Chiesa per essere credibile deve essere povera” e gli “scandali non possono essere nascosti sotto al tappeto”. Ma il libro è destinato a far discutere. E se, da una parte, una copia del volume, come ci spiega il direttore editoriale di Chiarelettere, Lorenzo Fazio, “è stata già depositata nelle mani del promotore di giustizia vaticano per verificare eventuali rilievi penali dei fatti descritti”, dall’altra è arrivata puntuale la replica da Oltretevere. A smentire l’ipotesi di un crac imminente in un’intervista che verrà pubblicata domani su Avvenire, è proprio il presidente dell’Apsa, monsignor Nunzio Galantino. “In realtà la gestione ordinaria nel 2018 ha chiuso con un utile di oltre 22 milioni di euro”, afferma il presule, chiarendo come “il dato negativo contabile è esclusivamente dovuto a un intervento straordinario volto a salvare l'operatività di un ospedale cattolico e i posti di lavoro dei suoi dipendenti”. Insomma, taglia corto, l’amministrazione "non ha conti cifrati né segreti".

Ezio Mauro per “la Repubblica” il 21 ottobre 2019. E se l'inferno fosse il crac? La crisi finanziaria del Vaticano, crescendo e allargandosi a tutte le strutture della Santa Sede, è arrivata ad evocare il fantasma finale, quello del sacro default. Ne parlano ufficialmente, nei loro documenti riservati, i responsabili della task force che papa Francesco ha messo in campo per tentare una riforma radicale del sistema finanziario che sostiene la Chiesa, davanti all'allarme per i conti fuori controllo. Il crac è diventato un incubo concreto nei sacri palazzi, perché i numeri parlano chiaro: e senza i mezzi per sostenere l'opera di evangelizzazione e per soccorrere i poveri, il Verbo risuonerebbe nudo nel mondo, pagando il prezzo degli scandali e della resistenza che la macchina curiale continua ad opporre alla trasparenza predicata da Papa Bergoglio. La radiografia segreta di questa crisi verticale è ora in un libro di Gianluigi Nuzzi (Giudizio Universale, Chiarelettere), che continua la sua indagine sui misteri del Vaticano, sulla base di documenti riservati che da soli testimoniano la guerra di potere in corso oltretevere, documentata già nei quattro volumi precedenti. Nel 2016 Via Crucis di Nuzzi, insieme con Avarizia di Emiliano Fittipaldi finirono sotto processo davanti al Tribunale della Santa Sede, con l'accusa di essere il frutto di un'«associazione criminale» per la rivelazione di notizie legate a «interessi fondamentali» dello Stato pontificio. Due libri processati davanti alla croce, negli anni Duemila, prima del proscioglimento. Ora Fittipaldi ha appena pubblicato sull'Espresso un dossier sui gravi indizi di «peculato, truffa, abuso d'ufficio, riciclaggio» documentati dai pm del Papa a carico di ecclesiastici e laici; mentre Nuzzi racconta - con tremila carte riservate e inedite - come il Vaticano sia passo dopo passo arrivato sull'orlo del precipizio finanziario. L'ultimo atto è a fine maggio, quest'anno, quando Francesco riceve i dati di bilancio dell'Apsa, la banca centrale del Vaticano e scopre che «per la prima volta nella storia» l'esercizio 2018 è in rosso. La dinamica è impietosa: risultato operativo meno 27 per cento, risultato finanziario meno 67, risultato di gestione meno 56 per cento. Le cause? Una gestione clientelare e senza regole, che copre abusi, privilegi, contabilità fantasma, illeciti e un continuo, testardo sabotaggio dell'azione del Papa per cambiare radicalmente le cose. Quando il 15 maggio 2018 si riunisce nella sala Bologna il Consiglio per l'Economia che il Papa ha creato per affrontare l' emergenza finanziaria, sul tavolo è pronto per i 17 membri un dossier drammatico: crollo delle entrate, crescita incontrollata dei costi per il personale, svalorizzazione degli asset, buchi pericolosi nel fondo pensioni e nell' assistenza sanitaria. A verbale: il Consiglio per l' Economia decide di informare il Santo Padre perché «il deficit che affligge la Santa Sede ha raggiunto livelli preoccupanti, a rischio di condurre al default». La parola è pronunciata, come una santa bestemmia. A luglio il Consiglio denuncia che «mancano le informazioni fondamentali per determinare in modo esatto e corretto il deficit». La struttura vaticana resiste. Anzi, il cardinal Vallini, fedelissimo dell' ex segretario di Stato Bertone, alza il velo sui fondi «che il Santo Padre ha diritto a utilizzare a propria assoluta discrezione». La Curia si oppone all' operazione-trasparenza usando come scudo la provvista riservata del pontefice, che nessuno conosceva. La partita, come è chiaro, si gioca sul sigillo papale del segreto sulle stanze più riservate del palazzo apostolico. Quei fondi infatti sono gestiti dall' ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, una sorta di "terza banca", come viene chiamato in Vaticano. Il meccanismo di approvvigionamento del conto segreto di questo "ufficio" viene descritto nel libro da monsignor Francesco Salerno, che ha servito 5 Papi (anche come segretario della Prefettura degli affari economici), e che prima di morire ha parlato con Nuzzi: «I cardinali Nicora e Ruini avevano studiato il sistema perfetto. Per norma tutti i vescovi devono dare un contributo alla gestione finanziaria centrale della Chiesa. Il sistema prevedeva che dall' importo versato da ogni vescovo delle 226 diocesi italiane venisse trattenuta una percentuale. La provvista veniva passata alla Santa Sede utilizzando il nunzio apostolico, cioè il corridoio diplomatico». In più, secondo Salerno, «Jp Morgan riceveva soldi dalla segreteria di Stato e poi li portava fuori dai confini attraverso la sede di Milano». Anche una parte dell'Obolo di San Pietro viaggiava oltrefrontiera, racconta Salerno. «Queste operazioni le gestivo io, so come funzionano. L' Obolo viene generalmente calcolato in dollari, la porzione europea in euro, che da Milano andavano in Germania». La crisi finanziaria vaticana fa sì che il 58 per cento dell' Obolo non finisca in opere di carità, ma serva a ripianare i buchi della Curia, mentre il 20 per cento viene tenuto fermo nei depositi, col risultato che su 10 euro raccolti nelle offerte solo 2 vanno ai bisognosi. La platea teorica interessata all' Obolo è formata dal miliardo e 299 milioni di cattolici del mondo, distribuiti in 224 Paesi di cui solo la metà (147) fa donazioni. La contrazione è evidente, dopo la punta di 101 milioni del 2006: meno 21,7 nel 2007, meno 5 nel 2008, più 9 nel 2009, meno 17 nel 2010. Nel 2015 si scende a 70 milioni, 13 in meno dell' anno precedente. Al primo posto ci sono gli Usa, col 27 per cento, poi la Francia col 12, quindi l' Italia col 10, tutti in calo dal 5 al 21 per cento. I privati sono solo il terzo donatore, dopo le diocesi e le fondazioni. Gli scandali erodono la fiducia dei fedeli. La doppia crisi, finanziaria e di fiducia, spinge Francesco a voltare pagina, combattendo l' inefficienza con la riforma, l' avidità con la condanna. Nel giugno 2018 denuncia «gli intrighi di palazzo, anche nelle curie ecclesiastiche», e domanda: «A che serve guadagnare il mondo intero se si è corrotti all' interno?». Ma quando si aprono i registri dell' Apsa, l' amministrazione del patrimonio della sede apostolica, emerge nel 2013 una contabilità parallela, coi conti segreti di 5 cardinali, Lajolo (2.832.510 euro in titoli, 211.724 liquidi), Cordes, Baum, Cacciavillan e Martinez Somalo. Il Papa ordina l' immediata chiusura dei depositi, manda gli ispettori a controllare il portafoglio Apsa di un miliardo e 716 milioni di euro, con 10 conti aperti allo Ior in valute diverse, euro (30 milioni più 14,3 in titoli), dollari, sterline, dollari canadesi, franchi svizzeri (36.000). L'ispezione di Moneyval riferisce al Papa di aver trovato una ragnatela di clienti composta da cardinali, nobili, principi e pensionati un po' troppo facoltosi. Emergono tre fondi personali da 4 milioni (Riccardo Vaccari), 1.092.972 (Alessandro Marini), 395.900 (Enrico Capo). Poi altri fondi intestati a uomini di chiesa, "cardinale Agostino Casaroli", "Cardinale Antonetti"», "Cardinale Antonetti e sorella Giuseppina", "Madre Luigia Tincani", "Garnier Lestamy" e "Principe Rolando Brancaccio". Non è escluso, conclude l' ispezione, che siano nomi di copertura, per proteggere tesoretti di politici e imprenditori vicini ai sacri palazzi. Francesco chiede di chiudere i depositi sospetti, i conti dei porporati. Ma gli ispettori lo informano che il doppiofondo vaticano è praticamente ineliminabile: «È presente un conto corrente in quattro valute diverse con intestazione "F.D.", per il quale non ci è stata fornita alcuna documentazione, in quanto coperto da segreto di Stato». I controllori non riescono ad ottenere nessuna spiegazione anche per tre conti accesi alla Deutsche Bank Ag e per quello al Credit Suisse di Zurigo. Quando emerge una partita di lingotti d' oro di riserva per 34 milioni, si scopre che nessuno ha mai fatto il controllo per appurare che l' oro sia davvero oro, e per controllarne la purezza. Gli ispettori parlano di documenti distrutti, smarriti per negligenza, mettono per scritto che devono denunciare «la concreta possibilità di episodi di illecito e corruzione». Quando analizzano il gigantesco patrimonio immobiliare della Santa Sede, mezzo milione di metri quadrati del valore di 2,7 miliardi, emerge un quadro sconfortante. Il "tesoro" è composto da case per il 41 per cento, uffici per il 26, negozi per l' 8 per cento, con un totale di 4.421 asset, ma 800 proprietà sono sfitte, dei 3.200 beni in locazione il 15 per cento è a canone zero, metà ad affitto di favore. Il valore medio del canone è tra i 7,47 e gli 8,18 euro mensili per metro quadrato, con una riduzione rispetto al mercato che va dal 20 al 70 per cento. Nonostante questo, incredibilmente, le morosità arrivano a 2,7 milioni di euro. Ecco perché le entrate crollano. E le spese crescono fortemente, nonostante Francesco fin dall' inizio del pontificato abbia chiesto vigilanza, misura, controllo. Dai 16,4 milioni del 2015 si è passati ai 22,7 l' anno dopo, ai 26,6 nel '17, con una crescita del 62,19 per cento nel triennio, mentre le consulenze si sono gonfiate del 147 per cento, il costo del personale è aumentato del 15,56 e gli acquisti in 5 anni sono decollati, con un più 219 per cento. Così il budget 2019 mostra un aumento del deficit di 63,3 milioni, crescendo del 197,8 per cento. Eppure anche in questa emergenza la Santa Sede riesce a predisporre finanziamenti riservati per sostenere la Chiesa clandestina in Cina, come faceva coi cattolici dell' Est ai tempi della guerra fredda. Propaganda Fide, la congregazione per l' evangelizzazione, tra i suoi 19 conti correnti allo Ior e i 21 portafogli titoli ha un "Fondo Cina" di 7 milioni e 120 mila dollari, più due depositi "cinesi" in sterline e in euro. Un quarto conto ("Propaganda Fide-Cina") registra un ammontare di 72 mila dollari. Gli ispettori, analizzando depositi e investimenti, rilevano che gli enti vaticani «non applicano alcun filtro nelle loro scelte, né di sostenibilità né di tipo etico». Per il denaro, dunque, vale tutto. Finché un anno fa il revisore generale, figura di garanzia creata da Francesco, denuncia che non può compiere il suo lavoro come dovrebbe «per impedimenti all' autonomia e all' indipendenza» del suo ufficio. Cosa succede? La struttura curiale fa muro, non accetta i controlli, si rifiuta di collaborare, nonostante gli appelli del Papa. L' Apsa non ammette verifiche da settembre 2016 fino a giugno '17, 11 enti collaborano solo parzialmente, la segreteria di Stato resta fuori, il 47,6 per cento delle spese non è controllato con un full audit. I veleni vaticani si intrecciano alla crisi finanziaria e la complicano. Il "Giudizio Universale" riapre il caso Viganò, col Prefetto per la Comunicazione costretto a dimettersi dopo l' accusa di aver censurato Ratzinger, inviando ai giornalisti la fotografia di una parte soltanto della lettera che il Papa emerito gli aveva mandato per commentare gli 11 volumetti teologici di Francesco: in particolare era stata omessa la critica (poi rivelata dal sito "Settimo cielo" di Sandro Magister) alla pubblicazione di Benedetto, perché dava spazio al professor Hunermann che «capeggiò iniziative antipapali ». Ora Nuzzi rivela uno scambio inedito di sms tra Viganò e monsignor Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia, che segue il Papa emerito. È il 16 marzo 2018, quattro giorni dopo la presentazione dell' opera teologica, quando monsignor Georg scrive: «Caro Dario hai fatto purtroppo un pasticcio molto grande. Mi dispiace. GG». Risposta di Viganò: «Ma come? Ho letto il pezzo su cui avevamo preso accordi agli esercizi. Questo dimostra anzi come questa gente non voglia bene a Benedetto e lo usino come bandiera. Mi dispiace che tu pensi così. Abbiamo fatto bene i passi insieme e condiviso cosa fare. Perché mi dici questo? Comunque ora sono verso aeroporto ma domani torno e se credi ci sentiamo. D». Ancora Gänswein: «Ne parleremo. La "manipolazione" della foto della lettera ha creato guai. Questo non abbiamo concordato. Buon viaggio, a domani. GG». In una nota riservata alla segreteria di Stato, prima delle dimissioni, Viganò ripete «per amore di verità» di aver letto la lettera di Benedetto «nella modalità concordata » con monsignor Georg: «È evidente che se sua eccellenza fosse intervenuto per spiegare che non era stata compiuta nessuna mistificazione avrebbe chiuso il caso». C' è ancora il macigno dello Ior, la banca vaticana. Il 10 luglio 2013 Francesco riunisce il gruppo di lavoro e chiede di valutare se lo Ior «debba essere ridimensionato, riformato, riconfigurato e se è il caso di pensare a una struttura completamente nuova». Una lettera «su precise indicazioni del Santo Padre» chiede a 45 soggetti un rapporto sulle attività legate allo Ior, con particolare riguardo all' antiriciclaggio, garantendo il sigillo del segreto pontificio. Ma oltre il 20 per cento dei dirigenti non risponde nemmeno, mentre i conti precipitano: nel 2018 lo Ior ha dimezzato il suo sostegno alla Santa Sede (da 50 milioni a 27), l' Obolo è sceso da 55 a 51 milioni, il Governatorato deve triplicare i suoi contributi, passando dai 12,4 milioni del 2017 ai 30 del '18. Il baratro si avvicina. Forse l' inferno è già comparso, prima del crac. Solitario, Francesco continua la sua denuncia. E dopo questo quadro, si capisce la sua indignazione: «Il nocciolo della corruzione è un' idolatria, è aver venduto l' anima al dio denaro. Un vescovo avido di guadagni disonesti è una calamità per la Chiesa. Perché il diavolo entra dalle tasche».

Mimmo Muolo per avvenire.it il 22 ottobre 2019. Ci risiamo. Ormai sembra essere diventato uno sport abbastanza praticato il tiro al bersaglio sui soldi della Chiesa, e del Vaticano in particolare. Che il bersaglio venga centrato o meno, cioè – fuor di metafora – che le informazioni diffuse con libri di grande tiratura e altrettanti lanci pubblicitari conditi persino da articoli di grandi firme, siano vere o false (o tutt’e due, in un inestricabile mix) poco importa. L’essenziale è far passare nell’opinione pubblica l’idea di un Vaticano in preda a faide interne, in cui magari un gruppo di cattivi curiali si contrappone all’opera risanatrice di papa Francesco. E che proprio per queste faide lo stesso Vaticano sarebbe sull’orlo del default. La tesi, ripetuta fino all’esasperazione come in una sorta di telenovela (l’ultima puntata è il volume ancora fresco di inchiostro di Gianluigi Nuzzi) non coglie di sorpresa monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, una delle realtà della Santa Sede più pesantemente tirate in ballo dalla pubblicazione. Il vescovo allarga le braccia con un gesto a metà tra lo sconsolato e il rassegnato. Come a significare: tutto questo è un déjà vu. «Che cosa vuole che le dica? – attacca –. Qui non c’è alcun crac o default. C’è solo l’esigenza di una spending review. Ed è quanto stiamo facendo. Glielo posso dimostrare con i numeri. Il tono scandalistico che leggo nelle prime anticipazioni va bene per il lancio di un libro, molto meno per descrivere una realtà articolata e complessa come la Chiesa. Laddove articolata e complessa non è assolutamente sinonimo di segreta o subdola».

Eccellenza, l’Apsa viene descritta come un ente con i conti in rosso, frutto di una gestione clientelare e senza regole, con contabilità fantasma e illeciti. Insomma non esattamente ciò che si direbbe un esempio evangelico. Come risponde?

«Rispondo che non è vero. Mi permetta di fare una doverosa premessa, anche di carattere storico. Parlavo prima di una realtà articolata e complessa, come articolate e complesse sono tutte le situazioni chiamate a misurarsi con una mission come quella della Chiesa: l’annuncio e la testimonianza del Vangelo che ha per protagonisti uomini e donne che per la loro azione si servono di mezzi e strumenti umani. Tali sono gli strumenti che l’Apsa amministra. Lo fa con lo scopo di reperire quanto è necessario attraverso una retta e corretta amministrazione del patrimonio che le è stato affidato».

Da dove deriva questo patrimonio?

«È un patrimonio messo nelle mani della Chiesa dai tanti fedeli che hanno creduto e continuano a credere nella sua missione. A questo si è aggiunta nel 1929 la somma versata dall’Italia alla Santa Sede a chiusura della nota "questione romana", con la Convenzione finanziaria allegata ai Patti Lateranensi. Negli anni successivi poi Pio XI – per assicurare libertà di azione alla Chiesa, affinché non si trovasse di nuovo nella morsa di uno Stato che con le leggi del periodo risorgimentale aveva sostanzialmente incamerato una quantità enorme di beni ecclesiastici –, ha investito i soldi ricevuti in beni immobili e mobili. E, secondo il ben noto principio economico della diversificazione degli investimenti, ha operato non solo in Italia ma anche all’estero. La motivazione di fondo non è dunque quella della speculazione, ma è un modo per assicurare alla Chiesa la libertà nell’esercizio della sua missione e anche la prosecuzione di tutto questo nel tempo».

Bene, ma qual è la situazione attuale?

«La situazione attuale della amministrazione della Santa Sede non ha niente di differente rispetto a quanto capita in una qualsiasi famiglia o anche negli Stati dei diversi continenti. A un certo punto si guarda a quello che si spende, si vede quello che entra e si cerca di riequilibrare le spese. Con un termine oggi molto in voga si chiama spending review. E dunque l’attuale bilancio dell’amministrazione della Santa Sede – in rosso o in verde che sia – non è frutto di ruberie, furbizie e gestione malaccorta. È la presa d’atto che molte cose sono cambiate. Teniamo presente che il Vaticano non ha un regime fiscale frutto di imposizione di tasse o imposte, non ha un debito pubblico. Il suo Pil, se così vogliamo chiamarlo, si basa unicamente su quello che riesce a ricavare dal patrimonio che ha (compresi i Musei Vaticani) e dalle offerte dei fedeli e delle diocesi di tutto il mondo. Gli strumenti di controllo messi in atto da Benedetto XVI e potenziati da papa Francesco stanno permettendo di mettere ordine nella gestione di questo patrimonio per equilibrare le uscite e le entrate e dove è necessario operare correzioni di prassi nel rispetto delle competenze degli organi amministrativi della Santa Sede».

Lei accennava prima al bilancio dell’Apsa. Ci può dare qualche cifra?

«Il risultato negativo del bilancio non è, come è stato scritto, la conseguenza di «una gestione clientelare e senza regole, di contabilità fantasma e del testardo sabotaggio dell’azione del Papa». In realtà la gestione ordinaria dell’Apsa nel 2018 ha chiuso con un utile di oltre 22 milioni di euro. Il dato negativo contabile è esclusivamente dovuto a un intervento straordinario volto a salvare l’operatività di un ospedale cattolico e i posti di lavoro dei suoi dipendenti».

Quindi tutto chiaro? In Apsa non esistono conti cifrati o contabilità parallele?

«Glielo confermo e ribadisco. L’Apsa non ha conti segreti o cifrati. Si provi il contrario. In Apsa non ci sono neppure conti di persone fisiche e di altre persone giuridiche, se non i dicasteri della Santa Sede, gli enti collegati e il Governatorato. Uno Stato che non ha tasse o debito pubblico ha solo due modi per vivere: mettere a reddito le proprie risorse e basarsi sui contributi dei fedeli, anche quelli all’Obolo di San Pietro. Qui si vuole che la Chiesa non abbia niente e poi comunque provveda a dare la giusta paga ai suoi lavoratori e a rispondere a tante necessità, prima di tutto quelle dei poveri. È evidente che non può essere così. C’è la necessità di una spending review, per contenere i costi del personale e gli acquisti di materiali, e su questo si sta lavorando con grande cura e attenzione. Quindi nessun allarmismo sull’ipotetico default. Piuttosto parliamo di una realtà che si rende conto che bisogna contenere le spese. Come avviene in una buona famiglia o in uno Stato serio».

Ci può fornire i dati relativi agli immobili dell’Apsa, su cui molto si favoleggia?

«Si tratta di 2.400 appartamenti per lo più a Roma e a Castel Gandolfo. E di 600 tra negozi e uffici. Quelli non a reddito sono o gli appartamenti di servizio o gli uffici della Curia. Quanto al loro valore di mercato, è impossibile fare una stima. Prendiamo i palazzi di piazza Pio XII: quanto valgono in concreto? Se ci fai un albergo extralusso è un discorso, se ci metti gli uffici della Curia romana, come ora, non valgono niente. Inoltre circa il 60% degli appartamenti è affittato ai dipendenti che hanno necessità, ai quali viene riconosciuto un canone di affitto ridotto. Questa è una forma di housing sociale: se lo fanno le grandi aziende private, sono realtà benemerite che si prendono cura del personale; se lo fa il Vaticano, siamo degli incompetenti o peggio, che non sappiamo amministrare il patrimonio».

Molto spesso in questo tipo di pubblicazioni si tende a contrapporre la Curia (resistente) al Papa che vuole fare le riforme e viene osteggiato dai suoi stessi collaboratori. Qual è il suo parere al proposito?

«Contrapporre il Papa alla Curia è un cliché giornalistico usurato. Stiamo tutti continuando a lavorare per equilibrare entrate e uscite e dunque cerchiamo di fare proprio e soltanto quello che il Papa vuole. Altre letture sanno molto di Codice da Vinci, cioè di un approccio assolutamente romanzato alla realtà. Quando si parla di conti vaticani, di solito a prevalere è la confusione, frutto molto spesso di approssimativa conoscenza delle regole che sono alla base dei bilanci e degli enti d’Oltretevere e dei loro reciproci rapporti. È quanto emerge anche dalle prime anticipazioni del libro di Nuzzi, dove si affastellano considerazioni relative all’Apsa, allo Ior e ai bilanci in rosso del Vaticano senza tener conto delle differenze – di funzione e di amministrazione – dei vari segmenti di una realtà «articolata e complessa», come ricorda monsignor Galantino. Il bilancio del cosiddetto Vaticano si compone infatti di due distinti conti economici: quello consolidato della Santa Sede che raggruppa i bilanci delle singole realtà che lo costituiscono (i dicasteri della Curia Romana, le istituzioni collegate e le nunziature, in tutto una sessantina di enti della Santa Sede) e quello dello Stato della Città del Vaticano, o meglio del Governatorato che ne è l’organo esecutivo. Secondo i dati 2015 (gli ultimi pubblicati) il bilancio consolidato ha fatto segnare un disavanzo di 12,4 milioni di euro, mentre il Governatorato registrava un surplus di 59,9 milioni».

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 20 settembre 2019. Trovare un rimedio per bloccare l'emorragia e coinvolgere tempestivamente tutti i cardinali e vescovi a capo dei dicasteri vaticani. Sono ancora una volta le finanze d'oltretevere a turbare la quiete della residenza Santa Marta, il quartier generale di Papa Francesco. Il Pontefice, che già dalla sua elezione nel 2013 tenta di riformare l' area economica del Vaticano, deve adesso affrontare una nuova grana: il risanamento delle casse della Santa Sede che nel 2018 hanno registrato un disavanzo di circa 70 milioni di euro su un budget di 300 milioni. Da un lato le donazioni sempre più in picchiata, dall' altro i contributi degli enti economici interni (come lo Ior) sempre meno incisivi: per questo Francesco, che non ha ancora nominato un Prefetto della Segreteria per l' Economia (dopo che nel 2017 il cardinale Pell ha dovuto lasciare Roma per le accuse di pedofilia in Australia), ha incaricato il cardinale tedesco Reinhard Marx, membro del C6 e coordinatore del consiglio per l' economia della Santa Sede di trovare una soluzione. Per questa mattina il porporato ha convocato una riunione d'emergenza durante la quale si cercheranno di individuare tutti i possibili tagli da poter effettuare. Da quanto emerge in ambienti vaticani, non sarà di certo una riunione semplice: molti cardinali sono intenzionati a riferire a Marx il proprio malcontento per alcuni provvedimenti che non hanno contribuito al risanamento dei bilanci. «Uno dei problemi principali sono gli stipendi di alcuni laici che guadagnano fuori tabella anche 15mila euro al mese - tuona uno dei capi dicastero che parteciperà alla riunione - Ci sarebbero state tante voci su cui poter lavorare e tagliare ma l' arrivo dei consulenti da società esterne, poi entrati come dipendenti a carico della Santa Sede, ha complicato le cose: guadagnano più di noi cardinali e spesso non hanno nemmeno buone competenze». In effetti una delle principali voci di spesa del Vaticano è quella legata agli stipendi dei dipendenti, circa 5mila tra Santa Sede e Governatorato, anche se in genere si tratta di compensi modesti a fronte di spese molto elevate per alcuni specialisti che lavorano soprattutto negli enti economici del Vaticano. Per questo motivo, ad esempio, nei mesi scorsi il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, pur di risparmiare poche centinaia di euro al mese ha tagliato addirittura gli straordinari domenicali di due ascensoristi del Palazzo Apostolico. Non è un caso che Papa Francesco, lo scorso 1° settembre, sia rimasto bloccato per 25 minuti in ascensore: i due addetti non erano presenti in Vaticano e i vigili del fuoco hanno dovuto chiamare d'urgenza un tecnico che avevano incrociato quella stessa mattina per caso, chiedendogli una mano per riportare l' ascensore in asse con una delle logge del palazzo e permettere al Papa e ad alcuni suoi collaboratori di uscire dalla cabina bloccata. Sempre il Governatorato ha voluto dare una sforbiciata anche in campo sanitario: molti dei dipendenti dello stato vaticano hanno protestato per il taglio, al Fondo Assistenza Sanitaria, dei vaccini obbligatori per i bambini, costringendo i genitori a rivolgersi al servizio sanitario nazionale italiano. Qualche cardinale ha criticato invece la decisione di vietare la vendita delle sigarette allo spaccio vaticano: «Quella era un' entrata sicura che è venuta a mancare, peccato che però si continuino a vendere i sigari, solo perché interessano a qualcuno in alto» mugugna un altro porporato che si riunirà oggi con Marx.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost il 23 settembre 2019. Doveva essere il fiore all’occhiello del Pontificato, la prima delle mission d’ingaggio nelle richieste dei cardinali elettori. E invece, l’economia di Francesco non gira per niente. Non girano i conti (deficit raddoppiato nel 2018 a settanta milioni, non basterebbe vendere l’asso argentino Dybala per andare a pari). E non gira la governance. Posti chiave, come quello di Prefetto dell’Economia, dopo quasi due anni di “congedo” del cardinale Pell (condannato in primo grado e in appello in Australia per abusi sessuali su minori) , è scoperto a tutti gli effetti da febbraio 2019 senza che ancora sia stato nominato un successore. Mentre le cariche di Presidente dell’Aif ( che controlla l’antiriciclaggio) e di Presidente dello IOR , la cosiddetta banca vaticana sono scadute da mesi, senza che siano state prorogate o rinnovate. O almeno senza che lo si sappia. Perché questo è un altro aspetto inaspettato delle vicende delle finanze vaticane, nell’era di Francesco: dopo l’impegno proclamato allo spasimo per la trasparenza nei primi due anni di papato, adesso non si sa più nulla. Caso emblematico quello di oggi. L’incontro non programma fra il Consiglio per l’Economia e i rappresentanti dei dicasteri e degli enti vaticani ( presenti i capi dei dicasteri della Curia romana, delle istituzioni collegate con la Santa sede e dello Stato della Città del Vaticano) è stato confermato dal Portavoce della Sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ma senza nessuna informazione sui contenuti del vertice. All’ordine del giorno c’erano le comunicazioni del coordinatore del Consiglio per l’Economia, il cardinale tedesco Reinhard Marx sulla necessita’ urgente di un piano di tagli di spese per far fronte al crescente deficit nei bilanci vaticani. Ma - in base ai racconti di chi era presente - non si è andati al di là di un appello rivolto a tutti a contenere i costi. Senza, si dice, piani specifici. Nonostante il Papa abbia scritto lo scorso maggio proprio al cardinale Marx per sollecitare interventi drastici, come ha riferito il Wall Street Journal. E proprio il fatto che attualmente sia Marx il responsabile ultimo delle finanze dimostra un po’ la paradossalità della situazione. Visto che lo stesso cardinale è il presidente della Conferenza episcopale tedesca che all’inizio del mese è stata “ufficialmente” ripresa da Vaticano (con tanto di lettera) per aver organizzato in Patria un Sinodo dal vago sentore scismatico (relativo al sacerdozio alle donne eccetera). “Il cardinale Marx è tutto preso dalla Germania, viene in Vaticano, una volta ogni tre mesi, certamente non si può concentrare sui nostri problemi” si sente dire in Vaticano. Il fatto che non si pubblichino i bilanci è un chiaro indizio di una situazione grave, anche se i numeri sono complessivamente modesti se paragonati ad altri stati. Aumentano le spese e gli introiti in molti casi sono diminuiti. Lo IOR , ripulito , ormai rende molto poco, perché non è riuscito a sviluppare un modello etico di business e quindi contribuisce pochissimo al bilancio ( 15 milioni contro gli 82 milioni del 2012). Solo di recente si è appreso di gravi perdite accumulate all’estero dopo enormi operazioni immobiliari sbagliate a Londra , effettuate dall’APSA per 100 milioni al massimo della bolla speculativa, e da cui il Vaticano non si è’ ritirato per non pagare ( sembra con il consenso scritto di Francesco) alcuni milioni di penali. Quell’investimento, l’affare Grolux, oggi si può dare per dimezzato, anche a motivo dell’ incertezza della Brexit. C’è poi la questione irrisolta dell’opacità di due conti dell’Apsa presso banche private svizzere per ben 7 miliardi di euro con numeri bancari internazionali irregolari, il che li rende difficili da tracciare. L’esistenza di questi due conti offshore a Lugano sono stati rivelati dal National Catholic Register lo scorso luglio.

·        Il Vaticano e la Finanza.

Pio IX restò escluso dall’euro dell’800. Ma Porta Pia evitò la bancarotta. Pubblicato domenica, 25 agosto 2019 da Francesco Margiotta Broglio su Corriere.it. Nel 1867, tre anni prima della «presa» di Roma (20 settembre 1870), vennero stampati, a cura del vescovo di Mondovì Ghilardi (ovviamente con il beneplacito del sopravvissuto governo pontificio), due volumi che raccoglievano gli Atti collettivi dei vescovi italiani, preceduti da quelli di Pio IX, contro «le leggi e i fatti della Rivoluzione risorgimentale». Contemporaneamente la Segreteria di Stato, guidata fin dal 1848 dal cardinale Giacomo Antonelli, continuava l’azione diplomatica per fare accogliere, tra i membri della «Unione monetaria latina», lo Stato pontificio, che era stato già amputato di gran parte del suo territorio, con un debito pubblico che sfiorava i venti milioni e con la sua moneta che cominciava a perdere vistosamente valore. Le due facce di una moneta da una lira vaticana, coniata nel 1866Anche per questo Pio IX si era proposto, fin dal 1866, di aderire all’Unione monetaria latina, antenata dell’Eurozona, creata da Belgio, Francia, Italia e Svizzera (nel 1869 verrà ammessa la Grecia) e a tale scopo aveva sostituito gli scudi e i baiocchi, cari al Belli, con la «lira vaticana» che prese il nome della moneta del nemico sardo-piemontese, diventata «lira italiana» fin dal 1861. L’Unione monetaria latina, precedente storico non frequentemente evocato di quella del 1999, era stata creata il 23 dicembre 1865. Alla Convenzione da cui era sorta — che rimarrà formalmente in vita fino al 1926 — poteva accedere qualsiasi altro Stato d’Europa che ne accettasse gli obblighi in materia di peso, titolo, diametro e corso delle monete d’oro e d’argento. Il cardinale Giacomo Antonelli (1806-1876), che Pio IX aveva nominato segretario di Stato nel 1848, cercò di fare entrare lo Stato pontificio nell’Unione monetaria latina per porre rimedio al suo pesante dissesto finanziario Se già agli inizi del dicembre 1865 Antonelli esponeva all’ambasciatore belga le preoccupazioni vivissime del papato per la crisi monetaria dei suoi Stati, nel 1866 non esiterà a candidare lo Stato pontificio all’adesione all’Unione monetaria latina. Adesione che avrebbe consentito di far circolare all’estero la moneta meno pregiata, conservando quelle d’oro e d’argento fino. Due anni dopo, Antonelli assicurava alla Francia — timorosa che i denari del Papa fossero nel «grado e nel valore» inferiori alla valuta francese — che «si stava procedendo in tempi brevi a perfezionare l’adesione». Nel febbraio del 1870, però, la stampa francese commentava così la circolazione della moneta papale inferiore nel titolo a quelle dell’Unione latina: la Santa Sede continua a pagare i suoi debiti all’estero con tale moneta, tollerata dagli Stati dell’Unione, «il procedimento è comodo, senza dubbio, che sia onesto è superfluo dirlo». E aggiungeva «Bisognerà forse arrivare davvero a considerare Sua Santità alla stregua di un usuraio che dà alla sua mercanzia un valore di fantasia superiore al valore reale? Sarebbe triste», chiedendosi «Chi sopporterà tali perdite?». Nel 1866, peraltro, con l’editto del 18 giugno, Pio IX aveva riformato il sistema monetario romano adottando quello francese del 1803 e istituendo la «lira pontificia», simile nel nome e nel valore a quella degli odiati italiani risorgimentali, scomunicati fin dal 25 marzo 1860, i quali avevano unificato la moneta nel 1862, poi la estesero al Veneto nel 1866 e al Lazio nel 1870. Nel 1893, dopo anni di disordine (si raccontava che un «pizzicarolo» romano stampasse banconote di piccolissimo taglio che circolavano nel quartiere!), venne creata la Banca centrale nazionale, la Banca d’Italia, mentre alcuni buontemponi coniarono monete con Pio IX con la barba e i baffi di re Vittorio Emanuele II o con la pipa e un berretto da popolano. In quello stesso 1866 l’incaricato d’affari austriaco, Ottenfels, informava il governo della grave crisi della Banca centrale di Pio IX e parlava di «capitale senza territorio», nella quale, a causa della «fortissima riduzione di popolazione subita in seguito agli avvenimenti del 1859-60», in proporzione ai sudditi, la «quantità di moneta circolante era notevolmente superiore a quella degli altri Stati», mentre la bilancia commerciale era «in grave deficit, creando un ostacolo insuperabile per l’ingresso della Santa Sede nell’Unione monetaria». In sostanza, a fronte dell’emissione di quattro o cinque milioni di lire, corrispondenti ai sei franchi per abitante previsti dalla Convenzione latina del 1865, al 1869 circolavano più di 26 milioni di lire vaticane. Una situazione che l’Antonelli aveva definito, in un promemoria per l’ambasciatore di Francia del 12 dicembre 1868, «eccezionale sotto qualunque riguardo» e che già nel novembre 1860 aveva registrato fallimenti e il protesto di oltre seicento cambiali. Quando, ai primi del 1870, la Francia iniziò a chiudere le porte ai soldi del Papa, si pensò ad un crollo finanziario totale dello Stato pontificio, per cui l’arrivo dei bersaglieri il 20 settembre avrebbe finito per essere una «liberazione» per il governo di Pio IX. In proposito si è addirittura scritto che «paradossalmente la presa di Roma» potè sembrare come l’ultimo espediente del segretario di Stato «per uscire da una situazione ormai incancrenita e riorganizzare, a partire dall’Obolo di San Pietro» (che Papa Francesco definisce un «incontro che moltiplica la capacità di amare»), una condizione economica «più stabile e sicura» per la Santa Sede. E non a caso alcuni autori hanno accusato Antonelli di essere il vero responsabile della caduta di Roma o, quanto meno, di «passività, di inazione». Una sconfitta che verrà definita «vantaggiosa» per il papato. Comunque, qualche tempo prima la Santa Sede aveva stabilito rapporti con varie banche, in Italia e all’estero, per collocarvi i capitali dell’Obolo, incrementati dal Concilio Vaticano I e dal mito del «Papa prigioniero». Proprio nel 1870 le offerte per «San Pietro» dei cattolici d’Europa avevano toccato il livello minimo (lire 307.632,96) del decennio precedente, mentre l’anno dopo, quello della legge delle Guarentigie, il governo italiano pagherà il «debito pubblico corrispondente alle provincie occupate (…), versando anche gli arretrati dal 1860». Ai primi del 1867, comunque, Antonelli aveva dato inizio alle trattative per fare aderire lo Stato di Pio IX alla Unione monetaria latina, che «si protrassero per due anni esatti» e che, nel settembre successivo — secondo quanto comunicava a Parigi il nunzio Chigi — erano sembrate avviarsi a conclusione («il Santo Padre stava per mettersi perfettamente in regola con i termini della Convenzione del 1865»), tanto che il governo francese non esitò a redigere un formale «Progetto di dichiarazione per l’accessione degli Stati romani alla Convenzione monetaria del 23 dicembre 1865», con l’avallo degli scomunicati italiani. Meno di tre anni dopo, però, la Banca di Francia, nel timore di essere inondata di denari di titolo inferiore ai pezzi d’oro e d’argento (le «monete divisionarie» che affluivano soprattutto a Marsiglia per l’acquisto di derrate alimentari ), «decise di non accettare più oltre in pagamento la moneta pontificia fino a che… non fosse divenuta effettiva e formale» l’adesione di Pio IX alla citata Convenzione. A questo punto (settembre 1867) gli altri Stati membri dell’Unione monetaria, l’Italia in particolare, cominciarono ad irrigidirsi, mentre Antonelli, nel dicembre 1868, ammetteva la crisi bancaria dello Stato del Papa, cercando di darne la colpa agli italiani, responsabili di averne invaso la «migliori provincie», amputando il Patrimonio di San Pietro, e di avere imposto il corso forzoso, costringendo il residuo territorio pontificio «a sostenere una permanente passività finanziaria e commerciale». Nel gennaio 1870 inizierà ad aumentare il numero delle banche che rifiutavano la moneta pontificia e il disagio della popolazione comincerà «a farsi grave». In una nota della Segreteria di Stato del luglio 1870 sulle finanze pontificie si metteva in evidenza, in proposito, che la rivoluzione risorgimentale «non contenta… di avere spogliato la Santa Sede delle più industri ed ubertose province, vuole al danno aggiunto lo scherno e non ha rossore di ascrivere a colpa del governo pontificio quelle medesime sciagure che sono la conseguenza della triste opera sua. Gli è così da vario tempo quando dall’uno, quando dall’altro di quei giornali, ch’essa tiene in Europa a’ suoi cenni, si fanno lacrimevoli descrizioni delle finanze pontificie e se ne trae argomento per porre in discredito il governo della Santa Sede». Solo qualche mese dopo, il 20 settembre, la breccia di Porta Pia chiuderà definitivamente la strada all’ingresso dell’ormai debellato Stato papale nell’Unione monetaria. Ma, poiché, com’è noto, la moneta non ha odore (e tanto meno di incenso), all’indomani dell’occupazione di Roma, la Sede apostolica non esitò a trattare questioni finanziarie con gli usurpatori, condannati e scomunicati. Si trattava di arrivare alla stipulazione di una Convenzione tra la Banca nazionale del Regno d’Italia e la Banca dello Stato pontificio per definire la rinuncia da parte di quest’ultima (che prenderà il nome di Banca Romana) al monopolio dell’emissione di monete nei territori ex pontifici in cambio di un sostanzioso indennizzo. Ovviamente la Convenzione — che verrà firmata a Roma il 24 ottobre 1870 da Filippo Antonelli, governatore della Banca pontificia e fratello del Segretario di Stato, Giacomo, e dal direttore generale della Banca Nazionale del Regno d’Italia, Bombrini — non fu resa pubblica. Meno di un mese dopo, il 1° novembre 1870, Pio IX, con l’enciclica Respicientes, dichiarerà «ingiusta, violenta, nulla e invalida» l’occupazione di Roma e denuncerà la condizione di cattività del Pontefice. Il 1° dicembre successivo Vittorio Emanuele II visiterà la capitale, dove il suo governo si trasferirà nel luglio 1871. Due mesi prima, la legge n. 213 del 13 maggio, detta «delle Guarentigie» aveva assegnato al papato una rendita annua di lire 3.225.000, perpetua ed inalienabile, che fu respinta da Pio IX e sarà all’origine della Convenzione finanziaria del 1929, allegata ai Patti lateranensi di Mussolini. Ma bisognerà aspettare la fine dell’anno 2000 per vedere il Vaticano entrare a far parte del club monetario dell’Unione Europea e adottare come moneta dello Stato del Papa l’euro. Qualche anno dopo Benedetto XVI continuerà a definire l’Obolo di San Pietro «l’espressione più tipica della partecipazione di tutti i fedeli alle iniziative di bene nei confronti della Chiesa universale». Ma va ricordato che, in un opuscolo del 1900, Paul Lafargue, genero di Karl Marx, descrivendo l’arrivo di Pio IX in paradiso, faceva lamentare San Pietro perché la moneta vaticana da due franchi, datagli come mancia, era falsa e perché il papa «infallibile» si era intascato l’Obolo a lui intitolato, senza dare al «titolare» neppure una monetina. L’apostolo esclamava: «Ladro!».

·        Il Vaticano ed i poveri.

Bergoglio e i poveri. Alessandro Bertirotti il 28 novembre 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… sacralità. La notizia, come spesso accade con questo Papa, è la solita, anche se declinata secondo le necessità del momento. Bene, personalmente, nonostante abbia apertamente dichiarato che nutro qualche dubbio sulle esternazioni magistrali ecclesiastiche di questo Papa, non credo che in questo caso, il pranzo dei poveri, si tratti di una abdicazione alla tradizione evangelica cattolica. Penso, invece, che si tratti di una questione di indubbio valore sociale e culturale, visto che i poveri presenti sul territorio nazionale sono oramai appartenenti a diverse culture, senza escludere quella italiana. In effetti, non dobbiamo dimenticare che anche fra gli italiani indigeni ed autoctoni sono in aumento i poveri, e non vedo un ottimo futuro di ripresa con la presenza di questi politici inutili, irresponsabili e poltronari. Dunque, permettere ad un più ampio numero di persone di partecipare ad un pranzo, avendo anche l’occasione di farlo in un contesto decisamente accogliente, e con un menù altrettanto invitante, mi sembra sia un ragionamento frutto di buon senso. Mi direte che proprio di buon senso siamo sostanzialmente sprovvisti in questo periodo storico mondiale, ed è vero. Se così non fosse non assisteremmo ad atteggiamenti mentali e comportamentali che continuano a mettere a rischio la nostra esistenza futura come specie. Dal punto di vista antropologico, la possibilità di condividere un pasto assieme ad altre persone è un fatto importante, significativo ed evolutivo. Il pranzo, come qualsiasi momento in cui si condivide del cibo, è il momento in cui ci si nutre vicendevolmente, ascoltando a tavola le storie di vita di ognuno, scambiandosi così anche il significato che si possiede della propria esistenza. È un momento importante, di vera e propria aggregazione sociale e culturale, grazie al quale anche le differenze interculturali possono rivelarsi liminali, rispetto alle comunanze umane che si possono scoprire. Dunque, in nome di queste considerazioni, credo che il Papa, almeno questa volta, abbia effettivamente voluto comunicare questi concetti, attraverso l’importante pratica della condivisione del cibo. Penso anche che questo insegnamento non sia cattolico, ma cristiano, nella sua valenza globale ed evolutiva, ossia espressione di un destino comune a tutti gli esseri umani: la necessità di sopravvivere tutti, nonostante il male, dunque il denaro, sia favorevole ai potenti. Ma anche i potenti hanno i loro menù, le loro pratiche e comportamenti, con i quali confermano a tutti la loro supremazia, credendo di poter mangiare fra loro in eterno. La solita miseria umana. Niente di nuovo, come sempre, per ora.

Elemosiniere del Papa riattiva la luce elettrica in uno stabile occupato a Roma. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Corriere.it. È stato monsignor Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, a calarsi nel vano del contatore sabato sera e a riattivare l’elettricità nel palazzo occupato Spin Time in via Statilia, nel quartiere Esquilino, staccato da una settimana. Prima, i contatti con Comune e Prefettura per cercare di ripristinare il rifornimento di acqua e luce, che però non avrebbero prodotto risultati. A quel punto, monsignor Krajewski si è presentato nel palazzo ex Inpdap dove vivono 450 persone, tra cui un centinaio di minori tutti scolarizzati, per portare doni ai più piccoli. Dopo averli incontrati, e aver constatato il profondo disagio degli occupanti, il cardinale è intervenuto nella cabina elettrica dove ha lasciato un biglietto, per assumersi la responsabilità del gesto. «E a chi gli diceva preoccupato: «Monsignore, ma è illegale!», ha risposto: «Siete qui illegalmente da 5 anni e adesso vi preoccupate?». Ha poi aggiunto: «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi». «Non l’ho fatto perché sono ubriaco», ha stigmatizzato Krajewski. Appena reduce dall’isola greca di Lesbos, dove ha portato la solidarietà del Pontefice ai profughi visitando il campo di Moria, il cardinale Krajewski ha risposto così all’appello di due giorni fa degli occupanti dello stabile. «Siamo senza acqua e luce da tre giorni. Qui vivono 420 persone (tra cui 98 minorenni) e ci sono 25 realtà culturali. Ma non sarà certo il buio a fermarci. Questo è un appello alla città di Roma»: così, in una nota, dicevano gli attivisti di SpinTime Labs tra quanti occupano lo stabile ex Inpdap di via Santa Croce di Gerusalemme 55, incitando alla partecipazione «con torce e ogni fonte di luce possibile ad una serata a sostegno di chi si fa strada tra il buio creato da chi alimenta odio, razzismo e disparità». Lo stabile è stato occupato il 12 ottobre 2013 dal movimento «Action» a scopo abitativo. Oggi all’interno ci sono anche un’osteria, un laboratorio di birra artigianale, una falegnameria, una sala prove e «un punto di approdo, aperto a tutti, attento ai giovani, agli ultimi e ai più bisognosi». Secondo quanto appreso dagli occupanti, il Campidoglio non salderà le bollette della luce arretrate dovute, dopo che, nei giorni scorsi, la società di fornitura di energia, Hera, ha staccato la corrente per morosità. Sembra che il debito accumulato dal 2013 - anno di inizio dell’occupazione dell’ex sede Inpdap - sia di oltre 300 mila euro. E gli occupanti hanno organizzato un’assemblea pubblica per lunedì: «Chiediamo ancora il sostegno della città affinché a Spin Time la luce non si spenga più».

Roma, l'elemosiniere del Papa toglie i sigilli al contatore della luce nel palazzo occupato. Il cardinale Krajewski si cala nella centralina elettrica per ripristinare la corrente nell'immobile abitato da 450 persone, in via Santa Croce in Gerusalemme: gli occupanti hanno accumulato un debito di 300 mila euro. Il porporato: "E' stato un gesto disperato". Salvini: "Ora paghi gli arretrati". Arianna Di Cori il  12 maggio 2019 su La Repubblica. La scorsa notte la luce è tornata a Spin Time, nel palazzo occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme 55, a Roma, al buio e senza acqua calda da lunedì 6 maggio. Ma i problemi per le 450 persone che ci vivono - tra cui quasi 100 minori - non sembrano cessare. Mentre Comune e I Municipio sono in contatto con gli occupanti alla ricerca di una soluzione, per far fronte a un debito accumulato di 300 mila euro con la società fornitrice di energia, è intervenuta la Santa Sede. Come raccontano infatti gli attivisti, a staccare i sigilli e ripristinare la corrente elettrica è stato Konrad Krajewski, l'elemosiniere del Papa. "Il Cardinale è arrivato nel pomeriggio, ha portato regali a tutti i bambini e ha promesso che se entro le 20 non fosse stata ripristinata la corrente nello stabile l'avrebbe riallacciata lui stesso", spiegano gli occupanti. "E così è stato - continuano - Padre Konrad si è calato nel pozzo, ha staccato i sigilli e ha riacceso la luce. E si è preso, a nome del Vaticano, la piena responsabilità dell'azione con Prefettura e Acea". "Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. E' stato un gesto disperato. C'erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi", ha spiegato all'Ansa il cardinale Krajewski. "Non l'ho fatto perché sono ubriaco", ha aggiunto. Il porporato "è stato informato di una grave situazione in uno stabile occupato in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma in cui si trovavano oltre quattrocento persone, tra cui numerosi bambini - riferiscono all'AdnKronos fonti vaticane vicine all'Elemosineria Pontificia - Come elemosiniere, ha sentito il dovere di compiere un gesto umanitario, provvedendo personalmente a riattivare la corrente elettrica all'edificio", che non è di proprietà del Vaticano. Questo gesto, sottolineano ancora le fonti vaticane, "è stato compiuto dal cardinale Krajewski nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d'ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie". Lo stabile di via di Santa Croce è stato occupato 12 ottobre 2013 da Action a scopo abitativo. L'ex sede dell'Inpdap, da anni in abbandono, fu occupata, liberata ed aperta da subito per diventare la casa per centinaia di persone bisognose. Lo spazio è anche al centro di un progetto che i ragazzi di Scomodo stanno cercando di portare avanti per creare una grande casa aperta alla città 24 ore su 24. "Siamo increduli, quello che è successo la scorsa notte è qualcosa di incredibile, Non possiamo altro che ringraziare il cardinale", ha spiegato Paolo Perrini, presidente di Spin Time. "Il cardinale, che già in passato è stato nostro ospite perché viene a prendersi cura di anziani, malati e bambini che vivono nella struttura - ricostruisce quanto accaduto Perrini -, era arrivato nel pomeriggio di ieri, verso le 17, a bordo di un furgone carico di regali per i più piccoli. Sapeva che eravamo da tre giorni senza corrente. Appena giunto ha chiamato al telefono in prefetture e al Comune di Roma chiedendo di riattivare, entro le 20, l'energia elettrica altrimenti lo avrebbe fatto lui stesso. E così è stato. Alle 20:15 circa, il cardinale è tornato, ci ha spiegato che era competente di energia elettrica perché prima di prendere i voti, in Polonia, aveva lavorato nel settore, ha di nuovo chiamato le autorità cittadine per esplicitare il suo intento, poi si è calato nella buca dove c'è il nostro impianto di media tensione, ha attuato una serie di manovre, come si usa nel gergo tecnico, e la luce è tornata. Non so bene come abbia fatto, ma lo ha fatto". La corrente è stata riattivata attorno alle 22, ma immediatamente Areti spa, che gestisce l'infrastruttura per il gruppo Acea, si è accorta dell'anomalia ed è giunta sul posto scortata da alcune camionette della Polizia. Gli occupanti, al grido di "senza luce non si vive", hanno presieduto in massa la cabina elettrica fino alle 3 di notte circa, quando le forze dell'ordine hanno abbandonato lo stabile. E' stata indetta un'assemblea pubblica, domani alle 18 a Spin Time, per spiegare l'accaduto. Salvini: "Ora paghi gli arretrati". "Conto che l'elemosiniere del Papa, intervenuto per riattaccare la corrente in un palazzo occupato di Roma, paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate". Il leader della Lega Matteo Salvini interviene così, a un comizio elettorale a Bra (Cuneo), sul caso. "Penso che voi tutti, facendo sacrifici le bollette le pagate - dice rivolgendosi ai presenti -. Se qualcuno è in grado di pagare le bollette degli italiani in difficoltà siamo felici...".

Il cardinale che di notte distribuisce coperte ai poveri. Chi è Konrad Krajewski, l'elemosiniere polacco che ha tolto i sigilli al contatore del palazzo occupato a Roma e aveva rinunciato al suo appartamento per ospitare una coppia siriana. Paolo Rodari il 12 maggio 2019 su La Repubblica. Il cardinale Konrad Krajewski, 55enne polacco, elemosiniere di Sua Santità, ha preso sul serio l’incarico datogli da Francesco nel 2013. “La scrivania non fa per te, puoi venderla; non aspettare la gente che bussa, devi cercare i poveri”, gli disse al momento della nomina. E lui, fin da subito, si è adoperato in questo senso. Don Corrado, come lo chiamano tutti Oltretevere, gira di notte per le strade di Roma con un furgoncino carico di viveri, coperte, generi di prima necessità e li distribuisce ai senzatetto. Si deve a lui la creazione di una barberia sotto il colonnato si San Pietro, così l’installazione di alcune docce. Due anni fa, saputo dell’arrivo tramite i corridoi umanitari promossi da Sant’Egidio di una coppia siriana, Krajewski ha ceduto l’appartamento che il Vaticano gli aveva concesso in quanto dipendente. E si è trasferito in ufficio, all’ultimo piano della piccola palazzina in dotazione all’elemosineria entro le mura leonine. Per qualche settimana ha abitato in una stanza al pian terreno, dove sono conservate le pergamene che l’elemosineria compila con la benedizione apostolica a chi ne fa richiesta. Poi, lo spostamento a un piano superiore dove ha almeno garantita un po’ di privacy. “È una cosa normale, nulla di eccezionale”, raccontò allora Krajewski a Repubblica. Così scorrono le giornate del braccio destro del Papa per la carità. Tutte spese per gli ultimi, in giro per Roma, rispondendo nel limite del possibile alle esigenze di ognuno.

 “Don Corrado”, l’elemosiniere del papa: «I sigilli strappati? L’ho fatto per quei bimbi». Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Gian Guido Vecchi e Maria Egizia Fiaschetti su Corriere.it. Salvini sostiene che ora deve pagare le bollette arretrate, che ne dice? «Da questo momento, da quando è stato riattaccato il contatore, pago io, non c’è problema... Anzi, pagherò anche le sue, di bollette». Il cardinale Konrad Krajewski ride sereno, «vede, non voglio che diventi una cosa politica, io faccio l’elemosiniere e mi preoccupo dei poveri, di quelle famiglie, dei bambini... Intanto, hanno luce e acqua calda, finalmente. Adesso tutto dipende dal Comune, aspettiamo che riaprano gli uffici...». Quando Francesco, da poco eletto, lo chiamò a guidare l’Elemosineria apostolica — l’istituzione vaticana che coordina la carità del Papa è testimoniata dall’inizio Duecento in una Bolla di Innocenzo III — , gli raccomandò: «La scrivania non fa per te, puoi venderla. Non aspettare la gente che bussa, devi uscire e cercare i poveri». L’arcivescovo lo ha preso alla lettera. Polacco, 55 anni, la notte gira per Roma con un furgoncino bianco e distribuisce viveri, coperte, soldi, aiuti vari. Si devono a lui molti servizi per i senzatetto aperti intorno al colonnato di San Pietro: il barbiere, le docce, il presidio medico, i bagni pubblici, i pasti caldi. Ha accompagnato i clochard a pranzo col Papa, li ha portati al circo, mostrato loro la Cappella Sistina, perché non si vive di solo pane. Da tempo i poveri della capitale hanno imparato a chiamarlo semplicemente «don Corrado», molti di loro non sospettano neppure che sia un cardinale. Guai a chiamarlo «eminenza», del resto. Francesco gli ha dato la porpora l’anno scorso e lui sorrideva solo all’idea: «Scherza? Quando mi chiamavano “eccellenza” facevo pagare 5 euro per i poveri, adesso almeno 10...».

Che cos’è successo nel palazzo di Santa Croce in Gerusalemme?

«Mi assumo tutta la responsabilità. E non devo dare spiegazioni, c’è poco da darne. Ci ricordiamo cosa accadde l’ultima volta che ci fu un blackout a Roma? Mancò la luce per poche ore e fu un dramma. Ecco, adesso s’immagini cosa può significare restare senza luce per sei giorni. Ci sono quasi cinquecento persone, in quel palazzo, un centinaio di bambini...». 

Lo conosceva già? 

«Ma certo, sono elemosiniere, conosco la situazione da tanto tempo. Dal Vaticano mandavamo l’ambulanza, i medici, i viveri. Stiamo parlando di vite umane. Guardi, sono appena tornato da Lesbo». 

Dove ha guidato la delegazione vaticana in visita all’isola dove Francesco andò tre anni fa, nei campi profughi di Moria e Kara Tepe, portando i fondi perché la Caritas costruisca uno spazio giochi per i bimbi. Com’è la situazione là?

«Sono dei campi di concentramento. Eppure i soldi non mancano: sono le scelte che si fanno, il problema. E lì parliamo della periferia dell’Europa, i confini ai quali arrivano i profughi dalla Siria, l’Iraq, l’Afghanistan. La cosa assurda è che qui siamo nel cuore di Roma. Quasi cinquecento persone abbandonate a se stesse. Sarebbe bello combattere anche solo per una persona, si figuri 500». 

In un certo senso, anche quel palazzo è periferia…

«Sì, e non è certo l’unico caso. Sgomberi, famiglie che non hanno un posto dove andare, gente che fatica a sopravvivere… Roma è anche questo, basta andare a farsi un giro nelle nostre stazioni. Dove sono finiti i diritti umani dell’Europa? Se qualcuno non capisce questo, provi a staccare la corrente a casa sua per qualche ora e vedrà che cosa vuole dire». 

E le bollette non pagate?

«Si parla di soldi ma non è questo il primo problema. Ci sono i bambini. E allora la prima domanda da porsi è: perché sono lì, per quale motivo? Com’è possibile che delle famiglie si trovino in una situazione simile?». 

È vero che sabato ha provato invano a chiamare gli uffici comunali perché riallacciassero la corrente? 

«Sabato e domenica con chi potevo parlare, col portiere? A Roma il fine settimana non funziona nulla, salvo bar e ristoranti! Adesso aspettiamo la riapertura, speriamo intervengano». 

Ma è stato lei a calarsi nel tombino per staccare i sigilli?

«Cosa vuole, era una situazione particolare, disperata… Lo ripeto: mi assumo tutta la responsabilità. Dovesse arrivare, pagherò anche la multa». 

Uno degli inquilini dice che lei era pratico e in Polonia, prima di prendere i voti, lavorava in questo campo… 

«Ma no, questo no! In Polonia abbiamo avuto un presidente, Lech Walesa, che era stato elettricista, si saranno confusi con lui! Io non sono un elettricista, sono un liturgista. Ma in fondo i liturgisti accendono candele, spostano i microfoni, qualcosa ne capiscono…».

Ecco il giudice che difende Krajewski: "Ha ricostituito la legalità costituzionale". Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, difende il cardinale Krajewski e sulla proprietà privata dice: "Il bene abbandonato non appartiene più al proprietario ma alla comunità". Elena Barlozzari, Giovedì 16/05/2019, su Il Giornale. All’assemblea pubblica indetta lunedì scorso nel palazzo occupato di via di Santa Croce in Gerusalemme, alla fine, il cardinale Konrad Krajewski non si è presentato. C’era invece il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, a difendere le ragioni dei 450 abusivi che dal 2013 vivono nell’ex sede Inpdap. L’ex capo di gabinetto al ministero della Pubblica istruzione fino al 1991 con Gerardo Bianco, leader della sinistra democristiana e vicino a Rosi Bindi, ci ha spiegato il perché della sua presenza.

Professor Maddalena, perché un uomo di diritto difende un’occupazione abusiva?

"Perché c’è ancora la convinzione che la proprietà privata sia quella scritta nell’articolò 832 del codice civile, secondo il quale il proprietario gode e dispone della cosa in modo pieno ed esclusivo."

Cosa ci è sfuggito?

"Che l’articolo 42 comma 2 della Costituzione ha modificato questa definizione stabilendo che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge allo scopo di assicurarne la funzione sociale."

Quindi?

"Quindi il bene abbandonato non appartiene più al proprietario nominale ma alla comunità che risiede nel luogo dove la cosa si trova."

Ma è un esproprio... 

"No, chi parla di esproprio è seguace del pensiero unico dominante del neoliberismo, secondo cui la ricchezza deve rimanere nelle mani di pochi."

In una città dove ci sono centinaia di immobili abbandonati, non si rischia, così facendo, di legittimare l’abusivismo?

"Non sto legittimando l’occupazione, sto dicendo che la pubblica amministrazione non deve vendere a privati i propri beni e che gli immobili abbandonati vanno dati a chi ne ha bisogno."

Cosa pensa del gesto di Krajewski?

"Io dico che il cardinale ha fatto un’opera coraggiosa e legittima. Non lo si può accusare di aver compiuto un atto illegale."

Perché?

"Perché è andato contro ad una legge (la Lupi-Renzi, ndr) contraria alla Costituzione, che viola diritti fondamentali come quelli alla luce e all’acqua. Quindi l’elemosinere ha ricostituito la legalità costituzionale. Sarebbe assurdo se un giudice lo condannasse."

Qualcuno ha trovato singolare la saldatura tra i centri sociali e la Santa Sede…

"È la conseguenza della politica del governo, che agisce nell’interesse dei ricchi e contro quello del popolo, noi spesso ci troviamo a doverci difende dalla legge."

In che senso? 

"Basti pensare che il decreto sicurezza toglie il principio di umanità dall’ordinamento giuridico. Non lo può togliere, perché l’ordinamento giudico non lo fa Salvini, e dire prima gli italiani è una bestemmia. Stiamo ridiventando barbari."

È diventato il Vaticano la vera opposizione al governo?

"Questa è una favola, se c’è qualcosa di buono nel mondo è Papa Francesco. Si tratta semplicemente di scegliere se siamo egoisti o altruisti, se vogliamo la comunità o l’isolamento, se vogliamo essere solidali oppure no."

Il Vaticano si schiera con gli abusivi: "La vita delle persone viene prima della legalità". La suora che ha contattato l'elemosiniere del Papa per riallacciare la corrente agli abusivi di via di Santa Croce in Gerusalemme spiega a Il Giornale: "Non so più chi sia più illegale, se lo Stato che lascia la gente in mezzo alla strada o loro che hanno occupato questo posto". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Lunedì 13/05/2019, su Il Giornale.  E luce fu. Al termine di un’attesa biblica è stato un uomo di Dio a riportare luce e speranza nell’immobile occupato di via Santa Croce in Gerusalemme. Stiamo parlando di Konrad Krajewski, elemosiniere del Vaticano e simbolo dei valori che scandiscono il pontificato di Papa Francesco. L’uomo giusto per intervenire in uno scenario scomodo come quello dell’ex sede Inpdap, dove alle ragioni della povertà si contrappone una situazione di illegalità che perdura da quasi un un decennio. E che lunedì scorso è sfociata nel distacco della corrente elettrica da parte di Acea che vanta nei confronti degli abusivi un credito di 300mila euro. Una decisione improvvisa e inattesa che ha lasciato al buio quasi 500 persone tra italiani e stranieri. “Da quando la corrente è andata via abbiamo ricevuto sostegno dalle istituzioni, ma solo a parole, l’unico aiuto concreto lo abbiamo ricevuto dall’elemosiniere vaticano che è venuto a vedere il contatore e si è rimboccato le maniche”, ci spiega Cecilia Carponi di Spin Time Labs, il collettivo di artisti nato nel palazzo occupato. Prima di tutto Krajewski contatta il neo prefetto di Roma Gerarda Pantalone. Il messaggio è un aut-aut: se entro le venti di questa sera non riallacciate la corrente, ci penso io e me ne assumo tutte le responsabilità. E così è stato. Il porporato si è calato giù per un tombino, sotto lo sguardo incredulo degli occupanti, ha tolto i sigilli al contatore e dopo aver armeggiato per qualche ora gli ha restituito la luce. Un epilogo che ha lasciato di stucco persino Andrea Alzetta detto “Tarzan”, ras delle occupazioni romane e fondatore di “Action”, il movimento di lotta per la casa che gestisce l’occupazione. “Ci siamo stupiti - ha ammesso Tarzan - che sia arrivata una figura simile a metterci la faccia, cosa che la politica non ha fatto”. La vicinanza della Santa Sede alla occupazione di via di Santa Croce non è cosa di oggi, eppure nessuno si immaginava che si sarebbe arrivati ad un gesto così estremo. “Anche il Vaticano - ci conferma il regista teatrale Roberto Andolfi, responsabile culturale di Spin Time Labs - ha una mission in questo spazio, all’interno dell’ex sede Inpdap c’è suor Adriana che rappresenta il vicariato e da qui fa attività sociale per il quartiere e per le famiglie povere”. È stata lei, quando i canali politici non hanno sortito nulla di più di qualche attestato di solidarietà, a chiamare Krajewski. “Dopo sei giorni senza corrente elettrica con bambini e malati bisognosi di elettricità per le cure primarie - ci racconta suor Adriana - la situazione era disperata e così mi sono decisa a chiamare padre Konrad, che già nei giorni addietro si era occupato di mandarci i medici solidali del Vaticano per curare le persone all’interno dell’occupazione”. “Non credo abbia tenuto conto delle leggi - prosegue - perché la vita delle persone viene al primo posto”. E parlando di legalità dice: "Non so chi sia più illegale, se lo Stato che lascia la gente in mezzo alla strada o loro che hanno occupato questo posto". Tuttavia il blitz dell’elemosiniere potrebbe avere delle conseguenze giudiziarie. Stando a quello che riferisce l’AdnKronos, infatti, il Gruppo Acea è pronto a presentare un esposto in procura visto che la manomissione della cabina elettrica “avrebbe potuto portare conseguenze anche mortali qualora fosse stata effettuata una manovra errata”. Dal canto suo, sentito dall’Agi, Krajewski si dice pronto a fronteggiare “qualsiasi conseguenza”. “Per me conta che quella gente abbia la luce e l’acqua calda, il resto non ha importanza. Non mi interessa quello che altri commentano o come giudicano”. Il riferimento è a Matteo Salvini che ha criticato il gesto del porporato: “C’è questo palazzo occupato a Roma dove ci stavano 3-400 persone che non pagavano le bollette e quindi giustamente la società che gestisce l’elettricità ha staccato la corrente”. Poi la provocazione: “Conto che dopo aver riattaccato la luce adesso paghi anche i 300 mila euro di bollette arretrate. A proposito di diritti e doveri, penso che voi tutti, magari facendo dei sacrifici, le bollette le pagate”. “Noi - si difendono quelli di Spin Time Labs - le bollette non le abbiamo mai ricevute perciò non ci è mai stato permesso di pagarle". "Ora - promettono - vogliamo metterci in regola ed estinguere questo debito”. Ed in segno di riconoscenza verso il porporato, gli attivisti, si autodenunceranno al prefetto e al sindaco. “Quello del cardinale - dicono - è stato un gesto di grande coraggio, tecnicamente illegale ma secondo noi legittimo”.

E luce fu. L’elemosiniere del Papa riallaccia la corrente nel palazzo occupato. Il cardinale Konrad Krajewski riallaccia la luce allo Spin Time, palazzo occupato da 450 persone a Roma. Lui: «È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente». Il Dubbio il 12 maggio 2019. A riallacciare la luce allo Spin Time, palazzo occupato da 450 persone a Roma, è stato il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, di ritorno da Lesbo dove ha portato la solidarietà di Papa Francesco ai profughi presenti nell’isola greca. Gli inquilini, di cui quasi 100 minori, erano al buio e senza gas dal 6 maggio, quando la società fornitrice di energia aveva deciso di staccare le utenze a causa di un debito di circa 300 mila euro. «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi», dichiara il cardinale  Krajewski. «Non l’ho fatto perché sono ubriaco», ha ironizzato. Il porporato «è stato informato di una grave situazione in uno stabile occupato in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma in cui si trovavano oltre quattrocento persone, tra cui numerosi bambini – riferiscono all’AdnKronos fonti vaticane vicine all’Elemosineria Pontificia -. Come elemosiniere, ha sentito il dovere di compiere un gesto umanitario, provvedendo personalmente a riattivare la corrente elettrica all’edificio», che non è di proprietà del Vaticano. Questo gesto, sottolineano ancora le fonti vaticane, «è stato compiuto dal cardinale Krajewski nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d’ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie». Diversa però è la ricostruzione dell’episodio fornita da Andrea Alzetta, storico volto di Action, movimento capitolino per il diritto all’abitare, e portavoce di Spin Time Labs. «Per una volta è stata ripristinata la giustizia invece della legalità», dice, prima di smentire alcuni “dettagli”. «È un’esagerazione giornalistica» la notizia che sia stato l’elemosiniere vaticano a «fare il miracolo», spiega Alzetta. «Della vicenda si è interessata la responsabile della distribuzione del cibo dei poveri, quella di medicina solidale, le persone che lavorano lì, visto che la politica non riusciva a risolvere la situazione. L’elemosiniere del Papa non credo faccia l’elettricista, oltretutto non c’erano sigilli, semplicemente avevano staccato la corrente. Anche questa è una fantasia giornalistica», argomenta l’esponente di Action.  «La corrente elettrica fa funzionare l’impianto idraulico e le fognature, oltretutto è fondamentale per chi vive qui con un polmone artificiale. Nell’edificio di proprietà di Banca Finnat si fa un percorso di rigenerazione urbana e sociale, era un palazzo rimasto invenduto e abbandonato a se stesso al quale noi nel 2013 abbiamo ridato vita con un progetto fatto insieme alle università di Roma e tante realtà del territorio. Facciamo concerti di musica classica, spettacoli: per questo molti artisti ci hanno sostenuto».

L’elemosiniere del Papa riattacca la luce del palazzo occupato: il centro sociale ringrazia. Davide Ventola domenica 12 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. L’elemosiniere del Papa ha tolto i sigilli al contatore di un palazzo occupato abusivamente. La notizia è di queste ore. A compiere il gesto tanto insolito quanto simbolico è stato il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio. Il porporato è arrivato in un palazzo occupato da un centro sociale nel 2013 al centro di Roma, ha visto lo stato di difficoltà per tante persone prive della luce da giorni e ha riallacciato la corrente elettrica che era stata staccata dall’azienda per morosità. Il cardinale «è stato informato di una grave situazione in uno stabile occupato in via Santa Croce in Gerusalemme a Roma in cui si trovavano oltre quattrocento persone. Tra loro numerosi bambini, riferiscono fonti vaticane. Come elemosiniere, ha sentito il dovere di compiere un gesto umanitario, provvedendo personalmente a riattivare la corrente elettrica all’edificio», che non è di proprietà del Vaticano. Questo gesto, sottolineano ancora le fonti vaticane, «è stato compiuto dal cardinale Krajewski nella piena consapevolezza delle possibili conseguenze d’ordine legale cui ora potrebbe andare incontro, nella convinzione che fosse necessario farlo per il bene di queste famiglie».

“Tarzan” Alzetta conferma la notizia. I centri sociali ringraziano ma sembrano infastiditi dal fatto che si sia diffusa la notizia Il portavoce del centro sociale che ha occupato lo stabile nel 2013, Andrea Alzetta, nome di battaglia Tarzan, conferma a malincuore il fatto.

Chi è Tarzan Alzetta. Il militante di estrema sinistra, re delle occupazioni abusive, bolla però come “un’esagerazione giornalistica” il fatto che sia stato l’elemosiniere vaticano a “fare il miracolo”. «Nel palazzo vivono 450 persone di tutte le nazionalità, tra i quali 98 minori, alcuni in gravi condizioni di salute, e per una volta è stata ripristinata la giustizia invece della legalità» sostiene Alzetta. E liquida con una battuta il fatto che la luce sia tornata grazie al Vaticano. «L’elemosiniere del Papa non credo faccia l’elettricista, oltretutto non c’erano sigilli, semplicemente avevano staccato la corrente». Poi l’arrivo del porporato polacco che, interpellato da diversi giornali, ha confermato la notizia.

VATICANO: PATRIMONIO IMMOBILIARE, SOLDI E DEMAGOGIA. IL “BEAU GESTE” DEL CARDINALE. (PAGANO GLI ALTRI…). Marco Tosatti il 12 Maggio 2019.  Leggiamo dal Messaggero di un “beau geste” compiuto dall’elemosiniere del Pontefice, il cardinale Konrad Krajewski, che ha spezzato i sigilli apposti ai contatori di uno stabile occupato (il che, in Italia è ancora un reato, come peraltro ovunque altrove; forse in Vaticano no), sigilli apposti perché gli occupanti non avevano pagato da anni bollette della luce per circa trecentomila euro. Ecco il testo: “Ha staccato i sigilli del contatore e ha riacceso la luce nel palazzo occupato da 450 persone in via di Santa Croce in Gerusalemme (Spin time Labs) nonostante le bollette non siano state pagate e gli occupanti rimangano morosi. A staccare i sigilli è stato l’elemosiniere del Papa, Konrad  Krajewski, che ieri è andato nel palazzo occupato a portare doni e cibo. «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi» ha detto il cardinale elemosiniere Krajewski, “braccio” caritativo di Papa Francesco per i casi di disagio. «Non l’ho fatto perché sono ubriaco», ha aggiunto Krajewski”. Ubriaco di demagogia, forse. Come molti di quelli che in Vaticano soffrono di un singolare disturbo. Cioè, davvero, applicano il Vangelo alla lettera, e la mano sinistra non sa quello che fa la mano destra. La sinistra riattiva l’elettricità – che qualcun altro, non il Vaticano, dovrà pagare – e la destra…La destra per esempio chiede alla Papal Foundation 25 milioni di dollari, una cifre incredibile. Per i migranti? Per i senzatetto italiani? No, per risistemare le finanze dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, dopo il crack della struttura, su cui indagò per tutta una serie di reati la magistratura…Magari trecentomila euro di quei milioni (ridotti poi a otto, pare) avrebbero potuto essere usati per pagare la morosità, senza andare contro la legge, e dare esempi di illegalità. San Martino ha tagliato metà del suo mantello, mica ha preso quello di un passante. Oppure la stessa somma poteva essere chiesta alla Sezione Economica della Segreteria di Stato, che raccoglie il denaro regalato al Papa, e il cui tesoretto, secondo chi ha avuto esperienza in quel campo, si avvicina quello dello IOR. La sinistra (mano) preferisce però fare demagogia a buon mercato – Krajewski è cardinale, polacco, e vive in Vaticano, chi mai lo perseguirà? – mentre la destra…Riportiamo sotto qualche interessante stralcio sulle proprietà immobiliari della Chiesa, particolarmente fitte a Roma e in Veneto.

Viaggio tra le proprietà immobiliari della Chiesa: un patrimonio da 4 miliardi l’anno. “Il Vaticano è uno dei più grandi proprietari immobiliari italiani, con un patrimonio di almeno 115mila unità che equivale al 20% dell’intero patrimonio immobiliare italiano. Propaganda Fide, Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, vanta da sola 957 beni tra terreni e fabbricati, in aree spesso di pregio come piazza di Spagna, via Margutta, via del Babuino o via del Governo Vecchio a Roma. Ed intorno a queste proprietà ruota un giro d’affari di oltre 4 miliardi di euro l’anno legato al turismo religioso, grazie all’impiego  di questi immobili come bed & breakfast ad esempio. Di seguito l’elenco delle entità che fanno capo alla Santa Sede e le relative proprietà. 

Propaganda Fide possiede 957 beni tra terreni e immobili a Roma in via di San Teodoro, via di San Giovanni in Laterano, via Boncompagni, via delle Mura Aurelie, piazza Mignanelli, via Margutta, piazza di Spagna, via Bocca di Leone, via del Babuino, via della Conciliazione via dei Corridori, via dell’Orso, via dei Coronari, via della Vite, via del Governo Vecchio.

La Sacra Congregazione per l’evangelizzazione ha 80 terreni e immobili tra via Venti Settembre, piazza Trasimeno, via della Conciliazione, via Monte Acero, via del Governo Vecchio.

Il Vicariato di Roma è titolare di 191 beni tra terreni e immobili in via del Colosseo, via di Santa Croce in Gerusalemme, via di Fara Sabina, via Flaminia, piazza di S. Eurosia”.

La lista è tutt’altro che esaurita e vi rimandiamo all’articolo originale.

Scrive invece “Qui Finanza”: “Secondo il Gruppo Re, che da sempre fornisce consulenze al Vaticano sul tema, il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano è tutt’oggi proprietà della chiesa: si tratta di 115 mila fabbricati. Un “tesoro” continuamente alimentato da investimenti e donazioni di privati cittadini. Solo nella Capitale si calcola che “ogni anno vengono registrati dagli 8 ai 10mila testamenti a favore del clero”.

AFFITTI A PREZZI AGEVOLATI – Ad occuparsi di questo “impero” in particolare due istituti operativi: Propaganda Fide e Apsa. Governerebbero appartamenti di lusso per circa 9 miliardi di euro di valore. Molte delle 957 case di proprietà (725 sono a Roma) verrebbero poi date in affitto, e a volte vendute, a prezzo agevolato, a nomi illustri. Per esempio l’ex ministro Pietro Lunardi comprò il palazzetto di tre piani in via dei Prefetti. Quanto agli affitti, il giornale fa l’esempio dell’”ex vicedirettore della Rai Antonio Marano, del capo delle missioni della Protezione Civile Mauro Della Giovampaola, del direttore Enac Vito Riggio, dell’ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino, dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio”. E anche “l’attico di Bruno Vespa e l’appartamento di Cesara Buonamici sarebbero di Propaganda Fide”.

LE CASE-REGGIA DEI CARDINALI- Repubblica parla anche dei 5.050 appartamenti dell’Apsa – Amministrazione patrimonio sede cattolica –affittati a prezzo di mercato agli sconosciuti e a canone zero a chi ha servito la chiesa: giuristi, letterati, direttori sanitari. Sono 860 le locazioni gratuite. Innanzitutto, quelle per le case-reggia dei 41 cardinali di prima fila: tutti intorno a San Pietro. Nel tentativo di ricostruire e mettere a sistema i possedimenti Apsa, monsignor Lucio Vallejo Balda, a capo della commissione Cosea, ha scatenato l’ultima guerra in Vaticano, che poi è diventata il processo Vatileaks 2.

EX CONVENTI TRASFORMATI IN B&B – Da ultimo non bisogna dimenticare la presenza immobiliare della Santa Chiesa nel settore turistico. Vecchi monasteri, abbazie ed altri locali trasformati in hotel e bed and breakfast, con circa 200mila posti letto corrispondenti a 4,5 miliardi di valore di un crescente turismo religioso”.

Invece lettera 43 parlava dei conventi vuoti, e dell’appello del 2013 da parte del Papa: “Sono decine i grandi e antichi conventi chiusi o semi abbandonati, difesi strenuamente da pochi frati e suore spesso 80enni, determinati a tenere viva la speranza di un nuovo utilizzo legato a una ripresa delle vocazioni. Ed è attorno a questo enorme patrimonio immobiliare che ruotano gli interessi di gruppi privati, spesso legati alla stessa Chiesa cattolica italiana, i quali vorrebbero trasformare le strutture in hotel, residence o case di cura e di riposo. Di fronte a questa realtà che riguarda centinaia dei circa 100 mila immobili che la Chiesa possiede, papa Francesco ha preso una posizione chiara: i conventi non utilizzati diventino ostelli per i rifugiati, non alberghi perché l’obiettivo non è fare soldi, ma aiutare i più deboli”.

Quattro anni più tardi Il Messaggero scriveva: “Città del Vaticano – Dopo quattro anni dall’appassionato appello del Papa alle parrocchie romane, «aprite le porte ai nostri fratelli immigrati», questo è il risultato: solo 38 tra parrocchie e  istituti religiosi presenti a Roma hanno ospitato 121 persone (57 in prima accoglienza e 64 in seconda accoglienza). I dati sono stati forniti stamattina dal Vicariato. Forse un risultato decisamente sotto le aspettative vista l’alta concentrazione nella capitale di istituti religiosi e conventi (spesso semivuoti per mancanza di vocazioni o trasformati tout cour in redditizi b&b per pellegrini). E pensare che nella diocesi del Papa si contano ben 332 parrocchie e circa 700 istituti religiosi. Difficile dimenticare l’appello che Bergoglio fece pochi mesi dopo la sua elezione, visitando il Centro Astalli dove funziona da anni una mensa per profughi. Davanti a tanti rifugiati senza nulla, parlando «con il cuore in mano», invitava «gli Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità» come segno dei tempi il fenomeno migratorio che bussano alle porte. «Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti: Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio». Il coraggio richiesto forse è risultato carente in molti casi. In tanti si chiedono, cosa è restato di quell’appello? Perché non è stato ascoltato? Basterebbe solo andare sul sito ospitalitàreligiosa.it e dare una occhiata al grande ventaglio di possibilità alberghiera fornita da conventi e istituti di suore o frati. Centinaia di strutture con migliaia di posti letto disponibili”. Alla luce di tutti questi elementi, che dire? Che la demagogia costa poco e frutta molto in termini di immagine e popolarità. E sempre alla luce delle cifre, le battaglie per l’accoglienza assumono un altro aspetto. Accoglienza sì, se pagata dai soldi dei cittadini.

Papa Francesco e la "dimenticanza" del Vaticano: i 115mila alloggi che non danno agli immigrati. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. Dal Vangelo secondo Matteo: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta». Traduzione: con la mano sinistra, se sei un prete, rompi pure i sigilli della corrente a degli occupanti che non pagano la bolletta da sei anni (non l' hanno mai pagata) e fallo pure passare come «beau geste» che riaccende il frigorifero ai bambini e che dà un tetto ai senza casa: tanto sei un prete, nessuno ti punirà e semmai incasserai il plauso di qualche partito in campagna elettorale. Poi però hai la mano destra: con quella, a nome del Vaticano, puoi continuare a gestire discretamente un patrimonio di almeno 115mila unità che equivale al 20 per cento dell' intero patrimonio immobiliare italiano senza pagare la bolletta a nessuno, anzi, pagando meno anche le tue, questo per via delle mille agevolazioni che la Chiesa può rivendicare. Antipastino: la sola Propaganda Fide (Congregazione per l' evangelizzazione dei popoli, hanno sempre questi nomi così) vanta 957 beni in zone anche come piazza di Spagna, via Margutta, via del Babbuino eccetera, e trattasi di proprietà con un giro d' affari di oltre 4 miliardi di euro annui legati al celebre «turismo religioso», quello che fa sì che gli alberghi, se sono del Vaticano, non si chiamano più alberghi. Ecco, i soliti brutali, già risuona la sirena dei solidali: e suvvia, e che dovrebbe fare la Santa Chiesa Cattolica, cedere i suoi millenari palazzi ai rom? O, comunque, a tutti i disperati da centro sociale che l' incenso porporale se lo fumerebbero tutto? No, certo, mica puoi piazzare una roulotte nei giardini di Castelgandolfo, ma - per dire - basterebbe il costo di un solo spot dell' 8 per mille per ripianare tutte le bollette non pagate in certi stabili occupati. Perché le cifre, forse, non le avete capite bene. Se il patrimonio immobiliare italiano supera quota 6.400 miliardi di euro (Rapporto dell' Agenzia del territorio e dal dipartimento delle Finanze) quello in mano alla Chiesa si aggira perlomeno attorno ai mille miliardi: in più ci sono da aggiungere 700mila complessi immobiliari all' estero tra parrocchie, scuole e strutture di assistenza: e la stima giunge a 2mila miliardi. Due-mila. Ma nessuno ufficialmente - nella Chiesa - ve lo confermerà mai: sono dissociati, tutti con mano destra e sinistra che vanno per conto loro, tra l' altro senza menzionare investimenti e depositi bancari di cui non si sa nulla. E ora tocca tornare al prete, come si chiama, il polacco, il cardinale Konrad Krajewski. Ci tocca il riassuntino a modo nostro, vista da un marziano a Roma: c' è un esponente religioso, cosiddetto elemosiniere del Papa in una monarchia di soli uomini chiamata Città del Vaticano, che ha deciso dolosamente di compiere un' illegalità e cioè di togliere i piombi dal contatore che sino a una settimana fa riforniva elettricità a uno stabile abusivamente occupato dal 2013, dove, da appunto 6 anni, nessuno pagava la bolletta della luce. Parentesi: in quello stabile nessuno paga da altrettanti anni neppure l' affitto, ma ora questo è passato in secondo piano. Dicevamo dell' elettricità: in genere non impiegano 6 anni a staccartela se sei moroso, bensì un paio di settimane (allo scrivente, per combinazione, è successo ieri mattina per un intoppo burocratico) e quindi l' azienda energetica, nel caso, aveva già soprasseduto per moltissimo tempo per via della situazione: nello stabile ci sono infatti 500 persone (circa un centinaio sono bambini) rimaste senza corrente ormai da una settimana. Il debito era di 319mila euro.

IL PESO DEL VOTO. Comunque, sul Pianeta Terra, e persino a Roma, in genere chi invade le proprietà altrui e non paga la pigione e neppure le bollette, beh, compie dei reati, e quindi viene cacciato dalla forza pubblica. Ma se a compiere i reati sono una moltitudine di persone, ecco che la questione diviene immediatamente politica; se poi c' è pure l' imminenza di una scadenza elettorale, le interpretazioni e il rispetto delle leggi si prestano alle posizioni più variopinte. La prosecuzione di questo articolo è dunque risevata a chi non è candidato alle Europee e può quindi limitarsi a un' analisi secca non solo del gesto - che è una violazione di legge, non ci piove - ma dei suoi interpreti principali: gli abusivi dello stabile e il religioso stacca-piombi.

17MILA METRI QUADRI. Gli abusivi, per cominciare: non costituiscono il corpo palpitante di un orfanotrofio, ma di 17mila metri quadri di stabile con 180 nuclei familiari (sì, ovvio, in buona parte extracomunitari) ma più notoriamente di esercizi commerciali quali osteria, falegnameria, teatro, birrificio, sala concerti e attività di ogni genere. L' invasione porta il cappello di un «movimento per la casa» chiamato Action e, nonostante lo stabile fosse occupato dal 2013, lo stabile «Spin Tabs Lab» non figura tra la ventina di edifici che la prefettura aveva deciso di sgomberare prossimamente. Non è nota con precisione la natura del rapporto tra gli abusivi e il Vicariato cattolico, ma il rapporto c' era, e c' è, tanto che alcune iniziative sono state condivise.

NON PUNIBILE. E veniamo al prete, anzi al Cardinale, anzi al religioso che, secondo il Concordato aggiornato nel 1984, non può essere perseguito come capiterebbe a un cittadino qualsiasi. Già questo è un primo punto importante, perché il cardinale Krajewski ha preannunciato il suo gesto e l' ha pure firmato - lasciando il suo biglietto da visita sul contatore - ben sapendo che sarebbe rimasto impunito: l' esposto presentato dall' azienda energetica, penalmente, andrà a vuoto. Lui ora dice che è «pronto a pagare le conseguenze del suo gesto», ma dirlo è facile: legalmente non ce ne saranno, anche se il reato prevede da sei mesi a tre anni senza contare le aggravanti. In concreto il cardinale ha telefonato al Prefetto per far riattaccare la luce, e poi, ottenuto un diniego, ha detto che entro sera avrebbe fatto da solo, e così ha fatto. Ha rotto i sigilli e la luce è tornata.

«BOLLETTA SOCIALE». Poi sono tornati anche i tecnici del gruppo Acea per staccarla di nuovo, addirittura scortati da camionette della polizia: ma hanno dovuto desistere - una desistenza molto criticabile - perché qualche occupante si è opposto con la forza e con il corpo.

Tutto semplice, forse troppo. La resistenza degli occupanti però era nel copione, e così pure la penosa e irritante e vittimistica pretesa, per il futuro, di pagare una «bolletta sociale» con sanatoria sul passato. Non del tutto a copione, per contro, la reazione di quei partiti - grillini e Pd in primis - che hanno applaudito l' illegalità porporale come se il cardinale avesse riacceso un luna park. Culturale, certo. Antifascista, sì.

Papa Francesco e l'elemosiniere, don Negri: "Non esistono solo i migranti. No al tradimento della missione". Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. "Non esistono solo i migranti, ma anche gli italiani poveri". La lezione a Papa Francesco e al suo elemosiniere Konrad Krajewski arriva da monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio e rappresenta al meglio il malumore che si respira in Vaticano e nella chiesa "di base" per il gesto di "Don Corrado", che si è calato nel pozzetto di un palazzo occupato abusivamente a Roma per riallacciare l'elettricità sospesa a causa di 300mila euro di bollette non pagate.  "Noi non possiamo avere come unico problema, e neanche come argomento determinante, quello dei migranti. Dobbiamo pensare a tutto l'uomo, a tutti gli uomini, a ogni situazione - spiega in una intervista a La Stampa -. Siamo chiamati a essere solidali con ogni persona che viene al mondo, a cui abbiamo il dovere di proporre Cristo". "La Chiesa - spiega ancora il monsignore - deve concentrarsi sull'educazione di un popolo per renderlo consapevole della sua anima e capace di vivere generosamente la sua missione, senza presunzione e senza depressione. Benedetto XVI quando venne in visita nel Montefeltro, nella diocesi che reggevo io, invocò laici vivi, attivi e intraprendenti". L'obiettivo, spiega ancora, è quello di creare una umanità nuova. La distanza con la missione sociale del "qui e ora" di Bergoglio è totale: "Ogni prossimo è in difficoltà, non solo qualcuno. E la prima difficoltà è che la maggior parte non conosce Cristo. Perciò il primo modo di assumersi la sfida della povertà del mondo è annunciare Gesù". Un ritorno al Vangelo che spesso è stato oscurato da gesti e parole eclatanti. "Non è possibile evangelizzare senza accettare l'obbedienza alla realtà così com'è, che non dipende da noi ma che ci ritroviamo attraverso la storia. Cercare di imporre una visione astratta, artificiosa e ideologica costituisce un gravissimo errore. E se lo fanno uomini di Chiesa diventa un tradimento alla nostra missione".

Papa Francesco, Franco Bechis accusa l'elemosiniere: "Chi è stato umiliato dal suo gesto". Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. Se c'è una lezione che arriva circa la "bravata" dell'elemosiniere di Papa Francesco, il cardinale Konrad Krajewski, di certo è quella che a comportarsi onestamente in Italia non si ottengono applausi e complimenti. Padre Corrado ha incassato solo elogi e incitamenti ad andare avanti da buona parte della politica e della stampa, che in quel palazzo vedono solo 450 disperati e bisognosi. In pochi, tra i quali Franco Bechis sul Tempo, hanno provato a ricordare che non si può ignorare il fatto che quel palazzo sia occupato abusivamente sotto la regia dei soliti professionisti delle occupazioni delle case a Roma. Non si è ricordato mai abbastanza gli affari messi in piedi dal centro sociale Spin Time, che là dentro organizza anche attività commerciali e concerti. Ma soprattutto quasi nessuno ha sottolineato quanto quello del cardinale sia stato un gesto che giustifica ogni futura azione di prepotenza: "Perché in questo Paese - scrive Bechis - i furbi sono quelli che la schiena non la spezzano, l'affitto non lo pagano, le bollette le buttano nel cassonetto quasi fosse un insulto riceverle, il necessario si prendono e il per il superfluo sanno che basta fare la voce grossa". E chi invece si alza al mattino presto e torna a casa con la schiena spezzata dopo aver guadagnato una miseria, ma paga regolarmente quanto deve alla collettività, ormai non possiamo dire altro che: "Bravo scemo". Chiarissimo il pensiero di Bechis sin dal titolo del suo pezzo di apertura de Il Tempo: "Vincono sempre i prepotenti". Catenacci: "Tutti applaudono la bravata del cardinale e gli occupanti illegali chiedono ancora di più. Umiliati grazie a questa vicenda i veri poveracci che tirano la cinghia e rispettano le leggi". Poco da aggiungere.

Hanno vinto i prepotenti. Il sig. Pietro si spacchi pure la schiena. Franco Bechis il Tempo 15/05/2019. C'è una sola cosa che si è sentito dire ieri da gran parte della classe politica e della stampa italiana il povero signor Pietro, che si spacca la schiena all'alba al mercato a caricare e scaricare cassette di frutta, e con quel poco mantiene la sua famiglia, paga le tasse, le bollette e pure l'affitto nella casa popolare, pur negando ai figli quel che magari hanno quasi tutti i loro compagni di scuola: «Bravo scemo!». E scemo anche lui si deve essere sentito senza bisogno di quel coro collettivo, perché in questo paese i furbi sono quelli che la schiena non la spezzano, l'affitto non lo pagano, le bollette le buttano nel cassonetto quasi fosse un insulto riceverle, il necessario si prendono e per il superfluo sanno che basta fare la voce grossa. A Roma come in Italia vincono solo i prepotenti, perché davanti a loro tutti se la fanno addosso. E alti prelati, perfino un cardinale vicino al Papa si commuovono pure, facendo le sciocchezze che abbiamo visto compiere sabato notte. Il coro di simpatia e gli applausi riscossi dall'elemosiniere pontificio Konrad Krajewski sono il punto di caduta più basso registrato da anni del senso della legalità e del vivere civile, ben più scandaloso di qualche sceneggiata di Casapound o altri che tanta indignazione ipocrita ha provocato. Applaudire quel che è avvenuto nella assoluta illegalità e prepotenza di tutti è insulto alla fatica e al sudore di italiani e immigrati per bene che rispettano zitti la legge. È beffa ai veri poveri e ai disgraziati (ne raccontiamo alcuni oggi) costretti a vivere in auto o in roulotte. Che pena!

Per gli sgomberi mai fatti c'è un conto da 40 milioni. Il Viminale condannato a pagare i proprietari degli immobili occupati. Francesca Musacchio il 14 Maggio 2019 su Libero Quotidiano. Oltre 40 milioni di euro. A tanto ammonta il valore di solo due notifiche di precetto arrivate al Viminale per il mancato sgombero di due palazzi a Roma. Si tratta degli immobili di viale Caravaggio e via Prenestina, per i quali il Tribunale di Roma ha condannato il ministero dell’Interno a risarcire i proprietari che da anni non possono usufruire dei palazzi perché occupati abusivamente. Nel primo caso, il Viminale è stato condannato a pagare 15 milioni di euro, nel secondo 28, salvo ulteriori danni poiché entrambi gli edifici non sono stati ancora sgomberati. Una situazione che potrebbe riguarda altre decine di immobili a Roma e centinaia in tutta Italia con costi esorbitanti in caso di risarcimento. Anche se la possibilità che i proprietari arrivino ad ottenere materialmente il denaro appare piuttosto difficile. Ma il costo di questi mancati sgomberi, in ogni caso, ricade sulla collettività e sui privati che devono sopportare il peso del welfare che lo Stato non è in grado di garantire ai cittadini. Eppure, anche una sentenza della Corte di Cassazione, arrivata a ottobre 2018, stabilisce che il Viminale deve risarcire i proprietari di immobili occupati abusivamente. Un principio che mette nero su bianco l’obbligo per lo Stato di non penalizzare la proprietà privata per portare avanti le politiche di welfare oppure per evitare problemi di ordine pubblico. Ma questa sentenza espone anche il ministero dell’Interno a risarcimenti milionari a favore di tutti quei proprietari che da anni non possono disporre dell’immobile e che devono anche continuare a pagare le spese come Imu e altre utenze. Sì, perché i privati proprietari di immobili occupati abusivamente devono continuare a versare l’Imu ai Comuni e pagare le bollette di luce e acqua. Una vera beffa che in molti casi ha costi enormi. Ma quanto potrebbe arrivare a pagare il Viminale solo per il risarcimento degli immobili occupati nella Capitale, se non ha provveduto a liberarlo appena la Procura ne ha ordinato lo sgombero? Se, ad esempio, si prendono in considerazione i parametri applicati dal Tribunale civile di Roma che ha riconosciuto il risarcimento alla società Oriental Finance, proprietaria dell’immobile occupato in viale Caravaggio, il calcolo potrebbe essere facile. A seguito di una perizia, infatti, è stato stabilito un valore a metro quadro pari a 13 euro al mese. Moltiplicando tale cifra per i metri quadri dell’immobile in questione, si è arrivati a 266.672,76 euro al mese, da corrispondere da settembre 2014 fino a che l’immobile non sarà stato liberato. E fino ad ora siamo arrivati a 15 milioni di euro. Ad agosto 2017, dopo 4 anni, è stato sgomberato il palazzo di via Curtatone, a piazza Indipendenza. Una occupazione molto discussa e che ha creato problemi perché ostaggio di centinaia di immigrati sotto la “tutela” dei Movimenti per il diritto all’abitare che nel 2013 organizzarono il blitz che decretò la presa del palazzo. Solo per questo immobile di 33 mila metri quadri (volendo valutarli come quelli di viale Caravaggio a 13 euro a mq), il ministero dell’Interno potrebbe dover sborsare oltre 20 milioni di euro. Nella sentenza del tribunale di Roma, infatti, sono stati applicati i valori più bassi di quelli di mercato rivalutati ogni anno, a cui vanno sommati gli interessi. Ogni caso, però, può essere diverso dall’altro e quindi via Curtatone potrebbe costare molto di più. Così come altre occupazioni ancora attive a Roma e in tutta Italia, che possono trasformarsi in un vero salasso per le casse dello Stato.

CasaPound non paga neppure le bollette: debiti per centinaia di migliaia di euro. I "fascisti del terzo millennio", che occupano uno stabile a Roma, hanno accumulato debiti a sei cifre. E adesso, dopo anni, scatta l'atto di pignoramento. Andrea Palladino ed Andrea Tornago il 29 ottobre 2018 su L'Espresso. La bolletta della luce? Di certo non “a noi”. I fascisti del terzo millennio di Casapound, arroccati nell’edificio del Miur occupato abusivamente nel 2003 nel cuore di Roma , di fatture per l’energia non ne vogliono sapere. Nel corso degli anni hanno accumulato un debito a sei cifre, che si aggiunge al danno erariale milionario su cui sta indagando la Corte dei Conti per il mancato sgombero del palazzo: più di 210 mila euro nei confronti della municipalizzata Acea, come risulta da due decreti ingiuntivi che L’Espresso ha potuto leggere. Una storia ben diversa da quella che ha raccontato il leader nazionale Simone Di Stefano: “Ci vivono famiglie di italiani, non sono sconosciute al Comune di Roma - ha sostenuto Di Stefano in una intervista a TgCom24 - perché hanno la residenza, pagano le utenze, è una situazione sotto controllo”.

Giallo all’Esquilino. Nel febbraio del 2016 la multiutility romana, dopo aver tentato inutilmente di farsi pagare, ha chiuso i contatori. Eppure al civico 8 di via Napoleone III le luci, la sera, sono ancora accese. Un nuovo operatore? Qui comincia un giallo. La legge 47 del 2014 - firmata dall’allora ministro Maurizio Lupi proprio per bloccare le occupazioni abusive - obbliga i fornitori di utenze a chiedere copia del contratto di affitto o la prova della titolarità dell’immobile per poter allacciare un contatore. Il Grand Hotel dei neofascisti: Iannone ha messo lì la moglie. Di Stefano il fratello. Emergenza abitativa risolta. Sì, ma per i propri cari. L’articolo 5 della legge Lupi sul punto è chiarissimo: “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l'allacciamento a pubblici servizi in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”. Dunque un eventuale contratto per la fornitura della luce successivo al 2014 sarebbe nullo, così come le residenze anagrafiche che Di Stefano ha assicurato essere state concesse dal Comune di Roma. Da dove arriva l’energia elettrica? Già in passato, subito dopo l’occupazione del palazzo all’Esquilino, Casapound era stata oggetto di una denuncia per un presunto allaccio abusivo: “Il 14 gennaio 2004 il Ministero ha richiesto all’Acea e alla Telecom la disattivazione delle utenze - aveva spiegato a L’Espresso il Miur lo scorso febbraio - e il 2 marzo 2004 è stata sporta formale denuncia–querela alle autorità di polizia giudiziaria per segnalare la presenza di presunti allacci abusivi alle forniture di energia elettrica, che seguiva due richieste di intervento del Ministero al fornitore Acea il quale è, quindi, intervenuto per disattivare allacci abusivi”. Il giallo sulla luce di Casapound poteva essere risolto dall’ispezione del Nucleo tutela spesa pubblica della Guardia di finanza. Su delega della Procura della Corte dei Conti del Lazio, le Fiamme gialle hanno tentato una prima volta il 22 ottobre scorso di entrare nell’edificio pubblico occupato da Casapound per “acquisire elementi informativi e fonti di prova utili alle indagini in corso - si legge nel decreto di accertamento diretto - rilevando lo stato dei luoghi e individuando esattamente gli immobili occupati e la loro specifica destinazione”. Un vero e proprio atto di indagine disposto in base all’articolo 61 del Codice di giustizia contabile, per stabilire se i locali occupati fossero adibiti a “uffici, sedi di associazioni o gruppi politici, abitazioni private”. Ma a bloccare quell’accertamento della Finanza è stato un “un atteggiamento molto duro di chiusura”, come ha spiegato la Procura contabile. D’altra parte, come ha ammesso Di Stefano, “in quattordici anni non è mai venuto nessuno” per controllare. L’isola della tartaruga frecciata continua a godere di una sorta di extraterritorialità. L’ispezione è poi avvenuta il 26 ottobre, ma si è limitata a constatare lo stato dei luoghi, senza nessuna verifica sulle utenze che non rientrava nel mandato stretto della Corte dei Conti.

La caccia ai soldi di Casapound. L’atto di pignoramento presso terzi per le bollette non pagate da Casapound, per una cifra complessiva di 330 mila euro (il debito aumentato della metà, come previsto dal codice di procedura civile), è stato emesso lo scorso 14 settembre, su richiesta dei legali di Acea, dal Tribunale di Roma. Il tentativo degli avvocati è quello di intercettare crediti che Casapound avrebbe nei confronti di enti pubblici e società, affinché vengano girati direttamente alla società romana dell’energia. Come a dire: se qualcuno deve dei soldi a Casapound, li dia a noi. Nella lista dei soggetti di cui “Casapound risulta essere creditrice”, figurano due istituti bancari (uno a Milano e uno a Roma), la cooperativa Isola delle tartarughe - ovvero il soggetto che raccoglie per conto di Casapound il 5 per mille - e diciassette Comuni in giro per l’Italia, da Bolzano a Isernia. In molti Comuni citati nell’elenco del Tribunale civile di Roma vi erano consiglieri comunali eletti nelle liste del partito di Gianluca Iannone. I legali della società romana puntavano ad incassare probabilmente anche i gettoni di presenza eventualmente ancora non versati. Gli atti a favore di Acea erano già stati dichiarati esecutivi e muniti delle relative formule nel corso del 2017, ma la procedura per il recupero dei soldi è partita solo nel giugno scorso, notificata anche al presidente di Casapound, Gianluca Iannone. Anche lui residente, come risulta dall’atto di notifica, nel palazzo occupato.

I camerati abusivi di CasaPound: parenti e amici vivono gratis nel centro di Roma. Il Grand Hotel dei neofascisti: Iannone ha messo lì la moglie. Di Stefano il fratello. Emergenza abitativa risolta. Sì, ma per i propri cari.  Andrea Palladino ed Andrea Tornago l'1 marzo 2018 su L'Espresso. Grand Hotel CasaPound. Nel cuore della capitale, con vista sulle cupole della basilica di Santa Maria Maggiore, la stazione Termini dietro l’angolo. Loro, i fascisti del terzo millennio che puntano a portare “guerrieri” in Parlamento, la chiamano «ambasciata d’Italia nel quartiere multietnico della capitale». Ma il palazzo sede ufficiale di CasaPound è un edificio pubblico occupato senza titolo dal 27 dicembre 2003. In più di quattordici anni neanche un tentativo di sgombero. E non si tratta di un appartamentino popolare in uno dei quartieri periferici, là dove il partito di Simone Di Stefano punta a raccogliere consensi alle prossime elezioni. Si tratta invece di sessanta vani, almeno una ventina di appartamenti in una zona dove i prezzi di mercato sono tra i più alti di Roma. Sei piani, una quarantina di finestre con affaccio sulla centralissima via Napoleone III, una terrazza con vista mozzafiato. Una sala per gli incontri politici all’ultimo piano dove ospitare presentazione di libri, conferenze stampa e confronti in diretta streaming con le star del giornalismo. Il Grand Hotel dei neofascisti non ha prezzi popolari. «Un appartamento normale per una famiglia con due camere da letto in via Napoleone III? Non meno di 1.100 euro al mese», spiega all’Espresso una agenzia immobiliare di piazza Vittorio. Un valore sul mercato degli affitti di circa 25 mila euro al mese - includendo anche gli spazi per le iniziative politiche - 300 mila all’anno, più di quattro milioni nei 14 anni di occupazione abusiva. Soldi che ha perso il Demanio, ovvero lo Stato, proprietario dell’immobile. Il Comune di Roma nel 2007 aveva inserito il palazzo in una lista di occupazioni da parte di famiglie in emergenza abitativa. Nell’aprile del 2016 il commissario straordinario Francesco Tronca aveva compilato una shortlist di 16 immobili da sgomberare, rispetto ai quasi cento edifici occupati abusivamente nella capitale. La sede di CasaPound, però, era inclusa in una più ampia lista, non interessata in quel momento da operazioni di sgombero. La decisione su questi altri immobili era rinviata a «successivi provvedimenti». Da allora nulla è accaduto, qui. Invece gli etiopi e gli eritrei che occupavano via Curtatone - poco distante - sono stati cacciati via manu militari la scorsa estate, lasciando in strada famiglie con bambini e anziani. Per la felicità di Simone Di Stefano, che lo scorso agosto dichiarò: «Giusto sgomberarli». Per gli abusivi di CasaPound i parametri però sono altri. Il Comune di Roma non ha fatto nulla: «Non è mai stato realizzato un censimento delle famiglie che abitano in via Napoleone III», spiegano gli uffici capitolini, che aggiungono: «Nessuno ce lo ha richiesto». Censire le famiglie, individuando le fragilità sociali, è l’atto che normalmente la Prefettura chiede prima di liberare un edificio occupato. Passaggio necessario, soprattutto dopo l’ultima circolare del Ministero dell’Interno che impone ai Comuni di trovare soluzioni abitative per le famiglie obbligate a lasciare uno stabile occupato. Ma nel caso di CasaPound nessuno sa chi vive nell’edificio nel quartiere dell’Esquilino. E nessuno sa se qui abbiano preso casa famiglie veramente in stato di bisogno. Quell’edificio è un’isola abusiva di fatto sconosciuta, mai censita. Invisibile, tanto da essere stata curiosamente esclusa, nel 2010, dalla mappatura degli edifici occupati abusivamente compilata dalla Commissione sicurezza di Roma Capitale, all’epoca della giunta guidata da Gianni Alemanno. Abusivi, ma “per necessità”, sostengono da sempre i militanti della tartaruga frecciata. È così? All’Espresso risultano residenti nel palazzo occupato i vertici nazionali dell’organizzazione di estrema destra. A partire dal candidato premier Simone Di Stefano, che al momento della presentazione delle liste per le politiche del 2013 ha dichiarato come residenza anagrafica proprio via Napoleone III, civico 8. C’è poi la moglie del presidente Gianluca Iannone, Maria Bambina Crognale, che alla Camera di Commercio nel 2014 aveva dichiarato quello stesso domicilio nelle schede delle società dove ancora oggi ha ruolo di rilievo. È una delle socie della catena di ristoranti “Angelino dal 1899”, con locali nella capitale, a pochi passi dal Colosseo, vicino alla stazione centrale di Milano, a Malaga e a Lima, in Perù. Un piccolo impero della ristorazione. E, ancora, tanti altri volti noti dell’estremismo di destra romano, infilati nelle liste elettorali durante le ultime elezioni comunali del 2016. Tutti in “emergenza abitativa”? Il Grand Hotel CasaPound è poi la sede amministrativa di cooperative e associazioni, parte integrante di quel network creato dal movimento politico nel corso degli anni. CasaPound è probabilmente la lista elettorale con più metri quadrati a disposizione nella capitale per l’attività politica. «CasaPound? È un’isola, non interagiscono con il quartiere», spiega un commerciante, che lavora all’Esquilino dal 1988. «Escono solo quando serve politicamente», aggiunge. Come a metà febbraio, quando in una trentina hanno organizzato una delle tante “passeggiate per la sicurezza”: una sfilata a uso e consumo di fotografi e operatori, con spintoni e insulti verso una ragazza che aveva provato a contestare il taglio xenofobo del sit-in. Una trentina di militanti, foto di rito nel centro dei giardinetti, un giro di piazza Vittorio e poi di nuovo chiusi nell’edificio di via Napoleone III. Poco prima, accanto ai rituali slogan anti migrazione, Davide Di Stefano - fratello del candidato premier che nel 2011 rivendicava con orgoglio: «Io abito qui». Gratis, in un edificio pubblico. Il palazzo di via Napoleone III non è solo un ottimo alloggio a costo zero per militanti e vertici del movimento. È diventato il vero simbolo di CasaPound, un avamposto nel cuore della capitale. Quando, a fine gennaio, girò la voce di un possibile sgombero, Gianluca Iannone spiegò senza mezzi termini: «Sarebbe un atto di guerra. Ma se non altro vorrà dire che, in un’epoca ignobile come questa, anche noi avremo la possibilità di morire per un’idea». La scelta di mettere l’avamposto nazionale nel cuore del quartiere più multietnico di Roma ha sempre avuto un significato altamente politico per il movimento ultradestra. Il problema però è un altro: in questi quattordici anni nessuno ha affrontato seriamente la questione. Gli abusivi di CasaPound hanno potuto vivere e agire politicamente nel cuore della capitale senza mai pagare neanche un euro per gli spazi e senza che nessuno bussasse alla loro porta per chiedere il conto. Dopo l’occupazione del 27 dicembre 2003 il Miur - il dicastero che ha in carico l’edificio - ha presentato una denuncia informando il Prefetto e l’avvocatura dello Stato, chiedendo lo sgombero. Pochi mesi dopo, però, nel maggio del 2004, viale Trastevere ha comunicato all’Agenzia del Demanio di voler riconsegnare il palazzo “per cessate esigenze istituzionali”: richiesta respinta proprio per via dell’occupazione abusiva di CasaPound. Da allora, spiegano all’Espresso gli uffici del Miur, «il ministero non ha intrapreso azioni per rientrare in possesso dell’immobile», salvo sollecitare nel 2008 «le autorità competenti in merito alla denuncia, richiedendo ancora una volta lo sgombero». Atti che - a quanto sembra - non hanno avuto conseguenze, tanto che oggi la Prefettura di Roma segnala che «non ci sono provvedimenti dell’autorità giudiziaria» sull’immobile. Nel frattempo i militanti di destra sono diventati padroni incontrastati dello stabile. Gli ex uffici si sono trasformati in appartamenti, con l’installazione di telecamere di videosorveglianza all’ingresso. Sulla facciata del palazzo è comparsa l’enorme scritta in pietra - abusiva anche quella - in stile ventennio: “CasaPound”. Demanio e Ministero dell’Istruzione oggi si rimpallano le responsabilità: l’agenzia che gestisce gli immobili dello Stato sottolinea di aver chiesto al Miur di adoperarsi contro l’occupazione abusiva. Il Miur, dal canto suo, sostiene di non avere più in carico il bene e che il palazzo è «rientrato nella sfera di competenza dell’Agenzia del Demanio». La situazione sembrava potersi sbloccare nel 2009, ma non nella direzione sperata. Un anno dopo l’elezione a sindaco di Gianni Alemanno, il Demanio accetta di inserire il bene in un protocollo d’intesa col Comune di Roma, con l’intenzione di cederlo al Campidoglio per 11 milioni e 800 mila euro. L’operazione viene inserita con discrezione in un pacchetto di permute di immobili, ex caserme e terreni demaniali. Ma non passa inosservata. L’opposizione di sinistra già vede il palazzo, una volta acquistato da Alemanno, concesso in comodato d’uso ai neofascisti. Così l’accordo salta tra le polemiche e tutto resta come prima. Intanto i solleciti inviati dal ministero in Prefettura e ai carabinieri sono sempre rimasti lettera morta. Ma l’aura di intoccabilità della sede di CasaPound non finisce qui. Le utenze di acqua e luce, ad esempio, sono attive nonostante il decreto Lupi del 2014 richieda l’esistenza di un titolo abitativo valido per l’allaccio delle utenze. Nel 2004 vi fu un primo distacco, per disattivare le vecchie utenze Acea e Telecom intestate al ministero. Il 10 febbraio del 2016 la Polizia di Stato ha fornito il supporto per il taglio delle forniture, poi però misteriosamente riallacciate. Acea - società partecipata al 51 per cento dal Comune di Roma - non vuole commentare la questione trincerandosi dietro alla privacy: «Alla luce dei vincoli di riservatezza gravanti sull’Azienda non è consentito fornire informazioni circa la titolarità e lo stato di specifiche posizioni», è la burocratica risposta. Impossibile, dunque, sapere a chi siano intestate oggi le utenze. E chi le paga, se qualcuno le paga. Nessun soggetto istituzionale ha mai predisposto una stima del danno erariale causato dall’occupazione del palazzo di via Napoleone III. E tra gli sgomberi che le autorità hanno in programma nella capitale, su quello di CasaPound resta sempre il timbro “non prioritario”. 

Fare l'elemosina con i soldi degli altri. Lanuovabq.it 13-05-2019. Il gesto dell'elemosiniere del Papa, il cardinale Krajevski, che ha riallacciato l'energia elettrica in un condominio occupato, fa ovviamente discutere, ma soprattutto solleva una domanda su quali possano essere gli atti illegali ma legittimi. E dopo aver visto ieri l’«esproprio clericale», qual è il prossimo passo che ci dobbiamo aspettare? La costituzione del Collettivo del Cortile di San Damaso? Le manifestazioni di Avanguardia Vaticana? I blitz a sorpresa degli Indiani metrovaticani? Perché è certo che, nella logica di aprire i processi, qualche altro passaggio seguirà. Il clamoroso gesto di sabato sera compiuto dall’elemosiniere del Papa, il cardinale polacco Konrad Krajewski, che ha rotto i sigilli ai contatori per ripristinare la corrente in un condominio abusivo occupato da 450 persone, in effetti non sembra avere precedenti. «Il cardinale – così Repubblica riporta la testimonianza degli occupanti dello stabile - è arrivato nel pomeriggio, ha portato regali a tutti i bambini e ha promesso che se entro le 20 non fosse stata ripristinata la corrente nello stabile l'avrebbe riallacciata lui stesso. E così è stato. Padre Konrad si è calato nel pozzo, ha staccato i sigilli e ha riacceso la luce. E si è preso, a nome del Vaticano, la piena responsabilità dell'azione con Prefettura e Acea». Le cronache riferiscono anche che nel condominio la corrente era staccata dal 6 maggio, a causa di un debito pari a 300mila euro, e che il cardinale Krajewski conoscesse bene la situazione per via di una suora laica che opera all’interno dello stabile. Quindi l’elemosiniere del Papa avrà certamente saputo anche che quel condominio di sette piani, in via di Santa Croce in Gerusalemme, ex sede Inpdap, è occupato abusivamente dal 2013 e gestito da una sorta di Centro sociale, l’associazione Action-Diritti in movimento, protagonista in questi anni di diverse azioni politiche violente (qui un videoservizio de Il Giornale che racconta la vita di questo condominio). Dunque una situazione di grave illegalità, come purtroppo ce ne sono molte altre a Roma, dove cambiano le giunte ma nessuno mette mano all’emergenza abitativa. E quello dell’ex Inpdap è anche un centro di “rieducazione ideologica”, un piccolo Stato autonomo in lotta contro lo Stato italiano. In questo contesto va inserita l’azione del porporato, che ha pensato bene di lanciarsi in una operazione stile collettivi anni ’70. Verrebbe fin troppo facile dire che, se il Vaticano proprio ci teneva, poteva pagare lui la bolletta di 300mila euro; o che è facile fare l’elemosina con i soldi degli altri; o che il Vaticano avrebbe tutte le possibilità di risolvere i problemi abitativi a Roma potendo contare su un immenso patrimonio immobiliare nella capitale (quil’articolo nel blog di Marco Tosatti che ne propone un censimento). Krajewski ha invece vestito i panni dell’eroe, dichiarandosi poi pronto a pagare di persona per il suo gesto illegale. In realtà qui c’è ben più che un semplice atto illegale, c’è il ministro di uno Stato estero che commette un reato in territorio italiano. Ci sono tutti gli estremi di un incidente diplomatico tra Santa Sede e Italia: cosa succederebbe se domani un ministro francese arrivasse a Torino e cominciasse a taglieggiare i supermercati per portare aiuti alimentari nei centri per gli immigrati? Soltanto la buona stampa di cui gode papa Francesco e la connivenza di alcuni partiti e poteri forti con situazioni di illegalità come quella degli edifici occupati e dell’immigrazione clandestina, potrà impedire uno scontro senza precedenti. Per i cattolici però conta molto di più la valutazione dell’atto compiuto dal cardinale Krajewski, ammesso e non concesso che rientri tra i compiti di un cardinale quello di compiere tali azioni di ribellione civile. Diverse sono le domande che il fatto pone, ma siamo stati colpiti soprattutto dalla giustificazione che abbiamo letto sul sito para-vaticano “Il Sismografo”: «non ogni atto illegale è illegittimo», forse una versione laica del più cristiano «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini», che troviamo negli Atti degli Apostoli e che la liturgia ci ha riproposto qualche giorno fa. Ma quando Pietro e Giovanni rispondono così «ai capi, agli anziani e agli scribi», si riferiscono alla urgenza e necessità di annunciare Gesù risorto: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati». Non sembra proprio questo lo spirito con cui sentiamo tanto parlare di poveri e migranti, figurarsi l’azione di rompere i sigilli posti dall’Acea. Ritorna quindi la domanda: qual è il confine della legittimità che mi permette di compiere un’azione illegale? Salvare la vita di una persona in pericolo, sicuramente. Ma possiamo considerare l’assenza di energia elettrica, peraltro in un contesto di totale illegalità tollerata da anni, un rischio immediato per la vita delle persone? È un po’ arduo sostenerlo. Perché allora chiunque sia in stato di bisogno a questo punto può reclamare il diritto di prendersi anche con le cattive ciò di cui necessita. Perché un pensionato con la minima non dovrebbe avere un uguale diritto di rubare al supermercato beni di prima necessità? O farsi consegnare gratuitamente dal farmacista le medicine per curarsi? Perché un disoccupato con famiglia a carico non dovrebbe avere diritto di saccheggiare i grandi magazzini? E via di questo passo. Nella storia della Chiesa sono tanti i santi della carità, che hanno dovuto fare i conti con realtà gravemente ingiuste, soccorrere tante povertà, sollevare persone dalla miseria, eppure mai si è sentito di una Madre Teresa di Calcutta fare degli espropri proletari; di un san Giovanni Bosco rubare nei negozi specializzati per offrire ai suoi ragazzi strumenti di lavoro; o di un san Vincenzo de’ Paoli truffare per poter dare da mangiare ai suoi poveri. E poi sentirsi anche eroi. Nessuno dei santi ha vestito i panni del giustiziere, piuttosto tutti si sono affidati alla Provvidenza. Certo, bisognerebbe crederci. Una spiegazione alternativa è che invece il cardinale Krajewski sia vittima di tesi teologiche avventurose. Ricordo molti anni fa che sui muri esterni della mensa universitaria di Perugia campeggiava una grossa scritta in vernice rossa, un misto tra cultura religiosa e rivendicazione: «Cristo ha pagato per tutti: mensa gratis». Allora sembrava una battuta, in Vaticano la stanno facendo diventare una scuola di pensiero.

Da Ansa il 14 maggio 2019. "Da questo momento, da quando è stato riattaccato il contatore, pago io, non c'è problema. Anzi, pagherò anche le sue, di bollette". Il cardinale Konrad Krajewski, che ha riportato l'elettricità in uno stabile occupato a Roma, risponde così al vicepremier Matteo Salvini, che lo ha esortato a pagare i 300mila euro di bollette arretrate dello stabile. "Non voglio che diventi una cosa politica", dice l'elemosiniere del Papa in un'intervista al Corriere della Sera. "Io faccio l'elemosiniere e mi preoccupo dei poveri, di quelle famiglie, dei bambini. Intanto, hanno luce e acqua calda, finalmente. Adesso tutto dipende dal Comune, aspettiamo che riaprano gli uffici". "Mi assumo tutta la responsabilità. E non devo dare spiegazioni, c'è poco da darne", afferma Krajewski. "Ci ricordiamo cosa accadde l'ultima volta che ci fu un blackout a Roma? Mancò la luce per poche ore e fu un dramma. Ecco, adesso s'immagini cosa può significare restare senza luce per sei giorni. Ci sono quasi cinquecento persone, in quel palazzo, un centinaio di bambini. Conosco la situazione da tanto tempo. Dal Vaticano mandavamo l'ambulanza, i medici, i viveri. Stiamo parlando di vite umane". "Questo non è certo l'unico caso", prosegue il cardinale. "Sgomberi, famiglie che non hanno un posto dove andare, gente che fatica a sopravvivere. Roma è anche questo, basta andare a farsi un giro nelle nostre stazioni. Dove sono finiti i diritti umani dell'Europa? Se qualcuno non capisce questo, provi a staccare la corrente a casa sua per qualche ora e vedrà che cosa vuole dire". Areti, la società di Acea che gestisce la rete di distribuzione a Roma, secondo quanto si apprende ha presentato l'esposto contro ignoti alle forze dell'ordine per l'allaccio effettuato da cardinale Konrad Krajewski nello stabile occupato da Spin Time. L'atto, come spiegano le fonti, è dovuto perché l'allaccio è abusivo e, sostanzialmente, il reato che si prefigura è quello di furto di energia. In attesa di decisioni, sottolineano le fonti, sarebbe fondamentale rientrare nello stabile per mettere in sicurezza la cabina. Ma il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è contro l'iniziativa: "C'è un piano di sgomberi in tutta Italia che le prefetture stanno già portando avanti perché la proprietà privata è sacra a prescindere da quello che fa questo o quel cardinale. Quel palazzo - continua - mi risulta essere di proprietà dell'Inps, che si occupa di pensionati. Sostenere l'irregolarità non è mai un buon segnale - prosegue Salvini - e visto che ci sono tanti italiani ed anche immigrati regolari che, anche se con difficoltà, le bollette le pagano... ognuno fa quello che vuole, io da ministro dell'Interno garantisco le regole. Se in Vaticano vogliono pagare le bollette a tutti gli italiani in difficoltà - ha aggiunto - ci diano un conto corrente". Il contratto che regolava la fornitura di energia elettrica nello stabile occupato era "di salvaguardia", ma nessuno, finora, aveva mai pagato le bollette. Il contratto di salvaguardia, come spiegano fonti di Hera Comm, la società emiliana attiva sul mercato libero anche a Roma e titolare del contratto intestato all'immobiliare proprietaria del palazzo, è un servizio che permette ai clienti che si trovano senza un fornitore di energia elettrica a mercato libero di continuare a ricevere la fornitura, purché regolari nel pagamento delle bollette. Questi contratti vengono aggiudicati dopo una gara pubblica ed Hera Comm era risultata aggiudicataria della gara per il servizio di salvaguardia elettrica nella regione Lazio. Dal momento dell'attivazione della fornitura, tuttavia, nessuno dello stabile Spin Time ha pagato le relative bollette. Per questo Hera ha ordinato ad Areti di interrompere la fornitura e la controllata di Acea ha eseguito, così come prevede la legge. Una settimana fa, al momento del distacco, Hera aveva annunciato che il servizio sarebbe stato ripristinato "quando le bollette saranno pagate". Adesso, quindi, a valle della manovra potenzialmente pericolosa se non effettuata da personale abilitato, l'elettricità arriva con un prelievo indebito ai danni della stessa Acea.

Paolo Rodari per “la Repubblica” il 14 maggio 2019. Si schermisce se gli si chiede un' intervista. Non ama la ribalta. Ma al telefono con Repubblica concede una battuta per spiegare il motivo della scelta di scendere in un tombino per staccare i sigilli ai contatori di un palazzo occupato di Roma: «Oggi è la domenica del buon pastore e il Papa, il vescovo di Roma, poteva non fare nulla?», chiede. E continua: «Nel cuore di Roma nessuno ha pensato a chi da sei giorni è senza corrente: siete mai stati senza? Non si può vivere. Eppure, ci sarebbe gente pagata per risolvere questi problemi. Nell' edificio ci sono bambini che stanno male, vivono anche grazie all' ausilio di macchinari. Come fanno ad andare avanti in queste condizioni? Bisognava fare qualcosa e io ho deciso di farlo, e non l' ho fatto di certo perché sono ubriaco». Konrad Krajewski, 55enne polacco, originario di ód, elemosiniere di Sua Santità per volere di Francesco dall' agosto del 2013 dopo un lungo servizio nel cerimoniale, il secondo più giovane cardinale del sacro collegio, ha preso sul serio l' incarico affidatogli. «La scrivania non fa per te, puoi venderla; non aspettare la gente che bussa, devi cercare i poveri», gli disse il Papa al momento della nomina. E lui, fin da subito, ha fatto come richiestogli. «Don Corrado», come lo chiamano tutti Oltretevere, gira di notte per le strade di Roma con un furgoncino carico di viveri, coperte, sacchi a pelo, ombrelli, insomma ogni genere di prima necessità, e li distribuisce ai senzatetto. Praticamente il suo compito è quello di vivere fuori dalle mura leonine, in soccorso di chi non nulla. In tanti, di mattina, bussano al suo ufficio. Chiedono aiuto e, insieme, gli portano richieste da parte di altre persone impossibilitate a muoversi. Quando lascia il suo ufficio, al cui esterno fa c' è una statua di Gesù a grandezza naturale rappresentato come un homeless disteso su una panchina, Krajewski lo fa con una Fiat Qubo. Molti senzatetto li incontra intorno a piazza San Pietro. Da quando Bergoglio è al soglio di Pietro, infatti, hanno diritto di dormire all' aperto anche sul territorio della Santa Sede, seppure l' elemosiniere abbia aperto loro un nuovo dormitorio. Per loro, Krajewski, ha predisposto anche una barberia e un servizio docce sotto il colonnato del Bernini. Qui, la sera, a molti è concesso aprire delle piccole tende, alloggi di fortuna con dei cartoni, a patto che di mattina ogni cosa sia smontata. «Anche per tutta l' estate - ha raccontato due anni fa Krajewski a Repubblica - i nostri servizi rimangono aperti. Così il presidio medico creato da volontari e i bagni pubblici. La gente ha bisogno ogni giorno dell' anno e in tutte le ore del giorno. Per questo non chiudiamo mai. Abbiamo già iniziato di domenica a portare i disabili e i poveri nello stabilimento balneare vicino a Polidoro. Di ritorno dal mare la giornata si chiude con una pizza tutti insieme. Sono cose semplici, ma concrete». Nel giugno del 2017, quando seppe dell' arrivo tramite i corridoi umanitari promossi da Sant' Egidio di una coppia siriana, Krajewski cedette l' appartamento che il Vaticano gli aveva concesso in quanto dipendente oltre le mura leonine. E si trasferì in ufficio, all' ultimo piano della piccola palazzina in dotazione all' elemosineria non distante da quella che ormai è la vecchia sede dell' Osservatore Romano. «È una cosa normale, nulla di eccezionale», raccontò allora. E incalzò: «Sono tanti i sacerdoti nel mondo che, non da oggi, si comportano così. La carità e la condivisione sono nel dna della Chiesa. A ognuno è chiesto qualcosa secondo il suo compito. Io non ho famiglia, sono un semplice sacerdote, offrire il mio appartamento non mi costa nulla». Krajewski, un passato da elettricista, divenne sacerdote a 25 anni dopo una laurea in teologia presso l' università di Lublino. Incrociò giovanissimo Giovanni Paolo II quando, non ancora sacerdote, organizzò la liturgia in occasione della visita del Papa a ód. Poco dopo, ordinato prete, venne chiamato a Roma nell' Ufficio per le celebrazioni liturgiche. Fu uno dei pochi ammessi nella camera di Wojtyla, che lui considerava già santo, al momento della morte. Poté vestirlo insieme a tre infermieri. Francesco lo trovò nel servizio liturgico una volta eletto Papa. E da lì lo dirottò a quello che è uno degli uffici più importanti della Curia romana.

Marco Antonellis per Dagospia il 14 maggio 2019. "Tutti i Cardinali godono in Italia degli onori dovuti ai Principi del sangue; quelli residenti in Roma, anche fuori della Citta' del Vaticano, sono a tutti gli effetti cittadini della medesima". Parole che dovranno essere tenute nella debita attenzione riguardo l'elemosiniere di Sua Santita' Konrad Krajewski, al centro dell'attenzione mediatica per il ripristino della corrente elettrica nello stabile occupato in Via di Santa Croce in Gerusalemme 55, all'Esquilino. Perché secondo illustri giuristi, in quanto "organo costituzionale della Chiesa" i cardinali godono delle immunità previste dal diritto internazionale. Con buona pace dell'esposto appena presentato. "Pagherò anche le bollette di Salvini", aveva detto ridendo il cardinale, spiegando che da quando s'è calato nel pozzetto per strappare i sigilli dei contatori bloccati dello stabile occupato di Roma per far tornare luce e gas bloccati per morosità, sarà lui a farsi carico delle spese per i servizi erogati: "L'ho fatto per i bambini, lì ce ne sono un centinaio. Io sono l'elemosiniere del Papa, mi occupo dei poveri, delle famiglie, che ora finalmente hanno luce e acqua calda". Un'altra tappa della guerra tra Vaticano e Matteo Salvini si è consumata attorno alla figura di questo amato cardinale polacco, appena 56 anni, il più giovane tra coloro che eleggeranno il prossimo Papa, arcivescovo dal 2013 nominato da Francesco e poi sempre da Francesco creato cardinale meno di un anno fa, nel concistoro del giugno 2018. Forse è la tappa più dura dell'ormai aperto conflitto tra Santa Sede e vicepremier leghista, che Dagospia sta raccontando nel suo dispiegarsi già da settimane, anticipando quella guerra che ormai è sotto gli occhi di tutti. Alla proposta irridente del cardinale Krajewski di pagare anche le bollette di Salvini, il vicepremier ha risposto piccato intervistato da Radio 24: "Io le mie bollette le pago da me, che il cardinale ora paghi quelle dello stabile occupato mi pare il minimo". A dieci giorni dalla fine della campagna elettorale, incassato il felpato ma netto no a qualsiasi incontro possibile anche solo casuale o istituzionale con Papa Francesco (un niet che permane dal giugno 2018, quando Salvini annunciò sui social un "imminente incontro" con Bergoglio e fu brutalmente smentito dal portavoce della Santa Sede), Salvini ha deciso di andare all'assalto per prendersi almeno tutti i voti degli antibergogliani. Così facendo però si è messo sulla lunghezza d'onda di Forza Nuova, che ha addirittura compiuto un blitz con tanto di striscione lungo dieci metri contro il Papa srotolato in via della Conciliazione e queste sintonie non piacciono ai cattolici, alcuni magari anche critici per l'eccessivo "progressismo" di Francesco, ma mai disposti a seguire i leader politici nel dileggio del Vicario di Cristo. Non è un caso che nella stessa trasmissione radiofonica in cui è intervenuto Salvini sia stato subito dopo intervistato Mario Adinolfi, che è di fatto ormai il politico a cui sono affidate le difese ufficiali del Papa, visto che i vescovi leali verso Bergoglio stanno orientando verso il suo Popolo della Famiglia il voto delle parrocchie. In pochi poi si sono accorti che nello smacco subito da Salvini a Gela, il comune più popoloso tra quelli che sono andati ai ballottaggi ieri, a fare l'ago della bilancia è stato proprio il Popolo della Famiglia, portato dalle parrocchie locali addirittura al 5,7%. Il candidato leghista ha perso il ballottaggio 52,5 a 47,5, con i cattobergogliani di Adinolfi dunque a dare i voti decisivi a Lucio Greco di Forza Italia contro il leghista Spata che si è fatto sostenere dal M5S. Prove di larghe intese antisalviniane, contro il governo in carica amato assai poco Oltretevere. A dieci giorni dalla fine della campagna elettorale la stizza di Salvini contro il Papa rischia di portarlo però a scelta sbagliate. L'attacco radiofonico del leader leghista al porporato più vicino in assoluto a Francesco rischia di essere un autogol. A Roma "padre Corrado", come tutti chiamano il cardinale elemosiniere del Papa, è noto e amatissimo dagli strati medio-bassi della popolazione per via dell'instancabile e visibile attività a favore di chi non ce la fa. Tutti i giorni con la sua Fiat Qubo porta generi di prima necessità nelle borgate, silenziosamente e senza cercare pubblicità sui giornali o in tv. Salvini rischia di passare come quello che difende lo stabile occupato di CasaPound, usa toni antibergogliani come quelli degli striscioni di Forza Nuova in via della Conciliazione, sputa veleno elettorale contro un uomo del Papa che i cittadini amano come un santo. Questo non fa bene alla campagna elettorale del leader leghista, dato in calo rispetto ai fasti di aprile da tutti i sondaggisti anche a causa di questo faticoso rapporto con i cattolici e la Santa Sede. Contro la quale, in Italia, mai nessuno è riuscito a governare. Questa è una lezione che il Truce, fino a qualche giorno fa in preda a un delirio di onnipotenza, può apprendere dalle magliette ironiche approvate da Francesco e in vendita nei negozi di souvenir che circondano piazza San Pietro che hanno su la scritta: ricordati che Dio c'è, ma non sei tu.

GESTO EVANGELICO O GESTO EVERSIVO? Valentina Errante e Fabio Rossi per il Messaggero il 14 maggio 2019. L' affondo è di Matteo Salvini: «Se in Vaticano vogliono pagare le bollette a tutti gli italiani in difficoltà ci diano un conto corrente - attacca il ministro dell' Interno - Sostenere l' irregolarità non è mai un buon segnale: la proprietà privata è sacra». Pietra della discordia è l' elemosiniere del Papa che riporta l' elettricità nell' edificio occupato a due passi da Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, infiammando lo scontro politico e legale. Gli occupanti lo difendono: sono pronti ad autodenunciarsi se «qualcuno dovesse prendersela col cardinale». E dalla parte del prelato si schiera anche la Comunità di Sant' Egidio: «Di solito chi attacca il Papa va a sbattere». Ma il leader leghista non arretra: «Ognuno fa quello che vuole, io da ministro dell' Interno garantisco le regole». Si è assunto tutta a responsabilità, sostenendo di essere intervenuto «perché 400 persone, tra cui 98 bambini, da cinque giorni erano abbandonate a se stesse». Ma a nutrire dubbi, sul fatto che l' elemosiniere del Papa abbia materialmente rimosso i sigilli e riacceso la luce nel palazzo Spin Time Labs è la stessa Areti, la società di Acea che gestisce la rete di distribuzione dell' energia elettrica. Gli inquirenti stabiliranno come siano andati i fatti e, soprattutto, chi abbia potuto aiutare il porporato che, tra l' altro, potrebbe godere di un' immunità personale perché, pur avendo agito fuori dal territorio Vaticano, il suo gesto potrebbe essere il frutto di una scelta maturata dentro le mura Leonine, dal momento che è considerato, per statuto, la longa mano del pontefice. Tutte circostanze che dovranno essere accertate, di certo i pm dovranno informare di ogni iniziativa la Segreteria di Stato Vaticana. L' esposto in procura, che, molto probabilmente, porterà all' apertura di un fascicolo per danneggiamento e furto di energia elettrica, però, non riguarda soltanto la violazione dei sigilli, quanto piuttosto il fatto che l' intervento nella cabina a media tensione non sia avvenuto seguendo le procedure di sicurezza e che, adesso, i 400 occupanti possano trovarsi in una situazione di pericolo rispetto alla quale, ovviamente, la società declina ogni responsabilità. È lo stesso esposto di Areti a chiarire che l' intervento di riattivazione della corrente nel palazzo prevede competenze molto specifiche e che non si tratta della semplice rimozione di sigilli. Proprio per questo sembra difficile che il cardinale, che ha lasciato sul contatore il suo biglietto da visita, possa effettivamente essere sceso nella cabina a media tensione ed avere eseguito le manovre per far ripartire la fornitura di energia elettrica. Toccherà ai pm stabilire chi l' abbia aiutato, anche se non sarà facile sulla base delle testimonianze, dal momento che gli occupanti hanno già dichiarato che intendono autodenunciarsi in massa. L' alto prelato potrebbe comunque essere chiamato a risarcire il danno, o quantomeno a pagare la fornitura di energia, dal momento della riattivazione a quando l' erogazione sarà di nuovo interrotta, ma ha già dichiarato di essere pronto a farlo e a pagare di tasca propria. A preoccupare la società che ha presentato l' esposto contro ignoti è soprattutto il fatto che possa verificarsi un incidente nello stabile occupato. Nessuno sa quali procedure siano state eseguite nella cabina a media tensione ma, di certo, sostiene Areti non sono stati rispettati e controllati gli standard di sicurezza. Anche questo elemento è stato sottolineato nel documento destinato alla procura affinché la magistratura prenda atto di una situazione di pericolo rispetto alla quale la società prende le distanze.

Franca Giansoldati per il Messaggero il 14 maggio 2019. Gesto evangelico o gesto eversivo? Una mossa dettata dal nobile intento di portare sollievo a persone in sofferenza (benché in un quadro di totale illegalità), oppure una nuova linea operativa che si sta aprendo nella Chiesa di Papa Francesco? Un passo in avanti orientato ad intervenire dove è in atto una crisi umanitaria irrisolta, scavalcando le strutture istituzionali esistenti, ignorando le conseguenze politiche, i limiti normativi e persino le opportunità legate ai ruoli. Il dilemma aleggiava, a vari livelli, nei palazzi d' Oltretevere, dopo il clamoroso blitz del cardinale Krajewski che ha riportato la corrente elettrica in uno stabile occupato illegalmente dove erano al buio da alcuni giorni diverse realtà e anche famiglie con bambini. Ieri mattina il Papa ha presenziato alla riunione periodica dei capi dei dicasteri di curia e ha voluto che partecipasse per la prima volta anche Krajewski, visto che a breve lo promuoverà a capo del nuovo dicastero della carità. Alla riunione, però, il grave incidente diplomatico (che potrebbe avere pesanti conseguenze sui rapporti con l' Italia), non è stato affatto menzionato. Anzi, durante l' incontro Krajewski ha pure fatto qualche battuta scherzosa in merito. «Adesso faccio pure l' elettricista». Nessuno ha sollevato obiezioni ma del resto non è nello stile della curia. Solo al termine di un lungo intervento in cui Krajewski ha affermato che in Vaticano ci sono aree che sfuggono ai controlli e che potrebbero nascondere tra le pieghe epicentri di corruzione, ha preso la parola il cardinale Bertello per contestargli una lettura frettolosa. Il clima improvvisamente si è fatto un po' teso. «Lei dice un sacco di castronerie». Il Papa è rimasto in silenzio, prendendo appunti, ascoltando, come è sua abitudine in queste circostanze, senza lasciarsi sfuggire nulla. Difficile, del resto, aprire una discussione sul problema aperto da Krajewski e sul dilemma etico e giuridico che ha posto sul tavolo il giovane cardinale polacco, una figura che gode della totale fiducia del pontefice, al quale ha dato carta bianca sul tema della carità a Roma. Pieno sostegno. Come del resto ha spiegato al Laterano, solo alcuni giorni fa, il Papa davanti ai parroci della capitale, proprio a difesa e sostegno del lavoro umanitario della Elemosineria, una struttura che da marginale quale era in precedenza, è diventata fondamentale. In basilica pur avendo definito Krajewski un «diavoletto» per il suo fare un po' anarchico, Francesco lo ha lodato per la sensibilità verso i poveri, la categoria che il Papa vuole diventi centrale nella nuova evangelizzazione della Capitale. Un po' quello che ha fatto intendere anche due mesi fa quando è andato in Campidoglio, accettando l' invito di Virginia Raggi, dandole un inedito assist proprio mentre la sua giunta traballava pericolosamente per via delle dimissioni di De Vito. Del resto, un sindaco debole non può che favorire i progetti di Oltretevere nei riguardi della Capitale. E in quella occasione il Papa ha dimostrato di osservare un orizzonte capitolino simile a quello della Sindaca, almeno per quanto riguarda l' attenzione alle periferie, ai poveri, ai migranti, e contro gli sgomberi nei campi nomadi. E non è proprio un caso se giusto all' indomani della cacciata della Raggi tra gli insulti da Casal Bruciato per aver visitato la famiglia rom assegnataria di una casa contestata, il Papa ha poi invitato quella stessa famiglia in Vaticano per una udienza, mettendo in guardia i romani dalla deriva xenofoba, razzista che si intravede. Agli stessi parroci ha consigliato di tenere gli occhi ben aperti. In questo ampio quadro si inserisce perfettamente l' azione umanitaria e politica di Krajewski che con il suo raid ha dato una spinta alle istituzioni per una rapida soluzione al problema abitativo. Ora si aprirà un tavolo. Al netto delle conseguenze diplomatiche ancora tutte da stabilire a livello bilaterale, il braccio destro del Papa continuerà ancora per conto di Francesco a girare in lungo e in largo con la sua utilitaria a fare carità ai poveri. Resta ora da capire se davvero l' Elemosineria staccherà l' assegno per pagare i 300 mila euro di arretrati dovuti all' Acea. Curioso che un po' di tempo fa sull' Avvenire è stato pubblicato un articolo i vescovi lamentavano la beffa della bolletta, visto che gli oneri del sistema non saldati finiscono nelle bollette dei consumatori in regola dopo che una serie di sentenze che hanno cambiato il quadro normativo. Le bollette finora inevase ammontano, in tutta Italia, a circa 200 milioni di euro.

Difficile che il Papa però voglia rischiare di pagare gli arretrati a tutti gli italiani poveri e morosi. Andrea Indini 13 maggio 2019 su Il Giornale. Il cardinale spegne la legalità. La sinistra ha già trovato il suo nuovo idolo. Lo hanno ribattezzato “Robin Hood”. È l’elemosiniere di papa Francesco, il cardinale Konrad Krajewski. Da poco tornato da Lesbo, dove per conto di Bergoglio ha portato 100mila euro di aiuti ai profughi, si è fatto paladino di 500 abusivi e ha riacceso la luce staccando, con le proprie mani, i sigilli del contatore in una palazzina occupata di Roma. Una mossa che avvalla l’illegalità creando un pericoloso precedente. “È stato un gesto disperato”. Il cardinale Krajewski dice di averlo fatto per i cento bambini che abitano nello stabile di via di Santa Croce in Gerusalemme. Quello su cui, però, il prelato sorvola è che gli occupanti hanno 300mila euro di debiti. Li hanno contratti nel tempo, non pagando mai la bolletta della corrente elettrica. Eppure, come fa notare il Messaggero, quel posto è diventato un vero e proprio business. Oltre alla falegnameria e al cinema, si contano una trattoria, una birreria e un discoteca. I soldi entrano in continuazione. Non si sa quanti, perché non vengono staccati scontrini. Né si sa che fine facciano tutti i proventi. Di sicuro non vengono usati per pagare la luce. Tanto che una settimana fa i tecnici gli hanno messo i sigilli al contatore. C’è un terzomondismo dilagante che prende sempre più piede tra le varie sigle all’ombra di San Pietro. È il solco tracciato da Bergoglio che sta mettendo al centro del proprio papato un’instancabile opera a sostegno degli immigrati e, più in generale, degli ultimi. “Dai migranti all’emergenza abitativa – spiega l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita – il Papa applica la lezione del Concilio e fonda il proprio Magistero economico sulla scelta prioritaria per i poveri dell’episcopato latino-americano”. In Vaticano il “gesto d’impeto” del cardinale Krajewsni non è stato stigmatizzato. Anzi, lo hanno considerato un “gesto di umanità”, senza vedere i rischi che questo comporta. “Pagherò quelle bollette”, ha assicurato. Ma la sua promessa è uno schiaffo a tutti quei cittadini che, pur non riuscendo ad arrivare a fine mese, non occupano gli appartamenti. Per la sinistra, che è sempre pronta a scaricare il Vaticano quando gli fa più comodo, è già diventato un’icona: il “Robin Hood” in tonaca, appunto. Forti del gesto dell’elemosiniere, gli occupanti, quando è arrivata la polizia per rimettere i sigilli al contatore, hanno creato una barriera umana per opporsi fisicamente. L’illegalità contro lo Stato. Negli ultimi due anni, secondo uno dei dirigenti di Action, sono stati occupati, più o meno, una sessantina di stabili solo a Roma. In troppi casi Giunte di sinistra hanno avvallato l’illegalità, lasciando impuniti gli abusivi troppo a lungo. Se ad appoggiarli ci si mette ora anche il Vaticano, sarà presto il caos.

Immunità, regia papale, aiuti: il giallo sul blitz del cardinale. I dubbi su Krajewskj: ha fatto davvero tutto da solo? Spunta l'ipotesi di un complice. E il prelato gode di una immunità. Angelo Scarano, Martedì 14/05/2019, su Il Giornale. Il caso del blitz del cardinale Konrad Krajewskj finisce in procura. Quella luce riattivata in uno stabile occupato da abusivi a Roma potrebbe avere conseguenze anche dal punto di vista legale. Sotto accusa di certo resta il cardinale che si è intestato la paternità del gesto affermando che "400 persone, tra cui 98 bambini, da cinque giorni erano abbandonate a se stesse". Gli inquirenti adesso però dovranno ricostruire come sono andate davvero le cose. Ed è qui che sorge un sospetto: il cardinale ha fatto davvero tutto da solo? Secondo quanto riporta il Messaggero, con Krajewskj probabilmente c'erano altre persone. Ad avanzare qualche perplessità sulla dinamica dei fatti è la stessa Areti, la società di Acea che ha in gestione la rete dell'energia elettrica. Pare poco credibile che l'elemosiniere del pontefice possa aver rimosso i sigilli e riacceso la luce nel palazzo Spin Time Labs da solo. Sarà l'inchiesta ad accertare le responsabilità del cardinale e a rilevare la presenza di presunti complici. Intanto sul piano legale il cardinale potrebbe "salvarsi". Il tutto grazie ad una immunità diplomatica. Il suo gesto è avvenuto fuori dalle mura del Vaticano, ma la decisione di agire potrebbe essere stata presa proprio dentro Città del Vaticano. Inoltre per statuto l'elemosiniere è a tutti gli effetti la "longa mano" di Papa Francesco. L'esposto in procura quasi certamente darà il via all'apertura del fascicolo. Il fascicolo molto probabilmente verrà aperto per danneggiamento e furto di energia elettrica. Inoltre in questa vicenda c'è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: il cardinale avrebbe ignorato e violato tutte le procedure di sicurezza mettendo in pericolo i 400 occupanti. La stessa Areti infatti fa sapere che un blitz come quello di qualche giorno fa può essere messo in atto solo con "competenze specifiche". E sui rischi che corrono gli occupanti la stessa società ha declinato ogni responsabilità.

Vaticano: 3 milioni e mezzo di euro spesi per le bollette dei poveri. Tanto ha versato nel 2018 l'elemosiniere del Papa, Krajewski, che l'altro giorno ha riattaccato la luce in uno stabile occupato a Roma. La solidarietà dei francescani: "Se è illegale quello che ha fatto compiendo un gesto di umanità, allora arrestateci tutti”. Paolo Rodari il 15 maggio 2019 su La Repubblica. Tre milioni e mezzo di euro. A tanto, secondo quanto apprende Repubblica, ammonta la spesa che l’elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, ha sostenuto nel 2018 per pagare le bollette della luce, del gas, della spazzatura, e diverse rate per spese varie sempre inerenti la gestione di case, che singole persone e famiglie, molte italiane, non sono riuscite a sostenere in tutto il Paese. Il dato, che filtra dal Vaticano in un momento in cui la stessa comunità ecclesiale si divide sul gesto di «don Corrado» di riattaccare la luce in uno stabile occupato di Roma, è sostanzialmente il medesimo degli anni passati. Krajewski ha attinto dalle offerte che diversi benefattori inviano per questo scopo al Papa e alla stessa elemosineria, ed anche dalla rendita, significativa, che il dicastero vaticano ha con l’invio a chi ne fa richiesta di benedizioni apostoliche attraverso delle pergamene. Molti soldi vengono inviati in tutta Italia su richiesta delle diocesi che non riescono da sole a far fronte alle esigenze di diversi indigenti. Ieri il cardinale Pietro Parolin ha difeso l’elemosiniere dicendo che col suo gesto ha voluto «attirare l’attenzione su un problema reale». Il segretario di Stato ha anche replicato al ministro Salvini, commentando quanto detto dal titolare del Viminale, che aveva invitato la Santa Sede a pagare le bollette degli italiani in difficoltà: “La Chiesa lo fa già: aiuta tutti”, ha detto. Krajewski ha confidato di aver agito d’istinto, anche dopo aver visto un bambino del palazzo che necessita per vivere dell’ausilio di un apparecchio che si alimenta a corrente. Nei giorni precedenti, fra l’altro, aveva visitato, uscendone particolarmente provato, i profughi di Lesbo, inviato dal Papa per rinnovare la vicinanza ai rifugiati ospitati nei campi di accoglienza. “Davanti a situazioni di pericolo per una persona non c’è legge che tenga”, ha invece affermato Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma da poco nominato a Siena. Anche i francescani di Assisi hanno fatto quadrato attorno all’elemosiniere. Padre Enzo Fortunato, direttore della Sala stampa del Sacro Convento di Assisi, interpellato a margine della presentazione dell’evento voluto dal Papa che per marzo prossimo ha radunato nella cittadella umbra gli economisti di tutto il mondo, ha affermato: “Se è illegale aiutare bambini e persone che soffrono, ditemi che cosa è legale?”. E ha ribadito: “Se è illegale quello che ha fatto Krajewski compiendo un gesto di umanità dettato dal cuore e da quanto dice il Vangelo, allora arrestateci tutti”.

La carità illegale divide la Chiesa. Riccardo Cascioli, Martedì 14/05/2019, su Il Giornale. Un'improvvida iniziativa personale o un'azione concordata con il circolo di Santa Marta? Il cardinale Konrad Krajewski, che sabato sera ha rotto i sigilli del contatore per ridare la corrente elettrica al condominio di via Santa Croce in Gerusalemme a Roma, si assume tutta la responsabilità del gesto; ma è difficile non inserirlo nel contesto di un pontificato che, dagli incontri mondiali in Vaticano dei movimenti popolari in poi, non nasconde simpatie per la politica «barricadera». Ufficialmente nessuno vuole parlare ma dalla Segreteria di Stato al Dicastero per lo sviluppo umano le reazioni vanno dall'imbarazzo al disappunto fino alla rabbia. C'è il problema dell'incidente diplomatico, visto che Krajewski è formalmente un ministro di uno Stato estero che si è reso protagonista di un reato in Italia, e la Segreteria di Stato sta facendo gli straordinari per evitare spiacevoli ripercussioni col nostro governo. Al momento prevalgono imbarazzo e incredulità da ambo le parti. C'è poi il problema di un giudizio morale e dell'esempio che la Chiesa è chiamata a dare, tanto più che la notizia ha fatto il giro del mondo. Dando per scontato il giudizio estasiato dei soliti «guardiani del regime» che esaltano il gesto «puramente evangelico» e «rivoluzionario», ben altri sono gli umori che si raccolgono in giro per la Curia Romana, per non parlare delle reazioni di tanti cattolici sui social media. «Diciamo pure che le intenzioni erano buone: fare un gesto di carità verso delle persone in difficoltà per svegliare lo Stato davanti alla grave emergenza abitativa dice un monsignore che ben conosce le realtà più povere -, ma non si può essere così imprudenti. Se tutti facessimo così, cosa succederebbe? Azioni di questo genere alimentano soltanto una conflittualità sociale. A maggior ragione come cattolici, e ancor più come rappresentanti della Santa Sede, non possiamo non tenere conto di leggi che regolano la vita di una comunità. Non si può avallare l'idea che l'occupazione delle case sia una cosa buona, è una violazione bella e buona di un diritto di proprietà che è sacrosanto». C'è anche chi fa notare come il blitz di Sua Eminenza abbia coinciso con la lettera con cui papa Francesco convoca ad Assisi per il marzo 2020 giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo «per studiare e praticare un'economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda». L'incontro si chiamerà «L'economia di Francesco». E maliziosamente commenta: «Se questo è il modello proposto dall'economia di Francesco, siamo a posto». La vicenda del «cardinale elettricista» chiosa Stefano Fontana, direttore dell'Osservatorio Van Thuan- «è un esempio della superficialità con cui oggi agiscono troppi uomini ai vertici della Chiesa, pensando che la carità non abbia bisogno della ragione. Ma una carità irragionevole e qualunquista non è carità, produce danni». E prendendo in considerazione cinque principi della dottrina sociale della Chiesa, Fontana conclude che «nessuno di essi» giustifica l'azione del cardinale.

La polemica: Chiesa disobbediente contro Chiesa sovranista, è “scisma” tra i cattolici. L’impegno in politica dei credenti ha almeno due fronti: quello “di sinistra”, incarnato da Bergoglio, e quello di destra, che a questo Papa non ha mai smesso di fare la guerra. Paolo Delgado il 14 Maggio 2019 su Il Dubbio. Non è stato un pronunciamento come tanti. Un cardinale, Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, un pezzo da novanta insomma, che si occupa personalmente di riallacciare la luce staccata per morosità in uno stabile occupato pieno di immigrati (peraltro ieri l’Acea ha presentato esposto) è a tutti gli effetti disobbedienza civile allo stato puro. Nemmeno 24 ore e un altro cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica, prende la parola, anticipando un sinodo dei vescovi sull’Amazzonia che il presidente brasiliano Balsonaro cerca in ogni modo di sabotare, contro quelli che «animati da uno spirito di rapina», progettano «di venire a sfruttare per poi andarsene con le valigie piene». Non sono dissidenti ma porporati in piena e ortodossa sintonia con un pontefice che non esita neppure a parlare di «nuova economia». Era dagli anni ‘ 60, quando il mondo cattolico fu con i movimenti giovanili beat e con le riviste eretiche marxiste una delle tre grandi incubatrici del dissenso, che non si assisteva a un simile pronunciamento, a un ingresso così determinato e schierato dei cattolici in politica. Solo che allora erano studenti come quelli di Trento, preti operai, parroci di comunità come l’Isolotto di Firenze, assediato per mesi dalle gerarchie ecclesiastiche in un inaudito braccio di ferro tra fedeli e Vaticano. Erano don Milani con la sua storica Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana e don Mazzi. Oggi a santificare con le parole e con l’esempio la disobbedienza civile sono i vertici stessi della Chiesa, è il papa in persona. Anche uno schieramento politico così frontale del pontefice e dei cardinali a lui più vicini non si vedeva da decenni. Negli anni ‘ 80 Giovanni Paolo II, il papa guerriero, fu uno dei principali artefici della sconfitta del comunismo, forse il principale. Nessun pontefice prima di lui, non in tempi moderni almeno, aveva interpretato la sua missione in modo tanto schiettamente politico, fino a impegnarsi non solo con le parole e con le encicliche ma anche con i fatti concreti, non escluso probabilmente il sostegno ai contras nelle guerre civili dell’America centrale.

Dopo di allora il mondo cattolico non si è mai più esposto come negli anni del dissenso e le gerarchie ecclesiastiche non sono mai più scese in campo a bandiere altrettanto spiegate. Aveva provato a infiammarle Berlusconi, alla fine degli anni ’90, quando, ispirato dal consigliere allora in auge don Gianni Baget- Bozzo, aveva deciso di trasformare il miraggio di Forza Italia, da quello iniziale del “partito liberale di massa” all’incarnazione di una nuova Dc. Ma lo aveva fatto secondo il suo stile televisivo, appariscente, poco sostanzioso. La crociata si era arenata una volta raggiunto, nel 2001, l’obiettivo di rientrare a palazzo Chigi. I cattolici, comunque, non si erano scaldati più che tanto: del resto non sarebbe stato facile dovendosi contrapporre a un centrosinistra in cui la componente cattolica, erede dell’antica sinistra Dc, era fortissima se non addirittura dominante. A rianimare lo spirito militante del mondo cattolico sono stati il dramma di massa e la trasformazione epocale che hanno segnato l’ultimo decennio, disegnando un nuovo confine politico, uno spartiacque inedito: quello delle migrazioni di massa e della conseguente modifica radicale del tessuto sociale e culturale. Solo che, proprio a partire da quel conflitto, si rivolge al mondo cattolico anche chi si trova sul fronte opposto a quello di Bergoglio: i movimenti sovranisti e anti- immigrazionisti, in nome del ritorno a una tradizione e a una cultura che, in Italia, coincidono in più punti con quelle cattoliche. Si rivolgono ai cattolici, con l’abituale rozzezza, i movimenti neofascisti come Forza Nuova, che la settimana scorsa ha contestato addirittura il papa. Ma si muovono nella stessa direzione, con appena un pizzico di tatto diplomatico in più, anche movimenti assai meno minoritari: a partire dalla Lega. Basta farsi un giro sui social per scoprire a quale livello di astio e furore siano arrivate le critiche nei confronti della Chiesa di papa Francesco. La dimensione della critica è già stata da tempo superata: il papa è vissuto ormai, come non accadeva da tempo immemorabile, come un nemico giurato. L’obiettivo di questi movimenti, e in particolare proprio della Lega, è ripetere, a parti rovesciate, il clamoroso ribaltone che si verificò negli anni ‘ 70. Allora la grande maggioranza dei cattolici scelse di non obbedire al Vaticano, prima nel referendum del 1974 sul divorzio, poi in quello del 1978 sull’aborto. Oggi può sembrare una scelta non particolarmente clamorosa: all’epoca fu invece un esito sbalorditivo, prima di tutti per quel Pci che, proprio temendo il voto delle masse cattoliche, aveva cercato in ogni modo di evitare il referendum. La chiesa chiamò alle armi, i fedeli non risposero all’appello. La nuova destra italiana scommette sul fatto che la diserzione di massa si riproponga. Stavolta abbandonando un pontificato che, all’opposto di quello degli anni ’70, guarda “a sinistra”.

Papa Francesco e l'elemosiniere, lo studioso Teodori: "Cosa sarebbe gravissimo". Vaticano, doppio sgarro? Libero Quotidiano il 14 Maggio 2019. "Un atto di disobbedienza civile", quello dell'elemosiniere di Papa Francesco. Di più: un'incitazione a altri "gesti illegali che possono diventare pericolosi e violenti". Massimo Teodori, ordinario di Storia e istituzioni degli Stati Uniti, intervistato dal Quotidiano nazionale stigmatizza l'iniziativa del cardinale Konrad Krajewski, che ha riallacciato personalmente l'elettricità agli inquilini di un palazzo occupato abusivamente a Roma. Un fatto grave, soprattutto perché "ha come protagonista un ecclesiastico di uno Stato estero (Città del Vaticano) che è vincolato da un trattato internazionale (I Patti lateranensi) che sono stati clamorosamente violati". In virtù di quel concordato, infatti, la gerarchia ecclesiastica ha il divieto "di intromettersi nella vita politica e amministrativa dello Stato italiano, così come i pubblici ufficiali italiani non possono intromettersi negli affari religiosi". Divieto che, come noto, viene quasi quotidianamente calpestato. Il pagamento delle bollette non pagate, spiega ironico Teodori, "è il minimo che la Santa Sede può fare, e sicuramente lo Ior (la banca vaticana) non va in fallimento". Ma sarebbe molto più grave "se lo Stato del Vaticano non concedesse l'autorizzazione a procedere" contro il cardinale, che potrebbe presto finire indagato. 

Tutte le leggi infrante nella casa occupata ma illuminata dal Cardinale. Una per una ecco le irregolarità che quotidianamente vengono compiute nel palazzo ex Inpdap occupato abusivamente da 450 persone. Panorama il 14 maggio 2019. Il giorno dopo le polemiche sulla vicenda della casa occupata a Roma a cui un Cardinale avrebbe ridato la corrente elettrica tolta dopo 6 anni di morosità si arricchisce di particolari che superano ogni fantasia. Particolari che vanno ad arricchire la lista delle leggi e delle norme violate al punto da trasformare quella che qualcuno chiama "esperienza sociale" in uno vero e proprio covo dell'illegalità. Ma andiamo con ordine:

1) Il palazzo viene occupato nel 2013 in una giornata di ottobre definita da alcuni centri sociali "Tsunami Tour", una vera e propria caccia allo stabile in cui diverse associazioni e gruppi si appropriarono di strutture in quel momento vuote (ma in vendita) in giro per la Capitale. 

2) A Santacroce quel pomeriggio si presentarono le persone di Action, associazione attiva nel mondo dei centri sociali, coordinati da Andrea Alzetta, detto "Tarzan" che ultimamente abbiamo visto impegnato anche nella vicenda dei rom di Torre Maura. Le due guardie giurate presenti a presidio del palazzo vennero "invitate" a lasciare il campo a chi con flessibili e tronchesini si presentò in quel giorno di ottobre a "aprire" le porte a famiglie di italiani e migranti.

3) Gli occupanti devono versare una quota di circa 10 euro a persona ad Action. Action all'interno ha aperto e gestisce diverse attività tra cui un bar con serate musicali, feste, dj set. I soldi delle quote e gli incassi delle serate ed altre manifestazioni non sono mai stati utilizzati per pagare le bollette della corrente.

4) L'ammanco verso Acea per la corrente è di 300 mila euro e più.

5) Sembra che "Tarzan" abbia chiesto in alcuni incontri con le autorità comunali e la società che fornisce la corrente un prezzo "particolare" e privilegiato "vista la situazione della gente presente nello stabile..."

6) La società proprietaria dello stabile ha avuto un danno milionario da questa occupazione. Dal 2013 ha presentato 5 esposti in Procura e diverse segnalazioni in Prefettura. Inutilmente.

7) Prima dell'occupazione erano in corso trattative per trasformare il palazzo in un albergo che avrebbe dato lavoro ad almeno 150 persone.

8) E' stata aperta una trattativa con Acea per il pagamento da oggi delle bollette. L'arretrato rischia di essere saldato non dagli occupanti, non dalla Chiesa, ma dai romani (leggasi i clienti di Acea).

9) La corrente è stata riallacciata senza seguire le procedure di sicurezza. Acea teme che anche gli impianti presenti nelle varie abitazioni non rispettino le norme creando così una situazione di reale pericolo.

10) Ad alcuni occupanti sono state offerte in questi anni degli alloggi comunali. Proposte rifiutate (perché andare a pagare se una casa ce l'ho già, gratis?).

La carità cristiana è un dovere di un prete ed una cosa bellissima. Ma l'illegalità conclamata e certificata non può essere giustificata. Questo per rispetto verso chi, a fatica, le leggi le rispetta.

Papa Francesco, l'elemosiniere Krajewski è indagato: un pesantissimo dubbio sul "gesto di carità". Renato Farina su Libero Quotidiano 23 Maggio 2019. Due notizie fresche. La prima. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo dopo la denuncia di Acea (Azienda Comunale Energia e Ambiente) per il riallaccio abusivo della corrente elettrica allo stabile occupato vicino a San Giovanni in Laterano. I reati ipotizzati vanno dal danneggiamento al furto di energia elettrica. A calarsi acrobaticamente nel pozzetto per spezzare i sigilli e attuare le manovre per ridare la luce al palazzo era stato l' elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, che si è autodenunciato. È, a questo punto, scontata l' iscrizione nel registro degli indagati. La seconda. I 319mila euro di bollette non pagate per tutti i sei anni dall' occupazione non risultano a tutt' oggi ancora pagati all' Hera, altra società con capitali pubblici incaricata della riscossione. Nel momento stesso in cui ha rivendicato l' atto, dovuto secondo il porporato, a motivi di urgenza per salvare delle vite di bambini e malati, aveva garantito di saldare lui le bollette. Evidentemente non ha ritenuto urgente l'adempimento. Pantalone non abita in Vaticano. Date le due notizie peraltro in evoluzione (più la prima che la seconda, a quanto pare), dopo dieci giorni dal gesto clamoroso del principe della Chiesa oltre ai locali occupati si sono illuminati parecchi altarini, altri restano in penombra. Ci sono aspetti che interessano i cittadini italiani; altri riguardano i cattolici di tutto il mondo (circa un miliardo e duecento milioni). Provo a metterli in fila, sperando di non restare fulminato.

1- Il cardinale elemosiniere è intervenuto chiamato da una suora. Gli è stato detto che la situazione per 98 bambini ed alcuni malati era insostenibile. Da qui la discesa nei tombini. Siamo in grado di dire che tutto questo è un falso. Il comune aveva offerto alloggi alternativi. Gli inquilini hanno rifiutato. Costoro pagano l' affitto sociale ai padroni illegittimi del palazzo, cioè una società che abusivamente ha aperto un locale dove si celebrano rave, ristoranti, pub. Ciò era noto a suora e cardinale. La sala più grande ospita a pagamento mille persone, ed è immune da Imu come un edificio di culto. Eppure i rave non sono di precetto, non bisogna per forza garantire il diritto allo sballo per ragioni di carità cristiana.

2- I bambini sono stati usati come scudo umano. Non è un buon motivo per lasciarli morire, se qualche mascalzone li usa come alibi per le proprie attività illegali. Ovvio. Ma il cardinale, anzi ogni romano, sa molto bene che la Chiesa coincide con Roma, quanto a potenza e pervasività: è in grado nelle sue strutture ricettive di ospitare bambini e malati il tempo necessario per consentire, lunedì, il ripristino della corrente elettrica. Ha un' influenza decisiva. Se il porporato, vestito di tutte le palandrane colorate, messa nel cassetto la tuta da acrobata dei corto circuiti, si fosse presentato all' Acea richiedendo ufficialmente il ripristino dei servizi, gliel' avrebbero accordato con un inchino perché l' anello non si bacia perché poco igienico, specie con la garanzia da lui data mezz' ora dopo lo scassinamento notturno, che avrebbe provveduto al saldo del dovuto, con la cassa di elemosiniere a sua disposizione.

3 - In realtà, altro che emergenza, e nobile petto. La decisione nasce come rottura dottrinale e pratica maturata negli ambiti prossimi al Sancta Sanctorum. Lo ha rivelato con lealtà, o voce dal sen fuggita, il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro. Il quale ha spiegato in un tweet: «Con una sola mossa Kraijewski nel tombino cambia l' immaginario collettivo del cardinale: non l' uomo degli arcana imperii, elegante ed equilibrista, anziano e irraggiungibile, ma un militante della disobbedienza civile, un luddista del XXI secolo, vangelo e tuta da operaio». Il linguaggio è per intellettuali e teologi, con tutta quella storia del luddismo e degli arcana imperii.

Ma il senso è chiaro. Chi aveva bisogno di un urgente intervento alle tubature non erano i bambini senza latte (a Roma senza latte!) ma la reputazione delle gerarchie ecclesiastiche. Il fine giustifica i mezzi: bisogna passare dall' immagine del cardinale pedofilo a quella del cardinale Robin Hood (vedi Repubblica). Un furto è stato elevato a parabola evangelica: siamo davanti a uno spartiacque nella storia della Chiesa, secondo i suoi teorici progressisti. Perché tutto questo dovrebbe pagarlo la cittadinanza romana tutto questo, non è chiaro. Pagate almeno la bolletta.

4- È scritto negli Atti degli Apostoli. Pietro davanti al Sinedrio dice: «È meglio obbedire a Dio che agli uomini». Questo però è stato sempre riferito all' impossibilità per il cristiano di tacere la verità su Cristo. A Pietro e a Paolo non è mai venuto in mente di liberare gli schiavi. Per venire ai nostri giorni, la denuncia di leggi sbagliate non ha mai indotto cardinali e vescovi a guidare manipoli per impedire lo squartamento dei bimbi non nati, ammazzati legalmente in nome delle varie leggi di molti Paesi. Kraijevski è pronto? Se il Papa mi dice che si può, io da umile credente retrò lo faccio, seguo Kraijevski. Figuriamoci. Calarsi in un tombino per salvare i bambini non nati non si fa, è considerato poco politicamente corretto, la sinistra non approverebbe, Repubblica si scandalizzerebbe, Zingaretti non parlerebbe di gesto «meraviglioso».

5 - Tanta povera gente è offesa dal cardinale. Fa un sacco di fatica a pagare la bolletta. Tanti preti si fanno collettori di offerte, senza bisogno di infrangere la legge, corrono dovunque. Poi ci sono i geni del Vangelo. Una signora anziana di mia conoscenza ha riferito in lacrime che una suora attiva nella carità è venuta come ogni anno da lei a raccogliere il suo obolo. La vedova l' ha dato volentieri, osando dire però che i poveri non sono solo gli immigrati. La suora ha restituito orripilata i sofferti denari dicendo che con questo discorso la poveretta si poneva fuori della Chiesa. Guai a chi scandalizza uno di questi piccoli. O no?

6 - Qualcuno gioca in alto a provocare uno scisma. Da una parte gli illuminati di Santa Marta, bergogliani a dispetto di Bergoglio, che hanno sostituito il crocefisso con il cacciavite, dall' altra i fedeli scalcagnati dei santuari che se fanno del bene non lo esibiscono come gesto eroico e rivoluzionario e dicono il rosario ripetendo ancora l' antica formula: «Per l' acquisto delle sante indulgenze preghiamo secondo la mente del Sommo Pontefice». E ritengono vincolante il comandamento numero 7: non rubare. Specialmente la buona fede dei poveri. Renato Farina

Vaticano, la vergogna dietro gli aiuti dell'elemosiniere del papa: zero sostegno ai clochard. Paola Pellai 21 Maggio 2019 su Libero Quotidiano. Di fronte alla basilica di San Pietro ti fanno più impressione del solito i bivacchi di clochard sotto i portici della sala stampa pontificia. Non pregano, bestemmiano. Non sorridono, urlano. E bevono tanto. Birra, alcool, quel che si procurano. E poi dormono, il giorno è come la notte e la notte diventa giorno. La prima domanda è perché quei disperati siano lì e non trovino aperte quelle porte che il Vangelo dovrebbe spalancare. Non sono un esercito e quindi non dovrebbe essere difficile recuperare una sistemazione fissa, sicura, dignitosa. Magari sono loro stessi a respingere la soluzione, ma, come abbiamo fotografato, una suora non può camminare frettolosa ed indifferente nel suo abito bianco senza degnarli di uno sguardo, di una parola, di una carezza. La suora non si ferma, ma monsignor Konrad Krajewski si è spinto fino in via Santa Croce in Gerusalemme per compiere un gesto di forza, andando contro le regole della legalità. Dio disse: «Sia la luce» e luce fu. L' elemosiniere del Papa è andato a togliere i sigilli a un contatore che era ormai esausto di erogare corrente elettrica a sbafo, a fronte di un debito di oltre 300mila euro. Don Corrado (così si fa chiamare l' elemosiniere) lo ha fatto in uno stabile occupato dal 2013, con oltre 450 persone provenienti da 17 nazioni, e se ne è preso ogni responsabilità convinto che a queste 170 famiglie doveva essere restituito quanto tolto. A loro, e chissà perché solo a loro, cristianamente baciate dalla ruota della fortuna vaticana. Ed è quello che ha chiesto il ministro Salvini: «Sostenere l' illegalità non è mai un buon segnale. Ma se il Vaticano vuole pagare le bollette agli italiani in difficoltà ci dia l' Iban. Da Nord a Sud siamo pieni di italiani che faticano a trovare i soldi per la luce...». Siamo andati a farci un giro in quella casa benedetta dal Papa, è al civico 55 di via Santa Croce in Gerusalemme, nel quartiere Esquilino, in una zona che non ha nulla a che fare con le nefandezze della vicina Termini, per esempio. Questa è una zona ben abitata, piena di attività e di fronte al palazzo c' è un hotel a 3 stelle.

CANONE SOCIALE. Sulla facciata dello stabile c' è un solo striscione, in vista ed imponente, che senza mezzi termini ti spiega che sei tu il coglione a pagare l' affitto perché «il diritto alla casa è sacrosanto». Diversi piani a rincorrersi, una moltitudine di finestre una uguale all' altra, la maggior parte senza tende. Non vedi volti affacciarsi, nessuno altro striscione di lotta. Ci sono delle sedie di plastica all' esterno, sul marciapiede, e qualche giovane extracomunitario seduto a far passare il tempo. Esce un' anziana con l' ombrello in mano, una ragazza che sta andando all' università e Josè, un peruviano di 80 anni che ti racconta un' esistenza da badante e volontariato. «Da qui non ci muoviamo - spiega -, questa è la nostra casa. Io ci abito da 4 anni, non ho i soldi per andare altrove ma se ci fanno canoni sociali per le utenze siamo pronti a discuterne». E suggerisce: «Le autorità vengano a fare un censimento. Ci controllino, uno ad uno. Chi non ha i requisiti di legalità lo sbattano fuori, ma non ci tolgano la nostra casa». Chiedo se è possibile entrare nel palazzo e vedere come si vive in quelle stanze, ma lo Josè mi spiega che è impossibile: «Il clamore degli ultimi giorni ha cambiato le regole. Ci è stato chiesto di non far entrare neppure gli amici e noi obbediamo. Ringraziamo tanto il monsignore, ha fatto un gesto importante per ognuno di noi». Ex sede dell' Inpdap, lo stabile di via Santa Croce è stato «occupato, liberato ed aperto da subito» da Action il 12 ottobre 2013 «per farne la casa per centinaia di persone bisognose».

GLI AFFARI GIRANO. E così, pezzo per pezzo, è nato Spin Time Labs, «un cantiere di rigenerazione urbana, una nuova dimensione dell' abitare». Un cartello posto all' ingresso spiega che Spin Time sarà sempre «insieme a padre Konrad, a chi salva le vite nel Mediterraneo e a chi ogni giorno lotta per il diritto alla luce, alla casa, allo studio, alla cultura per un nuovo modello di città, aperta e solidale. Siamo disposti a pagare le utenze ma a canone sociale. I sindaci seguano l' esempio di Leoluca Orlando a Palermo». Dichiarano di essere «tutti Padre Konrad» e ironicamente sfottono Matteo Salvini invitandolo a una colletta: «Contiamo di pagare il debito in 80 anni. Il calcolo è di 318 euro al mese che diviso per le 170 famiglie che vuoi al buio fanno 1,8 euro a testa. Tu che fai, ci aiuti? Bacioni enormi da sognatori ribelli con orizzonti comuni». Naturalmente l' attività economica nello stabile non si ferma. Osteria ed enoteca, un laboratorio di birra artigianale, una falegnameria, corsi di tango e di takendoo, una discoteca che in molti dicono abusiva... tutto con prezzi d' ingresso, adesione o consumo senza «canone sociale». Ma giovedì notte a padre Konrad non è riuscito il secondo miracolo. All' ultimo momento è saltato (proprio come la luce) il programmato rave party. «Amen rave», per la precisione. Amen. E chissenefrega, pure. Paola Pellai

·        Il Papa Regnante, il Papa Emerito e la pedofilia.

Marco Tosatti per lanuovabq.it il 20 novembre 2019. E adesso contro Gustavo Zanchetta, l’ex vescovo di Oran protetto da papa Francesco è stato chiesto un mandato di cattura internazionale. L’iniziativa è stata del giudice Maria Soledad Filtrìn Cuezzo. L’accusa è quella di aver abusato sessualmente di due seminaristi. Zanchetta era scomparso – accampando motivi di salute dalla sua diocesi all’improvviso – e poi era riapparso in Vaticano, dove il Pontefice aveva creato apposta per lui il posto mai esistito fino ad allora di Assessore all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA). Ora, posto che fra l’altro a Zanchetta si rimproverava in Argentina di aver gestito in maniera disastrosa le finanze della sua diocesi, il nuovo incarico poteva sollevare certamente dei dubbi. Nel frattempo però il caso Zanchetta era esploso. Infatti, se come ha rivelato il giornale “El Tribuno” pubblicando documenti che dimostrano come vescovi, il cardinale Primate di Argentina, il Nunzio il Vaticano e il Pontefice in persona sin dal 2015 fossero a conoscenza del caso del vescovo, poi a queste rivelazioni si sono aggiunte denunce penali da parte delle vittime. Ma le ombre che pesano sul vertice della Chiesa argentina, sul Vaticano e sul Pontefice stesso sono molto serie. Fra l’altro sono state pubblicate fotografie di una relazione del 2016, firmata da cinque sacerdoti, di cui tre ex vicari diocesani, da cui appare chiaro che Gustavo Zanchetta era accusato non solo di avere sul suo cellulare foto oscene di sesso omosessuale, ma di molestie ai seminaristi, di non aver registrato la vendita di una proprietà importante della diocesi e di cattiva gestione sia delle finanze che del personale di Oran. Zanchetta aveva trovato rifugio in Vaticano, grazie al Pontefice, e poi era tornato brevemente in Argentina, per espletare obblighi giudiziari. Un giudice gli aveva poi concesso di tornare in Vaticano, per motivi di lavoro; anche se in conseguenza dello scandalo era stato sospeso dal servizio. Ma ora la magistrata ha deciso di chiedere l’arresto. Fra l’altro la magistrata lamenta che l’imputato non abbia risposto a numerose chiamate telefoniche, né a mail inviate all’indirizzo (e al numero di telefono) che i difensori avevano indicato in maniera volontaria per essere contattato. Maria Filtrìn Cuezzo si era opposta tempo fa all’abolizione delle restrizioni che erano state imposte a Zanchetta, affinché non lasciasse il Paese. Zanchetta ha stabilito il suo domicilio in Vaticano, e la magistrata ricorda che in molte occasioni è stato necessario ricorrere ai buoni uffici della Nunziatura apostolica per ottenere che Zanchetta si presentasse. La richiesta di arresto include anche un rapporto psichiatrico che indica che l’accusato “presenta una personalità con tratti psicopatici (indicatori di manipolazione, emozioni superficiali, scarsa capacità empatica); non presenta psicosi né altro disturbo mentale che alteri la relazione con la realtà. Si lega con interrelazioni disequilibrate, esercitando potere sull’altro; può comprendere la condotta seguita, e discernere gli atti socialmente riprovevoli”. La richiesta di cattura internazionale – che aprirà uno spinoso caso diplomatico con la Santa Sede, se il Pontefice, che in questo momento è in viaggio in Estremo Oriente non riuscirà a convincere Zanchetta a rientrare in Argentina sua sponte – è avvenuta pochi giorni dopo che l’Unità di Delitti Economici ha perquisito la sede della diocesi di Oran, il 7 novembre. Nell’operazione sono stati confiscati documenti e computer con le informazioni contabili dal 2013 al 2017. Le accuse contro Zanchetta sono quelle di abuso sessuale continuato aggravato nei confronti di due seminaristi quando era vescovo di Oran.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 22 novembre 2019. Ieri la giornata del Papa è iniziata con due brutti scossoni. Il primo è stato avvertito in tutta la capitale thailandese a causa di un episodio sismico di magnitudo 6,1 che ha colpito il Nord del Paese, fortunatamente senza fare vittime. La seconda scossa, invece, è arrivata direttamente dall'Argentina. Una pessima notizia. Le autorità argentine hanno spiccato un mandato di arresto internazionale per l'arcivescovo Gustavo Zanchetta, suo amico personale, già vescovo di Orano e chiamato nel 2017 a ricoprire un ufficio in curia creato apposta per lui all'Apsa. E' accusato di abusi sessuali e violenze aggravate. In questi ultimi 12 mesi il Vaticano ha fatto calare su questa imbarazzante vicenda giudiziaria una pesante coltre di silenzio. E ora la domanda che circola con insistenza è cosa farà Francesco, se davanti a queste richieste opporrà l'immunità diplomatica - poiché Zanchetta nel frattempo è diventato cittadino vaticano, con la residenza a Santa Marta - oppure se disporrà la strada della collaborazione con le autorità argentine, dando corso alle pratiche del caso per una eventuale estradizione di Zanchetta, anche se tra la Santa Sede e l'Argentina non è mai stato firmato nessun accordo. La scossa di terremoto per il Papa stavolta non è indifferente. Sia perché si tratta di una figura a lui davvero molto vicina, sia perché gli ha spesso dato una mano, per esempio soccorrendolo quando nella diocesi di Orano emersero tensioni interne per una disastrosa gestione finanziaria o anche per i rapporti burrascosi con alcuni parroci.

L'AIUTO. Così per questo motivo nel 2017 Papa Francesco ha offerto a Zanchetta una soluzione alternativa, chiamandolo in Vaticano. Una bella promozione. Per lui fu anche creato un ufficio prima inesistente all'Apsa, come numero due, con il compito di controllare il patrimonio della Santa Sede. L'avanzamento però col tempo si è trasformato in un guaio di difficile soluzione. Il caso è esploso quando il quotidiano Il Tribuno, due anni fa, ha pubblicato una serie di documenti. Prima le foto osé di una relazione omosessuale tra adulti ma poi anche notizie di preti che lo accusavano di molestie a seminaristi. Restava tutto da provare naturalmente, ma intanto la magistratura si metteva in moto. Vedendo che l'inchiesta avanzava il Vaticano ha fatto dimettere in via cautelativa Zanchetta dall'Apsa anche se continua a risiedere a Santa Marta, al sicuro e non risponde a nessuna mail o telefonata del magistrato in Argentina.

AGENDA. La richiesta di cattura internazionale aprirà certamente uno spinoso caso diplomatico. Quella di ieri per Francesco è stata una giornata dolorosa e non facile, scandita anche da una agenda impegnativa. L'incontro con il primo ministro, gli ambasciatori il patriarca buddista, al quale ha chiesto di collaborare per difendere il pianeta, il re Rama X. Poi ha celebrato una messa allo Stadio nazionale di Bangkok, presenti 60mila persone e tra loro anche molti buddisti. Inoltre ha fatto una visita ad un ospedale cattolico. Tra gli appelli lanciati da Francesco la necessità di non chiudere le frontiere a nessun migrante e la richiesta alla comunità internazionale di fare tutto per interrompere il turismo sessuale, visto che la Thailandia è tra i primi Paesi al mondo per la prostituzione minorile che riguarda bambini e bambine.

IL RAPPORTO. La Thai National Commission for Women stima che il numero totale di prostitute al di sotto dei 18 anni di età arrivi a 35 mila unità. Un numero che comprende anche tanti ragazzini, praticamente schiavi di un turismo senza scrupolo e alla luce del sole. Interi voli charter sbarcano uomini europei ma anche dalle zone più ricche dell'Asia come il Giappone o la Corea del Sud. La sorella del Papa, suor Ana Rosa Sivori, missionaria da 54 anni in Thailandia, scuote la testa, desolata. «Purtroppo vengono a migliaia, in ogni mese dell'anno. Un flagello».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 22 novembre 2019. Quel che è certo è che fino al 19 dicembre 2017 - giorno della folgorante nomina ad assessore dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA) - il nome di Gustavo Oscar Zanchetta era ancora poco conosciuto in curia. Adesso che è il vescovo più noto di tutta l’America Latina sono in tanti a ricordarsi il suo arrivo a Roma: «Fece a tutti una certa impressione perché venivacreato appositamente per lui, che era uno sconosciuto, un ufficio che prima non esisteva, e questo fattore in tempi di spending review non poteva non passare inosservato». Fino a quel momento il suo nome era rimasto circoscritto alla Chiesa argentina, sollevando altri interrogativi in merito alla sua rapida ascesa e al suo carattere un po’ dispotico. Papa Francesco nei suoi confronti ha sempre avuto un atteggiamento indulgente. Quasi paterno. Nel luglio 2013 lo nomina vescovo di Oran, zona povera al centro delle minacce del narcotraffico, 350mila anime. Prima di questa promozione il reverendo Zanchetta era sotto-segretario esecutivo della conferenza episcopale argentina e lavorava a stretto contatto con l’allora cardinale Bergoglio. È nato a Rosario, vicino a Santa Fe, 55 anni fa, dove si è diplomato tecnico meccanico elettricista a Cordoba. Da lì ha fatto un anno di formazione con i cappuccini e poi filosofia all’università Cattolica Argentina. L’ingresso in seminario per diventare prete, nel 1993 è nominato segretario della Commissione per i Ministeri della Conferenza Episcopale. Nel 2000 ha ottenuto la licenza in Teologia Fondamentale presso la Pontificia Universita` Gregoriana ed è in quegli anni che ha conosciuto bene padre Mario Jorge Bergoglio. Si diceche sia stato il suo confessore. Per aiutarlo lo fa arrivare a Santa Marta e lo nomina assessore dell’Apsa nel 2017. In quel periodo iniziano a saltare fuori dall’ombra vecchie accuse di abusi di potere e di una cattiva gestione finanziaria. Il Papa preoccupato lo chiamò per interrogarlo. Francesco successivamente ha spiegato a Televisa che Zanchetta si è difeso bene dicendo che gli avevano hackerato il telefono. Dimodochè fronte all’evidenza e a una buona difesa resta il dubbio. Ma in dubbio pro reo.  

Maddalena Oliva per “il Fatto Quotidiano” il 23 novembre 2019. L'ultima volta in aula, a Orán, nella provincia settentrionale di Salta, ai piedi delle Ande argentine, Gustavo Zanchetta si è visto l' 8 agosto. Per dieci minuti. Tanto è durata l' udienza in cui il giudice Claudio Parisi ha accettato di revocare, su richiesta della difesa del prelato, il divieto di espatrio. "L' imputato Zanchetta sta collaborando", ha motivato il giudice. "Mantenere tali limitazioni alla sua libertà rappresenterebbe una coercizione, e gli impedirebbe di proseguire il suo lavoro quotidiano". A pesare sulla decisione del giudice, un certificato datato 3 giugno 2019 e presentato dalla difesa di Zanchetta. Secondo quanto riporta il quotidiano El Tribuno de Salta, il documento sarebbe firmato dall' arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, e da Vincenzo Mauriello (minutante dell' ufficio del protocollo, sospeso a inizio ottobre per l' inchiesta sulle operazioni finanziarie illecite in Vaticano). E riporterebbe che Zanchetta è un "impiegato del Vaticano", dove lavora presso l' Apsa e "ivi abita, nella residenza di Santa Marta". Nel certificato, però, non sarebbe menzionato un piccolo particolare: monsignor Zanchetta risulta sospeso dal suo incarico (dal 4 gennaio 2019). Quindi perché sarebbe dovuto rientrare in Vaticano? Per quale "lavoro quotidiano"? La procuratrice Maria Soledad Filtrín Cuezzo - che rappresenta l' accusa nel processo per "abusi sessuali continui ed aggravati" dallo status di Zanchetta come ministro del culto - aveva più volte sottolineato una preoccupazione. Il prelato, tornando in Vaticano, avrebbe potuto sottrarsi al giudizio in Argentina: non esiste un accordo sulle estradizioni tra Argentina e Stato Vaticano. Ecco perché la procura ha chiesto, di fronte all' impossibilità di procedere alla notifica a Roma degli atti processuali (ridimensionata dall' avvocato di Zanchetta), che venisse emesso un mandato di cattura internazionale per l' imputato. Il caso scoppia grazie all' inchiesta di El Tribuno, a fine 2018. Nominato assessore dell' Apsa nel 2017, monsignor Zanchetta aveva lasciato poco tempo prima la diocesi di Orán, per un "problema di salute". Dietro quelle improvvise dimissioni, secondo il giornale, le accuse di abusi sessuali su due seminaristi - avvenuti tra il 2014 e il 2015 - e di cui la Chiesa sarebbe stata a conoscenza. A confermarlo, i documenti interni datati 2015 e 2016 in cui cinque sacerdoti (tre vicari generali e due monsignori) del vescovado di Orán denunciano gli "strani atteggiamenti verso i seminaristi". La nota - indirizzata alle autorità ecclesiastiche locali e all' allora nunzio apostolico in Argentina, monsignor Paúl Emile Tscherrig - racconta come, nel settembre 2015, tutto ebbe inizio. Il laico Luis Amancio Díaz, segretario di Zanchetta, ha accesso al cellulare del vescovo, per scaricare delle foto da postare sul profilo Fb della diocesi. "Tra queste, immagini pornografiche di sesso omosessuale tra giovani che si auto-fotografavano nudi con selfie, in atteggiamenti masturbatori". Tutto materiale salvato su una chiavetta Usb, inviata al cardinale primate d' Argentina, Mario Poli. Zanchetta - ricostruirà poi uno dei cinque sacerdoti, Juan José Manzano - fu chiamato subito da Bergoglio a chiarire la sua posizione. Siamo nell' ottobre 2015: due anni prima, dunque, della nomina vaticana all' Apsa. Bergoglio in un' intervista tv ha ricordato mesi fa: "Zanchetta s' è difeso dicendo che lo avevano hackerato. Di fronte all' evidenza e a una buona difesa resta il dubbio, ma in dubio pro reo". Quando Zanchetta arrivò a Orán - sottolinea la procuratrice Cuezzo, riportando le parole dei seminaristi che hanno denunciato gli abusi - "avevano particolare timore reverenziale, perché il monsignore fu presentato come amico del Papa". Che Zanchetta e Francesco siano vicini è risaputo: hanno lavorato a stretto contatto nella Conferenza episcopale argentina. Ora sono anche vicini di casa, anzi di residenza. Forse il Papa potrà ricordare a Zanchetta di presentarsi alla prossima udienza: 27 novembre, ore 9. In Argentina.

Davide Falcioni per fanpage.it il 26 novembre 2019. Era attesa per ieri la sentenza della Seconda Corte penale del Tribunale di Mendoza (Argentina) che vede imputati il prete italiano don Nicola Corradi, 85 anni, il collega argentino Horacio Corbacho, 62 anni, oltre all'ex giardiniere dell'istituto Provolo di Lujan de Cuyo, Armando Gomez. Corradi è stato condannato a 42 anni di reclusione, l'altro sacerdote a 45 anni mentre l'inserviente a 18 anni. I giudici hanno inoltre ordinato la cura psicologica gratuita a carico dello Stato per tutte le vittime e l’agevolazione per il loro reinserimento nella società. Sui tre imputati pendevano 28 accuse per abusi sessuali e corruzione di minori. Le vittime erano ospiti di una struttura per sordi a Lujàn de Cuyo, nella diocesi di Mendoza. Gli abusi sarebbero stati commessi tra il 2000 e il 2009 su bambini di età compresa tra i 10 e i 12 anni. Come riportato dal sito argentino Mdz, il procuratore Alejandro Iturbide il 12 novembre scorso aveva chiesto per i due parroci la pena di 45 anni di reclusione, mentre per Gomez un condanna a 22 anni e 6 mesi. I giudici hanno quindi emesso sentenze lievemente più attenuate rispetto alle richieste dell'accusa.

Caso Provolo: abusi anche nell'istituto di Verona. Il caso di don Corradi dall'Argentina potrebbe prossimamente arrivare anche in Italia grazie alla onlus Rete L'Abuso, la quale due anni fa aveva presentato tre fascicoli sul caso argentino alla Procura della Repubblica di Verona. Secondo l'associazione, infatti, furono abusati anche alcuni minori affidati all'istituto Provolo di Verona, sede centrale e responsabile giuridico della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordomuti. Nel novembre 2016 un ex allievo dell'Istituto Provolo di Verona, oggi sessantatreenne, raccontò alcuni episodi di pedofilia che si sarebbero verificati tra le mura della scuola. "Sono stato sodomizzato e costretto ad avere rapporti sessuali da almeno quindici preti e fratelli. Sono senza udito da quando avevo 8 anni e sono entrato al Provolo l'anno successivo. Praticamente dalle prime settimane a quando, a 15 anni, uscii da quell'inferno, sono stato abusato in ogni modo". Della vicenda si era occupata anche Fanpage.it con un'inchiesta giornalistica: Don Eligio Piccoli, sacerdote in servizio all'Istituto Provolo di Verona, ammise davanti ai microfoni della nostra testata di aver abusato sessualmente di molti minori sordomuti ospiti della struttura.

L'Argentina condanna i preti pedofili ma l’Italia rifiuta l’estradizione. Abusi sui bambini sordi dell’istituto Provolo: 42 anni di carcere per un sacerdote veronese. Ma i giudici di Venezia rigettano la richiesta argentina di arrestare un altro religioso italiano, scappato a Verona. E filmato dall’Espresso. Paolo Biondani e Andrea Tornago il 26 novembre 2019 su L'Espresso. L'Argentina condanna i preti pedofili, ma l'Italia nega l'estradizione del ricercato: un religioso che è sfuggito all'arresto scappando a Verona, dove vive libero e indisturbato. Dall’altra parte del mondo, la magistratura argentina ha pronunciato ieri una sentenza storica. Per la prima volta un’autorità giudiziaria ha condannato due sacerdoti dell’Istituto Provolo, che ha la casa madre a Verona, per una serie di abusi e violenze sessuali commessi tra il 2005 e il 2016 su vittime minorenni: bambini sordi, spesso orfani, che vivevano nell'educandato di Mendoza. Una sentenza pesante, che conferma la gravità dei fatti attribuiti ai religiosi della Compagnia di Maria, la congregazione vaticana che gestisce l'istituto Provolo: 45 anni di reclusione per il prete argentino Horacio Corbacho, 42 anni per il sacerdote veronese Nicola Corradi, che del centro di Mendoza è stato anche direttore. Condannato a 18 anni anche il giardiniere della scuola, il 57enne Armando Gómez. I tre imputati sono stati arrestati nel novembre 2016. Don Corradi ha poi ottenuto i domiciliari per motivi di salute. All'arresto è invece sfuggito un altro religioso veronese, Eliseo Pirmati, accusato di violenza sessuale aggravata, atti osceni e corruzione di minorenni in un procedimento collegato, che riguarda un'altra sede del Provolo in Argentina. Un'inchiesta giornalistica dell'Espresso  ha rivelato che il religioso italiano, dopo i primi arresti in Argentina, è tornato a Verona, sfuggendo così al successivo mandato di cattura. Nel giugno scorso Pirmati è stato filmato dall'Espresso mentre andava a messa e poi rientrava nella sede centrale del Provolo a Verona, dove ha un alloggio. Sull'inchiesta argentina, ha detto solo: «Non so niente». Quindi i giudici argentini hanno presentato alle autorità italiane una formale richiesta di estradizione, trasmessa l’8 ottobre scorso ai magistrati di Venezia. Qui, dieci giorni dopo, la Procura generale ha rigettato la domanda argentina, come risulta dal provvedimento, datato 18 ottobre 2019, di cui l'Espresso ha ottenuto copia. Un no mitigato da una richiesta di «informazioni supplementari», che in futuro potrebbe portare a una decisione diversa, almeno in teoria. Nell'atto di rigetto, il sostituto procuratore generale Maristella Cerato scrive che «la documentazione pervenuta risulta carente di alcuni elementi essenziali», previsti dalla Convenzione di estradizione tra Italia e Argentina siglata nel 1992. I dati mancanti o incompleti riguardano l'esatta identificazione del ricercato, la precisa qualificazione giuridica delle accuse, la data di emissione degli atti giudiziari trasmessi in Italia e l'epoca di commissione dei reati, che è fondamentale per calcolare la prescrizione: il termine di scadenza dei reati, che in base alla legge italiana (ora modificata) potrebbe garantire l'impunità per le accuse più remote, anche in caso di accertata colpevolezza. Le condanne argentine riguardano abusi sistematici su bambini minorenni, dai 5 ai 17 anni, spesso orfani o con genitori molto poveri. Il collegio presieduto dal giudice Carlos Díaz ha ordinato di assicurare la massima diffusione della sentenza anche nella lingua dei segni, in cui è stato tradotto in simultanea l’intero dibattimento iniziato il 5 agosto scorso. Tra gli altri indagati, in due procedimenti diversi ma collegati, compaiono anche una suora e undici dipendenti civili dell’istituto Provolo di Mendoza. E decine di altri accusati nella sede di La Plata. Le pesanti condanne in Argentina e lo stop italiano all'estradizione, almeno temporaneo, approfondiscono ancora di più il solco tra due nazioni con grandi legami storici. In Argentina il caso Provolo è considerato uno dei più gravi scandali di pedofilia nella Chiesa cattolica. In Italia il caso fu scoperchiato solo da un'inchiesta dell'Espresso firmata da Paolo Tessadri, che raccolse le prime testimonianze, videoregistrate, di decine di vittime. La successiva istruttoria ecclesiastica, però, si è chiusa senza alcuna condanna. E la magistratura veronese ha dovuto archiviare tutte le accuse per prescrizione. Gli atti della lacunosa istruttoria vaticana, recuperati l'anno scorso dall'Espresso, mostrano che i vertici del Provolo si limitavano a trasferire da una sede all'altra i religiosi accusati da diverse vittime. Tra loro, spicca proprio don Corradi, che fu spostato negli anni Settanta da Verona in Argentina, dove secondo la sentenza di ieri ha ricominciato ad abusare dei bambini. Una trama che ricorda il caso Spotlight, il film sullo scandalo dei preti pedofili americani svelato da un'inchiesta giornalistica del Boston Globe.

Esclusivo: don Eliseo Pirmati, il prete ricercato per pedofilia gira indisturbato per Verona. Il religioso, colpito da un ordine di arresto in Argentina per lo scandalo che ha travolto le sedi sudamericane dell’istituto Provolo per bambini sordi, risiede serenamente in Italia. L'Espresso l'ha incontrato mentre si recava a messa. Andrea Tornago il 12 giugno 2019 su L'Espresso. Capelli bianchi, completo scuro, il passo spedito che non tradisce gli 83 anni, Eliseo Pirmati ha l’aria di chi vorrebbe solo confondersi tra la gente. È il religioso veronese ricercato dalla polizia argentina per  lo scandalo pedofilia  che ha travolto le sedi sudamericane dell’istituto Provolo, colpito da un ordine di arresto firmato lo scorso 23 aprile dal giudice di La Plata, Jorge Moya Panisello, per abusi sessuali ripetuti e pluriaggravati, atti osceni e corruzione di minori. Ora vive in Italia, a Verona, dove è tornato improvvisamente nel dicembre del 2017, mentre in Argentina dilagava l’inchiesta giudiziaria sugli abusi ai danni dei bambini sordi coinvolgendo anche la struttura di La Plata, dove è stato inviato in missione nel 1974.  L’Espresso l’ha incontrato alcuni giorni fa mentre si recava a messa in una centrale chiesa di Verona, Santa Teresa degli Scalzi, ed è in grado di pubblicare in esclusiva le immagini. L'Espresso pubblica per la prima volta in esclusiva le immagini del religioso veronese ricercato dalle autorità argentine per lo scandalo pedofilia dell'Istituto Provolo di La Plata. Eliseo Pirmati, 83 anni, cammina indisturbato per le strade di Verona. Dopo 43 anni di missione in Argentina, nel dicembre del 2017 è tornato in Italia, nella sede centrale del Provolo. I giudici di La Plata il 23 aprile 2019 hanno spiccato nei suoi confronti un ordine di cattura per abusi sessuali ripetuti e pluriaggravati, atti osceni e corruzione di minori, e richiesto la sua estradizione in Argentina. Dopo la messa nella chiesa di Santa Teresa degli Scalzi, Pirmati fa ritorno nella struttura centrale dell’Istituto Provolo, sede della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordi (di Andrea Tornago). Il religioso del Provolo, per il quale i magistrati argentini hanno firmato una richiesta di estradizione, dopo la funzione è tornato nell’edificio centrale dell’istituto Antonio Provolo di Verona, sede della congregazione vaticana della Compagnia di Maria per l’educazione dei sordi, dove ha stabilito la sua residenza al suo ritorno in Italia. Lo stesso istituto da cui lo scandalo pedofilia era partito 10 anni fa, rivelato dall’Espresso e insabbiato dalle autorità ecclesiastiche, prima di arrivare a contagiare l’Argentina. Don Pirmati ha sostenuto di non conoscere i provvedimenti delle autorità argentine e ha negato ogni coinvolgimento: «Non so niente, non c’entro niente - ha dichiarato a L’Espresso - Sono un uomo qualunque della strada». Nell’inchiesta di La Plata, Eliseo Pirmati è accusato di raccapriccianti abusi nei confronti dei minori che aveva in custodia, per di più privi della possibilità di esprimersi in quanto sordi, violenze aggravate dalla minore età delle vittime e dalla sua qualifica di ministro di culto religioso. Gli abusi, secondo i magistrati, «provocarono un danno irreparabile alla salute dei bambini, tanto nella sessualità quanto nella vita quotidiana: angoscia, inquietudine, desideri di autoeliminazione». Un anno dopo i primi arresti di religiosi e laici del Provolo in Argentina nel dicembre del 2016, tra i quali figurava il sacerdote veronese Nicola Corradi, un aereo di linea ha riportato don Pirmati in Italia, dove ora vive indisturbato nella sede dell’istituto Antonio Provolo.

Preti pedofili impuniti: il caso Spotlight italiano. Un sacerdote italiano latitante. Decine di religiosi accusati di orribili abusi su bimbi sordi nell'istituto Provolo di Verona. Si riaccende lo scandalo svelato dall’Espresso. Che era stato prontamente insabbiato. Paolo Biondani e Andrea Tornago il 06 giugno 2019 su L'Espresso. Quando la polizia argentina si è presentata nella sua residenza a La Plata con il mandato di cattura, il sacerdote era già un fantasma. Sparito. Un prete italiano che diventa latitante. Colpito da un ordine di carcerazione, datato 23 aprile 2019, per il più grave scandalo di pedofilia nella Chiesa cattolica argentina. Ma tuttora in libertà grazie a un provvidenziale trasferimento in Italia. Dove vive da mesi, indisturbato, in una struttura collegata a un famoso istituto religioso di Verona: lo stesso che già dieci anni fa era finito nella tempesta per decine di accuse di abusi sui bambini rivelati da un’inchiesta giornalistica dell’Espresso. Uno scandalo che in Italia è rimasto totalmente impunito. Prima di riesplodere in Argentina. Dove ora i giudici scrivono che i vertici di quell’istituto italo-argentino, invece di perseguire i pedofili, si limitavano a trasferirli in altre sedi. In altre scuole e collegi per minorenni invalidi: sordi e spesso anche muti. Ed è per questo che le violenze su decine di bambini hanno potuto continuare a ripetersi per decenni, «dal 1950 circa fino al 2015 almeno», spesso con gli stessi protagonisti, che dopo l’Italia hanno contagiato l’Argentina. Il sacerdote ora ricercato dai magistrati di Buenos Aires si chiama Eliseo Pirmati, ha 83 anni ed è il destinatario di un provvedimento che non ha precedenti nella storia giudiziaria: un ordine di carcerazione di un prete italiano, con formale richiesta di estradizione in Argentina, per una serie di accuse-choc di pedofilia, ripetute e pluriaggravate. Con casi di maltrattamenti e violenze sui bambini tanto pesanti da essere paragonati a «torture» e «riduzioni in schiavitù». Una misura-choc che è solo la parte emersa di un abisso senza fondo. Uno scandalo internazionale che ha le sue radici in Italia, a Verona, nella sede centrale dell’istituto Antonio Provolo per l’educazione dei bambini sordi. Dove il prete ora latitante ha trasferito la sua residenza nel dicembre 2017, quando è salito su un aereo di linea e ha lasciato l’Argentina, proprio mentre l’inchiesta si allargava alla sua struttura, dopo i primi arresti di altri sacerdoti.

LE DENUNCE IGNORATE DI VERONA. In Italia lo scandalo si apre il 29 gennaio 2009,  quando L’Espresso pubblica le testimonianze , scritte e filmate, dei primi 15 ex allievi del Provolo che confermano di aver subito abusi e violenze da oltre venti sacerdoti, chierici e altri dipendenti dell’istituto. L’articolo, firmato da Paolo Tessadri, precisa che nei mesi precedenti la curia di Verona aveva ricevuto una serie di denunce, rimaste ignorate, da un’associazione delle vittime. Compresa una raccomandata inviata nel 2008 al vescovo Giuseppe Zenti, con le firme di 83 persone che chiedevano di denunciare presunti abusi sofferti a partire dagli anni ’50, fino al 1984. Le vittime all’epoca dei fatti erano tutte minorenni. Bambini e bambine sordi o sordomuti, spesso orfani, ospitati nei centri per minori del Provolo: la sede centrale a Verona, una scuola-collegio in periferia, a Chievo, e un centro estivo in provincia, a San Zeno di Montagna. Una decina di quei sacerdoti risultano ancora in servizio, altri sono morti. Tra i 26 accusati spicca il nome di uno storico vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Carraro, deceduto nel 1980, di cui in quei mesi è in corso la procedura di beatificazione. Il vescovo Zenti, il giorno stesso, respinge tutte le accuse, attacca L’Espresso e l’associazione degli ex allievi, annuncia querele per diffamazione e calunnia. Il 21 maggio 2009, a riconferma della verità dei fatti, il giornalista Tessadri pubblica la confessione di un ex chierico del Provolo, che ammette di aver abusato per anni di almeno 13 piccoli sordi e chiama in causa tre sacerdoti. L’intervistato aggiunge che i capi dell’istituto sapevano, ma si limitarono a trasferire un solo prete, «il più violento», nei primi anni ’70. A quel punto il vescovo annuncia l’avvio di un’istruttoria ecclesiastica. Che si chiude nel 2011, come mostrano gli atti mai pubblicati finora, con risultati in larghissima parte assolutori: le accuse di pedofilia vengono confermate per un solo sacerdote, su un totale di 26 accusati. Altri due religiosi vengono sottoposti a semplici ammonizioni precauzionali, senza dichiarazioni di colpevolezza. L’istruttoria, gestita formalmente dal Vaticano, esamina però solo i casi di alcune vittime. E resta segreta. Dopo di che nessuno parla più dello scandalo. Che ora riesplode fragorosamente in Argentina. L’istituto Provolo ha due sedi aperte mezzo secolo fa a La Plata e Mendoza. L’indagine argentina parte nel 2015 da quest’ultimo collegio. Nel dicembre 2016 finiscono in carcere i primi accusati di pedofilia: l’ex direttore, il sacerdote veronese Nicola Corradi, 83 anni, ora agli arresti domiciliari per motivi di salute, il suo braccio destro, il prete argentino Horacio Corbacho, tuttora detenuto, e un dipendente laico. Oggi, dopo due anni di indagini, solo a Mendoza si contano 14 indagati, tra cui una suora accusata di complicità nelle violenze, e più di 190 testimoni d’accusa. Don Horacio è accusato di aver abusato perfino bimbi di 5 e 6 anni. A Mendoza le violenze, secondo le vittime, venivano commesse soprattutto in un edificio separato dalla scuola, chiamato “la casita de Dios”, dove i piccoli senza famiglia restavano a dormire anche nei fine settimana. Da lì l’inchiesta si allarga alla casa-madre argentina del Provolo, seguendo a ritroso le tracce di Don Corradi, che ha fondato il centro di Mendoza dopo aver lavorato per anni a La Plata. Qui i magistrati raccolgono molte altre testimonianze. E due mesi fa ordinano l’arresto di tre accusati: lo stesso don Corradi, questa volta per le violenze commesse fino agli anni ’90 a La Plata, Eliseo Pirmati, il sacerdote rifugiatosi a Verona, e un guardiano del collegio, José Britez, tuttora ai domiciliari come complice. L’ordinanza d’arresto, finora inedita, contiene testimonianze spaventose. Le vittime di La Plata raccontano di aver subito violenze sessuali dall’età di 8-10 anni fino ai 15-17. Molti particolari sono troppo raccapriccianti per essere riferiti. Come a Mendoza, anche a La Plata i giorni peggiori erano sabato e domenica, quando nel collegio restavano i minorenni più sfortunati: gli orfani e i figli di genitori troppo poveri e lontani. Quei bambini venivano «ridotti in schiavitù», scrivono i magistrati: «A partire dagli otto anni venivano sfruttati per lavori pesanti, pulizie dei bagni, della scuola, della chiesa, lavaggio della biancheria, tinteggiature, manutenzione nei giardini, aratura dei campi». Stremati dalla fatica, di notte venivano violentati da sacerdoti, insegnanti o guardiani che s’infilavano nei loro letti: abusi ripetuti per anni, tanto che le vittime a poco a poco imparavano a «estraniarsi e perdere coscienza». Di giorno, i piccoli erano costretti a «denudarsi e fare la doccia in gruppo» di fronte ad adulti che li molestavano. «Anche il cibo era orribile», testimonia una delle vittime: «I politici in visita ci lasciavano donazioni, ma a noi non arrivava nulla».

LE SUORE «TORTURATRICI». I giudici argentini accusano di maltrattamenti e percosse anche due religiose, di cui si conoscono solo i nomi di battesimo. Un sordomuto descrive così la loro crudeltà: «Alla domenica non avevo voglia di vestirmi di bianco e aiutare il prete a preparare le ostie, allora scappavo. Quando la suora mi prendeva, mi rinchiudeva nei sotterranei delle cucine, mi appendeva con una corda a una trave e mi teneva prigioniero per ore, come uno schiavo». Una violenza che per i magistrati «in nulla si differenzia dalla tortura». L’ordinanza sottolinea che «al Provolo non veniva insegnata la lingua dei segni, per cui i bambini erano impossibilitati a comunicare e denunciare gli abusi». Negli atti argentini si ripetono gli stessi orribili particolari che erano emersi in Italia già nel 2009 con gli articoli dell’Espresso. A Verona i primi casi documentati risalgono agli anni ’50. A La Plata le denunce partono dagli anni ’70 e coincidono con il trasferimento in Argentina di alcuni sacerdoti italiani sospettati di pedofilia. Tra loro c’è don Corradi, che arriva a La Plata nel 1970: nel 1986 è lui a fondare la struttura di Mendoza, che sotto la sua guida diventa un inferno almeno fino agli anni ’90. Lo stesso sacerdote, ora agli arresti, era uno dei 26 accusati (inutilmente) dalle vittime veronesi: nell’istruttoria ecclesiastica non è stato nemmeno interrogato. L’intera storia ricorda la trama del film “Spotlight”, che ricostruisce l’inchiesta del Boston Globe sul primo scandalo di pedofilia nella Chiesa cattolica americana. Il problema cruciale è la copertura delle gerarchie: se i sacerdoti denunciati vengono soltanto trasferiti, possono ricominciare altrove ad abusare di altri bambini. L’ordinanza argentina ipotizza che la partenza del prete italiano ora ricercato non fosse casuale. «Don Eliseo sapeva che Don Nicola era stato arrestato», testimonia una delle vittime, che oggi ha 40 anni: «Quindi avevo detto ai magistrati di fare presto... Ora è tardi». Di certo il sacerdote dichiarato latitante, che viveva in Argentina dal 1974, tanto da acquisire la doppia cittadinanza, è tornato a Verona all’improvviso, il 7 dicembre 2017. E ha indicato come nuova residenza la sede centrale del Provolo. Anche don Corradi nel marzo 2017, mentre era già agli arresti, risulta aver riattivato la cittadinanza italiana: per evitare ostacoli processuali, i giudici argentini hanno esteso anche a lui la richiesta di estradizione.

I PRELATI ITALIANI E L'ALIBI CONTRAFFATTO. Di fronte agli scandali argentini, l’istruttoria ecclesiastica annunciata dal vescovo di Verona nel 2009 non sembra un capolavoro investigativo. Gli atti documentano che l’inchiesta religiosa fu affidata un ex giudice veronese, un cattolico molto conservatore, che però ha interrogato solo quattro sacerdoti: il magistrato scrive che erano gli unici indicatigli dalle gerarchie ecclesiastiche. Sulle carte c’è il timbro del Vaticano: Congregazione per la dottrina della fede. L’istruttoria si chiude dichiarando colpevole un solo sacerdote, accusato da sei vittime. Lo stesso prete era stato trasferito già due volte in altre sedi del Provolo, nel 1970 e 1976, per «immoralità sessuale». Ma non è mai stato denunciato alla giustizia. Ed è rimasto sacerdote, ritrovandosi così al centro delle nuove denunce dei bimbi abusati. Il capitolo più delicato dell’istruttoria ecclesiastica riguarda Gianni Bisoli, un ex allievo del Provolo di Verona che aveva denunciato anni di abusi attribuiti a 16 religiosi, tra cui un vescovo, Giuseppe Carraro, morto nel 1980 e poi beatificato. La sentenza religiosa bolla la sua testimonianza, l’unica che accusava quel prelato, come «menzognera», spiegando che la sua inattendibilità sarebbe provata da un documento decisivo: Bisoli si dichiara certo di aver lasciato il Provolo nel giugno 1964, mentre la scheda interna dell’istituto colloca la sua uscita nel 1963. Come dire che l’accusatore ha mentito perfino sugli anni della sua permanenza al Provolo. Ora però si scopre che quella data di un anno prima è stata «falsificata». A riconoscerlo è lo stesso giudice istruttore, Mario Sannite, che solo in questi mesi ha potuto esaminare la vera pagella finale di Bisoli, con la data giusta del giugno 1964. A riconfermare il falso è anche un’indagine della Procura di Verona, che nel 2017 ha archiviato il caso motivando che la contraffazione c’è stata, ma «è stata commessa da autori rimasti ignoti». La manovra contro il testimone d’accusa ha comunque raggiunto due risultati. Don Nicola Corradi, che compariva già nelle denunce di Bisoli, non è stato neppure sfiorato dall’istruttoria ecclesiastica, come altri sacerdoti poi trasferiti e ora inquisiti in Argentina. Mentre la procedura di beatificazione dell’ex vescovo ha potuto chiudersi in gloria: nel 2015 monsignor Carraro è stato dichiarato «venerabile» dalla Congregazione per le cause dei santi. L’attuale vescovo Zenti, che in questi anni si è esposto come sponsor dei cattolici ultra-integralisti e di alcuni candidati della Lega, invitati perfino a parlare in Duomo, nel 2017 è stato interrogato in gran segreto sul caso Provolo dal procuratore di Verona, Angela Barbaglio. Nella deposizione il vescovo riconosce di aver dovuto patteggiare una condanna per aver diffamato l’associazione dei sordomuti. Mentre ha visto archiviare le sue querele per calunnia, in quanto gli abusi dei preti del Provolo oggi risultano «certi e documentati», anche se ormai coperti dalla prescrizione. Almeno fino al 2013, però, il vescovo Zenti invitava i sacerdoti veronesi al silenzio sui casi di pedofilia, come dimostra un suo discorso (riservato) in difesa di monsignor Carraro: «Ognuno sostiene l’altro nel momento della difficoltà, evitando ogni possibile pettegolezzo. Quando anche uno solo è investito da uno tsunami, tutti dobbiamo soccorrerlo, impegnandoci alla riservatezza». Una linea in vistoso contrasto con l’attuale posizione della Chiesa espressa da papa Francesco, che invita invece a denunciare ogni caso di sospetta pedofilia. E nel 2017 ha commissariato la congregazione del Provolo.

Noi vittime dei preti pedofili. Decine di bambini e ragazzi sordi violentati e molestati in un istituto di Verona fino al 1984. E dopo decenni di tormenti, gli ex allievi trovano la forza di denunciare gli orrori. Ma molti dei sacerdoti sono ancora lì. Paolo Tessari il 22 gennaio 2009 su L'Espresso. Per oltre un secolo è stato un simbolo della carità della Chiesa: una scuola specializzata per garantire un futuro migliore ai bambini sordi e muti, sostenendoli negli studi e nell'inserimento al lavoro. L'Istituto Antonio Provolo di Verona ospitava i piccoli delle famiglie povere, figli di un Nord-est contadino dove il boom economico doveva ancora arrivare. Fino alla metà degli anni Ottanta è stato un modello internazionale, ma nel tetro edificio di Chievo, una costruzione a metà strada tra il seminario e il carcere, sarebbero avvenuti episodi terribili. Solo oggi, rincuorati dalle parole di condanna pronunciate da papa Ratzinger contro i sacerdoti pedofili, decine di ex ospiti hanno trovato la forza per venire allo scoperto e denunciare la loro drammatica esperienza: "Preti e fratelli religiosi hanno abusato sessualmente di noi". Un'accusa sottoscritta da oltre 60 persone, bambini e bambine che hanno vissuto nell'Istituto, e che ora scrivono: "Abbiamo superato la nostra paura e la nostra reticenza". Gli abusi di cui parlano sarebbero proseguiti per almeno trent'anni, fino al 1984. Sono pronti a elencare una lunga lista di vittime e testimoni, ma non possono più rivolgersi alla magistratura: tutti i reati sono ormai prescritti, cancellati dal tempo. I sordomuti che dichiarano di portarsi dentro questo dramma sostengono però di non essere interessati né alle condanne penali né ai risarcimenti economici. Loro, scrivono, vogliono evitare che altri corrano il rischio di subire le stesse violenze: una decina dei religiosi che accusano oggi sono anziani, ma restano ancora in servizio nell'Istituto, nelle sedi di Verona e di Chievo. Per questo, dopo essersi rivolti al vescovo di Verona e ai vertici del Provolo, 15 ex allievi hanno inviato a 'L'espresso' le testimonianze - scritte e filmate - della loro esperienza. Documenti sconvolgenti, che potrebbero aprire uno squarcio su uno dei più gravi casi di pedofilia in Italia: gli episodi riguardano 25 religiosi, le vittime potrebbero essere almeno un centinaio.

La denuncia. Gli ex allievi, nonostante le difficoltà nell'udito e nella parola, sono riusciti a costruirsi un percorso di vita, portandosi dentro le tracce dell'orrore. Dopo l'esplosione dello scandalo statunitense che ha costretto la Chiesa a prendere atto del problema pedofilia, e la dura presa di posizione di papa Benedetto XVI anche loro hanno deciso di non nascondere più nulla. Si sono ritrovati nell'Associazione sordi Antonio Provolo e poi si sono rivolti alla curia e ai vertici dell'Istituto. Una delle ultime lettere l'hanno indirizzata a monsignor Giampietro Mazzoni, il vicario giudiziale, ossia il magistrato del Tribunale ecclesiastico della diocesi di Verona. È il 20 novembre 2008: "I sordi hanno deciso di far presente a Sua Eminenza il Vescovo quanto era loro accaduto. Nella stanza adibita a confessionale della chiesa di Santa Maria del Pianto dell'Istituto Provolo, alcuni preti approfittavano per farsi masturbare e palpare a loro volta da bambine e ragazze sorde (la porta era in quei momenti sempre chiusa a chiave). I rapporti sodomitici avvenivano nel dormitorio, nelle camere dei preti e nei bagni sia all'Istituto Provolo di Verona che al Chievo e, durante il periodo delle colonie, a Villa Cervi di San Zeno di Montagna". E ancora: "Come non bastasse, i bambini e ragazzi sordi venivano sottoposti a vessazioni, botte e bastonature. I sordi possono fare i nomi dei preti e dei fratelli laici coinvolti e dare testimonianza". Seguono le firme: nome e cognome di 67 ex allievi.

Le storie. I protagonisti della denuncia citano un elenco di casi addirittura molto più lungo, che parte dagli anni Cinquanta. Descrivono mezzo secolo di sevizie, perfino sotto l'altare, in confessionale, dentro ai luoghi più sacri. Quei bambini oggi hanno in media tra i 50 e i 70 anni: il più giovane compirà 41 anni fra pochi giorni. Qualcuno dice di essere stato seviziato fino quasi alla maggiore età. Gli abusi, raccontano, avvenivano anche in gruppo, sotto la doccia. Scene raccapriccianti, impresse nella loro memoria. Ricorda Giuseppe, che come tutti gli altri ha fornito a 'L'espresso' generalità complete: "Tre ragazzini e tre preti si masturbavano a vicenda sotto la doccia". Ma la storia più angosciante è quella di Bruno, oggi sessantenne, che alla fine degli anni Cinquanta spiccava sugli altri bambini per i lineamenti angelici: era il 'bello' della sua classe. E solo ora tira fuori l'incubo che lo ha tormentato per tutta la vita: "Sono diventato sordo a otto anni, a nove frequentavo il Provolo che ho lasciato a 15 anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al quindicesimo anno sono stato oggetto di attenzioni sessuali, sono stato sodomizzato e costretto a rapporti di ogni tipo dai seguenti preti e fratelli.". Ha elencato 16 nomi. Nella lista anche un alto prelato, molto famoso a Verona: due sacerdoti del Provolo avrebbero accompagnato Bruno nel palazzo dell'ecclesiastico. "Era il 1959, avevo 11 anni. Mi ha sodomizzato e preteso altri giochi sessuali. È stata un'esperienza terribile che mi ha procurato da adulto gravi problemi psicologici".

Il dramma. Un altro ex allievo, Guido, dichiara di essere stato molestato da un prete: "Avveniva nella sua stanza all'ultimo piano. E mi costringeva a fare queste cose anche a Villa Cervi durante le colonie estive e al campeggio sul lago di Garda". Carlo è rimasto all'istituto dai 7 ai 18 anni, e chiama in causa un altro sacerdote: "Mi costringeva spesso con punizioni (in ginocchio per ore in un angolo) e percosse (violenti schiaffi e bastonature) ad avere rapporti con lui". Altre volte si sarebbe trattato di bacchettate sulle mani, mentre di notte "nello stanzone dove dormivo con altri sordi spesso mi svegliava per portarmi nei bagni dove mi sodomizzava o si faceva masturbare. Non ho mai dimenticato". Sono racconti simili. Tragedie vissute da bambini di famiglie povere, colpiti dalla sordità e poi finiti tra le mura dell'istituto; drammi tenuti dentro per decenni. Ricostruisce Ermanno: "La violenza è avvenuta nei bagni e nelle stanze dell'Istituto Provolo e anche nella chiesa adiacente". "Se rifiutavo minacciava di darmi un brutto voto in condotta, questi fatti mi tornano sempre in mente", scrive un altro. Giuseppe qualche volta a Verona incontra il suo violentatore, "ancora oggi quando lo vedo provo molto disagio. Non sono mai riuscito a dimenticare". Stando alle denunce, le vittime erano soprattutto ragazzini. Ma ci sono anche episodi testimoniati da bambine. Lina ora ha cinquant'anni, è rimasta "all'istituto per sordomuti dai sei ai 17 anni. A tredici anni nella chiesa, durante la confessione faccia a faccia (senza grata), il sacerdote mi ha toccata il seno più volte. Ricordo bene il suo nome. Io mi sono spaventata moltissimo e da allora non mi sono più confessata". Giovanna scrive che un altro prete "ha tirato fuori il membro e voleva che lo toccassi". E per molte ragazzine i fatti avvenivano nella chiesa dell'istituto, sotto l'altare. A qualcuna, però, è andata molto peggio.

Gli esposti. Oggi l'Istituto Antonio Provolo ha cambiato completamente struttura e missione. Le iniziative per il sostegno ai sordomuti sono state ridimensionate e vengono finanziate anche dalla Regione Veneto. Adesso l'attività principale è il Centro educativo e di formazione professionale, gestito interamente da laici, che offre corsi d'avanguardia per giovani ed è specializzato nella riqualificazione di disoccupati. Al vertice di tutto ci sono sempre i religiosi della Congregazione della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordomuti, che dipendono direttamente dalla Santa Sede. Alla Congregazione si sono rivolti gli ex allievi chiedendo l'allontanamento dei sacerdoti chiamati in causa. Secondo la loro associazione, "c'è già stata più di un'ammissione di colpa". La più importante risale al 2006, quando don Danilo Corradi, superiore generale dell'Istituto Provolo, avrebbe incontrato più di 50 ex allievi. Secondo l'Associazione, il superiore a nome dell'Istituto avrebbe chiesto 12 volte scusa per gli abusi commessi dagli altri religiosi. I testimoni ricostruiscono una riunione dai toni drammatici: don Corradi che stringe il capo fra le mani, suda, chiede perdono, s'inginocchia. Ma i sordomuti avrebbero preteso l'allontanamento dei sacerdoti coinvolti, senza ottenerlo. A 'L'espresso' don Danilo Corradi fornisce una versione diversa: "Ho sentito qualcosa, ma io sono arrivato nel 2003 e di quello che è successo prima non so. Non rispondo alle accuse, non so chi le faccia: risponderemo dopo aver letto l'articolo".

La Curia. Da quasi due anni gli ex allievi si sono appellati anche alla Curia di Verona, informandola nel corso di più incontri. Il presidente della Associazione sordi Antonio Provolo, Giorgio Dalla Bernardina, ne elenca tre: a uno hanno preso parte 52 persone. E scrive al vescovo: "Nonostante i nostri incontri in Curia durante i quali abbiamo fatto presente anche e soprattutto gli atti di pedofilia e gli abusi sessuali subiti dai sordomuti durante la permanenza all'istituto, a oggi non ci è stata data alcuna risposta". L'ultima lettera è dell'8 dicembre 2008. Pochi mesi prima, a settembre, avevano fatto l'ennesimo tentativo, inviando una raccomandata al vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti. Senza risposta, "nonostante le sue rassicurazioni e promesse di intervento". Questa missiva è stata firmata da tre associazioni di sordi: Associazione Sordi Antonio Provolo, Associazione non udenti Provolo, Associazione sordi Basso Veronese-Legnago. Il vescovo, interpellato da 'L'espresso', replica con una nota scritta: "Il Provolo è una congregazione religiosa. In quanto tale è di diritto pontificio e perciò sotto la giurisdizione del Dicastero dei religiosi. La diocesi di Verona, sul cui territorio è sorta la Congregazione, apprezza l'opera di carattere sociale da essa svolta in favore dei sordomuti". Poi monsignor Giuseppe Zenti entra nel merito: "Per quanto attiene l'accusa di eventuale pedofilia, rivolta a preti e fratelli laici, che risalirebbe ad alcune decine di anni fa, la diocesi di Verona è del tutto all'oscuro. A me fecero cenno del problema alcuni di una Associazione legata al Provolo, ma come ricatto rispetto a due richieste di carattere economico, nell'eventualità che non fossero esaudite. Tuttavia a me non rivolsero alcuna accusa circostanziata riferita a persone concrete, ma unicamente accuse di carattere generico. Non ho altro da aggiungere se non l'impegno a seguire in tutto e per tutto le indicazioni contenute nel codice di diritto canonico e nelle successive prese di posizione della Santa Sede. Nella speranza che presto sia raggiunto l'obiettivo di conoscere la verità dei fatti". L'Associazione sordi Antonio Provolo risponde al vescovo negando qualunque ricatto o interesse economico: "Gli abbiamo soltanto fatto presente i problemi, noi vogliamo che quei sacerdoti vengano allontanati perché quello che hanno fatto a noi non accada ad altri".

Abusi sessuali in Vaticano? A Le Iene tre nuove testimonianze esclusive. Le Iene il 17 novembre 2019. Vi avevamo fatto ascoltare le testimonianze di due giovani ex “chierichetti del Papa”, che avevano parlato di violenze che si sarebbero consumate all’interno del pre-seminario San Pio X, a duecento metri da San Pietro. A Le Iene i racconti di altre tre persone che parlano di abusi sessuali che si sarebbero verificati quando avevano 11 anni. “Senti io ti prometto una cosa, se tu cerchi mio fratello, dove sei sei ti spezzo”. Questa frase di minacce, rivolta a Gaetano Pecoraro, è stata pronunciata dal fratello di una presunta vittima di abusi sessuali all’interno delle mura vaticane. Torniamo a occuparci degli abusi che sarebbero avvenuti nel pre-seminario San Pio X, l’unico luogo all’interno delle mura vaticane dove vivono dei bambini, i cosiddetti “chierichetti del Papa”. Lo facciamo con altre tre testimonianze inedite, che confermerebbero ancora una volta la presenza di casi di abusi portando a cinque il numero dei chierichetti che sarebbero stati vittime di violenza. La nuova inchiesta di Gaetano Pecoraro e Riccardo Spagnoli, che potrete seguire in esclusiva stasera a Le Iene su Italia1, parte da un’email indirizzata alla nostra redazione: alcuni seminaristi raccontano di essere stati vittime o di essere a conoscenza di abusi sessuali ai danni di ragazzini di soli 11 anni. Nelle puntate precedenti della nostra inchiesta vi avevamo raccontato la storia di Kamil, chierichetto di Joseph Ratzinger e di Papa Francesco, che a Le Iene aveva sostenuto di essere stato testimone oculare di abusi sessuali che il compagno di stanza Marco, da ragazzino, avrebbe subìto al pre-seminario, distante appena 200 metri dalla basilica di San Pietro. A quelle accuse gravissime si erano aggiunte le testimonianze di un secondo giovane, che aveva puntato il dito contro la stessa persona: il seminarista Gabriele Martinelli, poi diventato sacerdote. Il 17 settembre di quest’anno, la sala stampa della Santa Sede fa sapere che “lo stato del Vaticano ha chiesto il rinvio a giudizio di don Gabriele Martinelli, con l’accusa di abusi sessuali, e di don Enrico Radice, rettore del pre-seminario all’epoca dei fatti, con l’accusa di favoreggiamento”. È la prima volta nella storia della Chiesa che si indaga su quello che sarebbe accaduto tra le mura del Vaticano, grazie allo stesso Papa Francesco, che ha modificato la procedura rimuovendo la causa di improcedibilità. Seguite la nuova puntata dell’inchiesta di Gaetano Pecoraro e Riccardo Spagnoli sui presunti abusi avvenuti all’interno delle mura vaticane, con tre nuove testimonianze esclusive.

Abusi su una bambina 11enne. Il prete: “Sono colpevole, chiedo scusa”. Le Iene il 12 novembre 2019. Nina Palmieri ci ha raccontato una terribile storia di abusi su una bambina di 11 anni. Don Michele, il prete responsabile, dal carcere di Secondigliano confessa: “Sono colpevole, chiedo scusa”. Don Michele, il prete che ha abusato di una bambina di 11 anni, confessa dal carcere di Secondigliano: “Mi assumo tutte le responsabilità. Sono colpevole di tutte le accuse che mi vengono contestate. E' tutto vero”. Il prete ha anche aggiunto: “Chiedo scusa alla famiglia della bambina. Spero riescano a perdonarmi”. Non sembra invece che ci siano tracce di scuse alla vittima. Il legale del sacerdote ha chiesto i domiciliari: “Lui ha ammesso sia con il vescovo che con il gip oggi questa sua debolezza e ha chiesto scusa a tutti. Se il gip non dovesse concedergli i domiciliari aspettiamo la fissazione del riesame per chiedere una pena meno afflittiva”. Ma al di là di chiedere i domiciliari, forse “debolezza” è un termine un po’ troppo leggero per descrivere il comportamento di un pedofilo. Questo accade pochi giorni dopo il servizio di Nina Palmieri dove vi abbiamo raccontato tutta la vicenda. La protagonista, una bambina di soli 11 anni, viene abusata dal parroco. Quando prova a dirlo agli adulti non viene creduta. Sola in questo incubo decide di salvarsi da sola e registra l’orrore che accadeva con Don Michele in quella chiesa. Di fronte alle registrazioni il prete interrompe gli abusi. Nina ha incontrato il prete per metterlo di fronte alle lettere della bambina. Lui però ride e nega tutto. Ora ha smesso di ridere e anche di negare.

Bimbi sordi abusati da preti pedofili: si riscoperchia lo scandalo insabbiato in Italia. Un prete italiano dichiarato latitante. Oltre venti religiosi arrestati. In Argentina le indagini travolgono un istituto religioso di Verona. Dove un'istruttoria ecclesiastica ha ignorato le denunce di decine di vittime rivelate dall'Espresso. Paolo Biondani e Andrea Tornago il 7 giugno 2019 su L'Espresso. Un prete italiano dichiarato latitante. Oltre venti arrestati tra sacerdoti, chierici, suore, educatori e guardiani. E centinaia di vittime: bambini sordi, spesso orfani e poverissimi, che denunciano anni di violenze e abusi sessuali nei collegi argentini dell'istituto religioso italiano Antonio Provolo. Una congregazione che ha il quartier generale a Verona, dove si è rifugiato il prete italiano ora ricercato dai giudici argentini, che ne hanno chiesto l'estradizione per una lunga serie di abusi raccapriccianti su minorenni invalidi. L'Espresso, nel numero in edicola da domenica 9 giugno e online su Espresso+ , pubblica un'inchiesta giornalistica internazionale sul più grave scandalo di pedofilia nella Chiesa cattolica italiana e argentina. Gli atti giudiziari su decine di casi di pedofilia emersi a Buenos Aires a partire dal 2016, quando furono arrestati i primi religiosi dell'istituto Provolo, riguardano i collegi di La Plata e Mendoza, fondati e diretti da sacerdoti italiani ora inquisiti. Nelle ordinanze d'arresto, finora inedite, i giudici argentini scrivono che i piccoli sordomuti senza famiglia venivano sottoposti a violenze e maltrattamenti che «in nulla si differenziano dalla tortura» e «riduzione in schiavitù». Gli abusi sui bambini, secondo le testimonianze delle vittime, sono «iniziati più di 50 anni fa e proseguiti fino al 2015 almeno». L'inchiesta, realizzata da L'Espresso in collaborazione con i cronisti argentini della testata investigativa Perfil, documenta che per decenni i vertici dell'istituto Provolo, sia in Italia che in Argentina, si limitavano a trasferire i sacerdoti sospettati di pedofilia, senza punirli né denunciarli alla giustizia. Per questo gli abusi sui bambini hanno potuto ripetersi in altre scuole e collegi, dagli anni '70 fino agli arresti di questi mesi, spesso con gli stessi protagonisti. Che dall'Italia hanno contagiato l'Argentina. Le violenze nei collegi di La Plata e Mendoza iniziano in coincidenza con l'arrivo di religiosi italiani trasferiti da Verona per «immoralità sessuale», ma rimasti sacerdoti e mandati a dirigere i centri argentini per minorenni sordi. In Italia lo scandalo degli abusi sui bambini nei centri veronesi dell'istituto Provolo era stato scoperchiato nel gennaio 2009 da un'inchiesta giornalistica dell'Espresso, firmata da Paolo Tessadri, che aveva pubblicato le prime testimonianze, scritte e firmate, di 15 vittime. La successiva istruttoria ecclesiastica, condotta dalla Congregazione per la dottrina delle fede, è stata chiusa però nel 2011 con risultati quasi totalmente assolutori: gli atti, finora inediti, documentano che è stato giudicato colpevole un solo sacerdote, su un totale di 26 accusati, mentre decine di vittime non sono state mai ascoltate. Tra i religiosi scagionati da quell'inchiesta religiosa compaiono anche preti italiani ora agli arresti in Argentina. Le carte inoltre mostrano che per cancellare ogni accusa su uno storico vescovo veronese, morto nel 1980 e dichiarato beato nel 2015, è stato utilizzato un documento-chiave che oggi risulta «falsificato». Mentre l'attuale vescovo Giuseppe Zenti, aperto sostenitore dei cattolici ultra-integralisti e della Lega, è stato interrogato in gran segreto nel 2017 sul caso Provolo dal procuratore di Verona e ha ammesso di aver dovuto patteggiare una condanna per aver diffamato l'associazione delle vittime. Papa Francesco Bergoglio non è in alcun modo coinvolto nello scandalo e non è mai citato nelle indagini italiane e argentine. Anzi, nel 2017 ha sanzionato e commissariato la congregazione del Provolo.

Paolo Valentino per il “Corriere della sera” il 31 ottobre 2019. Papa Benedetto XVI e il suo segretario particolare, Monsignor Georg Gaenswein, avrebbero coperto e protetto per anni un prelato pedofilo tedesco, nonostante diverse denunce dei suoi abusi sessuali. A formulare la grave accusa è il quotidiano popolare Bild Zeitung , che pure è stato convinto sostenitore del pontificato di Joseph Ratzinger. Il monsignore in questione si chiama Christoph Kuehn e nel 2005 era responsabile del desk Germania presso la Segreteria di Stato Vaticana. Un prete, anche lui tedesco, lo accusa di averlo a lungo molestato, fornendo dettagli precisi su luoghi e circostanze. Il prelato lo avrebbe più volte baciato con la lingua e afferrato i suoi organi genitali con una mano, mentre con l' altra gli stringeva la gola. La vittima si è ora rivolta alla Procura di Ingolstadt, che ci ha confermato di aver aperto un fascicolo, anche se non si tratta ancora di indagine formale, ma di «indagine preliminare». Secondo una dichiarazione giurata resa dal prete al magistrato, in possesso della Bild , Gaenswein avrebbe saputo e taciuto degli abusi per 7 anni. Il giornale cita una mail del 2012, in cui il segretario del Papa scrive alla vittima: «Non rabbia, ma sorpresa... Spero che questo gioco non duri a lungo». Gaenswein ha confermato alla Bild di aver ricevuto un' informazione scritta sugli abusi nel 2013, ma di aver voluto agire in modo «respon-sabile» informandone l'allora capo del personale del Papa. Questi, raggiunto dal quotidiano, sostiene di non ricordarlo. In ogni caso nessuna misura punitiva fu presa contro Kuehn, che invece venne prima trasferito alla nunziatura di Vienna e poi rimandato nella diocesi d' origine in Baviera. Il vescovo locale ha dichiarato alla Bild che il prelato è un «supergay aggressivo». Secondo il giornalista Nikolaus Harbusch, che ha firmato il servizio, la ragione della copertura data da Benedetto XVI e dal suo alter ego Gaenswein a Kuehn, potrebbe essere nel ruolo che questi svolse alla vigilia del Conclave del 2005, quello che elesse Ratzinger. Kuehn infatti rese pubblico, rivelandolo a un giornalista della Welt , l' incontro segreto (pre-Conclave e quindi proibito) tra un gruppo di cardinali progressisti, decisi a portare già allora Bergoglio sulla cattedra di Pietro. Una mossa che fece fallire il tentativo, aprendo la strada all' elezione del Papa tedesco.

Noi vittime dei preti pedofili. Decine di bambini e ragazzi sordi violentati e molestati in un istituto di Verona fino al 1984. E dopo decenni di tormenti, gli ex allievi trovano la forza di denunciare gli orrori. Ma molti dei sacerdoti sono ancora lì. Paolo Tessadri il 22 gennaio 2009 su L'Espresso. Per oltre un secolo è stato un simbolo della carità della Chiesa: una scuola specializzata per garantire un futuro migliore ai bambini sordi e muti, sostenendoli negli studi e nell'inserimento al lavoro. L'Istituto Antonio Provolo di Verona ospitava i piccoli delle famiglie povere, figli di un Nord-est contadino dove il boom economico doveva ancora arrivare. Fino alla metà degli anni Ottanta è stato un modello internazionale, ma nel tetro edificio di Chievo, una costruzione a metà strada tra il seminario e il carcere, sarebbero avvenuti episodi terribili. Solo oggi, rincuorati dalle parole di condanna pronunciate da papa Ratzinger contro i sacerdoti pedofili, decine di ex ospiti hanno trovato la forza per venire allo scoperto e denunciare la loro drammatica esperienza: "Preti e fratelli religiosi hanno abusato sessualmente di noi". Un'accusa sottoscritta da oltre 60 persone, bambini e bambine che hanno vissuto nell'Istituto, e che ora scrivono: "Abbiamo superato la nostra paura e la nostra reticenza". Gli abusi di cui parlano sarebbero proseguiti per almeno trent'anni, fino al 1984. Sono pronti a elencare una lunga lista di vittime e testimoni, ma non possono più rivolgersi alla magistratura: tutti i reati sono ormai prescritti, cancellati dal tempo. I sordomuti che dichiarano di portarsi dentro questo dramma sostengono però di non essere interessati né alle condanne penali né ai risarcimenti economici. Loro, scrivono, vogliono evitare che altri corrano il rischio di subire le stesse violenze: una decina dei religiosi che accusano oggi sono anziani, ma restano ancora in servizio nell'Istituto, nelle sedi di Verona e di Chievo. Per questo, dopo essersi rivolti al vescovo di Verona e ai vertici del Provolo, 15 ex allievi hanno inviato a "L'espresso" le testimonianze - scritte e filmate - della loro esperienza. Documenti sconvolgenti, che potrebbero aprire uno squarcio su uno dei più gravi casi di pedofilia in Italia: gli episodi riguardano 25 religiosi, le vittime potrebbero essere almeno un centinaio.

La denuncia. Gli ex allievi, nonostante le difficoltà nell'udito e nella parola, sono riusciti a costruirsi un percorso di vita, portandosi dentro le tracce dell'orrore. Dopo l'esplosione dello scandalo statunitense che ha costretto la Chiesa a prendere atto del problema pedofilia, e la dura presa di posizione di papa Benedetto XVI anche loro hanno deciso di non nascondere più nulla. Si sono ritrovati nell'Associazione sordi Antonio Provolo e poi si sono rivolti alla curia e ai vertici dell'Istituto. Una delle ultime lettere l'hanno indirizzata a monsignor Giampietro Mazzoni, il vicario giudiziale, ossia il magistrato del Tribunale ecclesiastico della diocesi di Verona. È il 20 novembre 2008: "I sordi hanno deciso di far presente a Sua Eminenza il Vescovo quanto era loro accaduto. Nella stanza adibita a confessionale della chiesa di Santa Maria del Pianto dell'Istituto Provolo, alcuni preti approfittavano per farsi masturbare e palpare a loro volta da bambine e ragazze sorde (la porta era in quei momenti sempre chiusa a chiave). I rapporti sodomitici avvenivano nel dormitorio, nelle camere dei preti e nei bagni sia all'Istituto Provolo di Verona che al Chievo e, durante il periodo delle colonie, a Villa Cervi di San Zeno di Montagna". E ancora: "Come non bastasse, i bambini e ragazzi sordi venivano sottoposti a vessazioni, botte e bastonature. I sordi possono fare i nomi dei preti e dei fratelli laici coinvolti e dare testimonianza". Seguono le firme: nome e cognome di 67 ex allievi.

Le storie. I protagonisti della denuncia citano un elenco di casi addirittura molto più lungo, che parte dagli anni Cinquanta. Descrivono mezzo secolo di sevizie, perfino sotto l'altare, in confessionale, dentro ai luoghi più sacri. Quei bambini oggi hanno in media tra i 50 e i 70 anni: il più giovane compirà 41 anni fra pochi giorni. Qualcuno dice di essere stato seviziato fino quasi alla maggiore età. Gli abusi, raccontano, avvenivano anche in gruppo, sotto la doccia. Scene raccapriccianti, impresse nella loro memoria. Ricorda Giuseppe, che come tutti gli altri ha fornito a 'L'espresso' generalità complete: "Tre ragazzini e tre preti si masturbavano a vicenda sotto la doccia". Ma la storia più angosciante è quella di Bruno, oggi sessantenne, che alla fine degli anni Cinquanta spiccava sugli altri bambini per i lineamenti angelici: era il 'bello' della sua classe. E solo ora tira fuori l'incubo che lo ha tormentato per tutta la vita: "Sono diventato sordo a otto anni, a nove frequentavo il Provolo che ho lasciato a 15 anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al quindicesimo anno sono stato oggetto di attenzioni sessuali, sono stato sodomizzato e costretto a rapporti di ogni tipo dai seguenti preti e fratelli.". Ha elencato 16 nomi. Nella lista anche un alto prelato, molto famoso a Verona: due sacerdoti del Provolo avrebbero accompagnato Bruno nel palazzo dell'ecclesiastico. "Era il 1959, avevo 11 anni. Mi ha sodomizzato e preteso altri giochi sessuali. È stata un'esperienza terribile che mi ha procurato da adulto gravi problemi psicologici". 

Il dramma. Un altro ex allievo, Guido, dichiara di essere stato molestato da un prete: "Avveniva nella sua stanza all'ultimo piano. E mi costringeva a fare queste cose anche a Villa Cervi durante le colonie estive e al campeggio sul lago di Garda". Carlo è rimasto all'istituto dai 7 ai 18 anni, e chiama in causa un altro sacerdote: "Mi costringeva spesso con punizioni (in ginocchio per ore in un angolo) e percosse (violenti schiaffi e bastonature) ad avere rapporti con lui". Altre volte si sarebbe trattato di bacchettate sulle mani, mentre di notte "nello stanzone dove dormivo con altri sordi spesso mi svegliava per portarmi nei bagni dove mi sodomizzava o si faceva masturbare. Non ho mai dimenticato". Sono racconti simili. Tragedie vissute da bambini di famiglie povere, colpiti dalla sordità e poi finiti tra le mura dell'istituto; drammi tenuti dentro per decenni. Ricostruisce Ermanno: "La violenza è avvenuta nei bagni e nelle stanze dell'Istituto Provolo e anche nella chiesa adiacente". "Se rifiutavo minacciava di darmi un brutto voto in condotta, questi fatti mi tornano sempre in mente", scrive un altro. Giuseppe qualche volta a Verona incontra il suo violentatore, "ancora oggi quando lo vedo provo molto disagio. Non sono mai riuscito a dimenticare". Stando alle denunce, le vittime erano soprattutto ragazzini. Ma ci sono anche episodi testimoniati da bambine. Lina ora ha cinquant'anni, è rimasta "all'istituto per sordomuti dai sei ai 17 anni. A tredici anni nella chiesa, durante la confessione faccia a faccia (senza grata), il sacerdote mi ha toccata il seno più volte. Ricordo bene il suo nome. Io mi sono spaventata moltissimo e da allora non mi sono più confessata". Giovanna scrive che un altro prete "ha tirato fuori il membro e voleva che lo toccassi". E per molte ragazzine i fatti avvenivano nella chiesa dell'istituto, sotto l'altare. A qualcuna, però, è andata molto peggio.

Gli esposti. Oggi l'Istituto Antonio Provolo ha cambiato completamente struttura e missione. Le iniziative per il sostegno ai sordomuti sono state ridimensionate e vengono finanziate anche dalla Regione Veneto. Adesso l'attività principale è il Centro educativo e di formazione professionale, gestito interamente da laici, che offre corsi d'avanguardia per giovani ed è specializzato nella riqualificazione di disoccupati. Al vertice di tutto ci sono sempre i religiosi della Congregazione della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordomuti, che dipendono direttamente dalla Santa Sede. Alla Congregazione si sono rivolti gli ex allievi chiedendo l'allontanamento dei sacerdoti chiamati in causa. Secondo la loro associazione, "c'è già stata più di un'ammissione di colpa". La più importante risale al 2006, quando don Danilo Corradi, superiore generale dell'Istituto Provolo, avrebbe incontrato più di 50 ex allievi. Secondo l'Associazione, il superiore a nome dell'Istituto avrebbe chiesto 12 volte scusa per gli abusi commessi dagli altri religiosi. I testimoni ricostruiscono una riunione dai toni drammatici: don Corradi che stringe il capo fra le mani, suda, chiede perdono, s'inginocchia. Ma i sordomuti avrebbero preteso l'allontanamento dei sacerdoti coinvolti, senza ottenerlo. A 'L'espresso' don Danilo Corradi fornisce una versione diversa: "Ho sentito qualcosa, ma io sono arrivato nel 2003 e di quello che è successo prima non so. Non rispondo alle accuse, non so chi le faccia: risponderemo dopo aver letto l'articolo".

La Curia. Da quasi due anni gli ex allievi si sono appellati anche alla Curia di Verona, informandola nel corso di più incontri. Il presidente della Associazione sordi Antonio Provolo, Giorgio Dalla Bernardina, ne elenca tre: a uno hanno preso parte 52 persone. E scrive al vescovo: "Nonostante i nostri incontri in Curia durante i quali abbiamo fatto presente anche e soprattutto gli atti di pedofilia e gli abusi sessuali subiti dai sordomuti durante la permanenza all'istituto, a oggi non ci è stata data alcuna risposta". L'ultima lettera è dell'8 dicembre 2008. Pochi mesi prima, a settembre, avevano fatto l'ennesimo tentativo, inviando una raccomandata al vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti. Senza risposta, "nonostante le sue rassicurazioni e promesse di intervento". Questa missiva è stata firmata da tre associazioni di sordi: Associazione Sordi Antonio Provolo, Associazione non udenti Provolo, Associazione sordi Basso Veronese-Legnago. Il vescovo, interpellato da "L'espresso", replica con una nota scritta: "Il Provolo è una congregazione religiosa. In quanto tale è di diritto pontificio e perciò sotto la giurisdizione del Dicastero dei religiosi. La diocesi di Verona, sul cui territorio è sorta la Congregazione, apprezza l'opera di carattere sociale da essa svolta in favore dei sordomuti". Poi monsignor Giuseppe Zenti entra nel merito: "Per quanto attiene l'accusa di eventuale pedofilia, rivolta a preti e fratelli laici, che risalirebbe ad alcune decine di anni fa, la diocesi di Verona è del tutto all'oscuro. A me fecero cenno del problema alcuni di una Associazione legata al Provolo, ma come ricatto rispetto a due richieste di carattere economico, nell'eventualità che non fossero esaudite. Tuttavia a me non rivolsero alcuna accusa circostanziata riferita a persone concrete, ma unicamente accuse di carattere generico. Non ho altro da aggiungere se non l'impegno a seguire in tutto e per tutto le indicazioni contenute nel codice di diritto canonico e nelle successive prese di posizione della Santa Sede. Nella speranza che presto sia raggiunto l'obiettivo di conoscere la verità dei fatti". L'Associazione sordi Antonio Provolo risponde al vescovo negando qualunque ricatto o interesse economico: "Gli abbiamo soltanto fatto presente i problemi, noi vogliamo che quei sacerdoti vengano allontanati perché quello che hanno fatto a noi non accada ad altri".

Pedofilia, per la Cei  c’è l’obbligo morale  di denuncia (ma non quello giuridico). Pubblicato giovedì, 23 maggio 2019 da Gian Guido Vecchi su Corriere.it. La novità era annunciata da quando a fine febbraio, alla vigilia dell’incontro sugli abusi voluto da Francesco in Vaticano, il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo, spiegò al Corriere che era necessaria una «collaborazione attiva con le autorità civili» e ci sarebbe stata un’«ampia consultazione» tra i vescovi per arrivare a stabilire l’obbligo si segnalazione «nel rispetto della legge civile e della privacy della vittima e dei suoi familiari». Intorno a quell’espressione, «nel rispetto della legge civile», ruota il problema che la Chiesa italiana ha cercato di risolvere negli ultimi anni, al principio con una timidezza eccessiva: il Vaticano rimandò indietro la prima versione delle linee guida perché fosse rafforzata. Formalmente, nell’ordinamento giuridico italiano, il vescovo non è un pubblico ufficiale e quindi non ha l’obbligo giuridico di denunciare, a differenza di altri Paesi come la Francia. Il 7 maggio, il Motu proprio di Francesco Vos estis lux mundi, «Voi siete la luce del mondo», ha segnato una svolta importante contro i crimini pedofili e gli abusi sessuali nei confronti delle donne, in particolare le religiose: tra le nuove norme e procedure vincolanti per la Chiesa in tutto il mondo, ha stabilito l’obbligo di aprire entro un anno sportelli pubblici in ogni diocesi, per raccogliere le denunce di abusi sessuali, e l’obbligo per preti, religiosi e religiose di «segnalare tempestivamente» ogni crimine alle autorità ecclesiastiche. Alle autorità ecclesiastiche, non a quelle civili: anche in questo caso si rimandava alle diverse legislazioni dei singoli Paesi. E qui sta il punto controverso: cosa impedisce alla Chiesa di imporre ai sacerdoti la denuncia a magistratura civile o polizia anche nei Paesi, come l’Italia, dove non c’è un obbligo di legge? Perché la Chiesa non può definire da sé un obbligo vincolante? L’arcivescovo di Malta Charles Scilcuna, segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede e uomo di punta del Vaticano nella lotta contro la pedofilia, ha riposto così al Corriere: «La Santa Sede, facendo una legge universale, deve ricordarsi della diversità delle culture e delle scelte che fanno le autorità civili. Dare un tipo di normativa universale che impone un obbligo non previsto dalle leggi degli Stati sarebbe un’ingerenza». Quindi ci dovrebbe pensare lo Stato a colmare la lacuna? «Sì. Io non oserei mai dire a uno Stato cosa deve fare, lo Stato lo sa. Il mio dovere è dire ai cattolici che abbiamo il dovere di obbedire alla legge del Stato». Per questo le nuove linee guida della Cei parlano di «obbligo morale», anche se non giuridico: un obbligo morale che, per un vescovo, dovrebbe peraltro essere altrettanto vincolante della legge.

Libri, passeggiate (e cappelli) Ecco la nuova vita di Ratzinger. Il Papa emerito abita nel monastero Mater Ecclesiae Prega e studia. E ama i copricapo che gli vengono donati, scrive Fabrizio de Feo, Lunedì 15/04/2019, su Il Giornale. Ha scelto una vita di silenzio e di preghiera. E' entrato volontariamente in un cono d'ombra per «l'ultima tappa del suo cammino di pellegrino» affinché il suo successore non ne venisse danneggiato. Ha scandalizzato alcuni teologi con la sua «cessazione dall'ufficio di romano pontefice» e creato discussioni vibranti sul futuro stesso del Papato. Il mondo, però, non l'ha dimenticato e ieri, uno speciale Tg2 Dossier firmato da Giovan Battista Brunori ha raccontato in maniera approfondita «la nuova vita del Papa teologo». Joseph Ratzinger compirà domani 92 anni. Sono passati sei anni dalle sue dimissioni. Bersaglio di feroci accuse, definito «Panzerkardinal», arcigno custode della fede, con il passare degli anni è stato profondamente rivalutato, con l'emersione del vero profilo di un papa teologo capace di proiettare la Chiesa nella modernità. Il vaticanista Brunori, accompagnato da Padre Georg, è entrato nel monastero Mater Ecclesiae in cui Ratzinger vive in Vaticano, ha visitato la cappella dove celebra ogni giorno la Messa, l'orto, le celle per la notte, la stanza riservata al fratello. «E' un uomo di 92 anni, lucidissimo» racconta l'arcivescovo Georg Ganswein «in pace con se stesso e con il Signore. É una persona molto tranquilla. Certo le forze fisiche sono diminuite. Con gli acciacchi nelle gambe, ma come dice lui è meglio avere nella testa molto chiara la situazione». Padre Georg racconta anche la sua vita divisa a metà tra il Papa regnante e quello emerito. «All'inizio, di fronte a una situazione così nuova era difficile trovare l'equilibrio. Io abito qui con lui, la mattina c'è la messa alle 7 e mezza a cui partecipano le memores, Papa Benedetto e io. Dopo la Messa c'è il breviario, la colazione e poi io scendo al Palazzo Apostolico e accompagno Papa Francesco per le udienze, poi torno per il pranzo alle 13.30, una piccolissima passeggiata sulla terrazza e poi il riposo. Dopo accompagno il Santo Padre nei Giardini Vaticani dove fa una piccola passeggiata e dopo il Rosario. Alle 19 e 30 la cena, il telegiornale e poi il Santo Padre si ritira. Lui continua a studiare, scrivere lettere e leggere». Oggi il Papa emerito non veste un abito da vescovo, ma un abito bianco talare semplice. Gli piace parlare con le persone, si innamora dei cappelli che gli portano, si ricorda i compleanni delle persone. In questo racconto intimo entra anche il rapporto con Papa Francesco. Il Cardinale Julián Herranz racconta che i due Papi «soffrono quando si cerca di giocare con loro e manipolarli per portarli da una o dall'altra parte. Papa Benedetto ha una profonda stima del successore, loro due sono come un diamante con tante sfaccettature. Facendolo girare la luce ne fa splendere di più una, la ricchezza del magistero da una parte, la carità dall'altra. Ma Papa Benedetto non discute mai con Papa Francesco dei problemi di governo della Chiesa, è attentissimo». Il documentario si conclude con un ricordo di Padre Georg dell'ultimo giorno di pontificato. «Scese dalla terza loggia, dall'appartamento, spegnendo la luce dietro di sé, al cortile San Damaso lo aspettava la macchina per l'aeroporto per andare a Castel Gandolfo. Un momento duro, doloroso». Un passaggio vissuto con straordinaria serenità dal Papa in cui, per dirla con Brunori, Benedetto XVI manifestò «il coraggio di mostrarsi debole e di vivere il papato come servizio, non come un potere».

Adoro Benedetto XVI. È tutta questione di… chiarezza e coraggio, scrive il 18 aprile 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. Soltanto un mese e mezzo fa, all’apertura del summit sulla pedofilia, abbiamo ascoltato le parole con cui Papa Bergoglio ha aperto i lavori: “Ascoltiamo il grido dei piccoli che chiedono giustizia. Grava sul nostro incontro il peso della responsabilità pastorale ed ecclesiale che ci obbliga a discutere insieme, in maniera sinodale, sincera e approfondita su come affrontare questo male che affligge la Chiesa e l’umanità. Il santo Popolo di Dio ci guarda e attende da noi non semplici e scontate condanne, ma misure concrete ed efficaci da predisporre. Ci vuole concretezza”. Ascolto delle vittime, aperta condivisione pastorale ed ecclesiale di una piaga interna alla Chiesa, adozione di concrete misure a prevenzione e contrasto della pedofilia. Questo il manifesto di Papa Francesco, nell’ambito della lotta alla pedofilia da parte degli ecclesiastici, lotta che non si può – sempre nell’ottica del Santo Padre – esaurire soltanto in mere sentenze di condanna. Tutto questo soltanto un mese e mezzo fa. Il 19 aprile scorso, il Papa Emerito Benedetto XVI ha affidato al mensile bavarese Klerusblatt ed alla testata italiana del Corriere della Sera, una sua personale lettera (che egli definisce “appunti”) in cui affronta il tema della pedofilia. Il testo del Papa Emerito ha suscitato immediatamente grandi polemiche su molteplici versanti, primo fra tutti quello relativo all’attribuzione della responsabilità storica del sorgere della pedofilia all’interno della Chiesa alla Rivoluzione culturale del ’68. La prima affermazione importante, sempre secondo me e dal mio punto di vista (duplice, come cattolico cristiano e come uomo di scienza), è la seguente: “La situazione ebbe inizio con l’introduzione, decretata e sostenuta dallo Stato, dei bambini e della gioventù alla natura della sessualità”. Una affermazione corroborata, se si continua la lettura, da una serie di esempi concreti, di vita quotidiana, a dir poco interessanti. Anche perché, rivelano esempi di esperienze vissute direttamente dal Papa Emerito. E continua affermando che “tra le libertà che la Rivoluzione del 1968 voleva conquistare c’era anche la completa libertà sessuale, che non tollera alcuna norma”. E più avanti si legge che “(…) Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente”. Dunque, il percorso logico e teologico con cui si snoda questa ricostruzione storica è il seguente: il movimento del ’68 ha sdoganato qualsiasi forma di libertà umana, compresa la sessuale. Inoltre, l’evidenza scientifica di una sessualità infantile ha determinato la volontà politica di proporre una educazione sessuale quasi massificata. Infine, la pedofilia, come espressione di libertà sessuale, tanto adulta quanto infantile, si è lentamente affrancata in alcune menti ecclesiastiche. Come dicevo, questo è, mediaticamente, il passaggio più controverso di questa lunghissima lettera. Quello in cui si sono volute riconoscere le orme di un Papa Emerito colpito da un attacco di giustizialismo storico, alla ricerca di una causa della pedofilia clericale, ma una causa che si ponesse al di fuori della Chiesa. Persino al di fuori delle responsabilità attribuite allo stesso Cardinale Ratzinger, quando si trovava alla guida della Congregazione della Dottrina della Fede, in merito ad una sua presunta sistematica opera di insabbiamento di casi di abusi sessuali su minori perpetrati da preti. Peraltro, sempre nella lettera, Benedetto XVI spiega chiaramente come per il Diritto Canonico fosse molto difficile procedere definitivamente contro questi abomini, e proprio in nome di un Diritto che tutelava molto di più gli accusati che gli accusatori. A questo proposito, cita l’Enciclica Veritatis splendor, del 6 agosto 1993, promulgata da Giovanni Paolo II, con la quale Papa Wojtyla esponeva chiaramente la presenza di un Bene supremo in contrasto ad un Male, altrettanto teologicamente supremo, sul quale non era possibile derogare o produrre atteggiamenti relativistici. Ma, nel considerare focale questa parte della lettera rispetto all’intero testo, si rischia di non tenere nel dovuto conto almeno un paio di circostanze. Innanzi tutto, il resto del testo è semplicemente stupendo, e questa è ovviamente una mia personale opinione. Leggere Benedetto XVI è sempre una esperienza emotiva che sa di cervello che alimenta le proprie cognizioni esistenziali, e lo fa secondo principi antropologici, nei quali si riconosce perfettamente tutto l’impianto riflessivo del nostro Occidente. Cosa importante, perché avviene proprio quando, da molte parti, si ritiene che questo nostro mondo occidentale sia in crisi, privo di riferimenti. No, secondo Benedetto XVI siamo noi che ci stiamo voltando da un’altra parte, rispetto a contenuti di una antropologia teologica che invece ne garantirebbe la sopravvivenza. Seconda considerazione. Joseph Ratzinger nasce nel 1927 e, successivamente all’esperienza militare, durante la seconda guerra mondiale, inizia a frequentare l’Istituto Superiore di Filosofia e Teologia di Frisinga, nel 1946. Riceve l’ordinazione diaconale nel 1950. Formatosi nell’ambito del neoplatonismo agostiniano, le sue due stelle polari in ambito teologico, sino ed oltre l’assunzione delle cattedre di Teologia Fondamentale e Teologia Dogmatica, sono Sant’Agostino e San Bonaventura. Dunque, non deve stupire l’atteggiamento culturale del Papa Emerito dinanzi alla Rivoluzione del 1968, in quanto coerente con l’approccio psicologico di un uomo del suo tempo, che volontariamente aderisce agli impianti teologici dei Padri della Chiesa appena citati. Il movimento del ’68 vede le “libertà” come innesco dell’attività umana: ogni “diritto”, per il 1968, nasce come “diritto di liberta da/di”. Si tratta di una prospettiva culturale antitetica rispetto a quella in cui si è formato Joseph Ratzinger. A questo proposito, illuminante è la frase seguente, nella quale personalmente mi trovo in agio: “Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento”. Non a caso, nel corpo della lettera affidata a Klerusblatt, ciò che il Papa Emerito definisce “collasso spirituale”, strettamente legato alla “propensione alla violenza che caratterizzò quegli anni” (quelli a partire dal 1968), si pone, storicamente, come un fenomeno parallelo e coevo al “collasso della teologia morale che ha reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società”. Al collasso spirituale  come causa del 1968 fa, da contraltare, il collasso morale nella Chiesa. Nella narrazione degli “appunti”, il riferimento all’epoca del ’68 si conclude qui. D’altro canto, Benedetto XVI è un teologo. E per un teologo della sua epoca, è perfettamente naturale vedere il 1968 come un terremoto morale che, pur tuttavia, non è l’unico di quel periodo. La lettera prosegue denunciando la decadenza morale all’interno della Chiesa con la riaffermazione del relativismo morale figlio dell’allontanamento della Chiesa stessa dal giusnaturalismo, un relativismo contro cui Giovanni Paolo II si batte, con grandissimo vigore fino all’emanazione della enciclica Veritatis splendor, come già accennato. Ratzinger spende parole fortissime a sostegno della reazione di Papa Woytila: ”Non ci poteva e non ci doveva essere alcun dubbio che la morale fondata sul bilanciamento di beni deve rispettare un ultimo limite. Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica”. Terza considerazione. Oltre al relativismo morale, Benedetto XVI individua anche un altro sintomo della dissoluzione interna alla Chiesa, ovvero la diffusione della tesi secondo cui il magistero ecclesiale può assumere decisioni infallibili solo nell’ambito della fede, ma non in quello della morale. Si tratta di una tesi che, secondo il Papa Emerito, ha fortemente contribuito al decadimento morale interno alla Chiesa; con accenti accorati scrive “E tuttavia, c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria e si riconosce, al contrario, la pretesa che essa avanza rispetto alla vita concreta”. Ecco, in questo contesto storico della morale, in questo “processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale”, si inserisce, secondo Benedetto XVI, il “problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari”. Ossia del “collasso della forma vigente sino a quel momento di questa preparazione. In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari”. Crisi morale all’interno della Chiesa, come matrice della cattiva preparazione dei seminaristi, una preparazione che evidenziava i suoi frutti sotto l’aspetto sessuale, e le cui perversioni principali, sempre secondo Ratzinger, erano l’omosessualità e la pedofilia. “La questione della pedofilia è, per quanto ricordi, divenuta scottante solo nella seconda metà degli anni ’80. Negli Stati Uniti nel frattempo era già cresciuta, divenendo un problema pubblico”, altro passaggio della sua lettera. Certamente, a tutta prima fa molta specie il fatto che, nella mente di un Papa, vi siano, per un verso, una progressione logica tra decadenza morale ed omosessualità e, per altro verso, un legame di causalità (spinto quasi al limite)tra omosessualità e pedofilia. Ma tant’è: anche questo rientra nella formazione culturale di Benedetto XVI. Inoltre, la Bibbia a questo proposito è chiara, e lo è rispetto alla omosessualità e alla pedofilia. Possiamo girarci attorno, ma la Bibbia condanna tanto la prima quanto la seconda. E con questo non voglio dire che gli omosessuali siano contro natura, mentre ritengo che la pedofilia sia una patologia mentale. Mi sono già espresso chiaramente su ciò che penso dei Gay, e condivido il pensiero di Papa Francesco, quello già famoso ed espresso durante un viaggio in aereo, di ritorno a Roma. Eppure, la Bibbia è chiara. Sta ad ogni cattolico, nella sua intimità con Dio, una questione comunque anche personale, problematizzare i propri comportamenti sessuali, rifletterci e chiedere spiegazioni al Padre. Anche se sembro protestante, penso che un po’ di rapporto personale con Dio non faccia male, nemmeno ai confessori. Fatto sta che, secondo Benedetto XVI, la pedofilia è un problema cui Roma non seppe rispondere energicamente, perché il blando rinnovamento del Codice penale si fece strada con grande lentezza. Ed anche perché era invalsa, nel diritto penale, la teoria secondo cui il principio del “garantismo” degli accusati era l’unico coerente con quello “conciliare”, come ho più sopra accennato. Una censura fortissima, questa, che Ratzinger chiosa dicendo che “è importante e abbisogna di garanzia non solo il diritto dell’accusato. Sono altrettanto importanti beni preziosi come la fede. Un diritto canonico equilibrato, che corrisponda al messaggio di Gesù nella sua interezza, non deve dunque essere garantista solo a favore dell’accusato, il cui rispetto è un bene protetto dalla legge. Deve proteggere anche la fede, che del pari è un bene importante protetto dalla legge”. La terza parte della lettera, che considero molto importante, dal mio punto di vista, ossia antropologico, mentale e sociale, è dedicata alle “prospettive” di soluzione chela questione della pedofilia deve avere. “Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? In ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica. Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale, in Germania avevamo adottato la nostra Costituzione dichiarandoci esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida. Mezzo secolo dopo non era più possibile, nella Costituzione europea, assumere la responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come criterio di misura della comunità nel suo complesso. In questa decisione si rispecchia la situazione dell’Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato di una minoranza”.Restituire a Dio, che si è fatto uomo, il posto che gli è naturale e cioè la sua anteposizione a tutto: questa la vera cura secondo Ratzinger. Ebbene, si può non essere concordi con quanto affermato dal Papa Emerito in questi suoi “appunti”. Ed, in effetti, si potrebbe obiettare che già il canone 71 De stupratorum puerorum, del Concilio di Elvira del 305, condanna i pedofili, anche con la negazione della comunione in punto di morte. Così come nel VI° Secolo dopo Cristo, Papa Gregorio I° scrive, nella sua Regula pastoralis, che i preti pedofili dovevano attendersi pene maggiorate nell’inferno. Dunque, il giudizio storico sul ’68 come punto di origine della pedofilia, può dirsi non condivisibile. Io, per esempio, condivido la sua sostanziale impostazione, con qualche piccolo distinguo e basta. Eppure, ridurre l’intera lettera di Benedetto XVI a questa affermazione è fuorviante di una lettura del testo che tenga conto della necessità di contestualizzazione storica che un teologo agostiniano possa e debba fare. Il “qui” ed “ora” è rilevante per il Papa Emerito, specialmente quando si affrontano questioni che mettono in stretta relazione l’Uomo con il suo Creatore. Certo, per chi ha il dono della fede. Ma la fede non la si riceve solo in dono, bisogna anche cercarla. Altrimenti sarebbe troppo facile, tanto il professarla quanto il negarla. Non saremmo responsabili di quasi nulla. Infatti, ci ricorda Benedetto XVI: “(…) solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili tali delitti”.

Antonio Socci: "Documenti che scottano in Vaticano. Cosa fa papa Ratzinger, boccia le riforme di Bergoglio". Libero Quotidiano il 2 Luglio 2019. Con il documento vaticano per il Sinodo sull'Amazzonia il pontificato bergogliano ha il suo manifesto ufficiale di estrema sinistra. Da "socialismo surreale". Dopo Trump e Salvini anche il presidente brasiliano Bolsonaro è oggi fra i nemici: tutti e tre emblemi dell' odiato Occidente dei popoli di tradizione giudaico-cristiana che non rinnegano radici e identità. Questo "Instrumentum laboris" vaticano - ha scritto José Antonio Ureta - «rappresenta lo spalancamento totale delle porte del Magistero alla Teologia India e alla Ecoteologia, due derivati latinoamericani della Teologia della Liberazione, i cui corifei, dopo il crollo dell' Urss e il fallimento del "socialismo reale", attribuirono ai popoli indigeni e alla natura il ruolo storico di forza rivoluzionaria, in chiave marxista». Fra i cattolici c' è sconcerto. Pare che la "Chiesa in uscita" voluta da Bergoglio stia davvero uscendo, ma dal cattolicesimo. Il card. Walter Brandmüller - amico personale di Benedetto XVI - è un insigne storico della Chiesa eppure, contro questo "Instrumentum laboris", non ha esitato a usare i termini più duri: «eretico» e «apostata». Brandmüller parla del sinodo come «un' aggressiva intrusione negli affari puramente mondani dello Stato e della società del Brasile». Poi condanna le assurdità teologiche del documento (in contrasto con i testi del Concilio vaticano II) e il «rigetto anti-razionale della cultura 'occidentale' che sottolinea l' importanza della ragione». Tale "Instrumentum" vaticano - tuona il cardinale - «carica il sinodo dei vescovi e in definitiva il papa di una grave violazione del depositum fidei, che significa come conseguenza l' autodistruzione della Chiesa o il cambiamento del Corpus Christi mysticum in una Ong secolare con un compito ecologico-sociale-psicologico». Il prelato conclude «con forza» che il documento vaticano «contraddice l' insegnamento vincolante della Chiesa in punti decisivi e quindi deve essere qualificato come eretico. Dato poi che anche il fatto della divina rivelazione viene qui messo in discussione, o frainteso, si deve pure parlare, in aggiunta, di apostasia». Esso «costituisce un attacco ai fondamenti della fede e quindi deve essere rigettato col massimo della fermezza». Quella del cardinale, amico di Benedetto XVI, è la posizione dei cattolici. E si può pensare che sia condivisa anzitutto da papa Ratzinger il quale per anni ha difeso la fede della Chiesa dalla Teologia della liberazione e da tutti i suoi derivati che oggi riempiono il documento vaticano.

POSIZIONI OPPOSTE - Nonostante mille pressioni, la corte bergogliana non ottenne mai da Benedetto XVI una sconfessione dei quattro cardinali dei Dubia (uno dei quali era proprio Brandmüller). Né ottenne mai una sconfessione di monsignor Carlo Maria Viganò, autore di uno storico memoriale sugli scandali. Anzi, papa Ratzinger, nell' aprile scorso, ha pubblicato un suo testo, proprio sugli scandali, la cui riflessione è in linea con quella dei pastori suddetti e la arricchisce da par suo. E si può dire che già lì bocci in anticipo il documento vaticano sull' Amazzonia. Infatti egli condanna ogni tentativo di sostituire la Chiesa di Cristo creando «un' altra Chiesa, inventata da noi», perché una chiesa che, invece della salvezza dell' uomo, si occupa di politica, economia, ecologia (e lo fa secondo le ideologie mondane) è «un esperimento già fatto e fallito». Quel testo di Benedetto esce ora in un volume di Cantagalli insieme ad altri testi di Bergoglio sul problema degli scandali e il coro clericale accredita questa operazione editoriale come un segno della sintonia fra i due papi. Ma quale sintonia? Oltretutto un certo ambiente bergogliano aveva reagito rabbiosamente, nell' aprile scorso, quando Benedetto XVI rese noti i suoi "appunti". Ci fu pure chi insinuò che non fossero di suo pugno. Del resto Bergoglio si era guardato bene dal diffondere il documento, consegnatogli da Benedetto XVI, al summit vaticano sugli scandali a cui era destinato. Adesso invece contribuisce a questo libro con suoi testi per far dimenticare il suo fallimento in materia (evidenziato da mons. Viganò). Bergoglio si ripara dietro l' autorità di Benedetto XVI. Ma basta leggere per capire le due opposte posizioni. Papa Ratzinger in questi anni ha un compito drammatico. Da una parte deve scongiurare strappi bergogliani che portino la Chiesa fuori dalla dottrina cattolica (e la sua stessa presenza è un deterrente che "ammonisce" l' argentino). Dall' altra deve incoraggiare i cattolici smarriti dal disastro attuale (compresi vescovi e cardinali) e deve invitarli a difendere la fede della Chiesa evitando che si producano però rotture irreparabili.

I segnali che dà sono sempre discreti, ma chiari e confortanti. Non solo con interventi potenti come il documento dell'aprile scorso. Ma anche ricordando che lui - cioè il papa - c' è e i cattolici non devono sentirsi orfani. L'ultimo (bellissimo) libro che Ratzinger ha pubblicato, Per amore, riporta in copertina non la definizione "papa emerito", ma la firma autografa "Benedetto PP XVI". Quella siglia "PP" significa "Pastor pastorum" (o Pater Patrum") ed è il titolo (e la prerogativa) del papa regnante. È l' ennesimo piccolo segnale di una situazione drammatica della Sede apostolica che non può (ancora) essere chiarita, ma che conferma quanto Benedetto XVI disse nella sua ultima udienza del 27 febbraio 2013: «Il 'sempre' è anche un 'per sempre', non c' è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all' esercizio attivo del ministero non revoca questo». In alcune sue lettere recenti - come quella del 23 novembre 2017 al card. Brandmuller, in cui si mostra molto preoccupato per la situazione della Chiesa attuale - Benedetto XVI saluta scrivendo: «Con la mia benedizione apostolica». Ma solo il papa regnante può dare la benedizione apostolica (direttamente o delegando altri). Se Benedetto non fosse più papa così facendo commetterebbe un abuso. Del resto molti altri segni dovrebbero far riflettere. Non solo la veste, il nome, il titolo, lo stemma. Lo stesso Bergoglio lo chiama "Santità" (perché si definisce ufficialmente "Sua Santità Benedetto XVI"). Sono sei anni che, negli ambienti bergogliani, vorrebbero ottenere da Benedetto XVI una dichiarazione in cui dica che non ha più nulla a che fare col papato ed è solo un vescovo. Ma queste parole Benedetto non le dice. Un giornalista del Corriere ha scritto che anonimi (in circostanze imprecisate) avrebbero sentito Benedetto dire «Il Papa è uno, Francesco». Ma quello stesso giornalista di recente ha potuto incontrare Ratzinger, porgli delle domande e quella frase Benedetto XVI non gliel' ha detta.

MINISTERO PETRINO - Il pensiero di Benedetto XVI è espresso piuttosto dalle parole che il suo braccio destro, mons. Georg Gaenswein ha pronunciato in una storica conferenza alla Gregoriana: «Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale ministero petrino. Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell' 11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l' ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune... Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l' appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è 'Santità' Egli non ha abbandonato l' ufficio di Pietro - cosa che gli sarebbe stata del tutto impossibile a seguito della sua accettazione irrevocabile dell' ufficio nell' aprile 2005». Gaenswein parla di «pontificato d' eccezione». C' è chi ritiene che per un misterioso disegno della Provvidenza la Chiesa sia sottoposta oggi a una prova durissima, il suo venerdì santo, ma che la presenza di Benedetto garantisca che non farà naufragio. Di sicuro Benedetto è oggi centrale nella Chiesa. E un giorno tutto si chiarirà. Antonio Socci

Gli "appunti" di Ratzinger riaccendono la guerra sulla morale. L'intervento del Papa emerito sui pedofili tocca un nervo scoperto nella Chiesa. Francesco è sotto attacco, scrive Riccardo Cascioli, Lunedì 22/04/2019, su Il Giornale.  «Ratzinger propone ancora una teologia staccata dal mondo», «il suo contributo è inutile per comprendere il fenomeno degli abusi sessuali», «Benedetto XVI sta provocando uno scisma». Le reazioni stizzite e rabbiose all' indirizzo di Benedetto XVI lasciano chiaramente capire che gli appunti sugli abusi sessuali pubblicati dal papa emerito lo scorso 11 aprile hanno toccato un nervo scoperto. Di più, hanno rimesso in discussione l' esito di una guerra che all' interno della Chiesa cattolica si combatte apertamente dai tempi del Concilio Vaticano II e che un certo fronte progressista pensava di avere ormai definitivamente vinto. È la guerra che si combatte attorno alla morale, soprattutto quella sessuale, e che deciderà se la Chiesa rimarrà autenticamente cattolica o se, pur mantenendo il suo nome, diventerà soltanto una delle numerose denominazioni protestanti. Non per niente - a parte il solito circolo di pretoriani di Papa Francesco che hanno subito duramente criticato Benedetto XVI solo per il fatto di avere preso la parola gli attacchi più virulenti sono arrivati dalla Germania, dai teologi che si occupano di morale e dai vescovi già noti per le posizioni a favore delle unioni gay. L' Associazione tedesca dei teologi moralisti il 15 aprile ha reso pubblico un documento di due pagine condannando senza appello l' intervento di Benedetto XVI e, fatto ancora più significativo, è stato pubblicato sul sito della Conferenza episcopale tedesca, insieme ad altri articoli fortemente critici. E per non perdere tempo il vescovo di Limburg, Georg Bätzing, ha convocato un' assemblea diocesana per discutere «la benedizione» della Chiesa «per le coppie che non possono sposarsi nel modo cattolico», in primis quelle omosessuali (cosa per cui tempo fa si espresse a favore anche il presidente dei vescovi tedeschi, il cardinale Reinhard Marx). Se queste sono le applicazioni concrete, il vero punto del contendere è se esistano azioni che sono intrinsecamente malvagie oppure se il giudizio morale di un' azione dipenda dalle circostanze e dalla coscienza della persona che agisce. Potrebbero sembrare cose astruse, ma il giudizio chiaro, radicato nella Rivelazione di Dio e impresso nella natura umana, su ciò che è lecito e ciò che è male, è uno dei pilastri su cui si regge la Chiesa cattolica. Dalla fede nascono delle conseguenze molto concrete nel comportamento degli uomini. Per questo prima e fuori del cristianesimo si facevano sacrifici umani, ma nella civiltà cristiana sono considerati un orrore; la schiavitù era un fatto normale, ma è stata superata. La Chiesa ha sempre considerato che l' uccisione di un innocente è sempre un male, non ci sono condizioni che la rendano buona; così l' adulterio, non può essere considerato positivo in certe circostanze; e così via. Ma questo è ciò che oggi è fortemente messo in discussione, favorito da un pontificato che sul punto mantiene una certa ambiguità e non risponde alle richieste di chiarimento: come è accaduto per i Dubia dei quattro cardinali (Caffarra, Meisner, Burke, Brandmüller), presentati a papa Francesco dopo l' esortazione apostolica Amoris Laetitia, e che vertevano proprio sulla questione morale. È qui che hanno colpito gli appunti di Benedetto XVI, che non avevano come principale obiettivo il '68 e la rivoluzione sessuale, come è stato scritto, bensì il «crollo della teologia morale cattolica che rese inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società». Crollo che a sua volta è conseguenza del venir meno della fede. E a quanti hanno apostrofato con disprezzo Ratzinger affermando che i casi di pedofilia nel clero non cominciano certo con il '68, ha risposto il cardinale Gerhard Müller, tedesco anche lui ed ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, con una intervista a La Nuova Bussola Quotidiana: «È un' obiezione inconsistente. È ovvio che in tutti i tempi ci sono stati problemi del genere, ma qui la differenza è nel passaggio da alcuni casi isolati a un fenomeno diffuso». Si diceva che questa è una guerra che viene da lontano. Non per niente Benedetto XVI, nei suoi appunti, parte dai ricordi personali di quanto avveniva in Germania negli anni '60. Ma possiamo ricordare anche cosa avvenne nel 1968, con la pubblicazione da parte di Paolo VI dell' enciclica Humanae Vitae, che sbarrava la strada a quanti ritenevano inevitabile approvare l' uso dei metodi contraccettivi per regolare le nascite. Ci fu una sollevazione di teologi e interi episcopati. Soprattutto la guerra si è combattuta aula per aula nei seminari e nelle facoltà di teologia, dove spesso si è insegnata una teologia morale in aperto contrasto con il Magistero della Chiesa. Lo stesso Benedetto XVI ricorda un altro snodo importante di questa guerra: la «Dichiarazione di Colonia» del gennaio 1989, in cui 15 professori di teologia attaccarono direttamente il Magistero di San Giovanni Paolo II e divennero modello di tante altre dichiarazioni del genere in Europa (in Italia ci fu la Lettera dei 63). La situazione era diventata tale che san Giovanni Paolo II pubblicò nel 1993 l' enciclica Veritatis Splendor proprio per mettere un argine a questa deriva morale e riaffermare la dottrina tradizionale della Chiesa. Inutile dire la reazione della solita corrente di teologi. Con il pontificato di Francesco però gli equilibri sono cambiati e la Amoris Laetitia (2016) è stata accolta come la rivincita contro una superata concezione della morale. Sebbene non chiara nelle formulazioni, il «partito della nuova Chiesa» l' ha subito usata per affermare «un nuovo paradigma», «una riforma radicale della teologia morale». Il «primato della pastorale» è diventato subito un modo per cambiare la dottrina, a cominciare ovviamente dalla sessualità. Non solo porte aperte alle unioni gay, ma anche al divorzio, alla contraccezione, ai preti sposati. E siccome nel magistero della Chiesa non può esserci discontinuità, si teorizza che ora l' enciclica Veritatis Splendor di san Giovanni Paolo II deve essere letta alla luce di Amoris Laetitia, quando nella Chiesa è sempre stato che sono i nuovi documenti che vanno letti alla luce della tradizione. Ma proprio mentre questa «nuova Chiesa» assume l' aspetto di una valanga destinata a travolgere tutto, ecco che rispunta Benedetto XVI con i suoi Appunti a riaprire la partita. Allo scandalo della pedofilia non si risponde con «l' idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi», dice Ratzinger, ma tornando a Dio. E la guerra si riaccende.

Papa Francesco, la furia dopo le accuse di Joseph Ratzinger: un tweet pesantissimo, caos in Vaticano, scrive il 12 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Le 18 pagine redatte da Joseph Ratzinger, il testo sulla pedofilia nella Chiesa, 40mila battute, una bozza di enciclica, terremotano il Vaticano. Le denunce sugli abusi sono impressionanti, così come sono pesantissimi gli attacchi al Sessantotto. Il Papa emerito fa nomi e cognomi dei "cattivi maestri". Nel documento, però, si punta il dito anche contro l'Europa che ha perso le radici cristiane. Insomma, quello del "nonno saggio" - così come lo chiama Papa Francesco - è un durissimo atto d'accusa contro la Chiesa di oggi. Un attacco che il Pontefice non avrebbe gradito più di tanto. Ratzinger, nel suo testo, punta il dito contro la disaffezione alla messa, l'abbandono dei sacramenti, la perdita della fede. Benedetto XVI ha raccontato di aver elaborato i suoi appunti prima della riunione dei vescovi che si è tenuta dal 21 al 24 febbraio scorsi, voleva "fornire qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo momento difficile". Eppure, nota Il Giornale, del suo approfondimento non c'è traccia nei lavori di quei tre giorni. Proprio per questo, Ratzinger ha ritenuto opportuno pubblicare il suo testo "a seguito di contatti con il sottosegretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, e con lo stesso Santo Padre". E oltre a questo passaggio, Benedetto XIV cita Francesco solo un'altra volta, nell'ultima riga, per ringraziarlo. Sempre Il Giornale rivela come la diffusione del testo avrebbe creato non pochi imbarazzi a Santa Marta, dove è stato percepito come una critica non richiesta. Smentita anche l'ipotesi di un gioco di sponda, con Ratzinger che dice ciò che il Papa non vuole o non può dire: lo conferma la reazione dei media ecclesiastici al testo ratzingeriano, tiepida a dir poco. Vatican News ne proponeva soltanto un breve sunto, il sito di Avvenire non ne parlava proprio, infine il caso di Stefania Falasca, vaticanista del quotidiano dei Vescovi, che si è spesa con due inequivocabili tweet contro Ratzinger. Il primo recitava: "Il Vescovo emerito avrà cura di non interferire in nulla nella guida della diocesi ed eviterà ogni atteggiamento e rapporto che potrebbe dare anche solo l'impressione di costituire quasi un'autorità parallela a quella del Vescovo reggente". Ogni riferimento a Ratzinger, vescovo emerito di Roma, non è affatto casuale. Indizi, pesantissimi, relativi a quanto Papa Francesco non abbia gradito, affatto, il durissimo testo redatto da Benedetto XIV.

Vaticano, Papa Francesco, Ratzinger e il "colpo di mano". L'esperto: "Solo con l'Emerito invisibile", scrive il 14 Aprile 2019 Libero Quotidiano. La coesistenza tra Papa Francesco e Joseph Ratzinger, il Papa emerito, è possibile solo se il predecessore di Bergoglio resta "invisibile". Secondo lo storico del Cristianesimo Massimo e teologo Massimo Faggioli, intervistato dalla Stampa, il documento devastante di Benedetto XVI su Vaticano, Chiesa e pedofilia riapre una ferita istituzionale e politica nella Santa Sede su cui, dal 2013 a oggi, molti hanno preferito tacere. Secondo il docente della Villanova University (Usa) l'intervento di Ratzinger è addirittura "improprio" e "relativo a una questione delicatissima, quella degli abusi sessuali, su cui nella Chiesa universale, soprattutto nei Paesi maggiormente travolte dalla crisi, non c'è unità di interpretazione". Una granata insomma gettata in pubblica piazza "In più - spiega Faggioli -, la scelta di pubblicare gli appunti su media cattolici e non-cattolici che negli Stati Uniti fanno parte dell'apparato conservatore e tradizionalista che da sempre fa propaganda contro papa Francesco alimenta il dubbio che si tratti un colpo di mano per indebolire Bergoglio - da parte non di Benedetto, ma di altri". Il problema, sottolinea l'esperto, è che la figura di "Papa emerito" è assolutamente nuova per la Chiesa "e può funzionare bene senza particolari regolamentazioni o statuti giuridici solo se resta invisibile. Dal momento che inizia a essere visibile, va regolato. La situazione ha retto finora perché Ratzinger è stato, su tutte le questioni cruciali della Chiesa, abbastanza invisibile". Il professore mette in dubbio anche l'autenticità del testo di Ratzinger: "Non si comprende con chiarezza se sia stato compilato esclusivamente da Benedetto. L'articolo sembra una caricatura del suo pensiero. Anche perché la risposta istituzionale alla crisi degli abusi sessuali inizia con il suo pontificato. E poi è improbabile che Ratzinger trascuri l'evidenza che la pedofilia nella Chiesa esisteva già prima del '68 e non riguardava solo l'ala progressista, ma anche prelati importanti legati alla rigida ortodossia".

Nel Natale 1969, nel corso delle sue trasmissioni natalizie alla radio, oggi in libro. Nel Natale del 69, Ratzinger aveva già capito tutto. “Siamo dentro una profonda crisi della Chiesa. Che diventerà sempre più piccola e dovrà ripartire dagli inizi. Non le serviranno più molti degli edifici eretti dalla fede del passato e il numero dei suoi fedeli diminuirà… Gli uomini vivranno in un mondo totalmente programmato in una solitudine indicibile”, scrive Gianfranco Morra su Italia Oggi, numero 302, pag. 12 del 22/12/2018. Era il Natale del 1969. Joseph Ratzinger, allora giovane professore universitario, insegnava a Ratisbona. In l'occasione della festa fece cinque trasmissioni alla radio bavarese sul Natale e sulla Chiesa. Che furono stampate in alcune lingue, anche in italiano: Fede e futuro (Queriniana, 1971), un libro ormai da tempo esaurito. Da poco la contestazione era esplosa in Germania ed egli ne sintetizzò e previse le conseguenze sconvolgenti. Entusiasta del Vaticano II, aveva collaborato alla rivista Concilium dei vescovi progressisti (ricordo una sua lettera, che mi chiedeva di collaborare, cosa che, ovviamente, non mi sentivo di fare). Ben presto capì che la Chiesa di Küng e di Schillebeeckx correva gravi pericoli e insieme con altri teologi moderati le contrappose la rivista Communio. Nelle cinque trasmissioni tenute per Natale alla Radio bavarese dette un giudizio profetico sulla nuova situazione e sulle difficoltà della Chiesa. Ratzinger comprende che la svolta nel Ventesimo secolo è diversa e assai più radicale di tutte le altre svolte storiche, alle quali la chiesa è sopravvissuta e per reazione si è anche cambiata in meglio: il rinascimento, l'illuminismo, la rivoluzione francese. La contestazione, che negli anni Sessanta ha colpito tutte le nazioni occidentali e cristiane è stata diversa perché ha cancellato, purtroppo senza saperli sostituire, i valori cristiano-liberali dell'Europa. Il liberalismo, che aveva al suo fondamento la tradizione cristiana (dignità dell'uomo, diritti naturali), era divenuto relativismo e nichilismo. Il matrimonio e la famiglia furono relativizzati: «La sessualità e la procreazione sono state separate dal matrimonio; ogni forma di sessualità è equivalente e la sessualità è stata banalizzata; l'omosessualità non è solo lecita, ma diviene un aspetto della liberazione dell'uomo». La vera definizione della cultura attuale, uscita dalla contestazione, è nichilismo. Come capì Jacques Prévert con la nota invocazione: «Padre nostro, che sei nei cieli, restaci!». Purtroppo la cultura cattolica non seppe reagire adeguatamente, forse pensava che si trattasse di episodi provvisori che sarebbero stati ben presto dimenticati. Invece Ratzinger previse con realismo cosa sarebbe accaduto: «Il futuro della Chiesa non risiederà in coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente, scegliendo la strada più semplice, l'elusione della passione della fede, dichiarandola falsa e obsoleta, tirannica e legalistica». L'ultima trasmissione, nel giorno di Natale, collega una previsione di forte pessimismo con una speranza soprannaturale: «Siamo dentro una profonda crisi della Chiesa. Che diventerà sempre più piccola e dovrà ripartire dagli inizi. Non le serviranno più molti degli edifici eretti dalla fede del passato e il numero dei suoi fedeli diminuirà. Diventerà un insieme di piccoli gruppi. Purtroppo gli uomini vivranno in un mondo totalmente programmato in una solitudine indicibile. Perso il senso di Dio, sentiranno l'orrore della loro povertà. Si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili, la sua vera crisi è appena cominciata. Perderà i privilegi sociali, poco male, ma insieme non apparirà più a molti come la casa dell'uomo dove trovare una speranza per la vita e dopo la morte. Tuttavia la Chiesa avrà ancora il suo futuro che, come sempre, verrà rimodellato dei santi». Anche da noi il cinquantenario della rivoluzione del 1968 è stato ricordato poco e superficialmente. Coloro che vi vedono un salto in avanti per l'uomo e per i suoi diritti, lo considerano come un evento progressivo e benefico, che non aveva bisogno di essere commemorato, tanto ha ormai permeato di sé tutto: famiglia, scuola, cultura, media, coscienza popolare. Essi sanno che gran parte della società attuale ne è figlia e che le novità della nostra epoca sono nate dalla distruzione della tradizione umanistico-cristiana effettuata dai contestatori. Stupisce, tuttavia, che la cultura cattolica, o meglio quegli «scampoli» che ancora ne rimangono, abbia osservato nei confronti del cinquantenario della più grande rivoluzione mai accaduta nel nostro paese un silenzio quasi totale. Certo favorito dal clima di buonismo e di apertura incondizionata introdotto e imposto da papa Bergoglio. Solo pochi cattolici anticonformisti (come Accame e Veneziani, De Mattei e Socci) hanno sottolineato i disastri di quegli anni e di quelli seguenti. Che nelle sue trasmissioni del Natale 1969 Ratzinger non ancora papa aveva perfettamente intuito: il Sessantotto era stato una «cesura storica» e aveva prodotto «la crisi della cultura dell'Occidente».

"Così il Papa vuole cancellare le mosse di Ratzinger". Papa Francesco starebbe per procedere per via legislativa alla cancellazione dell'Ecclesia Dei e della prefettura della Casa Pontificia. Questo comporterebbe, dicono i tradizionalisti, un attacco alla "Messa in latino" e l'allontanamento di mons. Georg Gänswein, scrive Giuseppe Aloisi, Giovedì 10/01/2019, su "Il Giornale". Papa Francesco starebbe per cancellare due istituzioni considerate centrali, in maniera diretta o meno, da Joseph Ratzinger e, soprattutto, dai ratzingeriani. Le indiscrezioni sono alimentate nei corridoi mediatici abitati dal cosiddetto "fronte tradizionalista", ma bisognerà aspettare per trovare conferma di quanto sarebbe stato anticipato dal vaticanista Marco Tosatti. Bergoglio vorrebbe estinguere l'Ecclesia Dei e la prefettura della Casa Pontificia. Il primo atto esecutivo, che passerebbe da un Motu proprio, servirebbe a coadiuvare la definitiva pacificazione dei rapporti con la Fraternità sacerdotale San Pio X. La commissione pontificia, che era nata durante il pontificato di Giovanni Paolo II, era stata pensata per coadiuvare il processo che avrebbe dovuto portare alla conciliazione con la comunità fondata da Lefebvre. Poi Benedetto XVI ne ha parzialmente modificato l'assetto e i compiti: quei cattolici che, pur non riscontrando l'esistenza di un parere favorevole del vescovo della loro diocesi o del sacerdote della parrocchia che usano frequentare, ricercano un ente in grado di concedere l'utilizzo del Messale Romano - grazie al Summorum Pontificium di Ratzinger - possono rivolgersi all'Ecclesia Dei. I tradizionalisti, insomma, percepiscono la commissione come un baluardo in difesa del "vero cattolicesimo". La stesso istituto sembra utile pure a scavalcare possibili ostruzioni progressiste in materia di celebrazione della "messa tridentina". Ma qualcosa starebbe per cambiare. Ha scritto Marco Tosatti su La Nuova Bussola Quotidiana che: "Secondo nostre fonti il Motu Proprio che dispone la fine di Ecclesia Dei come Commissione indipendente, e la sua integrazione come Ufficio nella Congregazione per la Dottrina della Fede è pronto, firmato dal Pontefice, e avrebbe dovuto essere pubblicato addirittura prima di Natale. La persona che ci ha dato la notizia l’ha letto, e ce l’ha brevemente descitto". Ma questo è solo il primo possibile scombussolamento dell'ordine precostituito cui il Papa argentino starebbe pensando. L'altro, che farebbe ancor più notizia e ancor più rumore, riguarda la possibile cancellazione della prefettura della Casa Pontificia. La carica oggi ricoperta da mons. Georg Gänswein. Il vescovo tedesco, che è ancora oggi il più vicino a Benedetto XVI, starebbe per essere destinato a un altro incarico. Stando sempre a quello che sostiene Tosatti su LaNBQ, apprendiamo che: "Georg Gaenswein, già segretario particolare di Benedetto XVI, e la persona che ancora attualmente si occupa quotidianamente del papa emerito, dovrebbe, sempre secondo le voci riportate, diventare Segretario della Congregazione per le Cause dei Santi...". Bergoglio, per mezzo del suo potere legislativo, cancellerebbe in breve tempo sia una commissione considerata centrale, almeno dai più conservatori, per la non contaminazione modernista della dottrina e per il futuro della Chiesa cattolica, sia la prefettura presso cui è incaricato un ecclesiastico che abbiamo conosciuto durante il pontificato dell'emerito. I ratzingeriani sembrerebbero già sul piede di guerra, ma bisognerà verificare nel tempo la reale entità di quella che per il momento rimane solo una duplice, seppur molto riportata, indiscrezione.

Papa Francesco, la doppia mossa per cancellare Benedetto XVI: retroscena inquietante, caos in Vaticano, scrive il 13 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". La tesi è di quelle pesantissime, così come lo sono gli indizi: Papa Francesco avrebbe un piano per cancellare l'eredità e i discepoli di Benedetto XVI. Operazione che agita il Vaticano, che non a caso in gran parte è schierato contro il Pontefice. La tesi viene avanzata da Riccardo Cascioli su Il Giornale. "Questione di giorni e altri due importanti fili che tengono legato Papa Francesco al suo predecessore saranno tagliati - si legge nell'articolo -: voci sempre più insistenti danno infatti per certa la soppressione della Prefettura della Casa Pontificia, il cui titolare è monsignor Georg Gänswein, che è anche segretario personale di Benedetto XVI: e la fine della Commissione Ecclesia Dei, istituita nel 1988 per il dialogo con la Fraternità sacerdotale San Pio X (i lefevriani), ma oggi punto di riferimento soprattutto per l' applicazione del Summorum Pontificum, il Motu proprio di Benedetto XVI che liberalizzava la messa in latino secondo il rito antico". Si tratta di due decisioni dal pesantissimo valore simbolico, dopo anche la cacciata di Raymond Burke, il cardinale che Joseph Ratzinger aveva chiamato a Roma nel 2008 come prefetto della Segnatura apostolica. Nel novembre 2014 fu rimosso da Papa Francesco, che già un anno prima lo aveva sostituito alla Congregazione dei Vescovi. Stesso destino per il cardinale Gerhard Muller. Ora si arriva all'ultimo tassello, monsignor Gänswein, un personaggio scomodo per Francesco. Dunque, la soppressione della Prefettura della Casa Pontificia - con lo spostamento del compito degli appuntamenti e delle udienze del Papa a una sezione della Segreteria di Stato - permetterebbe al Pontefice di liberarsi di Gänswein, giustificando l'operazione con la necessità di riformare la curia.

Per quel che riguarda la chiusura della Commissione Ecclesia Dei, di cui si parla da tempo, gli effetti sarebbero dirompenti: di fatto si darebbe molta più forza a chi vorrebbe cancellare il Summorum Pontificum, la messa in "forma straordinaria" sulla quale si espresse nel 2007 Benedetto XVI, chiarendo che si trattava della "forma straordinaria" dell'unico rito romano, la cui "forma ordinaria" è quella prevista dal messale promulgato nel 1969. Un'altra picconata all'eredità di Ratzinger, che Francesco sembra davvero voler cancellare.

PAPA CONTRO PAPA. Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 14 aprile 2019. Per la prima volta in sei anni il Vaticano diventa stretto per «due papi». O meglio, per il Pontefice e l' emerito. Gli «appunti» di Benedetto XVI sulla pedofilia rischiano di creare una frattura in questa situazione unica: la coesistenza di due successori di san Pietro dentro il «recinto di Pietro». Finora l' equilibrio si è mantenuto grazie al rapporto affettuoso tra i due papi, oltre alla prudenza dell' emerito, ma adesso la Santa Sede soffre per il peso di questa compresenza. Si pone dunque una questione «costituzionale» sul ruolo dell' emerito. Partendo dal presupposto che il papa è vescovo di Roma, chi la sottolinea si rifà alle indicazioni «per il ministero dei vescovi», in cui si legge: «L' emerito svolgerà la sua attività sempre in pieno accordo e in dipendenza dal Vescovo in modo che tutti comprendano chiaramente che solo quest' ultimo è capo del governo». Al di là del contenuto del testo di Ratzinger - in cui critica la teologia progressista e scrive che il collasso spirituale causa della pedofilia è iniziato col '68 - mai come in questa vicenda la sostanza diventa forma. Oltretevere il clima è teso. Perchè molti ritengono che con questa uscita irrituale Ratzinger non sia stato «nascosto al mondo» come aveva annunciato dopo la rinuncia al papato. E ad aggravare la situazione è il tema, decisivo per il pontificato di Bergoglio e per la Chiesa tutta. L' accusa è esplicita: il Papa emerito interviene con un testo che può rappresentare «una linea pastorale e teologica parallela a quella del Papa», e si presta così a essere usata come arma per gli avversari di Francesco. E tra le «stranezze» rilevate c' è per esempio la trascuratezza nel documento di casi emblematici come quello di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, che iniziò a compiere i primi abusi sessuali negli anni '40, ben prima del '68; ed era tutt' altro che della corrente progressista. Allo stesso tempo le affermazioni ratzingeriane vengono considerate dalla galassia conservatrice e tradizionalista come parole di verità necessarie e urgenti per salvare la «barca di Pietro» che starebbe affondando. Un po' come twitta il cardinale Robert Sarah: «Dobbiamo ringraziare il Papa Emerito per aver avuto il coraggio di parlare. La sua analisi della crisi della Chiesa è di fondamentale importanza». Gli occhi sono puntati soprattutto sull' entourage di Ratzinger, accusato di voler insistere nel far proseguire in qualche modo il pontificato ratzingeriano, avvalorando la tesi che il vero e grande Papa è quello tedesco, non l' argentino. L' indizio numero uno sarebbe la modalità dell' operazione mediatica, con il coinvolgimento di media cattolici e non-cattolici che negli Usa fanno parte dell' apparato in continua propaganda contro papa Francesco. In più, viene messa in dubbio l' autenticità del lungo articolo. Come sostiene Luis Badilla, direttore del Sismografo, sito vicino al Vaticano: «Il cerchio ferreo attorno a Ratzinger non poche volte si è sostituto al Papa emerito». E come dichiara Gian Franco Svidercoschi, ex vice direttore dell' Osservatore Romano, autore per Rubbettino del pamphlet "Chiesa, liberati dal male. Lo scandalo di un credente di fronte alla pedofilia": l' incertezza «sgorga obbligata, legata alle precarie condizioni di salute, non solo fisica, di Ratzinger». E poi emerge «un' acrimonia che non gli appartiene». E se «qualcuno potrà rispondere che non è così - prosegue - allora perché non si è limitato a trasmettere questi "appunti" a Francesco?». Per Svidercoschi «il fatto che ne siano stati informati sia Parolin sia Francesco non attenua la gravità di un gesto inevitabilmente interpretato come un attacco a Bergoglio». Anche perchè, «come si poteva rispondere "no" a una richiesta del Papa emerito?». Inoltre lo staff di Benedetto, con questo «coordinamento internazionale anti-Francesco, mette in difficoltà anche Ratzinger, costretto ad avere un ruolo che non vuole. Subisce così un' altra imposizione». Spiega: dopo le dimissioni «lui voleva chiamarsi padre Benedetto e non assumere il titolo di emerito, nè essere vestito di bianco e abitare in Vaticano. Ma poi qualcuno lo ha forzato».

Papa Francesco, il cardinale africano Sarah e il retroscena clamoroso dalla Francia: "Come gli rema contro". Libero Quotidiano l'8 Giugno 2019. A fianco di Papa Francesco c'è chi lavora ai fianchi per sottrargli il posto. Si chiama Robert Sarah, il cardinale africano che a Roma lavora per Bergoglio, a capo della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, ma che in Francia è tra i principali oppositori delle sue idee. Il 79enne della Guinea - racconta Il Fatto Quotidiano - già si immagina come il primo "Papa nero" e, sfruttando le proprie origini africane, concede spesso interviste contro l'accoglienza dei migranti, escamotage per contestare frontalmente il messaggio del Papa senza poter essere accusato di razzismo. Sarah, tra i tanti impieghi, annovera anche la pubblicazione di diversi libri. Testi finanziati tutti dall'estrema destra anti-Francesco, quella frangia del popolo che desidera la caduta e le dimissione del Santo Padre. Le Soir approche et déjà le jour baisse (La sera si avvicina e il giorno sta finendo) è il titolo della serie, formata da tre pubblicazioni, che ha attirato l'attenzione della destra cattolica e islamofoba. Non solo, questi tre libri sono stati realizzati con l'aiuto della casa editrice Fayard e scritti a quattro mani con Nicolas Diat, figura controversa del cattolicesimo francese. Diat, ex consigliere di Laurent Wauquiez (Les Républicains di Sarkozy), è il giornalista che più spesso ha preso di mira il presidente Emmanuel Macrone Philippe de Villiers, il politico di ultradestra stroncato dai media per plagi e inesattezze. Il cardinale africano vanta un sostegno che non passa inosservato: dagli addetti stampa Philippe de Villier e lo stesso Diat, entrambi legati all'Opus Dei o al movimento contro i matrimoni gay "La Manif pour tous", a quello del nunzio vaticano a Parigi, Luigi Ventura, tuttora connesso ai gruppi più estremisti della Chiesa cattolica, come ancora l'Opus Dei e i legionari di Cristo. Sono numerosi anche i giornalisti che scrivono recensioni favorevoli ai libri di Sarah, la maggior parte vicini a Marine Le Pen o a Marion Maréchal Le Pen. Nel 2015 Sarah ha pronunciato un discorso sulla "bestia dell'Apocalisse" pronta a distruggere la Chiesa. Si riferiva alla "ideologia del gender", delle unioni omosessuali e delle coppie gay. La minaccia Lgbt per il cardinale è allo stesso livello del terrorismo islamico. Peccato però che nella vita privata Sarah sia circondato da vari omosessuali, il più noto dei quali è Ventura. Nonostante Sarah e Diat dicano che i libri pubblicati da Fayat abbiano successo, è difficile credere che siano "best-seller a sorpresa da 250.000 copie". Difficile fino a un certo punto. Secondo tre fonti diverse vicine al dossier, più di 100.000 copie sono state comprate all'ingrosso da mecenati e fondazioni per distribuirli gratuitamente in Africa. Un bel vantaggio anche per il cardinale Sarah, che ha diritto alla sua percentuale sul prezzo di copertina. Fonti diplomatiche dicono che poi questi volumi vengono effettivamente distribuiti in Africa, in Paesi come il Benin. Sarah ha rapporti anche con altre organizzazioni ultraconservatrici che avrebbero acquistato i libri. Dalle Dignitatis Humanæ Institute legata a Steve Bannon, alle Becket Fund of Religious Liberty, per passare dai Cavalieri di Colombo e dalla National Catholic Prayer Breakfast. In Europa invece sono saldi i rapporti con l'associazione di Marguerite Peeters, una militante estremista belga, anti-gay e anti-femminista. "Nel 2015 abbiamo comprato da Fayard 10.000 libri di Sarah in francese per distribuirli in Africa, il continente d'origine del cardinale", spiega un portavoce dei Cavalieri di Colombo.

Ratzinger e la pedofilia «Il collasso spirituale è cominciato nel ’68». Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Massimo Franco su Corriere.it. Con un’ombra di minimalismo, spiega di avere «messo insieme degli appunti con i quali fornire qualche indicazione che potesse essere d’aiuto in questo momento difficile». Ma sono ben altro. Le diciotto pagine e mezzo sulla «Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali», scritte dal Papa emerito, Benedetto XVI, rappresentano l’analisi più corposa dei vertici vaticani su un tema che sta squassando l’universo cattolico, e non solo: la pedofilia. E il fatto che arrivino dopo la riunione del febbraio scorso a Roma dei presidenti delle conferenze episcopali del mondo, convocati da Francesco, aggiunge interesse e mistero a questo documento. Anche perché Joseph Ratzinger punta il dito su un «garantismo» della Chiesa per il quale, negli Anni Ottanta del secolo scorso, sulla pedofilia «dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati. E questo fino al punto di escludere di fatto una condanna. Il loro diritto alla difesa venne talmente esteso che le condanne divennero quasi impossibili». Il testo è un pugno nello stomaco. E probabilmente non potrà non creare polemiche, perché ci sarà chi vedrà nelle affermazioni di Benedetto XVI un attacco a un’evoluzione dei costumi in Occidente negli ultimi cinquant’anni. Joseph Ratzinger parte da lontano, e spiega di avere deciso di pubblicarlo sul mensile tedesco Klerusblatt dopo «contatti», li definisce così, con il segretario di Stato, Pietro Parolin, e con lo stesso Papa Francesco. Dunque, ne ha informato i vertici della Santa Sede. Ma scorrendolo, probabilmente qualcuno avrà la sensazione che finisca per affiancare e sovrastare le conclusioni della riunione globale di febbraio. E sarà tentato di considerare gli «appunti» come un modo per dare profondità teologica e spessore culturale alle conclusioni raggiunte in quella sede: come se fossero mancati nelle risposte agli scandali sulla pedofilia tra i sacerdoti. Se Benedetto ha sentito il bisogno di aggiungere il suo pensiero a quello ufficiale, si sente dire, significa che non è stato del tutto convinto dalla reazione ufficiale della Chiesa, nonostante l’inasprimento delle pene e il «grazie» netto all’azione di papa Francesco. Il Papa emerito si affaccia sull’abisso che si è aperto in mezzo secolo di quella che sembra bollare solo come cultura della trasgressione. E lo analizza, lo denuncia, lo osserva senza nascondere nulla delle responsabilità della nomenklatura ecclesiastica. C’è un’espressione che ricorre spesso nelle sue riflessioni: «Collasso morale». Ratzinger lo fa risalire alla seconda metà degli Anni Sessanta del secolo scorso: a quella «fisionomia della Rivoluzione del 1968» della quale farebbe parte «anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente». «Mi sono sempre chiesto», annota, «come in questa situazione i giovani potessero andare verso il sacerdozio e accettarlo con tutte le sue conseguenze. Il diffuso collasso delle vocazioni sacerdotali in quegli anni e l’enorme numero di dimissioni dallo stato ecclesiastico furono una conseguenza di tutti questi processi». Fu nello stesso periodo, a suo avviso, che cominciò «un collasso della teologia morale cattolica che ha reso inerme la Chiesa di fronte a questi processi della società». Si tratta di un processo proseguito, a suo avviso, negli Anni Settanta e Ottanta, quando la pedofilia è diventata «una questione scottante». Lo sguardo di Benedetto è puntato soprattutto sulla sua Germania come laboratorio di una trasgressione progressiva. Ma da lì spazia sugli Stati Uniti e abbraccia in una visione pessimistica, quasi apocalittica, l’intero Occidente. Nella sua analisi racconta come in quel periodo si radicò l’idea che non esistesse più il bene, «ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio». La crisi, a quel punto, aveva raggiunto «forme drammatiche». Parla di «club omosessuali» che si formarono in molti seminari; di vescovi che rifiutavano la tradizione cattolica, e non solo negli Stati Uniti, in nome di «una specie di moderna cattolicità». Accenna al fatto che in alcuni seminari, addirittura «studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano ritenuti non idonei al sacerdozio». E «la Santa Sede sapeva di questi problemi», sebbene non in dettaglio. Il Papa emerito rivaluta lo sforzo compiuto da Giovanni Paolo II per arginare quella che ha ritenuto una deriva pericolosa. Ne sottolinea la figura e la fermezza teologica, in un momento in cui, invece, alcune correnti progressiste del cattolicesimo tendono a svalutarlo. Fu il pontefice polacco, ricorda il successore, a pubblicare nel 1993 un’enciclica, la Veritas Splendor, che «conteneva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone. Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno anche al di sopra della conservazione della vita fisica. Dio» scrive Benedetto XVI, «è di più anche della sopravvivenza fisica». Per questo, ribadisce che «è importante e abbisogna di garanzia non solo il diritto dell’accusato. Deve proteggere anche la fede, che al pari è un bene importante protetto dalla legge». La duplice garanzia, a suo avviso, è «la protezione dell’accusato e la protezione giuridica del bene che è in gioco». Ma quando oggi se ne parla, «ci si scontra con sordità e indifferenza... È una situazione preoccupante, sulla quale i pastori della Chiesa devono riflettere seriamente». Rispuntano i controversi «valori non negoziabili», seppure chiamati diversamente, che hanno caratterizzato i pontificati prima di quello di Francesco. Ma il pontefice tedesco vede in quanto è accaduto e sta emergendo proprio la rinuncia a quei valori. E chiama in causa le responsabilità dell’Occidente. «La società occidentale», denuncia, «è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. In alcuni punti, allora, a volte diviene immediatamente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia». Benedetto XVI ricorda come «non molto tempo fa» fosse «teorizzata come del tutto giusta»; e come si sia «diffusa sempre più. E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commettono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa», aggiunge, «deve scuoterci e scandalizzarci in maniera particolare. Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? Il motivo sta nell’assenza di Dio». Il vuoto non riguarda solo il mondo esterno alla Chiesa. Ratzinger vede nel calo drammatico dei fedeli alle Messe domenicali la riduzione di queste celebrazioni a «gesto cerimoniale». E raccomanda non «un’altra Chiesa inventata da noi», ma un «rinnovamento della fede». Per far capire il solco profondo scavato dai sacerdoti pedofili in questi decenni, cita un episodio raggelante. «Una giovane ragazza che serviva all’altare come chierichetta mi ha raccontato che il vicario parrocchiale introduceva l’abuso sessuale su di lei con queste parole: “Questo è il mio corpo dato per te”. È evidente», chiosa, «che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subito». Ma il testo va ancora più a fondo. E mette in discussione il modo in cui negli ultimi anni la Chiesa è stata percepita: come un apparato politico. Secondo il papa emerito, «di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale perfino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi causata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura qualcosa di malriuscito che dobbiamo prendere per mano noi stessi». Ma secondo Ratzinger si tratta di un’illusione, di una «proposta del diavolo». A suo avviso, non esiste «una Chiesa migliore creata da noi stessi». E infatti, la parte finale dei suoi «appunti» è una rivendicazione dell’esigenza di «contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono», scrive il Papa emerito. «Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. La Chiesa di oggi è come non mai una chiesa di martiri...». Il tono è drammatico, somiglia a un grido degno di una sorta di requisitoria. Indica una strada lastricata di errori tragici, e di una perdita progressiva dell’identità cattolica. E addita una via d’uscita dai tanti «collassi» morali di mezzo secolo attraverso scelte difficili, radicali, che non prevedono scorciatoie. E probabilmente promettono di dividere il mondo cattolico, e non solo, prefigurando nuovi spartiacque. L’impressione è che dall’eremo vaticano nel quale vive dalle sue dimissioni del 2013, Benedetto XVI guardi già oltre questa fase; e oltre il pontificato dello stesso Francesco, al quale rivolge un accorato ringraziamento finale «per tutto quello che fa». Massimo Franco

La Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali. Testo integrale di Benedetto XVI.

Dal 21 al 24 febbraio 2019, su invito di Papa Francesco, si sono riuniti in Vaticano i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo per riflettere insieme sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a seguito della diffusione delle sconvolgenti notizie di abusi commessi da chierici su minori. La mole e la gravità delle informazioni su tali episodi hanno profondamente scosso sacerdoti e laici e non pochi di loro hanno determinato la messa in discussione della fede della Chiesa come tale. Si doveva dare un segnale forte e si doveva provare a ripartire per rendere di nuovo credibile la Chiesa come luce delle genti e come forza che aiuta nella lotta contro le potenze distruttrici. Avendo io stesso operato, al momento del deflagrare pubblico della crisi e durante il suo progressivo sviluppo, in posizione di responsabilità come pastore nella Chiesa, non potevo non chiedermi – pur non avendo più da Emerito alcuna diretta responsabilità – come a partire da uno sguardo retrospettivo, potessi contribuire a questa ripresa. E così, nel lasso di tempo che va dall’annuncio dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali al suo vero e proprio inizio, ho messo insieme degli appunti con i quali fornire qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo mo­mento difficile. A seguito di contatti con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e con lo stesso Santo Padre, ritengo giusto pubblicare su “Klerusblatt” il testo così concepito. Il mio lavoro è suddiviso in tre parti. In un primo punto tento molto breve­mente di delineare in generale il contesto sociale della questione, in mancanza del quale il problema risulta incomprensibile. Cerco di mostrare come negli anni ’60 si sia verificato un processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti. Si può affermare che nel ventennio 1960-1980 i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità sono venuti meno completamente e ne è risultata un’assenza di norme alla quale nel frattempo ci si è sforzati di rimediare. In un secondo punto provo ad accennare alle conseguenze di questa si­tuazione nella formazione e nella vita dei sacerdoti. Infine, in una terza parte, svilupperò alcune prospettive per una giusta ri­sposta da parte della Chiesa.

I. Il processo iniziato negli anni ’60 e la teologia morale.

1. La situazione ebbe inizio con l’introduzione, decretata e sostenuta dallo Stato, dei bambini e della gioventù alla natura della sessualità. In Ger­mania Käte Strobel, la Ministra della salute di allora, fece produrre un film a scopo informativo nel quale veniva rappresentato tutto quello che sino a quel momento non poteva essere mostrato pubblicamente, rap­porti sessuali inclusi. Quello che in un primo tempo era pensato solo per informare i giovani, in seguito, come fosse ovvio, è stato accettato come possibilità generale. Sortì effetti simili anche la “Sexkoffer” (valigia del sesso) curata dal governo austriaco. Film a sfondo sessuale e pornografici divennero una realtà, sino al punto da essere proiettati anche nei cinema delle stazioni. Ricordo ancora come un giorno, andando per Ratisbona, vidi che attendeva di fronte a un grande cinema una massa di persone come sino ad allora si era vista solo in tempo di guerra quando si sperava in qual­che distribuzione straordinaria. Mi è rimasto anche impresso nella memoria quando il Venerdì Santo del 1970 arrivai in città e vidi tutte le colonnine della pubblicità tappezzate di manifesti pubblicitari che presentavano in grande formato due persone completamente nude abbracciate strettamente. Tra le libertà che la Rivoluzione del 1968 voleva conquistare c’era anche la completa libertà sessuale, che non tollerava più alcuna norma. Il collasso mentale fu anche collegato a una propensione alla violenza. In effetti sui voli aerei non fu più permessa la proiezione di film a sfondo sessuale, giacché nella piccola comu­nità di passeggeri scoppiava la violenza. Poiché anche gli eccessi nel ve­stire provocavano aggressività, i presidi cercarono di introdurre un ab­bigliamento scolastico che potesse consentire un clima di studio. Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente. Quantomeno per i giovani nella Chiesa, ma non solo per loro, questo fu per molti versi un tempo molto difficile. Mi sono sempre chiesto come in questa situazione i giovani potessero andare verso il sacerdozio e accet­tarlo con tutte le sue conseguenze. Il diffuso collasso delle vocazioni sa­cerdotali in quegli anni e l’enorme numero di dimissioni dallo stato cle­ricale furono una conseguenza di tutti questi processi.

2. Indipendentemente da questo sviluppo, nello stesso periodo si è verifica­to un collasso della teologia morale cattolica che reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società. Cerco di delineare molto brevemente lo svolgimento di questa dinamica. Sino al Vaticano II la teologia morale cattolica veniva largamente fondata giusnaturalistica­mente, mentre la Sacra Scrittura veniva addotta solo come sfondo o a supporto. Nella lotta ingaggiata dal Concilio per una nuova compren­sione della Rivelazione, l’opzione giusnaturalistica venne quasi comple­tamente abbandonata e si esigette una teologia morale completamente fondata sulla Bibbia. Ricordo ancora come la Facoltà dei gesuiti di Francoforte preparò un giovane padre molto dotato (Bruno Schüller) per l’elaborazione di una morale completamente fondata sulla Scrittura. La bella dissertazione di padre Schüller mostra il primo passo dell’elaborazione di una morale fondata sulla Scrittura. Padre Schüller venne poi mandato negli Stati Uniti d’America per proseguire gli studi e tornò con la consapevolezza che non era possibile elaborare sistemati­camente una morale solo a partire dalla Bibbia. Egli tentò successiva­mente di elaborare una teologia morale che procedesse in modo più pragmatico, senza però con ciò riuscire a fornire una risposta alla crisi della morale. Infine si affermò ampiamente la tesi per cui la morale dovesse essere de­finita solo in base agli scopi dell’agire umano. Il vecchio adagio “il fine giustifica i mezzi” non veniva ribadito in questa forma così rozza, e tut­tavia la concezione che esso esprimeva era divenuta decisiva. Perciò non poteva esserci nemmeno qualcosa dì assolutamente buono né tantome­no qualcosa di sempre malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio. Sul finire degli anni ’80 e negli anni ’90 la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la “Dichiarazione di Colonia”, firmata da 15 professori di teologia cattolici, che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra magistero episcopale e compito della teologia. Questo testo, che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimo­stranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della Chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale dì opposizione che in tutto il mondo anda­ va montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II (cfr. D. Mieth, Kölner Erklärung, LThK, VI 3, 196). Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a la­vorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 suscitando violente reazioni contrarie da parte dei teologi morali. In precedenza già c’era stato il Catechismo della Chiesa cattolica che aveva sistematica­mente esposto in maniera convincente la morale insegnata dalla Chiesa. Non posso dimenticare che Franz Böckle – allora fra i principali teologi morali di lingua tedesca, che dopo essere stato nominato professore emerito si era ritirato nella sua patria svizzera –, in vista delle possibili decisioni di Veritatis splendor, dichiarò che se l’Enciclica avesse deciso che ci sono azioni che sempre e in ogni circostanza vanno considerate malvagie, contro questo egli avrebbe alzato la sua voce con tutta la forza che aveva. Il buon Dio gli risparmiò la realizzazione del suo proposito; Böckle morì l’8 luglio 1991. L’Enciclica fu pubblicata il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone. Il Papa era pienamente consapevole de peso di quella decisione in quel momento e, proprio per questa parte del suo scritto, aveva consultato ancora una volta esperti di assoluto livello che di per sé non avevano partecipato alla redazione dell’Enciclica. Non ci poteva e non ci doveva essere alcun dubbio che la morale fondata sul principio del bilanciamento di beni deve rispettare un limite ultimo. Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento di Dio, una vita basata su ultimamente menzogna, è una non-vita. Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Che esso in fondo, nella teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, non sia più moralmente necessario, mostra che qui ne va dell’essenza stessa del cristianesimo. Nella teologia morale, nel frattempo, era peraltro divenuta pressante un’altra questione: si era ampiamente affermata la tesi che al magistero della Chiesa spetti la competenza ultima e definitiva (“infallibilità”) solo sulle questioni di fede, mentre le questioni della morale non potrebbero divenire oggetto di decisioni infallibili del magistero ecclesiale. In questa tesi c’è senz’altro qualcosa di giusto che merita di essere ulteriormente discusso e approfondito. E tuttavia c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria e se si riconosce, al contrario, la pretesa che essa avanza rispetto alla vita concreta. Da tutto ciò emerge come sia messa radicalmente in discussione l’autorità della Chiesa in campo morale. Chi in quest’ambito nega alla Chiesa competenza ultimamente dottrinale la costringe al silenzio proprio dove è in gioco il confine fra verità e menzogna. Indipendentemente da tale questione, in ampi settori della teologia mo­rale si sviluppò la tesi che la Chiesa non abbia né possa avere una propria morale. Nell’affermare questo si sottolinea come tutte le affermazioni morali avrebbero degli equivalenti anche nelle altre religioni e che dunque non potrebbe esistere un proprium cristiano. Ma alla questione del proprium di una morale biblica non si risponde affermando che, per ogni singola frase, si può trovare da qualche parte un’equivalente in al­tre religioni. È invece l’insieme della morale biblica che come tale è nuo­vo e diverso rispetto alle singole parti. La peculiarità dell’insegnamento morale della Sacra Scrittura risiede ultimamente nel suo ancoraggio all’immagine di Dio, nella fede nell’unico Dio che si è mostrato in Gesù Cristo e che ha vissuto come uomo. Il Decalogo è un’applicazione alla vi­ta umana della fede biblica in Dio. Immagine di Dio e morale vanno in­sieme e producono così quello che è specificamente nuovo dell’atteggiamento cristiano verso il mondo e la vita umana. Del resto, sin dall’inizio il cristianesimo è stato descritto con la parola hodòs. La fede è un cammino, un modo di vivere. Nella Chiesa antica, rispetto a una cultura sempre più depravata, fu istituito il catecumenato come spazio di esistenza nel quale quel che era specifico e nuovo del modo di vivere cristiano veniva insegnato e anche salvaguardato rispetto al modo di vivere comune. Penso che anche oggi sia necessario qualcosa di simi­le a comunità catecumenali affinché la vita cristiana possa affermarsi nella sua peculiarità.

II. Prime reazioni ecclesiali.

1. Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni ’60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa. Nell’ambito dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, interessa soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente sino a quel momento di questa preparazione. In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano in­sieme. Durante i pasti comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte accompagnati da moglie e figlio e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale. La Santa Sede sapeva di questi problemi, senza esserne informata nel dettaglio. Come primo passo fu disposta una Visita apostolica nei seminari degli Stati Uniti. Poiché dopo il Concilio Vaticano II erano stati cambiati pure i criterî per la scelta e la nomina dei vescovi, anche il rapporto dei vescovi con i loro seminari era differente. Come criterio per la nomina di nuovi vescovi va­leva ora soprattutto la loro “conciliarità”, potendo intendersi natural­mente con questo termine le cose più diverse. In molte parti della Chie­sa, il sentire conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento cri­tico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momen­to, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo. Un vescovo, che in precedenza era stato rettore, aveva mostrato ai seminaristi film pornografici, presumibilmente con l’intento di renderli in tal modo capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede. Vi furono singoli vescovi – e non solo negli Stati Uniti d’America – che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare una specie di nuova, moderna “cattolicità”. Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco. La Visita che seguì non portò nuove informazioni, perché evidentemente diverse forze si erano coalizzate al fine di occultare la situazione reale. Venne disposta una seconda Visita che portò assai più informazioni, ma nel complesso non ebbe conseguenze. Ciononostante, a partire dagli anni ’70, la situazione nei seminari in generale si è consolidata. E tutta­via solo sporadicamente si è verificato un rafforzamento delle vocazioni, perché nel complesso la situazione si era sviluppata diversamente.

2. La questione della pedofilia è, per quanto ricordi, divenuta scottante solo nella seconda metà degli anni ’80. Negli Stati Uniti nel frattempo era già cresciuta, divenendo un problema pubblico. Così i vescovi chiesero aiuto a Roma perché il diritto canonico, così come fissato nel Nuovo Co­dice, non appariva sufficiente per adottare le misure necessarie. In un primo momento Roma e i canonisti romani ebbero delle difficoltà con questa richiesta; a loro avviso, per ottenere purificazione e chiarimento sarebbe dovuta bastare la sospensione temporanea dal ministero sacerdotale. Questo non poteva essere accettato dai vescovi americani perché in questo modo i sacerdoti restavano al servizio del vescovo venendo così ritenuti come figure direttamente a lui legate. Un rinnovamento e un approfondimento del diritto penale, intenzionalmente costruito in modo blando nel Nuovo Codice, poté farsi strada solo lentamente. A questo si aggiunse un problema di fondo che riguardava la concezione del diritto penale. Ormai era considerato “conciliare” solo il cosiddetto “garantismo”. Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna. Come contrappeso alla possibilità spesso insufficiente di difendersi da parte di teologi accusati, il loro diritto alla difesa venne talmente esteso nel senso del garantismo che le condanne divennero quasi impossibili. Mi sia consentito a questo punto un breve excursus. Di fronte all’estensione delle colpe di pedofilia, viene in mente una parola di Gesù che dice: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9,42). Nel suo significato originario questa parola non parla dell’adescamento di bambini a scopo sessuale. Il termine “i piccoli” nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Gesù qui allora protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per coloro che le recano offesa. Il moderno utilizzo di quelle parole in sé non è sbagliato, ma non deve occultare il loro sen­so originario. In esso, contro ogni garantismo, viene chiaramente in luce che è importante e abbisogna di garanzia non solo il diritto dell’accusato. Sono altrettanto importanti beni preziosi come la fede. Un diritto canonico equilibrato, che corrisponda al messaggio di Gesù nella sua interezza, non deve dunque essere garantista solo a favore dell’accusato, il cui rispetto è un bene protetto dalla legge. Deve proteg­gere anche la fede, che del pari è un bene importante protetto dalla legge. Un diritto canonico costruito nel modo giusto deve dunque contenere una duplice garanzia: protezione giuridica dell’accusato e protezione giuridica del bene che è in gioco. Quando oggi si espone questa concezione in sé chiara, in genere ci si scontra con sordità e indifferenza sulla questione della protezione giuridica della fede. Nella coscienza giuridica comune la fede non sembra più avere il rango di un bene da proteggere. È una situazione preoccupante, sulla quale i pastori della Chiesa devo­no riflettere e considerare seriamente. Ai brevi accenni sulla situazione della formazione sacerdotale al mo­mento del deflagrare pubblico della crisi, vorrei ora aggiungere alcune indicazioni sull’evoluzione del diritto canonico in questa questione. In sé, per i delitti commessi dai sacerdoti è responsabile la Congregazione per il clero. Poiché tuttavia in essa il garantismo allora dominava am­piamente la situazione, concordammo con papa Giovanni Paolo II sull’opportunità di attribuire la competenza su questi delitti alla Con­gregazione per la Dottrina della Fede, con la titolatura “Delicta maiora contra fidem”. Con questa attribuzione diveniva possibile anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale, che invece non sa­rebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Non si trattava di un escamotage per poter comminare la pena massima, ma una con­ seguenza del peso della fede per la Chiesa. In effetti è importante tener presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la fede: solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili tali delitti. La gravità della pena presuppone tuttavia anche una chiara prova del delitto commesso: è il contenuto del garantismo che rimane in vigore. In altri termini: per poter legittimamente comminare la pena massima è necessario un vero processo penale. E tuttavia, in questo modo si chiedeva troppo sia alle diocesi sia alla Santa Sede. E così stabilimmo una forma minima di processo penale e lasciammo aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fossero in grado di svolgerlo. In ogni caso il processo doveva essere verificato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per garantire i diritti dell’accusato. Alla fine, però, nella Feria IV (vale a dire la riunione di tutti i membri della Congrega­zione), creammo un’istanza d’appello, per avere anche la possibilità di un ricorso contro il processo. Poiché tutto questo in realtà andava al di là delle forze della Congregazione per la Dottrina della Fede e si verifica­vano dei ritardi che invece, a motivo della materia, dovevano essere evi­tati, papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme.

III. Alcune prospettive.

1. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo creare un’altra Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi? Questo esperimento già è stato fatto ed è già falli­to. Solo l’amore e l’obbedienza a nostro Signore Gesù Cristo possono in­dicarci la via giusta. Proviamo perciò innanzitutto a comprendere in modo nuovo e in profondità cosa il Signore abbia voluto e voglia da noi.

In primo luogo direi che, se volessimo veramente sintetizzare al massi­mo il contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signo­re ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uo­mini. Se ora proviamo a svolgere un po’ più ampiamente questo contenuto es­senziale della Rivelazione di Dio, potremmo dire: il primo fondamentale dono che la fede ci offre consiste nella certezza che Dio esiste. Un mon­do senza Dio non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose hanno un fondamento spirituale, so­lo se sono volute e pensate – solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene – anche la vita dell’uomo può avere un senso. Che Dio ci sia come creatore e misura di tutte le cose, è innanzitutto un’esigenza originaria. Ma un Dio che non si manifestasse affatto, che non si facesse riconoscere, resterebbe un’ipotesi e perciò non potrebbe determinare la forma della nostra vita. Affinché Dio sia realmente Dio nella creazione consapevole, dobbiamo attenderci che egli si manifesti in una qualche forma. Egli lo ha fatto in molti modi, e in modo decisivo nella chiamata che fu rivolta ad Abramo e diede all’uomo quell’orientamento, nella ricerca di Dio, che supera ogni attesa: Dio di­viene creatura egli stesso, parla a noi uomini come uomo. Così finalmente la frase “Dio è” diviene davvero una lieta novella, pro­prio perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini nuovamente consapevoli di questo rappresenta il primo e fondamentale compito che il Signore ci assegna. Una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo cri­terio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della “morte di Dio”. Quando in una società Dio muore, essa diviene libera – ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché vie­ne meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a volte diviene improvvisa­mente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e che distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia. Teorizzata ancora non molto tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commet­tono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura particolare. Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? In ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica. Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale, in Germania avevamo adottato la nostra Costituzione dichiarandoci esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida. Mezzo secolo dopo non era più possibile, nella Costituzione euro­pea, assumere la responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come criterio di misura della comunità nel suo complesso. In questa decisione si rispecchia la situazione dell’Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato di una minoranza. Il primo compito che deve scaturire dagli sconvolgimenti morali del no­stro tempo consiste nell’iniziare di nuovo noi stessi a vivere di Dio, rivol­ti a lui e in obbedienza a lui. Soprattutto dobbiamo noi stessi di nuovo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita e non ac­cantonarlo come fosse una parola vuota qualsiasi. Mi resta impresso il monito che il grande teologo Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: «Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!». In effetti, anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema “Dio” appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire.

2. Dio è divenuto uomo per noi. La creatura uomo gli sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente nella storia. Parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha preso su di sé la morte. Di questo certo parliamo diffusamente nella teologia con un linguaggio e con concetti dotti. Ma proprio così nasce il pericolo che ci facciamo si­gnori della fede, invece di lasciarci rinnovare e dominare dalla fede. Consideriamo questo riflettendo su un punto centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione. A ragione il Vaticano II intese mettere di nuovo al centro della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacra­mento della presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona, della sua passione, morte e risurrezione. In parte questa cosa è realmente avvenuta e per questo vogliamo di cuore rin­graziare il Signore. Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezio­ne di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che consiste nella Sua presenza reale. L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ra­gione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familia­ri o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sa­cramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento. Nei colloqui con le vittime della pedofilia sono divenuto consapevole con sempre maggiore forza di questa necessità. Una giovane ragazza che serviva all’altare come chierichetta mi ha raccontato che il vicario parrocchiale, che era suo superiore visto che lei era chierichetta, introduceva l’abuso sessuale che compiva su di lei con queste parole: «Questo è il mio corpo che è dato per te». È evidente che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subìto. Sì, dobbiamo urgentemen­te implorare il perdono del Signore e soprattutto supplicarlo e pregarlo di insegnare a noi tutti a comprendere nuovamente la grandezza della sua passione, del suo sacrificio. E dobbiamo fare di tutto per proteggere dall’abuso il dono della Santa Eucaristia.

3. Ed ecco infine il mistero della Chiesa. Restano impresse nella memoria le parole con cui ormai quasi cento anni fa Romano Guardini esprimeva la gioiosa speranza che allora si affermava in lui e in molti altri: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: La Chiesa si risveglia nelle anime». Con questo intendeva dire che la Chiesa non era più, come prima, semplicemente un apparato che ci si presenta dal di fuori, vissu­ta e percepita come una specie di ufficio, ma che iniziava ad essere sen­tita viva nei cuori stessi: non come qualcosa di esteriore ma che ci toc­cava dal di dentro. Circa mezzo secolo dopo, riflettendo di nuovo su quel processo e guardando a cosa era appena accaduto, fui tentato di capo­ volgere la frase: «La Chiesa muore nelle anime». In effetti oggi la Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi cau­sata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisa­mente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo. Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza. Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare gli uni dagli altri. Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che un “nemico” di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità. In quest’ambito è necessario rimandare a un importante testo della Apocalisse di San Giovanni. Qui il diavolo è chiamato accusatore che accusa i nostri fratelli dinanzi a Dio giorno e notte (Ap 12, 10). In questo modo l’Apocalisse riprende un pensiero che sta al centro del racconto che fa da cornice al libro di Giobbe (Gb 1 e 2, 10; 42, 7-16). Qui si narra che il diavolo tenta di screditare la rettitudine e l’integrità di Giobbe co­me puramente esteriori e superficiali. Si tratta proprio di quello di cui parla l’Apocalisse: il diavolo vuole dimostrare che non ci sono uomini giusti; che tutta la giustizia degli uomini è solo una rappresentazione esteriore. Che se la si potesse saggiare di più, ben presto l’apparenza della giustizia svanirebbe. Il racconto inizia con una disputa fra Dio e il diavolo in cui Dio indicava in Giobbe un vero giusto. Ora sarà dunque lui il banco di prova per stabilire chi ha ragione. «Togligli quanto possie­de – argomenta il diavolo – e vedrai che nulla resterà della sua devozio­ne». Dio gli permette questo tentativo dal quale Giobbe esce in modo po­sitivo. Ma il diavolo continua e dice: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia» (Gb 2, 4s). Così Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe. Unicamente gli è precluso ucci­derlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza. Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uo­mini dicendo: «Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona. In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo». Il denigrare la creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio stesso non è buono e vuole allontanarci da lui. L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante. L’accusa contro Dio oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale egli vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è an­che oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni (“martyres”) nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli. Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire, al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. Se con cuore vigile ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro soffe­renza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprat­tutto il trovarli e il riconoscerli.

Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di continuo, nella quotidianità, testimoni così del Dio vivo, indicandoli an­che a me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede. Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre! (Gb2, 4s). Così Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe. Unicamente gli è precluso ucci­derlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza. Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uo­mini dicendo: «Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona. In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo». Il denigrare la creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio stesso non è buono e vuole allontanarci da lui. L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante. L’accusa contro Dio oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale egli vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è an­che oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni (“martyres”) nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli.

Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire, al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. Se con cuore vigile ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro soffe­renza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprat­tutto il trovarli e il riconoscerli. Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di continuo, nella quotidianità, testimoni così del Dio vivo, indicandoli an­che a me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede.

Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre!

Benedetto XVI

Ratzinger, imbarazzo in Vaticano per l’accusa sulle cause della pedofilia. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Gian Guido Vecchi su Corriere.it. Ieri pomeriggio Francesco si è chinato a baciare i piedi dei leader del Sud Sudan che si combattono da cinque anni, al termine del «ritiro spirituale» convocato in Vaticano per arrivare a un accordo di pace, «imploro che il fuoco della guerra si spenga una volta per sempre». Ma nella Chiesa, arrivati al settimo anno di pontificato di Bergoglio, la situazione non è molto più tranquilla, come dimostra la vicenda degli «appunti» di Benedetto XVI sulla pedofilia nel clero e le reazioni che ne sono seguite. Il testo, pubblicato in Italia dal Corriere della Sera, è uscito in contemporanea in varie lingue e Paesi del mondo, scatenando gli umori delle tifoserie, spesso opposte, dei «due Papi»: chi esulta per il «ritorno» di Ratzinger e chi non nasconde il proprio fastidio per l’uscita pubblica dell’emerito. In Vaticano non erano a conoscenza né si aspettavano il «lancio» planetario dell’intervento, destinato ad essere pubblicato sul mensile tedesco Klerusblatt «a seguito di contatti con il Segretario di Stato e con lo stesso Santo Padre», come ha scritto Benedetto XVI. Alla sorpresa si è aggiunto un certo imbarazzo per le possibili reazioni. Così si è scelto il basso profilo: l’Osservatore Romano pubblica un articolo che ne riassume i punti salienti — lo stesso che è uscito sul sito di Vatican News — in fondo alla penultima pagina, senza richiami in prima e sotto l’articolo di apertura dedicato a un convegno organizzato da Civiltà Cattolica. Il timore è che il testo di Benedetto XVI venga usato dalla reazione conservatrice a Francesco per opporre il «magistero» dell’emerito a quello del Papa. Che si voglia creare «confusione» tra i fedeli — il Papa è uno solo — nel tentativo di mettere in difficoltà Bergoglio. Le tappe di questa guerra di logoramento sono note, dai «Dubia» firmati nel 2016 da quattro cardinali contro le aperture del Sinodo sulla famiglia, alla lettera nella quale l’ex nunzio negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, accusava Francesco per la gestione degli scandali pedofilia fino a chiederne le dimissioni. Gli «appunti» rappresentano una sorta di sintesi di ciò che Joseph Ratzinger ha ripetuto nel corso degli anni, dal «Rapporto sulla fede» scritto con Vittorio Messori nel 1985 alla «Lettera ai cattolici d‘Irlanda» del 2010. Che la temperie degli anni Sessanta e il ’68 abbia rappresentato uno spartiacque, per Ratzinger, era evidente fin dalla pubblicazione di uno dei suoi libri più celebri, l’Introduzione al cristianesimo (Einführung in das Christentum) del 1967, nel quale riportava la variante d’un apologo di Søren Kierkegaard in Enten Eller I come metafora del credente nel mondo che non crede: il circo che s’incendia, il clown mandato a chiamare aiuto al villaggio vicino, la gente che «ride fino alle lacrime» alle sue grida, villaggio e circo distrutti dal fuoco. D’altra parte è evidente la diversità di approccio. Francesco, alla radice degli abusi, ha denunciato anzitutto il «clericalismo» e «l’abuso di potere». Ratzinger punta il dito contro il «collasso» della «teologia morale cattolica» seguito alla «Rivoluzione» sessantottina, i «club omosessuali», l’«assenza di Dio» nella società occidentale. Parole rilanciate da coloro che accusano Francesco di «ambiguità» e «relativismo» dottrinale. Sul fronte opposto, si fa notare come lo scandalo pedofilia risalga a decenni prima del Sessantotto (negli Usa, ad esempio, il rapporto sulla Pennsylvania parte dagli anni Quaranta) e tra i peggiori criminali ci siano stati campioni (a parole) della Dottrina come gli ultraconservatori Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, o Fernando Karadima.

Perché la lettera di Ratzinger ha fatto infuriare i progressisti. Il ritorno in campo di Joseph Ratzinger ha suscitato la consueta bufera. I progressisti continuano a odiarlo, mentre i conservatori provano ancora nostalgia, scrive Francesco Boezi, Venerdì 12/04/2019 su Il Giornale. Joseph Ratzinger è tornato in campo dopo mesi di silenzio, ma i progressisti lo combattono come se fosse il primo giorno di pontificato. Benedetto XVI non è più papa, ma questo aspetto, che non è per nulla formale, sembra non rappresentare una condizione sufficiente per porre un freno al coro degli antiratzingeriani. "Confusione riflessa nel Concilio". L'insieme di voci ostili che abbiamo imparato a conoscere bene tra il 2005 e il 2013 è tornato. Lo stesso coro laicista che ha costruito una narrativa falsa, basata sul presunto oscurantismo e sull'accostamento di definizioni poco consone, quali quella di "pastore tedesco". Basta una semplice occhiata ai commenti apparsi sulle piattaforme social poche ore dopo la pubblicazione degli appunti, per avere contezza di come molti commentatori - anche vicini ad ambienti vaticani - si siano allarmati per la mossa e per i contenuti del testo con cui il teologo tedesco ha indicato la strada per il ripristino della "credibilità" perduta dalla Chiesa cattolica. Non è un neofita a dire la sua. Quando Benedetto XVI accusa il '68 di aver sdoganato gli abusi sessuali e la pedofilia in genere, parla da pontefice recordman per numero di sacerdoti "spretati" per violenze ai danni di minori e di adulti vulnerabili e da riformatore delle norme, in senso restrittivo, riguardanti quei comportamenti. È stato lui, il "papa conservatore", a porre la questione a Giovanni Paolo II. Erano gli inizi del nuovo millennio ed era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Joseph Ratzinger nelle 18 pagine si è riferito, poi, a una fase storica specifica: quella in cui, tanto gli ambienti ecclesiastici quanto la società civile, sono stati interessati per la prima volta da un'assoluta relativizzazione valoriale. Il relativismo, da sempre, è l'avversario individuato dal pontefice emerito. Quello da sconfiggere nel caso esista un reale interesse a salvare l'Occidente e la civiltà occidentale. Il professore di Tubinga, ieri, si è rivolto al mondo, ma ha parlato soprattutto ai "suoi", cioè alla Chiesa cattolica. Su Il Corriere della Sera si legge della sorpresa suscitata in Vaticano dall'uscita di queste diciotto pagine. Non sarebbe la prima volta che Joseph Ratzinger stupisce in termini di proceduralità. Qualcuno si ricorderà della vicenda della "lettera tagliata". Quella che ha portato alle dimissioni di monsignor Dario Edoardo Viganò. "Curioso paradosso - aveva scritto il teologo Andrea Grillo in quel frangente - : chi ha promesso solennemente di tacere, ha parlato senza prudenza. Chi invece per mestiere e ministero doveva parlare, e ha parlato chiaro, perché mai dovrebbe tacere?”. Ma queste, rispetto al contenuto della riflessione diffusa ieri, sono minuzie. Il punto più discusso, come evidenziato dal professor Massimo Fagioli sull'Huffington Post, è la collocazione temporale dell'inizio della decadenza dei costumi. Perché le tesi di Benedetto XVI arriverebbero a mettere in discussione la bontà del Concilio Vaticano II. A dire il vero, il papa emerito sembra aver accusato determinati ambienti specifici, quelli che hanno operato per un certo periodo di tempo in Germania e negli Stati Uniti, e non l'assetto complessivo post - conciliare, che lo stesso Joseph Ratzinger, da riformista qual è, ha contribuito a sviluppare. Certo, in maniera diversa dal parere di papa Francesco, nell'analisi di Benedetto XVI non viene assegnato un ruolo preminente al "clericalismo". Gli abusi ai danni di minori, insomma, hanno per il teologo teutonico un'origine di carattere culturale e non rilevano solamente rispetto ai rapporti gerarchici tra consacrati. Il 68, nella visione dell'emerito, coincide con l'inizio della crisi delle vocazioni. I seminari - questo è uno degli aspetti del suo discorso - hanno fatto fronte a quella situazione, smettendo di fare selezione. Da questa prassi, poi, è derivata la "crisi" di credibilità. Sembra difficile che queste argomentazioni, come alcuni invece temono, possano essere utilizzate in modo strumentale contro il pontefice regnante. Benedetto XVI ha premesso di aver avuto una sorta di placet da parte di papa Bergoglio e della segreteria di Stato, ma non basta: Joseph Ratzinger - si legge o si deduce da quello che viene scritto in giro - deve tacere, perché non è più papa. Quasi come se qualcuno lo volesse fuori dal Vaticano. Nel '68, prendendo una "direzione ostinata e contraria", Joseph Ratzinger scrisse Introduzione al Cristianesimo, che è un testo considerato, ancora oggi, tanto centrale quanto attuale in termini dottrinali. Il che ha rappresentato, considerando il fenomeno sociale dell'epoca, una scelta coraggiosa e restauratrice. Potrebbero sembrare le medesime motivazioni che hanno mosso l'emerito nel suo attacco al "collasso morale". C'è un punto, però, forse un po' sottovalutato, che pone Benedetto XVI in continuità con il papa argentino: l'appello volto a farla finita col garantismo più totalizzante. Quello che sembra aver permesso a tanti consacrati responsabili di abusi di farla franca.

Quella sinistra ipocrita che predicava il lolitismo. Lo chiamavano "diritto alla sessualità infantile". Fu il culto della trasgressione. E l'inizio della fine, scrive Stenio Solinas, Venerdì 12/04/2019 su Il Giornale. Si chiamava «diritto alla sessualità infantile» e basta sfogliare i cataloghi editoriali dell'epoca, quelli «alternativi» e quelli «paludati», per capire che cosa intenda il Papa emerito Ratzinger quando accenna alla «fisionomia della Rivoluzione del Sessantotto» al cui interno la pedofilia «era diagnosticata come permessa e conveniente». Naturalmente la data è simbolica, perché il processo di secolarizzazione della società occidentale dura da almeno un paio di secoli e contempla l'eclissi del sacro, la scomparsa delle società tradizionali, l'atomismo sociale e la deificazione dell'individuo. Ciò che però emerge dalle parole di Benedetto XVI è una riflessione sulla cosiddetta «cultura della trasgressione», che è poi quella che nella seconda metà del Novecento si è definitivamente imposta, trasformando in fenomeno di massa ciò che a lungo era stato un fenomeno di minoranza, nell'arte come nella letteratura, nel costume come nelle relazioni sociali. Che questa «cultura della trasgressione» dovesse a un certo punto fare della sessualità il suo campo preferito d'azione è perfettamente comprensibile se si dà uno sguardo a ciò che nel XX secolo le rivoluzioni avevano lasciato alle loro spalle, massacri, fallimenti, burocratizzazione del terrore. Potevano funzionare come richiamo al di fuori dell'Occidente, il cosiddetto Terzo mondo che non aveva ancora conosciuto «la necessità storica» e «la dialettica della storia», come pontificavano i nipotini intellettuali degli Immortali principi dell'89 coniugati all'insegna del materialismo scientifico. Nel Vecchio continente, però, c'erano state due «guerre civili», divenute due guerre mondiali, un'Europa spaccata a metà dalla «cortina di ferro», un appeal rivoluzionario seppellito nei gulag e a cui la società dei consumi dava il colpo definitivo nel campo della questione sociale. In Italia, nella Germania dell'Ovest, in Francia, ci si industriò a combattere il capitalismo di nome vivendo e godendo però il capitalismo di fatto, un marxismo alla amatriciana, a birra e salsicce, alla bouillabaisse, teorico e non pratico, chiacchiere e distintivi, insomma. Del resto, la sua scientificità prevedeva il crollo dell'odiato nemico per le contraddizioni insite nel suo stesso sviluppo... Bastava aspettare e, si sa, l'estremismo è la malattia infantile del comunismo e i suoi adepti «compagni che sbagliano» a cui dedicare un affetto partecipe, ma distratto e senza esagerare...In due saggi mirabili, Sulla rivoluzione e Sulla violenza, Hannah Arendt ha spiegato benissimo come la Rivoluzione francese abbia lasciato in eredità ai secoli successivi l'idea salvifica del primo concetto, la liceità, a esso connessa, del secondo. Trasportato dalla politica alle idee, questo binomio si è imposto nel campo del pensiero, dove la tabula rasa di ciò che c'era prima si accompagnava all'estremismo verbale con cui veniva veicolata. La rivoluzione sessuale ne è il suo logico coronamento, il cavallo di Troia con cui si distruggevano da un lato codificazioni morali e legislative, e dall'altro si dava alla borghesia radicale, quanto conformista sedotta dallo Spirito del Tempo, il contentino-surrogato di una rivoluzione individuale, non essendo possibile quella epocale legata a rapporti di produzione. Deriva da ciò la permissività più totale e, insieme, più intransigente, il relativismo assoluto dei valori e la teorizzazione del diritto al proprio piacere in quanto tale, il «vietato vietare» di una filosofia da scannatoio. Curiosamente, ciò che nel passato era stata una certa «virtù» rivoluzionaria, un modello stoico di incorruttibilità sia pubblica sia privata, si trasformavano nel suo esatto opposto, l'edonismo libertino come fine ultimo, la rivincita di de Sade su Saint-Just, degno epitaffio di un'epoca senza più dignità.

Papa Francesco nel dramma, cosa spunta nel testo di Ratzinger: "Film porno e club a luci rosse", scrive il 12 Aprile 2019 Renato Farina su Libero Quotidiano. Benedetto XVI, papa emerito, compie 91 anni il 16 aprile, martedì prossimo. Sei anni fa, quando l'11 febbraio annunciò le sue dimissioni ai cardinali e al mondo, fu dato per moribondo, e un pochino fu lui a farsi credere tale, per giustificare un atto che alla luce della sua intatta potenza intellettuale appare oggi ancora più strano. E forse, lui disse e ripete tuttora, proprio per questo molto divino. Non aveva più forze morale fisiche e caratteriali per domare le belve che tramavano intorno a lui per divorarlo, ma le qualità del suo animo sono in fiore e la cilindrata del suo cervello cattolico resta senza paragoni. Chiede permesso e ringrazia Francesco, Papa regnante e il suo Segretario di Stato, Pietro Parolin. E festeggia quello che in vaticanese si chiama «il nonagesimosecondo genetliaco» dando una prova di freschezza apostolica come, alla sua età, ebbe solo Giovanni. Si ispira in effetti esplicitamente all'Apocalisse del Vegliardo di Patmos. Con un linguaggio limpidamente tragico verga un giudizio amarissimo sullo stato della Chiesa e offre una possibile via d'uscita dallo scandalo della pedofilia e dalle sue radici atee. Ma certo: accusa la Chiesa - che resta misteriosamente immacolata - di ateismo pratico: ha rinchiuso Dio in una dimensione privata. Lo dà per scontato. Ha costruito con teologi e vescovi infedeli una morale in rottura con la tradizione. Sono diciotto pagine e mezzo pubblicate sulla rivista bavarese Klerusblatt, destinata al clero, ma in realtà al mondo cattolico ma anche più in là. Certo che tutto questo ha qualcosa di stupefacente. Quando il 28 febbraio salì, piegato e claudicante, sull'elicottero che lo portava a Castel Gandolfo, pareva un viaggio verso l'estrema soglia, o comunque verso un destino da Maschera di Ferro. Invisibile e silente. Benedetto è costretto su una sedia a rotelle, la vocina si è fatta ancora più flebile, somigliando sempre di più alla sua calligrafia minuscola: un usignuolo scriverebbe così. Ma accidenti. È pur sempre Ratzinger. E in questo momento di confusione della Chiesa, propone una strada di unità profonda. Seguendo l'attuale Pontefice, nessun dubbio, ma corroborandone il pensiero, e francamente tagliando gli artigli di tanta corte papale figlia naturale di un' epoca post-conciliare della quale Ratzinger fu «tentato» di dire allora, ma ripete oggi: «La Chiesa muore nelle anime». Può risorgere? Certo che sì, anzi già oggi risorge in frammenti di vita dove è «luce delle genti».

GLI ABUSI DEL CLERO -  Ecco una sintesi di questo testo.

1) Nella Chiesa cattolica tutto ciò che è turpitudine sessuale a un certo punto diventò possibile, persino normale. Cercarono di porre rimedio Giovanni Paolo II e lui stesso. Ora? Egli ringrazia con calore Francesco per quello che ha fatto e sta facendo per ripulire la barca dal putridume. E però, a differenza di papa Bergoglio, che ha visto la causa di questa degenerazione nel «clericalismo», e cioè in un abuso di autorità, Benedetto XVI individua una radice sacrilega, vede un «abuso della Santa Eucaristia». Un delitto non solo contro la morale ma contro la fede. Negli anni '70 e '80 in nome del «conciliarismo» si è operata una rinuncia alla certezza della predicazione: ad imitazione del mondo, non si proclama più l'esistenza di una morale autentica attingibile nell'insegnamento della Chiesa cattolica.

2) Per farsi capire, racconta un caso tra i tanti, persino banale, persino giustificabile teologicamente. «Una giovane ragazza che serviva all'altare come chierichetta mi ha raccontato che il vice parroco introduceva l'abuso sessualeche compiva su di lei con queste parole: "Questo è il mio corpo che è dato per te"». Questo prete a suo modo era sincero. Tradiva l'Eucaristia, ma credendo davvero di svolgerla nella vita. La Messa a quel tempo (solo in quegli anni post-sessantottini? Mah) fu ridotta a una festa, una cena a cui inviti «il parentado», e non lo puoi lasciare senza pane eucaristico. E questo vale ancora da molte parti: se uno viene a messa per un funerale o un matrimonio, si reputa che «le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ragione della loro appartenenza al parentado». La messa domenicale ha una presenza sempre più in calo per questo. Che interesse può avere un «gesto cerimoniale... che distrugge la grandezza del mistero»?

3) Questo relativismo liturgico ha lo stesso grembo da cui nasce la libertà sessuale nella Chiesa, fino alla all' infamia della pedofilia . Il '68 così è entrato nella Chiesa in combutta con un «sentire conciliare... aperto al mondo» contrapposto alla tradizione. Insomma: lo scandalo degli abusi sui minori nella clero cattolico non è un dato statistico da accogliere con fatalismo: si sa che un tot dell'umanità ha questo "vizio". Troppo comodo. La Chiesa non può ragionare in questo modo. Quel crimine è il bubbone paonazzo che deturpa la pelle immacolata della Chiesa, perché ancor oggi essa non ha estirpato il virus che ha causato il «collasso morale» delle sue fibre interiori. Tutto cominciò dopo il '68 allorché cambiarono i criteri nella scelta dei vescovi. Si applicò un confuso «conciliarismo». Un simile episcopato attuò una selezione dei candidati al punto da determinare il sorgere nei seminari di «club di omosessuali», non solo: accadde che «la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente». Il rettore di un importante seminario era uso proiettare film pornografici ai suoi allievi. Saputa la cosa, è stato fatto vescovo, sostiene il Papa emerito. C'è stata insomma una semina di preti aperti alle più diverse esperienze sessuali.

4) Tutto questo clima diffuso di tolleranza sessuale, giustificata teologicamente, ha determinando un garantismo fasullo verso gli abusi sessuali, banalizzati come in fondo appartenenti a una sfera veniale. Non c'erano dogmi morali! Non dovevano esserci. Sul punto Giovanni Paolo II svolse una serie di consultazioni avvalendosi del cardinal Ratzinger. Ci fu una consistente corrente di vescovi e docenti che si stracciò le vesti. Al punto che un teologo famoso minacciò papa Wojtyla e il futuro Benedetto di «alzare la voce con tutta la forza che aveva» contro le dottrine avverse a questo permissivismo. (Benedetto, perfido commenta che non fece a tempo: «Il buon Dio gli risparmiò la realizzazione del suo proposito; Böckle morì l' 8 luglio 1991. L'Enciclica fu pubblicata il 6 agosto 1993»).

I RIMEDI - Quali rimedi? Egli lancia anatema contro quanti credono (magari a suo nome, ma Benedetto non lo dice) di dover fare un' altra Chiesa. Guai. «La Chiesa di Dio c' è anche oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c'è pure la Chiesa santa che è indistruttibile». Aggiunge: «Anche oggi Dio ha i suoi testimoni («martyres») nel mondo». Ci sono «fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro sofferenza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro». Ed ecco il compito: «Creare spazi di vita per la fede, e soprattutto il trovarli e il riconoscerli». Conclude dicendo che con la sua piccola comunità (le "memores domini" di Comunione e liberazione) vivono «lieti della fede». Renato Farina

Stefano Filippi per “il Giornale” il 12 aprile 2019. Il «nonno saggio in casa» - così l' ha più volte definito papa Francesco ha battuto un colpo. E che colpo. Il testo di Benedetto XVI sulla pedofilia nella Chiesa è un documento lucidissimo, altro che «appunti» come li chiama lui: 18 pagine, quasi 40mila battute, una bozza di enciclica. Una testimonianza drammatica, con denunce impressionanti che, oltre alle derive culturali ed etiche del Sessantotto, colpiscono la Chiesa degli ultimi 50 anni. Non direttamente il Vaticano, ma seminari, episcopati, teologi: cattivi maestri di cui Ratzinger fa nomi e cognomi. C'è una critica pesantissima sul «garantismo» ingiustificato di vaste correnti teologiche. Un documento in «ratzingerese» puro dove riappaiono i «valori non negoziabili» e i «beni indisponibili» e si depreca che l'Europa abbia perso le radici cristiane. Ma è un duro atto d'accusa anche verso la Chiesa di oggi, non soltanto quella del passato. Ratzinger lamenta la disaffezione alla messa, l'abbandono dei sacramenti, la perdita della fede. «Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere?», si chiede. E risponde: «In ultima analisi il motivo sta nell'assenza di Dio. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio». E indica, come esempio da seguire, i nuovi martiri contemporanei: «È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro». Ratzinger racconta di avere elaborato i suoi appunti prima della riunione dei vescovi del 21-24 febbraio. L'intento era «fornire qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo momento difficile». Ma del suo approfondimento, che è storico, culturale, teologico ed ecclesiale, non c'è stata traccia nei lavori di quei tre giorni. Ratzinger ha allora ritenuto giusto pubblicare il suo testo «a seguito di contatti con il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e con lo stesso Santo Padre». Oltre a questo passaggio, Benedetto cita Francesco soltanto un'altra volta, nell'ultima riga, per ringraziarlo. Fila tutto liscio tra i due uomini vestiti di bianco, regnante ed emerito? Non sembrerebbe. La diffusione del testo avrebbe creato imbarazzo a Santa Marta perché appare come un puntello, non richiesto, a un magistero considerato non sufficientemente chiaro e approfondito. Un sostegno storico e teologico a una riunione tra papa e vescovi poco efficace. Si potrebbe anche pensare che i due papi lavorino in tandem, e che l'emerito si sia permesso di dire quello che l'altro è costretto a tacere. Un gioco di sponda. Invece no, come dimostra l'accoglienza dei media ecclesiastici al testo ratzingeriano. Vatican News ospita un breve sunto. Il sito di Avvenire non ne parla per niente, mentre la vaticanista del quotidiano dei vescovi, Stefania Falasca, amica personale di Bergoglio, ha pubblicato due tweet inequivocabili contro Ratzinger citando altrettanti articoli del Direttorio per i vescovi dal titolo Apostolorum successores. «Il Vescovo emerito avrà cura di non interferire in nulla nella guida della diocesi ed eviterà ogni atteggiamento e rapporto che potrebbe dare anche solo l'impressione di costituire quasi un'autorità parallela a quella del Vescovo reggente», è il primo tweet. Ratzinger è vescovo emerito di Roma. Il secondo è giunto quattro ore dopo, se la tirata d'orecchi non fosse stata sufficientemente chiara: «Per l'unità pastorale il Vescovo emerito svolgerà la sua attività sempre in pieno accordo e in dipendenza dal Vescovo in modo che tutti comprendano chiaramente che solo quest'ultimo è capo e primo responsabile del governo della diocesi». Quella di Benedetto, insomma, è considerata un' interferenza, un magistero parallelo che rischia di oscurare quello di Francesco.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 12 aprile 2019. Meglio occuparsi delle periferie creative. Meglio intervistare Alberto Fortis (chi si rivede) e rimandare a ottobre Theresa May piuttosto che valorizzare il potente e definitivo grido di dolore del Papa emerito. Così, con occhiuta distrazione, L' Osservatore Romano di oggi decide di relegare in fondo a pagina sette (di otto totali) il testo di Joseph Ratzinger; nel retrobottega, dove gli altri giornali recano le previsioni del tempo. A Benedetto XVI il direttore Andrea Monda dedica solo un panorama di servizio e nessun richiamo in prima, quasi a voler lasciar evaporare con l' oblio l' imbarazzo di un testo che parla alla Chiesa, che parla all' Uomo. E che suona le note forti della sveglia. C' è qualcosa di arido e filisteo nella decisione di trattare come un semplice gossip quel «collasso morale» a cui si riferisce Ratzinger quando addita la lobby gay. Ed è stupefacente - ma solo fino a un certo punto, per chi conosce la teoria della polvere sotto il tappeto - il silenzio degli organi di stampa cattolici rispetto al tuono trasformato in soffio. L' imbarazzo è profondo, quaresimale, da parte di chi quotidianamente dà fiato alle trombe per enfatizzare ogni battito di ciglia di papa Francesco. Il responsabile dei media vaticani, Andrea Tornielli, solitamente prodigo di pennellate impressioniste per dipingere il paradiso terrestre d' Oltretevere, non commenta, non twitta, non respira. L'editorialista principe della batteria curiale, Antonio Spadaro, gesuita direttore della Civiltà Cattolica, sempre sull' Osservatore preferisce parlare d' altro. Per esempio della fratellanza nel Mediterraneo, suo cavallo di battaglia. Mentre il Papa emerito passeggia nella Storia dell' ultimo mezzo secolo illuminandone gli angoli bui, la notizia galleggia nelle retrovie sia sul sito del Vaticano, sia su Vatican Insider, gemello laico che fu prateria giornalistica del Tornielli medesimo. Gli alabardieri sono in imbarazzo e chi fu cantore di Benedetto durante il suo pontificato, poi cantore di Francesco durante il suo (quindi più corifeo che pensatore) oggi sceglie il silenzio oppure il segnale trasversale, fra l' insinuante e il velenoso. Per capire qualcosa di più basta andare su Twitter dove il guizzo è sovrano anche se si lasciano tracce, qualche volta bave. Sul social network spiccano due rimandi al tema più forte del giorno, forse dell' anno. Il primo è del teologo Vito Mancuso, che non sapendo come uscirne la butta in politica: «È a mio avviso un testo ideologico che strumentalizza la pedofilia per lottare indebitamente contro il progressismo teologico. Profonda delusione, ma non grande sorpresa». Il Pontefice che ebbe il coraggio di fare il supremo passo indietro può superare perfino lo shock di avere deluso Mancuso. Il secondo è di Stefania Falasca, columnist di Avvenire, che con una facile metafora - il testo è tratto dal Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi - sembra voler dire a Benedetto XVI (non al viceparroco di Clusone): stai al tuo posto. «Il Vescovo emerito avrà cura di non interferire in nulla nella guida della diocesi ed eviterà ogni atteggiamento e rapporto che potrebbe dare anche solo l' impressione di costituire quasi un' autorità parallela a quella del Vescovo reggente». Il consiglio è esplicito quanto sgangherato, perché un uomo mandato e ispirato da Dio non potrà mai essere mummia. La strategia è sempre la stessa: se non puoi combattere il ragionamento, combatti il ragionatore. Sotto la testata dell' Osservatore Romano spicca un motto: Unicuique suum. A ciascuno il suo, ma non vale per tutti.

Ratzinger dice no allo scisma dei credenti. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 da Mauro Mellini su L'Opinione della Libertà. Ho tra le mani quello che forse è da considerare il testamento spirituale del “Papa Emerito”, di Ratzinger. Da anni non leggevo per intero un documento di professione di fede redatto da un credente cattolico. Di Ratzinger conosco la fama di teologo tra i più acuti del nostro tempo. Ma quel documento non mi interessa tanto per il valore sul piano propriamente teologico. In esso traspare, anzitutto, la verità incontestabile di una abissale diversità tra il Papa in carica ed il “past Papa”. In buona sostanza, tra le loro due diverse ed opposte religioni. Benché il documento si concluda con un ringraziamento a Papa Francesco e a quanto sta facendo per la Chiesa, si può dire che in esso c’è la prova, la descrizione della diversità delle due religioni. Non si tratta solo e tanto di “antico” e di “moderno”, ma di due diverse concezioni del Cristianesimo. Nei giorni scorsi avevo scritto poche righe per esprimere la mia convinzione che Bergoglio sembri preoccupato più che delle sorti del Cattolicesimo in sé, di quella di un suo sempre più evidente progetto di una sorta di fronte politico-religioso, di “federazione” tra le diverse religioni sulla base di una sorta di populismo internazionale, di cui egli stesso e la Chiesa Cattolica avrebbero la direzione e la guida. Non mi pare che lo scritto di Ratzinger smentisca la verità di questo carattere oramai assunto da quella che era stata la religiosità nell’Occidente. Ma vi è assai di più. Se è vero che quello che sembra il testamento di Benedetto XVI si conclude con un’affermazione di speranza per il ritrovamento della fede in Dio e dell’unica verità dell’Unica Chiesa (e da un Papa “tradizionalista” non è dato certamente alludersi altro) è pur vero che per la prima volta un personaggio di così alto livello del cattolicesimo formula apertamente un’ipotesi di scisma per una Chiesa di autentici credenti in Dio, sia pure per respingerla con l’affermazione che gli scismi sono sempre falliti ed hanno sempre prodotto il peggio. Ma, implicitamente, il “Papa Emerito” esprime una dura condanna proprio per la Chiesa, quella che sta forgiando il suo successore. Con estrema moderazione e sapiente ambiguità di espressioni, ma con una ben riconoscibile condanna di questa tendenza ad una “Chiesa degli uomini” che non sa vivere e difendere la fede in Dio e la mette sullo stesso piano di tutte le altre esistenti nel mondo. Il centro, o se vogliamo, il pretesto, dello scritto di Ratzinger è la questione della pedofilia. La condanna del tutto scontata, non tanto del vizio, ma delle inadeguate reazioni della Chiesa al dilagante fenomeno, che, del resto, non esita a considerare conseguenza della fine della funzione della Chiesa Cattolica come maestra ed arbitra della morale pubblica e privata. Per i non credenti e non solo per loro è difficilmente digeribile il modo in cui Ratzinger affronta la questione della causa, dell’esplosione del fenomeno della pedofilia tra il clero. Causa che sarebbe il venir meno della vera e propria fede in Dio. Che non credere o non credere abbastanza fermamente in Dio comporti una spinta alla pedofilia è proposizione, in verità, sconcertante e persino un po’ ridicola. E, per chiunque si aspettava proprio sul punto una rivelazione, un punto fermo da restare nella storia della Chiesa, è un’affermazione decisamente deludente. Si tratta comunque di un saggio di scienza teologica che mette in luce, rispetto al suo opposto, “il Cristianesimo sociologico”, un’incombente tendenza scissionistica all’interno della Chiesa Cattolica ed, al contempo l’incapacità di essa, sotto la guida di Bergoglio, di trovare altre strade. Non sono certo la persona più adatta alle analisi cui sottoporre un tale documento. Molti altri, assai più dotati e capaci di me potrebbero farlo. Ma ho l’impressione che preferiscano guardare da un’altra parte. L’indifferenza e la prudenza evitano gli scontri, ma uccidono le fedi.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 12 aprile 2019. Papa Francesco ha scelto di non dire una sola parola sulle accuse contenute nel dossier dell' ex nunzio apostolico negli Stati Uniti. Papa Benedetto XVI, invece, ha voluto dirne tante. Joseph Ratzinger, pontefice emerito che nel 2013 lasciò il soglio di Pietro con una decisione sorprendente, ha scritto un lungo articolo per il mensile tedesco Klerusblatt. Tema dell'intervento: gli abusi sessuali all' interno della Chiesa cattolica. Benedetto XVI ovviamente non cita mai monsignor Carlo Maria Viganò, autore di un documento pubblicato nell'agosto scorso dalla Verità, in cui si accusavano le alte gerarchie vaticane di aver coperto gli abusi sessuali e di aver consentito alla lobby gay di condizionare la vita dei seminari. Ma nonostante non ne faccia menzione, l' argomento è esattamente quello sollevato nella lettera dell' arcivescovo. L'intervento del Papa emerito, che ieri è stato anticipato dal Corriere della Sera, non soltanto giunge a un mese dalla conferenza episcopale in cui si è discusso di pedofilia e della rete che perfino all' interno del Vaticano ha consentito la copertura e la prosecuzione degli abusi, ma è un' analisi del degrado morale che sta distruggendo la Chiesa. Benedetto XVI parte dalla rivoluzione del 1968, una rivolta che cambiò la percezione del pudore per scegliere la completa libertà sessuale. Un fenomeno che, secondo il Pontefice emerito, è la premessa di ciò che è venuto dopo, anche nel mondo cattolico. È da lì, secondo Ratzinger, che inizia il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, un processo che parte negli anni Sessanta, ma ha ripercussioni anche nei diversi spazi di vita della Chiesa, con la distruzione dell' autorità morale esercitata dagli uomini di fede. Il Papa emerito ripercorre il percorso che ha portato a ciò che abbiamo davanti agli occhi, soprattutto per quanto riguarda l' impatto sulla vita sacerdotale e su quella all' interno dei seminari, definendo quanto è avvenuto un vero e proprio collasso. Scrive Benedetto XVI: «In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all' ufficio laicale di referente pastorale vivevano insieme». E ne conclude che il clima del seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale. Bisognava aprirsi al mondo, essere moderni, abbracciare la nuova morale importata dal Sessantotto. Risultato: «Un vescovo, che in precedenza era stato rettore, aveva mostrato ai seminaristi film pornografici, presumibilmente con l'intento di renderli in tal modo capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede». Vescovi che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso, per sviluppare nelle loro diocesi una specie di nuova e moderna cattolicità. Il Santo padre che ha scelto di dimettersi, a un certo punto ricorda che perfino la lettura dei suoi libri veniva considerata sbagliata, al punto che gli studenti sorpresi in seminario con in mano uno dei suoi testi erano ritenuti non idonei al sacerdozio. «I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco». Già. Le tesi di Joseph Ratzinger erano messe all' indice, mentre i film pornografici potevano tranquillamente circolare. La Santa sede sapeva di questi problemi, ma senza essere informata nel dettaglio. E così, dopo aver parlato del clima di collasso morale, il Pontefice emerito arriva alla pedofilia a lungo sottovalutata e trascurata, addirittura «diagnosticata come permessa e conveniente». Con una grave sottovalutazione della Chiesa, anche a causa del Nuovo codice del diritto canonico. Di fronte al diffondersi della pedofilia, i vescovi non sapevano come comportarsi e ancora meno lo sapeva la Curia di Roma, così alle denunce si rispose che per la purificazione e il chiarimento sarebbe bastata la sospensione temporanea del ministero sacerdotale. Insomma, il pedofilo in tonaca, invece di essere denunciato e perseguito, era lasciato libero di agire, con il solo condizionamento di non poter svolgere per un certo periodo la propria funzione. Secondo Benedetto XVI, il problema di fondo riguardava la concezione del diritto penale, che imponeva il «garantismo». «Significava che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna». Le vittime chiedevano giustizia, la Chiesa tutelava i colpevoli. Ratzinger ricorda addirittura le parole di un prete che, mentre abusava di una chierichetta, ripeteva le parole dell' Eucarestia: «Questo è il mio corpo, che è dato per te». Credo che mai si siano sentite parole del genere uscire dalla bocca di un Papa, anche se dimessosi. Mai il degrado morale è stato affrontato con tale nettezza. Altro che religioso silenzio. Benedetto XVI si interroga anche su che cosa si debba fare, se addirittura creare un' altra Chiesa. Ma la risposta è secondo lui tornare alle origini. La Chiesa muore nelle anime, perché oggi è vista in gran parte come un apparato politico, in quanto si parla della Chiesa quasi esclusivamente in termini politici. «La crisi causata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti», scrive Ratzinger, «spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di mal riuscito». Per il Papa emerito non serve un altro apparato, serve la fede. Non so se Benedetto XVI abbia ragione. Ma dire delle parole su quello che è successo e sugli errori fatti per porvi rimedio è già un passo avanti. Non dire una sola parola, come fece papa Francesco, forse non aiuta la Chiesa ad apparire qualche cosa di diverso da un apparato politico che difende i suoi membri.

SVIDERCOSCHI, DAVVERO RATZINGER AUTORE SAGGIO?  (ANSA il 12 aprile 2019.) - "Sgorga una prima domanda, obbligata, dopo aver letto le diciotto pagine e mezzo che il Papa emerito ha scritto per un mensile tedesco sulla 'Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali'. E la domanda è ovviamente legata alle precarie condizioni di salute, salute non solo fisica, di Joseph Ratzinger: Ma è stato davvero Benedetto XVI l'autore materiale del lunghissimo testo?". E' il commento di Gian Franco Svidercoschi, decano dei vaticanisti, ex vice direttore dell'Osservatore Romano e recente autore per Rubbettino del pamphlet "Chiesa, liberati dal male. Lo scandalo di un credente di fronte alla pedofilia". "E, se qualcuno potrà rispondere credibilmente di sì - prosegue -, allora bisognerà porsi una seconda domanda: Ma perché lo ha fatto? Perché non si è limitato a trasmettere questi 'appunti' a papa Francesco?". "Il fatto che ne siano stati informati - così è stato detto - sia il segretario di Stato, Parolin, sia lo stesso Francesco, non attenua in nulla la gravità di un gesto che, venuto dopo il summit sulla pedofilia, sarà inevitabilmente interpretato come una critica alle conclusioni del vertice vaticano, se non come un attacco a Francesco", sottolinea Svidercoschi. "Oltretutto, a scorrere lo scritto ratzingeriano, non c'è dentro una sola idea nuova, non una sola proposta, sulla tragedia che sta scuotendo la comunità cattolica", aggiunge. "L'analisi, ad esempio. Le origini della pedofilia nella Chiesa vengono fatte risalire alla rivoluzione del 68, alla "cultura della trasgressione", così come al "collasso della teologia morale cattolica". E non una parola, invece, sull'esistenza secolare di questa piaga nel corpo ecclesiale - osserva -. Non una sola parola su quel clericalismo, che, in quanto degenerazione di una autorità, di un potere, è stato ed è tuttora la causa primaria del nascere dei preti pedofili". "Si elogia Giovanni Paolo II, in particolare la sua enciclica sui temi morali “Veritatis splendor”  (alla cui stesura, guarda un po', aveva collaborato il cardinale Ratzinger) - commenta ancora -; ma poi si critica duramente il 'garantismo' (inteso come garanzia dei soli diritti degli accusati) che, secondo l'autore dello scritto, dominava negli anni Ottanta (cioè al tempo del Papa polacco). C'è un ringraziamento finale a Francesco, "per tutto quello che fa"; ma poi, di fatto, l'intero testo sembra voler rivedere le 'bucce' al recente summit convocato da papa Francesco". "Quindi, qua e là, qualche spruzzatina polemica, qualche particolare ai limiti della decenza - rileva -. I 'club omosessuali' che si erano formati in molti seminari. Il racconto di una chierichetta, che il vicario parrocchiale violava dicendole: 'Questo è il mio corpo dato per te'. Oppure, l'affermazione di come, 'non molto tempo fa', la pedofilia fosse 'teorizzata come del tutto giusta'. Ma quando? Da chi?". E infine, conclude Svidercoschi, "i soliti rimpianti ratzingeriani, conditi da un forte pessimismo: il fallimento della società occidentale; le Messe ridotte a "gesti cerimoniali"; la Chiesa percepita come 'apparato politico'; la perdita progressiva della identità cattolica... Ma, e si ritorna all'interrogativo iniziale, sarà stato proprio lui, Joseph Ratzinger, a pensare e a scrivere integralmente questo testo? Non c'è già abbastanza confusione nella Chiesa di oggi, per creare altro sconcerto, altri motivi di disorientamento?"

Gli appunti di Ratzinger fanno il giro  del mondo. Imbarazzo in Vaticano. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 su Corriere.it. Dall’americano New York Times al britannico Guardian passando per il francese Le Figaro e lo spagnolo El Pais. L’esclusiva del Corriere della Sera e del mensile tedesco Klerusblatt sulle diciotto pagine e mezzo sulla «Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali» scritte dal Papa emerito, Benedetto XVI, ha fatto il giro del mondo. Oltre ai già citati giornali, hanno parlato dell’analisi sul delicato tema della pedofilia, arrivata dopo la riunione del febbraio scorso a Roma dei presidenti delle conferenze episcopali del mondo, Le Monde, Bbc, The Telegraph, Cnn, Daily Mail, Los Angeles Times, The Times, The Washington Post, The Wall Street Journal, Time, Der Spiegel e altri. Come scriveva ieri Massimo Franco, c’è un’espressione che ricorre spesso nelle riflessioni di Benedetto XVI: «Collasso morale». Ratzinger lo fa risalire alla seconda metà degli Anni Sessanta del secolo scorso: a quella «fisionomia della Rivoluzione del 1968» della quale farebbe parte «anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente».

Così il testo di Ratzinger sulla pedofilia  ha messo in crisi l’equilibrio nella Chiesa. Il teologo Forte: «Ci sprona a reagire». Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019  Massimo Franco su Corriere.it. Era prevedibile che il documento di Benedetto XVI sugli abusi sessuali nella Chiesa potesse far discutere e dividere. Al fondo ripropone il tema dei rapporti tra Papa Francesco e il Papa emerito: rapporti mai codificati dopo le dimissioni epocali di Joseph Ratzinger nel febbraio del 2013; e risolti in questi anni con un rapporto personale affettuoso e collaborativo tra i due pontefici, unito al profilo discretissimo, quasi da eremita, scelto dal predecessore: sebbene Jorge Mario Bergoglio lo abbia sempre incoraggiato a partecipare e dare consigli. Ma il testo scritto da Benedetto XVI per la rivista bavarese «Klerusblatt», anticipato giovedì dal «Corriere», ha messo in crisi questo schema. In un Vaticano dove la coesistenza tra i due è stata sempre regolata con un miracolo di equilibrio e di rispetto dei rispettivi ruoli, si è inserito come una perturbazione imprevista e foriera, se non di tempesta, di malintesi più o meno interessati. Forse perché la riunione mondiale sulla pedofilia, convocata a fine febbraio da Francesco, non ha dato i risultati sperati. E dunque le osservazioni di Benedetto hanno toccato un nervo scoperto. O forse perché gli oppositori del pontefice argentino non aspettavano che una presa di posizione del Papa emerito, per strattonarlo dalla propria parte. La sensazione trasmessa dal conflitto sordo che gli «appunti» hanno mostrato è questa. Sia il «cerchio magico di Santa Marta», con i tifosi di Francesco, sia la filiera dei nostalgici irriducibili di Ratzinger, tendono a trasformare quel documento in un’arma da brandire contro l’altro; e dunque a radicalizzare una contrapposizione che in realtà non è mai esistita in questi termini. Anche quando sono affiorate divergenze di vedute, Francesco e Benedetto le hanno gestite con una discrezione e una volontà unitaria ammirevoli. Adesso, la prospettiva che questo equilibrio si spezzi appare nefasta. Basta registrare l’accanimento con il quale i siti tradizionalisti «abbracciano» la scomunica della «Rivoluzione del ‘68» da parte del Papa emerito: senza vedere che nelle sue parole c’è non un’accusa a quei movimenti, ma al modo in cui la Chiesa li ha interiorizzati. E, dalla parte opposta, colpisce la perentorietà con la quale alcuni «francescani» insultano Benedetto e lo invitano a tacere, per non disturbare il Pontefice in carica: oscillando tra questa esagerazione, e le bugie di chi esorcizza gli «appunti» sostenendo di non averli neanche letti. Ortodossia teologica di Benedetto contro presunta «eresia» di Francesco: visioni opposte e entrambi caricaturali. Ma soprattutto, artificiosamente e pericolosamente inconciliabili. Gli equilibri stabiliti sei anni fa sono cambiati. Ma gli «appunti» ratzingeriani rivelano, non provocano questa novità . E le tensioni che ne sono nate erano, evidentemente, latenti. Fa parte di questi veleni anche la messa in dubbio dell’autenticità del testo, e il sospetto che nasconda una manovra del fronte tradizionalista per destabilizzare il papato attuale. In realtà, Benedetto ha inviato le diciotto pagine e mezzo sulla pedofilia «per cortese conoscenza» al segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, prima della riunione globale delle conferenze episcopali, per farlo conoscere anche a Francesco. E con una lettera successiva a quel vertice, ha fatto sapere a entrambi di volerla rendere di pubblico dominio, ricevendo un via libera. La pedofilia è soltanto il sintomo più vistoso di un indebolimento profondo, di valori, quasi identitario. Per questo Benedetto XVI lo ha additato. Dividersi su questo tema significherebbe preparare nuove fratture, invece di riflettere e trovare una strada comune, condivisa. La tentazione di scansare i problemi scaricandoli su un fronte Vaticano «nemico» sembra rispondere a un istinto suicida. Significherebbe fare vincere una logica da resa dei conti, agli antipodi di una Chiesa che fa dell’inclusione, dell’armonia e soprattutto dell’unità il suo comandamento non scritto.

Papa Francesco, cambi il Vaticano. Mai come ora la Chiesa non può stare ferma davanti alla piaga della pedofilia che ne mina le fondamenta, scrive Gianluigi Nuzzi il 12 marzo 2019 su Panorama. Lo scandalo della pedofilia nella Chiesa non deve distrarre. È la classica punta dell’iceberg che nasconde qualcosa di ancora più grande: il silenzio endemico, sistemico, geometrico che ha soffocato ogni reazione per difendere i bambini e la Chiesa di tutti dagli abusi. I segnali della portata devastante di questa metastasi sono stati per anni incredibilmente sottovalutati. Spesso per superficialità, colpa, ma anche per dolo e scienza criminale pur di evitare che si risalisse alla catena di responsabilità e coperture. Oggi i vescovi a capo di tutte le conferenze episcopali, riuniti in summit, si stracciano le vesti, fanno sfilare le vittime fino a ieri nascoste, si appropriano mediaticamente della denuncia, ma è troppo tardi. Gli abusi sui bambini, ha tuonato Papa Francesco, sono «una piaga all’interno della Chiesa. La disumanità del fenomeno a livello mondiale diventa ancora più grave e più scandalosa nella Chiesa, perché in contrasto con la sua autorità morale e la sua credibilità etica». Tutto vero. Eppure questo già lo sapevano e nulla è stato fatto. Aveva ragione Georg Gäsnwein, storico segretario fidatissimo di Benedetto XVI, quando nel settembre scorso sostenne che la pedofilia rappresenterà l’11 settembre per la Chiesa: «Oggi, la Chiesa cattolica guarda piena di sconcerto al proprio nine/eleven, al proprio 11 settembre, anche se questa catastrofe non è purtroppo associata a un’unica data, quanto a tanti giorni e anni, e a innumerevoli vittime». E, braccato dai dubbi, aggiunse: «Il lamento di Benedetto XVI ai vescovi americani del 2008 sulla profonda vergogna» causata dagli abusi sessuali «non riuscì a contenere il male, e nemmeno le assicurazioni formali e gli impegni a parole di una grande parte della gerarchia». Insomma, fu un lamento «pronunciato invano come vediamo oggi». Proprio così: la pedofilia costituisce una ferita profonda nel corpo della chiesa moderna. Una ferita poco curata, tanto da provocare necrosi nelle comunità cattoliche che si trovano ad affrontare questa emergenza permanente senza orizzonte, speranza, contromisure, possibilità di vedere chi abusa e chi lo protegge cacciati da ogni tempio. E infatti il paragone di Gänswein con l’11 settembre degli Usa è vero solo nella prima parte, quello dello choc e della devastazione, delle vittime che camminano con la morte dentro, ma non in quello della reazione.

Dopo le Torri gemelle gli Usa ebbero una reazione ad alzo zero in tutto il pianeta. In pochi giorni chiunque aveva avuto a che fare con la famiglia di Osama bin Laden si vide messo in black list, i patrimoni sequestrati, le attività controllate dai servizi segreti. Era solo il primo passo di una guerra che dura tuttora, declinata in ogni forma. Per sei lunghi interminabili anni, invece, questo pontificato non ha considerato una priorità la lotta alla pedofilia. Il testimone lasciato da Benedetto XVI, che spinse le diocesi americane a risarcire le vittime, è caduto nel vuoto. Joseph Ratzinger aveva compiuto una svolta epocale, riconoscendo la giustizia dei tribunali oltre a quella divina. Non aveva però avuto la forza di destrutturare il sistema delle protezioni a catena, già ben descritto nel film Il caso Spotlight. Non basta cioè condannare e ridurre allo stato laicale il sacerdote che abusa, serve individuare chi lo ha coperto e chi ha fatto finta di non vedere. Solo così si spezza questa catena che uno a uno sta tirando giù i pilastri del tempio. Se non colpisci chi copre, accrediti il messaggio insidioso dell’indulgenza della gerarchia ecclesiastica. Una linea devastante che sforna ricatti, e, soprattutto, pregiudica il futuro di tutti con vescovi e cardinali dagli armadi stipati di scheletri, pronti a nuove omissioni misericordiose. La prova plastica di ciò si riassume bene nei disastri della commissione contro gli abusi del clero, che Bergoglio istituì nel 2014. La task force partì con le migliori intenzioni, cooptando diverse vittime che entrarono nel gruppo di lavoro. Peccato che in tutti questi anni non abbia mai fatto notizia per aver individuato e fatto condannare preti che abusavano o vescovi e cardinali che li proteggevano. No, l’unica volta che ha goduto dei riflettori dei media è quando la consigliera irlandese Marie Collins, vittima abusata da giovane da parte di un sacerdote, nel marzo del 2017 se ne andò sbattendo la porta: «È vergognosa la mancanza di cooperazione da parte della curia romana» nella lotta alla pedofilia. Chi s’immaginava che Francesco raccogliesse la denuncia d’insabbiamento della Collins da parte di settori del Vaticano, cacciando i depistatori, è rimasto deluso. Il papa ringraziò la signora accettando «le dimissioni con profondo apprezzamento per il suo lavoro a nome delle vittime e dei sopravvissuti degli abusi del clero». Grazie e arrivederci. Eppure non era la prima a denunciare l’inattività. Nei mesi precedenti un altro consigliere e vittima di abusi da parte di un prete, l’attivista inglese Peter Saunders, aveva sbattuto la porta per protestare contro l’atteggiamento dell’allora potentissimo cardinale George Pell, prefetto della segreteria per l’Economia. Saunders era allibito e scandalizzato perché Pell aveva risposto con certificati medici alle richieste di essere interrogato dalla commissione governativa australiana che all’epoca doveva far luce sugli abusi e la gestione dei sacerdoti colpevoli o sospettati di abusi nella diocesi di Melbourne, quando il porporato ne era l’arcivescovo. Era un segnale d’allarme, che doveva accendere un faro su questo porporato oggi clamorosamente in carcere dopo la condanna per pedofilia. Eppure nulla si mosse. Anzi la storia di Pell è una fulgida sequenza di errori clamorosi che lasciano senza parole. Già nel 2010 Pell sembrava volersi allontanare il più possibile dall’Australia e aveva sollecitato l’allora segretario di stato Tarcisio Bertone a essere nominato prefetto della Congregazione per i Vescovi. Ma venne scelto il canadese Marc Ouellet. Arrivato papa Francesco, riuscì nell’impresa, conquistando un ruolo chiave: numero uno della nuova segreteria per l’Economia, un ufficio che Bergoglio vedeva nello scacchiere del potere per depotenziare la segreteria di Stato e lo strapotere dei dicasteri economici che andavano così sotto le dipendenze del cardinale australiano. O, almeno, così sulla carta perché Pell incontrò mille resistenze per rendere la curia trasparente. Una guerra che vide schierati contro di lui cardinali del vecchio potere, uno sopra tutti era certamente il bertoniano Domenico Calcagno, ma anche quelli vicini a Bergoglio come lo stesso Pietro Parolin. Se sui soldi le battaglie non si contano, sulle accuse di aver coperto preti pedofili che già montano nessuno fiata. Anzi, quando l’8 giugno 2016 Pell compì 75 anni e presentò al pontefice le dimissioni dall’incarico per raggiunti limiti di età, Francesco non le ha accolte, tenendole ferme sulla scrivania. Un cardinale amico di Francesco commentò: «Il Papa non vuole accogliere adesso le dimissioni di Pell altrimenti dovrebbe rimandarlo subito in Australia e lì finirebbe di certo male. Francesco vuole prima capire come si concludono le indagini per le accuse di pedofilia». E così le gaffes non sono mancate, come quando nel marzo 2016 ha testimoniato in video-collegamento - da un albergo di lusso di Roma - alla Commissione reale sulle Risposte istituzionali agli Abusi sessuali sui Minori e ha ammesso che «avrebbe dovuto fare di più» nei confronti dei sacerdoti sui quali si addensavano le peggiori accuse. In quei giorni le vittime della pedofilia furono costrette a prendere a loro spese un volo aereo per seguire in diretta la testimonianza nella capitale di Pell senza che il Vaticano abbia offerto loro la minima accoglienza. Eppure sono curve tutte in discesa che era facile prevedere. E c’è forse da chiedersi perché Francesco, gesuita attento e prudente, abbia scelto come collaboratore «numero uno» un porporato esposto al vento di queste tremende accuse. Nei sacri palazzi si mormora che un giorno tra i due ci fu un chiarimento. Francesco chiese a Pell se le accuse che gli venivano mosse erano fondate, il cardinale negò tre volte senza abbassare lo sguardo. Allora il pontefice gli disse «Vai e prosegui il tuo lavoro». Ma in realtà la credibilità di Pell era fortemente pregiudicata, tanto da riflettersi sui lavori della segreteria che presiedeva. Lavori che rallentarono ancor più quando il cardinale, due anni fa, dovette lasciare definitivamente i sacri palazzi, il comando del super dicastero, per andare a difendersi in Australia. E anche qui Francesco non dispose la sostituzione al vertice del polmone economico della Santa sede, mossa fondamentale per portare avanti riforme troppo annunciate. Anzi, lasciò Pell comunque formalmente al comando, seppur sospeso. Il partito curiale si fregò le mani e prese di nuovo fiato. E così anche i detrattori di Bergoglio che lessero in questa mossa una fragilità del pontefice. Perché Bergoglio sottovalutò queste accuse? Le possibilità non sono molte. O nessuno aveva idea in Vaticano del reale quadro probatorio a carico di Pell. E questo non è credibile perché la Chiesa rimane una delle più efficaci strutture informative sul pianeta. O qualcuno con dolo presentò a Francesco una situazione diversa dal reale, alleggerendo la massa critica che poi ha investito il «cardinale ranger». E questo, a voler inseguire la dietrologia, per costringere un domani il Papa stesso a una brutta figura. Oppure perché lo stesso Papa non considerò le accuse gravi, seppur costituissero comunque quella che oggi bolla come «piaga mostruosa». All’epoca però non utilizzava le stesse espressioni. Sceglieva altre parole. Per esempio, nel giugno 2017, alla rivista Civiltà Cattolica, dichiarava: «Circa gli abusi sessuali, parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere bene il problema». E ancor più il 21 settembre sempre del 2017: «Una persona che fa questo, uomo o donna, è malata: è una malattia». Ora, la pedofilia non è una malattia ma un reato, un reato dei più insidiosi. Da una malattia si guarisce: si trova l’antidoto, ci si cura e si ritorna al mondo guariti. Dalla pedofilia, invece, non si esce. Ogni tentativo di recupero dei pedofili in carcere, per esempio, è andato fallito. L’amministrazione penitenziaria istituì anni fa dei programmi sperimentali di riabilitazione nel carcere senza ottenere particolari risultati. A eccezione del carcere di Bollate, dove alcuni percorsi hanno consentito di ridurre la «recidiva». Nella Chiesa invece il prete pedofilo subisce processi canonici lunghissimi, viene portato in strutture particolari (una alle porte di Trento) per essere «recuperato» e, soprattutto, le investigazioni su anni e anni di coperture non vengono effettuate. Uno dei cardinali più vicini a Bergoglio, il tedesco Reinhard Marx, ha denunciato, durante il summit sul tema appena concluso, che sono stati distrutti i dossier sugli abusi sessuali in Vaticano. Una denuncia che dovrebbe determinare rapide indagini interne, per capire se, e in che misura, ciò è avvenuto e chi sono gli autori del reato. Eppure è facile prevedere che tutto questo non avverrà e sarà l’ennesima denuncia a cadere nel vuoto. Stessa sorte rischia un’altra indagine, stavolta compiuta dal promotore di giustizia vaticano, sulle denunce di abusi nelle camerate del pre-seminario che ospita i chierichetti del papa. L’inchiesta è ormai conclusa e tutti attendono di vedere cosa verrà deciso: processo o archiviazione? Dopo la riduzione di cardinali ormai indifendibili e l’arresto di uno strettissimo collaboratore, quale reazione studierà Bergoglio per invertire questa tendenza? Per far capire che la reazione ora sarà dura, concreta e non più affidata solo agli annunci? Ogni mossa, infatti, rischia di far perdere ancora credibilità a una Chiesa, si diceva una volta, «che sopravvive persino a certi sacerdoti!». Ma sarà ancora cosi?

Ragazza abusata dal prete scrive lettera al Papa: "L'ho denunciato e ora ho il paese contro". Valentina Cavagna ha accusato don Marco Ghilardi, sacerdote di Serina, di averla abusata quando era ancora minorenne. E in paese, ora, è partita la raccolta di firme a difesa dell'uomo di chiesa, scrive Pina Francone, Mercoledì 13/03/2019, su Il Giornale. Don Marco Ghilardi, prete di Serina (Bergamo) è stato condannato a sei anni dalla Corte di Cassazione per le molestie sessuali commesse su una ragazza, Valentina Cavagna, quando quest'ultima era ancora minorenne. Gli abusi sono andate avanti per cinque anni: dalle elementari fino alle scuole medie, a catechismo, al centro estivo e in parrocchia. La ragazza, ora, ha scritto una lettera che ha un destinatario speciale: il Santo Padre. Già, la giovane – attualmente 23enne – ha vergato e dunque inviato la missiva a Papa Francescoper sfogarsi: a Serina, infatti, è partita una raccolta di firme a difesa del sacerdote 44enne condannato in via definitiva dagli ermellini della Corte Suprema. La cosa la turba, provocandole disagio e sofferenza nel quotidiano. Insomma, i suoi compaesani si sono schierati dalla parte del prete e lei, intervistata da La Repubblica, si sfoga così: "Forse è il prezzo che devo pagare per avere fatto finire in carcere un prete. Però la giustizia mi ha dato ragione, se tornassi indietro rifarei tutto mille volte. Sono stata tosta a non mollare”. E poi: “In paese è così: ti vedono e fanno la bella faccia. Poi scrivono su Facebook…". E ora cosa si aspetta dal Pontefice? "Spero di poterlo incontrare per raccontargli la mia storia. Cosa si prova a avere contro la gente del tuo paese. Lui dice sempre che gli abusi commessi dai sacerdoti non vanno coperti".

Pedofilia, il cardinale Pell condannato a 6 anni. In carcere almeno 3. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Il cardinale australiano George Pell, 77 anni, condannato in primo grado per abusi su due coristi tredicenni nel ’96, dovrà scontare una pena di sei anni, con la possibilità della condizionale dopo tre anni e otto mesi. A metà mattina del mercoledì di Melbourne, nella notte tra martedì e mercoledì in Italia, il giudice capo del Tribunale dello Stato di Victoria, Peter Kidd, ha pronunciato la sentenza dopo aver ricostruito la vicenda per oltre un’ora. Pell era già stato riconosciuto colpevole l’11 dicembre, all’unanimità, da dodici cittadini giurati; la condanna in primo grado era stata resa pubblica a fine febbraio. Ora si trattava di stabilire la pena. Il cardinale rischiava fino a cinquant’anni, dieci per ciascuno dei cinque capi di imputazione. Il cardinale, per parte sua, ha assistito impassibile alla sentenza, si dice innocente ed ha già presentato ricorso in appello: le prime due udienze sono già fissate il 5 e 6 giugno. «Lei non è un capro espiatorio per la Chiesa Cattolica», ha premesso il giudice. Quindi ha ricostruito i capi di imputazione. Ha parlato della «degradazione e umiliazione» patita dai ragazzi, costretti ad essere testimoni ciascuno della violenza patita dall’altro. Ha ritenuto «al di là del ragionevole dubbio» che Pell abbia approfittato della fiducia dei ragazzini e della sua posizione di potere, sicuro che le vittime non avrebbero parlato. Ha parlato di «crimini odiosi». L’età del cardinale, ha aggiunto, è un criterio importante per definire la condanna, perché «ogni anno di prigione rappresenta una parte importante di ciò che le resta da vivere» e «potrebbe non vivere abbastanza da uscire dal carcere». Del resto, sempre considerata l’età, «non c’è rischio di recidiva e non rappresenta un rischio per la comunità», e da allora ha «avuto una condotta irreprensibile». Di qui la sentenza, relativamente mite. In nome della «giustizia aperta», il tribunale ha permesso che la fosse letta in diretta tv, una diretta planetaria. Dalle sei del mattino c’era gente fuori dal tribunale. Alcune vittime di abusi si erano date appuntamento «nella scena del crimine», alla cattedrale di San Patrizio. Da due settimane, Pell si trova in un carcere di massima sicurezza a Melbourne: l’ormai ex «ministro» dell’economia vaticano, primo cardinale mai imprigionato per abusi, è rinchiuso in «custodia protettiva» come accade ai pedofili, una cella dove rimane isolato 23 ore al giorno. Pell era stato «sospeso» da prefetto dell’Economia nel giugno 2017 e il Papa gli aveva «concesso un periodo di congedo per potersi difendere» e affrontare il processo in Australia, rinunciando all’immunità diplomatica. Nel frattempo l’incarico di cinque anni «è scaduto il 24 febbraio e Pell non è più prefetto», ha fatto sapere la Santa Sede. Il 12 dicembre, all’indomani della condanna non ancora pubblica, era stato estromesso dal Consiglio dei cardinali che aiutano il Papa nella riforma della Curia. La Santa Sede ha annunciato un’indagine canonica in vista di un processo all’ex Sant’Uffizio. Nel suo caso ci sono più dubbi, in Vaticano, ma Pell rischia ciò che è accaduto a McCarrick, l’ex arcivescovo di Washington che molestava i seminaristi ed è stato cacciato dal collegio cardinalizio e poi spretato.

Renato Farina per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. Cosa succede se si scopre che un cardinale prima impiccato dall' opinione pubblica come orco di chierichetti, quindi condannato in due gradi di giudizio a sei anni di carcere, è inconfutabilmente innocente? Non succede niente in Italia, dove pure sono apparsi sulle prime pagine articoli devastanti contro il porporato, George Pell, 78 anni, arcivescovo emerito di Melbourne e poi di Sidney, figura di primo piano dei pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, e da quest' ultimo chiamato a Roma come capo della segreteria per l' Economia e inserito nel C9, dal numero dei cardinali massimi consiglieri di Bergoglio.  Non commuove nessuno che Pell stia tuttora in carcere in Australia, circolino ancora sue fotografie con le manette ai polsi sotto la canizie macchiata dall' infamia della pedofilia, ora che è stata dimostrata essere una calunnia fumante, fumantissima che ha abbattuto la reputazione di un brav' uomo. Si tace. I tg stanno zitti. Quello che una volta ci insegnavano essere il "Continente Nuovissimo" è sottosopra, dopo che Andrew Bolt, reporter di Sky News Australia, ha ricostruito meticolosamente l' accaduto, con il lavoro più banale del mondo. Ha preso tra le mani la sentenza, la testimonianza dell' accusatore, i tempi e gli spazi in cui si sarebbe consumato un duplice stupro, dimostrando l' impossibilità matematica, geometrica, fisica, chimica del crimine denunciato. E in vista dell' esame del ricorso invoca «che l' Alta Corte rimedi a questo scandalo». Lo scandalo non sta nell' errore, sbagliamo tutti, ma nell' evidenza negata da Procure e Tribunali forcaioli, che hanno ceduto alle richieste di linciaggio provenienti dalla stampa di tutto il mondo e dall' opinione pubblica locale. 

A questo punto sono necessari una osservazione (1) e un mea culpa (2).

1. Gli abusi di minorenni perpetrati dal clero cattolico sono crimini abominevoli, così pure è stata gravissima l' omertà delle gerarchie. Certo che sì. È una vergogna abissale. Fosse vero anche un singolo caso, sarebbe troppo, ma non è questo il caso: le vittime - ragazzini e ragazzine - violate da sacerdoti e prelati sono tante. È uno scandalo però anche attaccare al collo la macina di mulino a un cardinale innocente, affogandolo nella mala giustizia, perché c' è bisogno di un capro espiatorio importante, simbolico, lasciando che questa infamia si consumi di nascosto, nel silenzio di tutti e purtroppo anche dei confratelli porporati e vescovi e dai loro organi mediatici, tutti spaventati dalle aggressioni mediatiche che potrebbero subire per il fatto stesso di osare eccepire sui modi e la gaudente superficialità con cui si è giunti all' incriminazione e alla condanna (non definitiva). Uno potrebbe dire, e già ci pare di udirne la voce: dinanzi a migliaia di ragazzini abusati che non hanno avuto giustizia, cosa vuoi che sia una strega bruciata per sbaglio? Riabilitare Pell sarebbe come accettare di allentare la stretta sulla giugulare della Chiesa cattolica, adesso che si sta arrendendo. E il suo caso sia strumentalizzato dalla Chiesa per lavarsi la faccia. C' è un problema in questo ragionamento così popolare: la nostra civiltà giuridica. Fosse un caso solo, sarebbe troppo. Ma il caso Pell non consiste in uno sbaglio che può riguardare anche magistrati scrupolosi, ma nel metodo che ha condotto allo scempio della verità. Altri casi di false accuse e di condanne pilotate dall' opinione pubblica potrebbero emergere (e me ne sono stati segnalati diversi) se magistrati e mass media rinunciassero alla furia della giustizia sommaria, restituissero al museo degli orrori il cappi che hanno rubato al Far West, e si esaminassero accuse e indizi con imparzialità.

2. Accade in Australia, ma non abbiamo proprio il diritto di tacere. Nell' agosto scorso, anche Libero pubblicò la notizia, senza enfasi. Chiediamo scusa anche noi di non aver sollevato dubbi a suo tempo. L' aria dei tempi toglie lucidità. Nel mio piccolo, sapevo che molte cose non quadravano. Conoscevo Pell, l' avevo incontrato a un Meeting di Rimini, non ho investito energie e reputazione sporgendomi nel dichiarare le accuse a dir poco traballanti. Si può affermarlo persino di un politico. Ma di un cardinale accusato di pedofilia, guai. Sei marchiato come complice. Non a caso, dopo che altri avevano manifestato forti perplessità su questa storia, ilfattoquotidiano.it dedicò il 28 febbraio scorso questo titolo, come diserbante preventivo della pianticella del dubbio: «Cardinale Pell, mi sembra incredibile che un giornalista possa difenderlo». Invece esiste ancora un giornalista in Australia. Ha preso in mano le sentenze, le deposizioni dell' accusatore, e le duecento pagine di dissenso radicale di uno dei tre giudici d' appello che non ha voluto sottomettersi alla sentenza già stabilita a priori dal totalitarismo giustizialista. Ne è uscita una storia pazzesca. Sintetizza Bolt: «Pell è stato accusato di aver molestato un ragazzo di tredici anni e un altro ragazzo di tredici anni con la porta aperta in una sacrestia normalmente affollata dopo la Messa». Sarebbe entrato lì, e vedendo che i due chierichetti stavano bevendo il vino da messa, li avrebbe intimiditi e costretti - mentre lui teneva i paramenti addosso - a subire uno stupro. Chiunque abbia fatto il chierichetto e servito la messa di un vescovo sa che è im-pos-si-bi-le. Continua Bolt, nel servizio tivù che è stato tradotto dal quotidiano internet Nuova Bussola Quotidiana, a firma di Marco Tosatti: «Ma è ancora più incredibile, perché avrebbe secondo l' accusa fatto questo nonostante altre persone abbiano testimoniato che era loro dovere non lasciarlo mai solo, finché non lasciava l' edificio. E hanno detto che Pell era sulla porta della chiesa, a parlare con i parrocchiani, non nella sacrestia. E notate questo: tutto si regge sulla sola parola non supportata di quel ragazzo che dice di essere stato abusato. Il suo compagno, che ha detto a sua madre di non essere mai stato abusato, ora è morto». Bolt ha ripercorso e cronometrato i tragitti dei chierichetti, quelli di Pell. Conclusione: «Non è solo improbabile che Pell abbia attaccato quei due ragazzi. È impossibile». Bolt dice che i colpevolisti hanno obiettato: «Come è possibile che sia così semplice, e che i giudici non se ne siano accorti, e che invece lei, un giornalista se ne sia accorto?». Risponde Bolt: «È davvero semplice, e questo è lo scandalo». Bolt dimostra altre assurdità trascurate dai giudici in quello che è una specie di versione australiana dei processi Tortora e Dreyfus. Si scusa di averci messo tanto a spiegare queste bestialità, ma si spiace anche di più «che ci siano degli attivisti che abbiano cercato di punire Sky quando io sottolineo i problemi incredibili di questa condanna fuori da ogni norma del cardinale Pell. Ma, dannazione! La giustizia deve contare qualcosa in questo Paese! Dobbiamo protestare, ciascuno di noi, in questo Paese, quando un uomo o una donna sono messi in galera per un crimine che non possono aver compiuto. Pensate a come si deve sentire il cardinale Pell, nella sua cella, coperto di vergogna. Ma ricordate: se foste accusati ingiustamente e condannati ingiustamente, sareste contenti se ci fosse qualcuno che vi difende contro la folla». Io sì, voi?

«Pedofilia, non c’è attacco alla Chiesa. La verità anche in Italia come chiede Francesco». Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Nel sesto anniversario dall’elezione di Francesco, il tribunale di Melbourne ha condannato a sei anni, per pedofilia, il cardinale George Pell. Una settimana fa un altro cardinale, l’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, è stato condannato a 6 mesi con la condizionale per mancata denuncia di un abuso commesso da un sacerdote. C’è chi parla di Chiesa sotto attacco, che ne dice padre?  «Ma no, le vicende si accumulano, sono casi che arrivano nello stesso momento ma dalla Francia all’Australia sono in ballo da anni, non ha senso sostenere che questo sia un attacco concertato». Padre Hans Zollner, gesuita tedesco, preside dell’istituto di Psicologia e presidente del Centro di protezione dei minori dell’Università Gregoriana, è forse il massimo esperto della Chiesa in tema di lotta agli abusi. Fa parte della commissione vaticana per la protezione dei minori e del comitato organizzatore dell’incontro voluto dal Papa, il mese scorso, tra presidenti e rappresentanti di tutte le Conferenze episcopali del mondo.

C’è il rischio che queste reazioni, anche nella Chiesa, frenino le riforme volute da Francesco?

«Considerazioni del genere c’erano prima e adesso si sentono più giustificate, ma insomma, non credo abbiano affetto. Non c’è un attacco alla Chiesa, ci sono accuse rivolte alle persone. Se un giudice, il sistema legale di un Paese dice che c’ è stato reato, allora il colpevole deve scontare la pena. Nel caso dei cardinali Pell e Barbarin bisogna tenere presente che non abbiamo una sentenza definitiva ma, per ora, delle condanne in primo grado. Staremo a vedere». L’anno scorso diceva al «Corriere» che la Chiesa italiana dovrebbe fare come quella tedesca, che ha compiuto una ricerca durata tre anni in tutti gli archivi, altrimenti si troverà a dover rincorrere lo scandalo. Nel frattempo monsignor Stefano Russo, segretario generale della Cei, ha annunciato una ricerca affidata a un’università per capire finalmente le dimensioni del fenomeno degli abusi in Italia e un’«ampia consultazione» tra i vescovi sull’obbligo di denuncia alle autorità civili… «Le parole di Francesco, l’accento particolare che il Papa ha posto sulla questione ha avuto effetto in molti Paesi, prima e dopo l’incontro in Vaticano. Non dico che anche in Italia sia direttamente legato, ma di certo l’attenzione del Papa ha accelerato e sta accelerando i processi. Bene così, bisogna cercare la verità». Come va il cosiddetto «follow up» dopo l’incontro in Vaticano? Che cosa ci si deve attendere ora? «Il lavoro prosegue, alcune cose sono pronte e stanno per essere pubblicate, per altre ci vorrà ancora qualche mese. Ma si avranno conseguenze concrete solo se le conseguenze concrete avverranno nei vari Paesi, nella conferenze episcopali. Io seguo le notizie che arrivano dalle varie chiese locali, e vedo che si stanno definendo gruppi di lavoro, commissioni di ascolto delle vittime, revisioni delle linee guida contro gli abusi... Si è creato l’effetto nel quale speravo prima dell’incontro: che tutti tornassero con maggiore consapevolezza ed energia per cambiare le cose nel loro territorio». 

Caso Pedofilia, la "passione" di Papa Francesco. Quella sulla "pedofilia" nella Chiesa (anche in Italia) è il caso più scottante della storia del Vaticano, scrive Maurizio Belpietro l'11 marzo 2019 su Panorama. Un cardinale arrestato in Australia con l’accusa di aver molestato un giovane. Un altro ridotto allo stato laicale a Washington per lo stesso motivo. Un terzo costretto a lasciare all’improvviso la più importante diocesi americana perché si ritiene sapesse delle molestie, ma non le avesse mai denunciate. Un arcivescovo, quello di Milano, sfiorato in un’aula di tribunale dal sospetto di aver coperto un predatore sessuale in tonaca. Il capo della conferenza episcopale scozzese privato delle prerogative della porpora per comportamenti «inappropriati» nei confronti di giovani seminaristi. E poi ben otto vescovi cileni rimossi all’improvviso per aver insabbiato violenze e molestie. Un terremoto. Mai nella Chiesa si era assistito a nulla di simile. Nemmeno quando, nei primi anni Ottanta, scoppiò lo scandalo del Banco Ambrosiano e il Vaticano fu travolto dalle indagini per le operazioni spregiudicate di monsignor Paul Marcinkus. Al capo dello Ior, banca vaticana che operava come se fosse una società speculativa con base in un paradiso fiscale, furono risparmiate non solo le manette (nonostante la Procura di Milano ne avesse richiesto l’arresto), ma anche di dover rispondere alle domande della giustizia italiana. Con il tempo fu privato del ruolo di amministratore dei soldi della Santa sede e rimandato a Chicago, da cui proveniva, ma senza l’onta di essere ridotto allo stato laicale. Così finì le sue giornate giocando a golf. Questa volta no, le cose sono diverse. L’arcivescovo George Gänswein, prefetto della Casa pontificia e soprattutto a lungo assistente di Benedetto XVI, ha parlato di «11 settembre della Chiesa», ricordando l’attentato alle Torri Gemelle che nel 2001 sconvolse l’America e il mondo. Il paragone all’inizio sembrò azzardato, ma man mano che passano le settimane e avanzano le inchieste, la citazione appare tutt’altro che forzata. Negli Stati Uniti, dove risiede una delle più importanti comunità cattoliche, le indagini si moltiplicano. Dopo quella condotta in Pennsylvania, ora è il turno del Nebraska. Sul banco degli imputati centinaia di sacerdoti e insieme a loro i capi delle diocesi, spesso accusati non di essere loro stessi pedofili, ma di aver coperto gli abusi. Sarà per via del successo di un film che due anni fa vinse il premio Oscar sollevando il caso delle violenze sui minori nella diocesi di Boston (Il caso Spotlight), sarà perché gli uffici legali americani, quando fiutano l’odore dei soldi, si buttano sulla preda come pescicani, sta di fatto che la Chiesa statunitense, pur essendo una delle più ricche del mondo, ora rischia la bancarotta per via delle cause intentate dalle vittime degli abusi. Qualcuno ha calcolato che presto potrebbe essere chiamata a sborsare 3 miliardi di dollari e gli avvocati potrebbero non limitarsi a battere cassa negli Usa, ma rivolgersi direttamente in Vaticano. Del resto, che l’11 settembre della Chiesa non possa essere confinato in America, Australia, Cile e Irlanda, lo si è capito quando il Papa ha convocato la conferenza di tutti gli episcopati, dando la parola alle vittime.

Il pontefice è stato costretto a rimuovere in tutta fretta anche alcuni componenti del cosiddetto C9, una specie di governo della Chiesa: una decisione arrivata appena in tempo, prima che il cardinal George Pell, il ministro delle Finanze vaticane, cioè il numero tre della gerarchia cattolica, finisse agli arresti in Australia. Si poteva evitare tutto ciò? Forse sì. Quando nell’agosto dello scorso anno l’ex nunzio negli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò, rese noto un dossier in cui si accusavano cardinali e vescovi di aver coperto gli abusi e si puntava l’indice addirittura su Bergoglio, forse si doveva comprendere che qualche cosa di grave stava per accadere. Un arcivescovo che arriva ad accusare il Papa non si era mai visto dai tempi degli scismi. Certo, questa è la più grave crisi che si registri all’interno delle mura vaticane, per lo meno nell’ultimo secolo. Qualcuno la chiama già la Passione di Francesco, una via crucis a cui ogni giorno si aggiunge una nuova stazione. Di sicuro lo scandalo è destinato a segnare l’intero pontificato di Bergoglio, che cominciato sotto il segno di una Chiesa più vicina alla gente rischia di concludersi con una Chiesa da cui la gente fugge. È dei giorni scorsi la notizia della cattedrale di Utrecht, in Olanda, messa in vendita per un euro: i fedeli non ci sono più e il vescovo non ha soldi per mantenerla. Dicono che sia l’effetto della secolarizzazione. Ma forse anche l’11 settembre di cui parlava padre Gäenswein c’entra qualcosa.

"Dietro le dimissioni di Ratzinger c'è lo scandalo pedofilia". Ratzinger avrebbe deciso di dimettersi dopo il viaggio a Cuba del marzo 2012. Il possibile retroscena svelato dal giornalista francese, scrive Giuseppe Aloisi, Venerdì 15/02/2019, su Il Giornale. Ratzinger si è convinto della necessità delle dimissioni per una serie di motivi. Tra questi, Frédéric Martel, l'autore di "Sodoma", che è il libro su omosessualità e Chiesa in uscita a febbraio, di cui abbiamo parlato più volte, ha individuato un viaggio apostolico a Cuba, avvenuto nel marzo del 2015, durante il quale Benedetto XVI si sarebbe in qualche modo rassegnato all'idea di dover abbandonare il soglio di Pietro. A riportare quello che rischia di essere un passaggio che mancava della narrativa sulla rinuncia del teologo tedesco è stato il quotidiano La Verità. Anche se lo stesso autore dell'articolo, cioè Gianluigi Nuzzi, scrive di non condividere alcune delle tesi presentate da Martel. Fatto sta che, stando alla versione del giornalista francese, la visita nell'isola di Fidel Castro sarebbe stata determinante ai fini della decisione presa da quello che sarebbe diventato il papa emerito. Sullo sfondo la corruzione, gli scandali legati agli abusi e la diffusione di atti omosessuali all'interno degli ambienti ecclesiastici. Ratzinger, insomma, si sarebbe reso conto di non essere nella possibilità, specie per via delle sue precarie condizioni fisiche, di far fronte a una serie di problematiche dilaganti che necessitavano, per essere risolte, del vigore di un pontefice più giovane. Partendo da questo punto, quindi, sarebbe possibile comprendere il perché di un abbandono che rimane impresso nella storia. Ma c'è dell'altro. Nuzzi, infatti, collega la tesi di Martel alle frasi che mons. Gaenswein ha pronunciato l'anno scorso, durante la presentazione di un libro edito da Cantagalli, che raccoglie buona parte delle riflessione del "mite professore" di Tubinga riguardo alla politica. Per il prefetto della Casa Pontificia, ancora oggi molto vicino a Ratzinger, l'emersione degli scandali legati agli abusi rappresenta l'11 settembre della Chiesa cattolica. E questo assunto, in qualche modo, potrebbe essere correlato alle motivazioni nascoste dietro le dimissioni. Quasi come se Benedetto XVI avesse avuto contezza di non poter contrapporsi a ciò che stava già accadendo e che sarebbe accaduto nel corso degli anni successivi. Il libro di Martel, in ogni caso, continua a far discutere. Parte del "mondo tradizionale" lo ha già bollato come "pamphlet Lgbt". La definizione può essere rintracciata su Corrispondenza Romana, che è uno di quei siti non allineati con l'operato dell'attuale pontefice. Fatto sta che "Sodoma", prescindendo per un attimo dalla veridicità delle informazioni presentate all'interno dell'opera, tratterà pure delle dimissioni del predecessore di papa Francesco. Il tutto a ridosso di un summit, quello sulla prevenzione degli abusi che Bergoglio ha convocato per questo febbraio, che in molti ritengono essere fondamentale per il ripristino della credibilità degli ambienti ecclesiastici.

Papa Francesco nomina il cardinale Kevin Farrell nuovo Camerlengo della Santa Sede, scrive il 15 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Papa Francesco ha scelto il suo nuovo Camerlengo, ovvero il cardinale che si occupa dell'amministrazione finanziaria della Santa Sede, amministra la Santa Sede in sede vacante ed è la figura che in Vaticano gestisce le esequie del Papa, dall'apposizione dei sigilli all'appartamento del Pontefice allo svolgimento del funerale. L'uomo indicato da Bergoglio è il cardinale americano (di origini irlandesi) Kevin Farrell, 71enne già vescovo di Dallas. La scelta è di quelle che fanno notizia, perchè rappresenta la sfida di Francesco al dossier di monsignor Luigi Viganòsui preti pedofili americani. Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, aveva coinvolto lo stesso Farrell nelle gravi accuse al cardinale di Washington Theodore McCarrick, che era stato cacciato dallo stesso Bergoglio per le accuse di abusi su un minore e di molestie nei confronti di numerosi seminaristi. Viganò aveva accusato Farrell di non poter non sapere di quei fatti, visto che di McCarrick era uno dei vescovi ausiliari e viveva all'interno della stessa residenza a Washington. La nomina di Farrell è dunque una grande assunzione di responsabilità e una affermazione di autonomia da parte di Francesco.

Vaticano, Papa Francesco e la nuova bomba gay: "Palpate in pubblico", il disastro del Nunzio apostolico, scrive il 16 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Aggressioni sessuali". Altra bomba gay sul Vaticano. Il Nunzio apostolico in Francia Monsignor Luigi Ventura, sorta di ambasciatore di Papa Francesco a Parigi, è indagato dalla Procura parigina. Secondo il quotidiano Le Monde, la vittima sarebbe un giovane funzionario del municipio della capitale, che il Nunzio 74enne avrebbe più volte palpeggiato facendo la mano morta durante una cerimonia ufficiale all'Hotel de Ville lo scorso 17 gennaio. "È Ventura che ha partecipato nel 2015 alla campagna contro la nomina di Laurent Stefanini come ambasciatore francese presso la Santa Sede. È lui che ha contribuito a far arrivare al Papa le voci sull'omosessualità di Stefanini che circolavano in ambienti francesi", accusa ora a Repubblica il sociologo e storico Frédéric Martel, autore di Sodoma che dipinge il Vaticano come "una delle più grandi comunità gay del mondo". Secondo Martel, nella sua inchiesta il nome di monsignor Ventura "appare più volte, la prima ai tempi in cui era uno dei collaboratori del Segretario di Stato Agostino Casaroli, su cui nel libro, sulla base di molte testimonianze, faccio l'ipotesi che si sia mosso nell'universo omosessuale del Vaticano".

Chiesa e pedofilia, don Vinicio Albanesi: "Anch'io vittima di abusi in seminario". La rivelazione del religioso, presidente della Comunità di Capodaco, nel giorno del summit in Vaticano. "Erano sacerdoti. Da mandare al diavolo, indegni. Ho tenuto tutto dentro. Ma non ho avuto sensi di colpa e questo ha aiutato il mio sacerdozio", scrive il 21 febbraio 2019 La Repubblica. La rivelazione shock arriva nel giorno in cui il Papa parla al summit in Vaticano sulla protezione dei minori per contrastare la piaga degli abusi sessuali dei preti sui minori. Don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, durante lo speciale "Diario di papa Francesco" su Tv 2000, l'emittente della Cei, racconta di essere stato egli stesso vittima di abusi sessuali, da parte di altri sacerdoti, quando era giovane e in seminario. "Erano da mandare al diavolo - ha detto don Vinicio - perché non erano degni. E tutto questo mi è rimasto dentro per 50 anni. Ma non ho avuto sensi di colpa e questo mi ha aiutato invece a guardare al sacerdozio con lo spirito aperto, solare, bello". "Io mi sono salvato con questo pensiero: i vigliacchi erano loro non io. Non mi sono mai sentito vittima perché le persone malevoli, subdole e delittuose erano loro, adulti, presunti o veri educatori", ha aggiunto don Vinicio Albanesi. "Il messaggio di Cristo è un messaggio infinitamente propositivo. Sono a volte, non tutti per fortuna, alcuni ad averlo intristito e reso cattivo. Cristo ha difeso i bimbi, la samaritana, i ciechi, gli zoppi. Cristo ha guarito e c'è purtroppo invece chi con le parole provoca ferite e anche la morte", ha concluso.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 22 febbraio 2019. Altro che test. Dal summit sugli abusi si capirà se la Chiesa è ancora in grado di autorigenerarsi e cogliere l'opportunità che gli viene fornita per risollevarsi e restare unita. La sfida colossale ha a che vedere con l'immagine che trasmette: di una realtà divisa e non sempre coerente nell' applicazione delle regole contro la pedofilia. Il Papa lo ha fatto capire bene. Si tratta dunque di interpretare, gestire e neutralizzare le forze centripete che attualmente remano contro. In questi anni Francesco ha dovuto fare fronte per varie ragioni - a parecchi guai. Agli attacchi esterni non sono mancati nemmeno i problemi interni. A fasi alterne la classe dirigente vescovi e cardinali - è stata sottoposta ad una pesante revisione, a proposito della sua capacità di rispondere alle richieste di trasparenza e affidabilità nell' affrontare la gestione della pedofilia. Accanto a chi ha lottato per far prevalere la coerenza - per esempio l'arcivescovo Charles Scicluna (oggi tra gli organizzatori del summit) - è però sopravvissuta una mentalità in curia che spesso ha lasciato a desiderare. A complicare il quadro ci sono poi state anche alcune nomine fatte da Papa Francesco nella scelta dei suoi collaboratori. Non sempre si sono dimostrate un successo. Il fallimento più clamoroso riguarda il cardinale Pell, l'ex arcivescovo sospeso due anni fa dall' incarico di super ministro dell'economia visto che doveva essere processato a Melbourne per una vicenda di abusi. Al caso Pell, a stretto giro, è seguito il pasticcio del Cile, enorme e penoso, che finalmente ha scoperchiato la rete che taluni vescovi complice certa acquiescenza vaticana - avevano fornito ai pedofili. L' anno scorso sono spretati due vescovi, dimissionati altri cinque e sono stati pensionati i cardinali Ezzati ed Errazuriz che in precedenza figuravano nel C9, il Consiglio della Corona. Dopo un primo approccio pasticciato e garantista, Francesco ha usato la mano pesante. Le pressioni dell'opinione pubblica non sono mancate nemmeno in America, altro terreno di guai che ha fatto emergere altre contraddizioni. Ad alimentare il bisogno di giustizia ci hanno pensato (strumentalmente) anche i media cattolici legati alla destra di Bannon. Il cardinale Wuerl è stato pensionato per le coperture date al cardinale McCarrick che, invece, poco prima del summit è stato spretato. Il Papa ha compreso bene che c' era in gioco la credibilità del sistema. Nessun cardinale era mai stato punito così severamente. Il messaggio è che nessuno può più godere di privilegi. Il summit ha fatto affiorare il grande bisogno di trasparenza, coerenza e rispettabilità. Sotto esame c' è l'intera classe dirigente dai vescovi ai cardinali che dovrà adeguarsi ai nuovi standard: di sicuro non sono più quelli elastici e possibilisti di un tempo, dove il concetto della misericordia finiva per coprire corresponsabilità e insabbiamenti. Stavolta il passaggio è rigoroso e totale. Bisogna solo capire quante altre teste dovrà far saltare il Papa. Nel frattempo perdurano in una zona d' ombra altri brutti esempi. L' arcivescovo argentino Zanchetta, per esempio, amico personale del pontefice e promosso all' Apsa ma poi finito sotto processo in Vaticano per abusi. In Italia, invece, ci sono due casi di insabbiamento che perdurano in un silenzio assordante da parte del Vaticano e da parte della Cei: quello dell'arcivescovo di Napoli e quello dell' arcivescovo di Milano, entrambi avrebbero spostato in altra sede un prete pedofilo.

Alessandra Arachi per il Corriere della Sera il 22 febbraio 2019.

Don Vinicio Albanesi, ma è vero? Anche lei è stato abusato dai preti?

«Purtroppo sì».

Quando?

«Avevo undici anni, ero in seminario».

Già in seminario per diventare sacerdote?

«Non ancora, ero lì per studiare».

In quale seminario?

«Quello di Fermo».

E cosa le è successo?

«Ho subito molestie».

Molestie sessuali?

«Sì, sono state decisamente esplicite».

Vogliamo dire da chi? Vogliamo fare i nomi?

«Sono morti ormai, ci pensa il Padre eterno a giudicarli».

Usa il plurale, vuole dire che è stato più di uno che l'ha molestata, Don Vinicio?

«Sono stati in tre».

Tre? Tutti insieme?

«No, uno per volta».

E sono durate tanto tempo queste molestie?

«Sì».

Mesi? Anni?

«Anni, ahimè».

E lei nonostante questo ha voluto prendere i voti lo stesso e diventare sacerdote...

«Sì, a vent' anni ho deciso di diventare prete».

Come ha fatto?

«Ho capito che quei tre erano dei vigliacchi, non mi dovevano mettere paura. E poi...».

Poi?

«Ho capito che erano malati, ossessivo-compulsivi. E ho pensato ai tanti begli esempi di preti che ci sono nella Chiesa».

Chi per esempio?

«I missionari, ma anche i parroci di montagna, o quelli di frontiera. Ho pensato che era questo che valeva la pena di fare».

Don Albanesi, lei ha fondato la Comunità di Capodarco a Fermo, e sono tanti anni che si impegna attivamente per risolvere i problemi sociali.

«Aiutare gli altri è la nostra missione, soprattutto gli altri che hanno più bisogno. Ricordiamoci l'opera di Cristo».

Ha apprezzato questa iniziativa di papa Francesco sulla pedofilia?

«Sì, ma secondo me è soltanto l'inizio, bisogna approfondire questa piaga del sacerdozio. Magari anche prevenendola».

In che modo?

«Cominciando con il rendere obbligatorio un test psicologico per chi vuole diventare prete».

Da L'Huffingtonpoist il 21 febbraio 2019. "Dall'età di 15 anni ho avuto relazioni sessuali con un prete. È durato 13 anni. Sono rimasta incinta tre volte e mi ha fatto abortire tre volte, molto semplicemente perché non voleva usare profilattici o metodi contraccettivi". È una delle scioccanti testimonianze di violenza sessuale data da una donna africana e trasmessa durante il vertice contro gli abusi in Vaticano voluto da Papa Francesco. "All'inizio mi fidavo così tanto di lui che non sapevo potesse abusare di me - continua -. Avevo paura di lui e ogni volta che mi rifiutavo di avere rapporti sessuali con lui, mi picchiava. E siccome ero completamente dipendente da lui economicamente, ho subito tutte le umiliazioni che mi infliggeva". "Avevamo questi rapporti sia a casa sua nel villaggio che nel centro di accoglienza diocesano - prosegue - In questa relazione non avevo il diritto di avere dei "ragazzi"; ogni volta che ne avevo uno e lui veniva a saperlo, mi picchiava. Era la condizione perché mi aiutasse economicamente...Mi dava tutto quello che volevo, quando accettavo di avere rapporti sessuali; altrimenti mi picchiava". "Sento di avere una vita distrutta - conclude la donna - Ho subito così tante umiliazioni in questa relazione che non so che cosa mi riservi il futuro ... Questo mi ha reso molto prudente nelle mie relazioni, adesso. Bisogna dire che i preti e i religiosi hanno modo di aiutare e allo stesso tempo anche di distruggere: devono comportarsi da responsabili, da persone avvedute". Rivelazioni choc sul tema anche da parte di don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco. Durante lo speciale "Diario di papa Francesco" su Tv 2000, l'emittente della Cei. Don Vinicio ha denunciato pubblicamente gli abusi subìti da ragazzo in seminario da parte di altri sacerdoti. "Erano da mandare al diavolo - ha aggiunto - perché non erano degni. E tutto questo mi è rimasto dentro per 50 anni. Ma non ho avuto sensi di colpa e questo mi ha aiutato invece a guardare al sacerdozio con lo spirito aperto, solare, bello". "Voi siete i medici dell'anima e tuttavia, salvo rare eccezioni, vi siete trasformati - in alcuni casi - in assassini dell'anima, in assassini della fede. Quale terribile contraddizione". Le testimonianze proseguono drammatiche. "L'abuso sessuale lascia conseguenze tremende a tutti", "le conseguenze sono evidenti, sotto tutti gli aspetti, e rimangono per tutta la vita", premette il primo testimone, un cileno, che però vuole soprattutto parlare di sé "in quanto cattolico". "Per un cattolico, la cosa più difficile è riuscire a parlare dell'abuso sessuale; ma una volta che hai preso coraggio e inizi a raccontare - nel nostro caso, parlo di me - la prima cosa che ho pensato è stata: vado a raccontare tutto a Santa Madre Chiesa, dove mi ascolteranno e mi rispetteranno". Invece, "la prima cosa che hanno fatto è stata di trattarmi da bugiardo, voltarmi le spalle e dirmi che io, e altri, eravamo nemici della Chiesa. Questo è uno schema che non esiste soltanto in Cile: esiste in tutto il mondo, e questo deve finire". Nel racconto del sopravvissuto, "il perdono falso, il perdono forzato non funziona. Le vittime hanno bisogno che si creda loro, che le si rispettino, che ci si prenda cura di loro e si guariscano. Bisogna far guarire le vittime, esser loro vicini, bisogna credere loro e accompagnarle". La richiesta è "di collaborare con la giustizia", e ciò "che il Papa sta facendo in Cile si ripeta come modello in altri Paesi del mondo". Inoltre, "vediamo tutti i giorni la punta dell'iceberg: nonostante la Chiesa affermi che è tutto finito, continuano a emergere casi: perché?". "Non serve estirpare il tumore e basta", afferma la vittima cilena, che chiede "che aiutiate a ristabilire la fiducia nella Chiesa" e che coloro "che vogliono continuare a coprire, se ne vadano dalla Chiesa". Un sacerdote est-europeo racconta che da adolescente, dopo la conversione "andavo dal prete perché mi insegnasse come leggere la Scrittura durante la Messa; e lui toccava le mie parti intime. Ho passato una notte nel suo letto". E "l'altra cosa che mi ha ferito è stato il vescovo al quale, dopo molti anni, da adulto, ho parlato dell'accaduto", e "lui mi ha attaccato senza tentare di comprendermi". Altri testimoni un uomo degli Stati Uniti e un asiatico. L'uno prova "ancora dolore per i miei genitori, ancora provo dolore per la disfunzione, il tradimento, la manipolazione che quest'uomo malvagio, che all'epoca era il nostro prete cattolico, ha inflitto alla mia famiglia e a me". L'altro è stato "molestato sessualmente per tanto tempo, e oltre cento volte, e queste molestie sessuali mi hanno provocato traumi e flashback per tutta la vita. Fa fatica vivere la vita, fa fatica stare insieme alla gente, avere rapporti con le persone. Ho avuto questo atteggiamento anche nei riguardi della mia famiglia, dei miei amici e perfino di Dio". "Ogni volta che ho parlato con i Provinciali e con i Superiori maggiori - conclude -, questi hanno regolarmente coperto il problema, coperto gli abusatori e questo a volte mi uccide".

Vertice sugli abusi, tradizionalisti in piazza: "Il Papa condanni anche l'omosessualità". La manifestazione silenziosa delle "sentinelle" tradizionaliste alla vigilia del summit sugli abusi che si aprirà giovedì prossimo in Vaticano: "Il Papa condanni l'omosessualità organizzata all'interno della Chiesa, che è alla base della pedofilia", scrivono Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. “Ci sembra riduttivo organizzare un vertice sul tema della pedofilia ignorando un problema molto più vasto, quello dell’omosessualità organizzata, all’interno della chiesa, che è alla base degli abusi stessi”. Un centinaio di laici cattolici provenienti da tutto il mondo che si sono dati appuntamento a piazza San Silvestro, nel centro di Roma, dove hanno organizzato una manifestazione silenziosa per chiedere ai vescovi di trovare “il coraggio” per “rompere il silenzio”, alla vigilia del vertice sugli abusi che si aprirà giovedì prossimo in Vaticano. “Il nostro è un appello ai pastori della chiesa perché alzino la voce contro la piaga dell’omosessualità, che rappresenta una struttura di potere all'interno della Chiesa”, spiega De Mattei. Immobili e disposti in file da dieci, c’è chi sgrana le coroncine una dopo l’altra e chi ha lo sguardo fisso sul libro che si è portato da casa. Sembrano un piccolo esercito e si definiscono, per questo, “acies ordinata”. Chiedono a Papa Francesco una presa di posizione forte, non solo sul tema degli abusi ma anche, si legge nel volantino distribuito in piazza dagli attivisti cattolici, “sul tema della corruzione morale, che comprende ogni violazione della legge divina e naturale, a cominciare dalla terribile piaga dell’omosessualità”. “Non si può ignorare la questione delle lobby omosessuali all’interno della chiesa, è un problema che va affrontato e non c’è momento migliore di questa riunione per farlo”, incalza l’avvocato Claudio Vitelli, tra i promotori dell’iniziativa, invocando “un’azione di pulizia e di controllo interno a partire dai seminari”. “Purtroppo se ci sono dei lupi in mezzo al gregge – ha aggiunto - è necessario che vengano allontanati”. Secondo i dati sciorinati dai “tradizionalisti” l’81% delle vittime degli abusi sessuali clericali sarebbero ragazzi dai 14 ai 17 anni. Su questo tema, però, alla vigilia del summit di giovedì, alcuni membri di spicco del Comitato organizzatore del vertice sulla protezione dei minori hanno già spiegato in modo categorico la posizione della Santa Sede. “È importante riconoscere il fatto che gli abusi coinvolgano soprattutto i maschi, nel contempo, però, bisogna ribadire che l'omosessualità non è una causa della pedofilia”, ha chiarito ieri il cardinale Blase Cupich, arcivescovo di Chicago, alla conferenza stampa di presentazione del vertice. Ciò non toglie che la linea del pontificato di Francesco sugli abusi sia quella della tolleranza zero. A testimoniarlo in modo inequivocabile è l’annuncio, arrivato lo scorso fine settimana, della riduzione allo stato laicale dell'ex Arcivescovo di Washington, Theodore McCarrick, il porporato americano ultraottantenne accusato di aver approfittato sessualmente di minori, seminaristi e sacerdoti. Una condanna senza appello, con cui Papa Francesco sembra rispondere alle accuse di immobilismo mossegli qualche mese fa dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò. I tradizionalisti che sono scesi in piazza oggi parlano di “decisione ineccepibile e doverosa”. Ma, anche su questo non mancano le critiche. “Si tratta di un atto apparentemente forte – spiega De Mattei - ma dalla Santa Sede ci aspetteremmo una condanna più profetica e coraggioso di quelle colpe morali che vengono promosse dagli stati laici contemporanei”. Al vertice contro la pedofilia, che andrà avanti per quattro giorni, da giovedì a domenica, parteciperanno in 190 tra religiosi, laici ed esperti. E uno spazio alla vigilia del summit sarà dedicato proprio alle vittime stesse degli abusi del clero, che a Roma incontreranno i membri del comitato organizzatore. Per il Papa si tratta di “una sfida urgente”. Ed il cammino tracciato finora dal Santo Padre è nel segno del rigore.

In Vaticano sono arrivate 2.200 nuove accuse di pedofilia da quando c'è papa Francesco. Mentre il clero fa mea culpa sugli orchi, ecco i dati ufficiali della Congregazione per Dottrina della Fede: solo nel 2017 si contano ben 410 denunce "verosimili". Dal 2013 a oggi in media è stato segnalato, ogni giorno, un nuovo prete pedofilo. Il pontefice ha spretato, nel 2016, sedici sacerdoti, scrive Emiliano Fittipaldi il 22 febbraio 2019 su L'Espresso. Il summit sulla pedofilia del clero cattolico voluto da papa Francesco dura quattro giorni. I capi dei vescovi ascoltano le drammatiche storie di alcune delle vittime degli orchi in tonaca. Fanno mea culpa. E propongono nuove linee guida per estirpare il fenomeno che sta distruggendo la credibilità della Chiesa. Ebbene negli stessi quattro giorni, alla Congregazione per la dottrina della fede, arriveranno cinque nuove denunce “verosimili” contro altrettanti sacerdoti, accusati di abusi sessuali su minorenni. Almeno a leggere i dati ufficiali, che qui diamo in anteprima, che evidenziano come il fenomeno non riguardi solo casi già noti e confinati al passato. Al contrario, la questione della pedofilia ha ancora oggi dimensioni gigantesche: da quando Bergoglio è diventato papa, nel marzo del 2013, fino al 31 dicembre del 2018 in Vaticano sono arrivate poco più di 2.200 nuove denunce dai vescovadi sparsi per il mondo.

Si tratta in media di 1,2 nuovi casi al giorno. Il trend è impressionante. Le accuse sono raddoppiate rispetto al quinquennio che va dal 2005 al 2009, quando i casi sfioravano – nonostante l'eco dello scandalo “Spotlight” svelato dai cronisti del Boston Globe nel 2001 – i 200 l'anno. Dal 2010 in poi le accuse si sono moltiplicate. Un tendenza che potrebbe indicare una maggiore fiducia nella giustizia ecclesiastica da parte delle vittime, certo. Ma che racconta anche la persistenza e pervicacia del fenomeno, nonostante gli annunci sulla “tolleranza zero” lanciati ormai da 15 anni prima da Benedetto XVI poi da Bergoglio. Nel 2017, si legge nel report dell'Ufficio disciplinare della Congregazione che ha il compito di aprire processi canonici contro le tonache che si sono macchiate di atti “contra sextum”, cioè di “delitti contro il sesto comandamento con minori”, sono arrivate a Roma ben 410 denunce “verosimili”. Dunque già vagliate e giudicate credibili dai vescovi in loco, che hanno l'obbligo – una volta verificate le accuse - di spedire il fascicolo in Vaticano. Per la precisione, alla Congregazione per la dottrina della fede, dove gli “Officiali” dell'ufficio disciplinare guidati oggi dal cardinale Luis Ladaria lavorano la segnalazione, che può condurre a un'archiviazione o a un processo canonico contro il presunto molestatore.

I dati della Congregazione per la Dottrina della Fede. Nel 2016, scartabellando i dati vaticani, gli abusi denunciati dalle vittime sono invece 415. Nello stesso anno scopriamo che papa Francesco ha dimesso dallo stato clericale, spretandoli, alcuni prelati: su 143 casi presentati dall'ex Sant'Uffizio al Sommo Pontefice, solo 16 sono stati spretati. Altri 127 casi hanno portato a «dispense da tutti gli oneri sacerdotali». Non sappiamo quanti sacerdoti abbia spretato papa Francesco nei primi sei anni del suo pontificato. Sappiamo però che solo nel 2011 e nel 2012 il predecessore Benedetto XVI ridusse allo stato laicale rispettivamente 125 e 67 persone. Dei nomi e dei motivi dei sedici prelati spretati da Bergoglio non sappiamo nulla: tutti i rinvii a giudizio, i processi e le decisioni del tribunale dell'ex Sant'Uffizio sono protetti da “perpetuo riserbo”. Fonti vaticane spiegano all'Espresso che i provvedimenti della Congregazione avallati poi dal papa «sanzionano quasi sempre crimini sessuali, perché per gli altri reati provvede la Congregazione per il Clero». In genere solo in casi straordinari, come quello dell'ex cardinale Theodore McCarrick, espulso dalla Chiesa dopo le accuse di pedofilia dei giudici americani, la Santa Sede pubblicizza urbi et orbi la sentenza. Nel 2015 le denunce per atti sessuali su bambini e bambine hanno toccato i 518 casi. Nel 2014 sono state circa 500, nel 2013 le accuse sono 401. Tutte le vicende, i nomi delle vittime ma anche quelle dei presunti carnefici, sono “sub segreto pontificio”. Protetti da “perpetuo riserbo”. I dipendenti vaticani che ne parlano rischiano il licenziamento, persino la scomunica. A causa di norme mai modificate, il Vaticano guidato da Francesco ha negato alla procura di Cremona, nel 2015, gli atti istruttori e processuali su don Mauro Inzoli, già condannato per pedofilia dalla Congregazione e poi condannato a 4 anni e 7 mesi dalla magistratura italiana, nonostante la rogatoria andata a vuoto. Mentre ad ottobre del 2018 la Santa Sede ha invocato l'immunità per lo stesso cardinale Ladaria, convocato da alcuni giudici francesi a comparire in un tribunale per il caso del potente cardinale Philippe Barbarin, accusato di aver insabbiato abusi nella sua arcidiocesi. Gli ottimisti sperano che domenica il summit possa concludersi con un annuncio importante del Vaticano. In modo da evitare che un evento significativo e altamente simbolico si trasformi in un’altra occasione mancata. Le vittime, parte importante della comunità cattolica e i laici progressisti chiedono da tempo una riforma strutturale delle leggi vaticane sulla pedofilia clericale: come l'eliminazione del segreto pontificio, che impedisce una reale trasparenza sulle azioni dei predatori e degli insabbiatori, e un obbligo giuridico (e non solo morale) di denuncia, da parte di vescovi e prelati che vengono a conoscenza del reato, alle autorità civili del paese dove quest'ultimo si compie. In caso contrario, i risultati del summit rischino di essere dimenticati allo scoppio del prossimo scandalo.

Vaticano, così il cardinale promosso coprì un prete pedofilo. Due giorni fa Ladaria è stato nominato da papa Francesco prefetto della Congregazione della Fede. Al posto del tedesco Muller, considerato da Bergoglio troppo timido nella lotta alla pedofilia. Ma il nuovo capo dell'ex Sant'Uffizio nel 2012, davanti a un sacerdote maniaco appena spretato, in un decreto ordinò il silenzio «per evitare scandalo tra i fedeli». Così l'orco violentò indisturbato altri bambini. L'esclusiva Espresso-Repubblica di Emiliano Fittipaldi e Giuliano Foschini del 3 luglio 2017. Nel marzo del 2012 il cardinale Luis Ladaria Ferrer, promosso sabato da papa Francesco nuovo prefetto della Congregazione della dottrina della Fede, ha coperto, senza denunciarlo, un prete pedofilo che era stato ridotto in stato laicale per abusi sessuali. Di più. Ha ordinato, nero su bianco, che la condanna canonica passasse sotto silenzio. Don Gianni Trotta, grazie all'acquiescenza del Vaticano e dei vertici della curia locale, ha così potuto continuare indisturbato a violentare minorenni: dopo essere stato costretto a lasciare la tonaca è infatti diventato allenatore di una squadra di calcio giovanile, e in due anni ha molestato indisturbato una decina di bambini vicino Foggia.

La storia di Trotta è stata raccontata da “Repubblica” lo scorso febbraio, ma solo oggi vengono alla luce le responsabilità dirette di Ladaria. È lui che il 16 marzo 2016 firma il decreto in latino, nel quale invitava i superiori del pedofilo a stare zitti e muti per non «generare scandalo tra i fedeli». Una nuova spina per papa Francesco, che – dopo l'incriminazione formale del suo (ormai ex) braccio destro George Pell per presunti abusi su alcuni adolescenti australiani - ha deciso di nominare Ladaria come successore di Gerhard Ludwig Muller, il cardinale tedesco licenziato in tronco anche perché giudicato poco incisivo nella lotta alla pedofilia. Un paradosso. Andiamo con ordine. Sappiamo che Don Trotta viene messo sotto processo in Vaticano nel 2009. Sappiamo anche che della vicenda non trapelò nulla e che Ladaria, segretario della Congregazione dal 2008 fino alla promozione di queste ore, e il suo superiore di allora, il prefetto William Levada, firmarono il decreto che condannò don Trotta alla pena massima, cioè la messa in stato laicale, per abusi sessuali su minori. Il documento venne inviato, presumibilmente, ai superiori dell'orco, che apparteneva alla congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza, e risiedeva nel vescovato di Lucera, vicino Foggia. Per il Vaticano Trotta è ufficialmente un pedofilo, ma nessuno si prende la briga di denunciarlo alle autorità italiane. I cardinali Ladaria e Levada scelgono un'altra strada. Nel documento, dopo aver comunicato che «Don Gianni Trotta è colpevole di delitti con minori contro il sesto comandamento» e che «Il Sommo Pontefice papa Benedetto XVI ha deciso con suprema e inappellabile sentenza che per il bene della Chiesa sia da irrogare la dimissione dallo stato clericale e dalla Piccola Opera della Divina Provvidenza», aggiungono che «ordinario faccia in modo per quanto possa, che la nuova condizione del sacerdote dimesso non dia scandalo ai fedeli». Un invito, in pratica, all'omertà. Vero che nella missiva l'attuale prefetto Ladaria e il suo ex capo aggiungono che «l'ordinario», ossia coloro che avevano potestà diretta su don Trotta, avrebbe potuto rompere il patto dell'acquiescenza solo davanti a un nuovo «pericolo di abusi su minori», e che in quel caso si poteva «divulgare la notizia della dimissione, nonché il motivo canonico sotteso». Ma si tratta di una postilla pilatesca: invece di denunciare il pedofilo alla magistratura, il nuovo capo della Congregazione per la Dottrina della Fede spostava infatti ogni responsabilità di vigilanza sull'istituto di appartenenza del maniaco. Un controsenso, visto che il vescovo, il parroco e il superiore dell'Ordine non hanno più alcuna influenza su un sacerdote ormai spretato. Trotta decide di restare nel paesino, riciclandosi come allenatore di piccoli calciatori. Nessuno delle famiglie sa della sentenza, perché la curia e l'istituto tacciono. Dal 2012 al 2014 oltraggia così (almeno secondo le accuse) una decina di ragazzini, tra pulcini delle giovanili e bimbe perseguitate in chat. Gianni distrugge in pratica la vita di un'intera generazione del borgo. Solo nell'aprile del 2015, grazie alla denuncia dei genitori di un bimbo di prima media che aveva trovato finalmente il coraggio di parlare, l'ex don viene arrestato per ordine di un pm di Bari, Simona Filoni. A luglio del 2016 Trotta è stato condannato in primo grado a otto anni di carcere per la violenza sul dodicenne, e tra qualche giorno inizierà un nuovo processo per gli abusi sugli altri bambini. «Se la Congregazione e la curia locale avessero denunciato alle autorità il sacerdote invece di scegliere la strada del silenzio, i piccoli sarebbero stati salvati dall'orrore: noi l'avremmo fermato», chiosa un investigatore che segue il caso. Una scelta, quella di Ladaria e Levada, che è discutibile sotto il profilo etico, ma che resta impeccabile sotto il profilo canonico. La decisione inoltre è permessa dalla legge: grazie ai Trattati lateranensi in Italia gli ecclesiastici non hanno l'obbligo di denunciare le condotte dei loro sottoposti, anche se queste hanno rilevanza penale. L'opzione del silenzio, infine, permette oggi il solito scaricabarile. «Io non sapevo nulla di Trotta» ha spiegato il vescovo dell'epoca Domenico Cornacchia. Di certo c'è il dolore dei sopravvissuti, e il fatto che il nuovo prefetto voluto da Francesco forse avrebbe potuto salvare qualche bimbo, se solo avesse anteposto gli interessi dei più deboli a quelli della Chiesa.

Vaticano, papa Francesco e l'accusa dell'avvocato argentino: "È il confessore del prete pedofilo", scrive il 22 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Papa Francesco non torna nella sua Argentina da almeno sei anni, cioè da quando è diventato papa. Il motivo, secondo l'avvocato Juan Pablo Gallego è fin troppo chiaro: "Per il caso don Julio Grassi - ha detto al Fatto quotidiano - I punti tuttora oscuri del passato di Bergoglio sono tutti qui". Gallego è l'avvocato che ha affrontato i più grandi scandali sessuali che hanno travolto il clero argentino, compreso quello di Grassi, del quale Bergoglio è stato il prete confessore quando era arcivescovo di Madrid. L'avvocato ha presentato la prima denuncia contro padre Grassi per conto di un ragazzo, vittima nel 1996 di "crimini aberranti, abusi reiterati, per soddisfare i bassi e deviati istinti di Julio César Grassi". Dopo anni di complicatissimi processi, Gallego ha ottenuto l'iscrizione nel Registro Nacional de Violadores Sexuales, dopo una condanna a 15 anni di carcere per abusi sessuali ripetuti su minori. Tra Bergoglio e Grassi fino a poco tempo fa ci sarebbe stato un fortissimo legame di amicizia, come sostiene Gallego, che lo aveva incontrato nel 2006, quando non era ancora papa. In tutti questi anni: "non ha mai lasciato la mano a Grassi". Niente di penalmente perseguibile, ma Gallego punta il dito contro la contro-inchiesta commissionata dal presidente della Conferenza episcopale argentina, cioè proprio Bergoglio: "Era mirata a distruggere la credibilità delle vittime. Lo sforzo per avere giustizia si è così moltiplicato. Grassi poi era difeso da 25 avvocati tra i più rinomati del Paese: alcuni hanno dichiarato di essere stati pagati dalla Chiesa". Il vero ostacolo, all'inizio insormontabile, era portare Grassi davanti alla giustizia ordinaria: "perché è stato uno degli uomini più potenti della Chiesa argentina, quasi quanto Bergoglio, era uno tra i 10-15 invitati all'insediamento di ogni nuovo Presidente. Si dice anche in ambienti ecclesiastici - aggiunge Gallego - che Bergoglio sarebbe ancora il confessore di Grassi: e nelle Chiesa vige un principio secondo cui il confessore non ha l'obbligo di denuncia di eventuali reati del fedele che si confessa. Bergoglio sapeva. E sono certo che non torni qui per questo".

Lorenzo Bertocchi per la Verità scrive il 24 febbraio 2019. «I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati». È la frase risuonata ieri nell' Aula nuova del sinodo per bocca del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco - membro del comitato C9, il minidirettorio di papa Francesco - intervenuto nell' incontro che si conclude oggi in Vaticano sul tema della protezione dei minori per i casi di abuso del clero. Nella giornata dedicata alla trasparenza si registra quindi una chiara ammissione di una pratica di copertura e insabbiamento che era stata denunciata anche nel memoriale che l'ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò ha pubblicato sulla Verità nell' agosto scorso. Allo stesso modo suor Veronica Openibo, nigeriana, della Società del Santo Bambino Gesù, intervenuta ieri prima di Marx, ha denunciato la negligenza dei vescovi domandandosi se è vero che la maggior parte di loro non ha fatto niente in merito agli abusi sessuali sui minori. «Alcuni hanno fatto», è la risposta data dalla religiosa, «altri non hanno fatto per paura o per insabbiare». «Proclamiamo i Dieci Comandamenti», ha detto ancora la Openibo, «e «ci vantiamo» di essere custodi degli standard dei valori morali e del buon comportamento nella società. Talvolta ipocriti? Sì! Perché siamo rimasti zitti così a lungo?». Una denuncia forte contro omertà e reticenze che sono alla base della crisi degli abusi che ha devastato la Chiesa negli ultimi decenni e nell' ultimo anno in particolare, con i casi dell'ex cardinale Theodore McCarrick e della chiesa in Cile su tutti. Al briefing con la stampa è stato poi chiesto al cardinale Marx a cosa si riferisse con la frase sulla distruzione e manipolazione dei dossier, e se questo succeda anche in Vaticano. Il porporato tedesco ha risposto che stava parlando di quanto emerso in un'indagine svolta nella Chiesa tedesca, ma, ha concluso, «presumo che la Germania non sia un caso isolato». Purtroppo la mala pianta dell'ambiguità ha fatto capolino anche durante questi giorni, con il caso del monsignore argentino Gustavo Óscar Zanchetta. Il vescovo, ritenuto figlio spirituale del Papa, e da Francesco promosso a vescovo di Orán nell' estate del 2013, si è dimesso dalla diocesi per imprecisati «motivi di salute» nel 2017, quindi è ricomparso a Roma dove nel dicembre dello stesso anno gli è stato assegnato dal Papa il ruolo di prestigio di assessore dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica. Nel dicembre 2018 erano emerse notizie dall' Argentina in cui si attestava che le dimissioni di Zanchetta sarebbero avvenute in realtà in seguito alle denunce per abusi che erano state inoltrare al nunzio in Argentina. Ma il portavoce della Sala stampa vaticana, Alessandro Gisotti, il 4 gennaio scorso aveva smentito dicendo che in Vaticano le accuse erano giunte solo nell' autunno 2018. Poi giovedì scorso, 21 febbraio, il giornale El tribuno ha pubblicato i documenti che attestano come le denunce circostanziate siano state fatte pervenire al nunzio e a Roma a più riprese, già nel 2015 e poi nel 2017. Quindi il Papa sapeva di queste accuse quando ha nominato Zanchetta all' Apsa? Di certo l'episodio mostra una volta in più come la trasparenza e la tracciabilità su cui si è concentrato l'intervento del cardinale Marx sono una questione che riguarda davvero tutta la chiesa. A questo proposito, monsignor Charles Scicluna, uno dei grandi registi dell'incontro in corso in Vaticano, ha notato che «c' è un movimento all' interno dell'aula che vuole svincolare queste procedure (riferite alle accuse dei casi di abuso, ndr) con un livello di riservatezza che sia quello del segreto pontificio». È stato questo uno degli elementi centrali dell'intervento di Marx che ha parlato di «definizione del fine e dei limiti del segreto pontificio», aggiungendo, tra l'altro, che «la diffidenza istituzionale porta a teorie cospirazioniste relative a un'organizzazione e alla creazione di miti sulla stessa. Lo si può evitare se i fatti vengono esposti in modo trasparente». I dossier, per tornare alla espressione usata dallo stesso Marx, dovrebbero quindi essere affrontati e non chiusi in un cassetto. È il caso per esempio del corposo lavoro che tre cardinali redassero nel 2012 su richiesta di Benedetto XVI all' epoca dello scandalo Vatileaks 1, i cui faldoni sono stati passati a Francesco e su cui si sono costruite diverse teorie «cospirazioniste», soprattutto riferite alla famigerata «lobby gay». Anche se il tema non è forse direttamente coinvolto con la questione della protezione dei minori, rientra però certamente nell' ampio campo della trasparenza. «Bisogna essere sempre consapevoli che la tracciabilità e la trasparenza», ha concluso Marx nel suo intervento, «sono estremamente importanti anche al di là del contesto degli abusi, per esempio nell' ambito finanziario. Sono inoltre un fattore decisivo per l'affidabilità e la credibilità della Chiesa. Compiamo un passo coraggioso in questa direzione». Nel caso delle procedure per le accuse di abuso il vescovo Scicluna ha annunciato ai giornalisti che è in via di definizione alla congregazione per la Dottrina della fede un vademecum contenente «delle linee guida con indicazioni concrete». Padre Federico Lombardi, coordinatore del comitato organizzatore del meeting, a questo proposito, ha parlato delle necessità per «le conferenze episcopali di avere linee guida pubbliche, sui siti, in cui si dica con chiarezza che nelle diocesi ci deve essere un servizio di ascolto per segnalare i sospetti e le eventuali accuse. E poi un comitato di valutazione sulla serietà delle accuse, nel qual caso si deve procedere con l'indagine previa».

Pedofilia: la strigliata della vaticanista ai vescovi e l'ovazione in sala stampa, scrive Annalisa D'Aprile il 24 febbraio 2019 su Repubblica Tv. "Possiamo essere alleati, non nemici, ma se voi non vi decidete in modo radicale a stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici". Il discorso appassionato di Valentina Alazraki, corrispondente della tv messicana, che in Vaticano durante il summit 'protezione dei minori' ha detto ai vescovi di punire "le mele marce o saremo i vostri peggiori nemici", ha colpito molto i suoi colleghi vaticanisti. Al punto che, dopo il suo intervento, la giornalista decana viene accolta in sala stampa da applausi, fiori e standing ovation. "Spero di avervi rappresentato bene e che nessuno sia arrabbiato con me" dice Alazraki. "Noi no, nell'aula forse qualcuno sì" replica un collega.

Summit sulla pedofilia, il Papa: "Anche un solo caso di abuso sarà punito severamente". Il pontefice conclude la conferenza in Vaticano. E all'Angelus promette "misure perché i crimini non si ripetano". "I luoghi della Chiesa siano sicuri per i minori", scrive il 24 febbraio 2019 La Repubblica. Una piaga "grave" e "mostruosa" anche all'interno della Chiesa: Papa Francesco pronuncia il discorso conclusivo del Summit sulla protezione dei minori che si è tenuto in questi giorni in Vaticano. Citando studi sugli abusi sui minori nel mondo, Francesco nota: "L'universalità di tale piaga, mentre conferma la sua gravità nelle nostre società, non diminuisce la sua mostruosità all'interno della Chiesa".  "La disumanità del fenomeno a livello mondiale diventa ancora più grave e più scandalosa nella Chiesa, perché in contrasto con la sua autorità morale e la sua credibilità etica", ha osservato dopo aver illustrato i dati sulla diffusione del fenomeno nelle famiglie, scuole, sport, sul web, nel turismo sessuale.  E intervenendo di nuovo sul tema durante l'Angelus, ha aggiunto: "Vogliamo che tutte le attività e i luoghi della Chiesa siano sempre pienamente sicuri per i minori; che si prendano tutte le misure possibili perché simili crimini non si ripetano; che la Chiesa torni ad essere assolutamente credibile e affidabile nella sua missione di servizio e di educazione per i piccoli secondo l'insegnamento di Gesù". "Vorrei qui ribadire chiaramente: se nella Chiesa si rilevasse anche un solo caso di abuso - che rappresenta già di per sé una mostruosità - tale caso sarà affrontato con la massima serietà. Fratelli e sorelle, infatti nella rabbia, giustificata, della gente, la Chiesa vede il riflesso dell'ira di Dio, tradito e schiaffeggiato da questi disonesti consacrati. L'eco del grido silenzioso dei piccoli, che invece di trovare in loro paternità e guide spirituali hanno trovato dei carnefici, farà tremare i cuori anestetizzati dall'ipocrisia e dal potere. Noi abbiamo il dovere di ascoltare attentamente questo soffocato grido silenzioso".  "Il problema degli abusi sessuali nei confronti di minori da parte di membri del clero ha suscitato da tempo grave scandalo nella Chiesa e nell'opinione pubblica, sia per le drammatiche sofferenze delle vittime, sia per la ingiustificabile disattenzione nei loro confronti e la copertura dei colpevoli da parte di persone responsabili nella Chiesa", ha detto ancora papa Francesco ai fedeli radunati in piazza San Pietro. "Poiché è un problema diffuso in ogni continente, ho voluto che lo affrontassimo insieme, in modo corresponsabile e collegiale, noi Pastori delle Comunità cattoliche in tutto il mondo. Abbiamo ascoltato - ha detto Bergoglio - la voce delle vittime, abbiamo pregato e chiesto perdono a Dio e alle persone offese, abbiamo preso coscienza delle nostre responsabilità, del nostro dovere di fare giustizia nella verità, di rifiutare radicalmente ogni forma di abuso di potere, di coscienza e sessuale". "La diffusione della pornografia sta dilagando rapidamente nel mondo attraverso la Rete - aveva ricordato durante il discorso di chiusura del summit - La piaga della pornografia ha assunto dimensioni spaventose, con effetti deleteri sulla psiche e sulle relazioni tra uomo e donna, e tra loro e i bambini. Un fenomeno in continua crescita. Una parte molto considerevole della produzione pornografica ha, tristemente, per oggetto i minori, che così vengono gravemente feriti nella loro dignità. Gli studi in questo campo documentano che ciò avviene in modi sempre più orribili e violenti; si arriva all'estremo degli atti di abuso su minori commissionati e seguiti in diretta attraverso la Rete". Nell'omelia della concelebrazione conclusiva della summit,monsignor Mark Benedict Coleridge, arcivescovo di Brisbane, presidente della Conferenza episcopale dell'Australia, a nome dei presidenti di tutte le Conferenze episcopali del mondo aveva avuto parole nette: "Faremo tutto quanto è in nostro potere per portare ai sopravvissuti agli abusi giustizia e guarigione; li ascolteremo, crederemo in loro e cammineremo con loro; faremo in modo che tutti coloro che hanno commesso abusi non siano mai più in grado di offendere; chiameremo a rendere conto chi ha nascosto gli abusi; renderemo più severi i procedimenti di selezione e di formazione dei leader della Chiesa".

Un incontro che rompe il tabù Però il "mea culpa" non basta. Il vertice in Vaticano sulla pedofilia voluto da Francesco scuote le coscienze. Resta molto da fare, scrive Stefano Filippi, Lunedì 25/02/2019, su Il Giornale. Paradossalmente, l'intervento più efficace durante il vertice vaticano per la protezione dei minori è stato pronunciato fuori dai Sacri palazzi. È la testimonianza di don Vinicio Albanesi, 76 anni, fondatore della Comunità di Capodarco che assiste disabili, minori abbandonati, stranieri, tossicodipendenti. A Tv2000 don Albanesi ha rivelato di avere subito abusi in seminario, ma di avere voluto diventare ugualmente prete perché il bene che gli mostravano altri sacerdoti era più forte del male inflittogli dai suoi superiori. All'epoca parlare non sarebbe servito. Invece, ha aggiunto don Albanesi, «bisogna reagire guardando all'orizzonte in termini solari. Essere preti significa diventare come Gesù Cristo che ha aiutato i bimbi, i ciechi e gli zoppi, che ha guarito e non provocato ferite. Significa anche imparare a perdonare». Per molti credenti, l'incontro voluto da papa Francesco è stato un pugno nello stomaco. Sentire le agghiaccianti testimonianze dei soprusi inflitti non è appena una ferita, ma un favore fatto ai nemici della Chiesa. Per chi invece guarda alla Chiesa dall'esterno, i quattro giorni di lotta agli abusi sono sembrati un atto di penitenza collettivo privo di conseguenze concrete. In effetti, il summit non si è concluso con decaloghi o nuove regole da imporre a vescovi e rettori di seminario. O meglio, è stata ribadita la regola di sempre, quella che fra 10 giorni, il Mercoledì delle ceneri, verrà ripetuta a ogni fedele che andrà a messa per l'inizio della quaresima: convertitevi. Prima che un inasprimento delle pene per le tonache che commetteranno abusi (che comunque dovrà essere introdotto), il papa ha indicato la strada del cambiamento interiore. Nel discorso conclusivo Francesco ha ringraziato sacerdoti e religiosi che spendono la vita per testimoniare la fede ed educare cristianamente i ragazzi loro affidati dalle famiglie. Sono loro l'esempio cui guardare, come ha detto don Albanesi. Da questi quattro giorni l'immagine che resta è quello del «mea culpa» ecclesiastico, di un'operazione trasparenza, di una Chiesa che non si trincera più dietro le statistiche per minimizzare il fenomeno ma che guarda le persone, prende sul serio la sofferenza delle vittime e almeno nelle intenzioni applicherà la mano pesante contro i responsabili. Papa Francesco ha messo in gioco tutta la sua autorità. Ma adesso tocca alle Conferenze episcopali, alle strutture della Curia e ai vescovi continuare il percorso per dare risposte concrete e immediate. Del cambiamento non devono restare solamente gli appelli.

Il cardinale Pell, tesoriere del Vaticano, colpevole di violenza sessuale nei confronti di bambini. Ora che la condanna è ufficiale sarà inevitabile il suo definitivo allontanamento da Roma. Il porporato australiano si era sempre dichiarato innocente ma il tribunale di Melbourne lo ha riconosciuto colpevole di abusi sui minori. Da dicembre non faceva più parte del C9, scrive Alberto Custodero il 26 febbraio 2019 su La Repubblica. Il cardinale George Pell, tesoriere e numero tre del Vaticano, è stato riconosciuto colpevole di violenza sessuale nei confronti dei bambini. È stato condannato per crimini sessuali contro minori in Australia, diventando il più alto funzionario della Chiesa cattolica condannato in un caso di pedofilia. Il vescovo Pell, 77 anni, è stato condannato a dicembre per violenza sessuale negli anni '90 su due bambini del coro nella sacrestia della cattedrale di Saint Patrick di Melbourne. Ma il tribunale di Melbourne ha vietato fino a oggi i media di pubblicare l'esito della sentenza. La notizia era già filtrata a dicembre ma non era stata confermata. Ora che la condanna è ufficiale sarà inevitabile per Pell il definitivo allontanamento da Roma. A dicembre il portavoce vaticano Greg Burke aveva annunciato il suo congedo dal C9, il consiglio di nove cardinali che coadiuva Francesco nel governo della Chiesa. Pell oggi è ancora formalmente a capo della Segreteria per l'Economia, un incarico dal quale sarà senz'altro costretto a dimettersi ora che la condanna è stata ufficializzata. Il veto sulla notizia era stato posto dalla legge australiana per la quale fino a che il processo a carico del porporato non si fosse del tutto concluso nulla doveva trapelare. Pell si trova a giudizio dal 2017: di fatto si tratta della più alta carica della Chiesa cattolica che sia stata mai giudicata da un tribunale di un Paese laico. Contro Pell si sono espresse più volte le vittime di abusi sessuali da parte del clero. Peter Saunders, inglese, da ragazzo vittima di abusi sessuali da parte di sacerdoti, fu il primo a fare un passo indietro, ormai due anni fa, dalla Commissione pontificia per la protezione dei minori della quale era stato chiamato a far parte. Se ne andò proprio per le resistenze interne di fronte alle accuse che ex vittime mossero al porporato australiano, fra i principali collaboratori del Papa nel governo della curia romana. Dopo la notizia, qualche mese fa, del rinvio a giudizio di Pell per abusi aveva dichiarato: "Se Pell è stato rinviato a giudizio è perché i pubblici ministeri australiani sentono di avere prove sufficienti in merito". Pell era stato ordinato prete a Roma nel 1966, prima di tornare in Australia nel 1971. È stato nominato arcivescovo di Melbourne nel 1996, poi di Sydney nel 2001. Nel 2014 era stato scelto da Bergoglio per dare più trasparenza alle finanze del Vaticano. Pell era stato costretto a tornare in Australia due anni fa per il processo.

Così l'incubo pedofilia consegna la Chiesa al fronte giustizialista. Si accetta che sia lo Stato a interferire nelle scelte di Francesco e dei vescovi, scrive Riccardo Cascioli, Domenica 03/03/2019, su Il Giornale. Nel discorso di Papa Francesco a conclusione del recente summit in Vaticano sugli abusi sessuali è passato quasi inosservato un elemento che pure aveva colto di sorpresa tutti gli osservatori. Gran parte del suo intervento era infatti centrato non sulla vicenda ecclesiale ma sulla piaga degli abusi sui minori a livello globale. Così, spiegava il Papa, dai dati delle organizzazioni internazionali scopriamo che «chi commette gli abusi () sono soprattutto i genitori, i parenti, i mariti di spose bambine, gli allenatori e gli educatori». Inoltre, proseguiva Francesco, «secondo i dati Unicef del 2017 riguardanti 28 Paesi nel mondo, su 10 ragazze che hanno avuto rapporti sessuali forzati, 9 rivelano di essere state vittime di una persona conosciuta o vicina alla famiglia». L'elencazione dei dati proseguiva: ogni anno negli Stati Uniti 700mila minori sono vittime di violenze e maltrattamenti, e un bambino su 10 è vittima di violenze sessuali. E poi ancora: l'Italia (il 68,9% degli abusi sui minori è all'interno delle mura domestiche), il turismo sessuale, i bambini soldato. Lo scopo di questa panoramica non era minimizzare lo scandalo nella Chiesa, ma porlo nel giusto contesto. Per poi dire sostanzialmente: noi, come Chiesa, stiamo facendo e faremo tutto il possibile per eliminare questa piaga al nostro interno, ma molto di più deve essere fatto a livello globale. In effetti, se solo ci fermiamo ai dati americani notiamo che i casi accertati di abusi sessuali di preti nei confronti di minori sono nell'ordine di diverse migliaia nell'arco di 70 anni (6.700 secondo il dettagliato rapporto del John Jay College pubblicato nel 2004, mentre il recente Rapporto del Gran Jury della Pennsylvania parla di oltre mille casi solo in quello Stato). Se invece guardiamo al fenomeno nel suo complesso, i dati nazionali parlano solo per gli abusi sessuali di 65mila casi l'anno. Come si vede l'incidenza dei «casi in parrocchia» sul totale potrebbe essere definita addirittura marginale. Ma l'immagine che scaturisce dai media si direbbe opposta alla realtà dei numeri: ormai nell'immaginario collettivo la Chiesa cattolica sembra la centrale internazionale di crimini contro i minori. È inevitabile porsi delle domande sul perché magistratura e media si concentrino sui casi di abusi nella Chiesa cattolica e ignorino tutto il resto. Le risposte possono essere diverse: sicuramente certi abusi fanno più rumore quando riguardano una istituzione religiosa e morale come la Chiesa; è vero anche che la Chiesa è l'unica istituzione ad aver affrontato direttamente il problema al suo interno e questo richiama l'attenzione. Ma nessuna risposta può essere soddisfacente se non si prende in considerazione il forte pregiudizio anti-cattolico che ormai domina l'Occidente e il cui unico scopo sembra essere quello di cancellare ogni traccia del cristianesimo, soprattutto nella sua versione cattolica. Il paradosso è che proprio la crisi provocata dall'emergenza degli abusi sessuali dei preti sta spingendo la Chiesa a consegnarsi allo Stato. Lo si è percepito con chiarezza anche dalla preparazione e dalle conclusioni del recente summit in Vaticano. Di fronte alla difficoltà a contrastare questo fenomeno, sembra che in molti sperino oggi che siano i giudici civili a fare piazza pulita di chi abusa dei minori. Lo stesso Papa Francesco ha ribadito l'impegno a «consegnare alla giustizia» chiunque sia responsabile di tali delitti. Se si intende la giustizia civile, si tratta di un'affermazione gravida di conseguenze. Un conto è il diritto delle vittime a rivolgersi alla magistratura, oltre che ai tribunali ecclesiastici, un altro conto è che sia la Chiesa stessa ad aprire le porte ai giudici. Intanto perché il rischio del giustizialismo è più che reale: il caso della recente condanna del cardinale australiano George Pell ne è un clamoroso esempio. È stato ritenuto colpevole di abusi, malgrado per il caso contestato non ci siano testimoni né riscontri oggettivi e, anzi, le circostanze in cui l'abuso sarebbe avvenuto sono più che improbabili. Il forte sentimento anti-cattolico che si respira in Australia, le guerre interne alla Chiesa e l'effettivo coinvolgimento dei preti in molti casi di abusi, hanno fatto sì che il cardinale facesse da capro espiatorio. Senza considerare che questo porta dritto alla messa in discussione del sacramento della Confessione e del segreto a cui il prete è tenuto. Anche un intellettuale progressista come Massimo Faggioli ha recentemente definito «calamitoso» questo sviluppo, questa resa della Chiesa alla «giustizia secolare». Significa accettare che sia lo Stato a interferire nella vita della Chiesa fino al punto che, come già avviene nella politica, potranno essere i giudici a interferire nella scelta dei vescovi e del Papa. Uno scenario da incubo è quello degli Stati Uniti dove già aleggia la possibilità che la magistratura ricorra alla legge antimafia per perseguire i preti responsabili di abusi. C'è però un altro aspetto più grave dal punto di vista della fede: questa resa alla giustizia terrena è anche conseguenza dell'incapacità di parlare della giustizia divina, di giudicare la realtà nella prospettiva della vita eterna, che pure dovrebbe essere il «core business» della Chiesa. Nel passato il sacerdote accompagnava il condannato a morte per salvare la sua anima, non faceva le manifestazioni contro la pena di morte. Però il massimo della giustizia è la conversione. Per questo non era raro una volta che i criminali trovassero riparo nei conventi, dove avevano la possibilità di convertirsi ed espiare le proprie colpe vivendo una vita di preghiera e penitenza. Oggi invece si profila la possibilità che siano proprio i conventi a consegnare i religiosi alle patrie galere. Per qualcuno sarà la vendetta agognata, ma per tutti è un di meno di speranza.

Afghanistan, dramma pedofilia. Così i bambini vengono abusati, scrive il 25 febbraio 2019 Luca Fortis su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Aslon Arfa è uno dei più importanti fotoreporter iraniani. Ha lavorato oltre che in Persia, in Afghanistan e Iraq, in moltissimi altri Paesi. Ha fatto degli splendidi reportage su temi molto complessi da raccontare, come la pedofilia, la droga e la guerra. Gli Occhi della Guerra lo ha incontrato a Teheran per una lunga intervista. Ecco la prima parte.

Su che progetti hai lavorato in Afghanistan?

«Il progetto più lungo è stato quello sui problemi che i minori affrontano nel paese, una parte è sulla pedofilia, una sulle malattie genetiche dovute ai matrimoni tra consanguinei e un’altra sull’istruzione».

La pedofilia è tollerata in Afghanistan?

«Purtroppo sì, i ricchi hanno la tradizione di comprare bambini e di travestirli da donne per farli danzare. Siccome le donne non possono ballare, usano i bambini per farlo, vestendoli da ballerine e poi li usano come schiavi sessuali. Di solito li prendono negli orfanotrofi o li comprano dalle famiglie molto povere. Usualmente hanno tra i nove e i sedici anni. Li chiamano i ragazzi senza la barba, appena gli cresce li abbandonano. Usano dire che le donne sono per fare figli e i ragazzini per il piacere sessuale. I religiosi fanno finta di non vedere, dovunque si vendono i video dei ragazzini che ballano. Addirittura molti funzionari governativi o politici possiedono piccoli harem di bambini».

Cosa gli accade quando diventano adolescenti?

«È difficile a dirsi, per quel poco che mi hanno concesso di parlare con loro o per i racconti che mi hanno fatto gli ex bambini ballerini, molti sembrano dare per scontato il loro destino. Non è stato affatto facile venire in contatto con loro. Appena la gente sa che sei un giornalista e che vuoi incontrarli, si impaurisce perché sa che vuoi mostrare negativamente quello che loro pretendono essere una tradizione. Trovare qualcuno che mi facesse accedere ai ragazzini e fotografarli, è stato difficilissimo. Tutti ammettono di conoscere il fenomeno, ma ti dicono che i bambini non si possono fotografare. Inoltre, tentano di sostenere che sia una tradizione portata avanti soprattutto dai talebani, ma non è affatto vero. Anzi mi sembra che siano soprattutto le fazioni del Nord a farlo».

Chi compra i bambini?

«Signori della guerra, Khan locali e persone ricche. Quello che mi permise di fotografare i suoi ragazzini era un narcotrafficante. So che qualche tempo dopo sono entrati nella sua casa e hanno ammazzato lui e tutta la sua famiglia. Non so se per ragioni di narcotraffico o altro. Devi essere comunque ricco per comprare i bambini, dargli da mangiare, vestirli e tutto il resto. Durante le feste li mostrano mentre ballano, come trofei».

La società accetta la pedofilia?

«Non si scandalizzano, non la denunciano».

La separazione uomo donna è la ragione dell’accettazione della pedofilia?

«Sicuramente sì, la separazione dei sessi, a detta di tutti, è una delle maggiori ragioni della pedofilia nel paese. Le prostitute per altro sono proibite. Inoltre, se sposi tante mogli, di certo non le puoi sfoggiare mentre ballano in una festa, sarebbe immorale nella loro cultura. Cosi come non sposerebbero mai qualcuno che considerano una prostituta».

Nei tuoi reportage sui problemi dei bambini li hai fotografati anche negli ospedali.

«In Afghanistan, si pensa che per colpa di matrimoni all’interno dello stesso nucleo familiare, i bambini hanno un’incidenza anomala di problemi di cuore. Esiste una malattia, piuttosto rara nel resto del mondo, che provoca lesioni al cuore. Per i medici è difficile parlarne perché viene vista come una denuncia contro i matrimoni imposti dalle famiglie. Prima i bambini venivano mandati in Iran per operarsi, altri in Tagikistan, o Pakistan. Ma ora esiste una Ong francese che ha un ottimo ambulatorio per operarli in Afghanistan. Anche la Mezzaluna Rossa si è attrezzata per farlo».

Hai fotografato i bambini anche nelle scuole.

«Sì, per dare un po’ di speranza. Per migliorare la situazione degli afghani l’educazione è fondamentale. Oggi per fortuna esistono alcune ottime scuole e università, private come statali. Le Ong hanno poi buoni progetti per i bambini».

Hai fatto anche reportage sulla guerra. Com’è la situazione nel Paese?

«Da quando gli americani hanno se ne sono andati, la situazione è peggiorata. Molta gente non li amava affatto, ma allo stesso tempo temeva che la situazione sarebbe peggiorata dopo la loro partenza, cosa che è accaduta puntualmente.  Da iraniano e capendo la lingua, mi sono sempre mosso senza grandi problemi, camminando per strada e parlando con le persone. Ultimamente ho cominciato però a percepire un netto peggioramento. La capacità di garantire la sicurezza delle forze afghane non è minimamente paragonabile a quella degli americani o delle forze internazionali. Tanto che il governo Afghano ha intavolato trattative con i talebani per trovare una soluzione pacifica».

Gli afghani si fidano di più di un reporter iraniano o di uno occidentale?

«Dipende, molti di loro si sono rifugiati in Iran durante la guerra e hanno dei sentimenti molto contraddittori nei confronti degli iraniani. Dipende un po’ da come sono stati trattati. Ma parlando la stessa lingua, soprattutto nel Nord, ci sono alcune facilitazioni. Però è anche vero che moltissimi afghani, come tanti iraniani, in realtà adorano gli occidentali».

È facile fare fotografie in Afghanistan?

«Fino ad un po’ di tempo fa non era troppo difficile lavorare con la gente, ma ultimamente il governo ha cominciato a creare problemi. Prima non serviva chiedere il permesso come giornalista, nessuno controllava. Ora iniziano a controllare che uno l’abbia. Io che non avevo mai avuto nessun problema sono stato arrestato e ho dovuto corrompere la polizia per farmi liberare».

Le donne si fanno fotografare?

«Le donne sono coperte, quindi le fotografie non sono un grande problema. Più di loro, bisogna avere paura degli uomini che le accompagnano».  

L'ipocrisia della castità mina la Chiesa, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 25/02/2019, su Il Giornale. Papa Francesco ha chiuso ieri il primo vertice della Chiesa mondiale sull'emergenza pedofilia, che il più delle volte nel clero coincide con orientamenti omosessuali. Non sono mancate, nel corso del dibattito, franchezza e autocritica ma le ricette per risolvere il problema appaiono teoriche e fumose. Le continue denunce di casi di violenza su minori che emergono dal passato lontano e vicino non lasciano dubbi sulla gravità e consistenza del fenomeno. Un miliardo e trecentomila fedeli di Sacra Romana Chiesa sparsi per il mondo hanno diritto non solo a chiarezza, ma anche all'assoluta certezza di essere al sicuro dentro la loro comunità a cui si affidano e a cui affidano i loro figli. La soluzione del problema non può essere soltanto giudiziaria. La magistratura interviene a monte di un reato e la punizione dei colpevoli in questi casi non può restituire dignità alle vittime. Il Papa si è impegnato a lavorare a valle, cioè nella selezione dei futuri preti e nei controlli sulla loro vita privata. Già, ma chi controlla chi, e soprattutto è possibile monitorare costantemente il comportamento di quasi un milione tra preti, diaconi e suore? Siamo onesti, non è possibile o quantomeno non è questa la strada che può dare certezze, perché le pulsioni sessuali deviate, come avviene nel mondo laico, non vengono soddisfatte alla luce del sole ma seguono tortuosi percorsi clandestini. E qui arriva il nocciolo del problema, cioè la rinuncia alla sessualità, ufficialmente «per scelta» ma in realtà «per legge», che inevitabilmente trova sfogo, per evitare scandali pubblici, in modo innaturale all'interno della comunità su cui si esercita un potere, grande o piccolo che sia. Bisognerebbe trovare il coraggio di chiedersi che senso abbia ancora ammesso che nei secoli passati l'abbia avuto imporre la castità a uomini e donne che se pur suore, preti, vescovi e cardinali, santi nel senso pieno della parola non sono né potrebbero mai esserlo. Mettere in concorrenza anche la più sincera delle vocazioni con la natura umana è nella stragrande maggioranza dei casi perdente e quindi pericoloso. Ogni anno il due per cento circa dei preti scioglie i voti per vivere liberamente la propria naturale sessualità. Probabilmente, ma è una mia supposizione, se il Papa liberassi tutti dal vincolo della castità, la Chiesa avrebbe qualche problema tecnico in più ma anche più pastori e meno lupi.

Gianluigi Nuzzi per “la Verità” il 25 febbraio 2019. Qualcosa si muove in uno dei settori più delicati, poco «moderni» e lontani dai riflettori della curia: la giustizia vaticana. L'ufficio della pubblica accusa, una sorta di Procura, amplia il suo organico, raddoppiando il numero dei promotori di giustizia. Al professor Gian Piero Milano, si aggiunge il professor Roberto Zanotti al quale andrà una specifica e delicata competenza sui reati di natura finanziaria che ancora oggi costituiscono i più gravi tra quelli consumati nel piccolo Stato. Per portare avanti queste indagini Zanotti avrà la collaborazione dell'ex comandante generale della Guardia di finanza (2012-2016), Saverio Capolupo, classe 1951, nato a Capriglia Irpina e uno tra i più fini conoscitori della legislazione in materia economico finanziaria, con buone relazioni con alcuni prelati nei sacri palazzi. Zanotti ha consolidato con Capolupo un rapporto solido soprattutto negli anni di condivisione alla scuola superiore di polizia tributaria di Ostia, dove Zanotti ha insegnato come docente e conferenziere e Capolupo ne era al vertice. Questo permetterà al nuovo promotore di formare una squadra di investigatori specializzati dal primo marzo quando il generale arriverà come consulente Oltretevere. Sono mosse che indicano una ristrutturazione dell'ufficio della pubblica accusa, ma anche della polizia giudiziaria visto che questa vedrà arricchirsi di nuovi elementi provenienti dai carabinieri e dalla Guardia di finanza, come annunciato dallo stesso Milano all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Sebbene lo Stato sia molto piccolo, circola una quantità enorme di denaro tra le offerte che si ricevono, gli investimenti che vengono compiuti e i lavori affidati. Pressoché assenti i reati contro la persona, quelli invece societari e contro la pubblica amministrazione che vengono scoperti lievitano ogni anno, grazie ai primi cambiamenti introdotti da Bergoglio subito dopo il suo arrivo. Ma sebbene Francesco sia arrivato ormai da sei anni, siamo ancora all'inizio. La giustizia vaticana mai è stata considerata come priorità da chi sta portando avanti la «rivoluzione dolce» in nome del Pontefice. Eppure, i dati che arrivano fanno capire quanto si potrebbe lavorare. Nel quinquennio 2013-2017, ad esempio, è stato disposto - secondo i dati diffusi dal promotore Milano - il sequestro complessivo di: euro 21,8 milioni di euro, 4,7 milioni di dollari, 1,4 milioni di dollari australiani. Somme sequestrate in indagini delle quali il Vaticano non diffonde nessuna informazione, cosa che non ha precedenti in alcun Paese del Vecchio continente. Dove, in genere, sulle inchieste si danno sempre informazioni affinché tutti sappiano di chi fidarsi e di chi no. Ma il piccolo Stato, da monarchia assoluta, fa scelte differenti. Anche sotto questo pontificato. Bisogna capire se queste manovre anticipano una più radicale riforma del pianeta della giustizia vaticana, che finora è sempre rimasto a velocità ridotta per soddisfare plurime esigenze: evitare scandali e sovraesposizione certo, ma anche affidarsi quasi unicamente alla giustizia divina. Una posizione di continuità con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che pare invece ora destinata a cambiare radicalmente con Francesco. Riorganizzazione degli uffici sì, ma anche riforma dei codici visto che quello in vigore, il codice Zanardelli, risale al 1889 e vien considerato - a ragion veduta - un tantino antiquato, per usare un eufemismo. Un altro punto importante riguarda proprio la gendarmeria retta da Domenico Mimmo Giani, ex sottoufficiale della finanza: uno degli ultimi laici ad avere ruoli di rilievo sia con Bergoglio, sia con Ratzinger. Puntualmente - e da sempre - si rincorrono le voci di un suo avvicendamento, cosa che si è verificata anche nelle ultime settimane con i boatos curiali che lo davano ormai sulla via del tramonto. Tanto che in segreteria di Stato si starebbero verificando i profili di tre suoi successori, due finanzieri e un ufficiale proveniente dall'Arma. Ma i ben informati fanno notare che la cosa sarebbe stridente con la recente nomina del suo vice, l'ingegnere Gianluca Gauzzi Broccoletti, considerato uomo di fiducia dello stesso Giani e segno di stima che la gerarchia vaticana ripone nell'attuale numero uno, comandante ormai dal 2006. È quindi ipotizzabile che anche questa volta Giani rimarrà al suo posto e che i rumor siano figli di scontri di potere che sempre si consumano nei diversi dicasteri.

Sodoma: un libro di inutili chiacchiere acide, scrive il 22 febbraio 2019 Paolo Gambi su Il Giornale. Sodoma. Un titolo altisonante per un libro che, uscito oggi, ha creato enormi aspettative in tutto il mondo. Le anticipazioni avevano fatto pensare a qualcosa di grande. Molti hanno immaginato potesse essere paragonato ai libri del nuovo genere reso popolare da Gianluigi Nuzzi, che con documenti e ricerca giornalistica svela ai lettori segreti vaticani.

Niente di tutto questo. Il libro (560 pagine, 24 euro) è una acida rilettura in chiave di ideologia gender di alcune vicende vaticane già note. Chi si aspettava prove sconvolgenti dell’omosessualità di questo o quel famoso prelato rimarrà a bocca asciutta. Così come chi sperava che questo libro potesse contribuire a dipanare lo scottante tema dell’omosessualità nel clero. Troverà invece ovunque l’opinione dell’autore, che mette etichette a chiunque, sulla base del proprio approccio ideologico. 135 volte viene usato un termine riconducibile a “omofobo” per accusare qualcuno, 110 volte il termine “destra”.

Insomma, una inutile noia mortalmente ideologica. La sua tesi preconcetta la esplicita chiaramente a pagina 53: “più un prelato è pro-gay, meno facilmente è gay; più un prelato è omofobo, più è probabilmente omosessuale”. Quindi ciò che si diverte a fare è sbeffeggiare gli esponenti ecclesiastici che si sono opposti al matrimonio omosessuale e all’ideologia che ci sta dietro, alludendo continuamente ad una loro non dimostrata omosessualità. In una visione manichea in cui tutto ruota intorno alle inclinazioni sessuali. Per capire il metodo utilizzato basta prendere uno dei primi capitoli, quello dedicato al Cardinale Burke. 29 pagine di acredine illeggibile. Senza svelare le fonti che lo definirebbero così gli appioppa termini come “pazza”, “strega cattiva del Midwest”, persona con “qualche problema di salute mentale”, “settario”, “vecchia signora vendicativa”. Per il fatto che usa gli abiti ecclesiastici propri del suo ruolo lo definisce “drama queen”, “signora vichinga”, “stravagante”, “girly”, “tomboy”, “sissy”, “contraddizione di termini”, persino “travestito” e “drag queen”. Racconta con dovizia di particolari casa sua (persino il bagno) definendola gratuitamente “garçonnière”. Alla fine neppure lo incontra, ma conclude: “Il fatto che questo prelato intransigente condurrebbe una doppia vita non è dimostrato. Tuttavia il Papa sa per esperienza (…) che è ugualmente assurdo pensare che un uomo sia virtuoso per il suo moralismo e credere alla castità di un cardinale talmente omofobo”. Insomma, un’enorme occasione mancata di fare passi avanti nel contraddittorio rapporto fra clero e omosessualità.

Il libro che imbarazza il Vaticano: "Quella Chiesa omofoba ma abitata da sacerdoti omosessuali". In uscita "Sodoma", del giornalista e sociologo francese Fréderic Martél: descrive una comunità che si pronuncia contro le persone Lgbt, le unioni civili e le adozioni gay, ma che poi praticherebbe al suo interno comportamenti omosessuali, scrive Paolo Rodari il 14 febbraio 2019 su La Repubblica. Esce nelle prossime ore Sodoma(Feltrinelli), un libro del sociologo e giornalista francese Fréderic Martél che descrive il Vaticano come la "più grande comunità gay del mondo". Il libro imbarazza la Santa Sede, che attende le sue "rivelazioni" con apprensione. Per Martél quella Chiesa che più si distingue per la sua lotta contro le comunità Lgbt, le unioni civili e le adozioni gay, in realtà praticherebbe al suo interno comportamenti omosessuali, portando avanti nei fatti una doppia vita che con il voto del celibato ha poco a che fare. In sostanza, scrive il giornalista, si tratta di una Chiesa "omofoba", e insieme abitata da sacerdoti che praticano diffusamente relazioni omosessuali: "Il Vaticano - scrive - ha una delle più grandi comunità omosessuali al mondo e dubito che perfino a Castro, noto quartiere gay di San Francisco ormai molto etero, ce ne siano altrettanti!". Il libro si apre con una telefonata di Papa Francesco a Francesco Lepore, ex sacerdote per lungo tempo in servizio in Vaticano che "come con una bottiglia gettata in mare per la disperazione" ha scritto a Bergoglio per raccontargli "la sua storia di sacerdote omosessuale" che a un certo punto ha deciso di lasciare. Scrive: "Era stanco. Voleva ritrovare la propria coerenza e uscire dall'ipocrisia. Con quel gesto, Lepore ha deciso di bruciare le sue navi". Papa Bergoglio gli dice di essere colpito dalla sua sincerità, dal "suo coraggio". "In questo momento - afferma - non so cosa potrò fare per aiutarla, ma vorrei fare qualcosa". Per Martél ci vuole coraggio per fare coming out all'interno della Santa Sede: "Per stare in Vaticano è meglio rispettare un codice, il 'codice scheletro nell'armadio', che consiste nel tollerare l'omosessualità di sacerdoti e vescovi, se necessario beneficiandone, continuando tuttavia a mantenere il segreto. La tolleranza va di pari passo con la discrezione. E, come dice Al Pacino nel Padrino, non si deve mai criticare o lasciare la propria 'famiglia': "Don't ever take sides against the family". Il libro è un susseguirsi di notizie: si parla di un arcivescovo e di cardinale che hanno avuto una relazione omosessuale con un prete anglicano e un prete italiano. Di un cardinale che ha ricoperto un ruolo importante in Curia che sarebbe stato trasferito nel suo Paese d'origine dopo uno scandalo che coinvolgeva soldi e una giovane Guardia Svizzera. Una delle affermazioni più esplosive del libro riguarda il defunto cardinale colombiano Alfonso López Trujillo. Il porporato, ex presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, che è stato per molti anni il principale ostacolo alla canonizzazione di Oscar Romero, è presentato come un difensore della dottrina della Chiesa sulla contraccezione e insieme come una persona dedita a relazioni omosessuali, con seminaristi e prostituti portati in un appartamento segreto a sua completa disposizione. Martél spiega di aver scritto il libro basandosi "su un gran numero di fonti". Durante gli oltre quattro anni "di inchiesta sul campo, sono state intervistate quasi 1500 persone in Vaticano e in trenta paesi diversi; tra queste figurano 41 cardinali, 52 vescovi e monsignori, 45 nunzi apostolici e ambasciatori stranieri e oltre 200 sacerdoti e seminaristi. Tutte queste interviste sono state realizzate sul campo (di persona, nessuna per telefono o via e-mail). A queste fonti di prima mano si aggiunge una ricca bibliografia di oltre mille titoli, tra libri e articoli. Infine, mi sono avvalso di una équipe di 80 “researchers”, corrispondenti, consulenti, mediatori e traduttori impegnati per svolgere al meglio le ricerche necessarie per il libro condotte in questi trenta paesi". Il giornalista francese parla anche della politica di rifiuto dell'uso del preservativo durante il pontificato di Wojtyla, una politica che è stata proposta in particolare da una serie di cardinali, alcuni dei quali omosessuali attivi. E scrive anche di Benedetto XVI, che durante il viaggio in Messico e Cuba, poco prima delle dimissioni, ha compreso nel profondo la grandezza degli scandali della pedofilia e dell'omosessualità all'interno della Chiesa e anche per questo si sarebbe infine dimesso.

Bomba Gay sul Vaticano. “Sodoma”, il libro di Frederic Martel apre scenari inquietanti su Papa Bergoglio e sulla Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Il più grave scandalo del millennio dopo i roghi per gli eretici e le streghe. Carlo Franza il 30 giugno 2019 su Il Giornale. Il titolo è “Sodoma”,  incombe come una morsa  e un veleno mortifero sul Vaticano  e su Papa Bergoglio,  ed anche su  chiese e conventi  disseminati nel mondo. Papi, cardinali, vescovi, preti  e frati sono avvolti nella nube dello stordimento del piacere gay. La Chiesa Contemporanea, Papa Bergoglio e la sua gerarchia, ma anche la truppa pretesca,   sono entrati nell’indagine durata quattro  anni di ricerche dello scrittore francese  Frédéric Martel, giornalista e sociologo,  con il libro “Sodoma”, saggio-inchiesta  da far tremare dalle fondamenta la Chiesa Cattolica di Cristo Gesù, che ha in San Pietro a Roma e nel Vaticano la centrale dei Vangeli e della fede.  E’ stato finalmente rotto l’ ultimo tabù del mondo oltretevere (Vaticano), vale a dire  l’omosessualità.  Per la verità,  alla fine della lettura, come un film mi  sono passate nella mente  le migliaia tra    preti, frati, cardinali,  vescovi  e monsignori gay  che ho avuto modo di conoscere personalmente nei miei convegni di studioso in giro per  il mondo. Molti di questi erano proprio squallide figure. Molti di questi la Chiesa li ha fatti  anche santi o li  sta santificando.    Molti fedeli sussurravano,  si sapeva eccome di tutto ciò, la falsità era all’ordine del giorno,  ma il bubbone è scoppiato anche grazie al Nunzio Apostolico, il vescovo Carlo Maria Viganò  che ha posto in crisi il Papato di Bergoglio  visto che anche lui sapeva  ma non ha fatto  e anzi spesso ha coperto i suoi amici. Torniamo al Vaticano, alla curia vaticana, visto che Martel dice che qui  emerge una situazione ipotizzata da molti, ma mai certificata, e cioè che  l’ 80% dei sacerdoti che lavorano in curia sarebbe omosessuale.  La Chiesa nella sua  gerarchia  è contraddistinta dai gay perché lì trovano rifugio, protezione, comodità. Pensate che Frederic  Martel ha costituito uno staff con oltre 70  collaboratori nei tanti Paesi in cui l’ indagine si spinge, dal Cile all’ Italia, dal Messico alla Francia, da Cuba alla Spagna, andando di persona a intervistare 41 cardinali, 52 vescovi, 45 nunzi apostolici, persino qualche decina di guardie svizzere per un totale di oltre 1.500 persone. E’ così certo che la regia di tutto è proprio qui, tutto ciò riflette, segna e condiziona le scelte del Vaticano sia nelle sue linee evangeliche e  dottrinali ( la Chiesa di Bergoglio insegna con i Cardinali Parolin, Becciu, Bassetti, Bagnasco, Galantino,  ecc. ), ed anche nelle mosse economiche e  negli affari. L’ affare della  omosessualità  è proprio al centro della ragnatela che avvolge vischiosamente  i sacri palazzi e i Dicasteri Vaticani. Questa la tesi di Frederic Martel chiaramente illustrata nel libro-inchiesta  che deve entrare nelle case di tutti i cattolici del mondo. 

Un lavoro sterminato quello di Frederic Martel, che mette in luce pagine certe, vere, disgustose, mette il dito nella piaga ulcerosa e incancrenita del sesso  uscito finalmente dai confessionali, dalle alcove e dalle saune( a Roma una sauna gay è  in un palazzo di proprietà vaticana) di tutto il mondo;   badate bene che tutto ciò è reso in modo fin troppo percepibile  proprio perché  Frederic Martel è  gay dichiarato, ben conosce  la comunità omosessuale e negli ultimi anni, vale a dire i quattro di lavoro-stesura del libro,  ha trascorso sempre una settimana al mese a Roma (anche in Vaticano) per intrecciare rapporti con le sue fonti. Il libro-inchiesta( Bloomsbury editore britannico),già in libreria dallo scorso febbraio, arrivato in 20 Paesi e tradotto in otto lingue, oramai è un bestseller in oltre 15 Paesi; un libro di quasi 600 pagine (in Italia edito da Feltrinelli, traduzione di Michele Zurlo) che abbraccia cinque pontificati: da Paolo VI fino a Benedetto XVI e Papa Bergoglio.  Ci si domanda nella chiesa cattolica perché quell’intellettuale che è stato Papa Benedetto XI si è dimesso; è proprio in questa luce che va letta la sua rinuncia. Papa Benedetto XI non riusciva più a reggere quelli che lui chiamava “lupi”.  Pongo ai lettori una disamina  o meglio una riflessione che può aiutare in tal senso. Vi siete mai chiesti perché per la lista della gran parte dei Vescovi Cattolici  nominati  dalla Congregazione dei Vescovi a una sede vescovile in giro per il mondo si attinge sempre a direttori  di seminari? Provate a spulciare le biografie di Cardinali e Vescovi e vedrete che erano stati Direttori di Seminari diocesani, Regionali e Interregionali. E’ nei seminari di tutto il mondo che  si  inizia a vivere l’omosessualità, qui inizia l’apprendistato omosessuale.  Papa Benedetto XVI ha persino riscontrato che un simile episcopato attuò una selezione dei candidati al punto da determinare il sorgere nei seminari di “club di omosessuali”, non solo: accadde che “la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente”. Il rettore di un importante seminario era uso proiettare film pornografici ai suoi allievi. Saputa la cosa, è stato fatto vescovo, ha sostenuto  il Papa emerito. C’è stata insomma una semina di preti aperti alle più diverse esperienze sessuali. E per darvi un’idea più precisa ecco il racconto di un seminarista Denis Lemarca: “Manipola il mio sesso. Mi masturba.  Entrato a 23 anni nel Seminario della Missione di Francia (1987), Denis Lemarca -uno dei primi accusatori- racconta il suo primo incontro con lo psicologo della Chiesa, soprannome con cui è conosciuto in Francia mons. Tony Anatrella della Diocesi di Parigi,  “Io sono disteso sul lettino, nudo. Sono sorpreso dalla leggerezza del massaggio. È più che altro una carezza su tutta la parte anteriore del corpo che gira delicatamente intorno alla zona genitale. Poi Mons. Tony Anatrella mi chiede di tenere la sua mano e di guidarla. Io guido allora la sua mano, prima sulle zone che lui ha toccato e fin dove la lunghezza del mio braccio lo permette. La sua mano non si ritrae quando l’avvicino al mio sesso. Mi invita allora a guidare la sua mano sulle zone dove vi sono ancora delle “tensioni”. Ho un’erezione. Quando guido la sua mano sul mio sesso, egli solleva le dita per sfiorarlo. Poi vengo invitato a lasciar andare la sua mano da sola. Egli allora manipola il mio sesso. Mi masturba. Poi mi chiede se voglio godere. Io dico: No. Così si chiude la prima seduta di “corporeo”. Mi trovo in una specie di siderazione. Non ho memoria di ciò che ho potuto dire all’uscita di questa seduta. Alla seconda seduta di “corporeo” ho goduto. È la prima volta che godo in presenza di un altro essere umano. Classe 1941, Mons. Tony Anatrella, il sacerdote è accusato d’aver abusato sessualmente di giovani uomini nel corso di sedute volte alla guarigione degli stessi dall’omosessualità secondo il metodo delle terapie riparative di Joseph Nicolosi. Ma il tutto si sarebbe tradotto in palpeggiamenti e induzione alla masturbazione reciproca”.  Una situazione similare è accaduta su un trentenne di Matino (Lecce) da parte di un sacerdote di Casarano(Le); e di casi  se ne possono  raccontare a centinaia.

Sulla Chiesa Cattolica di tutto  Novecento e specie degli ultimi decenni,  Martel intervista e propone i ricordi deflagranti degli amanti di diversi cardinali ormai defunti, indicandoli apertamente come omosessuali. I nomi di vescovi e porporati sono di quelli di rilievo. Il più conosciuto al grande pubblico è di certo quello dell’ arcivescovo Paul Casimir Marcinkus, classe 1929, americano di Cicero (Chicago), presidente dello Ior negli anni di Licio Gelli, Michele Sindona e Roberto Calvi. Molti di questi preti e vescovi gay  hanno avuto contatti con escort tramite una chat  denominata “Reverendis”.  Martel dice  di averne incontrato gli amanti di questi Vescovi, Cardinali e Monsignori, tanto da descriverne i festini gay ai quali partecipava, o i fugaci incontri con amanti in divisa ovvero  guardie svizzere ben remunerate, su una Peugeot 504 grigio metallizzato. Anche alcuni cardinali dell’ epoca sarebbero  stati omosessuali, figure di rilievo nella gerarchia vaticana: dal cardinale  Pio Laghi (secondo note della Cia declassificate e dello stesso autore) al cardinale  Sebastiano Baggio e, ancora, diversi sacerdoti e monsignori molto vicini a Giovanni Paolo II. Nel libro si incontra un altro personaggio di rilievo, l’ ex Segretario di Stato Angelo Sodano, tra le figure centrali del saggio al quale sono dedicate una cinquantina di pagine. Sodanoavrebbe avuto un  intensissimo rapporto con il dittatore Augusto Pinochet, tanto che quest’ ultimo  è riuscito  a far infiltrare alcuni agenti segreti cileni nel suo staff, agenti – svela sempre Martel – che erano omosessuali e che trovarono un’ importante accoglienza da parte di Sodano. Stando all’articolo del settimanale cattolico The Tablet, Martel sarebbe convinto che il defunto arcivescovo colombiano Alfonso López Trujillo, uno dei cardinali elettori al conclave del 2005, fosse uno strenuo difensore dell’omosessualità e dell’uso di contraccettivi nei rapporti gay; secondo il giornalista, numerosi sacerdoti avrebbero accettato la propria sessualità, preferendo tenere una condotta discreta, al contrario di altri “coinvolti in incontri ad alto rischio”( vedi il caso recente dell’escort Francesco Mangiacapra e delle sue rivelazioni riguardanti diocesi di Campania, Puglia, Basilicata e Calabria).

Sulla storia della Chiesa di oggi bisogna partire dalla dimensione omosessuale, proprio per decifrare  gran parte delle vicende: dal rifiuto del preservativo all’ obbligo del celibato sacerdotale; le vicende Vatileaks I e II; fino alle dimissioni di Benedetto XVI e alla guerra attuale a papa Bergoglio. Martel fotografa la curia vaticana di oggi, dove non è propriamente corretto parlare di  una “lobby gay”, per il semplice fatto che la maggior parte di preti, monsignori  e vescovi appartiene a quella che in gergo popolare  viene indicata come “la parrocchia”. Si è o non si è  della parrocchia  gay, per loro  che sono clero   è normale ed  ammesso,  senza dare troppa visibilità, ma tutto con  discrezione e segretezza; quando invece tutto non lo è. In Vaticano viaggia un  linguaggio al femminile circa i nomignoli addossati a gran parte della comunità  curiale, vale a dire  vescovi e cardinali, ve ne cito alcuni, Jessica, la Vipera, la Beddazza, la strega cattiva del Midwest e altri  e ancora. Lo squallore non ha confini. E poi pretendono il baciamano di Principi della Chiesa. Ma mi fermo qui per rispetto al Cristo che morì in Croce, vilipeso, ingiuriato, calunniato, frustato.

Il libro di Frederic  Martel ha aperto una finestra non piccola, fa guardare dentro e fuori il Vaticano, fa guardare nelle diocesi di tutto il mondo, nei seminari,  fa luce e li mette sotto i riflettori i predatori fra tanti cardinali e vescovi, come il Cardinale Theodore Edgar McCarrick di New York. Ci aveva già provato il Nunzio monsignor Carlo Maria Viganò a denunciare i “codici” omosessuali in curia, ma non creduto da Papa Bergoglio, anzi lo aveva fatto già ai tempi di Papa Ratzinger nel 2011, nero su bianco, vedendosi respinto dalla Curia Romana. E lo è stato anche con Papa Bergoglio. Anzi sapete cosa risponde Papa Bergoglio  a proposito dei preti e vescovi  gay, da irritare  la parte più conservatrice del clero? Nel  dicembre 2018 il pontefice ha precisato come “nella nostra società sembra che l’omosessualità sia di moda e questa mentalità, in qualche modo, può influenzare anche la Chiesa”. Questo è il Vangelo secondo Bergoglio che ha così aperto un grave scisma nella Chiesa di Roma. Carlo Franza

Gay in Vaticano: «Così Sodoma racconta la mia storia». Protagonista di un capitolo del testo scandalo del giornalista e sociologo francese Fréderic Martél. Dall’entrata in Seminario a Benevento appena 15enne, consapevole d’essere omosessuale al giorno in cui ha smesso di essere un sacerdote, scrive Francesco Lepore il 14 febbraio 2019 su L'Espresso. «Dietro la rigidità c’è sempre qualcosa di nascosto. In tanti casi una doppia vita». Queste parole, pronunciate da Francesco durante l’omelia mattutina del 24 ottobre 2016 a Santa Marta, sono da tenere a mente nel dipanarsi (560 pagine) dell’ultimo libro-inchiesta di Frédéric Martel. Tradotto in otto lingue, Sodoma sarà nelle librerie di 20 Paesi a partire dal 21 febbraio. Una data, questa, non casuale, dal momento che proprio a partire da quel giorno (fino al 24) il Papa incontrerà in Vaticano i presidenti delle Conferenze episcopali per parlare di prevenzione di abusi su minori e adulti vulnerabili. Se nel volume tale tema resta propriamente in sordina, a essere preponderante, anzi primario, in esso è quello dell’omosessualità del clero. Che, guarda caso, rispetto agli abusi è stata posta in un rapporto di causa-effetto proprio dal ben noto dossier Viganò, alla cui diffusione mediatica, e non ai contenuti, si deve la successiva convocazione dell’imminente summit vaticano. La lettura “omosessualista” dell’ex nunzio Viganò e di tanti prelati, ascrivibili all’area del conservatorismo ecclesiale, non collima infatti con quella di Bergoglio, che ravvisa invece la causa degli abusi nel clericalismo. Ed è il clericalismo l’atteggiamento ricorrente che l’autore ha riscontrato non solo in alcuni cardinali ma anche in vescovi e sacerdoti, con cui è entrato in contatto nel corso di quattro anni. Un clericalismo, si badi bene, non correlato, nell’indagine del sociologo francese, alla pedofilia. Ma, bensì, alla doppia vita omosessuale di semplici sacerdoti come di prelati in un meccanismo di relazioni e connessioni capaci d’influire sulla gestione del potere ecclesiastico. A confrontarsi con Martel anche ex-sacerdoti, compresi quelli una volta operanti in Vaticano, spinti da un’idiosincrasia verso il doppiopesismo dei superiori gerarchici d’un tempo e l’omofobia di non pochi d’essi. Tra quest’ultimi c’è anche chi scrive. La mia vicenda, sia pure con talune inesattezze, apre il primo capitolo del libro. In esso si racconta di una telefonata fattami da Bergoglio il 15 ottobre 2013. Il papa, che aveva ricevuto, il giorno prima, una mia lettera per le mani del card. Raffaele Farina (già mio superiore durante il servizio presso la Biblioteca Apostolica Vaticana), volle chiamarmi per esprimere «stima e commozione» per il mio «coraggio e coerenza» nell’aver deciso d’abbandonare il ministero sacerdotale nel 2006. Decisione presa per vivere liberamente la mia omosessualità. Nel capitolo è riassunta la mia storia: dall’entrata in Seminario a Benevento appena 15enne, consapevole d’essere gay ma fortemente intenzionato, su consiglio di confessori e direttore spirituale, a incamminarmi verso il sacerdozio visto come cammino di redenzione da una condizione considerata peccaminosa e inaccettabile, all’ordinazione presbiterale all’età di 24 anni. Poi, l’arrivo a Roma per il biennio di specialistica in teologia dommatica presso la Pontificia dell’Università della Santa Croce e il fare i conti con una realtà a lungo esorcizzata a contatto con un mondo ecclesiastico romano del tutto differente da quello di provincia, fortemente improntato a un rigore ascetico e a un conservatorismo dottrinario. Quindi il primo innamoramento con un sacerdore regolare e la prima crisi nel 2002 con l’intenzione d’abbandonare il ministero, spinto anche dal rimorso di non osservare l’obbligo celibatario assunto. Nel 2003, infine, la chiamata in Segreteria di Stato come componente della Sezione Lettere Latine, la dimora presso la Domus Sanctae Marthae, la collaborazione alla pagina culturale de L’Osservatore Romano. Alle invidie, che sempre s’innescano in certi ambienti, offrii indubbiamente un supporto con un atteggiamento non solo strafottente ma incauto. Anche perché la crisi era tutt’altro che superata. Look curato e spesso “borghese” a differenza dell’abito talare sempre precedentemente indossato, abbandono graduale della celebrazione della Messa (ma non perché avessi perso all’epoca la fede, come mi si accusò, ma semplicemente perché non riuscivo a perdonarmi), un nuovo innamoramento. Le voci sulla mia omosessualità furono così ingigantite che i superiori della Segreteria di Stato obbligarono il mio vescovo a richiamarmi in diocesi per affidarmi un incarico di rilievo. Obbligo da questi disatteso in quanto da lui ritenuto una palese ingiustizia a fronte di situazioni notoriamente scandalose e minimizzate. Intervenne Mario Agnes, l’allora direttore de L’Osservatore Romano, presso Stanisław Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II (oggi cardinale arcivescovo di Cracovia), e si giunse a una soluzione di compromesso: non era possibile per me restare più in Segreteria di Stato ma era disposto il trasferimento alla contigua Biblioteca Apostolica Vaticana. Qui fui nominato segretario degli allora cardinale bibliotecario, Jean-Louis Tauran, e prefetto Raffale Farina. Ma oramai era sempre più maturata in me la convinzione di abbandonare il sacerdozio: volevo “uscire dall’armadio” senza contare il mio aperto dissenso dalle posizioni magisteriali su determinati aspetti. Persisteva però in me la paura di fare da solo questo passo, preoccupato soprattutto d’arrecare un dolore ai miei genitori. Ho fatto così in modo d’essere condotto a tale decisione. Ecco come lo stesso Martel la racconta nella parte finale del 1° capitolo, non omettendo di ricordare due importanti conferme: «Secondo la versione che Lepore mi fornisce (confermatami dai cardinali Jean-Louis Tauran e Farina), ha scelto “deliberatamente” di consultare molti siti gay sul suo computer dal Vaticano e di lasciare aperta la sessione, con articoli e siti compromettenti. “Sapevo molto bene che tutti i computer in Vaticano erano sotto stretto controllo e che sarei stato rapidamente colto in flagrante. Ed è andata così. Sono stato convocato e le cose sono andate molto velocemente: non c’è stato processo, non c’è stata punizione. Mi è stato chiesto di tornare nella mia diocesi e di occupare un posto importante. Ho rifiutato.”  L’incidente è stato preso sul serio; meritava questo trattamento agli occhi del Vaticano. Francesco Lepore è stato allora ricevuto dal cardinale Tauran, “che era estremamente triste per quanto era appena accaduto”: “Tauran mi ha gentilmente rimproverato di essere stato ingenuo, di non sapere che ‘il Vaticano aveva gli occhi dappertutto’ e mi ha detto che avrei dovuto essere più prudente. Non mi ha accusato di essere gay, ma solo di essere stato individuato! Le cose sono finite così. Pochi giorni dopo, ho lasciato il Vaticano; e ho definitivamente smesso di essere un sacerdote».

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” l'8 aprile 2019. Sodoma, il discusso saggio-inchiesta del sociologo e attivista lgbt Frédéric Martel, può essere letto solo in Quaresima. Per arrivare alla fine delle 600 pagine occorre infatti un forte esercizio di quelle virtù, a cominciare dalla pazienza, con le quali un bravo cristiano tenta di prepararsi alla Pasqua. Tuttavia, chiusa l'ultima pagina, elaborati il disgusto e la noia, alcune perle appaiono evidenti. La prima è la trepidante simpatia che l'autore manifesta per una lobby di prelati gay quaranta-sessantenni incontrati in Vaticano e in numerose curie e nunziature del mondo, palesemente todopoderosos (tutti potenti) in questo pontificato ispanofono. Di contro, la radicale antipatia per un'altra lobby di ecclesiastici gay ormai ultrasessantenni e conservatori, todopoderos ai tempi in cui i papi parlavano polacco o tedesco. In questa ormai isterica battaglia campale, Martel descrive i primi come tutti progressisti, intelligenti, brillanti, colti, dinamici, efficienti, ma modestamente retribuiti. Eppure dall'annuario pontificio risultano titolari di due, tre, quattro benefici, per un ammontare mensile anche superiore ai diecimila euro, ovviamente esentasse. E sono loro che, per illudere papa Francesco che stanno facendo economie, in meno di tre anni hanno licenziato più di 150 dipendenti vaticani, padri di famiglia. Ma la perla più preoccupante è quell'archivio riservato della segreteria di Stato da cui fuoriescono le notizie che il pontefice regolarmente chiede, come investigatio praevia, quando deve procedere a una nomina. Ed è facile immaginare che dal gaio letamaio che il libro di Martel così plasticamente descrive, provengano anche le informazioni che si depositano nei fascicoli personali registrati nell'archivio della segreteria di Stato. Fa paura pensare cosa vi abbiano potuto annotare, a danno dei migliori e beneficio dei peggiori, quei personaggi che prima di atterrare a compiti apicali in Vaticano e nelle nunziature di Cile, Stati Uniti, Francia, Italia, Messico (tanto per limitarsi alla cronaca) e di molti altri Paesi, hanno avuto modo di stilare liste di proscrizione in base ai loro gusti sessuali o ai loro interessi personali. È lo stesso Martel a definire l'archivio della segreteria di Stato «non l' inferno, ma il diavolo stesso!». La frase è attribuita a un anonimo monsignore. In realtà è del teologo Yves Congar, scritta nel suo Journal d'un théologien il diario redatto per narrare le infamità subite dalla curia romana tra il 1946 e il 1956. Allora in Vaticano abitavano giganti. Ora vi abitano quelli che hanno accolto, ospitato, coccolato Fréderic Martel.

L'ombra dei pedofili e le strane carriere dei porporati gay tra le mura vaticane. Dopo il caso McCarrick Bergoglio rimanda la resa dei conti al vertice di febbraio, scrive Riccardo Cascioli, Domenica 20/01/2019, su "Il Giornale". Non basterà a papa Francesco la ormai certa riduzione allo stato laicale dell'ex cardinale statunitense Theodore McCarrick per calmare le acque e gestire a suo modo il vertice sugli abusi sessuali del clero convocato in Vaticano dal 21 al 24 febbraio prossimo, con la presenza dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Come si ricorderà, la vicenda McCarrick un abusatore seriale - ha provocato un vero e proprio terremoto nella Chiesa cattolica, che dagli Stati Uniti è arrivato in Vaticano, fino a Santa Marta, residenza del Pontefice. Il problema non sono solo gli abusi sessuali, principalmente su seminaristi, che risalgono già agli anni '80 e proseguiti per oltre venti anni. Ciò che maggiormente inquieta è come sia stato possibile che malgrado ci fossero denunce e voci insistenti sulla sua omosessualità attiva e sugli abusi, abbia potuto fare una brillantissima carriera ecclesiastica essendo stato promosso fino all'arcidiocesi di Washington e addirittura nominato cardinale, ancora al tempo di san Giovanni Paolo II. È anche il tema dell'ormai famosa lettera-dossier pubblicata nell'agosto scorso dall'ex nunzio negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, che ha chiamato in causa diversi esponenti della Curia Romana e lo stesso papa Francesco che, pur a conoscenza dei dossier su McCarrick, gli ha dato importanti incarichi personali per conto della Santa Sede. Lo scorso ottobre, poi, papa Francesco ha accettato le dimissioni di McCarrick dal cardinalato ma solo dopo che era emersa la denuncia riguardo agli abusi su un minorenne. E ora, dopo un processo-lampo alla Congregazione per la Dottrina della Fede, si attende che il Papa lo riduca allo stato laicale. Ma ciò che è apparso chiaro in questi mesi è che papa Francesco vorrebbe chiudere qui il capitolo McCarrick e poi passare semplicemente a decidere le misure per evitare che simili cose accadano in futuro. Ha infatti chiuso l'archivio vaticano ai vescovi americani che volevano una inchiesta radicale, rimandando ogni eventuale iniziativa a dopo il vertice di febbraio. E anche nella lettera ai vescovi Usa dello scorso 1 gennaio proprio sul tema degli abusi sessuali, è evidente il tentativo di confinare ai soli Stati Uniti il problema McCarrick. Il motivo è comprensibile: ci sono vescovi e cardinali strettamente legati a McCarrick che risultano nel circolo degli amici di papa Francesco. A cominciare da Donald Wuerl, chiamato a suggerire i candidati all'episcopato negli Stati Uniti al posto del silurato cardinale Raymond Burke. Wuerl, successore di McCarrick a Washington, ne ha coperto chiaramente le responsabilità in tutti questi anni e proprio nei giorni scorsi sono emerse nuove testimonianze che lo inchiodano. Ma c'è anche il cardinale Kevin Farrell, altro pupillo di McCarrick, che oltre alla porpora ha avuto in «dono» a Roma la guida del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Anche lui mantenuto al suo posto malgrado l'assoluta inattendibilità della reclamata ignoranza sul «vizietto» di McCarrick. Farrell peraltro è anche responsabile della «svolta omosessuale» all'ultimo Incontro mondiale della Famiglia a Dublino, lo scorso agosto, quando a parlare è stato invitato il gesuita americano padre James Martin, che ha lanciato una crociata per inserire l'agenda Lgbt nella Chiesa. Proprio la questione dell'omosessualità nel clero sta infiammando la preparazione del vertice sugli abusi. È evidente che papa Francesco non ne vuole parlare in alcun modo, e anzi ha più volte affermato che la causa degli abusi sessuali va ricercata nel clericalismo, in pratica un abuso di potere. E alcuni suoi collaboratori si sono spinti perfino a negare l'evidenza, ovvero che McCarrick abbia avuto relazioni omosessuali. Sicuramente una pubblica critica che leghi gli abusi sessuali del clero all'omosessualità sarebbe molto impopolare agli occhi del «mondo». Papa Francesco anche recentemente ha detto che chi ha tendenze omosessuali non dovrebbe diventare prete, ma lì si è fermato. C'è però il fondato timore che il vertice di febbraio sarà usato da chi vorrebbe legittimare l'omosessualità anche nel clero: «Si può essere bravi preti anche se gay», è il ritornello di moda tra le correnti più progressiste, ma sicuramente ci sono cardinali influenti, come il tedesco Reinhard Marx, l'austriaco Christoph Schömborn, lo statunitense Blaise Cupich, che non hanno nulla da obiettare. Certo, evitare di parlare di un problema omosessualità nel clero è il primo passo per una sua legittimazione. Per questo nelle ultime settimane ci sono stati diversi interventi di cardinali che hanno criticato l'approccio di papa Francesco al tema abusi. Tra questi i due cardinali superstiti dei Dubia, Walter Brandmüller e Raymond Burke. Il primo ha ricordato ciò che anche un dettagliato rapporto negli Stati Uniti ha messo in evidenza: l'80% degli abusi sessuali non sono commessi su bambini ma su adolescenti maschi. Vuol dire che il legame tra omosessualità e abusi sessuali è «statisticamente provato». Ciò non vuol dire che tutti i preti con tendenze omosessuali siano potenzialmente abusatori, ha sottolineato Burke, ma è un fatto che la stragrande maggioranza di questi abusi vengano da una «debolezza morale» che non c'entra nulla con il clericalismo. Ancora più chiaro l'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gerhard Müller che, in una lunga dichiarazione, ha affermato tra l'altro che «balbettare di clericalismo o di strutture della Chiesa come causa, è un insulto alle molte vittime degli abusi sessuali». Ad alzare ulteriormente la temperatura, in questi giorni sono scese in campo anche delle associazioni di laici, che hanno lanciato una petizione online da presentare ai vescovi che parteciperanno al vertice vaticano. Il titolo non lascia spazio ad equivoci: «Fermiamo la rete omosessuale nella Chiesa». È stata lanciata da una associazione svizzera, Pro Ecclesia, sostenuta dal sito americano LifeSiteNews, ma immediatamente rilanciata in tutte le lingue (in italiano da La Nuova Bussola Quotidiana). Chiede una serie di misure, tra cui la reintroduzione di un articolo del Codice di Diritto Canonico del 1917 che stabiliva sanzioni dure, fino alla riduzione allo stato laicale, per i chierici responsabili di atti omosessuali. Improbabile che il Papa acconsenta, ma gli sarà comunque difficile lasciare il tema omosessualità fuori dalla porta del vertice.

·        Il Vaticano e gli scandali.

Da liberoquotidiano.it il 29 ottobre 2019. I numerosi scandali stanno minando le basi della Chiesa. A darne conferma è Vittorio Messori, intellettuale molto vicino a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: "L'impressione è che Bergoglio metta le mani su quello che un Papa dovrebbe invece difendere. La dottrina così come è stata elaborata in 2.000 anni di ricerca viene consegnata al Pontefice perché la difenda e non la cambi", ha detto il giornalista a La Verità. A scuotere il Vaticano sono le novità introdotte dal Sinodo panamazzonico. Dalle Pachamame esposte nelle chiese romane per via del Sinodo alla messa in discussione del celibato, passando per la presunte innovazioni adottate alla mariologia, questi sono gli argomenti che più scuotono la coscienza dei fedeli, che ora si interrogano sulle sorti della Chiesa cattolica. "Certamente lo scisma non avverrà - ribadisce Messori - ma c'è forte inquietudine perché siamo di fronte al primo Papa il quale molte volte sembra dare del Vangelo una lettura che non segue la tradizione".

40 ANNI DI SCANDALI FINANZIARI IN VATICANO. Giovanni Viafora per corriere.it il 5 dicembre 2019.

IL CRACK AMBROSIANO E IL CASO MARCINKUS - 1982. È il primo grande scandalo dei tempi moderni per il Vaticano. E porta il nome di un protagonista, assoluto: Monsignor Paul Marcinkus, soprannominato il «banchiere di Dio», americano, amante del sigaro e dei liquori, che fu presidente dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior) dal 1971 al 1989. Proprio nel 1982 Marcinkus fu accusato di aver avuto un ruolo centrale nella vicenda del crack del Banco ambrosiano e della misteriosa morte di Roberto Calvi, il banchiere che aveva guidato l’istituto di credito legato alla finanza cattolica fino ad allora, trovato impiccato a Londra sotto il ponte dei Frati Neri.Sempre nel 1982 venne istituita anche la Commission mista Italia-Vaticano per l’accertamento della verità su quel crac e sul coinvolgimento dello Ior di Marcinkus. Cinque anni dopo, nel 1987, i magistrati italiani spiccarono nei suoi confronti, e in quelli di due suoi collaboratori, un mandato di cattura internazionale per concorso in bancarotta fraudolenta. Ma a quel punto Marcinkus, che godeva dell’immunità vaticana, se l’era già svignata e non pagò mai nulla. Il suo nome fu associato anche ad un ipotetico coinvolgimento nella morte di Giovanni Paolo I e nella scomparsa di Emanuela Orlandi, come alla Banda della Magliana e al suicidio Calvi. Morì a 84 anni a Phoenix.

VATICANO SPA E L’ARCHIVIO DARDOZZI. «Sembrava una storia conclusa con gli scandali degli anni Ottanta. Con Marcinkus, Sindona e Calvi. Invece tutto ritorna. Dopo la fuoriuscita di Marcinkus dalla Banca del Papa, parte un nuovo e sofisticatissimo sistema di conti cifrati nei quali transitano centinaia di miliardi di lire. L’artefice è monsignor Donato de Bonis. Conti intestati a banchieri, imprenditori, immobiliaristi, politici tuttora di primo piano, compreso Omissis, nome in codice che sta per Giulio Andreotti. I soldi di Tangentopoli (la maxitangente Enimont) sono passati dalla Banca vaticana: titoli di Stato scambiati per riciclare denaro sporco. Depositi che raccolgono i soldi lasciati dai fedeli per le Sante messe trasferiti in conti personali, con le più abili alchimie finanziarie». È lo scandalo narrato da Vaticano Spa (Chiarelettere), la prima opera del giornalista Gianluigi Nuzzi uscita nel maggio del 2009 (papa Ratzinger regnante), che si basa sull’archivio segreto di monsignor Renato Dardozzi (1922-2003), tra le figure più importanti nella gestione dello Ior fino alla fine degli anni Novanta. L’effetto della pubblicazione è un terremoto. «Lo Ior — scrisse Nuzzi — ha funzionato come una banca nella banca. Una vera e propria “lavanderia” nel centro di Roma, utilizzata anche dalla mafia e per spregiudicate avventure politiche. Un paradiso fiscale che non risponde ad alcuna legislazione diversa da quella dello Stato del Vaticano. Tutto in nome di Dio».

VATILEAKS 1 - 2012. Nei primi mesi del 2012 una gigantesca fuga di documenti riservati del Vaticano fece scoppiare il primo cosiddetto «Vatileaks»: oggetto dello scandalo la scoperta dell’esistenza di profonde divisioni e contrasti interni sugli indirizzi di governo del Vaticano (le incomprensioni tra Cl e la Diocesi di Milano, le mosse dell’inviato segreto di Bertone per conquistare l’Istituto Toniolo, cassaforte dell’Università Cattolica, la ragnatela della diplomazia per ricomporre lo scisma con i lefevbriani) e sulla gestione della sua banca, lo IOR (spuntò anche il conto corrente del Santo Padre, il n. 39887, aperto il 10 ottobre 2007); ma soprattutto le irregolarità nella gestione finanziaria dello Stato e nell’applicazione delle normative antiriciclaggio. È il giornalista Gianluigi Nuzzi, ancora una volta, a fare lo scoop, raccogliendo il materiale nel suo libro Sua Santità (Chiarelettere). Le conseguenze furono pesanti. Il Papa decise di istituire una Commissione cardinalizia d’inchiesta, composta dai cardinali Julián Herranz Casado, Jozef Tomko e Salvatore De Giorgi, per far luce sulla vicenda e individuare i colpevoli. Per la fuga di notizie il tribunale vaticano condannò a 3 anni di carcere, poi ridotti a 18 mesi per le attenuanti, Paolo Gabriele, 46 anni, ex aiutante di camera di Papa Benedetto XVI. Ma l’eco dello scandalo fu enorme. Si pensi solo che nel marzo 2012 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aggiunse per la prima volta il Vaticano alla lista di Paesi monitorati perché potenzialmente suscettibili di essere luoghi di riciclaggio del denaro.

IL CASO CALOIA: I 29 IMMOBILI E IL PECULATO - 2014. Nel 2014 l’ex presidente dello Ior Angelo Caloia e l’ex direttore generale Lello Scaletti finiscono sotto inchiesta in Vaticano da Parte del Promotore di Giustizia, Gian Piero Milano, per peculato in relazione ad operazioni immobiliari avvenute nel periodo 2001-2008: si tratta della cessione di 29 immobili che erano posseduti dallo Ior a Roma e a Milano. Il processo a Caloia, in carica dal 1990 al 2009, si apre nel maggio 2018 in Vaticano. Insieme a Caloia, 79 anni, è imputato anche l’avvocato Gabriele Liuzzo, 95 anni: entrambi sono accusati di peculato e autoriciclaggio in relazione a dismissioni immobiliari fatte dell’Istituto tra il 2001 e il 2008, con un danno per lo Ior di 57 milioni di euro. A Caloia, nel 2009, successe alla presidenza dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. Banchiere ed economista, avviò importanti riforme per la trasparenza, ma nel settembre 2010 rimase però coinvolto in un’indagine della Procura di Roma per una presunta violazione delle norme antiriciclaggio. Il Consiglio di sovrintendenza dello Ior lo rimosse dalla carica di presidente. Nel 2014 però il Gip del Tribunale di Roma ha archiviato l’inchiesta, escludendo ogni responsabilità di Gotti Tedeschi.

VATILEAKS 2 E L’ATTICO DI BERTONE - 2015. Il secondo scandalo «Vatileaks» scoppiò nei primi di novembre 2015. Vennero arrestati i «corvi» monsignor Lucio Ángel Vallejo Balda, spagnolo, e Francesca Immacolata Chaouqui, di origini marocchine, già componente della Commissione referente sulle attività economiche della Santa Sede (il COSEA), poi rilasciata, in quanto disponibile a collaborare. L’accusa era di sottrazione di informazioni riservate dello Stato della Città del Vaticano: le informazioni sarebbero state passate ai giornalisti Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi, che le pubblicarono nei loro libri (Via Crucis e Avarizia). Tra i casi raccontati, emerse soprattutto quello che riguardava l’attico dell’ex Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, una dimora da 390 metri quadri in pieno centro a Roma che avrebbe beneficiato di 442mila euro di lavori finanziati dall’Ospedale Bambino Gesù. Per quel caso si aprì poi un processo che portò alla condanna ad un anno con pena sospesa del professor Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambin Gesù. Assoluzione con formula piena invece per Massimo Spina, ex tesoriere del Bambino Gesù, per non aver commesso il fatto.

CALCAGNO E L’INCHIESTA DI SAVONA - NEL 2014 L’INCHIESTA, POI L’ADDIO ALLA COMMISSIONE IOR. Il cardinale Domenico Calcagno venne indagato nel 2016 dalla Procura di Savona per malversazione in relazione alle operazioni immobiliari condotte dall’Istituto per il sostentamento del clero savonese, attraverso il quale la Curia conduceva la sua politica economica. Nel 2007 Calcagno aveva lasciato Savona chiamato a Roma dove nel 2011 era stato nominato prima segretario quindi presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica; mentre nel 2013 era entrato nella commissione vigilanza dello Ior insieme con il cardinale Bertone. A sorpresa papa Francesco lo fece decadere un anno dopo, nel 2014. Insieme con il cardinale Angelo Bagnasco (con il quale ha condiviso gli studi in seminario) e con l’ex segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone rappresentava la terna dei «liguri» nella mappa del potere vaticano prima di papa Francesco.

CIPRIANI-SCARANO E I MILIONI DALLA SVIZZERA - LUGLIO 2013. Nel febbraio 2018 L’ex direttore generale dello Ior, Paolo Cipriani, e l’allora suo vice Massimo Tulli vengono condannati in prima istanza in sede civile dal tribunale vaticano per danni pari a circa 47 milioni di euro per «mala gestione» dell’Istituto Opere di Religione. Cipriani e Tulli, come racconta Marco Politi nel suo La solitudine di Francesco. Un papa profetico, una Chiesa in tempesta (Laterza), «erano stati licenziati in tronco dallo Ior nel luglio 2013, quando era scoppiato lo scandalo di un funzionario dell’Apsa: monsignor Nunzio Scarano, processato in Italia per usura e riciclaggio. In accordo con un broker finanziario, Scarano aveva tentato di trasferire in Italia illegalmente 20 milioni di euro dalla Svizzera».

I LICENZIAMENTI MILONE E MATTIETTI - 2017. «Risulta purtroppo che l’Ufficio diretto dal Dott. Milone, esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una Società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede. Questo, oltre a costituire un reato, ha irrimediabilmente incrinato la fiducia riposta nel Dott.Milone, il quale, messo davanti alle sue responsabilità, ha accettato liberamente di rassegnare le dimissioni». È il settembre 2017 e con questa nota il Vaticano spiegò le dimissioni a sorpresa del Revisore Generale dei conti della Santa Sede, Libero Milone. Ma c’era anche altro, secondo il Vaticano: si parò di «una distrazione di fondi», dunque un «peculato, come pubblico ufficiale» e si attribuivano «conti per indagini ambientali, per 28 mila euro, per ripulire gli uffici da eventuali microspie». Milone replicò alle accuse con un’intervista al Corriere della Sera: «Parlo solo ora perché volevo vedere cosa sarebbe successo dopo le mie dimissioni del 19 giugno. In questi tre mesi dal Vaticano sono filtrate notizie offensive per la mia reputazione e la mia professionalità. Non potevo più permettere che un piccolo gruppo di potere esponesse la mia persona per i suoi loschi giochi. Mi spiace molto per il Papa. Con lui ho avuto un rapporto splendido, indescrivibile, ma nell’ultimo anno e mezzo mi hanno impedito di vederlo. Evidentemente non volevano che gli riferissi alcune cose che avevo visto. Volevo fare del bene alla Chiesa, riformarla come mi era stato chiesto. Non me l’hanno consentito…». A novembre dello stesso anno, improvvisamente, il Vaticano silura anche Giulio Mattietti, direttore generale aggiunto dello Ior, che viene addirittura accompagnato alla porta da una scorta. Mattietti era stato nominato nel novembre 2015, dopo una carriere iniziata all’interno dello Ior.

IL PALAZZO DI LONDRA E LE DIMISSIONI DI GIANI - OTTOBRE 2019. Indagini, documenti e pc sequestrati pure in Segreteria di Stato, sospetti di operazioni finanziarie e immobiliari illecite o almeno imbarazzanti, due alti dirigenti e tre impiegati «sospesi cautelativamente dal servizio» e tra questi Tommaso di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria (Aif) che dovrebbe vigilare su trasparenza e antiriciclaggio. Il scoppia i primi giorni di ottobre 2019 con il blitz della Gendarmeria vaticana e presto assume i contorni di una valanga: si viene a sapere che il Vaticano aveva investito 200 milioni di euro per acquisire un palazzo di lusso a Londra (a Sloan Square). L’operazione era stata progettata già a partire dal 2014 quando l’allora Sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, decise di sottoscrivere quote per 200 milioni di dollari del fondo Athena di Raffaele Mincione. Il finanziere aveva utilizzato gran parte dei fondi, provenienti dall’Obolo di San Pietro, per far rilevare il 45% del palazzo. Ruzza viene rimosso. Ma non solo: per la «disposizione di servizio» alle guardie svizzere con la foto dei cinque «ricercati», finita sui giornali, anche lo storico comandante della Gendarmeria, Domenico Giani è costretto a dimettersi.

 (ANSA) 26 novembre 2019- "Hanno fatto cose che non sembrano pulite": lo ha detto Papa Francesco parlando sull'aereo di ritorno da Tokyo dello "scandalo" dell'acquisto del palazzo a Londra con i soldi dell'Obolo di San Pietro. Investire il denaro fa parte della "buona amministrazione" mentre non lo è "mettere i soldi in un cassetto". Lo ha premesso Papa Francesco parlando della vicenda relativa agli investimenti dell'Obolo. "Da noi si dice - ha detto il Papa nella conferenza stampa alla fine del viaggio in Asia - un investimento da vedove, come fanno le vedove, due o tre, cinque là, se cade uno c'è l'altro". Bisogna vedere però dove investire ("non su una fabbrica di armamenti", ha detto come esempio) ma anche come investire. "Si può anche comprare una proprietà, affittarla, e poi venderla, ma sul sicuro con tutte le sicurezze per il bene della gente dell'Obolo. Poi è passato quello che è passato, uno scandalo, e hanno fatto cose che non sembrano pulite".

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il “Corriere della sera” il 4 dicembre 2019. Le vie della finanza sono infinite. Una in particolare dal Vaticano porta all' isola di Malta. Seguendola si scopre che, attraverso un fondo basato a La Valletta, la Segreteria di Stato a febbraio è diventata socia di Lapo Elkann nella sua azienda di occhiali e «prodotti lifestyle» Italia Independent. Un affare da 10 milioni è stato concluso il 30 settembre con Enrico Preziosi, industriale dei giochi e patron del Genoa. E oltre 4 milioni sono serviti a finanziare la produzione di film come l' ultimo «Men in Black» e la biografia di Elton John, «Rocketman». Sono alcuni dei tanti rivoli di investimento nei quali si disperdono le offerte che ogni anno arrivano dai fedeli all' Obolo di San Pietro. I segreti del fondo non finiscono qui. E verifiche sono in corso anche dalla magistratura del Papa. Al numero 259 di St Paul Street a La Valletta, a pochi metri dalla Pizzeria Vecchia Taranto, c' è la sede del Centurion Global Fund. I capitali ad esso affidati, secondo varie e attendibili fonti, sono almeno per due terzi della Segreteria di Stato, ovvero il dicastero più importante e più vicino a Papa Francesco. Al vertice del fondo c' è un italiano residente in Svizzera, Enrico Crasso, 71 anni. Ex banchiere del Credit Suisse, titolare a Lugano di Sogenel Holding che è punto di riferimento di molte operazioni finanziarie, per anni ha gestito la cassaforte del Vaticano. Per questo ha ricevuto numerose lettere formali di ringraziamento dalla Segreteria di Stato e l' onorificenza della medaglia d' oro del Pontificato. E milioni di euro di commissioni. Da qualche mese, dentro le Mura vaticane, la sua stella si è appannata. Ma a Malta è sempre lui a decidere dove investire i soldi del Papa. Con il fondo Centurion Crasso ha raccolto circa 70 milioni di euro pilotandoli verso immobili, bond, azioni e altri fondi. Non sempre liquidi, non sempre sicuri e talvolta anche speculativi. Spicca tra tutti l' ingresso nella società di Lapo Elkann, Italia Independent. Il fondo maltese con capitali vaticani ha sottoscritto nuove azioni a 2,35 euro, diventando con 6 milioni di euro secondo socio al 25%. Crasso è entrato nel consiglio. Centurion ha appena deciso di versarne ancora. In Borsa però il titolo vale 1,7 euro. Per ora, un affare in perdita. A settembre, pochi giorni prima che esplodesse lo scandalo dell' acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra - operazione orchestrata dal finanziere Raffaele Mincione e nella quale Crasso ha avuto un ruolo centrale - in Segreteria si definisce il dossier Preziosi. Centurion acquisisce per 10 milioni i 14% di New Deal, società in cui Enrico Preziosi ha appena conferito l' 11,7% di Giochi Preziosi. È come se Centurion avesse comprato l' 1,67% del gruppo dei giocattoli. Bonifico dalla svizzera Banca Zarattini, contratto del 30 settembre. Con una clausola: «Il venditore (cioè Preziosi, ndr ) si adopererà ... per collocare in Borsa Giochi Preziosi entro il 31-12-2020 in modo da consentire alla società di beneficiare del ricavato del collocamento». Messa così, sembra un prestito. E se poi in Borsa non ci andrà? Crasso punta anche sull' acqua. Centurion ha investito 4,7 milioni di euro nel veicolo Cristallina Holding che ha rilevato l' Acqua Pejo e Goccia di Carnia, insieme con altri soci italiani come la holding della famiglia Borromeo. Ma non manca la new economy. A ottobre 2018 Centurion ha rilevato il 10% di Abbassalebollette, una startup che offre soluzioni via internet per risparmiare sulle bollette di luce e gas: 60 mila euro di giro d' affari nel 2018 e 39 mila di perdita. Prezzo per la quota? Circa 1,27 milioni. Se andasse male, in Vaticano potranno chiederne conto al presidente di Snam, Luca Dal Fabbro, che è ben introdotto nella Segreteria del Papa. Abbassalebollette è della sua famiglia. Poi c' è il mattone. Con 16 milioni Centurion ha rilevato la sede italiana del colosso svizzero-svedese ABB. Ad oggi è l' investimento più grande del fondo. Altri 4,5 milioni sono andati nel bond di una piccola società romana, la Bdm Costruzioni e Appalti della famiglia Marronaro, che li avrebbe utilizzati per rilevare la Immobiliare Grotta 1973 delle famiglie Ceribelli-Barluzzi. Perché queste scelte? E che rapporti ci sono tra la Segreteria e i veicoli di Crasso, Centurion e Sogenel? «Ci sono indagini in corso e, allo stato attuale, gli elementi utili a definire la posizione della Santa Sede rispetto ai fondi menzionati e ad eventuali altri sono in via di accertamento ad opera della magistratura vaticana, in collaborazione con le competenti autorità», è la dichiarazione rilasciata via mail dalla Sala Stampa Vaticana. Contattato dal Corriere , Crasso non ha voluto commentare. Ma tutti questi investimenti alternativi hanno reso? Non proprio. A fine 2018 il fondo perdeva il 4,61%. Sono circa 2 milioni. In gran parte finiti ai manager come commissioni.

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il “Corriere della Sera” il 9 dicembre 2019. Da circa sei anni il Vaticano ha un capitale enorme congelato in un prestigioso palazzo a Chelsea, nel cuore di Londra. Si tratta di un investimento da 200 milioni di dollari, ed è una delle più grandi, ma anche controverse, operazioni finanziarie mai realizzate dalla Santa Sede. Tornando dal Giappone papa Francesco ha dichiarato che «è la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro». I soldi provengono dalla cassa della Segreteria di Stato che gestisce l' Obolo di San Pietro, cioè le offerte che ogni 29 giugno dal profondo della comunità cattolica salgono fino al Papa. Anche se sempre meno. Dai 70-80 milioni del 2013 si è scesi a circa cinquanta milioni. Non esiste una rendicontazione, ma la stima del patrimonio complessivo della Segreteria è intorno ai 700 milioni di euro, destinati a mantenere la macchina vaticana e ai più bisognosi. Denaro quindi da investire con un certo criterio morale e non in attività azzardate o speculative. Si tratta di una parte rilevante del tesoro complessivo attribuibile alla Santa Sede e alla Città del Vaticano: undici miliardi, secondo le stime più recenti, di cui circa cinque in titoli e sei in immobili «non funzionali» all' attività istituzionale. Il patrimonio della Chiesa nel mondo è invece valutato oltre duemila miliardi, scuole, ospedali e università compresi. A gestire cassa e Obolo, dentro la Segreteria di Stato guidata dal 2013 da Pietro Parolin, è la Sezione Affari Generali, affidata dal 2011 al 2018 a monsignor Giovanni Angelo Becciu (oggi cardinale) e da ottobre del 2018 al venezuelano Edgar Peña Parra. Tutto comincia nel 2012 dall' Angola, cioè il Paese africano nel quale Becciu per molti anni è stato nunzio apostolico. Un imprenditore locale suo amico, António Mosquito, gli propone di investire duecento milioni di dollari nella sua compagnia petrolifera Falcon Oil. Scelta rischiosa: si trattava di diventare soci di minoranza (5 per cento) nello sviluppo di una piattaforma petrolifera offshore. Dalle carte consultate dal Corriere della Sera , di quei duecento milioni 35 sarebbero andati direttamente a Mosquito per rimborsare un suo precedente prestito a Falcon Oil. «In un primo momento sembrava attraente, ma dopo uno studio approfondito la proposta non fu accolta». Parole di Becciu. A spiegare alla Segreteria che l' operazione non gira è l' allora semisconosciuto finanziere italiano, con base a Londra, Raffaele Mincione, che entra nella partita grazie al Credit Suisse, nei cui conti svizzeri confluisce l' Obolo. Il custode della cassa vaticana è un dirigente dell' istituto, Enrico Crasso, banchiere di riferimento della Santa Sede. «Gli ho detto - racconta Mincione -: volete raddoppiare i soldi? Vi propongo un mio palazzo nel centro di Londra». L' immobile è al numero 60 di Sloane Avenue, già sede di Harrods. E gli uomini di chiesa affidano i duecento milioni al Fondo Athena, gestito da Mincione. Il fondo ha un solo cliente-sottoscrittore: il Vaticano. A giugno del 2014 il Fondo Athena investe i soldi del Vaticano per comprare il 45% del palazzo, gravato anche da un mutuo di circa 120 milioni con Deutsche Bank. L' altro 55% Mincione lo investe in speculazioni di Borsa su Carige, Retelit e Tas. Il suo piano è riqualificare il palazzo e rivendere tutto a 600-700 milioni di sterline. Ma arriva la Brexit, la sterlina crolla e il Vaticano comincia a perdere tanti soldi. Settembre 2018: il Fondo Athena in cinque anni ha perso oltre il 20 per cento. Nel frattempo a Roma monsignor Becciu è stato promosso cardinale. Al suo posto arriva Peña Parra e la strategia cambia. L' ordine è: «Smontare l' investimento nel fondo per prendere tutto il palazzo». A chi si affidano in Vaticano per una manovra finanziaria di questo calibro? Non a una banca d' affari o a intermediari di primo piano. La scelta cade su Gianluigi Torzi, un broker molisano trapiantato a Londra, con qualche piccola pendenza penale e un paio di fallimenti societari in Italia, e con il quale Mincione in passato ha condiviso già altri affari. Il 23 novembre 2018 il palazzo passa da Mincione alla Gutt, una società lussemburghese amministrata da Torzi. Un minuto dopo la firma del contratto in Segreteria si accorgono di aver affidato tutti i poteri gestionali al broker che detiene soltanto lo 0,1%. Parte la trattativa per smontare l' accordo e convincere Torzi a farsi da parte. A maggio 2019 il palazzo di Londra finisce in una nuova società, la London 60, controllata al 100% dalla Segreteria di Stato Vaticana. Alla fine di tutta la vicenda il Vaticano ha dovuto sborsare a Torzi dieci milioni, sedici milioni a Mincione per la gestione degli investimenti, più altri 44 per liquidare il fondo, e infine due milioni per consulenze. Nelle casse del Papa invece non è entrato un euro di guadagno. Il Pontefice ha parlato di «corruzione». E su questo sta indagando la magistratura vaticana. Cinque persone sono finite sotto inchiesta: monsignor Mauro Carlino, il direttore dell' Aif (l' antiriciclaggio) Tommaso di Ruzza e tre dipendenti della Segreteria: Vincenzo Mauriello, Fabrizio Tirabassi e Caterina Sansone. Intanto a Londra è in corso un progetto di ristrutturazione del palazzo. L' ha spiegato lo stesso papa Francesco, giorni fa: «Affittare e poi vendere». Perché i soldi dell' Obolo, ha sottolineato, vanno investiti ma poi anche spesi. Senza imbrogliare. Ma dove sono gli altri fondi (centinaia di milioni) della Segreteria? Depositati presso il Credit Suisse. Ad occuparsene è il consulente di riferimento Enrico Crasso che nel 2014, lasciata la banca, si mette in proprio e si fa carico di investire i cinquecento milioni della Segreteria. Lo fa per un paio d' anni attraverso la sua Sogenel Holding ma nel 2016 vende il «cliente» Vaticano - circostanza mai emersa prima - ad Az Swiss del gruppo Azimut, colosso della gestione del risparmio quotato in Borsa. Crasso, però, diventa contestualmente dirigente di Az Swiss, mantiene la gestione del mezzo miliardo e in più crea un Fondo tutto suo a Malta dove sposta altri cinquanta milioni della Segreteria. Si chiama Centurion e ha investito sei milioni nella società di occhiali di Lapo Elkann; circa dieci nella galassia Giochi Preziosi del patron del Genoa Calcio; altri 4,7 milioni per entrare nelle acque minerali (Cristallina Holding, Acqua Pejo e Goccia di Carnia); 1,2 milioni per una quota di minoranza del sito Abbassalebollette; 16 milioni per rilevare una sede italiana della multinazionale ABB; 4,3 milioni in bond per finanziare i film «Rocketman» sulla vita di Elton John e l' ultimo «Men in Black»; infine 4,5 milioni prestati a una piccola società di costruttori romani, la Bdm Costruzioni e Appalti. Affari oculati? Non proprio. Nel 2018 il fondo Centurion ha perso il 4,61%. Ai manager, però, sono andati quasi due milioni di commissioni.

Da ilpost.it il 14 dicembre 2019. Il Wall Street Journal ha parlato con alcune persone a conoscenza della gestione dei fondi del Vaticano, rimaste anonime, e ha raccontato come funziona il cosiddetto “Obolo di San Pietro”, il denaro donato dai credenti cattolici di tutto il mondo, soprattutto nella giornata di San Pietro e Paolo che cade il 29 giugno, e destinato al Papa, che lo investe nella gestione della Chiesa e nelle sue missioni in tutto il mondo. Sul sito dedicato all’Obolo, dove si può anche donare in qualsiasi momento, è spiegato che «l’Obolo non è soltanto un gesto di carità, un modo di sostenere l’azione del Papa e della Chiesa universale a favore specialmente degli ultimi e delle Chiese in difficoltà, ma un invito a prestare attenzione ed essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità». L’articolo del Wall Street Journal sostiene però che soltanto una piccola percentuale dell’Obolo – che è solo uno dei tanti fondi del Vaticano e che nel 2018 era stato di circa 50 milioni di euro – sia destinata alle opere caritatevoli per cui viene sollecitato: la maggior parte è investita o va a finanziare il bilancio del Vaticano. Molti all’interno della Chiesa temono che i fedeli possano sentirsi ingannati sull’uso delle loro donazioni e che questo possa danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria del Vaticano. Il sito sull’Obolo segnala in una sezione apposita alcune iniziative realizzate attraverso le donazioni: un contributo di 100mila euro alle diocesi delle persone colpite dal terremoto in Albania; 100mila euro per assistere i migranti dei campi profughi di Moria e Kara Tepe, in Grecia; 50mila dollari (45mila euro) per aiutare le popolazioni in Nepal che ancora soffrono per le conseguenze dei terremoti del 2015, che causarono 9.000 morti e 600mila sfollati. Anche il sito della Chiesa cattolica statunitense specifica che lo scopo dell’Obolo è «fornire al Santo Padre i mezzi finanziari per aiutare chi soffre a causa di guerre, oppressioni, disastri naturali e malattie». Ma negli ultimi cinque anni solo il 10 per cento del denaro raccolto è stato usato per queste ragioni: circa due terzi sono finiti a coprire il deficit finanziario della Santa Sede, l’ente che amministra la Chiesa e che presiede alla rete diplomatica papale nel mondo. La gestione delle risorse finanziarie del Vaticano è un un problema sempre più noto, che già Papa Benedetto XVI aveva cercato di curare e che il suo successore, Papa Francesco, era stato chiamato a combattere, tra accuse di corruzione, sprechi e incompetenza. Nel 2018 il deficit era arrivato a 70 milioni di euro su 700 milioni di spese, dovute a inefficienze croniche, all’aumento degli stipendi e a cattivi investimenti. Tra questi ci sono almeno 200 milioni usati per comprare immobili lussuosi nel quartiere londinese di Chelsea, al centro di un grosso scandalo sulle finanze vaticane degli ultimi mesi. A ottobre la gendarmeria vaticana aveva perquisito la sede dell’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), l’organismo del Vaticano per la lotta al riciclaggio, e sequestrato alcuni documenti; successivamente il direttore, Tommaso Di Ruzza, e quattro dipendenti erano stati sospesi per «un ruolo non chiaro» nell’investimento a Londra fatto dalla Segreteria di Stato, l’organo esecutivo della Chiesa. Sul caso è intervenuto anche Papa Francesco, a novembre, spiegando di aver autorizzato lui stesso le perquisizioni davanti al sospetto di corruzione che gli aveva manifestato il Revisore dei conti vaticano, e su cui sta ora indagando la magistratura vaticana. Sempre in quell’occasione il Papa aveva spiegato l’uso dell’Obolo (che è amministrato dalla Segreteria di stato), da cui proveniva parte della somma finita nell’immobile londinese. Aveva infatti difeso la pratica di investirlo dicendo che «buona amministrazione non è ricevere la somma dell’Obolo e metterla nel cassetto. No, questa è una cattiva amministrazione. Invece, si deve cercare di fare un investimento così quando si ha bisogno di dare si dà. Se in un anno quel capitale non si svaluta, si mantiene o cresce, questa è una buona amministrazione, mentre l’”amministrazione del cassetto” è cattiva. Si deve cercare una buona amministrazione o un buon investimento, chiaro?». Nel 2018, scrive sempre il Wall Street Journal, l’Obolo ammontava complessivamente a circa 600 milioni di euro, in calo rispetto al pontificato precedente dove aveva toccato i 700 milioni di euro. È il risultato di investimenti sbagliati, hanno spiegato persone informate dei fatti al Wall Street Journal, e di una diminuzione delle donazioni, che sono passate da 60 a 50 milioni di euro solo dal 2017 al 2018; per il 2019 è previsto un ulteriore restringimento. Tra le ragioni ci sono l’emergere degli abusi sessuali su minori all’interno della Chiesa e anche la gestione poco trasparente delle finanze. Il portavoce del Vaticano, contattato dal Wall Street Journal, ha declinato ogni commento sull’articolo.

Vaticano, un altro scandalo: "Solo 10% delle offerte ai poveri". Soltanto il 10% dell'Obolo di San Pietro verrebbe declinato in "opere di carità". E il resto? L'inchiesta del Wall Street Journal che sta facendo discutere. Giuseppe Aloisi, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale.  Ancora voci di scandalo in Vaticano. Questa volta, ad essere chiamate in causa, sono le modalità tramite cui viene gestito l'Obolo di San Pietro. Si tratta delle donazioni che i fedeli inviano al Santo Padre. Vale la pena sottolineare sin da subito come il pontefice possa non influire sulle scelte operate attraverso quel fondo. Può dipendere da altri, insomma. Ma il presunto scandalo del palazzo di Londra ha sollevato un polverone: è giusto che una parte delle offerte venga declinata in acquisizioni immobiliari? Perché è di questo che si sta ragionando. Ed è su questo che la Santa Sede, con Jorge Mario Bergoglio in primis, intende fare chiarezza. In specie in relazione agli eventuali casi di corruzione, su cui si sta indagando. L'Obolo di San Pietro, stando a quanto si trova scritto sul sito ufficiale, "è un gesto di fraternità con il quale ogni fedele può partecipare all’azione del Papa a sostegno dei più bisognosi e delle comunità ecclesiali in difficoltà, che si rivolgono alla Sede Apostolica". Attenzione: non è affatto detto che i poveri siano gli unici a poterne usufruire. Per consuetudine, al massimo, è previsto che gli ultimi - quelli che abitano le "periferie economiche ed esistenziali" - siano destinatari privilegati. Ma è la distribuzione tra "opere di carità" e tutto il resto a far discutere in queste ore. Le ultime pubblicazioni, poi, su tutte quella di Gianlugi Nuzzi, ossia "Giudizio Universale", hanno svelato come la situazione delle casse del Vaticano non sia proprio rosea. Si è iniziato a parlare di "deficit". Questi due elementi, quello riguardante l'Obolo di San Pietro e questo sullo stato delle finanze, sono necessari per comprendere quanto emerso da un'inchiesta del Wall Street Journal. Il quotidiano statunitense ha avuto modo d'interloquire con chi ne sa di più. La tesi è questa: soltanto il 10% dell'Obolo di San Pietro, stando a quanto raccontato da fonti che hanno preferito rimanere anonime, avrebbe come fine le cosiddette "opere di carità". Vorrebbe dire, in parole povere, che il restante 90% viene utilizzato per altri scopi. E tra questi, sempre secondo la versione riportata dalla fonte sopracitata, ci sarebbe pure il risanamento del deficit. La Santa Sede, quindi, coprirebbe l'ammanco mediante le offerte dei fedeli. Non è detto che sia un illecito, anzi, ma quanto scritto sul WSJ sta balzando agli onori delle cronache internazionali. Tutto ruota attorno all'opportunità che questo possa essere approvato moralmente o meno. Papa Francesco sta combattendo una battaglia per la trasparenza in Vaticano. Vedremo se questa indagine giornalistica del Wall Street Journal coadiuverà l'azione del Santo Padre.

Il Papa e il palazzo di Londra: «Abbiamo scoperchiato la pentola». Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. Sette giorni tra Thailandia e Giappone, una ventina di discorsi, ventisettemila chilometri, 35 ore di viaggio, sei aerei di cui tre solo domenica. Eppure Francesco, 83 anni il mese prossimo, non tradisce stanchezza. Anzi, arriva in fondo all’aereo che lo riporta a Roma ed è lui a dire ai giornalisti da tutto il mondo che lo hanno seguito nel viaggio : «Il lavoro è stato pesante, mi sono sentito vicino a voi». Il volo NH1965 ha lasciato da poco Tokyo e il Papa affronta tranquillo le questi più delicate, «grazie di aver fatto domande dirette, questo fa sempre bene». Sul palazzo londinese e l’ultimo scandalo finanziario, fa notare: «È la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro e non da fuori, il sistema di controllo ha funzionato». Dice che è legittimo cercare «un buon investimento» per far fruttare i soldi dell’obolo di San Pietro, «metterli nel cassetto è cattiva amministrazione», purché sia etico e non troppo lungo: «I soldi vanno spesi». Parla anche delle rivolte a Hong Kong ed il suo tono suona quasi sarcastico rispetto alle pressioni occidentali sulla Chiesa perché parli: «Cosa ne penso? Ma non è solo Hong Kong. Pensa al Cile o alla Francia, la democratica Francia, un anno di gilet gialli…». Osserva che le rivolte in America Latina dipendono anche da «governi deboli, molto deboli, che non sono riusciti a mettere ordine e pace dentro». Ribadisce che l’uso e il possesso delle armi nucleari è immorale e «questo dovrà essere inserito nel catechismo». Quanto all’energia nucleare, aggiunge: «La distinguo dalle armi, ma io non la userei fino a che non ci sia una totale sicurezza dell’uso». Santità, la gente legge che la Santa Sede ha acquistato immobili per centinaia di milioni di euro nel cuore di Londra e rimane un po’ sconcertata dall’uso delle finanze vaticane, in particolare quando viene coinvolto l’obolo di San Pietro. Lei sapeva di queste operazioni? È corretto l’uso che viene fatto dell’obolo di San Pietro? Lei spesso ha detto che non si devono fare i soldi con i soldi, ha denunciato l’uso spregiudicato della finanza poi però vediamo che queste operazioni coinvolgono anche la Santa Sede e questo scandalizza, lei come la vede questa? «Prima di tutto, la buona amministrazione normale: ti viene la somma dell’obolo, e cosa faccio, la metto nel cassetto? No, questa è una cattiva amministrazione. Cerco di fare un investimento e quando ho bisogno di dare, quando in un anno ci sono le necessità, si prendono i soldi e quel capitale non si svaluta, si mantiene o cresce un po’ e questa è una buona amministrazione. L’amministrazione del cassetto è cattiva, si deve cercare una buona amministrazione o un buon investimento: chiaro? Da noi si dice un investimento da vedove, due qua, tre là, se cade uno c’è l’altro, in modo che non si rovini e sia sempre sicuro e morale. Certo se tu fai un investimento con l’obolo di san Pietro su una fabbrica di armamenti non va. Se tu fai un investimento e per anni senza toccare il capitale non va, l’obolo si deve spendere in un anno, un anno e mezzo, fino a che arriva l’altra colletta che si fa mondialmente e questa è buona amministrazione, sul sicuro. E si può anche comprare una proprietà, affittarla e poi venderla, ma sul sicuro con tutte le sicurezze per il bene delle gente e dell’obolo. Poi è successo quello che è successo, uno scandalo, e hanno fatto cose che non sembrano pulite. Ma la denuncia non è venuta da fuori. Quella riforma della metodologia economica che aveva già iniziato Benedetto XVI è andata avanti ed è stato il Revisore dei conti interno a dire: qui c’è una cosa brutta, qui c’è qualcosa che non funziona. È venuto da me. Gli ho detto: lei è sicuro? E lui: sì, cosa devo fare? Ma c’è la giustizia vaticana, ho detto: vada e faccia la denuncia al Promotore giustizia. E in questo io sono rimasto contento perché si vede che l’amministrazione vaticana ha le risorse per chiarire le cose brutte che succedono dentro, come in questo caso. Non è il caso dell’immobile di Londra, perché ancora questo non è chiaro, ma lì c’erano casi di corruzione. Il Promotore ha studiato la cosa, ha fatto le consultazioni e ha visto che c’era uno squilibrio nel bilancio e poi ha chiesto a me il permesso di fare le perquisizioni. E io ho firmato le autorizzazioni. È stata fatta la perquisizione in cinque uffici. Sebbene ci sia la presunzione di innocenza, ci sono i capitali che non sono amministrati bene, anche con corruzione. Credo che in meno di un mese inizieranno gli interrogatori delle cinque persone che sono state bloccate perché c’erano indizi di corruzione. Lei potrà chiedermi: ma questi cinque sono corrotti? No, la presunzione è una garanzia per tutti, un diritto umano, ma c’è corruzione e si vede. Si vedrà se sono colpevoli o no. È una cosa brutta e non è bello che succedano queste cose in Vaticano, ma è stato chiarito dai meccanismi interni che cominciano a funzionare e che papa Benedetto aveva iniziato a fare. Di questo io ringrazio Dio, non che ci sia la corruzione, ma che il sistema di controllo vaticano funzioni bene».

C’è preoccupazione, nelle ultime settimane su ciò che sta succedendo nelle finanze del Vaticano. Secondo alcuni c’è una guerra interna su chi deve controllare i soldi. La maggior parte dei membri del consiglio di amministrazione dell’Aif si è dimesso. Il gruppo Egmont ha sospeso il Vaticano dalle comunicazioni sicure dopo il raid del primo ottobre. Il direttore dell’Aif è ancora sospeso e ancora non c’è un Revisore generale. Cosa può fare o dire lei per garantire alla comunità internazionale finanziaria e ai fedeli in generale che sono chiamati a contribuire all’obolo di San Pietro che il Vaticano non tornerà a essere considerato un Paese di cui non fidarsi e che le riforme non si fermeranno e che non si tornerà alle abitudini del passato? «Il Vaticano ha fatto passi avanti nella sua amministrazione. Per esempio, lo Ior oggi ha la accettazione di tutte le banche e può agire come le banche italiane, normale, cosa che un anno fa ancora non c’era. Ci sono stati dei progressi. Poi, il gruppo Egmont: è una cosa non ufficiale, internazionale, è un gruppo che appartiene all’Aif. Il controllo internazionale non dipende dal gruppo Egmont. Il gruppo Egmont è un gruppo privato che ha il suo peso, ma è un gruppo privato. Moneyval farà l’ispezione. L’ha programmata per i primi mesi dell’anno prossimo e la farà. Il direttore dell’Aif è sospeso perché c’erano dei sospetti di non buona amministrazione. Il presidente dell’Aif ha fatto forza con il gruppo Egmont per riprendere la documentazione. E questo la giustizia non può farlo. Davanti a questo io ho fatto la consultazione presso la magistratura, a un magistrato italiano di livello: cosa devo fare? La giustizia davanti a una accusa di una corruzione è sovrana, in un Paese, è sovrana: nessuno può immischiarsi lì dentro, nessuno può dire al gruppo Egmont “le vostre carte sono qui”. No, devono essere studiate le carte per quello che sembra una cattiva amministrazione nel senso di un cattivo controllo. È stato l’Aif a non controllare, sembra, i delitti degli altri. Il suo dovere era controllare. Io spero che si provi che non è così, perché ancora c’è la presunzione di innocenza. Ma per il momento il magistrato è sovrano perché deve studiare come è andata, perché al contrario un Paese avrebbe una amministrazione superiore che lederebbe la sovranità del Paese. Il presidente dell’Aif scadeva il 19. Lo chiamai alcuni giorni prima e lui mi ha detto che non se n’è accorto che lo stavo chiamando, e ho annunciato che il 19 lasciava. Io ho trovato già il successore, un magistrato di altissimo livello giuridico, economico, nazionale e internazionale e al mio rientro prenderà in carico l’Aif e continuerà così. Sarebbe stato un controsenso che l’Autorità di controllo fosse sovrana sopra lo Stato. È una cosa non facile da capire. Ma quello che ha un po’ disturbato è il gruppo Egmont. È privato. Aiuta tanto, ma non è l’autorità di controllo di Moneyval. Moneyval studierà i numeri, le procedute, come ha agito il promotore di giustizia, studierà come giudice e i giudici hanno determinato la cosa. So che in questi giorni inizierà, o è iniziato, l’interrogatorio dei cinque che sono stati sospesi. Non è facile, ma non dobbiamo essere ingenui, non dobbiamo essere schiavi. Qualcuno mi ha detto che con questo abbiamo toccato il gruppo Egmont, la gente si spaventa. Si sta facendo un po’ di terrorismo. Lasciamo da parte questo. Noi andiamo avanti con la legge, con Moneyval, col nuovo presidente dell’Aif. E il direttore è sospeso, magari fosse innocente. Lo vorrei perché è una cosa bella se una persona è innocente e non colpevole. Ma è stato fatto un po’ di rumore con questo gruppo che non voleva che toccassero le carte che appartenevano al gruppo».

La gente può stare tranquilla? Cosa può dire alla gente? «È la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro non da fuori. Da fuori tante volte. Ma in questo Papa Benedetto è stato saggio, ha incominciato un processo che è maturato e adesso le istituzioni funzionano… Che il revisore abbia avuto il coraggio di fare una denuncia scritta contro cinque persone, significa che sta funzionando. Davvero non voglio offendere il gruppo Egmont che fa tanto bene e aiuta, ma in questo caso la sovranità appartiene allo Stato, anche la giustizia è più sovrana del potere esecutivo. Non è facile da capire ma vi chiedo di capire questa difficoltà».

Sul volo da Bangkok a Tokyo ha mandato un telegramma a Carrie Lam di Hong Kong. Che cosa pensa della situazione lì, con le manifestazioni e dopo le elezioni comunali? E quando possiamo accompagnarla a Pechino? «I telegrammi si mandano a tutti i Capi di Stato, è una cosa automatica, è anche un modo cortese di chiedere permesso di sorvolare il loro territorio e questo non ha un significato né di condanna né di appoggio, è una cosa meccanica che tutti gli aerei fanno quando tecnicamente entrano: avvisano, stiamo entrando, e noi lo facciamo con cortesia, salutiamo. Questo non ha alcun valore nel senso che lei domanda, soltanto valore di cortesia. Mi chiede cosa penso. Ma non è soltanto Hong Kong. Pensa al Cile, pensa la Francia - la democratica Francia, un anno di gilet gialli - pensa al Nicaragua , altri paesi latinoamericani, il Brasile, che hanno dei problemi del genere, e anche a qualche Paese europeo. È una cosa generale. Cosa fa la Santa Sede davanti a questo? Chiama al dialogo, alla pace. Ci sono varie situazioni che hanno dei problemi e che io in questo momento non sono capace di valutare. Io rispetto la pace e chiedo la pace per tutti questi Paesi che hanno dei problemi. Problemi così’ ci sono anche in Spagna. Conviene relativizzare le cose e chiamare al dialogo, alla pace, perché si risolvano i problemi».

E Pechino?… «Mi piacerebbe andare a Pechino, io amo la Cina». La società e la Chiesa occidentale hanno qualcosa da imparare da società e Chiesa orientale? «C’è una cosa che mi ha illuminato tanto, un detto: lux ex Oriente, ex Occidente luxus. La luce viene da Oriente e il lusso, il consumismo viene da Occidente. C’è proprio questa saggezza orientale che non è soltanto saggezza di conoscenza, ma saggezza di tempi, di contemplazione, e che aiuta tanto la società occidentale, sempre troppo di fretta: imparare un po’ di contemplazione, a fermarsi, a guardare anche poeticamente le cose. Questa è una opinione personale, ma credo che all’Occidente manchi un po’ di poesia in più. Ce ne sono, di cose poetiche bellissime, ma l’Oriente va oltre, l’Oriente è capace di guardare le cose con occhi che vanno oltre. Non vorrei usare la parola trascendente, perché alcune religioni orientali non fanno accenno alla trascendenza tanto, ma a una visione oltre il limite della immanenza senza dire trascendenza. Oltre. Per questo uso poesia, che è gratuità, è cercare anche la propria perfezione nel digiuno, nelle penitenze e anche nella lettura della saggezza dei saggi orientali. Credo che a noi occidentali farebbe bene fermarci un po’ e dare tempo alla saggezza. La cultura della fretta o la cultura del: fermati un po’, fermati. Non so se serve questo per illuminare la differenza, ma è quello che noi avremmo bisogno».

Come si è sentito a Nagasaki e Hiroshima? «Nagasaki e Hiroshima ambedue hanno sofferto la bomba atomica e questo le fa somigliare. Ma c’è una differenza: a Nagasaki non c’è stata solo la bomba atomica ma anche la persecuzione dei cristiani. Nagasaki ha radici cristiane, un cristianesimo antico, la persecuzione dei cristiani era in tutto il Giappone ma a Nagasaki era molto forte. Il segretario della nunziatura mi ha regalato un fac-simile in legno dove c’è il “wanted” del tempo: si cercano cristiani, se ne trovi uno, denuncialo e avrai tanto; se trovi un sacerdote, denuncialo e avrai tanto. Sono stati secoli di persecuzione. Questo è un fenomeno cristiano che relativizza, nel buon senso della parola, la bomba atomica, perché ci sono due cose. Se uno va a Hiroshima, c’è solo la bomba atomica, perché non è una città cristiana come Nagasaki. Per questo sono voluto andare in ambedue. Hiroshima è stata una vera catechesi umana sulla crudeltà. La crudeltà. Non ho potuto vedere il museo di Hiroshima, non c’è stato tempo, quella è stata una giornataccia, ma dicono che sia terribile, terribile, ci sono anche lettere di capi di Stato, di generali, che spiegavano come si potesse fare un disastro più grande. Per me è stata una esperienza molto più toccante che quella di Nagasaki. Nagasaki, è quella del martirio: ho visto il museo del martirio; ma quella di Hiroshima molto toccante. Lì ho ribadito che l’uso delle armi nucleari è immorale: questo deve andare nel catechismo della chiesa cattolica. E non solo l’uso ma anche il possesso. Perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità. Pensiamo a quel detto di Einstein: la quarta guerra mondiale si farà con i bastoni e le pietre».

Lei ha detto che una pace duratura non è realizzabile senza disarmo. Il Giappone gode della protezione militare degli Usa ed è anche produttore di energia nucleare, cosa che comporta un grave rischio per l’ambiente e l’umanità, come è stato tragicamente dimostrato dall’incidente di Fukushima. Il Giappone come può contribuire alla realizzazione della pace mondiale? Dovrebbero essere spente le centrali nucleari? «Nelle industrie nucleari può sempre accadere un incidente e voi lo avete sperimentato, anche il “triplice disastro” (11 marzo 2011: il terremoto di magnitudo 9, lo tsunami, tre esplosioni nucleari nella centrale di Fukushima, ndr) che ha distrutto tanto. Il nucleare è al limite. Le armi lasciamole da parte perché sono distruzione. Ma l’uso di energia nucleare è molto al limite perché ancora non siamo riusciti ad arrivare alla sicurezza totale. Tu potrai dirmi: sì, anche con l’elettricità si può fare un disastro per una insicurezza. Ma è un disastrino piccolo. Un disastro nucleare di una centrale nucleare sarà un disastro grande. E ancora non è stata elaborata la scurezza. Io, ma è un’opinione personale, non userei l’energia nucleare fino a che non ci sia una totale sicurezza dell’uso. Dico una idea: alcuni dicono che è oltre la custodia del creato e distruggerà, che l’energia nucleare deve fermarsi. È in discussione. Io mi fermo sulla sicurezza: non c’è sicurezza per garantire che non ci sarà un disastro. Sì, uno al mondo in dieci anni. Ma poi ha effetti anche sul creato. Il disastro della potenza nucleare sul creato e sulla persona …Distinguo dalla guerra, dalle armi. Ma qui dico: dobbiamo fare ricerche sulla sicurezza, sia per evitare un disastro sia per le conseguenze sull’ambiente. E credo che siamo andati oltre il limite. Oltre il limite. Nell’agricoltura si usano i pesticidi, nell’allevamento dei polli... I medici dicono alle mamme di non dare da mangiare ai bambini polli di allevamento perché sono ingrassati con ormoni…Tante malattie rare ci sono oggi per l’uso non buono dell’ambiente. Malattie rare. La custodia dell’ambiente è una cosa che…o oggi o mai. Tornando sull’ energia nucleare: sicurezza e custodia ambiente».

Hakawada Awao è un uomo giapponese già condannato a morte e ora in attesa della revisione del processo ed era presente alla messa a Tokyo, ma non ha avuto modo di parlare con lei. Ci potrebbe confermare se fosse in programma o no un breve incontro con lei? Il tema della pena di morte in Giappone è molto discusso. Poco piu di un mese prima della modifica del catechismo, è stata eseguita la condanna di 13 detenuti e su questo tema non c’è stato un riferimento nei suoi discorsi in questa visita: come mai non si è voluto pronunciare? O ha avuto modo di parlarne con il primo ministro? «Quel caso di pena di morte l’ho saputo dopo. Con il primo ministro ho parlato in genere di tanti problemi di condanne, di processi eterni che non finiscono mai, sia con la morte che senza morte. Ma ho parlato del problema generale, che anche in altri Paesi si dà: le carceri sono sovraffollate e c’è gente che aspetta in una prigione preventiva senza la presunzione di innocenza, aspetta, aspetta… Quindici giorni fa ho fatto un intervento al convegno di diritto internazionale e ho parlato seriamente del tema delle carceri, della presunzione e della pena di morte. È stato detto con chiarezza che la pena di morte non è morale e non si può fare. Credo che questo vada unito a una coscienza che si sviluppa: per esempio, alcuni Paesi non possono deciderne l’abolizione per problemi politici ma fanno una sospensione, ed è un modo di dichiarare senza dichiararlo l’ergastolo. Ma il problema della condanna è che sempre dev’essere per il reinserimento. Una condanna senza finestre, senza orizzonte, non è umana. Anche un ergastolano, si deve pensare come può reinserirsi, dentro o fuori, ma sempre ci sia l’orizzonte: il reinserimento. Lei dirà: ma ci sono condannati pazzi che hanno problemi di malattia, di pazzia, di incorreggibilità genetica. Cerchiamo di fare in modo che almeno producano, facciano qualcosa che li faccia sentire persone. In tante parti del mondo oggi le carceri sono sovraffollate, è un deposito di carne umana che invece di crescere con salute tante volte si corrompe. Dobbiamo lottare contro la pena di morte. Lentamente, ci sono casi che a me danno gioia perché esistono Paesi che dicono: ci fermiamo. Ho parlato con il governatore di uno Stato, l’anno scorso, e lui prima di lasciare il posto ha fatto sospensione quasi definitiva. Sono passi di coscienza umana. Altri Paesi non sono riusciti ancora a incorporarli nella linea della umanità».

Lei ha detto che a vera pace può essere solo una pace disarmata. Ma che succede per la legittima difesa, quando un Paese è attaccato da un altro? In questo caso esiste ancora la possibilità di una guerra giusta? Si è parlato di un’enciclica sulla non violenza: è ancora in progetto? «Sì, il progetto c’è ma la farà il prossimo Papa. Appena ho tempo… Ci sono progetti che sono nel cassetto, quello sulla pace, per esempio. È lì che sta maturando, quando sarà il momento la farò. Ma ne parlo abbastanza. Ad esempio, il problema del bullismo coi ragazzi di scuola: è un problema di violenza! Ho parlato proprio ai giovani giapponesi di questo argomento. È un problema che con tanti programmi educativi stiamo cercando di aiutare a risolvere. È un problema di volenza e i problemi di violenza si devono affrontare. Ma un’enciclica sulla violenza non la sento ancora matura, davvero, devo pregare e cercare la via… Sulla pace e le armi c’è quel detto romano: si vis pacem, para bellum. E lì non siamo stati maturi. Le organizzazioni internazionali non riescono, le Nazioni Unite non riescono. Fanno tante cose, tante mediazioni meritevoli. Un Paese come la Norvegia, per esempio, sempre disposto a mediare, a cercare un’uscita per evitare le guerre. Questo si sta facendo e a me piace, ma è poco. Si deve fare ancora di più. Lei pensi, senza offesa, al Consiglio di sicurezza dell’Onu: c’è un problema con le armi, tutti d’accordo per risolvere quel problema per evitare un incidente bellico, tutti votano sì, ma uno col diritto al veto dice di no e tutto si ferma. Io ho sentito -non so giudicare - che forse le Nazioni Unite dovrebbero fare un passo avanti rinunciando nel Consiglio di sicurezza al diritto al veto di alcune nazioni. Non sono un tecnico in questo ma ho sentito come una possibilità. Non so cosa dire, però sarebbe bello che tutti avessero lo stesso diritto. Ma nell’equilibrio mondiale ci sono argomenti che in questo momento non sono in grado di giudicare. Tutto quello che si fa per fermare la produzione delle armi e fermare le guerre e andare al negoziato, anche con l’aiuto dei facilitatori e aiutatori, questo si deve fare sempre sempre. E dare i risultati. Alcuni dicono che sono pochi, ma incominciamo con poco e poi andiamo oltre. Il risultato del negoziato è risolvere dei problemi. Ad esempio, il caso di Ucraina e Russia, non si parla di armi ma c’è stato il negoziato per lo scambio di prigionieri. Questo è positivo: sempre un passo per la pace. C’è stato adesso un interscambio per pensare la pianificazione di un regime governativo nel Donbass e stanno discutendo. È successa poco tempo fa una cosa bella e brutta. La cosa brutta, devo dirlo, è l’ipocrisia armamentista: paesi cristiani, o almeno di cultura cristiana, paesi europei che parlano di pace e vivono delle armi. Questa si chiama ipocrisia. È una parola evangelica, Gesù la diceva, tante volte nel capitolo 23 di Matteo. Bisogna finirla con quella ipocrisia e che una nazione abbia il coraggio di dire: “Io non posso parlare di pace perché la mia economia guadagna tanto con la fabbricazione delle armi”. Senza insultare e sporcare quel Paese, occorre parlare come fratelli. La fratellanza umana! Fermiamoci ragazzi, fermiamoci perché la cosa è brutta! In un porto, adesso non ricordo bene, è arrivata una nave piena di armi che doveva farle passare in una nave più grande che doveva andare nello Yemen (noi sappiamo cosa succede, nello Yemen). I lavoratori del porto hanno detto no. Sono stati bravi! E la nave è tornata a casa sua. Un caso, ma ci insegna come ci si deve regolare. La pace oggi è molto debole, molto debole! Ma non dobbiamo scoraggiarci».

E la legittima difesa con le armi? «L’ipotesi della legittima difesa rimane sempre. È un’ipotesi che anche nella teologia morale va contemplata, ma come ultimo ricorso, ultimo ricorso con le armi! C’è la legittima difesa con la diplomazia, con la mediazione… Ultimo ricorso: legittima difesa, ma sottolineo ultimo ricorso. Noi stiamo andando verso un progresso etico e a me piace mettere in questione tutte queste cose. Vuol dire che l’umanità va avanti anche per il bene, non solo per il male».

L’America latina è in fiamme. Dopo il Venezuela, abbiamo visto in Cile delle immagini che non pensavamo di rivedere dopo Pinochet. Abbiamo visto la situazione in Bolivia, in Nicaragua, in altri paesi. Rivolte, violenza nelle strade, gente, morti, feriti, anche chiese violate. Qual è la sua analisi di ciò che sta succedendo in questi Paesi? La Chiesa e lei personalmente, come papa latinoamericano, può fare qualche cosa? Sta facendo qualcosa? «Qualcuno mi ha detto questo: la situazione oggi in America Latina assomiglia a quella del 1974-1980. Cile, Argentina, Uruguay, Brasile, credo che Bolivia pure…avevano l’operativo Condor, in quel momento si chiamava, la situazione così in fiamme, Ma non so se assomiglia. Davvero in questo momento io non sono capace di fare l’analisi totale di questo. È vero che ci sono dichiarazioni precisamente non di pace. Il Cile mi spaventa. Perché il Cile esce da un problema di abusi che ci ha fatto soffrire tanto. E adesso torna un problema del genere che non capiamo bene. Ma è in fiamme, come lei dice. E si deve cercare il dialogo e anche l’analisi. Ancora io non ho trovato una analisi ben fatta sulla situazione in America Latina. Ciò che accade lo si deve anche a governi deboli, molto deboli, che non sono riusciti a mettere ordine e pace dentro. E per questo si crea questa situazione».

Evo Morales ha chiesto la sua mediazione, per esempio. Cose concrete… «Sì, cose concrete. Il Venezuela ha chiesto la mediazione e la Santa Sede è sempre stata disposta, c’è un buon rapporto, noi siamo lì presenti per aiutare quando è necessario. Anche la Bolivia ha fatto qualcosa del genere, ancora non so bene su quale strada ma ha fatto una richiesta alle Nazioni Unite che hanno inviato dei delegati, c’è stato anche qualche paese dell’Unione Europea. Il Cile non so, il Brasile certamente no, ma anche lì ci sono dei problemi. È una cosa un po’ strana e io non vorrei dire una parola di più, perché sinceramente non ho studiato bene il problema».

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 2 novembre 2019. La Santa Sede rischia il default? Impossibile. Recita il canone 1273: «Il Romano Pontefice, in forza del primato di governo, è il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici». Ci insegna Socrate, tramite Platone: «È sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s'illude di sapere e ignora così perfino la sua stessa ignoranza». Sono otto anni che dalle carte trafugate dal Vaticano qualcuno tenta di ricavare pane, companatico e fama mediatica. Avrebbe reso miglior servizio alla verità apprendendo almeno la differenza tra Stato della Città del Vaticano e Santa Sede. La prima è un'entità giuridica sovrana e organizzata conformemente al diritto internazionale: batte moneta ed ha una banca "nazionale", l'Apsa. La Santa Sede è una realtà interna alla Chiesa Cattolica, composta da organismi che aiutano il pontefice ad esercitare il ministero petrino su tutto l' orbe cattolico ed è retta dal diritto canonico. Lo Ior, psicosi ossessiva per alcuni giornalisti, è solo uno dei mezzi per amministrare risorse economiche che giungono alla Santa Sede. E il cosiddetto "obolo di San Pietro" è stato pensato per aiutare il Papa a difendere la libertà sua e della Chiesa. Intanto nella Roma che celebrava un Sinodo Amazzonico destinato a cambiare la percezione che la Chiesa ha di sé e della storia, come cantava Ivano Fossati «un treno è passato con un carico di frutti. Eravamo alla stazione, sì ma dormivamo tutti». Quattro settimane storiche di un mese missionario definito "straordinario", sono state ritmate da un susseguirsi di notizie "bomba": l' inchiesta su cinque dipendenti vaticani, la nomina dell' ex procuratore Pignatone a presidente del tribunale vaticano, le dimissioni del comandante Giani, il lancio del libro di Gianluigi Nuzzi. Quando si dice il tempismo. 

Francesco Antonio Grana per ilfattoquotidiano.it il 27 novembre 2019. Dalla Banca d’Italia al Vaticano. Papa Francesco ha nominato Carmelo Barbagallo nuovo presidente dell’Autorità d’Informazione Finanziaria della Santa Sede. Un incarico finora ricoperto dall’avvocato svizzero René Brüelhart che è stato congedato da Bergoglio al termine del suo mandato, proprio mentre l’Aif, insieme alla prima sezione della Segreteria di Stato, è al centro di un’inchiesta penale vaticana su presunte operazioni immobiliari illecite. Inchiesta che finora ha portato alla sospensione di cinque dirigenti, tra i quali il direttore dell’Aif, Tommaso Di Ruzza, genero dell’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. In un comunicato dell’Autorità d’Informazione Finanziaria pubblicato dalla Sala Stampa vaticana, il consiglio direttivo aveva subito difeso l’operato del suo direttore. Ma dopo la defenestrazione di Brüelhart, a lasciare sono stati anche due consiglieri: lo svizzero Marc Odendall e lo statunitense Juan Carlos Zarate. È stato lo stesso Bergoglio ad annunciare che sono iniziati gli interrogatori dei cinque dirigenti sospesi. “Sono onorato dell’incarico ricevuto, – ha affermato Barbagallo a Vatican News – di cui sento tutto il peso morale e professionale, e ringrazio il Santo Padre per la fiducia che ha riposto in me. Al servizio dell’incarico ricevuto alla guida dell’Aif cercherò di portare tutta l’esperienza accumulata in quarant’anni di lavoro in Banca d’Italia, come ispettore, come capo della vigilanza sul sistema bancario e finanziario italiano e nell’ambito del sistema di supervisione bancaria europea”. “Sono certo – ha aggiunto Barbagallo – che l’Aif saprà dare il proprio apporto, nella veste di autorità di controllo, affinché continuino ad essere affermati, e siano riconosciuti, i valori fondamentali della correttezza e della trasparenza di tutti movimenti finanziari in cui è impegnata la Santa Sede. Intendo rassicurare il sistema internazionale di informazione finanziaria che sarà data ogni collaborazione, nell’assoluto rispetto dei migliori standard internazionali. Sarò già da oggi al lavoro per dare continuità all’azione dell’Aif nel perseguimento dei suoi importanti obiettivi istituzionali”. Nato a Catania il 28 febbraio 1956, Barbagallo è coniugato e ha due figli. Nel 1978 si laurea con lode in giurisprudenza presso l’Università di Catania. Nel 1979 consegue la specializzazione in economia regionale e collabora con le cattedre di diritto privato e diritto industriale. È revisore ufficiale dei conti. Nel 1980 entra in Banca d’Italia. Nel 2009 è nominato sostituto del capo dell’Ispettorato vigilanza e dal 2011 assume la titolarità del servizio. Dal 2013 è funzionario generale con la qualifica di direttore centrale per la vigilanza bancaria e finanziaria. Dal 2014 al 2019 è capo del Dipartimento vigilanza bancaria e finanziaria. Dal 1° luglio 2019 assume l’incarico di alta consulenza al direttorio della Banca in materia di vigilanza bancaria e finanziaria. Parlando con i giornalisti a bordo del volo papale di ritorno dal viaggio in Thailandia e Giappone, Bergoglio si è soffermato proprio sull’inchiesta che vede al centro l’Aif e la Segreteria di Stato. “È la prima volta – ha affermato Francesco – che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro, non da fuori. Da fuori tante volte. Ci hanno detto tante volte e noi con tanta vergogna… Ma Papa Benedetto è stato saggio, ha cominciato un processo che è maturato, maturato e adesso ci sono le istituzioni. Che il revisore abbia avuto il coraggio di fare una denuncia scritta contro cinque persone, sta funzionando… Davvero, non voglio offendere il gruppo Egmont perché fa tanto bene, aiuta, ma in questo caso la sovranità dello Stato è la giustizia, che è più sovrana del potere esecutivo. Non è facile da capire ma vi chiedo di capirlo”. La conseguenza dell’inchiesta penale con la relativa sospensione di Di Ruzza è stata, infatti, che il gruppo Egmont, la rete delle intelligence finanziarie di 164 Stati tra cui la Santa Sede che con lo scambio confidenziale delle informazioni combattono il riciclaggio di denaro e altri crimini finanziari, ha subito escluso l’Aif da questo circuito. La motivazione di questa decisione è che le informazioni riservate non possono essere conosciute dalla Gendarmeria vaticana o dai pm della Santa Sede che stanno indagando. Ma il Papa vuole continuare lo stesso nella sua opera di trasparenza. Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 27 novembre 2019. Matteo Renzi sotto assedio giudiziario. Le venti sedi della sua fondazione, funzionante da alcuni anni, sono oggetto di perquisizioni da parte della magistratura. Che cerca chissà quali irregolarità. Tutto può essere. Pare che la questione sia relativa a una serie di carte di credito consegnate a parlamentari di cui attualmente non si conoscono i nomi. Ci tocca attendere gli sviluppi dell' inchiesta che a noi, francamente, sembra deboluccia. Per il momento non ci resta che prendere atto dell'indagine in corso, vedremo come andrà a finire. L'unica osservazione critica che possiamo fare è la seguente: non appena un uomo politico influente in qualche modo si fa notare, è preso di mira dalle toghe, e lui viene sputtanato in attesa di chiarezza. Se poi durante la citata congiuntura i pm inviano agli indagati degli avvisi denominati impropriamente di garanzia, addio reputazione per coloro che li hanno ricevuti. Intanto consideriamo alcuni fatti. Renzi oggi è tornato alla ribalta essendo stato protagonista della composizione del governo in carica. Improvvisamente i riflettori sono stati puntati su di lui, e ciò lo danneggia come lo aveva danneggiato, non poco, l'incriminazione dei suoi genitori, accusati di fatturazioni false. Insomma l'ex premier è stato travolto da scandali che sinceramente ci sembrano frutto di manovre tese a squalificare un parlamentare di razza, e lo diciamo pur non essendo noi tifosi del suo gruppo. Ci limitiamo ad osservare che il fiorentino è un abile manovratore capace di spiazzare i suoi avversari e metterli nell' angolo. E quando un uomo delle istituzioni emerge dal grigiore dominante, immediatamente viene sottoposto a investigazioni, le quali, benché possano risolversi in bolle di sapone, segnano comunque la sua reputazione. Prudenza ci impone di non calcare la mano su Matteo, consapevoli che in Italia le inquisizioni spesso si smosciano allorché l' inquisito ormai è stato distrutto moralmente. Speriamo che stavolta - forse è una illusione - i pubblici ministeri si spiccino a comunicare al popolo se siamo di fronte a un mariuolo o all' ennesima vittima.

Finanze, il Papa volta pagina.  Lascia il capo dell’Autorità. Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it.  Il Papa volta pagina dopo l’ennesimo scandalo finanziario, la vicenda del Palazzo londinese da 200 milioni di dollari al 60 di Sloane Avenue. Il presidente dell’ Autorità di Informazione Finanziaria (Aif) del Vaticano, lo svizzero René Brüelhart, lascia l’incarico alla scadenza del mandato di cinque anni e non sarà rinnovato. Il Vaticano ha informato che il pontefice, «nel ringraziarlo per il servizio reso in questi anni», ha già nominato il successore alla guida dell’Autorità antiriciclaggio, «individuando una figura di alto profilo professionale ed accreditata competenza a livello internazionale». Il nuovo presidente sarà nominato formalmente il 26 novembre, al ritorno del Papa dal viaggio in Thailandia e Giappone, come ha spiegato il portavoce vaticano Matteo Bruni: «Il differimento si rende necessario per il rispetto dei precedenti impegni istituzionali dell’interessato e per la definizione di alcune procedure interne alla Santa Sede». Così Francesco, dopo le polemiche e i veleni delle ultime settimane, fa punto e a capo su tutta la vicenda. È evidente che abbia pesato il caso del palazzo di Londra e l’indagine della procura vaticana che ha portato, tra l’altro, alla perquisizione degli uffici di Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Aif, il collaboratore più stretto del presidente Brüelhart. L’indagine è nata da due denunce presentate a luglio ed agosto dello Ior e dall’ufficio del Revisore Generale. L’Aif guidata da Brüelhart, il 23 ottobre, aveva risposto a sorpresa con una nota a difesa di Di Ruzza : «Né il direttore né alcun altro dipendente Aif hanno svolto in maniera inadeguata la propria funzione o tenuto qualsiasi altra condotta impropria». Nel frattempo il Papa aveva deciso di sostituire anche il comandate della Gendarmeria che aveva guidato le perquisizioni. La settimana scorsa, inoltre, Francesco ha nominato un nuovo Prefetto della Segreteria per l’Economia, una carica vacante da mesi dopo le dimissioni del cardinale George Pell, finito sotto processo un Australia per abusi su minori e coperture. Al vertice dell’Economia vaticana c’è ora un confratello di Bergoglio, il gesuita spagnolo Juan Antonio Guerrero Alves, 60 anni, consigliere generale della Compagnia di Gesù.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 19 novembre 2019. Di fatto il Papa non ha rinnovato il contratto a  Rene Bruelhart, l'avvocato di Friburgo che in Vaticano, fino a stamattina, era a capo dell'Autorità di informazione finanziaria (Aif). Bruelhart ha riferito a Reuters di essersi dimesso. L'uscita dall'Aif – l'authority finanziaria che lavora in stretto collegamento con Moneyvall - fa seguito alle anomale perquisizioni fatte dalla gendarmeria vaticana a quattro dipendenti in Segreteria di Stato e al vice direttore dell'Aif, Di Ruzza. Un atto senza precedenti negli uffici vaticani, avvenuto lo scorso ottobre in circostanze misteriose e di cui ancora oggi non si conoscono i contorni. Una operazione talmente poco chiara che il Gruppo Egmont - una rete di 130 paesi che ha fatto accordi reciproci per l'antiriciclaggio - dopo la perquisizione negli uffici della Segreteria di Stato e dell'Aif hanno deciso di sospendere l'Authority vaticana sine die dal circuito interno delle comunicazioni riservate anche se resta ancora un membro di Egmont. La notizia è stata confermata dalla agenzia Associated Press. Al momento l'organismo vaticano sarebbe una specie di «guscio vuoto». Papa Francesco sembra abbia «provveduto a designare il successore di Bruelhart» ma il suo nome si conoscerà solo il 26 novembre, alla fine del viaggio papale in Giappone. C'è chi ipotizza che potrebbe essere Mario Draghi, ma non ci sono affatto conferme, solo rumors non confermati. Nel frattempo uno scarno comunicato del Vaticano spiega solo che Brulhart è giunto alla fine del suo mandato ed è stato ringraziato per il servizio reso in questi anni. Il Pontefice avrebbe già individuato una figura di alto profilo professionale e accreditata competenza a livello internazionale da mettere al suo posto ma l'annuncio è stato dilazionato. «In merito all’annunciata designazione del nuovo Presidente dell’AIF - ha spiegato Bruni, direttore della sala stampa - posso precisare che il differimento della effettiva nomina si rende necessario per il rispetto dei precedenti impegni istituzionali dell’interessato e per la definizione di alcune procedure interne alla Santa Sede». Alcuni mesi fa Brulhart era stato al centro di alcuni articoli in Svizzera che lo legavano a un fondo in Malesia finito nell'occhio del ciclone dell'antiriciclaggio. Notizie che erano state smentite dal Vaticano: «René Bruelhart non è accusato o soggetto ad alcun procedimento penale, né direttamente né indirettamente, in Svizzera o in altri Paesi»  aveva precisato il direttore della Sala Stampa vaticana. Prima di arrivare in Vaticano Bruelhart era stato per otto anni direttore della Financial Intelligence Unit (Fiu) del Liechtenstein, ed è considerato un esperto nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo.

Massimo Franco per il “Corriere della sera” il 22 novembre 2019. Trasparenza finanziaria vaticana, addio. «Stiamo tornando indietro di dieci anni. E rischiamo l'isolamento nelle istituzioni di controllo internazionali: da Moneyval al gruppo Egmont», il forum che riunisce informalmente circa centocinquanta unità di intelligence finanziaria. A tre giorni dalle dimissioni del presidente dell'Aif, lo svizzero di Friburgo René Bruelhart, i motivi del suo abbandono stanno assumendo contorni più precisi. E inquietanti. La tesi che se ne sia andato perché in scadenza di contratto ha retto pochi giorni. E dai misteri vaticani comincia a emergere una verità diversa. «L'Aif, cuore delle operazioni di antiriciclaggio dei soldi del Vaticano e di vigilanza sui movimenti bancari», fa notare una fonte anonima che di questo sa molto, «è stata decapitata». Prima, all'inizio di ottobre, la sospensione del direttore Tommaso Di Ruzza. Cinquanta giorni dopo, Bruelhart, per cinque anni garante dei rapporti con Moneyval e Egmont, è stato di fatto indotto alle dimissioni. E papa Francesco? «Nel ringraziarlo per il servizio reso», ha spiegato il 18 novembre scorso una nota della sala stampa vaticana, «il Santo Padre ha provveduto a designare il successore, individuando una figura di alto profilo professionale e accreditata competenza a livello internazionale...». In realtà, Bruelhart si sarebbe sentito abbandonato, racconta chi ha avuto modo di parlargli. Fin dall' inizio, ha visto il provvedimento contro Di Ruzza come un segnale destinato in realtà a lui e all' Aif, considerata troppo intraprendente nel cercare tra le maglie delle finanze vaticane gli intrecci più perversi. Per cinque settimane avrebbe tentato di capire come mai fosse stato sospeso Di Ruzza, dopo una perquisizione compiuta senza nemmeno avvertire Bruelhart; e perché la Gendarmeria avesse sequestrato tutti i documenti nell' ufficio del direttore, senza farne nemmeno un inventario. In un colloquio gonfio di imbarazzo col procuratore di giustizia della Santa Sede, Gian Piero Milano, Bruelhart non sarebbe riuscito a conoscere nemmeno le accuse rivolte al suo collaboratore. Così, dopo un duro comunicato col quale rinnovava la sua completa fiducia a Di Ruzza, ha preso atto che la sua stagione era finita. Ufficialmente, il cortocircuito è scattato con la storiaccia del palazzo londinese di Sloane Avenue che ha ingoiato oltre 200 milioni di euro dell' obolo di San Pietro, cassaforte della carità papale: una vicenda gestita maldestramente tra Segreteria di Stato, mediatori spregiudicati e misteriosi fondi di investimento. Da lì, il 1° ottobre scorso, è stata comunicata la sospensione di cinque dipendenti del Vaticano, tra i quali Di Ruzza: di nuovo, un caso gestito in modo poco trasparente che ha provocato, a cascata, le dimissioni del capo della Gendarmeria, Giandomenico Giani. Si è assistito perfino a un raro scambio di accuse tra il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, e l'ex numero due, cardinale Giovanni Angelo Becciu, per l'«operazione opaca», secondo Parolin, del palazzo di Londra, difesa da Becciu. Si è saputo che a inizio di aprile l'Aif aveva sconsigliato di procedere con l'affare immobiliare, perché il Vaticano si era affidato a mediatori poco raccomandabili. Ma l'impressione è che quell'episodio abbia rivelato un' involuzione in atto da tempo; e la persistenza di comitati d'affari che agiscono indisturbati dietro il velo del papato riformatore. Le dimissioni di Bruelhart segnano una svolta. «Se l'Aif non riesce più a operare, cade anche l'ultimo tentativo di offrire garanzie di trasparenza alle istituzioni di controllo internazionali». Il rosario dei «caduti» su questo fronte, con motivazioni a volte opache o perfino false, è lungo. Il caso più eclatante è stato quello di Libero Milone. Nel giugno del 2017 il primo revisore generale dei conti, scelto da Francesco, si dimise. Si accreditò un abbandono volontario, mentre mesi dopo si sfogò che per farlo andare via era stato minacciato di arresto. Eppure, alla fine non risultò pendente nessun processo a suo carico. Milone in seguito scrisse cinque lettere al Papa: mai ricevuto risposta. A oggi, non è stato ancora sostituito. Ci sono voluti due anni e mezzo perché il Pontefice nominasse qualcuno al posto del cardinale George Pell, ex prefetto per l' Economia. Pell, in «congedo» dal 2017 per affrontare un processo per molestie sessuali contro minori, oggi è in prigione a Sydney dopo essere stato condannato da un tribunale del suo Paese. Pochi giorni fa, il Papa ha designato come suo successore un gesuita spagnolo, Guerrero Alves: un «uomo nuovo», si dice, chiamato a accelerare riforme insabbiate da tempo. E ora si consuma la rottura con i vertici dell' Aif. Il nuovo presidente dovrebbe essere nominato al ritorno del Pontefice dal Giappone. Ma troverà una scatola vuota e un clima ostile. Si parla di dimissioni di alcuni dei quattro membri del Consiglio direttivo, dopo l' uscita di scena di Bruelhart. Soprattutto, l'Aif rischia di essere esclusa dallo scambio di informazioni «sensibili» del gruppo Egmont, al quale è stata ammessa nel 2013. Il Vaticano ha l' obbligo di tenere segreti documenti come quelli sequestrati a Di Ruzza. Sembra che a candidarsi come interlocutore delle istituzioni finanziarie, almeno temporaneamente, sia la magistratura vaticana. «In bocca al lupo», ironizzano quanti hanno seguito da vicino le convulsioni dell' Aif. Non sorprende che Francesco, durante il volo per l' Asia, per ora abbia preferito non rispondere a domande su questioni così scivolose.

Paolo Rodari per repubblica.it il 14 novembre 2019. Sette mesi e mezzo dopo la conferma data dall’allora portavoce vaticano Alessandro Gisotti del fatto che il cardinale George Pell, accusato di abusi sessuali su minori, non è più prefetto della Segreteria per l’Economia, arriva l’annuncio della nuova nomina da parte di Francesco. Il nuovo prefetto è lo spagnolo padre Juan Antonio Guerrero Alves, gesuita, Consigliere Generale della Compagnia di Gesù e delegato per le Case e Opere Romane della Compagnia di Gesù, che assume l’incarico senza ricevere il grado di arcivescovo. Rimane, in sostanza, un semplice religioso al servizio del Papa e della curia romana. Uomo di fiducia di Arturo Sosa, superiore generale della Compagnia, Guerrero ha 60 anni e una ricca esperienza di ministeri e di governo. Francesco, rimasto particolarmente scottato dall’ultimo scandalo degli immobili del Vaticano a Londra che ha investito cinque funzionari fra l’Autorità d’Informazione Finanziaria e la Segreteria di Stato e grazie al quale si è reso ancora di più conto di come un sistema di corruzione italiano cerchi ancora e con insistenza di fare soldi Oltretevere, sceglie un semplice religioso per un ruolo delicato. In passato, infatti, non pochi sono stati gli screzi fra Pell, lo Ior, e la segreteria di Stato. Francesco si aspetta da Guerrero report costanti, lealtà e trasparenza. Dichiara non a caso lo stesso Guerrero a Vatican News: “Come gesuita è una gioia ricevere una missione direttamente dal Papa. È un modo privilegiato per realizzare la mia vocazione”. E ancora: “L’obbedienza che professo mi ha sempre portato su percorsi inaspettati, mi ha condotto dove non avrei mai osato provare e sono grato. L'obbedienza è, per me, un luogo privilegiato di incontro con il Signore”. Guerrero è entrato nel noviziato dei gesuiti nel 1979. Precedentemente aveva iniziato gli studi di Scienze economiche all’Universita di Madrid, poi proseguiti in Compagnia. Ha compiuto la formazione filosofica all’Universita Pontificia di Comillas, sempre a Madrid. Ha poi studiato Teologia a Belo Horizonte, Madrid e Lione. A Boston ha compiuto studi di etica sociale, materia che ha poi insegnato all’Università di Comillas, fino al 2003. In questo periodo è stato anche Superiore di una comunità di scolastici. È stato maestro dei novizi a Zaragoza e San Sebastian, quindi è stato nominato provinciale di Castilla. Dal 2014 ha lavorato in Mozambico come assistente dell’amministratore, direttore di progetti e direttore della scuola Ignacio de Loyola. L’ultimo incarico di delegato per le Case e Opere Romane della Compagnia di Gesù ha permesso al Papa di conoscerlo più a fondo e frequentarlo. Non sono pochi, infatti, i contatti fra la Casa generalizia dei gesuiti a Borgo Santo Spirito e Santa Marta.

L’uomo dell’antiriciclaggio vittima dello scontro sulle finanze vaticane. Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. La tesi che se ne sia andato perché in scadenza di contratto ha retto pochi giorni. E dai misteri vaticani comincia a emergere una verità diversa. «L’Aif, cuore delle operazioni di antiriciclaggio dei soldi del Vaticano e di vigilanza sui movimenti bancari», fa notare una fonte anonima che di questo sa molto, «è stata decapitata». Prima, all’inizio di ottobre, la sospensione del direttore Tommaso Di Ruzza. Cinquanta giorni dopo, Bruelhart, per cinque anni garante dei rapporti con Moneyval e Egmont, è stato di fatto indotto alle dimissioni. E Papa Francesco? «Nel ringraziarlo per il servizio reso», ha spiegato il 18 novembre scorso una nota della sala stampa vaticana, «il Santo Padre ha provveduto a designare il successore, individuando una figura di alto profilo professionale e accreditata competenza a livello internazionale...». In realtà, Bruelhart si sarebbe sentito abbandonato, racconta chi ha avuto modo di parlargli. Fin dall’inizio, ha visto il provvedimento contro Di Ruzza come un segnale destinato in realtà a lui e all’Aif, considerata troppo intraprendente nel cercare tra le maglie delle finanze vaticane gli intrecci più perversi. Per cinque settimane avrebbe tentato di capire come mai fosse stato sospeso Di Ruzza, dopo una perquisizione compiuta senza nemmeno avvertire Bruelhart; e perché la Gendarmeria avesse sequestrato tutti i documenti nell’ufficio del direttore, senza farne nemmeno un inventario. In un colloquio gonfio di imbarazzo col procuratore di giustizia della Santa Sede, Gian Piero Milano, Bruelhart non sarebbe riuscito a conoscere nemmeno le accuse rivolte al suo collaboratore. Così, dopo un duro comunicato col quale rinnovava la sua completa fiducia a Di Ruzza, ha preso atto che la sua stagione era finita. Ufficialmente, il cortocircuito è scattato con la storiaccia del palazzo londinese di Sloane Avenue che ha ingoiato oltre 200 milioni di euro dell’obolo di San Pietro, cassaforte della carità papale: una vicenda gestita maldestramente tra Segreteria di Stato, mediatori spregiudicati e misteriosi fondi di investimento. Da lì, il 1° ottobre scorso, è stata comunicata la sospensione di cinque dipendenti del Vaticano, tra i quali Di Ruzza: di nuovo, un caso gestito in modo poco trasparente che ha provocato, a cascata, le dimissioni del capo della Gendarmeria, Giandomenico Giani. Si è assistito perfino a un raro scambio di accuse tra il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, e l’ex numero due, cardinale Giovanni Angelo Becciu, per l’«operazione opaca», secondo Parolin, del palazzo di Londra, difesa da Becciu. Si è saputo che a inizio di aprile l’Aif aveva sconsigliato di procedere con l’affare immobiliare, perché il Vaticano si era affidato a mediatori poco raccomandabili. Ma l’impressione è che quell’episodio abbia rivelato un’involuzione in atto da tempo; e la persistenza di comitati d’affari che agiscono indisturbati dietro il velo del papato riformatore. Le dimissioni di Bruelhart segnano una svolta. «Se l’Aif non riesce più a operare, cade anche l’ultimo tentativo di offrire garanzie di trasparenza alle istituzioni di controllo internazionali». Il rosario dei «caduti» su questo fronte, con motivazioni a volte opache o perfino false, è lungo. Il caso più eclatante è stato quello di Libero Milone. Nel giugno del 2017 il primo revisore generale dei conti, scelto da Francesco, si dimise. Si accreditò un abbandono volontario, mentre mesi dopo si sfogò che per farlo andare via era stato minacciato di arresto. Eppure, alla fine non risultò pendente nessun processo a suo carico. Milone in seguito scrisse cinque lettere al Papa: mai ricevuto risposta. A oggi, non è stato ancora sostituito. Ci sono voluti due anni e mezzo perché il pontefice nominasse qualcuno al posto del cardinale George Pell, ex Prefetto per l’Economia. Pell, in «congedo» dal 2017 per affrontare un processo per molestie sessuali contro minori, oggi è in prigione a Sydney dopo essere stato condannato da un tribunale del suo Paese. Pochi giorni fa, il Papa ha designato come suo successore un gesuita spagnolo, Guerrero Alves: un «uomo nuovo», si dice, chiamato a accelerare riforme insabbiate da tempo. E ora si consuma la rottura con i vertici dell’Aif. Il nuovo presidente dovrebbe essere nominato al ritorno del pontefice dal Giappone. Ma troverà una scatola vuota e un clima ostile. Si parla di dimissioni di alcuni dei quattro membri del Consiglio direttivo, dopo l’uscita di scena di Bruelhart. Soprattutto, l’Aif rischia di essere esclusa dallo scambio di informazioni «sensibili» del gruppo Egmont, al quale è stata ammessa nel 2013. Il Vaticano ha l’obbligo di tenere segreti documenti come quelli sequestrati a Di Ruzza. Sembra che a candidarsi come interlocutore delle istituzioni finanziarie, almeno temporaneamente, sia la magistratura vaticana. «In bocca al lupo», ironizzano quanti hanno seguito da vicino le convulsioni dell’Aif. Non sorprende che Francesco, durante il volo per l’Asia, per ora abbia preferito non rispondere a domande su questioni così scivolose.

«Risanare il Vaticano: la sfida di Francesco», il libro-inchiesta di Gianluigi Nuzzi. Documenti riservati, testimonianze dirette e cifre choc nell'ultimo volume del giornalista e scrittore. Michele De Feudis il 9 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una radiografia dei conti dello Stato Vaticano, costruita su documenti riservati, testimonianze e dati incontrovertibili che evidenziano il possibile prossimo corto circuito tra gestione amministrativa (tendente al rosso fisso) e vocazione solidarista. Giudizio universale» (pp. 368, euro 19, Chiarelettere) è il nuovo libro-inchiesta di Gianluigi Nuzzi, giornalista e scrittore, conduttore per Mediaset della trasmissione «Quarto grado», e questa sera ospite del Prospero Fest a Monopoli (Ba) per presentare il volume.

Nuzzi, «Giudizio universale» è un nuovo viaggio nelle pieghe meno note, a tratti oscure, della Chiesa cattolica. Da dove parte questo racconto-inchiesta?

«È un libro in presa diretta, porto il lettore nelle sacre stanze, lo faccio partecipare alle riunioni più riservate dei cardinali, agli incontri con il Papa, grazie a 3000 documenti e testimonianze oculari, tutti incentrati sulle problematiche che il pontefice ha affrontato negli ultimi due o tre anni».

La battaglia di Papa Francesco per una chiesa differente…

«Si tratta di un impegno perché torni «la Chiesa della Fede». Il Vaticano, per far recuperare alla Chiesa i passi perduti, deve rilanciare l’economia e le finanze, ma ora il Papa è gravato da una situazione disastrosa, che ha ritrovato dopo il suo insediamento».

Vaticano a rischio fallimento?

«Oggi in Vaticano si perdono ogni giorno 120mila euro. Mentre il rubinetto delle offerte si va asciugando, dall’altra parte si allarga la voragine del deficit. Secondo i cardinali vicini al Papa il deficit è strutturale e, se non sarà frenato, si rischia di arrivare al default.

I vertici vaticani che consapevolezza hanno della situazione drammatica?

«Il 14 maggio del 2018 il cardinale Marx, esperto di numeri vicino a Francesco, ha incontrato il Papa e gli ha prospettato questo quadro molto negativo. Il risultato è che è stata implementata una task force, un gruppo operativo che entro il 2023 deve rimettere i bilanci in ordine».

Di chi è la colpa del pre-dissesto?

«Non c’è una individualità responsabile. Ci sono diverse motivazioni. È finita la chiesa ricca, quella immaginata in passato. Le offerte sono diminuite. L’obolo di San Pietro è indicativo: dai dati globali, risultano paesi cattolici come l’Italia, la Germania e gli Usa che versano molto meno del passato, dall’11 al 96 per cento in meno».

Eppure la Chiesa ha un patrimonio immobiliare che potrebbe tamponare la crisi con una buona gestione…

«La gestione del patrimonio è molto onerosa. È vero che il Vaticano è un grande proprietario di immobili, con apparente solidità, ma questo patrimonio non dà reddito.  Gli affitti sono tra il -20% e -70% in meno rispetto ai canoni di mercato. Ci sono molte case sfitte o date a canone zero o agli amici degli amici. Questo patrimonio pesa sui bilanci e crea deficit, ripianato con le offerte».

Quante risorse delle offerte vanno alle opere solidariste?

«Solo un euro su dieci è destinato alle opere buone del Papa, nove vanno sui conti in rosso della Curia romana. Nemmeno l’Unicef o Medici senza frontiere fanno così…»

Non c’è, però, solo il Vaticano dai conti zoppicanti…

«Si sta aprendo una forbice tra la chiesa sociale delle parrocchie italiane o delle periferie, e quella dello Stato Vaticano. Questo tessuto vitale è sempre più distante dai Sacri palazzi: dove nel libro si raccontano sperperi, congiure, conti milionari dei cardinali, all’opposto della Chiesa povera che vuole Bergoglio. Papa Francesco fa fatica: le sue disposizioni hanno bisogno di tempo».

Su che mole di documenti si fonda questo libro?

«Ho pubblicato i conti segreti dello Ior, intestati a pensionati con operazioni che odorano di riciclaggio. Il cardinale Lajolo ha un conto in titoli di Stato per 2milioni e 800 mila euro…»

C’è un report che l’ha sorpresa?

«Il documento sulla sicurezza in Vaticano, passato in silenzio. Riguarda Piazza San Pietro e la sicurezza dei Papi: i risultati sono sconfortanti, emerge un sistema di sicurezza fragile. C’è una tecnicità arcaica. Tutta la macchina di quello Stato è vetusta. Da una relazione del 2017 viene fuori che negli uffici si copiano i documenti a mano. Si usa ancora ancora la penna…»

Che rapporto ha lo scrittore Nuzzi con la Fede?

«Ho fatto il chierichetto, il boy-scout nell’Agesci, ho frequentato l’oratorio. Sono cattolico, e sono un peccatore.  Conservo un rapporto sereno con la fede e la Chiesa».

Il ruolo di Papa Francesco?

«Lo immaginiamo monarca di una teocrazia, ma deve seguire la dottrina sociale della Chiesa. Di fronte a esuberi di personale non può licenziare nessuno e quindi si trova a dover far fronte a spese di personale che si dilatano arrivando a coprire il 45% della spesa dello Stato e questo grava molto sui conti. Poi ha il perdono e la misericordia, è un padre spirituale, non un amministratore delegato.  Tutti i documenti raccontano di come lo Stato Vaticano abbia conti in rosso e perciò bisogna prendere decisioni robuste».

Negli ultimi scandali, riguardanti operazioni immobiliari si parla anche del prelato pugliese, monsignor Mauro Carlino.

«Sì, nell’acquisto di quel palazzo a Londra risulta coinvolto don Mauro Carlino. C’è un profilo medioevale nella vicenda con le fotografie distribuite all’ingresso del Vaticano poi riprese dall’Espresso. Don Carlino è stato sempre un fedelissimo collaboratore di cardinal Becciu. È improvvido attribuirgli responsabilità: persona di profonda fede, è un esecutore di disposizioni di altri. Sarebbe impensabile credere che abbia agito in autonomia».

Dal libro «Vaticano spa» nel 2009 a «Giudizio universale». Come è cambiata  la chiesa in questi anni?

«C’è stato un tentativo forte di trasparenza a cui non è seguito un miglioramento dei conti né degli strumenti per riordinare le cose. Si fa fatica e il tempo in Vaticano scorre in maniera molto più lenta. Per cambiare il vertice dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, ndr), dove c’è Domenico Calcagno, soprannominato cardinal Rambo perché collezionista di armi da guerra, Papa Francesco ci ha impiegato 5 anni... Il Papa ha molti paletti, la paura degli scandali rallenta i cambiamenti e poi c’è un profilo di autoreferenzialità di fondo… Poi non si comprende perché il governo non chieda indietro i 5 miliardi degli arretrati Imu: ricordarlo non significa essere contro la Chiesa, ma difendere la laicità dello stato».

Papa Francesco rivoluzionerà la Chiesa con il suo animo peronista e sociale?

«Papa Francesco ce la farà, ma il nodo è il tempo, bisogna vedere se riuscirà a ribaltare la situazione entro il 2023».

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il “Corriere della sera” il 17 novembre 2019. «E ora che l' abbiamo comprato, che ne facciamo di questo palazzo a Londra che ci è costato 200 milioni di dollari?». È la domanda che si sono fatti in Vaticano negli ultimi dodici mesi. La risposta ora è arrivata: investiamo ancora, facciamolo rendere. Il palazzo è l' ormai famoso immobile al 60 di Sloane Avenue, già sede di Harrods. Così, mentre si allarga lo scandalo degli investimenti con il finanziere Raffaele Mincione, si allungano le ombre di altri faccendieri e spuntano (come vedremo) mail interne alla Segreteria di Stato cariche di interrogativi sui negoziati del novembre 2018, ecco il nuovo progetto. È stato presentato a fine settembre agli uffici comunali londinesi (Royal Borough of Kensington and Chelsea): due piani in più, un parcheggio seminterrato, 12 mila metri quadrati aggiuntivi per uffici. Avanti tutta, dunque, «l' immobile dovrà tornare a produrre i proventi che la Santa Sede si aspetta», dice una fonte al lavoro sul progetto. Si deve recuperare quanto perduto nei 5 anni di affari con Mincione, che voleva costruirvi 49 appartamenti di lusso. È il 2014 quando il Sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, decide di sottoscrivere quote per 200 milioni di dollari del fondo Athena di Mincione. Il finanziere utilizza gran parte dei fondi, provenienti dall' Obolo di San Pietro, per far rilevare il 45% del palazzo. A vendere è lo stesso Mincione, che si tiene il 55%. Altri milioni li usa in speculazioni di Borsa (Carige, Retelit, Tas). Poi però le cose si mettono male, gli investimenti perdono. A novembre 2018 le loro strade si separano e nella transazione il Vaticano si prende tutto il palazzo. Una vicenda «opaca», ha detto il Segretario di Stato, Pietro Parolin. Indagano la magistratura del Papa e i pm di Roma. Uno snodo chiave è novembre 2018, quando il Vaticano rompe con Mincione e affida a un intermediario, il broker molisano basato a Londra Gianluigi Torzi, l' acquisto del palazzo. Il 22 novembre il fondo Athena di Mincione e Torzi, finanziato dalla Santa Sede, firma l'accordo. Ma dentro le Mura qualcuno solleva dubbi. Tanto che il 27 novembre viene condiviso ai massimi livelli della Segreteria di Stato un testo domanda-risposta sui passaggi più delicati dell' operazione. Il Corriere ne ha una copia. Si specifica, tra le altre cose, che nel consiglio della Gutt, la società lussemburghese che rileva il palazzo per conto del Vaticano, siedono, oltre a Torzi, Fabrizio Tirabassi, della Segreteria di Stato (ora tra gli indagati), e l' avvocato Michele Intendente di Ernst&Young (EY) «amministratore indipendente scelto di comune accordo tra le parti», il quale ha anche garantito per Torzi (al Corriere tuttavia risulta che Intendente agisse in proprio e non in quanto partner di E&Y). Sul fronte finanziario «Credit Suisse - è scritto in uno dei passaggi piu eloquenti - è il principale operatore bancario della Segreteria di Stato dopo la chiusura del rapporto con la BSI, su disposizione del Card. Pell. È a conoscenza dell' operazione e quindi ha una capacità di intervento più rapido rispetto ad altri operatori. Per questo motivo è stato preventivamente allertato, dal dottor Enrico Crasso, per l' esecuzione del Contratto una volta firmato... l' Istituto ha acceso un conto corrente ad hoc intestato a Gutt a seguito del buon esito della due diligence (verifica, ndr ) sulla Società e sul dott. Torzi». Nonostante i dubbi, Torzi viene considerato affidabile, al punto che il giorno di Santo Stefano è ricevuto con moglie e figli nientemeno che da Papa Francesco nella sua residenza privata. Ma evidentemente non tutto è stato così lineare. Torzi - spiega una fonte in quei giorni a contatto con il nuovo Sostituto della Segreteria di Stato, Edgar Peña Parra - avrebbe ottenuto diritti sulla società che gli consentivano di gestire il palazzo in piena autonomia. Insomma il Vaticano era di nuovo con le mani legate. Da qui la necessità di rompere anche con Torzi: ad aprile 2019 esce di scena incassando 10 milioni di commissioni. Altri costi londinesi che ora il Vaticano punta a recuperare negli anni, grazie agli affitti. E poi, forse, con la vendita del palazzo. Da qui l' esigenza del nuovo progetto. La municipalità dovrebbe dare il via libera ai lavori entro l'anno. Nel frattempo il Vaticano ha bussato anche alla porta degli attuali inquilini. E uno ha già lasciato quelle stanze. È la M Industry Limited, società di produzione di borse da donna. Appartiene a una signora italiana, Maddalena Paggi. La moglie di Mincione. Che avrebbe goduto di un canone scontato, come altri affittuari, in cambio di uno sfratto veloce. Per il nuovo cantiere servono decine di milioni di euro. Il Vaticano potrebbe essere affiancato da un partner finanziario. Un investitore arabo, è la voce che circola a Londra.

La truffa del palazzo venduto al Vaticano con i soldi  di Enasarco. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Indagato il finanziere Mincione per corruzione. Lo stabile di lusso che si trova a Londra ceduto al triplo del prezzo: caccia a chi ha preso le plusvalenze. Il palazzo londinese di Sloane Avenue venduto al Vaticano provoca nuovi guai al finanziere Raffaele Mincione. Oltre alle verifiche disposte dalla Santa Sede, le procedure di acquisto del lussuoso stabile realizzato con il fondo Athena Global Opportunities, sono al centro di un’inchiesta della Procura di Roma dove Mincione è indagato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa con alcuni funzionari di Enasarco. Gli accertamenti svolti dai carabinieri del Ros avrebbero infatti stabilito che per comprarlo furono utilizzati i soldi che l’Ente aveva destinato ad altri affari. Mincione — evidentemente con la complicità di manager interni — decise invece di investirli in quell’immobile che poi riuscì a cedere alla Santa Sede triplicando il prezzo. E adesso dovrà rendere conto dell’operazione, visto che l’indagine mira a individuare tutti coloro che hanno beneficiato delle plusvalenze ottenute grazie agli investimenti compiuti senza alcuna autorizzazione. È il 2013 quando il vicepresidente della Fondazione Enasarco Andrea Pozzi si dimette denunciando una gestione opaca dei soldi, soprattutto riguardo ad alcuni investimenti. Pozzi si concentra in particolare sull’utilizzo di «veicoli con sede in paradisi fiscali come le Mauritius senza che ne sia stata fatta comunicazione a Bankitalia». E poi sottolinea le «criticità dei fondi Athena», proprio quelli che hanno finanziato la società Time and Life di Mincione. Si tratta di 185 milioni di euro. All’epoca si era detto che una ventina di milioni erano stati persi puntando sulle azioni del Monte dei Paschi di Siena, altri 140 milioni erano stati invece utilizzati per la scalata alla Banca Popolare di Milano. In realtà, si scopre adesso, 25 milioni Mincione li usa per comprare il palazzo a Londra. Esiste una relazione del 2012 che riguarda proprio «la ristrutturazione dei Fondi Athena detenuti da Enasarco», in cui appaiono evidenti le preoccupazioni dei vertici relativi ai rapporti con Mincione. Il documento è firmato dal professor Mario Comana, si occupa della possibilità di ristrutturazione del debito che Mincione ha con Enasarco e si dilunga su quell’investimento relativo a 60SA «nickname dato all’immobile londinese». In uno dei passaggi l’esperto specifica che «dalle informazioni ricevute dagli incontri svolti con l’Area Finanza dell’investitore si è venuti a conoscenza che l’immobile potrebbe essere soggetto ad un’importante valorizzazione poiché oggetto di un piano di riconversione residenziale». Nell’affare viene coinvolto il Vaticano. A investire 200 milioni di dollari sono la prima sezione «Affari Generali» della Segreteria di Stato del Vaticano, Credit Suisse — la banca svizzera gestore dei fondi riservati della Curia, compreso l’Obolo di San Pietro — e le due società di Mincione con sede in Lussemburgo, la holding Wrm e la Athena: Mincione compra il 55 per cento, il fondo vaticano prende il 45 per cento. L’ipotesi formulata dalla Procura di Roma sembra dimostrare che dietro questo affare possano esserci nuove e inedite complicità. Per questo le verifiche si concentrano sull’effettivo ruolo dei funzionari di Enasarco che avrebbero favorito Mincione, ma anche su eventuali legami con alti prelati che potrebbero essere stati coinvolti in altri investimenti dei Fondi Athena. Finora le verifiche sul palazzo di Sloane Avenue sono state svolte dal promotore di giustizia del Vaticano che si è concentrato sulla destinazione dei fondi messi a disposizione dallo Ior. Adesso si intrecciano invece con l’inchiesta dei pubblici ministeri su Enasarco e riguardano pure i criteri di valutazione dell’immobile per stabilire in base a quale procedura il prezzo dell’immobile sia triplicato nel giro di pochi mesi. E dunque come sia stata ottenuta la lievitazione dei costi, che certamente ha causato un danno patrimoniale alle casse vaticane.

Gianluca Paolucci per la Stampa l'8 novembre 2019. Il finanziere Raffaele Mincione è indagato dalla procura di Roma per le vicende degli investimenti effettuati da Enasarco nei fondi Athena. I reati contestati sono associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla corruzione. La vicenda è però strettamente collegata al caso dei fondi del Vaticano gestiti dallo stesso finanziere. Nel portafoglio di Enasarco figura infatti nel 2013 una quota dell' investimento immobiliare a Londra, al 60 di Sloane Avenue, che è anche al centro dello scandalo sui rapporto tra la Santa Sede e il finanziere. Ma che è stato comprato grazie ai fondi di Enasarco, come «garanzia» degli investimenti fatti dall' Ente con il finanziere - 180 milioni in totale - utilizzati da Mincione per scalare la Popolare di Milano. Una vicenda che aveva causato un duro scontro all' interno dell' organizzazione, fino a quando viene deciso di ristrutturare l' operazione per ridurre i rischi. È il 20 dicembre del 2012 quando Roberto Lamonica, allora direttore finanziario Enasarco, illustra al consiglio dell' ente previdenziale degli agenti di commercio la ristrutturazione degli investimenti fatti dall' ente nei fondi Athena: «Per una parte dell' investimento avremo una partecipazione societaria in una società che sta comprando in questi giorni un edificio molto importante a Londra, dalle parti di Knightsbridge, la stessa architettura di Harrod' s, quindi è un edificio di assoluto pregio». L' immobile di «assoluto pregio» a Londra, come La Stampa ha potuto ricostruire, è al civico 60 di Sloane Avenue. Così come i fondi Enasarco vengono usati per scalare Bpm e Mps, i soldi del Vaticano oltre che al palazzo di Sloane Avenue finiscono nelle scommesse in Borsa, come le scalate in Carige e in Retelit. Oppure investiti in titoli di debito ad alto rischio di società riconducibili allo stesso Mincione. Per Retelit, la Wrm sarl di Mincione, alla quale fanno capo i fondi Athena, ha chiesto a Giuseppe Conte un parere legale sull' applicazione della Golden Share nel maggio del 2018, qualche giorno prima che questo venisse indicato come presidente del consiglio del governo Lega-M5S che poi varerà effettivamente la Golden Share. Conte ha detto in Parlamento di non aver mai incontrato i manager delle società di Mincione, di non sapere che utilizzasse fondi del Vaticano per la scalata e di non essere presente al Consiglio dei ministri che ha deliberato sulla Golden Share. L' inchiesta su Enasarco, affidata ai Ros e coordinata dal pm Edoardo De Santis, è molto più vecchia. Parte nel 2014 e prende le mosse dagli accertamenti condotti dalla procura di Milano proprio sulla scalata a Bpm. Qualche giorno dopo quel consiglio di Enasarco nel quale compare l' immobile a Londra, nel gennaio 2013, il fondo Athena Special Situation (Ss), le cui risorse arrivano interamente dall' ente previdenziale, investe 25 milioni in un altro fondo della stessa famiglia: Athena Real Estate & Special Situation Fund 1 (Ress). E qui si entra in una struttura che ricorda la Fiera dell' Est. Attraverso una serie di scatole cinesi, si arriva in infine al palazzo di Londra. Un anno dopo, in quattro tranche tra il 2 il 7 gennaio del 2014, arrivano 100 milioni di euro di un singolo investitore sul fondo Athena Capital Commodities. Sono i soldi del Vaticano. Qualche mese dopo il fondo cambia nome e diventa Athena Global Opportunities Fund (Go). Nello stesso periodo, una perizia esterna rivaluta l' equity dell' immobile da 44 milioni a 137,66 milioni. A luglio, dopo la rivalutazione, il fondo Athena Gof compra il 45% delle quote di Athena Ress e a cascata diventa comproprietario dell' immobile di Sloane Avenue. Come ha ricostruito il Financial Times, in 18 mesi Mincione ottiene una plusvalenza di circa 100 milioni di euro rispetto all' investimento iniziale. In realtà però almeno 25 milioni non erano capitali propri di Mincione ma di Enasarco. Solo che quando il fondo finanziato da Enasarco esce dall' operazione, il valore dell' immobile è ancora quello dell' acquisizione. Ovvero, Enasarco non beneficia della plusvalenza che «emerge» solo mesi dopo la sua uscita. L' immobile di Sloane Avenue, nato per ospitare una esposizione di auto dei grandi magazzini Harrod' s, si trova così al centro di due distinte inchieste: quella della procura di Roma e quella, avviata nei mesi scorsi, della procura vaticana. A guidare quest' ultima è Giuseppe Pignatone, fino a qualche mese fa procuratore di capo di Roma.

Alessandro Da Rold per “la Verità” l'1 novembre 2019. Si allargano le inchieste in Vaticano dopo che la polizia pontificia ha iniziato a indagare sulla gestione della segreteria di Stato e le operazioni finanziarie di monsignor Angelo Becciu, attuale presidente della Congregazione per le santificazioni. A quanto risulta alla Verità, il promotore di giustizia di San Pietro sarebbe pronto a far partire un' azione penale per corruzione (ma si ragionerebbe anche sui reati di peculato, truffa e appropriazione indebita) sulla recente gestione dell' Ospedale Bambino Gesù di Roma, già travolto dalle indagini della Procura di Roma e del Vaticano quattro anni fa quando finì alla sbarra l' ex presidente Giuseppe Profiti, condannato poi per abuso d' ufficio per la ristrutturazione dell' attico dell' ex numero uno della segreteria di Stato, Tarcisio Bertone. Proprio nel 2015 papa Bergoglio decise insieme all' attuale segretario Pietro Parolin di nominare alla presidenza dell' ospedale pediatrico romano Mariella Enoc, molto stimata non solo oltre Tevere, ma anche nelle stanze del potere economico italiano, in particolare dall' ex presidente di Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti. Da più di un anno, però, la situazione al Bambino Gesù ha iniziato a destare preoccupazioni negli uffici della Santa Sede, sia per alcuni investimenti immobiliari non così lungimiranti sia per i conti sempre più traballanti. E questa nuova inchiesta metterebbe nel mirino la gestione del direttore generale Ruggero Parrotto, uscito alla fine di luglio, e considerato molto vicino a Parolin. Non a caso dall' inizio dell' anno sia Il Fatto Quotidiano sia Il Tempo hanno pubblicato diversi articoli, puntando il dito contro la segretezza dei bilanci e diverse operazioni opache, tra cui quelle fatte dall' Apsa per conto dell' Ospedale. Tra queste ci sarebbero un complesso immobiliare in viale di Villa Pamphili (per 32,8 milioni di euro) e la casa di cura Villa Luisa (15,2 milioni di euro). A questo si aggiunge la decisione di prendere in affitto Palazzo Alicorni, edificio rinascimentale e lussuosissimo, dove si dovrebbe trasferire parte dell' amministrazione dell' ospedale. Non solo. L' anno scorso - sempre restando in tema di investimenti immobiliari - se ne deve segnalare un altro, quello a Marina di Palidoro, dove dovrebbe sorgere un nuovo padiglione ospedaliero di 5 piani contro cui si sono scagliate le associazioni ambientaliste, anche perché all' interno di una riserva naturale e a pochi metri dal mare. La presidente Enoc ha sempre difeso le sue scelte in questi anni, ma lo scorso 24 luglio, in occasione del consiglio di amministrazione per la chiusura del bilancio, qualcosa si è incrinato. Il bilancio consolidato non è stato reso pubblico, sul sito c' è solo quello sociale e - secondo indiscrezioni - il saldo positivo sarebbe stato raggiunto solo dopo aver attinto 50 milioni di euro da un tesoretto dove ci sarebbero i Tfr dei dipendenti dell' ospedale: senza questa operazione il rosso sarebbe stato di 33 milioni di euro. Del resto dopo quel cda è saltata la poltrona di Parrotto, che era diventato direttore generale nel 2017, proprio sotto la presidenza Enoc, che ora ha preso in mano la gestione di tutto l' ospedale e cerca di prendere le distanze dal dirigente uscita. I guai non finiscono qui perché, sempre in assoluto silenzio, Parrotto è stato rimosso anche dall' Idi il 27 settembre, insieme con il suo braccio destro e direttore amministrativo Alessandro Zurzolo. A quanto pare gli investigatori del Vaticano stanno cercando di fare chiarezza non solo sulle relazioni tra Becciu e il Bambino Gesù, ma anche sulle società di consulenza usate dall' Apsa per le operazioni immobiliari. Come ha riportato anche Il Fatto Quotidiano, risultano tre fatture da 1,5 milioni di euro pagate dall' ospedale alla Ad Tesciuba, società di consulenza dove amministratore unico è Elio Tesciuba, figlio di Shalom Tesciuba, fondatore della Sinagoga di Monteverde e storico leader degli ebrei libici in Italia. A questo si aggiunge un altro dettaglio su cui le indagini stanno cercando di fare luce. I rapporti che sono intercorsi tra il ministero della Sanità a trazione Pd - quando era diretto da Beatrice Lorenzin - e proprio il Bambin Gesù. Il punto di collegamento è Emanuele Calvario, ex segretario particolare del ministro e ora responsabile partnership e programmi di innovazione sociale presso ospedale pediatrico, dato anche lui in uscita. Del resto ogni anno piovono sul Bambino Gesù 193 milioni di euro dalle regioni come rimborso per le prestazioni sanitarie in convenzione. A questi se ne aggiungono altri, sempre di stanziamento statale. Eppure il bilancio consolidato non c' è e il direttore amministrativo Giuseppe Melone si è rifiutato di firmarlo. Ora papa Francesco vuole fare chiarezza, evitando che a rimetterci sia uno dei fiori all' occhiello del sistema ospedaliero italiano.

Bergoglio contro la gogna mediatica: la presunzione d’innocenza è sacra. Giulia Merlo il 17 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Scandalo finanziario, una “talpa” ha passato ai giornali una circolare con le foto segnaletiche degli indagati: Papa Francesco ottiene le dimissioni del capo della gendarmeria per responsabilità oggettiva. L’inchiesta sugli scandali finanziari della Santa Sede doveva essere approfondita ma anche riservata e garantista nei confronti degli indagati, senza concedere nulla alla macchina del fango giustizialista che già tanto aveva danneggiato la Chiesa. Invece, anche questa volta i corvi vaticani hanno recapitato un documento riservato sulla scrivania di un giornale: la disposizione di servizio con i nomi e le foto in formato “ricercati speciali”, dei cinque funzionari sospesi cautelarmente dalle loro funzioni. Un fatto comune e di quasi nessun conto per la giustizia italiana, in cui i nomi degli indagati finiscono presto in pasto alla stampa, spesso anche prima dell’avviso di chiusura delle indagini o della notifica di un avviso di garanzia. Non così in Vaticano: vedere sulle prime pagine dell’Espresso i cinque visi in fila ha mandato su tutte le furie il Pontefice, il quale si è particolarmente indignato per il caso di Caterina Sansone, unica donna coinvolta e madre di famiglia, come i colleghi ritratta in un volantino stile “wanted” sa serie poliziesca americana. Così è partita la contro inchiesta: scovare gli autori della soffiata che, per usare le parole del Pontefice, è «di gravità paragonabile a un peccato mortale, poiché lesivo della dignità delle persone e del principio della presunzione di innocenza». Una presunzione di innocenza che, almeno secondo il Pontefice, tutela gli indagati anche nella fase preliminare, difendendoli dalla gogna mediatica. Dopo tre giorni di inchiesta interna senza esito per individuare il responsabile, a dimettersi è stato il capo, il comandante della Gentarmeria e “angelo custode” del Papa, Domenico Giani, ha rassegnato le sue dimissioni dopo vent’anni di servizio alle dipendenze di ben tre pontefici. Lui si è assunto la responsabilità oggettiva dell’accaduto, pur non avendo alcun coinvolgimento diretto nella divulgazione delle carte riservate. «Si parlava di gogna mediatica, e ora sulla gogna ci sono io», ha detto Giani al Corriere della Sera, che ha ammesso come «L’uscita di questo documento, pubblicato da alcuni organi di stampa ha certamente calpestato la dignità di queste persone. Anche io come comandante ho provato vergogna per quanto accaduto e per la sofferenza arrecata a queste persone». Un esempio, quello del comandante, che dovrebbe servire a mettere in allerta i corvi: sotto il pontificato di Francesco non c’è spazio per crociate a mezzo stampa tra le diverse fazioni di Oltretevere.

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 23 ottobre 2019. Al di là del Tevere questi sono giorni in cui si accendono luci - puntando anche riflettori potenti - nei corridoi più oscuri dei Sacri Palazzi, dove tutto fa pensare che si siano consumati e continuino a proliferare malaffare e corruzione. O comunque azioni non coerenti con l'eticità e la morale cattolica, intraprese per soddisfare interessi personali. E si stanno spalancando porte e finestre delle Sacre Stanze per cambiare aria, far uscire quella viziata ed entrare quella fresca dell'onestà. «Per la Chiesa è il tempo della trasparenza». Così papa Francesco ha sentenziato ieri ai suoi collaboratori. Con serenità e determinazione. Il Pontefice si riferiva alle indagini sugli ultimi presunti scandali finanziari scoppiati in ottobre, legati ai fondi propri della Segreteria di Stato, al loro uso opaco o spericolato. Se illegale, lo dirà la magistratura vaticana. Fino a prova contraria, deve prevalere il garantismo e la presunzione di innocenza, non manca di ribadire il Papa. Dopo il blitz con perquisizioni e il sequestro di pc, telefonini e archivi nei locali della prima sezione della Segreteria di Stato e dell' Autorità di Informazione finanziaria (Aif, l'organismo anti-riciclaggio), Bergoglio non vuole addentrarsi nei meandri delle ipotesi di colpevolezza dei protagonisti sotto inchiesta e di altri a cui si allude. Attende «l'esito del lavoro, con piena fiducia nel promotore di Giustizia Gian Piero Milano e nella sua squadra (equipe, la chiama)». Non ha idea «di come finirà questa storia». Non gli interessa fare previsioni. Né sta pensando «a interventi particolari nell' immediato. Aspetto che venga fatta chiarezza sulle varie responsabilità e gli eventuali reati». Solo a quel punto studierà un modo di procedere rinnovato per amministrare il patrimonio della Santa Sede, che possa tenere conto anche del bilancio economico strutturale, rafforzando la spending review per risanare i conti (e allontanare lo spettro del crac che viene evocato). Dunque, calma e sangue freddo, è lo stato d'animo di Francesco, che in questi giorni tesi e delicati per le istituzioni della Santa Sede, resta concentrato sul Sinodo per l'Amazzonia fortemente voluto. L'Assemblea dei vescovi in corso in Vaticano si avvicina alle battute finali (terminerà nel fine settimana), che potranno essere palcoscenico di scintille e fuochi d'artificio sul tema più spinoso, quello della possibile apertura ai preti sposati e a forme di sacerdozio femminile. Fumo negli occhi per le frange ultraconservatrici della Chiesa, palesemente sul piede di guerra in queste settimane, con nuove dure campagne mediatiche anti-Bergoglio. Allo stesso tempo il Papa non si gira dall' altra parte, non esita a riconoscere che le vicende delle speculazioni finanziarie come quella legata al palazzo in una zona di lusso nel cuore di Londra sono «cose brutte». Senza peraltro cedere il passo alla narrativa di chi strumentalizza queste situazioni per attaccare e delegittimare il suo pontificato. Ma non ci sono solo nubi all' orizzonte. Il Papa stesso mette in evidenza un aspetto che è più di una consolazione: «Grazie a Dio è il Vaticano stesso che ha fatto la denuncia. È il Vaticano stesso che sta cercando la puzza di marcio della corruzione dentro il Vaticano. Questo vuol dire che i meccanismi funzionano». Per Francesco è un sollievo, un segno di incoraggiamento: qualcosa forse sta cambiando davvero nel controllo della gestione delle varie «casse» che fanno gola a tanti Oltretevere. La sua speranza è che possa rivelarsi una svolta. Quella sterzata invocata nel marzo di sei anni fa, durante le congregazioni generali che hanno preceduto il Conclave del 2013. Erano i tempi burrascosi successivi al primo Vatileaks e alla drammatica rinuncia al pontificato di Benedetto XVI. La Barca di Pietro era in tempesta, e molti ne pronosticavano l'affondamento. Per papa Francesco la sfida alla disonestà e all' avidità che serpeggia tra molti - troppi - uomini di Chiesa è nata in quelle riunioni - coperte da segreto - durante le quali i porporati si preparavano a eleggere il successore di san Pietro. «Noi cardinali abbiamo rivolto un appello al nuovo papa che era già lì fra noi: chi sarà scelto dovrà guidare questa battaglia, perché da troppo tempo qui ci sono angoli che puzzano». Antri stagnanti che vanno scovati e bonificati. E poi costantemente controllati. Ne va della credibilità della Chiesa del presente e del futuro. È questo il principale default da scongiurare.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 23 ottobre 2019. Sembra quasi una serie tv prodotta da Netflix. Potrebbe persino intitolarsi Vaticlash, lo scontro all'ombra del Cupolone, visto che tutti ormai sono contro tutti. Proprio ieri il sequel si è arricchito di una nuova, inedita, puntata. Il presidente dell'Aif, l'Authority di vigilanza finanziaria che ha rapporti con Moneyval, è sceso in campo con tutto il suo peso per delegittimare la magistratura vaticana che, il primo ottobre, aveva autorizzato la gendarmeria a portare a termine una ruvida perquisizione contro cinque funzionari, quattro dei quali appartenenti alla Segreteria di Stato e uno all'Aif, il direttore Tommaso Di Ruzza. La guerra con lo Ior si è arricchito così di un ulteriore tassello. Tutto ha avuto inizio a luglio con la denuncia presentata dalla banca vaticana per presunte attività finanziarie illecite da parte della Segreteria di Stato. I magistrati hanno svolto indagini e il primo ottobre hanno emesso un decreto di perquisizione del quale nemmeno il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin conosceva l'esistenza. La perquisizione è avvenuta sotto gli occhi allibiti di tutti i dipendenti, visto che nessuno aveva mai osato profanare il sancta sanctorum del potere assoluto del Papa. I cinque funzionari che ad oggi non risultano nemmeno indagati sono stati sospesi dallo stipendio, dalle funzioni e a loro è stato interdetto l'ingresso dello Stato. La scorsa settimana l'ex capo della gendarmeria Domenico Giani è stato costretto a dimettersi per una foto segnaletica dei cinque funzionari e per avere portato a termine il compito con modi talmente spicci da costringere a togliersi le scarpe l'unica donna, ancora sotto choc, sospettata di nascondere una pen-drive nei tacchi. Il garbuglio nato per un puntiglio dello Ior di non concedere un prestito necessario ad estinguere un mutuo oneroso su un edificio a Londra comprato dalla Segreteria di Stato negli anni scorsi, è destinato a non sciogliersi facilmente, visto che da Strasburgo, dove ha sede Moneyval, c'è parecchia preoccupazione. Chissà se al comitato del Consiglio d'Europa che valuta i sistemi antiriciclaggio degli Stati (ed è molto attento alla autonomia delle authority) basterà il comunicato emesso dal presidente dell'Aif, Bruelhart che ieri pomeriggio ha ribadito che è sempre stato tutto regolare. Informa anche di avere svolto una indagine interna parallela dalla quale è risultato che Di Ruzza ha fatto solo il suo mestiere. Come dire che non crede alla indagine della magistratura. Praticamente una dichiarazione di guerra, nel silenzio assordante (almeno per il momento) di tutti gli altri organi dello Stato pontificio.

«In Vaticano corruzione, peculato e truffa»: ecco tutte le accuse dei pm di Papa Francesco. L'Espresso ha ottenuto le carte dei magistrati sullo scandalo finanziario che sta terremotando la Santa Sede. Nell'inchiesta coinvolti i vertici della Segreteria di Stato. E finanzieri d'assalto che hanno ricevuto nel 2019 commissioni milionarie. Emiliano Fittipaldi il 17 ottobre 2019 su L'Espresso. L'Espresso, dopo l'inchiesta che ha svelato i contorni del nuovo scandalo finanziario in Vaticano , ha ottenuto nuova documentazione riservata dell'inchiesta penale aperta dai pm del papa su alcune operazioni immobiliari a Londra. Carte che sono al centro del servizio esclusivo in edicola da domenica 20 ottobre e già online su Espresso+. Si tratta della denuncia del Revisore generale del papa e delle accuse arrivate dal direttore dello Ior Gian Franco Mammì. Di alcuni report riservati dell'affare da 200 milioni di dollari per l'acquisto di un palazzo da 17 mila metri quadri a Londra. E soprattutto le 16 pagine integrali del decreto di perquisizione del Promotore di giustizia con cui sono stati indagati dipendenti della Segreteria di Stato e pezzi da Novanta della Santa Sede come don Mauro Carlino (l'ex segretario del cardinale Angelo Becciu, di cui l'Espresso pubblica le intercettazioni telefoniche con manager italiani di peso come Luca Del Fabbro di Snam) e il direttore dell'Aif Tommaso Di Ruzza. Analizzando i documenti, è evidente che la Santa Sede si trovi di fronte a uno scandalo che ha pochi precedenti nella storia recente. I promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi ritengono infatti di aver individuato «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d'ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio» in merito a comportamenti di ecclesiastici e raider d'assalto, mentre un'altra relazione il Revisore Alessandro Cassinis, di fatto il “Raffaele Cantone” di Francesco, ipotizza «gravissimi reati quali l'appropriazione indebita, la corruzione e il favoreggiamento». I business finiti nella lente degli investigatori riguardano inoltre non solo l'era di Angelo Becciu alla Segreteria di Stato, ma pure quella del nuovo Sostituto agli Affari Generali del venezuelano Edgar Pena Parra, fedelissimo di Francesco nominato appena un anno fa. Nell'inchiesta vengono citati finanzieri come Raffaele Mincione e uomini d'affari chiacchierati come Gianluigi Torzi (risulta che la Segreteria di Stato nel 2019 avrebbe pagato a Torzi delle fees per 10 milioni di euro), le mosse spregiudicate di prelati potenti come don Carlino, monsignor Alberto Perlasca e Luciano Capaldo, un architetto poco conosciuto alle cronache ma con grandi entrature Oltretevere. Ma le carte rivelano soprattutto che la Segreteria di Stato possieda e gestisca fondi extrabilancio per la bellezza di 650 milioni di euro, «derivanti in massima parte dalle donazioni ricevute dal Santo Padre per opere di carità e per il sostentamento della Curia Romana». Si tratta dell'Obolo di San Pietro, che il Vaticano invece di girare ai poveri e ai bisognosi investe in spericolate operazioni speculative. Con l'aiuto, pure, di Credit Suisse, «nelle cui filiali svizzere e italiane risulta versato circa il 77 per cento del patrimonio gestito». Circa «500 milioni di euro», segnala l'Ufficio del Revisore Generale, finiti in operazioni finanziarie che a parere dei magistrati mostrano «vistose irregolarità», oltre ad aprire «scenari inquietanti». L'inchiesta dell'Espresso racconta, carte alla mano, la genesi dell'operazione Falcon Oil, un tentato investimento da 250 milioni di dollari del Vaticano in una piattaforma petrolifera davanti alle coste dell'Angola (un business in cui erano già coinvolti l'Eni, la società statale Sonangol e appunto la Falcon Oil del finanziere africano Antonio Mosquito. Mentre documentazione riservata svela il complesso sistema di società – quasi tutte in paradisi offshore – usate dal Vaticano per schermare il business milionario di Londra. Ma le carte dei magistrati vaticani segnalano che persino l'Aif avrebbe svolto «un ruolo non chiaro» nella vicenda. L'organismo presieduto da René Bruelhart avrebbe infatti «trascurato» le anomalie dell'operazione immobiliare, e il direttore Di Ruzza avrebbe «intrattenuto una corrispondenza con lo studio inglese Mischon De Reya (i legali chiamati dalla Segretaria di Stato per seguire la famosa transazione con Mincione e Torzi, ndr) con la quale l'Aif sembrerebbe aver dato il via libera all'operazione di acquisto» e alla fees a favore di Torzi. In realtà risulta all'Espresso che ci siano però altre evidenze non citate dai magistrati. Che dimostrano come l'Aif, una volta avvertita da Pena Parra, avvisi subito le autorità antiriciclaggio inglesi e lussemburghesi, bloccando l'operazione. E chiedendo che venga ristrutturata con la trasparenza necessaria. Per Francesco non sarà facile, davanti al nuovo scandalo, districarsi tra nemici veri, falsi amici, buoni suggeritori e cattivi consiglieri.

Vaticano, «I milioni per i poveri in paesi offshore e per operazioni di dubbia eticità». Secondo i pm della Santa Sede i fondi extrabilancio dell'Obolo di San Pietro, pari a circa 650 milioni di euro, sarebbero gestiti dalla Segreteria di Stato per business opachi. Le intercettazioni di monsignor Carlino con manager italiani e tutti i particolari dell'inchiesta shock. Emiliano Fittipaldi  il 17 ottobre 2019 su L'Espresso. Papa Francesco è stato durissimo. «L’illecita diffusione del documento» con cui l’Espresso ha dato conto dell’inchiesta della magistratura vaticana su operazioni immobiliari effettuate dalla Segreteria di Stato, «è paragonabile a un peccato mortale». E così all’inferno - prima ancora che l’indagine bis sulla fuga di notizie cominciasse davvero - ci è finito il comandante della Gendarmeria Domenico Giani. Anche se del tutto estraneo al “leak”, qualche giorno fa il superpoliziotto è stato costretto a dimettersi e lasciare l’ufficio che guidava da tredici anni. Ora l’Espresso ha ottenuto una nuova documentazione riservata del Vaticano. Che dimostra come i peccati commessi siano assai più gravi di quelli dei whistleblower e che i peccatori - al netto della rilevanza penale ancora tutta da dimostrare - vadano cercati ai piani alti dei sacri palazzi. Le carte analizzate sono tante. C’è la denuncia del Revisore generale e le accuse arrivate dallo Ior. Report riservati dell’affare immobiliare da 200 milioni di dollari per l’acquisto di un palazzo da 17 mila metri quadri a Londra. E soprattutto le 16 pagine integrali del decreto di perquisizione del Promotore di giustizia con cui sono stati indagati dipendenti della Segreteria di Stato e pezzi da novanta come don Mauro Carlino (l’ex segretario del cardinale Angelo Becciu) e il direttore dell’Autorità di informazione finanziaria Tommaso Di Ruzza, che mostrano come la Santa Sede si trovi di fronte a uno scandalo che ha pochi precedenti nella storia recente. E che potrebbe portare a una drammatica crisi di sistema. Lo tsunami è devastante. I pm del papa Gian Piero Milano e Alessandro Diddi ritengono aver individuato «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio» in merito a comportamenti di ecclesiastici e laici influenti, mentre un’altra relazione del Revisore ipotizza «gravissimi reati quali l’appropriazione indebita, la corruzione e il favoreggiamento». I business finiti nella lente degli investigatori riguardano non solo l’era di Angelo Becciu alla Segreteria di Stato, ma pure quella del nuovo Sostituto agli Affari Generali, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, fedelissimo di Francesco nominato appena un anno fa. L’inchiesta - in cui vengono citati finanzieri d’assalto come Raffaele Mincione e broker meno conosciuti come Gianluigi Torzi - rivela inoltre che la Segreteria di Stato nell’anno di grazia 2019 possieda e gestisca fondi extrabilancio per la bellezza di 650 milioni di euro, «derivanti in massima parte dalle donazioni ricevute dal Santo Padre per opere di carità e per il sostentamento della Curia Romana». Si tratta dell’Obolo di San Pietro, che dovrebbe essere destinato ai poveri e ai bisognosi e che invece il Vaticano investe in spericolate operazioni speculative. Con l’aiuto, in primis, di Credit Suisse, «nelle cui filiali svizzere e italiane risulta versato circa il 77 per cento del patrimonio gestito». Circa «500 milioni di euro», segnala l’Ufficio del Revisore Generale, finiti in operazioni finanziarie che a parere dei magistrati mostrano «vistose irregolarità», oltre ad aprire «scenari inquietanti». Non è tutto. Altri documenti riservati evidenziano come l’investigazione, partita il 2 luglio grazie a una denuncia del direttore generale dello Ior Gian Franco Mammì, sia probabilmente meno accurata di quanto papa Bergoglio - che l’ha autorizzata con un rescritto il 5 luglio - credesse. Studiando le carte e la scansione temporale degli eventi, è evidente che l’inchiesta possa essere usata per sostenere gli interessi particolari delle tante fazioni che si combattono in Vaticano. Un fuoco incrociato che ha coinvolto persino l’Aif, l’organismo antiriciclaggio voluto da Benedetto XVI, il cui direttore Di Ruzza è stato perquisito e sospeso perché sospettato, si legge nelle accuse degli inquirenti, «di aver trascurato le anomalie dell’operazione» londinese e di aver addirittura favorito «in qualità di intermediario finanziario» il manager Torzi. «Di Ruzza con c’entra nulla in realtà. Così si indebolisce l’Aif, se ne metta in pericolo l’indipendenza con ripercussioni pesanti all’estero» chiosano autorevoli collaboratori del pontefice. «Lo scandalo finanziario è grave, ma non si faccia una caccia alle streghe, sennò precipiteremo tutti nel caos».

IL PALAZZO D’ORO. Partiamo dall’inizio della storia. Dall’ottobre 2012, quando Raffaele Mincione, un finanziere italiano ormai assai noto per aver tentato la scalata alla Popolare di Milano e a Banca Carige, viene contattato da un ex manager di Mediobanca, Ivan Simetovic. «Ivan lo conoscevo da tempo. Mi mise in contatto con Enrico Crasso, allora dirigente di Credit Suisse», spiega all’Espresso Mincione. «Incontrai Crasso nel suo ufficio e mi spiegò che loro gestivano parte importante del patrimonio del Vaticano. Mi chiesero se volevo fare l’advisor per un investimento da 200 milioni di dollari per un’operazione petrolifera in Angola». L’idea della segreteria di Stato, allora guidata dal cardinale Tarcisio Bertone e dal sostituto Becciu (che è stato nunzio in Angola dal 2001 al 2009) era quella di investire in una piattaforma petrolifera al largo delle coste del paese africano. Un business in cui erano già coinvolti l’Eni, la società statale Sonangol (con il 40 per cento a testa) e la Falcon Oil. Una società del finanziere africano Antonio Mosquito. È con lui, mr. Mosquito, che il Vaticano vuole fare l’affare. È a lui che vogliono girare - come evidenziano alcuni documenti riservati della Segretaria di Stato - ben 250 milioni di dollari per comprarsi il 5 per cento delle quote del consorzio. Gli uomini di Mincione (che spiegano di non aver mai girato soldi, o meglio“fees”, a Crasso, ma solo a Simetovic per la mediazione iniziale; per la consulenza il Vaticano pagherà Mincione circa 500 mila euro) ci lavorano per oltre un anno. Alla fine, però, il finanziere segnala ai clienti di Credit Suisse che l’investimento sarebbe del tutto «antieconomico», che Mosquito non è affatto solido finanziariamente (era stata assoldata una società d’investigazione finanziaria) e che i denari d’Oltretevere sarebbero stati bruciati in un amen. Il Vaticano, dopo più di un tentennamento, decide così - siamo ormai nel 2014 - di rinunciare alla piattaforma petrolifera in mezzo all’Atlantico. È allora che Mincione, dismessi i panni dell’advisor, propone al governo della Santa Sede di investire gli stessi denari (che in euro valevano a tassi di cambio 130-140 milioni in una Sicav in Lussemburgo gestita dalla sua holding WRM). Discute dell’operazione con monsignor Alberto Perlasca, citato nelle carte dell’accusa come frequentatore di Mincione ma ad ora non indagato, e il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, considerato dai pm «personaggio centrale nell’operazione londinese descritta» e «titolare di un conto Ior mai movimentato». L’obiettivo finale è quello di vendere al Vaticano il 45 per cento di un palazzo al centro di Londra, al 60 di Sloane Avenue, che lui aveva comprato due anni prima per dare il via a una grande speculazione immobiliare. Il Real Estate è sicuramente più stabile del prezzo volatile del greggio. E l’affare va in porto. La speranza degli strani soci in affari, i cardinali da una parte e il raider che ha battezzato il suo yacht “Bottadiculo” dall’altra , è quella di aumentare tanto e presto l’investimento grazie alla trasformazione del palazzo del 1911 (un ex deposito di Harrods di 17 mila metri quadri) da commerciale a residenziale. Ristrutturarlo, costruire una cinquantina di appartamenti di lusso, venderli e raddoppiare il capitale investito. Con il passare dei mesi, però, i rapporti tra le parti peggiorano. Quando il Vaticano si accorge che i costi di gestione dei fondi lussemburghesi sarebbero troppo alti, Mincione fa notare - in un report - che non sarebbe lui a lucrare, ma che sarebbe la banca svizzera a prendere, tra commissioni e fees per la gestione di tutti i fondi del Vaticano, un tasso altissimo superiore all’8 per cento. Gli extracosti, di fatto, sarebbero a monte. La tensione tocca il suo apice nell’estate del 2018: dopo quattro anni il palazzo non rende affatto quanto sperato e la gestione di Mincione è considerata troppo dispendiosa. Quando Peña Parra sostituisce Becciu come Sostituto agli Affari generali della Segretaria, scatta il panico. Il prelato decide di uscire dal fondo lussemburghese di Mincione, l’Athena Capital Global, il più rapidamente possibile. Ma per farlo e non realizzare la perdita decide, a sorpresa, di comprare tutto il fabbricato. Mincione vende la sua parte, il 55 per cento, con una transazione firmata da monsignor Perlasca il 22 novembre 2018: alla fine il guadagno per il finanziere, tra acquisto nel 2012 e vendita sei anni dopo, è di 130 milioni di sterline secche. «Io non sarei mai voluto uscire, me l’hanno chiesto loro. E l’operazione resta ottima: basta si muovano a ristrutturare e vendere gli appartamenti», chiosa.

IL FINANZIERE MISTERIOSO. Torniamo alle carte dei magistrati di Francesco. Si legge che l’inchiesta penale scatta il 4 giugno 2019. Quando Peña Parra chiede allo Ior, attraverso una lettera al presidente dello Ior Jean Baptiste De Franssu, «di poter disporre, con carattere di urgenza, di liquidità per 150 milioni di euro per non meglio precisate “ragioni istituzionali”», scrivono Milano e Diddi. Il direttore della banca, Mammì, si allarma per la richiesta insolita e risponde picche. Non dà un centesimo e comincia una sua istruttoria. Se il papa si fida ciecamente del direttore generale, i nemici di Mammì malignano oggi che il banchiere di Dio avrebbe solo preso al volo l’occasione per incamerare nello Ior i fondi dell’Obolo, da sempre appannaggio della segreteria di Stato. «Certamente ha detto no a Peña Parra perché non voleva perdere nemmeno un euro dei denari dei conti della sua banca, che ha chiuso il bilancio con un utile dimezzato rispetto al 2018», ci dice velenoso un cardinale influente. Mammì, chiariscono invece i suoi collaboratori, vuole vederci chiaro. Capisce presto, dunque, che i 150 milioni servono ad estinguere il mutuo che pesava sull’immobile del quartiere di Chelsea, acceso da Mincione attraverso due società lussemburghesi controllate dal colosso britannico Cheyne Capital. È lo Ior, dunque, che fa scattare la prima denuncia al Promotore di Giustizia il 2 luglio. Il 5 luglio il papa dà il via libera all’inchiesta penale. A ruota segue l’intervento del Revisore Generale Alessandro Cassinis Righini, che in agosto manda ai promotori «nell’esercizio delle proprie prerogative, ed in via del tutto autonoma» una relazione-denuncia sul business milionario londinese. I pm e la gendarmeria portano avanti le indagini a ritmo serrato (qualcuno dice troppo per analisi complesse) e scoprono quello che molti in Vaticano già sapevano da tempo. Cioè che, uscito di scena Mincione, la segreteria di Stato non si è ripresa il controllo del palazzo, ma s’è affidata a un altro finanziere d’assalto con base a Londra: Gianluigi Torzi. Un raider tempo fa accusato di aver cambiato le serrature di un cancello di una proprietà immobiliare, impedendo l’accesso alle legittime proprietarie di un immobile vicino la sua villa al mare. E finito lo scorso luglio, ha raccontato il Fatto, nelle liste nere del database WordCheck, «per diverse indagini a suo carico avviate dalla procura di Roma e Larino (per la vicenda della villa, ndr) per reati di falsa fatturazione e truffa». Ebbene, gli uomini della segreteria di Stato decidono che Torzi è l’uomo giusto. Come risulta all’Espresso da atti riservati, a fine 2018 l’immobile non è stato rilevato con società riferibili direttamente al Vaticano o all’Apsa, l’amministrazione che per statuto gestisce il patrimonio immobiliare della Santa Sede. Ma è stato acquisito attraverso la Gutt Sa, una società del Lussemburgo «rappresentata» si legge nell’atto transattivo tra Segreteria di Stato e Mincione «dal signor Gianluigi Torzi». La Gutt, scrivono poi i pm nel decreto di perquisizione, sarebbe la «società che ha svolto la funzione di soggetto intestatario fittizio» delle altre società, quasi tutte in nel paradiso fiscale dell’isola di Jersey, che attraverso scatole cinesi «posseggono l’immobile londinese». Ma come mai il Vaticano «ha finanziato» Torzi, come si legge nell’accordo transattivo firmato da monsignor Perlasca in persona e benedetto da Peña Parra, e usato la sua Gutt schermandosi dietro di lei? Perché gli ha dato dal 3 dicembre 2018 in gestione il palazzo appena comprato, tanto da essere pure «pienamente autorizzato a negoziare il presente accordo quadro e qualsiasi altro documento necessario ai fini della transazione» con Mincione? Torzi è un uomo vicinissimo al finanziere di WRM, come pensa qualche investigatore in Vaticano, oppure è entrato nel business grazie ad entrature Oltretevere, come quella con il misterioso architetto Luciano Capaldo? Quest’ultimo, secondo le accuse, «sembrerebbe aver avuto un ruolo fondamentale nell’intera operazione». Non solo perché componente del board della società inglese London 60 Limited (insieme ai monsignori Carlino e Josep Lluis Serrano Pentinat) creata dalla Segreteria nel marzo del 2019 per prendersi finalmente – come vedremo – le quote della Gutt, ma perché secondo i magistrati Milano e Diddi «risulta socio di riferimento unitamente al signor Torzi della Odikon Service e della Sunset Enterprice». Due società su cui indagano i pm, che nel 2017 e nel 2018 avrebbero ricevuto 7,6 milioni di euro per aver «offerto assistenza finanziaria all’Ospedale Fatebenefratelli (applicando commissioni monstre del 20 per cento, ndr) per la cartolarizzazione dei crediti nei confronti della Regione Lazio». L’affaire con il nosocomio cattolico non è comunque nel fuoco investigativo. Lo sono, invece, le attività di Vincenzo Mauriello, minutante della Prima Sezione dell’Ufficio guidato dal cardinale Parolin, e soprattutto quelle di monsignor Carlino, che è stato intercettato per settimane, a partire dal settembre 2019. Ex segretario di Becciu, dalla scorsa estate promosso capo dell’Ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato, secondo le carte dell’accusa Carlino si muove «con particolare disinvoltura nelle alte sfere della gerarchia dello Stato», in una «incessante attività dallo stesso posta in essere con personaggi del mondo della finanza per realizzare nuove iniziative di tipo imprenditoriale». Il 2 settembre il monsignore in effetti incontra il presidente della Snam Luca Del Fabbro, con cui «tratta di nuove operazioni che si dovrebbero realizzare con un certo Casiraghi e con la moglie di Raffaele Mincione... con tale Preziosi di Genova (verosimilmente Enrico Preziosi imprenditore di riferimento della Giochi Preziosi)». Certamente don Carlino è considerato uno degli assoluti protagonisti della storiaccia del palazzo londinese.

LA GUERRA DELL’AIF. Ma le carte segnalano che persino l’Aif avrebbe svolto «un ruolo non chiaro» nella vicenda. L’organismo presieduto da René Bruelhart avrebbe infatti «trascurato» le anomalie dell’operazione immobiliare e il direttore Di Ruzza avrebbe «intrattenuto una corrispondenza con lo studio inglese Mischon De Reya (i legali chiamati dalla Segretaria di Stato per seguire la famosa transazione con Mincione e Torzi, ndr) con la quale l’Aif sembrerebbe aver dato il via libera all’operazione di acquisto». Non solo: Di Ruzza avrebbe pure «confezionato e sottoscritto su carta intestata una lettera di “delega ad operare” a favore di Gianluigi Torzi in qualità di intermediario finanziario. In tal modo dando il proprio avallo all’operazione dai contorni opachi». Un’accusa grave che ha portato una perquisizione dell’ufficio del direttore, la sua sospensione dal servizio e il sequestro di documenti secretati dell’Aif. Ora risulta all’Espresso che ci siano però altre evidenze non citate dai magistrati. Se è vero che Torzi ha avuto dalla Segreteria di Stato, per cedere al Vaticano il patrimonio della sua Gutt e il controllo del palazzo londinese che aveva ottenuto per motivi inspiegabili a fine 2018, una commissione da ben 10 milioni di euro, è pur vero che gli uomini di Peña Parra avevano sottoscritto a favore del finanziere vincoli contrattuali stringenti, per di più sotto una giurisdizione estera. «Il Sostituto», spiegano oggi dalla Segretaria di Stato, «lo scorso marzo si accorge che Torzi, scelto da lui, Perlasca e gli altri laici pochi mesi prima, fa di fatto il padrone a casa loro. E che liberarsene d’emblée non sarà affatto semplice». Il rischio è quello di dover sborsare una buonuscita assai più onerosa di quella alla fine concessa: inizialmente le richieste di Torzi per far uscire la sua Gutt dalla gestione del palazzo, raccontano in Vaticano, sarebbero infatti esorbitanti. Per risolvere il pasticcio, così, Peña Parra a marzo corre proprio negli uffici dell’Aif per fare una segnalazione ufficiale sui dissidi con Torzi e l’affare londinese. Il direttore, risulta all’Espresso, avverte subito le autorità antiriciclaggio inglesi e lussemburghesi e ad aprile invia due lettere ai legali britannici del governo vaticano che stanno trattando con gli avvocati di Torzi. Nella prima chiarisce che l’Aif, nella vecchia transazione a favore della Gutt, aveva individuato una serie di irregolarità, e aveva suggerito di bloccare l’operazione, annunciando infine di aver aperto un’indagine antiriciclaggio chiedendo cooperazione ai colleghi d’Oltremanica. Non sappiamo se Torzi, venuto a conoscenza della mossa dell’Aif, abbia deciso così di convenire a un nuovo accordo e accettato la somma (comunque enorme) che gli era dovuta da contratto per uscire dall’affare. È sicuro però che nella seconda lettera Di Ruzza non autorizza alcuna fee - come invece sembrano sospettare Mammì, il Revisore generale e i pm - ma spiega solo che, nel caso il patrimonio della Gutt fosse tornato gratis a una società del Vaticano, e Torzi avesse lasciato la proprietà e il controllo dell’immobile in via definitiva, le parcelle a suo favore già previste dai contratti di fine 2018 (quando nessuno sapeva nulla di quanto stava accadendo nella Segreteria di Stato) sarebbero potute essere pagate. Concludendo con la notizia che l’indagine finanziaria sarebbe comunque proseguita: la speranza degli investigatori dell’Aif era quella di tracciare il flusso dei soldi con la collaborazione delle Uif estere, per capire se parte dei 10 milioni dati a Torzi sarebbero rimasti sui conti del finanziere. O movimentati a favore di qualcun altro dentro il Vaticano. Paradossalmente l’inchiesta sugli investigatori dell’Aif ha per ora bloccato il lavoro dell’intelligence dell’autorità. Ad oggi non sappiamo se i gendarmi, da pochi giorni guidati dal nuovo comandante Gianluca Gauzzi Broccoletti, abbiano trovato nuovi elementi corruttivi che inchiodino gli indagati o altri personaggi rimasti nell’ombra. Sappiamo con certezza che l’inchiesta dimostra come centinaia di milioni di euro destinati agli ultimi e ai poveri vengono ancora gestiti con opacità e nessuna trasparenza, come se il Vaticano fosse una merchant bank di un Paese offshore. Ed evidenzia come carte giudiziarie rischino di essere usate per regolamenti di conti tra le sacre mura. Per Francesco non sarà facile, davanti al nuovo scandalo, districarsi tra nemici veri, falsi amici, buoni suggeritori e cattivi consiglieri.

Mincione e il Vaticano. L'Espresso il 30 ottobre 2019. L’Espresso nell'articolo a firma di Emiliano Fittipaldi dal titolo “Peccati Mortali” ha riportati fatti non veri, sospetti, associazioni e allusioni che, seppur virgolettati, in quanto asseritamente estratti da un non meglio precisato documento, non sono stati certamente verificati e vengono presentati sulla sua rivista in modo diffamatorio e come se fossero veritieri. Tali dichiarazioni, e l’evidenza con cui vengono riportate senza alcun tipo di contraddittorio, non possono che produrre un effetto diffamatorio nei confronti della mia persona al solo scopo di colpire la mia famiglia e la sua serenità. In particolare, il mio nome viene accostato al Vaticano, a Monsignor Mauro Carlino, al Signor Luca Del Fabbro, ad un certo Signor Casiraghi e ad un certo Signor Preziosi e si asserisce che non meglio precisate “nuove operazioni” si sarebbero dovute realizzare con il mio coinvolgimento. Sottolineo che non ho rapporti di nessun genere con il Vaticano e che non conosco né ho mai incontrato nessune delle persone sopra menzionate e indicate nell’articolo. Inoltre, non ho nulla a che fare con le perfettamente legittime attività imprenditoriali di mio marito. La invito, quindi, a pubblicare, senza indugio, nelle pagine principali della sua rivista, dando il medesimo risalto dato all’articolo, delle scuse e una smentita di quanto riportato con l’articolo, specificando che la medesima rivista, in violazione di precisi doveri, non ha svolto alcuna verifica indipendente sul contenuto dell’articolo. Mi riservo, ad ogni buon conto, di agire in ogni competente sede per il risarcimento dei danni subiti e subendi in conseguenza dell’articolo. Distinti saluti. Maddalena Paggi Mincione

La nostra risposta. Prendiamo atto delle precisazioni. Segnaliamo tuttavia che ci siamo limitati a riportare tra virgolette quanto scritto dai magistrati vaticani.

Soffiate, scandali e inchieste:  il Vaticano pronto a sostituire il capo della Gendarmeria. Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Avviata la procedura per la sostituzione di Domenico Giani. A pesare è l’inchiesta sugli investimenti milionari e la «soffiata» di un documento ufficiale ai giornalisti. La procedura è avviata, entro qualche settimana il capo della gendarmeria vaticana Domenico Giani potrebbe essere avvicendato. È l’epilogo clamoroso dell’indagine avviata sulle operazioni finanziarie da milioni di euro effettuate da alcuni uffici della segreteria di Stato. Ma è soprattutto l’ultimo atto di una guerra interna che va avanti da mesi e avrebbe convinto lo stesso papa Francesco sull’opportunità di un cambio ai vertici della struttura che si occupa di tutte le inchieste avviate dentro le mura. Ieri alcune indiscrezioni parlavano addirittura di dimissioni, in realtà si sta cercando una via d’uscita concordata con Giani che sarebbe destinato ad un altro incarico all’esterno della Santa Sede, forse in un organismo internazionale. Si torna dunque al 1° ottobre scorso quando la sala stampa vaticana dirama la notizia sugli accertamenti svolti su investimenti finanziari e immobiliari: «Questa mattina sono state eseguite, presso alcuni Uffici della I° Sezione della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria dello Stato, attività di acquisizione di documenti e apparati elettronici. L’operazione, autorizzata con decreto del Promotore di Giustizia del Tribunale, Gian Piero Milano e dell’Aggiunto Alessandro Diddi, e di cui erano debitamente informati i Superiori, si ricollega alle denunce presentate agli inizi della scorsa estate dall’Istituto per le Opere di Religione e dall’Ufficio del Revisore Generale, riguardanti operazioni finanziarie compiute nel tempo». Si scopre così che le verifiche riguardano monsignor Mauro Carlino, capo dell’Ufficio informazione e Documentazione della Santa Sede; il direttore dell’Aif — l’autorità antiriciclaggio — Tommaso Di Ruzza; due funzionari, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi; un’impiegata dell’amministrazione, Caterina Sansone. Tutti devono chiarire la natura di alcuni investimenti, compreso un palazzo acquistato a Londra, nella lussuosa Sloane Square per oltre 200 milioni di euro. Il giorno dopo il settimanale L’Espresso pubblica l’immagine di una nota interna firmata da Giani con le foto dei cinque, la comunicazione sulla loro «sospensione dal servizio» e il divieto di ingresso in Vaticano. «I suddetti — è scritto — potranno accedere nello Stato esclusivamente per recarsi presso la Direzione Sanità ed Igiene per i servizi connessi, ovvero se autorizzati dalla magistratura vaticana. Monsignor Mauro Carlino continuerà a risiedere presso la Domus Sanctae Marthae». La «soffiata» viene ritenuta gravissima, in Vaticano raccontano che lo stesso pontefice abbia voluto incontrare Giani per manifestargli il proprio disappunto. Anche perché in quelle immagini i cinque sembrano ricercati. Nessuno crede che sia stato il comandante a far uscire il documento riservato, ma gli viene comunque contestata una omessa vigilanza di cui dovrà rendere conto proprio al governatorato. Entro qualche giorno dovrà depositare una relazione per ricostruire l’accaduto e il suo avvicendamento viene dato per scontato e imminente. In queste ore chi è riuscito a parlare con il Comandante lo descrive «provato e amareggiato», pur confermando come queste voci sulla sua sostituzione siano cominciate già da mesi. Ma si siano via via fatte più insistenti anche tenendo conto dei rapporti non proprio idilliaci con il suo vice, Gianluca Gauzzi Broccoletti, nominato da papa Francesco nel dicembre scorso. Giani — nominato capo della gendarmeria nel 2006 — ha gestito tutti i casi delicati, da Emanuela Orlandi ai «corvi», dai casi di pedofilia a Vatileaks. E per questo si sta cercando una via d’uscita che non appaia come un licenziamento.

Il saluto del capo della gendarmeria: «Tanta amarezza». Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini e Gian Guido Vecchi. Giani e la fuga di notizie che ha contrariato il Papa. Domenica mattina Francesco celebrava la messa per canonizzare cinque nuovi santi e lui stava come sempre al suo posto, in completo scuro accanto al Papa, la mano posata sull’auto e gli occhi a percorrere piazza San Pietro durante il saluto ai fedeli. Eppure, si dice in Vaticano, la decisione è presa, già questa mattina la sostituzione di Domenico Giani alla guida della Gendarmeria vaticana potrebbe essere ufficiale e quella di ieri l’ultima immagine da «angelo custode» del pontefice, dopo vent’anni di servizio. Agli amici aveva confidato che non sarebbe mai rimasto dove non è voluto. Il comandante ha parlato ieri con Francesco e poi riunito i gendarmi per informarli che il suo mandato è ormai terminato. Molti di loro sono già stati interrogati dal promotore di giustizia Roberto Zannotti, titolare dell’indagine sulla fuga di notizie che ha fatto infuriare il Papa, tanto da convincerlo a parlare di «peccato mortale»: la «soffiata» che ha consentito la pubblicazione della «disposizione di servizio» con nomi e foto dei cinque dipendenti della Santa Sede coinvolti nell’inchiesta sugli investimenti immobiliari da centinaia di milioni di euro. Il saluto ai gendarmi, si racconta, è stato fatto ieri dopo la messa. Giani ha chiesto a tutti di mantenere il silenzio fino all’annuncio ufficiale e poi ha ribadito la propria «amarezza» ed «estraneità». La «disposizione» che vietava l’ingresso in Vaticano ai cinque indagati — il direttore dell’Antiriciclaggio, Tommaso Di Ruzza; il capo ufficio della Segreteria di Stato, monsignor Mauro Carlino; due impiegati della Terza Loggia, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, e l’addetta di amministrazione Caterina Sansone — era stata affissa al comando, ma doveva restare riservata. Invece qualcuno l’ha divulgata, probabilmente all’interno della Gendarmeria, e la responsabilità è ricaduta su Giani sia per omesso controllo sia per non essere riuscito a individuare la «talpa». Le voci che filtrano Oltretevere accreditano la possibilità che questa vicenda sia soltanto l’ultimo di una serie di episodi che avevano ormai deteriorato il rapporto tra il comandante dei gendarmi e alcuni superiori: in particolare il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato. Del resto, l’aver condotto indagini e perquisizioni, in questi anni, ha procurato a Giani molti nemici. Ora si tratta di vedere se — com’era stato concordato — Giani sarà destinato ad altro incarico o se invece attenderà una nuova destinazione. In queste ore si è parlato di un impegno al Viminale o in qualche organizzazione che svolge attività all’estero. L’indagine del «pm» vaticano è stata avviata il 2 ottobre, subito dopo la pubblicazione della «disposizione» con nomi e foto su L’Espresso. Sono stati ascoltati i gendarmi e si è ricostruito quanto accaduto. È stato spiegato che il bollettino, come avviene sempre, era stato affisso nella bacheca del comando e trasmesso alle guardie svizzere che sorvegliano gli ingressi. Qualcuno sospetta sia stato divulgato proprio per danneggiare Giani o comunque avvelenare l’inchiesta sulle operazioni immobiliari e finanziarie. Il fascicolo nei prossimi giorni potrebbe riservare nuove sorprese, visto che alcuni atti per l’autorizzazione alla compravendita risultano firmati dal cardinale Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato fino a giugno 2018 e da settembre prefetto della Congregazione per le cause dei santi. «Non sappiamo chi abbia diffuso il documento, ma mi rammarico che all’interno del Vaticano stia venendo meno il senso di appartenenza e lealtà, di fedeltà alle istituzioni per le quali abbiamo giurato», ha detto Becciu a Tgcom24. Il cardinale, com’è ovvio, ieri era alla messa: «Come vedete sono qui e sto bene. Il Papa è stato molto gentile, mi ha ringraziato per la cerimonia che abbiamo fatto per le canonizzazioni e poi mi ha detto che ha sempre grande fiducia in me e di restare sereno. Mi ha detto di reagire da sardo. È stato un incoraggiamento, bisogna camminare malgrado tutto».

Vaticano, si dimette il comandante della Gendarmeria: ciò che Papa Francesco non ha potuto tollerare. Libero Quotidiano il 14 Ottobre 2019. Non saltano le teste, ma fioccano le dimissioni. Un caso clamoroso in Vaticano: si è infatti dimesso il Comandante del Corpo di Gendarmeria, Domenico Giani, il quale ha rimesso il proprio mandato nelle mani di Papa Francesco. La notizia è stata diffusa da un Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, in cui si legge: "Nell'accogliere le dimissioni, il Santo Padre si è intrattenuto a lungo col Comandante Giani e gli ha espresso il proprio apprezzamento per questo gesto, riconoscendo in esso un'espressione di libertà e di sensibilità istituzionale, che torna ad onore della persona e del servizio prestato con umiltà e discrezione al Ministero Pretino e alla Santa Sede". Le dimissioni sono arrivate come conseguenza dello scandalo destato dalla perqusizione avvenuta nella Segreteria di Stato vaticana fatta da lui e dai suoi uomini (al posto di Giani dovrebbe andare ad interim il suo attuale vice, Gianluca Gauzzi Broccoletti, uomo gradito al Papa). In seguito alla perquisizione, sono scattate cinque sospensioni tra cui quella di don Mauro Carlino, capo degli uffici della Segreteria di Stato, e Tommaso Di Ruzza, direttore dell'antiriciclaggio. Negli ultimi giorni è emerso da alcuni retroscena di stampa come Papa Francesco non abbia gradito i metodi di questa perquisizione. Secondo fonti vaticane citate da Repubblica.it, fino a domenica sera Giani era covinto che l’eventuale sostituzione sarebbe avvenuta più avanti. Ma così non era, tanto che ha deciso di rimettere il suo mandato. Nella nota ufficiale diramata dalla sala stampa vaticana si legge ancora: "Volendo garantire la giusta serenità" per il proseguimento delle indagini coordinate dal Promotore di Giustizia ed eseguite dal Corpo della Gendarmeria, "non essendo emerso al momento l’autore materiale della divulgazione all’esterno della disposizione di servizio" - riservata agli appartenenti alla Gendarmeria e alla Guardia Svizzera - il comandante Domenico Giani, "pur non avendo alcuna responsabilità soggettiva nella vicenda", ha rimesso il proprio mandato nelle mani del Papa, che ha accolto le sue dimissioni. A Giani è stato contestato l’omesso controllo e la mancata individuazione della talpa, ma in realtà le sue dimissioni si inquadrano in una guerra interna che risale a svariati mesi fa e si è consumata sulla gestione di numerose inchieste delicate, dalla pedofilia alla scomparsa di Emanuela Orlandi, fino alla gestione del patrimonio e ai rapporti tra lo Ior e l’Antiriclaggio. "Gli eventi recentemente accaduti hanno generato un grave dolore al Santo Padre e questo mi ha profondamente colpito". Questo il commento a caldo di Giani, in una intervista realizzata da Alessandro Gisotti, vicedirettore editoriale del Dicastero per la Comunicazione. Giani ha sottolineato di aver anche lui "provato vergogna" per la pubblicazione di un documento che ha coinvolto altre persone (disposizione di servizio con nomi e foto di cinque dipendenti della Santa Sede coinvolti in una inchiesta, ndr) e che "ha certamente calpestato la dignità queste persone". "Anche io come Comandante ho provato vergogna per quanto accaduto e per la sofferenza arrecata a queste persone - ha affermato -. Per questo, avendo sempre detto e testimoniato di essere pronto a sacrificare la mia vita per difendere quella del Papa, con questo stesso spirito ho preso la decisione di rimettere il mio incarico per non ledere in alcun modo l'immagine e l'attività del Santo Padre", ha concluso.

Vaticano, Giani: «Io sulla gogna ma sono onesto. E per il Papa sacrifico la vita». Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.iti da Gian Guido Vecchi. Le dimissioni del comandante della Gendarmeria: «Manovre contro di me? Fa parte del gioco». «Si parlava di gogna mediatica, e ora sulla gogna ci sono io». Gli ultimi giorni, per Domenico Giani, sono stati assai difficili, «io che sono una persona per bene, retta e onesta». Alla fine non gli è rimasta che la soluzione che ci si attendeva, il comandante della Gendarmeria vaticana si è dimesso: «Avendo sempre detto e testimoniato di essere pronto a sacrificare la mia vita per difendere quella del Papa, con questo stesso spirito ho preso la decisione di rimettere il mio incarico per non ledere in alcun modo l’immagine e l’attività del Santo Padre. E questo, assumendomi quella “responsabilità oggettiva” che solo un comandante può sentire», ha spiegato nella dichiarazione affidata ieri ai media vaticani. L’ormai ex comandante - che sarà sostituito ad interim dal vice Gianluca Gauzzi Broccoletti - se ne va dopo vent’anni di servizio come «angelo custode» del Papa, responsabile della sua sicurezza a Roma e nei viaggi internazionali. Tutto è nato della «soffiata» intorno alle indagini sulle operazioni finanziarie e immobiliari della Segreteria di Stato: la «disposizione di servizio» firmata da Giani, con tanto di nomi e foto di cinque dipendenti vaticani «sospesi» il 2 ottobre, era stata pubblicata dopo poche ore dal settimanale L’Espressoe quindi su tutti i media. Francesco, molto irritato, aveva parlato di un fatto «la cui gravità è paragonabile a un peccato mortale». E a quel punto non restava nient’altro da fare, anche se la Santa Sede chiarisce che Giani «non ha alcuna responsabilità soggettiva» e informa che «nell’accogliere le dimissioni, il Santo Padre si è intrattenuto a lungo col comandante Giani e gli ha espresso il proprio apprezzamento per questo gesto, riconoscendo in esso un’espressione di libertà e di sensibilità istituzionale, che torna ad onore della persona e del servizio prestato con umiltà e discrezione». Lo stesso Giani dice: «La disposizione era stata inoltrata ad uso interno esclusivamente per gendarmi e guardie svizzere. L’uscita di questo documento, pubblicato da alcuni organi di stampa, ha certamente calpestato la dignità di queste persone. Anche io come comandante ho provato vergogna per quanto accaduto e per la sofferenza arrecata a queste persone». Resta però «l’ amarezza» per una vicenda alla quale si sente «estraneo», confida. L’aver condotto indagini e perquisizioni, in questi anni, ha procurato a Giani molti nemici interni. C’è chi sospetta che la pubblicazione del documento riservato fosse un modo di colpirlo. «Vabbè, questo fa parte del gioco», considera amaro. In Vaticano c’è un brutto clima, la stessa indagine nasce da uno scontro fra la Segreteria di Stato e lo Ior. Giani ha 57 anni, «ho dedicato 38 anni della mia vita al servizio delle istituzioni in Italia e del Pontefice». Prima della Gendarmeria era alla Guardia di Finanza e poi al Sisde, si dice che il Vaticano abbia contattato il premier Conte e si sia parlato anche di un impegno al Viminale. Intanto, però, Giani fa notare a chi gli è vicino ciò che aveva detto il 29 settembre, San Michele Arcangelo, durante la festa della Gendarmeria. Parlava di «disciplina, obbedienza, fraternità, carità, umanità» e aggiungeva: «Pensiamo a quante energie si possono spendere per creare un nemico. Non riuscendo a utilizzarle al meglio per crescere, esse sono orientate verso un capro espiatorio, un nemico ricercato o molto spesso creato al solo scopo di abbatterlo». E ancora: «Mi viene in mente Gioacchino Rossini e il Barbiere di Siviglia, “La calunnia è un venticello”, ma ancor di più quanto il Papa ha voluto sottolineare, “non sparlare degli altri”: mercoledì scorso ha definito la calunnia “un cancro diabolico”». Conclusione: «L’obbedienza deve sì coniugarsi alla lealtà e alla coerenza, ma anche a reciprocità d’intenti e di corrisposta quanto vicendevole correttezza».

Fiorenza Sarzanini e Gian Guido Vecchi per corriere.it il 14 Ottobre 2019. Il Papa ha accettato le dimissioni del capo della gendarmeria Domenico Giani. Come anticipato dal Corriere della Sera, finisce dunque anticipatamente rispetto alla scadenza dell’incarico, il mandato del capo dei gendarmi. La decisione è stata presa dopo la fuga di notizie sull’inchiesta che ha coinvolto cinque dipendenti della Santa Sede e in particolare per la pubblicazione del bollettino di divieto di ingresso con le cinque foto. Una “soffiata” che lo stesso pontefice ha definito «un peccato mortale».

«Rimetto il mio incarico». «Avendo sempre detto e testimoniato di essere pronto a sacrificare la mia vita per difendere quella del Papa, con questo stesso spirito ho preso la decisione di rimettere il mio incarico per non ledere in alcun modo l’immagine e l’attività del Santo Padre. E questo, assumendomi quella “responsabilità oggettiva” che solo un comandante può sentire», sono state le parole di Giani. Tutto è nato della «soffiata» intorno alle indagini sulle operazioni finanziarie e immobiliari della Segreteria di Stato: la «disposizione di servizio» firmata dal comandate della Gendarmeria Domenico Giani, con tanto di nomi e foto di cinque dipendenti vaticani «sospesi cautelativamente» il 2 ottobre, era stata pubblicata dopo poche ore dal settimanale L’Espresso e quindi su tutti i media. E così Giani ha spiegato ai media vaticani: «Sono trascorsi 15 giorni dalla pubblicazione del documento che era stato inoltrato ad uso interno esclusivamente per gendarmi e guardie svizzere. Come indicato nel comunicato della Sala Stampa del primo ottobre, è in corso un’indagine e le persone coinvolte sono state raggiunte da un provvedimento amministrativo.  L’uscita di questo documento, pubblicato da alcuni organi di stampa, ha certamente calpestato la dignità di queste persone. Anche io come Comandante ho provato vergogna per quanto accaduto e per la sofferenza arrecata a queste persone». «Ho dedicato 38 anni della mia vita al servizio delle istituzioni, prima in Italia, e poi per 20 anni in Vaticano, al Romano Pontefice. In questi anni ho speso tutte le mie energie per assicurare il servizio che mi era stato affidato. Ho cercato di farlo con abnegazione e professionalità ma sentendomi, come il Vangelo di due domenica fa ci ricorda, serenamente un “servo inutile” che ha fatto fino in fondo la sua piccola parte».

Molti nemici interni. Del resto c’è chi sospetta che la diffusione del documento fosse un modo per colpire il comandante, vent’anni di servizio come «angelo custode» del Papa. L’aver condotto indagini e perquisizioni, in questi anni, ha procurato a Giani molti nemici interni. La stessa indagine sugli investimenti immobiliari nasce da uno scontro interno al Vaticano tra Ior e Segreteria di Stato. Anche il comunicato ufficiale della Santa Sede parla di responsabilità oggettiva: «Volendo garantire la giusta serenità per il proseguimento delle indagini coordinate dal Promotore di Giustizia ed eseguite da personale del Corpo, non essendo emerso al momento l’autore materiale della divulgazione all’esterno della disposizione di servizio - riservata agli appartenenti al Corpo della Gendarmeria e della Guardia Svizzera Pontificia – il Comandante Giani, pur non avendo alcuna responsabilità soggettiva nella vicenda, ha rimesso il proprio mandato nelle mani del Santo Padre, in spirito di amore e fedeltà alla Chiesa ed al Successore di Pietro».

Le accuse. Nella nota ufficiale diramata dalla sala stampa vaticana è scritto: «Volendo garantire la giusta serenità» per il proseguimento delle indagini coordinate dal Promotore di Giustizia ed eseguite dal Corpo della Gendarmeria, «non essendo emerso al momento l’autore materiale della divulgazione all’esterno della disposizione di servizio» - riservata agli appartenenti alla Gendarmeria e alla Guardia Svizzera - il comandante Domenico Giani, «pur non avendo alcuna responsabilità soggettiva nella vicenda», ha rimesso il proprio mandato nelle mani del Papa, che ha accolto le sue dimissioni. A Giani è stato contestato l’omesso controllo e la mancata individuazione della talpa, ma in realtà le sue dimissioni si inquadrano in una guerra interna che risale a svariati mesi fa e si è consumata sulla gestione di numerose inchieste delicate, dalla pedofilia alla scomparsa di Emanuela Orlandi, fino alla gestione del patrimonio e ai rapporti tra lo Ior e l’Antiriclaggio.

 Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 14 Ottobre 2019. Anche ieri mattina Domenico Giani ha affiancato Papa Francesco in piazza san Pietro, scortandolo in mezzo alla folla. Finita la cerimonia per la canonizzazione di cinque nuovi santi il capo della gendarmeria ha accompagnato la jeep papale durante tutto il tragitto tra le transenne dell'emiciclo berniniano, esattamente come prevedono le circostanze solenni. Eppure ieri mattina la presenza di Giani accanto al Papa non era scontata a causa della bufera che lo ha toccato e per la quale il capo della gendarmeria ha presentato le sue dimissioni dopo essere stato invitato da Bergoglio a fare un passo indietro. Un colloquio spinoso. La lettera di dimissioni come riferisce l'agenzia Adnkronos - ora si trova sulla scrivania del Pontefice mentre si sta studiando per Giani una via di uscita onorevole dopo 20 anni di servizio e di risultati. Il fatto è che lo scontro tra lo Ior e la Segreteria di Stato per la gestione dell'Obolo di San Pietro, scoppiato dopo la perquisizione choc negli uffici della Prima Sezione nel palazzo apostolico, ha innescato una serie di sorprendenti conseguenze a catena. Come in una sorta di effetto domino il primo a farne le spese è stato il capo della gendarmeria. Il Papa dicono sia furioso per la fuoriuscita dal Vaticano del provvedimento segnaletico con tanto di fotografie, nomi e cognomi dei cinque impiegati sospettati dai magistrati vaticani di comportamenti scorretti e di irregolarità finanziarie (anche se ad oggi non risultano nemmeno indagati e non sanno ancora quali siano i presunti reati a loro carico). Ha persino fatto aprire una indagine. Siccome l'avviso segnaletico portava la firma di Giani, il Papa ne ha chiesto conto e sollecitato spiegazioni. Il clima che nel frattempo si è creato in queste ultime due settimane in Vaticano è pesante. A detta di monsignori, vescovi e cardinali nel piccolo stato pontificio serpeggia la paura di parlare liberamente al telefono o anche a mandare una mail, senza prima immaginare di essere intercettati. E' come se fosse venuta a mancare quella serenità che in una comunità è necessaria per coltivare normali rapporti umani o di lavoro. Il fatto è che la Gendarmeria sotto il comando di Domenico Giani da semplice organo di pubblica sicurezza, come era ai tempi del comandante Camillo Cibin - un gentiluomo ruvido e di poche parole che soccorse Wojtyla sulla jeep durante l'attentato ha fatto un salto ulteriore inglobando prerogative militari che prima erano appannaggio della Guardia Svizzera. Papa Francesco è ormai convinto a sostituire il comandante anche se non sarà una cosa così semplice. Il curriculum di Giani inizia nei servizi segreti italiani come funzionario. Verso la fine del pontificato di Papa Wojtyla è approdato - su sponsorizzazione dell'allora vescovo Carraro - al vertice dell'organo della Gendarmeria, come numero due, sotto il comandante Cibin, attraversando il burrascoso pontificato di Benedetto XVI e, soprattutto, Vatileaks 1 e Vatileaks 2. Vale a dire ben due stagioni di corvi e veleni. Impresa non facile.

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 15 ottobre 2019. «Si parlava di gogna mediatica, e ora sulla gogna ci sono io». Gli ultimi giorni, per Domenico Giani, sono stati assai difficili, «io che sono una persona per bene, retta e onesta». Alla fine non gli è rimasta che la soluzione che ci si attendeva, il comandante della Gendarmeria vaticana si è dimesso: «Avendo sempre detto e testimoniato di essere pronto a sacrificare la mia vita per difendere quella del Papa, con questo stesso spirito ho preso la decisione di rimettere il mio incarico per non ledere in alcun modo l’immagine e l’attività del Santo Padre. E questo, assumendomi quella “responsabilità oggettiva” che solo un comandante può sentire», ha spiegato nella dichiarazione affidata ieri ai media vaticani. L’ormai ex comandante - che sarà sostituito ad interim dal vice Gianluca Gauzzi Broccoletti - se ne va dopo vent’anni di servizio come «angelo custode» del Papa, responsabile della sua sicurezza a Roma e nei viaggi internazionali. Tutto è nato della «soffiata» intorno alle indagini sulle operazioni finanziarie e immobiliari della Segreteria di Stato: la «disposizione di servizio» firmata da Giani, con tanto di nomi e foto di cinque dipendenti vaticani «sospesi» il 2 ottobre, era stata pubblicata dopo poche ore dal settimanale L’Espresso e quindi su tutti i media. Francesco, molto irritato, aveva parlato di un fatto «la cui gravità è paragonabile a un peccato mortale». E a quel punto non restava nient’altro da fare, anche se la Santa Sede chiarisce che Giani «non ha alcuna responsabilità soggettiva» e informa che «nell’accogliere le dimissioni, il Santo Padre si è intrattenuto a lungo col comandante Giani e gli ha espresso il proprio apprezzamento per questo gesto, riconoscendo in esso un’espressione di libertà e di sensibilità istituzionale, che torna ad onore della persona e del servizio prestato con umiltà e discrezione». Lo stesso Giani dice: «La disposizione era stata inoltrata ad uso interno esclusivamente per gendarmi e guardie svizzere. L’uscita di questo documento, pubblicato da alcuni organi di stampa, ha certamente calpestato la dignità di queste persone. Anche io come comandante ho provato vergogna per quanto accaduto e per la sofferenza arrecata a queste persone». Resta però «l’ amarezza» per una vicenda alla quale si sente «estraneo», confida. L’aver condotto indagini e perquisizioni, in questi anni, ha procurato a Giani molti nemici interni. C’è chi sospetta che la pubblicazione del documento riservato fosse un modo di colpirlo. «Vabbè, questo fa parte del gioco», considera amaro. In Vaticano c’è un brutto clima, la stessa indagine nasce da uno scontro fra la Segreteria di Stato e lo Ior. Giani ha 57 anni, «ho dedicato 38 anni della mia vita al servizio delle istituzioni in Italia e del Pontefice». Prima della Gendarmeria era alla Guardia di Finanza e poi al Sisde, si dice che il Vaticano abbia contattato il premier Conte e si sia parlato anche di un impegno al Viminale. Intanto, però, Giani fa notare a chi gli è vicino ciò che aveva detto il 29 settembre, San Michele Arcangelo, durante la festa della Gendarmeria. Parlava di «disciplina, obbedienza, fraternità, carità, umanità» e aggiungeva: «Pensiamo a quante energie si possono spendere per creare un nemico. Non riuscendo a utilizzarle al meglio per crescere, esse sono orientate verso un capro espiatorio, un nemico ricercato o molto spesso creato al solo scopo di abbatterlo». E ancora: «Mi viene in mente Gioacchino Rossini e il Barbiere di Siviglia, “La calunnia è un venticello”, ma ancor di più quanto il Papa ha voluto sottolineare, “non sparlare degli altri”: mercoledì scorso ha definito la calunnia “un cancro diabolico”». Conclusione: «L’obbedienza deve sì coniugarsi alla lealtà e alla coerenza, ma anche a reciprocità d’intenti e di corrisposta quanto vicendevole correttezza».

ANSA il 15 ottobre 2019. All'indomani dell'uscita di scena di Domenico Giani, di cui ha accolto ieri le dimissioni, papa Francesco ha nominato oggi direttore della Direzione dei Servizi di Sicurezza e Protezione Civile dello Stato della Città del Vaticano e comandante del Corpo della Gendarmeria l'ing. Gianluca Gauzzi Broccoletti, finora vice direttore e vice comandante. Trovano conferma, così, le indiscrezioni che davano il vice di Giani come il più accreditato a salire al comando del Corpo di sicurezza vaticano. E' l'ulteriore sviluppo questo, della clamorosa vicenda che è costata il posto a Giani, cioè la pubblicazione sulla stampa della "disposizione di servizio", corredata di foto segnaletiche, con cui venivano sospesi dall'incarico cinque addetti vaticani - quattro laici e un monsignore - interessati dalle indagini in Segreteria di Stato e all'Aif sui operazioni finanziarie condotte negli ultimi anni con fondi dell'Obolo di San Pietro, in particolare l'acquisto per 200 milioni di un immobile di lusso al centro di Londra. L'avviso firmato da Giani sull'allontanamento temporaneo dei cinque, ad uso interno degli agenti della Gendarmeria e delle Guardie Svizzere, è finito sulle pagine dell'Espresso, un fatto che ha fortemente irritato il Papa, al punto da bollarne la "gravità" come "paragonabile ad un peccato mortale, poiché lesivo della dignità delle persone e del principio della presunzione di innocenza", e da ordinare l'avvio di un'inchiesta interna. Non essendo uscito il responsabile della fuga di documenti - a tutti gli effetti un nuovo caso "Vatileaks" - a pagare per "responsabilità oggettiva" è stato lo stesso Giani. La scelta di lasciare "era intrinseca nel mio lavoro: ho sempre detto che sarei stato pronto a sacrificare la mia vita per difendere quella del Papa. E' lo spirito con il quale ho preso questa decisione", dice l'ormai ex capo della Gendarmeria alla Nazione, nelle pagine di Arezzo, sua città d'origine. "Anche per me quella fuga di notizie è stata vergognosa, ha calpestato la dignità di chi l'ha subita. Capisco fino in fondo il Papa", ribadisce. L'autore? "Sì, lo confesso: speravo parlasse. E credo che l'autore non lo abbia fatto per malafede, forse solo per superficialità". Sulle indiscrezioni secondo cui in cambio del suo gesto avrebbe ricevuto promesse e riconoscimenti, chiarisce: "No, niente. Esco senza niente, questo è chiaro. Ma è così che deve essere, almeno in Vaticano". "Credo di aver accumulato esperienze e professionalità che conto possano tornarmi utili, ma in questo momento non c'è alcuna alternativa, si riparte da zero", aggiunge. Il successore Gauzzi Broccoletti, 45 anni, di Gubbio (Perugia), laureato in Ingegneria della Sicurezza e Protezione alla Sapienza, sposato e con due figli, è entrato nella Gendarmeria vaticana nel 1995, diventando nel 1999 responsabile della progettazione e sviluppo dell'infrastruttura di tecnologia di networking e di sicurezza della Città del Vaticano e di Cyber Security. Nel 2010 è stato trasferito al Centro Operativo di Sicurezza, fino a diventare vice comandante del Corpo nel 2018. Secondo  quanto aveva scritto l'Espresso, il Corpo della Gendarmeria aveva spedito una disposizione di servizio al personale interno dello Stato e alle Guardie Svizzere che controllano gli accessi, che segnalava che 5 persone erano state "sospese cautelativamente dal servizio". Si tratta di due dirigenti apicali degli uffici della Segreteria, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, di un'addetta all'amministrazione, Caterina Sansone, e di due alti dirigenti vaticani: mons. Maurizio Carlino, da poche settimane capo dell'Ufficio informazione e Documentazione, e il direttore dell'Aif Tommaso Di Ruzza. "I suddetti" si legge nella nota firmata dal comandante Domenico Giani "potranno accedere nello Stato esclusivamente per recarsi presso la Direzione Sanità ed Igiene per i servizi connessi, ovvero se autorizzati dalla magistratura vaticana. Monsignor Mauro Carlino continuerà a risiedere presso la Domus Sanctae Marthae". L'indagine è solo agli inizi, ma risulta all'Espresso che le "operazioni finanziarie compiute nel tempo", al centro delle indagini secondo il comunicato di ieri della Sala stampa vaticana, riguardano alcune compravendite immobiliari milionarie all'estero, in particolare immobili di pregio a Londra, e alcune "strane" società inglesi che avrebbero partecipato al business. Per la cronaca, Tirabassi gestisce gli investimenti finanziari nella Segreteria di Stato, nell'Ufficio Amministrativo, posizione molto delicata occupandosi tra l'altro dell'Obolo di San Pietro, che ha visto il suo storico numero uno, monsignor Alberto Perlasca, traslocare lo scorso 26 luglio, quando papa Francesco l'ha nominato promotore di Giustizia al Tribunale della Segnatura Apostolica. Gli investigatori starebbero inoltre analizzando proprio alcuni flussi finanziari dei conti su cui transita appunto l'Obolo di San Pietro, l'insieme delle offerte di denaro fatte dai fedeli e inviate al Papa per essere redistribuite a sostegno della missione della Chiesa e delle opere di carità. Ma anche e soprattutto per il sostentamento dell'apparato vaticano. Nel 2015, i conti e gli investimenti da fondi provenienti dall'Obolo avevano raggiunto la somma record di quasi 400 milioni di euro. Ogni conto e spostamento di denaro adesso è stato messo sotto i raggi X, per vedere se alcune irregolarità ipotizzate nascondono qualcosa di più grave. Le denunce fatte dallo Ior e dal Revisore generale interesserebbero un arco temporale recente, quando gli uffici messi nel mirino della magistratura, quelli della Prima Sezione "Affari Generali" della Segreteria di Stato erano guidati da monsignor Angelo Becciu, ex sostituto diventato pochi mesi fa prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi e cardinale. Monsignor Carlino, appena sospeso da ogni funzione, è stato per anni il segretario personale del porporato.

Umberto Rapetto (ex generale della Guardia di Finanza) per startmag.it il 16 ottobre 2019. Ne hanno già scritto molto. Lo hanno già fatto in tanti, forse troppi. Ciò nonostante sento di dover dire la mia. Conosco bene Domenico Giani e ne ho sempre apprezzato la totale dedizione, domandandomi quanto la correttezza e l’altruismo portati all’estremo gli sarebbero stati nocivi in un mondo in cui certi valori sono una colpa e non un pregio. L’aver scelto di essere l’ombra di tre Pontefici, rinunciando a qualsivoglia briciola della propria esistenza, è fin troppo evidente. L’averlo fatto con serietà professionale e slancio è stata la sua condanna. La sua capitolazione è ora un brutto capitolo della storia contemporanea perché celebra la fine di ogni speranza che il merito e il sacrificio valgano ancora qualcosa. All’indiscutibilmente sgradevole vicenda della diffusione del manifesto che ricordava quelli che nei western riportavano a caratteri cubitali la scritta “Wanted” (e quindi “ricercati”), fa eco l’invisibile “pizzino” che circolava da tempo Oltretevere: “Non lo vogliamo più”. Il messaggio – dopo un lungo e non impercettibile sibilare – è arrivato a destinazione, veicolato dalla furente indignazione collettiva per la gogna di cinque presunti poco di buono che bazzicavano oltre le mura del Vaticano. Domenico Giani ha rassegnato le dimissioni nel bisbiglìo dei giornali che hanno catalizzato la loro attenzione su una uscita che – pur tutt’altro che plateale – non poteva passare inosservata. Gli sono stati riconosciuti i meriti di aver trasformato la Gendarmeria da “pizzardoni” della Santa Sede in un apparato operativo, investigativo e di intelligence che rappresentava il “bonsai” delle grandi organizzazioni a tutela di Nazioni con ben diverse dimensioni e mezzi. Ma nel non negare il suo apporto nel processo evolutivo del reparto di cui ha avuto per tanti anni il comando, si è sempre trascurato di ricordare l’atmosfera tossica in cui ha cercato (ed è riuscito) ad operare. La rete di relazioni che ha instaurato con gli “organi collaterali” (come in gergo vengono definite le Polizie e i Servizi segreti degli altri Paesi) è il frutto di imponenti sforzi e, soprattutto, il risultato della stima che si era guadagnato in giro per il mondo nonostante la lillipuziana dimensione del suo schieramento. Non nascondo una profonda preoccupazione per il Pontefice. Chiunque vada a ricoprire il ruolo di Giani, il Santo Padre adesso sarà davvero solo. Subentrare nell’incarico lasciato da Domenico Giani è missione impossibile anche per il più preparato degli sbirri, per la più arguta delle “barbe finte”, per il più tecnologico dei cyberdetective e anche per chi riesca sommare in sé le più significative competenze ed esperienze. Difendere il Vip (non me ne voglia Santità) che rappresenta il bersaglio ideale per qualunque terrorista o scriteriato di turno non è compito facile. Occorre esser disposti a rinunciare alla propria vita per salvare quella della persona su cui pesa il futuro della Chiesa e della sua comunità. Occorre farlo fisicamente “fuori le mura” ma anche sapendo far scudo nella scrosciante pioggia di strali che cercano di trafiggere Bergoglio. È un mestiere che non ti insegna nessuno, che non si impara da nessuna parte. Era invece il mood di Domenico Giani che anche con quest’ultimo lacerante gesto ha dimostrato una fedeltà encomiabile all’uomo che rappresenta l’ultima speranza del pianeta. Non è bastato a Giani il mitridatizzarsi, perché i veleni del Vaticano non consentono assuefazione ma al limite permettono di sopravvivere fino a dilaniare il malcapitato dopo lunga agonia. Papa Francesco ogni volta che chiude l’Angelus a Piazza San Pietro invita i fedeli a pregare per lui. Non aspettiamo domenica prossima per farlo.

Da adnkronos.com il 16 ottobre 2019. "Il capo della polizia vaticana Domenico Giani si dimette ed escono articolesse che lo celebrano come grande inquirente". Ma "un grande investigatore fa indagini che portano a processi e condanne". Lo scrive sulla sua pagina Facebook il giornalista Gianluigi Nuzzi, autore di più libri sui segreti vaticani, che commenta: "In vent’anni i processi in vaticano si contano sulle dita di mezza mano e quindi o la gendarmeria non sa trovare prove dei reati consumati (gli scandali ne raccontano tanti) o la gendarmeria viene bloccata e le indagini insabbiate. Nel primo caso Giani non sarebbe un grande investigatore nel secondo sarebbe un investigatore che accetta insabbiamenti rimanendo vent’anni sempre lì al suo posto". "Per sapere chi è Giani - prosegue Nuzzi - lo chiesi al maggiordomo di Ratzinger, Paolo Gabriele che venne arrestato e mi confidò che nella prima cella non poteva nemmeno allargare le braccia. Ah si perché Giani le maggiori indagini che ha portato a processo riguardano le fughe di notizie su malversazioni e corruzioni. Portò le presunte prove della colpevolezza di Fittipaldi e mia che costò un processo surreale nel 2016. Siamo stati prosciolti e sono convinto che in vaticano ci siano reati ben più gravi di passare notizie ai giornalisti". "Su chi è Giani lo chiesi anche a Libero Milone, scelto da Francesco per controllare i conti delle finanze vaticane: 'Giani mi disse: o si dimette o l’arresto'. Ma quando mai un investigatore minaccia un delinquente dell’arresto? O gli mette le manette se ci sono gli estremi o lo lascia andare. Con una postilla: Milone non è un delinquente e quella indagine agitata in faccia si è conclusa in un nonnulla, distruggendo il povero incensurato Milone. Insomma prima di incensare Giani io ci penserei un attimo... ancora un po’ di pazienza - conclude Nuzzi - e nel mio libro che esce lunedì troverete (quasi) tutto".

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 5 novembre 2019. Velocizzare i tempi dei processi Oltretevere, in modo che non calpestino il diritto a un procedimento «giusto». Lo vuole il Papa, soprattutto in questa fase di sterzata per bonificare la Chiesa dalla corruzione e renderla più trasparente. Perciò ha chiesto un' accelerata alle autorità competenti. Da chi svolge le indagini, il promotore di Giustizia Gian Piero Milano, si aspetta inchieste eseguite «con prontezza», spiega a La Stampa un alto prelato. E allo stesso tempo il Pontefice ha affidato «con piena fiducia» a chi celebra i processi, il presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, nominato un mese fa, la missione di snellire le tempistiche giudiziarie. A cominciare dalla vicenda londinese, «opaca», come l'ha definita il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Gli ultimi presunti scandali finanziari scoppiati in ottobre attorno ai palazzi di lusso nel centro di Londra sono legati ai fondi propri della Segreteria di Stato e al loro uso, che appare perlomeno «spericolato». Chi conduce l' investigazione dunque è il pm Milano, che ha nella Gendarmeria il «braccio» operativo. Quando terminerà le operazioni consegnerà gli atti al Tribunale, e solo a quel punto il presidente inizierà a lavorare. E si capirà se si potrà arrivare a un processo. Senza voler mettere eccessiva e controproducente fretta, a Santa Marta si attende con crescente trepidazione la decisione della magistratura. Anche perché papa Francesco desidera svoltare, imponendo alla Santa sede un nuovo corso basato su trasparenza e caccia ai corruttori. Con il necessario garantismo. Per il Papa «non può più capitare di avere un procedimento giudiziario lungo otto mesi come quello di Vatileaks 2, durato da novembre 2015 a luglio 2016», sostengono nelle Sacre Stanze. Secondo Bergoglio la celerità massima possibile è parte sostanziale del diritto umano ad avere un giudizio giusto. «A poco o nulla servono condanne o assoluzioni dopo anni», afferma un monsignore. «Questa problematica papa Francesco la conosce bene perché è una piaga di vari paesi dell' America Latina, in particolare la sua Argentina e il Cile», ci spiega. E poi c' è la questione mediatica: Bergoglio vive «con angoscia» le situazioni che diventano scandalo soprattutto perché non arriva una risposta chiara dalle autorità. «Se si trascina tutto in modo confuso o ambiguo, il clamore cresce, si crea la sensazione di impunità - evidenzia un suo collaboratore - e rimane nell' immaginario collettivo l' idea che anche il Vaticano sia "un porto delle nebbie"». È l' espressione con cui veniva definita la Procura di Roma segnata negli anni Ottanta da insabbiamenti e misteri. I magistrati devono essere «i primi ad affermare la superiorità della realtà sull' idea», aveva detto il Papa incontrando l' Associazione nazionale Magistrati a febbraio. Nei Sacri Palazzi rimbalza la sensazione che, «senza nulla togliere al predecessore, Giuseppe Dalla Torre, il Tribunale adesso ha una guida con un prestigio e un' esperienza inediti. Non è un caso: Pignatone è stato chiamato dal Papa per fare in modo che il Vaticano non venga considerato un "porto delle nebbie"». Intanto, sul versante della trasparenza, il cardinale Peter Turkson ha annunciato che «presto potrà esserci un documento che fisserà i criteri di gestione finanziaria dei dicasteri vaticani e delle diocesi».

M.D. per “Libero Quotidiano” il 5 novembre 2019. L'ex capo revisore dei conti del Vaticano, Libero Milone, sostiene di essere stato cacciato dal suo posto, due anni fa, per aver voluto indagare su centinaia di milioni di dollari, trattenuti dalla Segreteria di Stato «fuori dai libri contabili» in banche svizzere; conti bancari segreti che, ora, vengono legati alle operazioni di compravendita immobiliare a Londra, che hanno fatto scattare un' indagine interna alla Santa Sede per sospette irregolarità finanziarie. Intervistato dal Financial Times, Milone ha denunciato che, allora, «alcune persone si sono spaventate» del fatto che stesse per «scoprire» cose che non avrebbe dovuto vedere. «Eravamo andati troppo vicino a informazioni che volevano tenere segrete e hanno inventato una situazione per buttarmi fuori», ha dichiarato l' ex primo revisore dei conti del Vaticano, ufficialmente dimessosi ma che ha poi spiegato di essere stato costretto a farlo. Milone ha spiegato che quando era entrato in carica, nel 2015, non esistevano tracce ufficiali di centinaia di milioni di dollari, tenuti dalla Segreteria di Stato vaticana in conti svizzeri. La loro esistenza sarebbe emersa grazie a informazioni fornite da fonti esterne alla Santa Sede. Milone ha poi denunciato che, pur avendo ottenuto da papa Francesco il permesso di chiedere informazioni alle banche in Svizzera, la sua richiesta fu bloccata da altri, dentro il Vaticano. Circa due anni fa, la sala stampa della Santa Sede aveva reagito ad accuse dello stesso tenore, rivolte da Milone in un'intervista al Corriere della Sera, a Wall Street Journal, agenzia Reuters e Sky Tg24, ribadendo che «risulta purtroppo che l'Ufficio diretto dal Dott. Milone, esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una Società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede. Questo, oltre a costituire un reato, ha irrimediabilmente incrinato la fiducia riposta nel Dott. Milone, il quale, messo davanti alle sue responsabilità, ha accettato liberamente di rassegnare le dimissioni». «Non mi sono dimesso volontariamente. Sono stato minacciato di arresto. Il capo della Gendarmeria mi ha intimidito per costringermi a firmare una lettera che avevano già pronta», aveva replicato Milone.

Il Vaticano, i preti, l'avvocato di Netanyahu: lo scandalo immobiliare da 2 miliardi di euro. Vicino Gerusalemme i salesiani hanno venduto per 80 milioni, grazie alla mediazione del legale personale del premier israeliano, un enorme terreno. Su cui verranno costruiti 4.300 nuovi appartamenti. Ma uno dei costruttori denuncia all’Aif: “Siamo stati truffati: i preti hanno ceduto la proprietà a più società concorrenti, e il cardinale Parolin ha concesso due volte lo stesso permesso”. La Santa Sede: noi sempre corretti, scrive Emiliano Fittipaldi l'11 marzo 2019 su L'Espresso. In Israele, a una trentina di chilometri da Gerusalemme, c’è un terreno con una vigna e qualche migliaio di alberi di ulivo che sta creando scompiglio e preoccupazione nei palazzi del Vaticano. Perché su quell’appezzamento in Terra Santa, oltre un milione di metri quadri di proprietà della congregazione dei salesiani, si sta combattendo da mesi, e in gran segreto, una battaglia senza esclusione di colpi. Con missionari italiani, economi lussemburghesi, costruttori, truffatori e avvocati (tra cui quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu) l’un contro l’altro armati per tentare di mettere le mani su un affare immobiliare che vale, sulla carta, oltre due miliardi di euro. Proprio così. Sui 103 ettari, podere di una ex “scuola agricola” degli eredi di Don Giovanni Bosco, sorgerà infatti un nuovo, gigantesco sobborgo urbano. Le autorità di Gerusalemme hanno già dato l’ok alla edificazione di circa 4.300 appartamenti, che oggi avrebbero un valore di mercato medio di oltre mezzo milione di euro l’uno. Un quartiere nuovo di zecca che dovrebbe innalzarsi a poca distanza dal monastero di Beit Gemal e dalla cittadina di Beit Shemesh, in una zona dove gli ebrei ultra-ortodossi con famiglie numerose sono maggioranza schiacciante: alla fine la speculazione potrebbe ospitare fino a 40 mila persone. L’affare sembrava ormai cosa fatta, ma nell’ultimo anno la faccenda si è complicata. I missionari salesiani, infatti, hanno “venduto” il terreno più volte, e hanno firmato «accordi di locazione a lungo termine» con società tra loro concorrenti. E lo stesso segretario di Stato Pietro Parolin, a causa dei pasticci dell’ordine, ha concesso il nulla osta vaticano (la legge canonica prevede che, in caso di operazioni finanziarie superiori al milione di euro, le congregazioni cattoliche debbano chiedere espressa autorizzazione alla Santa Sede) a due gruppi avversari. Cioè quello che fa capo all’imprenditrice Ziva Cohen e quello guidato da Aka Development, una società controllata dalla facoltosa famiglia Carasso. È proprio Aka, qualche mese fa, ad aver accusato formalmente sacerdoti e Vaticano di fare il doppio gioco, e i rivali di pratiche scorrette. Lo scorso ottobre all’Aif (l’Autorità di informazione finanziaria d’Oltretevere specializzata in antiriciclaggio) è arrivata una segnalazione di «attività sospetta» contro il gruppo di Ziva Cohen, denuncia firmata da un avvocato rotale arruolato da Aka, Francesco Carozza. Aka, che teme di perdere decine di milioni di euro già spesi, punta il dito pure contro la congregazione, le cui strategie finanziarie sono opera dell’economo generale Jean Paul Muller. Un lussemburghese che dal 2011 gestisce, da via Marsala a Roma, le ricche cassa dell’ordine. L’Espresso ha inoltre scoperto che il principale consulente legale dei salesiani nell’affare di Beit Gemal è l’avvocato personale del premier israeliano Netanyahu, David Shimron. Un uomo che a Tel Aviv è temuto e rispettato, e che di recente è finito più volte sui giornali. Non solo perché deve difendere il primo ministro dalle accuse di corruzione che lo hanno travolto nei giorni scorsi: lo stesso Shimron è stato in effetti accusato di corruzione e riciclaggio dalla polizia, in merito a una compravendita da parte di Israele di sommergibili e navi da guerra costruite dal colosso tedesco Thyssenkrupp.

Ora, com’è possibile che un terreno sia stato ceduto più volte dai missionari a soggetti concorrenti? E come mai la Santa Sede ha concesso più di un’autorizzazione a diverse aziende per la medesima speculazione edilizia? Andiamo con ordine, e partiamo dal principio. Dal settembre 2004, quando l’immobiliarista Ziva Cohen (un imprenditrice, si legge nella segnalazione all’Aif, «condannata penalmente per frode» nel 2017) mette gli occhi sul terreno degli evangelizzatori. L’appezzamento alle pendici dei monti della Giudea ha una storia antica. Fu acquistato nel 1873 da don Antonio Belloni. Un sacerdote del Patriarcato latino di Gerusalemme che decise di costruirci su un orfanotrofio per bimbi arabi e una “scuola agricola”. Nel 1891 padre Belloni cambiò ordine, passando a quello di Don Bosco: è allora che le proprietà e il podere entrarono nell’orbita della congregazione. Passano i decenni, e la “scuola agricola” e l’orfanotrofio chiudono. Le piante di ulivo, la vigna e le preghiere restano le attività principali dei missionari. Ma agli inizi del nuovo millennio a Roma si accorgono che il tumultuoso sviluppo demografico e urbanistico della zona, a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, sta trasformando il terreno comprato per pochi spicci da don Belloni in una potenziale miniera d’oro. Ziva Cohen sa che la zona sta per diventare edificabile e così, attraverso tre sue società, fa ai preti una proposta di locazione a lungo termine. Un’offerta che, si legge nell’esposto dell’avvocato di Aka all’Aif, «prevedeva il corrispettivo di 24 milioni di dollari» a favore dei salesiani per l’affitto della terra. L’ordine accetta subito. Ma la validità della proposta era condizionata a un requisito preliminare: l’approvazione della stessa «da parte della Santa Sede». Sia nel 2005 sia nel 2007, dice Aka, il permesso fu negato. Se ne ignorano i motivi. È un fatto, però, che i salesiani e l’immobiliarista non si danno per vinti. E decidono di stipulare, attraverso un’altra società della costruttrice chiamata Kidmat Eden, un nuovo accordo. Stavolta per un vero e proprio sviluppo immobiliare del terreno. Leggendo le carte, si scopre che la Cohen avrebbe ottenuto una commissione pari al 17 per cento del valore complessivo dell’operazione commerciale in caso lo sviluppo fosse andato a buon fine. Un fiume di denaro. Vista la difficoltà di ottenere il nulla osta da Roma, la Cohen fa inserire nel contratto anche un’altra postilla: nel caso i preti avessero deciso, in futuro, di vendere o cedere in affitto lo stesso appezzamento ad altri soggetti, lei e la sua società avrebbe goduto di un diritto di prelazione. Anche questa intesa, secondo la denuncia di Aka spedita all’Aif, non fu però mai approvata dal Vaticano. Tanto che dopo qualche anno, nell’impossibilità di andare avanti nel progetto immobiliare, la Cohen e i salesiani finiscono ai ferri corti. Un lodo arbitrale stabilì che «l’ordine avrebbe dovuto risarcire Kidmat Eden per aver impedito alla stessa, e in mala fede, di sviluppare il terreno». L’importo per la compensazione fu stabilito in 40 milioni di shekel israeliani, pari a oltre 10 milioni di dollari. Fine della storia? Nemmeno per sogno. Passano le stagioni, cambiano i papi e i segretari di Stato, e nel 2013 l’economo Muller affida all’avvocato Shimron il compito di trovare nuovi compratori per il fondo. La prescelta stavolta è la Aka Development. I suoi rappresentanti dicono oggi all’Espresso che il contratto con i salesiani fu stipulato nel 2015, «dopo che il convento aveva offerto il terreno, tramite il suo rappresentante legale Shimron, a vari promotori immobiliari, presentandolo come una proprietà libera e disponibile». L’accordo tra salesiani ed Aka prevede anche stavolta una locazione a lungo termine. Il mercato immobiliare rispetto a dieci anni prima è però schizzato alle stelle, e i nuovi soci accettano di versare ai missionari - si legge nel documento - la bellezza di 300 milioni di shekel, pari a 80 milioni di dollari. Il 12 agosto 2015, per la prima volta, arriva il sospirato nulla osta della Segreteria di Stato guidata da Parolin: come annuncia l’allora nunzio in Israele Giuseppe Lazzarotto in una lettera al vicario generale dei salesiani Francesco Cereda, «la Santa Sede ha confermato che i salesiani di Bon Bosco sono autorizzati a entrare nell’accordo di locazione a lungo termine con Aka». Quest’ultima bonifica subito dopo ai salesiani una prima rata, pari a 45 milioni di shekel. Contestualmente i preti dichiararono (sempre a leggere quello che scrive l’avvocato rotale all’Aif) che il vecchio diritto di prelazione di Ziva Cohen «era nullo e decaduto». Nulla di più lontano dalla verità, invece. Cohen e la sua Kidmat Eden fanno causa a tutti, e nel marzo 2018 - quando la speculazione di Aka stava ormai per partire - la Corte Suprema israeliana conferma la validità del diritto di prelazione della costruttrice «condannata per truffa». Aka, ovviamente, impugna la decisione in tribunale. Che fanno allora i salesiani? Invece di attendere gli esiti della battaglia giudiziaria, Muller e Shimron cambiano nuovamente cavallo. Mollano i compagni d’avventura di Aka e firmano un terzo accordo con altre due società riferibili a Ziva Cohen: la Ramat Beit Shemesh Flowers e la Stenden Company, che secondo Aka sarebbe solo una fiduciaria che nasconde «beneficiari terzi la cui identità» scrive il legale all’anticorruzione vaticana «non è nota». L’ennesima intesa sulla speculazione è dello scorso aprile 2018. E prevede, oltre all’affitto della terra per 98 anni, che i legali di Cohen e quelli dei salesiani (dunque lo Studio Shimron) ricevano una percentuale sul prezzo finale delle proprietà vendute. Lo 0,875 per cento dei profitti finali del business: dovessero essere piazzati tutti gli appartamenti previsti che la municipalità ha già approvato, in pratica i mediatori intascherebbero a testa decine e decine di milioni di dollari. Secondo Aka, il compenso potrebbe essere alla fine pari al 30 per cento della somma totale incassata dai salesiani per l’affitto della terra. «Una commissione folle». «Shimron accusato di corruzione e la Cohen condannata per truffa? Scriva pure che io non ho alcun problema a fare affari con loro. Per me David è una persona seria, e noi come ordine non abbiamo fatto nulla di sbagliato. Noi abbiamo solo rispettato una sentenza dei giudici israeliani. Aka sapeva perfettamente che esisteva quella clausola di prelazione, e si sono assunti il rischio», ci spiega Muller. Leggendo alcune lettere riservate della Congregazione, è chiaro che è stato proprio l’economo lussemburghese, insieme al vicario dei salesiani don Cereda, a spingere Parolin - che nel 2015 aveva dato il nulla osta per l’operazione con Aka - a firmarne un altro nel 2018 in favore delle società della Cohen. La nuova autorizzazione è protocollata il 17 settembre dell’anno passato. Quando il nunzio in Israele Leopoldo Girelli comunica la notizia ad Aka, che avendo in tasca l’autorizzazione del 2015 era sicura di spuntarla in tribunale, la battaglia si fa incandescente. Allargandosi dalla Terra Santa fino alla Città Eterna. Aka grida al complotto, sostiene che Parolin citi nel nuovo permesso «un contratto con la Kidmat che non è mai esistito». L’Espresso ha contattato fonti vicino alla Segreteria di Stato, che commentano come il doppio nulla osta non sia affatto illegale o contraddittorio. «Quello che Aka non ricorda è che è stato l’ex segretario di Stato Tarcisio Bertone, il 22 giugno 2010, a concedere una prima autorizzazione ai salesiani. Si tratta di un permesso volutamente ampio, che lasciava la congregazione libera di negoziare l’accordo a lei più conveniente, senza indicare né un soggetto predeterminato né un termine temporale alla vendita del terreno», ragionano gli uomini di Parolin. «Noi non abbiamo fatto altro che confermare, di volta in volta, l’autorizzazione in vigore già dal 2010, che è così generica da poter essere applicata a qualsiasi ditta. Detto questo noi speriamo che la controversia possa ricomporsi pacificamente». Ballano miliardi, e una transazione non sarà facile. Chissà se don Belloni avrebbe mai immaginato che un terreno brullo comprato per costruire un orfanotrofio avrebbe scatenato, 150 anni dopo, simili appetiti.

Nuovo scandalo milionario in Vaticano: indagato un monsignore e il capo dell'Antiriciclaggio. Dopo le acquisizioni di documenti e apparati elettronici, vengono sospesi cinque dirigenti. Il Papa: "Non faremo sconti". Giuseppe Aloisi, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. Perché ieri sono state effettuate acquisizioni di "documenti" ed "apparati elettronici" in Vaticano? Non è solo una curiosità. Il quesito è valido da quando la Sala Stampa della Santa Sede ha dato notizia di queste "acquisizioni", cioè sequestri, ossia proprio nel pomeriggio del primo ottobre ma, ma, nel corso della giornata di oggi, stanno emergendo altri particolari, che possono rivelarsi utili a chiarire il quadro nel suo insieme. Il Vaticano sta investingando al suo interno. Questo va premesso. Le informazioni fornite poche ore fa raccontavano di come le operazioni di acquisizione fossero state eseguite in alcuni uffici della Segreteria di Stato, il cosiddetto "ministero degli Esteri", e dell'Autorità d'Informazione Finanziaria. Stando a quanto avevamo appreso, poi, il tutto era scaturito da denunce fatte partire dallo Ior. Era noto pure come l'azione fosse stata intrapresa dopo il via libera degli organi competenti. E poi c'era quella specificazione "operazioni finanziarie compiute nel tempo". Ma niente di più analitico. E infatti il sito Il Sismografo aveva parlato, seppur virgolettando, di un "enigma avvolto nel mistero". Una parola, quest'ultima, che non è nuova ad associazioni con gli ambienti ecclesiastici, pure con quelli della Santa Sede. Poi l'Espresso ha pubblicato questo articolo a firma di Emiliano Fittipaldi, in cui si legge di un provvedimento di sospensione per cinque dirigenti. Le persone che sono chiamate in causa - apprendiamo sempre dalla fonte sopracitata - sono: "due dirigenti apicali degli uffici della Segreteria, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, di una addetta all'amministrazione, Caterina Sansone, e soprattutto di due pezzi da novanta del Vaticano". Tra le altre due persone tirate in ballo, c'è un consacrato: il pugliese don Maurizio Carlino, che era stato incaricato presso l'Ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato alla fine del luglio scorso. Poi viene fatto il nome del dottor Tommaso Di Ruzza, il vertice dell'Autorità d'Informazione Finanziaria. Resta da chiarire il perché di questa disposizione tesa alla sospensione. Bisognerà vedere quindi se, come pare, le operazioni di ieri siano collegate a queste novità. Infatti, in relazione alle "operazione finanziarie compiute nel tempo", sempre l'Espresso parla di: "operazioni finanziarie milionarie apparentemente irregolari effettuate da alcuni uffici della Segreteria di Stato". Papa Francesco, che è per la linea della tolleranza zero nei confronti di ogni scandalo verificato, potrebbe dover affrontare anche il tema dell'obolo di San Pietro, perché pure quello viene nominato nell'inchiesta giornalistica quale ambito di approfondimento giudiziario.

Vaticano, clamoroso scandalo milionario: indagine su un monsignore e il capo dell'Aif. Inchiesta interna su operazioni finanziarie sospette: sospesi dai loro incarichi cinque dirigenti. Tra loro pezzi da novanta come don Mauro Carlino, capo degli uffici della Segreteria di Stato e Tommaso Di Ruzza, direttore dell'antiriciclaggio. Nel mirino dei magistrati compravendite immobiliari a Londra e la gestione dei conti dell'Obolo di San Pietro. Papa Francesco: non faremo sconti a nessuno. Emiliano Fittipaldi il 2 ottobre 2019 su L'Espresso. Un clamoroso scandalo finanziario rischia di travolgere, di nuovo, il Vaticano. Nel mirino sono finite operazioni finanziarie milionarie apparentemente irregolari effettuate da alcuni uffici della Segreteria di Stato. Ora tremano non solo laici e contabili, ma anche monsignori e – qualcuno dice – potenti cardinali. Papa Francesco è stato avvertito all'inizio dell'estate dai vertici dello Ior e dal Revisore generale (da pochi diventato a tutti gli effetti una sorta di autorità anti-corruzione della città santa) di possibili, giganteschi crimini finanziari avvenuti negli ultimi anni. Bergoglio ha così ordinato un'indagine puntuale e severissima, e che non faccia sconti a nessuno. Così ieri, su ordine del del promotore di Giustizia Gian Piero Milano e del suo aggiunto Alessandro Diddi, gli uomini della Gendarmeria hanno effettuato sequestri di documenti riservati, di pc e computer non solo negli uffici della Prima Sezione della Segreteria guidata dal cardinale Pietro Parolin, ma pure nelle stanze dell'Aif, l'autorità di informazione finanziaria. Cioè l'organismo indipendente che dovrebbe lavorare alle attività antiriciclaggio. Ieri la notizia delle perquisizioni è stata data in poche righe al Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, senza ulteriori dettagli (curioso il fatto, notano gli addetti ai lavori, che il decreto non fosse firmato anche dall'altro procuratore di Giustizia da poco promosso dal pontefice, Roberto Zannotti). Ma stamattina il Corpo della Gendarmeria guidato da Domenico Giani ha spedito una disposizione di servizio, che l'Espresso pubblica in esclusiva, a tutto il personale interno dello Stato leonino e alle Guardie Svizzere che controllano la sicurezza e gli accessi. Se le norme vaticane prevedono che la perquisizione preveda l'iscrizione nel registro degli indagati, il documento della Gendarmeria che segnala che cinque persone da stamattina sono state «sospese cautelativamente dal servizio». Si tratta di due dirigenti apicali degli uffici della Segreteria, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, di una addetta all'amministrazione, Caterina Sansone, e soprattutto di due pezzi da novanta del Vaticano. Cioè monsignor Mauro Carlino, da poche settimane capo dell'Ufficio informazione e Documentazione dell'organismo che ha sede nel Palazzo Apostolico, e il direttore dell'Aif Tommaso Di Ruzza. «I suddetti» si legge nella nota firmata da Giani «potranno accedere nello Stato esclusivamente per recarsi presso la Direzione Sanità ed Igiene per i servizi connessi, ovvero se autorizzati dalla magistratura vaticana. Monsignor Mauro Carlino continuerà a risiedere presso la Domus Sanctae Marthae». L'indagine è solo agli inizi. Ma risulta all'Espresso che le «operazioni finanziarie compiute nel tempo» riguardano alcune compravendite immobiliari milionarie all'estero, in particolare immobili di pregio a Londra, e alcune strane società inglesi che avrebbero partecipato al business. Per la cronaca, Tirabassi gestisce gli investimenti finanziari nella Segreteria di Stato, in un ufficio amministrativo delicatissimo che ha visto il suo storico numero uno, monsignor Alberto Perlasca, traslocare lo scorso 26 luglio, quando il papa l'ha nominato promotore di Giustizia al Tribunale della Segnatura Apostolica. Proprio don Carlino l'ha sostituito il giorno stesso. Mai poteva immaginare, il monsignore appena promosso, che due mesi dopo sarebbe stato congelato «cautelativamente» dal servizio. Non è tutto. Gli investigatori starebbero infatti analizzando anche alcuni flussi finanziari dei conti su cui transita l'Obolo di San Pietro. Si tratta delle offerte di beneficenza che ogni anno arrivano dai fedeli di tutto il mondo al pontefice, che poi dovrebbe usarli per opere di carità verso i più deboli e bisognosi. Chi scrive, nel 2015, scoprì che invece di essere spesi per i poveri, finivano ammucchiati in conti e investimenti che quell'anno avevano raggiunto la somma record di quasi 400 milioni di euro . Ogni conto e spostamento di denaro adesso è stato messo sotto i raggi X, per vedere se alcune irregolarità ipotizzate nascondono qualcosa di più grave. Le denunce fatte dallo Ior e dal Revisore generale interessano un arco temporale recente, quando gli uffici messi nel mirino della magistratura erano guidati da monsignor Angelo Becciu, ex sostituto per gli Affari generali della Segreteria diventato pochi mesi fa prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi. Monsignor Carlino, appena sospeso da ogni funzione, è stato per anni il segretario personale del cardinale, uno degli uomini più influenti della curia e da sempre stimato da papa Francesco. Che teme che i vecchi vizi di pezzi della curia e di laici infedeli possano terremotare ancora una volta il suo difficile pontificato.

Emiliano Fittipaldi per “la Repubblica” il 3 ottobre 2019. Un clamoroso scandalo finanziario rischia di travolgere, di nuovo, il Vaticano. Insieme a pezzi da novanta della gerarchia ecclesiastica, e vertici laici di organismi fondamentali come l' Aif, l'Autorità di informazione finanziaria voluta da Benedetto XVI per combattere la piaga del riciclaggio nello Ior e all'Apsa. Martedì scorso, a causa di operazioni finanziarie milionarie apparentemente irregolari effettuate da alcuni uffici della Segreteria di Stato, su ordine del promotore di Giustizia Gian Piero Milano e del suo aggiunto Alessandro Diddi gli uomini della Gendarmeria hanno effettuato sequestri di documenti riservati, di pc e computer negli uffici della Prima Sezione della Segreteria guidata dal cardinale Pietro Parolin, passando poi nelle stanze dell'Aif. Ieri mattina i confini dell' inchiesta si sono definiti meglio. Quando il capo della Gendarmeria Domenico Giani, come rivelato dall' Espresso, ha spedito una "disposizione di servizio" a tutto il personale interno dello Stato leonino e alle Guardie Svizzere. Un documento che segnala, foto segnaletica compresa, cinque persone «sospese cautelativamente dal servizio» a cui è vietato l' accesso in Vaticano. Si tratta di due dirigenti apicali degli uffici della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, e di una addetta all'amministrazione, Caterina Sansone. Ma Giani cita (con annessa fotografia) anche due nomi molto noti, sia Oltretevere sia all'estero. Quelli, cioè, di monsignor Mauro Carlino, da poche settimane capo dell'Ufficio informazione e Documentazione dell'organismo che ha sede nel Palazzo Apostolico, e dell' influente direttore dell' Aif Tommaso Di Ruzza, di fatto il campione dell' antiriciclaggio scelto da Ratzinger e confermato da Bergoglio. Dettaglio dal sapore beffardo: Di Ruzza è genero di Antonio Fazio, ex governatore di Bankitalia, condannato proprio per riciclaggio nell'inchiesta su Antonveneta. «I suddetti» si legge nella nota «potranno accedere nello Stato esclusivamente per recarsi presso la Direzione Sanità ed Igiene per i servizi connessi, ovvero se autorizzati dalla magistratura vaticana. Monsignor Mauro Carlino continuerà a risiedere presso la Domus Sanctae Marthae». Una decisione che ha pochi precedenti, e che lascia immaginare il peggio. L'indagine è solo agli inizi, e le ipotesi di reato tutte da verificare. Ma risulta che le «operazioni finanziarie compiute nel tempo» segnalate nello stringato comunicato interessino alcune compravendite immobiliari milionarie all' estero. In particolare sotto osservazione sono finiti alcuni immobili di pregio a Londra, e alcune società inglesi che avrebbero partecipato al business. Non sappiamo quali siano le spa su cui i promotori stanno indagando. Spulciando il catasto inglese, don Carlino e la Sansone appaiono come amministratore e direttore della "London 60 Sa Limited", società attiva dal marzo 2019. Tra gli amministratori c' è pure monsignor Josep Lluis Serrano Pentinat (non citato nel documento della Gendarmeria), promosso pochi mesi fa da Bergoglio dalla nunziatura apostolica in Brasile agli Affari Generali della Segreteria di Stato. È un fatto, invece, che Tirabassi gestisca gli investimenti finanziari e immobiliari nella Segreteria di Stato da molti anni, e che le transazioni immobiliari non siano l' unica pista seguita dagli investigatori. Milano e Diddi starebbero infatti analizzando anche alcuni flussi finanziari dei conti vaticani su cui transita l' Obolo di San Pietro. Si tratta delle offerte di beneficenza che ogni anno arrivano dai fedeli di tutto il mondo direttamente al pontefice, che poi dovrebbe usarli per opere di carità verso i più deboli e bisognosi. Nel 2015, in seguito alla fuga di notizie di Vatileaks II, si scoprì che le somme finivano in realtà non nelle tasche dei più poveri, ma ammucchiate in depositi bancari che già quell' anno avevano raggiunto la somma record di quasi 400 milioni di euro. Papa Francesco è stato avvertito già all'inizio dell'estate dai vertici dello Ior e dal Revisore generale (da pochi diventato a tutti gli effetti una sorta di autorità anti-corruzione della città santa) dei possibili crimini finanziari a cui avrebbe potuto portare l' inchiesta. Bergoglio ha ordinato un' indagine puntuale e severissima, spiegando che non bisognava fare sconti a nessuno. Le denunce interessano un arco temporale recente, quando gli uffici messi nel mirino della magistratura erano guidati da monsignor Angelo Becciu, ex sostituto per gli Affari generali della Segreteria diventato pochi mesi fa prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi.

Vaticano, ecco le carte dello scandalo. Tra finanzieri e spa segrete in Lussemburgo. Lo tsunami giudiziario che fa tremare il Vaticano parte da alcune operazioni finanziarie del 2011. Quando la Segreteria di Stato decide di entrare in affari con il raider italo-londinese Raffaele Mincione. Indagini dei pm del papa su una Sicav del Vaticano nel Granducato, che ha comprato immobili a Londra per centinaia di milioni di euro. Indaga anche l’antiriciclaggio. Emiliano Fittipaldi il 03 ottobre 2019 su L'Espresso. L'inchiesta dei magistrati vaticani su alcune operazioni finanziarie milionarie effettuate dalla Segreteria di Stato è un pozzo senza fondo. Se ieri, dopo una serie di perquisizioni,  l'Espresso ha dato notizia dell'indagine  su pezzi da novanta come don Mauro Carlino (ex segretario del cardinale Angelo Becciu e da pochi mesi capo dell'Ufficio Informazione e Documentazione della Segreteria: il monsignore è stato intercettato per settimane) e del numero uno dell'Autorità di informazione finanziaria Tommaso Di Ruzza, oggi nuovi documenti riservati spiegano la genesi dello scandalo. Che potrebbe portare a conseguenze devastanti per dipendenti laici e monsignori di primissima fila. Gli investigatori vaticani, infatti, stanno indagando sulle operazioni finanziarie avvenute tra Roma, Londra e il Lussemburgo negli ultimi otto anni. Proprio nel Granducato, tra il 2011 e il 2012 la Segreteria di Stato (erano i tempi di Benedetto XVI, a Palazzo Apostolico comandavano Tarcisio Bertone e l'allora sostituto agli Affari generali Becciu) aveva infatti deciso di fare affari con Raffaele Mincione. Non un imprenditore qualsiasi, ma un finanziere italo-londinese assai noto alle cronache: è colui che, attraverso fondi d'investimento controllati in Italia, Russia, Malta e Jersey, da qualche mese sta provando a scalare Banca Carige, di cui è arrivato a possedere il 7 per cento delle azioni. Partiamo dall'inizio della storia. Da quando nel 2011 alcuni emissari vicini a Credit Suisse (che risulta essere consulente del Vaticano per il private banking, e dunque gestore di parte considerevole dei conti riservati a disposizione della Segreteria di Stato, che tra Obolo di San Pietro e Fondo Paolo VI arrivano a circa 800 milioni di euro) mettono intorno allo stesso tavolo i vertici della Segreteria di Stato e gli uomini del finanziere, gran capo della holding WRM e della società d'investimento Athena Capital Found, entrambe con sede in Lussemburgo. Il Vaticano, inizialmente, chiede una consulenza. In merito a un possibile investimento da circa 200 milioni per l'acquisto di una piattaforma petrolifera, Un'affare, però, che non convince né la banca svizzera né i finanzieri di Mincione. Che, rilanciando, propongono al Vaticano di sottoscrivere – con i denari che si vogliono investire nell'affare del greggio - un nuovo fondo lussemburghese gestito da loro. La proposta va in porto: nel 2012 la Segreteria di Stato gira quasi 200 milioni di euro all'Athena Capital Global Opportunities, un fondo che fa negli anni investimenti di varia natura. Il più importante di tutti, però, è l'acquisto di alcuni immobili di pregio a Sloane Avenue, nel centro di Londra. Un business a cui partecipa direttamente sia Mincione, che con WRM compra il 55 per cento del palazzo, sia il fondo vaticano, che ne prende il 45 per cento. Mincione, Becciu, monsignor Alberto Perlasca della segreteria di Stato sembrano gestire per anni il fondo senza scossoni e problemi di sorta. Tutto cambia, però, a fine del 2018. Quando Becciu lascia la Segreteria per diventare prefetto alla Congregazione per le Cause dei Santi e al suo posto, come sostituto agli Affari generali, il papa e Pietro Parolin promuovono monsignor Edgar Pena Parra. Il nuovo sostituto prende le carte e nota con dispiacere che i rendimenti della Sicav vaticana in Lussemburgo sono assai meno redditizi di quello ipotizzato all'inizio con Mincione. Ne chiede conto ai suoi sottoposti (tra cui i contabili Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, anche loro sospesi da ieri dall'incarico) e a don Carlino. Le risposte non lo convincono. Pena Parra (non sappiamo se con l'avallo di Parolin) decide allora di acquistare l'intero palazzo, e di uscire dal fondo lussemburghese gestito da Mincione. Il 22 novembre viene infatti firmato un accordo transattivo tra Santa Sede e i gruppi del finanziere che l'Espresso pubblica in esclusiva, con cui si perfeziona l'uscita: di fatto il Vaticano, attraverso nuove società londinesi, diventa proprietario degli immobili di pregio (che prima vengono affidati a un gestore attraverso un contratto, poi gestiti direttamente con nuove società londinesi), mentre i fondi di Mincione restano unici azionisti degli altri investimenti fatti negli anni. Per fare l'operazione di uscita, però, spiegano altre autorevoli fonti vaticane Pena Parra avrebbe chiesto denari, tramite monsignor Carlino, allo Ior. È in quel momento che i vertici della banca – poco felici di vedere i loro conti in gestione ridursi troppo – cominciano a volere vederci chiaro. Dopo qualche mese dalla transazione, così, scatta la denuncia ai magistrati vaticani. A quella dello Ior si aggiunge presto quella del Revisione generale, di fatto l'autorità anti corruzione d'Oltretevere. I pm del papa indagano ora non solo su eventuali irregolarità dell'operazione immobiliare londinese e di quelle della Sicav, ma pure su ipotetici giri di denaro che avrebbero arricchito alcuni mediatori e dipendenti vaticani: sono al setaccio trust e depositi sia in Lussemburgo sia in Svizzera, ma è presto per dire se siano stati o meno trovati illeciti. Per la cronaca, non è la prima volta che in Vaticano qualcuno vuole vederci chiaro sul fondo segreto della Segreteria di Stato: tra il 2013 e il 2014 i commissari della Cosea, la commissione voluta dal papa per mettere ordine tra gli enti economici del vaticano, e in particolare membri come la “papessa” Francesca Immacolata Chaoqui e Jean-Baptiste de Franssu, oggi presidente dello Ior, avevano chiesto le carte riservate dell'operazione immobiliare. Senza mai riuscire, pare, ad ottenerne mezza. Al netto delle ipotesi investigative tutte da dimostrare, dal gruppo di Mincione nessuno parla ufficialmente. Ma voci interne spiegano che il business fatto con la Santa Sede sarebbe del tutto lecito e trasparente, che i fondi lussemburghesi sono controllati dalla Commissione di vigilanza del settore finanziario del Granducato, e che compensi sono stati pagati alla luce del sole solo a soggetti terzi che hanno fatto da mediatori all'inizio dell'avventura finanziaria. Aggiungendo che la transazione (firmata da monsignor Perlasca) è stata fatta davanti a importanti studi inglesi, e che il Vaticano alla fine avrebbe guadagnato dagli investimenti di Athena oltre il 10 per cento. I bassi rendimenti degli affitti degli immobili di cui si lamenta il Vaticano? «Non ci fosse stata la Brexit, le previsioni sui rendimenti sarebbero state rispettate». È il mercato, bellezza.

Claudio Antonelli e Alessandro Da Rold per “la Verità” il 19 ottobre 2019. «Sono orgoglioso di aver salvato 147 milioni di euro del Vaticano che loro erano pronti a bruciare in Angola, altro che finanziere oscuro!». Bisogna riprendere le parole che Raffaele Mincione ha consegnato al Corriere la scorsa settimana, per capire che l'inchiesta della magistratura vaticana sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato ha ancora molto da raccontare. Perché in un documento visionato dalla Verità - datato 28 gennaio 2013 e inviato dal consulente targato Credit suisse, Enrico Crasso, a monsignor Angelo Becciu (all' epoca sostituto per gli affari generali della Segretaria) - compare il fondo Athena capital fund, che sarebbe stato fondamentale nell' acquisto della quote della Falcon oil nel blocco petrolifero offshore in Angola. In sostanza, il fondo di Mincione era da subito coinvolto nell' investimento africano, pari a 250 milioni di dollari e non è subentrato dopo per l' acquisto dell' immobile a Londra, valutato invece 200 milioni di euro, provenienti dall' Obolo di San Pietro. Nella missiva riservata, infatti, Crasso è molto chiaro con Becciu. Oltre a ricordare la lettera del 7 gennaio 2013, «con la quale Ella comunica l' intenzione di codesta Segreteria di Stato a partecipare all' operazione proposta dalla società Falcon oil, [] per portare a regime produttivo un blocco petrolifero offshore in Angola denominato 15/06. Tale impegno è stimato complessivamente in 250 milioni di dollari», il consulente di Credit suisse spiega i passaggi dell' affare, dalla costituzione del fondo comune di 500.000 dollari per la due diligence alla definizione di una struttura di finanziamento per ricevere congrua remunerazione del capitale investito». Ma è a pagina 2 che Crasso - memore di quando l'operazione fu presentata in Vaticano il 22 novembre precedente dalla Capital investments company - ricorda di come siano state promosse varie azioni volte all'esecuzione del deal. Al primo punto «c'è la creazione di un fondo ad hoc di diritto lussemburghese, denominato Athena capital commodities fund, specifico comparto della Sicav di diritto lussemburghese Athena capital fund». Si tratta del fondo di Mincione, che molto probabilmente era a conoscenza dell'investimento petrolifero del Vaticano. Del resto l'affare con l'Angola era ghiotto. Si tratta di un giacimento su cui lavora da qualche anno l'Eni. Il nostro colosso petrolifero è operatore con una quota del 35%, mentre Sonangol Ep è la concessionaria del blocco. Gli altri partner della joint venture erano Sonangol pesquisa e producao, Ssi Fifteen limited e Falcon oil Tenere Angola Sa (con il 5%). Il Vaticano si sarebbe inserito in quest' ultima quota, in un giacimento che si prevede che quest' anno arrivi alla produzione di 170.000 barili al giorno. Crasso, che in quegli anni ha lavorato con un altro manager Credit suisse, Alessandro Noceti , aveva individuato lo studio legale londinese che avrebbe seguito l' operazione angolana, ovvero SjBerwin. Non solo. Era stato anche individuato uno studio legale a Luanda, Fbl advogados e era già stato conferito mandato alla società Nardello & co, specializzata in indagini per evitare qualsiasi rischio reputazionale. In sostanza era tutto pronto, tanto che alla fine Crasso chiedeva a Becciu di versare i 500.000 euro con solerzia. La risposta del monsignore arriva a stretto giro di posta. Si mettono a disposizione i soldi richiesti. Qualcosa però va storto al di là dell' intervento di monsignor Alberto Perlasca. Alla fine si decide di virare sull' investimento londinese. Ora sarà il tribunale del Vaticano, con i promotori Gian Piero Milano e Alessandro Diddi, a dipanare questa matassa dove si ipotizzano, secondo L' Espresso, «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d' ufficio e autoriciclaggio» ma anche «appropriazione indebita e favoreggiamento» secondo la relazione del revisore Alessandro Cassinis. La Verità per capire come sia nata la scelta del palazzo di Sloan Square ieri ha contattato anche l' ex consulente Credit suisse, Alessandro Noceti. Per motivi di riservatezza ha rinviato.

 (ANSA il 3 ottobre 2019) - L'ex procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, è stato nominato da papa Francesco presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Pignatone prende così il posto del precedente presidente Giuseppe Dalla Torre. Nella biografia pubblicata nel Bollettino della Sala stampa vaticana, si legge che Pignatone è nato a Caltanissetta 1'8 maggio 1949. Si è laureato in Giurisprudenza nel 1971 presso l'Università degli Studi di Palermo. È stato Pretore a Caltanissetta e, dal 1977, Sostituto presso la Procura della Repubblica. Nel 2008 è stato nominato dal Csm procuratore della Repubblica di Reggio Calabria. Nel marzo 2012 è stato nominato dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura procuratore della Repubblica di Roma.

(ANSA il 3 ottobre 2019) - L'ex procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, nominato oggi da papa Francesco nuovo presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, entrerà in campo anche sul fascicolo prodotto dall'inchiesta in corso su operazioni finanziarie, e in cui sono stati acquisiti documenti della Segreteria di Stato e dell'Autorità di informazione finanziaria (Aif), se e quando il fascicolo oggi in mano al promotore di giustizia Gian Piero Milano e all'aggiunto Alessandro Diddi produrrà un processo.  Nel caso, insomma, in cui si arriverà a dei rinvii a giudizio, Pignatone - che da procuratore di Roma si è già occupato di questioni come le inchieste sullo Ior e sulla scomparsa di Emanuela Orlandi - potrebbe essere il presidente della Corte o comunque deciderà chi condurrà il processo. Tra l'altro, in Vaticano Pignatone ritrova con un ruolo diverso proprio il pg aggiunto Diddi, noto avvocato romano che nella grande inchiesta su Mafia Capitale, una delle maggiori portate avanti dalla procura romana guidata da Pignatone, difendeva l'imputato Salvatore Buzzi.

Il cinguettio del cardinale. Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2019. Non c' è più religione: il cardinale Angelo Giovanni Becciu polemizza con Dagospia! Com' è noto, cinque dipendenti della Santa Sede, tra cui un monsignore e un alto dirigente laico, sono stati sospesi dal servizio «in via cautelativa e fino a nuova disposizione». Le indagini della magistratura vaticana riguardano compravendite immobiliari relative a palazzi di pregio londinesi dal valore milionario. Nei giorni scorsi erano circolate voci di pesanti provvedimenti nei confronti dello stesso Becciu, che invece è poi volato in Brasile dopo avere incontrato papa Francesco. Dagospia aveva pubblicato l' indiscrezione e subito Becciu ha replicato su Twitter smentendo il «sito scandalistico». Con uno screenshot che fotografava la pagina «incriminata», ha scritto: «Che ridere. Proprio ieri il Papa in Udienza mi ha augurato buon viaggio per il volo che domani mi porterà in Brasile». Una consacrazione con tutti i crismi per Dagospia, ma che dire di un principe della Chiesa che twitta come fosse un seminarista in vena di arguzie? In Vaticano, per la comunicazione, non esiste più il senso del ministero pietrino, la spirituale arte della parola sacra ma solo «umana eloquenza e vana retorica», come già paventava papa Montini? Forse basterebbe meno protagonismo e una buona policy «aziendale», prima che le virtù cardinali diventino gossip.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 3 ottobre 2019. Al cardinale Becciu verrà anche da ridere, come ha scritto in un tweet commentando il flash di Dagospia. Ma la richiesta di non lasciare il Vaticano, venuta dalla Magistratura, approvata dal cardinale segretario di Stato, e fino a tarda sera al vaglio finale di Francesco, e' clamorosa non solo perché individua un uomo di grande potere che si riteneva intoccabile, ma perché prelude a una pulizia di altissimo livello. L’inchiesta riguarda comunque specificatamente il suo dicastero, Becciu non è stato formalmente incriminato solo perché cardinale. Di fatto, ha autorizzato lui tutte le transazioni. E siamo solo all'inizio. Bergoglio intende creare un team, che deve restare segreto nelle intenzioni, di banchieri ed economisti che diano una mano. L'obolo di san Pietro e' infatti quasi azzerato, i soldi dei fedeli sono spariti. La storia è semplice. Nel 2013 Cosea, la commissione istituita da Bergoglio appena eletto papa, trova irregolarità nella gestione del fondo Paolo IV, il fondo riservato della segreteria di Stato. Viene allora redatto un dossier sugli investimenti: immobili comprati attraverso Credit Suisse e varie società, scatole cinesi. Ma tutto si ferma con lo scandalo e il processo. Per gli anni successivi Becciu continua  a gestire il fondo insieme ai suoi sodali e collaboratori. Fino a che a dicembre 2018 il segretario di Stato decide di capire perché il patrimonio dell’obolo si fosse dimezzato. Scoprono investimenti per milioni a Londra in operazioni non riuscite. E questa volta il cardinale Becciu non ha capri espiatori, a quanto pare. La decisione del papa di fare chiarezza anche coinvolgendo prelati a lui vicini non placa critiche furibonde e polemiche violentissime all'interno della gerarchia vaticana, al contrario le esaspera. Si potrà infatti sostenere giustificatamente che la predica della povertà e dell'austerità incarnata da Francesco con tanto rigore, e persino rigidità, tanto da farlo vivere fuori dagli appartamenti pontifici e rigettare qualunque forma di lusso anche legata alle tradizioni più importanti, non sia certamente servita a moralizzare il core business dello Stato e delle gerarchie. Nè è servito lo spoils system, la sostituzione dei vertici, pure brutalmente esercitata in questi anni da Bergoglio. E' quasi come se fosse tornati indietro di 4 anni quando la nomina da parte del neo eletto Papa Bergoglio di una commissione che doveva far luce sulle malefatte economiche e finanziarie, la Cosea, fini'  al centro dello scandalo cosiddetto Vatileaks, e la macchina del fango colpi soprattutto chi aveva segnalato dalla commissione le irregolarità sullo stesso fondo Paolo IV che ora è al centro del nuovo scandalo. Però quelli segnalazioni sono andate avanti e sono diventate inchiesta, faldoni pesanti maneggiati dal comandante della gendarmeria, Giani. Finché martedì scorso è arrivata una "disposizione di servizio" a tutto il personale interno dello Stato  e alle Guardie Svizzere, e cinque persone sono state «sospese cautelativamente dal servizio». Si tratta di due dirigenti del vertice degli uffici della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, e di una addetta all'amministrazione, Caterina Sansone, di monsignor Mauro Carlino, da poche settimane capo dell'Ufficio informazione e Documentazione dell'organismo che ha sede nel Palazzo Apostolico, e del direttore dell' Aif , Tommaso Di Ruzza. Don Carlino e la Sansone sono amministratore e direttore della "London 60 Sa Limited", società attiva dal marzo 2019. Tra gli amministratori c' è pure monsignor Josep Lluis Serrano Pentina, promosso pochi mesi fa da Bergoglio dalla nunziatura apostolica in Brasile agli Affari Generali della Segreteria di Stato. La verità è che le carte sul fondo Bergoglio le avrebbe in mano dal 2015, dai tempi della Cosea, da quando è esploso Vatileaks; ora ha deciso di ordinare un'indagine definitiva, spiegando che non bisogna fare sconti a nessuno. Le denunce riguardano un periodo preciso nel quale  gli uffici messi nel mirino della magistratura erano guidati da monsignor Angelo Becciu, ex sostituto per gli Affari generali della Segreteria, diventato pochi mesi fa prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi.

È solo la prima puntata.

 (ANSA il 26 settebre 2019) - "È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo". Lo ha detto il Papa nell'incontro con i Gesuiti nel recente viaggio in Africa. Lo riferisce su Civiltà Cattolica il direttore padre Antonio Spadaro. "Quando Pietro era imprigionato, la Chiesa ha pregato incessantemente per lui. Se la Chiesa prega per il Papa, questo è una grazia. Io davvero - dice Francesco - sento continuamente il bisogno di chiedere l'elemosina della preghiera".

Il Papa assediato. Piccole Note de Il Giornale 4 ottobre 2019. Il Papa ha chiesto di pregare per lui perché “assediato“. Diversi i segni di tale assedio, dalla minaccia ricorrente di uno scisma agli scandali che si susseguono di continuo, dalla pedofilia alle vere o asserite malefatte di presuli che lavorano in Vaticano. Francesco cerca di fare quel che può, avvalendosi di collaboratori sui quali ha riposto fiducia, qualcuno dei quali deve avergli suggerito una mossa finalmente azzeccata, quella di chiamare l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, alla guida del Tribunale vaticano. Nell’aria tossica della Curia, il magistrato che ha arrestato il boss Bernardo Provenzano potrà essere utile. La guerra al Papa è reale, dura e feroce. Come lo fu quella contro Benedetto XVI, che lo costrinse alle dimissioni. Non potendo nulla contro i suoi nemici, egli affidò la Chiesa al Signore. Non una rinuncia strictu sensu, un lancinante, abbandonato, affidamento. La guerra è riesplosa ieri, a ridosso della creazione dei nuovi cardinali annunciati il 1 settembre scorso. Il concistoro del 5 ottobre, che doveva sancire una sorta di vittoria del Pontefice, se così si può dire, è sporcato dal nuovo scandalo che ha investito la Segreteria di Stato. Un concistoro che dicono importante, dato che con queste nomine i cardinali creati dall’attuale Papa sono maggioranza (Avvenire), con asserite proiezioni sul futuro Conclave (in realtà aleatorie). L’annuncio del concistoro fu funestato da un piccolo incidente, che vide il Papa intrappolato nell’ascensore. L’inizio del concistoro vero e proprio da un’inchiesta su una speculazione finanziaria. Coincidenze infauste, quantomeno. Il Papa chiede ai fedeli di pregare per lui, con una umiltà che merita di essere assecondata. Resta che l’isolamento papale – tale l’assedio – non è fatto odierno. E vi hanno contribuito vari fattori. Da quando è iniziato il Pontificato, tutte le voci critiche di qualche sua scelta o direttiva sono state viste da collaboratori e amici di Francesco come parte di un complotto per abbatterlo o come un attacco irricevibile alla Chiesa di Francesco, quella chiamata a dare compimento al Concilio Vaticano II in contrapposizione a quella della cosiddetta Tradizione (la Chiesa è “una”, recita il Credo). In questo modo, amici e collaboratori del Papa sono riusciti in una missione impossibile: consegnare ai nemici di Francesco, che all’inizio del Pontificato erano davvero pochi, tanti presuli, sacerdoti e cardinali che non erano apriori suoi antagonisti. Semplicemente non ne condividevano alcune scelte e prospettive. La papolatria, in tutte le sue declinazioni, ha fatto il resto: vero siamo in un’epoca multimediale, ma la sovraesposizione papale in questi anni ha raggiunto il parossismo e avuto come esito l’identificazione del Papa con la Chiesa del Signore, annullando quella multiforme diversità che è ricchezza e presidio. Tutti fattori che hanno determinato un isolamento progressivo, alimentato da una schiera di esaltatori di Bergoglio, più papisti del Papa, che hanno creato altra confusione e spesso reso odiose a tanti iniziative e dichiarazioni, pure ben indirizzate, del successore di Pietro e la sua stessa persona. Anche la simpatia generale che aveva suscitato Francesco all’indomani della sua elezione, si è logorata, non solo nell’ambito dei fedeli, ma anche in quello laico. Il feeling con il popolo di Dio, che all’inizio del Pontificato appariva presidio, non è più così scontato; basta fare un giro per le parrocchie per rendersi conto (certo, restano le masse ai raduni, ma quella è altra cosa, legata all’evento). Peraltro si trattava di un errore di prospettiva: il feeling (per usare una parola bruttina) che un Pastore deve alimentare non è con se stesso, ma con il Signore. Ma al di là, Bergoglio è assediato, e ne va preso atto. Chi tira le fila è un ambito composito, dentro e fuori la Chiesa (e non solo in Curia), che vuole imporre un nuovo “nocchiero”. Tanti i modi per conseguire tale successo, date le tante leve che il Potere può usare. Una guerra sta sconvolgendo la Chiesa. Una lotta continua che alimenta la confusione, peraltro funzionale al progetto di cui sopra. Il Papa è isolato e tanti dei suoi entusiasti estimatori sono già pronti a salire sul carro del futuro, per fortuna ancora eventuale, vincitore. Sic transit gloria mundi. Esito incerto. Ai poveri fedeli, che di tale confusione sono le prime vittime, non resta che una povera preghiera. Per il Papa, certo, ma anzitutto per la Chiesa. Perché il Signore abbia pietà della Sua povera, diletta, Chiesa. Perché l’essenziale della fede, molto più importante della persona del Papa, messo a repentaglio dal pelagianesimo e dalla gnosi dilagante – da cui l’altrettanto dilagante follia -, sia salvo. “Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla Terra?” È domanda di Gesù nel Vangelo. E non è eludibile.

Rosario Dimito per “il Messaggero” il 2 ottobre 2019. Spira nuova aria di tempesta in Vaticano per presunte irregolarità finanziarie: nel mirino la Segreteria di Stato, il dicastero di più stretto riferimento nel servizio e collaborazione con il Papa. L'inchiesta, della quale Francesco è stato messo al corrente, si riferisce al periodo (2011-2018) in cui era Sostituto per gli Affari generali Angelo Becciu, attuale Prefetto della Congregazione per le santificazioni. Sempre per restare in ambito vaticano, venerdì 27 settembre si sarebbero dimessi dall'Idi Ruggero Parrotto, ex dg del Bambin Gesù, e Alessandro Zurzolo, direttore amministrativo. Tornando alla vicenda Becciu, negli uffici della Segreteria di Stato, Prima sezione, dedicata agli Affari generali, ieri hanno fatto irruzione ieri gli ufficiali della polizia giudiziaria vaticana per una ricognizione che ha portato al sequestro di documenti e computer. Pare comunque che il sequestro si riferisca solo ad alcuni protocolli. Ma perquisizioni sono avvenute anche nell'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria alla quale da qualche anno - a seguito della riforma delle finanze vaticane ai fini della trasparenza - è affidata l'attività di intelligence anti-riciclaggio. Uno stretto riserbo circonda le operazioni e i contenuti delle indagini coordinate dalla magistratura di Oltretevere. Le fonti ufficiali della Santa Sede si trincerano dietro il comunicato. Nel quale si legge: «Questa mattina (ieri, ndr) sono state eseguite, presso alcuni Uffici della Prima Sezione della Segreteria di Stato e dell'Aif, attività di acquisizione di documenti e apparati elettronici». L'operazione, «autorizzata con decreto del Promotore di Giustizia del Tribunale, Gian Piero Milano, e dell'aggiunto Alessandro Diddi, e di cui erano debitamente informati i superiori, si ricollega alle denunce presentate agli inizi della scorsa estate dallo Ior e dall'Ufficio del Revisore Generale, riguardanti operazioni finanziarie compiute nel tempo». E' stato quindi lo Ior e il Revisore generale, che è l'ufficio cui è delegato l'audit interno su tutti i bilanci della Santa Sede e dei dicasteri vaticani, a indossare l'abito dell'accusatore. Con i nuovi statuti, il Pontefice ha trasformato l'Ufficio del Revisore generale in Autorità anti-corruzione. Non è chiaro quali siano le «operazioni finanziarie compiute nel tempo» finite nel mirino: potrebbero essere transazioni immobiliari. Il riserbo che avvolge il caso si spiega la delicatezza della situazione: in base alle norme di procedura penale, le attività di sequestro di materiali equivalgono alla notifica di un avviso di garanzia e all'iscrizione nel registro degli indagati. Dal punto di vista temporale, comunque, le operazioni sotto indagine, essendo passate sotto la lente del Revisore generale, dovrebbero riferirsi ai passati bilanci annuali, non all'ultimo esercizio.

Vaticano, transazioni milionarie sospette: sospesi cinque dirigenti della Santa Sede. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. Nel mirino operazioni finanziarie e immobiliari. Tra i dirigenti sospesi Tommaso Di Ruzza, responsabile dell’organismo per la lotta al riciclaggio del Vaticano (Aif). Sulla trasparenza delle finanze il Papa ha chiesto la massima severità. Martedì mattina le perquisizioni negli uffici della prima sezione della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria (Aif) e ventiquattr’ore più tardi i primi provvedimenti, seppure «a scopo cautelativo»: la «sospensione dal servizio» di cinque dipendenti, a cominciare da Mauro Carlino, Capo ufficio Informazione e documentazione della Segreteria di Stato, e da Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Aif, l’organismo vaticano per la lotta al riciclaggio di denaro. L’indagine della procura vaticana - il «promotore di giustizia» del tribunale, Gian Piero Milano, e l’aggiunto Alessandro Diddi - «si ricollega alle denunce presentate agli inizi della scorsa estate dall’Istituto per le Opere di Religione e dall’Ufficio del Revisore Generale, riguardanti operazioni finanziarie compiute nel tempo», si è limitata a far sapere La Santa Sede. Si parla di transazioni milionarie illecite tra operazioni finanziarie e immobiliari.

Un documento diffuso dal settimanale «l’Espresso» mostra la «disposizione di servizio» a tutto il personale e alle guardie svizzere, firmata dal comandante della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani, che dispone che i cinque dipendenti, elencati con nome e foto, possano entrare nello Stato solo «se autorizzati dalla magistratura vaticana». L’indagine dura da mesi, la trasparenza delle finanze è uno dei punti principali del pontificato di Francesco e il Papa esige la massima severità. Gli altri dipendenti «sospesi» sono un «minutante» (impiegato) dell’Ufficio protocollo, Vincenzo Mauriello, un altro dell’ufficio amministrativo, Fabrizio Tirabassi, e una addetta di amministrazione della Segreteria di Stato, Caterina Sansone. La perquisizione di martedì ha riguardato l’ «acquisizione di documenti e apparati elettronici» e quindi il sequestro di archivi. 

Paolo Rodari per ''la Repubblica'' il 26 ottobre 2019. «Un blocco immobiliare ubicato nel centro di Londra, con esterno in mattoni rossi, in buono stato di conservazione ». Il prezzo richiesto «è di 94,3 milioni di euro». Mentre «i fondi necessari per l' acquisto verrebbero prelevati per metà dalla liquidità che la Grolux ha costituito negli anni, per l'altra metà dal Fondo pensioni». Sono parole scritte nero su bianco nel 2015 dall' allora presidente dell' Apsa, Domenico Calcagno, al cardinale Versaldi, allora presidente della Prefettura degli affari economici della Santa Sede. Il cardinale piemontese propone all' amico Versaldi l' acquisto di un immobile a Londra dai costi elevati, nonostante l' incedere della crisi economica che ha portato il Papa a decidere per il blocco di nuove assunzioni in tutta la Santa Sede con possibilità solo del turn-over. L'immobile ancora non figura sotto la lente degli inquirenti vaticani a differenza di quello acquistato dalla segreteria di Stato e per il quale sono stati sospesi nei giorni scorsi cinque funzionari interni. Ne parla Gianluigi Nuzzi nel suo "Giudizio Universale" (Chiarelettere) che cita una lettera firmata da Calcagno che Repubblica è in grado di pubblicare. A conferma di operazioni importanti in mesi di richieste esplicite di morigeratezza e sobrietà. Da tempo la Santa Sede fatica a far quadrare i conti. Francesco chiede risparmio ed oculatezza. Eppure all' Apsa viene portata avanti un'operazione finanziaria che per alcuni dentro i sacri palazzi ha il sapore della speculazione. Nell' aprile del 2015 Calcagno comunica a Versaldi che tramite la British Grolux Investments Ltd ha fra le mani un immobile prestigioso, «locato a più locatari commerciali nei piani bassi mentre sui rimanenti cinque piani è in essere un contratto di leasehold residenziale19 per ulteriori ottantasei anni ». «Il reddito - continua il porporato - deriverebbe pertanto dall' area commerciale ed è al momento pari a 4 milioni di euro annui». La proposta di Calcagno passa, anche se con un aumento che desta qualche punto interrogativo. Tutto è certificato nel bilancio della stessa Apsa del 2015: l' acquisto è per 96 milioni di euro, seppure per l' immobile «emerge una criticità in merito alla rappresentazione contabile degli asset di proprietà formale dell' Apsa ma inclusi nei bilanci di altri enti vaticani». Londra, dunque, si conferma punto di riferimento importante per le finanze d' Oltretevere. Non solo per gli investimenti immobi-liari, ma anche per gli intensi rapporti fiduciari, intrattenuti sempre dall' Apsa, con numerose società, banche private e istituti di credito. Scrive Nuzzi: si va «dalla Goldman Sachs alla Vanguard Asset Management Ltd di Cannon Street, dalla Julius Baer International Bank Ltd alla iliale londinese del Credit Suisse, a quella della Deutsche Bank, sempre nella City, fino a Barclays Bank Plc e a Bank of England». E ancora: «Anche in Svizzera si riscontra una situazione simile. Si trovano conti con giacenze rilevanti, come la ragnatela di posizioni all' Ubs di Zurigo, con il deposito n. 0247-00540000 di base e a cascata numerosi sottoconti, sia in divise diverse (saldo in franchi svizzeri per 1,2 milioni, in euro per 7,1 milioni, in dollari per 12,1 milioni) sia in titoli». Francesco aveva ordinato la chiusura di tutti questi depositi, ma non ci sono evidenze certe che la richiesta sia stata eseguita in modo completo. È un ulteriore tassello di una situazione che si conferma ingarbugliata. Il Papa iniziò la sua riforma della curia romana dallo Ior e dalle finanze. Dopo Calcagno all' Apsa è stato messo un suo uomo di fiducia, Nunzio Galantino. Ma certo sembra che ancora vi sia da fare per arrivare a quella trasparenza che ancora in queste ore lo stesso Pontefice ha auspicato parlando coi suoi fedelissimi.

Vaticano, 200 milioni  per il palazzo di Londra. Un’ombra sulle riforme. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Franco. L’investimento e le pressioni. Il ruolo del cardinale Becciu. «Come spiegheremo ai fedeli che il Vaticano di Papa Francesco abbia un edificio di lusso a Sloane Square, nel cuore di uno dei quartieri più costosi di Londra, sul quale sono stati investiti avventurosamente duecento milioni di euro?». La domanda arriva dal cuore del potere vaticano. E consegna la certificazione del fallimento delle riforme finanziarie che il pontificato doveva introdurre; e che invece, a sei anni di distanza, ripropone un uso disinvolto del denaro a ogni livello. Di nuovo, odore di malaffare, superficialità nella gestione dei soldi, e selezione disastrosa dei controllori e dei controllati. Il fatto che il pontefice argentino abbia dato il via libera al blitz della Gendarmeria vaticana e alla «sospensione cautelativa» di cinque dipendenti apre, non chiude quello che si profila come un nuovo scandalo dai contorni ancora confusi. Proietta nuove ombre su progetti di riforma che sono stati annunciati ma non portati a termine. E promette di arrampicarsi dalle seconde e terze file su, in alto nella gerarchia ecclesiastica. «La verità è che anche questa storiaccia dice che le riforme di Francesco sono abortite: soprattutto quelle finanziarie». Il giudizio senza appello arriva da un cardinale vicino al pontefice argentino. Ma è una presa d’atto che accomuna avversari e alleati di Jorge Mario Bergoglio, anche se ognuno lo dichiara con obiettivi diversi: col risultato probabile di usare questo sperpero di denaro come arma pro o contro il Papa; e con lo sguardo rivolto alle cordate del prossimo Conclave, quando ci sarà. L’ala bergogliana si prepara a riproporre la tesi di un Francesco deciso a fare pulizia; quella avversaria a puntare il dito sulla sua incapacità a governare e a compiere scelte nel nome della competenza e dell’onestà. Non è un tema nuovo, in realtà, né limitato agli anni di Francesco. Problemi simili sono affiorati anche all’epoca di Benedetto XVI e dei predecessori. E questo dice qualcosa di più e di peggio in termini di sistema. Ma che la questione si ripresenti ora colpisce proprio perché sgualcisce il profilo riformatore, quasi rivoluzionario di Bergoglio. Nelle maglie di un papato sociale molto popolare e proiettato verso la protezione dei poveri, nuovo e vecchio si sono intrecciati e mescolati in un impasto maleodorante. L’impressione è che nella bolla autoreferenziale di Casa Santa Marta, residenza del pontefice, si sia perso il contatto con una realtà impermeabile a tutti i proclami di sobrietà e di rinnovamento. La struttura che doveva rivoluzionare la gestione dei conti è stata decapitata da anni. Con l’ex prefetto agli affari economici, cardinale George Pell, condannato in Australia per una vecchia e opaca storia di molestie, e mai sostituito. E col «revisore generale» dei conti vaticani, Libero Milone costretto nell’estate del 2017 alle dimissioni sotto minaccia di essere arrestato, perché aveva messo il naso dentro transazioni e operazioni «eccellenti» quanto sospette. Né è servita la costosa consulenza finanziaria di società private, rigettate dalla struttura e considerate alla fine inutili dallo stesso pontefice, o le riforme a ripetizione dello Ior, Istituto per le Opere di religione. Viene da chiedersi come mai nessuno si sia accorto che nel vuoto si sarebbero riaffermati le pratiche di sempre e un uso maldestro di fondi destinati in teoria a opere benefiche. Si parla di segnalazioni dei servizi segreti arrivate all’ambasciata d’Italia a Londra, riferite dall’allora ambasciatore Pasquale Terracciano agli interlocutori vaticani, e ignorate: riguardavano chiacchierati finanzieri scelti per l’acquisto di titoli mobiliari di un fondo lussemburghesi trasformati in immobiliari. Filtrano anche voci di pressioni recenti sul direttore dello Ior, Gian Franco Mammì, per pompare altri finanziamenti ingenti nella speranza di recuperare il capitale speso: pressioni che non avrebbero avuto successo, perché Mammì avrebbe risposto di dovere avere l’autorizzazione dal Papa. L’aspetto più inquietante riguarda proprio gli autori di queste pressioni. Le ombre non si addensano solo sui cinque dirigenti della Segreteria di Stato vaticana e dell’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria che dovrebbe in teoria controllare, sospesi ieri dal servizio. Spunta la sagoma di monsignor Alberto Perlasca, che per anni ha tenuto le chiavi della cassaforte della Segreteria di Stato vaticana; e che nel luglio scorso Francesco ha nominato «Promotore di giustizia». Da quanto si sente dire in queste ore di indiscrezioni convulse e spesso inquinate da odi personali, c’è da chiarire anche il ruolo avuto dall’ex Sostituto alla Segreteria di Stato, oggi cardinale Angelo Giovanni Becciu, che dovrebbe incontrare Francesco in queste ore; e del suo successore, il monsignore venezuelano Edgar Pena Parra: nuovo «uomo forte» del Vaticano per i rapporti col Papa. Sarebbe stato Pena Parra, secondo voci non confermate, tra quelli che hanno premuto su Mammì per ottenere nuovi finanziamenti allo scopo di recuperare il capitale sparito nell’investimento londinese. Quanto al segretario di Stato vaticano, Piero Parolin, sembra invece che fosse all’oscuro di tutto, anche perché ha sempre preferito lasciare ad altri la gestione degli affari economici. Tra l’altro, sarebbe stato informato da Papa Francesco soltanto a poche ore dal blitz: un dettaglio che conferma la scarsa comunicazione tra Francesco e il suo «primo ministro», e contribuisce a alimentare le voci su un disagio crescente di Parolin.

Francesco Antonio Grana per Il Fatto Quotidiano il 2 ottobre 2019.  Cinque dirigenti vaticani sono stati sospesi a seguito dell’inchiesta sulle operazioni finanziarie illecite in Vaticano. Appena 24 ore dopo i sequestri effettuati dai pm della Santa Sede su documenti e apparati elettronici negli uffici della prima sezione della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria, il Vaticano ha sospeso “cautelativamente dal servizio” due dirigenti apicali e tre dipendenti. Si tratta di monsignor Mauro Carlino, recentemente nominato da Papa Francesco capo ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato; Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità d’Informazione Finanziaria, genero dell’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, di cui ha sposato la figlia Valeria Maria; Vincenzo Mauriello, minutante dell’ufficio del protocollo della Segreteria di Stato; Fabrizio Tirabassi, minutante dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato; e Caterina Sansone, addetta di amministrazione della Segreteria di Stato. “I suddetti – si legge in una nota firmata dal comandante della Gendarmeria, Domenico Giani, affissa in tutti gli accessi del Vaticano e inviata a tutto il personale – potranno accedere nello Stato esclusivamente per recarsi presso la Direzione Sanità ed Igiene per i servizi connessi, ovvero se autorizzati dalla magistratura vaticana. Monsignor Mauro Carlino continuerà a risiedere presso la Domus Sanctae Marthae”. Al centro delle indagini ci sono alcune compravendite immobiliari milionarie all’estero, in particolare immobili di pregio a Londra, e alcune “strane” società inglesi che avrebbero partecipato al business. Tirabassi gestisce gli investimenti finanziari nella Segreteria di Stato, nell’ufficio amministrativo, posizione molto delicata occupandosi tra l’altro dell’Obolo di San Pietro, che ha visto il suo storico numero uno, monsignor Alberto Perlasca, traslocare il 26 luglio 2019, quando Bergoglio l’ha rimosso nominandolo promotore di giustizia presso il Tribunale della Segnatura Apostolica. In Vaticano bocche cucite e sconcerto per quanto sta avvenendo. Gli investigatori starebbero inoltre analizzando proprio alcuni flussi finanziari sui conti su cui transita appunto l’Obolo di San Pietro, l’insieme delle offerte di denaro fatte dai fedeli e inviate al Papa per essere redistribuite a sostegno della missione della Chiesa e delle opere di carità. Ma anche e soprattutto per il sostentamento dell’apparato vaticano. Nel 2015 i conti e gli investimenti da fondi provenienti dall’Obolo avevano raggiunto la somma record di quasi 400 milioni di euro. Ogni conto e spostamento di denaro adesso è stato messo sotto esame dagli inquirenti per vedere se alcune irregolarità ipotizzate nascondono qualcosa di più grave. Nella Santa Sede si limitano a ribadire che l’inchiesta “si ricollega alle denunce presentate agli inizi della scorsa estate dall’Istituto per le Opere di Religione e dall’ufficio del revisore generale, riguardanti operazioni finanziarie compiute nel tempo”. Non è un caso se recentemente Francesco ha approvato i nuovi statuti dello Ior. La principale novità è proprio l’introduzione di un revisore esterno, che può essere una persona fisica o una società, per la verifica dei bilanci secondo standard internazionali riconosciuti. Nel nuovo statuto Bergoglio ha voluto anche rafforzare la figura del prelato della banca vaticana affidandogli il compito di promuovere “la dimensione etica” di amministratori e dipendenti perché il loro operato sia coerente con i principi cattolici e la missione dell’Istituto, mantenendo scambi costanti con tutto il personale dello Ior.

Vaticano, chi è Tommaso di Ruzza direttore dell’Aif sospeso dal servizio. Nato nel ‘75 ad Aquino, un ricco curriculum di studi giuridici, è alla guida dell’Autorità d’Informazione Finanziaria, organismo antiriciclaggio della Chiesa. Gian Guido Vecchi il 2 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera. Città del Vaticano — Indagini, sospetti di operazioni illecite, l’eterno ritorno del sempre uguale. Sono passati poco più di quattro mesi da quando Tommaso di Ruzza, direttore dell’ Autorità di Informazione Finanziaria, presentava assieme al presidente René Brülhart il rapporto annuale dell’Aif, l’organismo antiriciclaggio del Vaticano, con parole rassicuranti nella sala stampa della Santa Sede: «I dati relativi alle segnalazioni di attività sospette confermano la tendenza di una diminuzione nel numero e un aumento nella qualità delle segnalazioni».

Perquisizione degli uffici e sequestro dei documenti. Probabile che allora fossero già iniziate le indagini che hanno portato alla sua «sospensione dal servizio», dopo la perquisizione degli uffici e il sequestro di documenti e pc. Nato nel ‘75 ad Aquino, nonché presidente del circolo locale dedicato a San Tommaso, di Ruzza è genero dell’ex Governatore di Bankitalia Antonio Fazio, vanta un curriculum di studi giuridici tra Siena, Roma e Oxford e in Vaticano, dove entrò come semplice consulente e impiegato, si è fatto strada fin dal 2005.

Ha lavorato per l’Aif fin dalla nascita, nel 2011. Negli ultimi anni del pontificato di Benedetto XVI, lo si considerava come parte della cordata vicina al Segretario di Stato Tarcisio Bertone e avversa al cardinale Attilio Nicora, primo presidente dell’Aif che si dimise nel 2014 prima della nomina di René Brülhart, già direttore dal 2012. Ma il gruppo di comando non è cambiato nel passaggio da Ratzinger a Bergoglio. Di Ruzza ha lavorato per l’Aif fin dalla nascita dell’Autorità, nel 2011, ne è diventato vicedirettore nel 2014 e direttore l’anno seguente su proposta del presidente Brülhart.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 5 ottobre 2019. Più che una inchiesta carte alla mano la vicenda assume i contorni di una caccia alle streghe. Uno scontro interno tra poteri e una montagna di soldi in mezzo da gestire. Il caos in Vaticano è cominciato il 2 luglio con una denuncia presentata ai magistrati dal direttore generale dello Ior, Gian Franco Mammì. Prima di arrivare a depositare un atto formale tanto grave, Mammì aveva fatto un passaggio previo da Papa Francesco con il quale ha un rapporto antico e molto stretto - per farsi dare il via libera e informarlo che la Segreteria di Stato gli aveva sollecitato un finanziamento di 150 milioni di euro per estinguere un oneroso mutuo che gravava su un immobile di pregio a Londra, all'incrocio tra Draycott Avenue e Ixworth Place. Mammì era imbestialito. Il mese precedente, il 4 giugno, il Sostituto della Segreteria di Stato, il venezuelano Pena Parra mandava un funzionario (uno dei cinque inquisiti) a consegnare allo Ior una lettera con la richiesta di poter disporre, urgentemente, di 150 milioni di euro. Per «non bene precisate ragioni istituzionali» annotano i magistrati. La richiesta di finanziamento passa all'esame - come è prassi - ma Mammì si impunta e non la concede. Non ne ravvisa «la compatibilità con le specifiche finalità statutarie dell'istituto». A quel punto la questione si blocca e così monsignor Pena Parra, la settimana successiva, torna all'attacco per sollecitare una risposta chiedendo «una anticipazione di liquidità per ragioni istituzionali della Santa Sede». Quali sono queste ragioni? Dalle carte dei magistrati viene spiegato che i soldi servono per estinguere un mutuo già contratto presso un'altra banca che grava su un immobile londinese di proprietà della Segreteria di Stato. A detta dei magistrati (e dello Ior) si tratta di una richiesta «che evidenzia alcuni elementi di opacità, tenuto conto che non specifica il beneficiario di tali somme». Tuttavia nella lettera che Pena Parra invia allo Ior riferisce a Mammì per filo e per segno che quei soldi sono necessari alla cancellazione delle ipoteche che gravano sull'immobile. Ipoteche contratte da una società di proprietà della Segreteria di Stato che a sua volta detiene la proprietà di un bene posto a garanzia. Tutte le operazioni in esame fanno riferimento ad un arco temporale di circa 12 mesi. Nel frattempo anche l'Ufficio di Revisione Generale un organismo che ha l'obbligo di audit di tutte le realtà amministrative della curia procedeva a fare le pulci alle operazioni in corso. Così l'8 agosto manda un documento ai magistrati vaticani per segnalare che la maggior parte delle attività finanziarie della Segreteria di Stato risultano depositate presso il Credit Suisse, nelle filiali svizzere e italiane, dove è versato quasi l'80 per cento del portafoglio gestito. Una montagna di denaro. La vera origine dello scontro pare sia proprio qui. La smoking gun. Il fatto è che i soldi della Segreteria di Stato non sono affatto depositati allo Ior ma su un altro istituto di credito. Il Revisore Generale parla così di conflitti di interessi, visto che si tratta delle donazioni ricevute dal Papa per le opere di carità, per il sostentamento della curia, in pratica l'Obolo di San Pietro. I magistrati annotano che si tratta di importanti cifre «impiegate in fondi che, a loro volta investono in titoli di cui il cliente non viene messo a conoscenza nonché in fondi allocati in paesi offshore come Guernsey e Jersey, ad alto rischio speculativo e di dubbia eticità». Il mancato controllo diretto da parte dello Ior sul denaro depositato al Credit Suisse, secondo il Revisore Generale farebbe emergere i contorni «chiaramente speculativi delle operazioni, con il rischio di fare esporre l'intero Stato a rischi patrimoniali e reputazionali». Per farla breve: i soldi investiti altrove «potrebbero essere usati per finalità incompatibili a quelle che li hanno generati» e di conseguenza l'Obolo di San Pietro potrebbe essere messo in pericolo, mentre se fosse gestito dallo Ior i rischi si azzererebbero. I magistrati dalle intercettazioni telefoniche e dalle indagini ricostruiscono il filo delle attività finanziarie della Segreteria di Stato e concludono che le «attività di acquisizioni di immobili ai fini di investimento» sono riservate solo all'Apsa, che la Segreteria di Stato non ha informato il Consiglio dell'Economia, che il mutuo richiesto non risponde alle finalità religiose, che ci sono stati passaggi finanziari non chiari. «Tali elementi consentono di evidenziare come nella gestione possano essere ravvisati gli estremi del reato di abuso di autorità» per i cinque funzionari della Segreteria di Stato che sono finiti sotto indagine e sospesi dal lavoro in via cautelativa. Ora l'autorità giudiziaria dovrà appurare se effettivamente gestivano in autonomia le operazioni oppure no. In attesa della prossima puntata di questo scontro inedito tra poteri.

Claudio Antonelli per “la Verità” il 5 ottobre 2019. Lo scorso 2 ottobre la gendarmeria vaticana, su ordine del promotore di Giustizia, del Revisore generale e di papa Bergoglio è entrata nella prima sezione della Segreteria di Stato e nelle stanze dell' Aif, autorità d' informazione finanziaria. Risultato: finiscono indagati quattro laici e monsignor Mauro Carlino, capo ufficio informazione della Segreteria. L' entrata a gamba tesa del Papa si spiegherebbe con la necessità di mettere ordine in una serie di operazioni finanziarie apparentemente irregolari. Tra queste, un mega fondo immobiliare proprietario di un palazzo di lusso a Sloan Square a Londra, e collegato al fondo Athena. Famoso almeno in Italia, perché richiama il finanziere Raffaele Mincione. Per comprendere i fatti recenti bisogna tornare indietro al 2012, quando l' allora monsignore Angelo Becciu è responsabile degli Affari Generali, mentre monsignor Alberto Perlasca è l' uomo che detiene le chiavi della cassaforte della Segreteria di Stato. Nominato in quel ruolo ai tempi del cardinale Tarcisio Bertone, che aveva chiesto a Perlasca di avviare una seria azione di spending review in dicastero, il prelato comasco era responsabile dell' ufficio amministrativo e in virtù di questo incarico gestiva le finanze delle fondazioni vaticane, l' Obolo di San Pietro. Nello stesso anno la Segreteria avrebbe contattato la svizzera Sogenel per la gestione di una parte della liquidità. La boutique a sua volta si affida ad alcuni consulenti cresciuti nel mondo di Credit Suisse e di un' altra grossa banca elvetica. Se inizialmente si pensa di investire 200 milioni in una concessione petrolifera in Angola (proposta stoppata a quanto risulta dalla Verità da Perlasca), i consulenti vicino a Fabrizio Tirabassi (uno dei laici indagati il 2 ottobre) suggeriscono di utilizzare il fondo Athena per un investimento immobiliare a Londra. Cifra complessiva? Circa 200 milioni di euro. Nel 2017 il ritorno dell' investimento è fortemente negativo. L' arrivo di Pietro Parolin ai vertici della Segreteria fa emergere le difficoltà della gestione. Becciu viene promosso a cardinale, e quindi lascia l' incarico. Al suo posto arriva Edgar Peña Parra, il quale, a giugno del 2019, avrebbe chiesto di disinvestire da Athena. Leggendo i retroscena riportati dall' Espresso e dal Corriere si apprende che l' investimento non sarebbe però stato liquidato, ma sarebbe semplicemente conferito l' intero immobile. Il perché della scelta non è noto, ma ciò avrebbe fatto scattare i campanelli d' allarme dentro il Vaticano che forse aveva ricevuto qualche alert pure dal vescovo Gustavo Zanchetta, poi travolto dallo scandalo dei presunti abusi in Argentina. Che cosa accadrà adesso? Le indagini sono all' inizio. Ma la notizia dell' irruzione della gendarmeria ha fatto il giro del mondo, e soprattutto ha lasciato con il fiato sospeso molti politici e avvocati. Anche Giuseppe Conte avrebbe appreso con interesse del maxi investimento a Londra e del ruolo di Mincione. I due si conoscono attraverso Guido Alpa, avvocato, lontano amico di Becciu e soprattutto maestro di Giuseppe Conte. Alpa ha assistito la Fiber 4.0, con cui Mincione ha tentato la scalata a Retelit, mentre Conte ha rilasciato un parere legale sui temi del golden power per la stessa Fiber 4.0; salvo, pochi mesi dopo e da premier, deliberare sullo stesso dossier. Ma soprattutto Alpa è stato consigliere di banca Carige tra il 2009 e il 2013, e consigliere della Fondazione fino al 2014, per poi svolgere un ruolo di legale per Mincione dopo che questi, a febbraio 2018, aveva preso il 5% dell' istituto genovese. Non solo: a settembre dello stesso anno Alpa interviene in assemblea per conto di Pop 12, la società che fa capo al finanziare londinese. Nella stessa occasione partecipa al voto la Pop 12, ma anche il fondo Athena: lo stesso che ha veicolato il maxi investimento che ora mette in fibrillazione il Vaticano. Lo scorso anno, inoltre, fece scalpore sui giornali il diretto intervento di Conte che telefonò più volte alla famiglia Malacalza, i soci di maggioranza relativa che in quei mesi erano impegnati in una battaglia furente con la controparte capeggiata da Mincione e, in un certo senso, Alpa. Le cronache non hanno però riportato un' ulteriore telefonata fatta dal premier il 20 dicembre, mentre era in corso l' assemblea decisiva per il futuro della banca. A ricevere la chiamata sarebbe stato l' avvocato Andrea D' Angelo, legale dell' istituto. Conte potrebbe aver ribadito la necessità di trovare la pacificazione tra soci. È legittimo che un premier, pur di salvare una banca, entri così in profondità? La pacificazione in toto che cosa avrebbe comportato in tema di governance? Risposte che sarebbe interessante ascoltare dal premier stesso, visto che in questi giorni è chiamato a darne anche altre, di natura altrettanto delicata. Pesano gli incontri tra i rappresentanti della Casa Bianca e quelli dei nostri servizi. Per questo, molti analisti di intelligence, sempre attenti a unire i puntini, si chiedono perché la bomba in Segreteria di Stato sia esplosa proprio il 2 ottobre, il giorno in cui il braccio destro di Donald Trump, Mike Pompeo era a Roma. Un viaggio istituzionale e programmato da tempo per incontrare oltre Luigi Di Maio, il nostro premier e papa Bergoglio. L' attenzione degli Usa alle mosse del Vaticano è altissima, soprattutto su tematiche che riguardano la Cina. È altrettanto alta quella che la Casa Bianca pone sulle mosse dei precedenti governi italiani nel caso spygate. Roma e Vaticano sono Stati molto confinanti. E gli scandali a volte esplodono per portarne alla luce di nuovi, a volte per coprirne di già esistenti.

Vaticano, cardinali contro il palazzo  pagato con l’obolo. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. «Un’operazione opaca sulla quale ora si chiarirà» dice il segretario di Stato Vaticano Parolin. La replica del cardinal Becciu: «Accuse infanganti». «Una operazione opaca sulla quale ora si chiarirà tutto». Così, ieri mattina, il segretario di Stato Pietro Parolin ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano notizie sull’immobile di pregio acquistato a Londra con i soldi delle elemosine, oggetto di un’inchiesta vaticana che ha già causato cinque sospensioni eccellenti. Una presa di posizione durissima. Che ha spinto il cardinal Giovanni Angelo Becciu — all’epoca sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, ora prefetto della Congregazione delle cause dei santi — a replicare, abbandonando la linea del silenzio: «Contro di me — ha detto all’Ansa — accuse infanganti che respingo in modo fermo e sdegnoso. Ho la coscienza a posto. E so di avere agito sempre nell’interesse della Santa Sede e mai mio personale. Sono stato dipinto come uno che ha giocato e manomesso i soldi dei poveri. Ma l’Obolo non è solo per la carità del Papa ma anche per il sostentamento del suo ministero Pastorale». Arriva così ai più alti livelli della gerarchia vaticana lo scontro sui fondi gestiti direttamente dalla segreteria di Stato e non dallo Ior: l’Obolo di San Pietro, circa 60-70 milioni di euro raccolti nelle parrocchie e destinati per il 30 per cento alla carità e per il 70 per cento alla gestione della Santa Sede, dagli stipendi, ai viaggi del Papa e al resto. Tutto nasce da un’indagine, aperta dal promotore di Giustizia Gian Piero Milano, su segnalazione dello Ior, per operazioni finanziarie milionarie sospette, effettuate da uffici della Segreteria di Stato. Incluso l’investimento da 200 milioni di euro per il palazzo di Sloane Square che ha causato il blitz della gendarmeria vaticana e la sospensione dagli incarichi anche del capo degli uffici della Segreteria di Stato, don Mauro Carlini e del direttore dell’Antiriciclaggio, Tommaso Di Ruzza. Secondo l’accusa, milioni di euro di fondi extrabilancio, con l’aiuto di banche svizzere, sarebbero finiti in operazioni spericolate, come quella «opaca» sulla quale Parolin promette che «si farà luce». Becciu è il primo a voler chiarire. Dice che «è prassi che la Santa Sede investa nel mattone, l’ha fatto sempre: a Roma, a Parigi, in Svizzera e anche a Londra. Pio XII fu il primo ad acquistare degli immobili a Londra». E rimarca: «Ci è stata avanzata la proposta di questo storico ed artistico palazzo e quando fu fatta e realizzata non c’era niente di opaco. L’investimento era regolare e registrato a norma di legge». Le «difficoltà sono nate con il socio di maggioranza, con il quale mi risulta sono sorte questioni circa la gestione della parte della liquidità», aggiunge il cardinale alludendo a Raffaele Mincione, che, dice, «disattendendo le indicazioni reiterate anche per iscritto, continuava ad investire in attività che la Segreteria di Stato non poteva assolutamente condividere né approvare». Ma nessuna manipolazione assicura: «In Segreteria di Stato avevamo un fondo intitolato: “Soldi dei poveri”. E ai poveri venivano destinati».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 30 ottobre 2019. E' stato un passaggio «piuttosto opaco». Dice proprio così il cardinale Pietro Parolin a proposito del famoso palazzo di Londra finito al centro di una inchiesta vaticana. «Una operazione sulla quale si dovrà fare luce, ma l'Obolo di San Pietro viene utilizzato in maniera adeguata, diciamo che quello è un episodio». La giornalista incalza il segretario di Stato. Eppure lo Ior vi ha denunciato accusandovi di gestire allegramente i soldi dei poveri. «Secondo me li gestiamo bene. Si sta lavorando per chiarire tutto». Parole, quelle di Parolin, che pesano come macigni e sembrano tirare in ballo indirettamente la gestione passata di quando era Sostituto il cardinale Angelo Becciu che, in serata, all'Ansa, affida parole amare. Per tutto questo tempo si era imposto il silenzio nonostante diversi articoli che lo tiravano in ballo. «Contro di me sono accuse infanganti che respingo in modo fermo e sdegnoso. Ho la coscienza a posto e so di aver agito sempre nell'interesse della Santa Sede e mai mio personale. Chi mi conosce da vicino lo può attestare». L'accusa che più lo ha ferito è di essere stato dipinto come uno che gioca coi soldi dei poveri. «Mai e poi mai ho fatto una cosa del genere. Se mi sono venuti in mano soldi con tali finalità ho sempre rispettato il loro destino. In Segreteria di Stato avevamo un fondo intitolato: soldi dei poveri». Becciu che è stato Sostituto fino al 2018, spiega che l'Obolo di San Pietro - che raccoglie ogni anno 70 milioni di euro - serve sia per sostenere i costi dello Stato, come per esempio pagare gli stipendi di circa 4000 persone ogni mese, poi le nunziature sparse nel mondo oltre che per i poveri. Chiarisce inoltre che l'operazione dell'immobile di Londra è prassi consolidata visto che sin dai tempi di Pio XII il Vaticano ha investito le sue risorse in immobili. «Ci è stata avanzata la proposta di questo storico ed artistico palazzo e quando fu fatta e realizzata non c'era niente di opaco. L'investimento era regolare e registrato a norma di legge. La sterlina, a quel tempo, appariva come una interessante valuta di diversificazione rispetto al continuo fluttuare dell'euro e del dollaro. Al riguardo, non si deve dimenticare che la maggior parte delle entrate della Santa Sede sono in dollari, ma la stragrande maggioranza delle uscite, sono in euro. Si cercava pertanto un investimento immobiliare sul lungo o lunghissimo termine, non certamente un investimento di carattere speculativo». Il cardinale spiega che le difficoltà sono sopraggiunte con il socio di maggioranza, il finanziere Raffaele Mincione. E lì Becciu sembra togliersi qualche sassolino: «Egli infatti, disattendendo le indicazioni reiterate in innumerevoli occasioni, anche per iscritto, continuava ad investire in attività che la Segreteria di Stato non poteva assolutamente condividere né approvare. Gli era stato espressamente detto di non investire in Carige, e lui ha investito in Carige. Gli era stato detto di non investire nella Banca Popolare di Milano e lui ha investito nella Banca Popolare di Milano. Lo stesso vale per Retelit. Gli era stato detto e ridetto di no. Si volevano i classici investimenti della Segreteria di Stato: a capitale garantito e non di carattere speculativo». Mincione fu quindi liquidato ma a quel punto però Becciu era già stato promosso cardinale e trasferito alla Congregazione dei Santi. «Non so cosa sia successo dopo. Mi dicono però che quello storico ed artistico palazzo è ora totalmente della Santa Sede e che se venduto renderebbe un valore nettamente superiore rispetto al prezzo per il quale fu comprato». La denuncia che si trattava di una operazione opaca era stata presentata al Tribunale Vaticano dallo Ior e dall'Ufficio del Revisore dei Conti. I magistrati vaticani hanno autorizzato subito una perquisizione in Segreteria di Stato che ha portato alla sospensione cautelativa dal servizio di cinque dipendenti che da questo mese sono senza stipendio e senza nemmeno essere indagati e per quali reati. Nel frattempo l'ex capo della Gendarmeria, Giani veniva silurato dal Papa per avere diffuso una foto segnaletica con il volti e i nomi dei cinque funzionari, tra cui una donna. Nel frattempo l'Aif, l'Authority finanziaria che vigila sull'antiriciclaggio e ha rapporti in Europa con Moneyvall, è uscita pubblicamente a difendere a spada tratta l'operato svolto correttamente di uno dei cinque funzionari finiti nei guai. Il comunicato è anche stato pubblicato dall'Osservatore Romano. Come a dire che la guerra per gestire il tesoretto del Papa non sembra per niente risolta.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 4 novembre 2019. Un altro palazzo a Londra. Oltre al finanziamento di attività personali dello stesso Raffaele Mincione. Il capitolo degli investimenti effettuati dal discusso finanziere con i fondi dell'Obolo di San Pietro, al centro del nuovo scandalo sulle finanze vaticane e di una inchiesta della Santa Sede, si arricchisce di ulteriori dettagli. Che danno corpo alle affermazioni di Monsignor Paolo Becciu, ex Sostituto agli Affari generali della Segreteria di Stato della Santa Sede, rilasciate qualche giorno fa all'Ansa: «Egli (Mincione, ndr), disattendendo le indicazioni reiterate in innumerevoli occasioni, anche per iscritto, continuava ad investire in attività che la Segreteria di Stato non poteva assolutamente condividere né approvare. Gli era stato espressamente detto di non investire in Carige, e lui ha investito in Carige. Gli era stato detto di non investire nella Banca Popolare di Milano e lui ha investito nella Banca Popolare di Milano». L'investimento in Carige arriverà nel portafoglio di Athena a inizio 2018: 143 milioni di azioni per 1,5 milioni di euro investiti che adesso valgono di fatto zero. Stesso discorso per Retelit, la società per la quale Mincione chiede un parere legale a Giuseppe Conte prima di diventare primo ministro e sulla quale, una volta a Palazzo Chigi, tra i primi atti metterà la Golden Power: «Gli era stato detto e ridetto di no. Si volevano i classici investimenti della Segreteria di Stato: a capitale garantito e non di carattere speculativo». Becciu non parla degli altri investimenti effettuati dal fondo Athena Global. Come le quote del fondo Tiziano - San Nicola gestito da Sorgente Sgr, a sua volta commissariata da Bankitalia. O la cartolarizzazione dei crediti di una serie di strutture sanitarie - anche facenti capo al Vaticano - verso le Asl di Lazio e Campania. Oltre all'immobile di Sloane Avenue, adesso interamente di proprietà della Chiesa e probabilmente l'asset di migliore qualità nel pacchetto, nel fondo alimentati dai soldi del Vaticano c' è anche appunto un altro immobile sempre a Londra. Si tratta di una proprietà in Kensal Road, a North Kensington, acquisita dal fondo Athena tramite un veicolo di Jersey denominato Stroso Ltd, poi rinominato Kr-2 Ltd. I rendiconti del fondo mostrano un valore di acquisto di 11,7 milioni contro un valore a fine 2018 inferiore a 8 milioni di euro. Secondo la documentazione visionata da La Stampa, entro quest' anno dovrebbero essere avviati dei lavori di ristrutturazione ed è possibile che la perdita di valore sia legata all' abbassamento degli affitti per poter effettuare i lavori. Nella stessa strada però c'è anche un altro immobile legato a questa storia. Si tratta di un altro palazzo che secondo quanto ricostruito farebbe riferimento ad altre attività dello stesso Mincione. Ma che i soldi dell' Obolo di San Pietro hanno finanziato. Athena Global ha infatti investito in obbligazioni a tasso variabile emesse dalla Cessina Ltd, diventano dunque creditore. Si tratta di un altro veicolo di Jersey, controllato da Mincione attraverso altre scatole societarie, al quale fa capo un altro immobile di Kensal Road. Non è la sola operazione condotta dal finanziere per autofinanziarsi tramite il fondo alimentato dall' Obolo di San Pietro. A fine 2017 Athena risultava anche aver investito 12,9 milioni di euro in un bond di Time & Life, con cedola al 3% e scadenza nel 2020. Si tratta della holding del finanziere, alla quale fanno capo anche - tra le altre cose - i fondi della famiglia Athena Capital. Sta di fatto che i rapporti tra il finanziere e la Santa Sede si deteriorano, fino ad arrivare, ad ottobre 2018, alla rottura. Il Vaticano, che aveva dato in gestione al finanziere almeno 150 milioni, ne paga altri 40 e si prende tutto l' immobile di Sloane Avenue, lasciando a Mincione tutto il resto. Totale investito: poco meno di 200 milioni di euro. Tutte vicende sulle quali dovrà fare chiarezza l' indagine avviata dalla Santa Sede sull' utilizzo dei fondi dell' Obolo di San Pietro.

Il Financial Times: "Conte collegato a un fondo sotto indagine per corruzione". Lo scoop del Financial Times sul premier. Angelo Scarano, Lunedì 28/10/2019 su Il Giornale. "Un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano al centro di un'indagine sulla corruzione finanziaria era alla base di un gruppo di investitori che assunse Giuseppe Conte -ora primo ministro italiano- per lavorare su un accordo perseguito poche settimane prima che assumesse la carica". Lo scrive il Financial Times. Che poi aggiunge: "Il collegamento con Conte rivelato in documenti esaminati dal Financial Times probabilmente attirerà un ulteriore esame sull'attività finanziaria del Segretariato di Stato vaticano, la potente burocrazia centrale della Santa Sede, che è oggetto di un'indagine interna su transazioni finanziarie sospette". E ancora: "Conte era un accademico di Firenze poco conosciuto quando è stato assunto a maggio 2018 per fornire un parere legale a favore di Fiber 4.0, un gruppo di azionisti coinvolto in una lotta per il controllo di Retelit, una società italiana di telecomunicazioni lo scorso anno. L'investitore principale in Fiber 4.0 è stato il Athena Global Opportunities Fund, finanziato interamente per 200 milioni di dollari dal Segretariato Vaticano e gestito e di proprietà di Raffaele Mincione, un finanziere italiano". Il giornale ricorda che "la fonte finale dei fondi di Mincione non è mai stata dichiarata nella battaglia degli azionisti per il controllo di Retelit ed era sconosciuta prima che la polizia vaticana questo mese facesse irruzione negli uffici del Segretariato per sequestrare documenti e computer a causa della preoccupazione per un affare di proprietà di lusso a Londra stretto con Athena". Oltre a ripercorrere le recenti vicende giudiziarie interne al Vaticano sulla vicenda, il quotidiano rileva che "Conte è balzato dall'essere un politico sconosciuto a guidare un governo populista italiano nel giugno 2018" e ripercorre le tappe della crisi d'agosto e del nuovo esecutivo da lui presieduto con Pd e M5S. Si ricorda, inoltre, che "ha già affrontato accuse di conflitto di interessi in relazione all'accordo Retelit, dopo aver emanato un decreto basato sul cosiddetto "golden power" che favorito i suoi clienti di una settimana prima di diventare primo ministro. Ha negato ogni conflitto di interessi ma è verosimile che debba affrontare nuovi approfondimenti sui suoi legami con la transazione e il coinvolgimento del Vaticano".

L’FT: «Conte legato a un fondo indagato dal Vaticano». La replica: «Tranquillissimo». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it su Fabrizio Massaro. Lo scandalo del palazzo di Londra comprato dalla segreteria di Stato vaticana sfiora il premier. Lo scandalo del palazzo nel centro di Londra, in Sloane Avenue 60, comprato dalla segreteria di Stato vaticana utilizzando 200 milioni di dollari dell’obolo di San Pietro e ora al centro di un’indagine della magistratura del Papa, non smette di alimentare polemiche. Polemiche che adesso arrivano a tirare in ballo, via Financial Times, il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per alcuni incarichi professionali avuti pochi settimane prima di essere indicato come premier della coalizione Lega - Movimento 5 Stelle nell’estate del 2018. Al riguardo, nella notte fonti di Palazzo Chigi hanno fatto sapere che il presidente del Consiglio «è tranquillissimo» riguardo l’articolo del Financial Times su un presunto collegamento del premier al fondo di investimenti sostenuto dal Vaticano al centro di una indagine su un caso di corruzione. Il legame tra Conte e l’investimento del Vaticano a Londra è proprio nel fondo che ha realizzato l’operazione, Athena Global Opportunities, gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Come ha rivelato domenica 13 ottobre lo stesso Mincione in un’intervista al Corriere della Sera, l’unico investitore del fondo Athena era la Segreteria di Stato vaticana, con 200 milioni di dollari, pari a circa 147 milioni dell’epoca, nell’ottobre 2013. Di quei milioni, circa 80 vennero utilizzati per rilevare il 45% del palazzo (a vendere le quote fu lo stesso Mincione) mentre il resto venne utilizzato per investimenti mobiliari, fondamentalmente in tre titoli di società quotate a Piazza Affari: Banca Carige, Tas (società che si occupa di pagamenti digitali), e Retelit, una società di telecomunicazioni che gestisce anche una rete in fibra ottica. È lo stesso Mincione a svelare al Corriere di aver scalato queste tre società — soprattutto Tas e Retelit — con i soldi del Vaticano. Di fatto la segreteria di Stato è stato l’effettivo proprietario delle azioni fino al novembre del 2018, quando la transazione tra Mincione e il Vaticano non portò a una divisione delle attività: al Vaticano andò l’intero palazzo; a Mincione gli investimenti mobiliari più un conguaglio di 44 milioni di euro in contanti. È proprio quando Mincione, nella primavera del 2018, scala Retelit, candidandosi anche come presidente della società, che spunta il nome di Conte. È il Financial Times a ricordare il ruolo di Conte in questa partita, evidenziando come l’allora avvocato Conte a maggio di quell’anno emise un parere giuridico a favore di Fiber 4.0, una cordata di azionisti di Retelit capitanata al 40% da Athena, secondo il quale il voto dell’assemblea dei soci sulla nomina del consiglio di amministrazione avrebbe potuto essere impugnato dal governo usando il «golden power», cioè un potere di intervento dell’esecutivo su società considerate strategiche. Secondo l’allora avvocato Conte, Retelit avrebbe potuto finire sotto il controllo della cordata avversaria, composta dai tedeschi di Shareholder Value e soprattutto - e qui stava il rischio, secondo Conte - dalla società telefonica di Stato della Libia, Lybian Post Telecommunications (che era in realtà azionista da anni). Sempre al Corriere, il 10 gennaio 2019 Mincione raccontò come fosse arrivato a Conte: «Noi abbiamo chiesto sul tema Retelit un parere a uno studio legale, che purtroppo aveva scritto un’opinione che non andava nella nostra direzione. Quindi ci ha suggerito il nome di un avvocato che aveva la nostra stessa scuola di pensiero. Era quello di Conte, che non era ancora nessuno ma dopo l’opinione è diventato primo ministro. Uno deve pur lavorare, no? Io Conte non l’ho mai incontrato, non lo conosco, non gli ho mai dato un incarico, lo ha fatto uno dei miei collaboratori». A vincere la corsa per il controllo di Retelit fu la cordata opposta a Mincione. Il 7 giugno il neonato governo Conte emanò il decreto che applica a Retelit il golden power, dichiarandone strategiche le attività. Allora il governo stabilì che Retelit garantisse «la continuità del servizio e la funzionalità operativa della rete, assicurandone l’integrità e l’affidabilità, attraverso adeguati piani di manutenzione e sviluppo». In secondo luogo che doveva «assicurare» investimenti «che garantiscano lo sviluppo e la sicurezza delle reti», che la gestione della rete rimanesse in Italia e fosse messa in sicurezza, «tutte attività che — spiegò allora Retelit — vengono già regolarmente svolte dalla società».

Financial Times: "Conte fu consulente di un fondo finito nell'inchiesta del Vaticano". Il giornale britannico avanza l'ipotesi di un conflitto di interessi del premier legato al finanziere Raffaele Mincione. La Repubblica il 28 ottobre 2019. Un conflitto di interessi per il premier? La questione viene rilanciata dal Financial Times, che collega una vicenda da tempo esaminata dalla stampa italiana all’ultimo scandalo vaticano. Le indagini aperte poche settimane fa dagli investigatori pontifici si focalizzano infatti sul fondo di investimento Athena Global Opportunities gestito dal finanziere Raffaele Mincione, che avrebbe ricevuto circa 200 milioni di euro dal Segretariato Vaticano per un discusso investimento immobiliare di lusso a Londra. Nel maggio 2018 la società Fiber 4.0, controllata sempre dal fondo di Mincione, aveva ingaggiato l’avvocato Giuseppe Conte per un parere legale. Fiber 4.0 stava tentando la scalata alla Retelit, una compagnia italiana di telecomunicazioni, ma era stata battuta da due aziende straniere: un fondo tedesco e una società statale libica. Conte nel suo parere legale del 14 maggio 2018 sostenne la necessità di introdurre il principio del golden power, che in questo caso avrebbe permesso al governo di bloccare la cessione delle compagnie strategiche ad azionisti stranieri. Repubblica rivelò per prima la vicenda già il 23 maggio 2018, quando Conte era solo candidato premier e non ancora insediato a Palazzo Chigi. Un mese dopo, il governo giallo-verde guidato da Conte emanò un decreto applicando proprio il golden power a Retelit. Ma il fondo di Mincione non ne ottenne benefici e non riuscì a ottenere il controllo della compagnia. Il premier spiegò allora di non avere partecipato alla discussione del decreto e di essersi astenuto dal votarlo in consiglio dei ministri. E Mincione disse di non avere mai incontrato personalmente l’avvocato Conte, il cui nome gli venne suggerito da un altro studio legale. Ma Gianluca Ferrari, direttore della Shareholder Value ossia il fondo tedesco che si opponeva a Mincione nella scalata, ha dichiarato al Financial Times che “hanno tentato di invalidare il voto degli azionisti attraverso un escamotage tecnico legale che richiede l’approvazione del governo e hanno assunto un avvocato che ha rilasciato un parere legale guarda caso pochi giorni prima di diventare primo ministro”. Questo tipo di conflitto di interessi – sostiene il manager – ha rischiato di minare la fiducia degli investitori internazionali nell’Italia. Il Financial Times inoltre ha potuto esaminare alcuni elementi dell’indagine aperta dalla procura vaticana, focalizzata proprio sulle attività di Mincione e i finanziamenti sospetti concessi dalle istituzioni pontificie alle sue attività. Il quotidiano britannico arriva a sostenere che il fondo Athena Global Opportunities fosse “sostenuto dal Segretariato Vaticano” e che la scalata alla Retelit sia stata lanciata utilizzando proprio il denaro ottenuto dalla Santa Sede. Nel maggio 2018 l’avvocato Conte sapeva di stare lavorando per un fondo sostenuto dal Vaticano? Ieri sera Palazzo Chigi ha diffuso una nota: “Conte ha reso solo un parere legale e non era a conoscenza e non era tenuto a conoscere il fatto che alcuni investitori facessero riferimento ad un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano e oggi al centro di un’indagine”. La presidenza del Consiglio ha ribadito che “per evitare ogni possibile conflitto di interesse, il premier si è astenuto anche formalmente da ogni decisione circa l’esercizio della golden power. In particolare non ha preso parte al Consiglio dei Ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stata deliberata la golden power), astenendosi formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione. Si fa presente che in quell’occasione era impegnato in Canada per il G7”. E conclude: “Non esiste nessun conflitto di interesse, rischio questo che peraltro era già stato paventato all’epoca da alcuni quotidiani”. Salvini ha subito rilanciato l’articolo del giornale britannico: “Magari domani la prima lettura del presidente del Consiglio sarà il corriere dell’Umbria, la seconda il Financial Times. Non sono positive né l’una, né l’altra”. Gli ha fatto eco Giorgia Meloni: “Se Conte ha tradito l’Italia, o ha fatto qualcosa che non sta nel suo ruolo, gliene chiederemo conto”.

Dagonews il 27 ottobre 2019. Un fondo di investimento che raccoglieva i soldi del Vaticano, al centro dell'inchiesta per corruzione finanziaria che ha scosso la Segreteria di Stato, era dietro a un gruppo di investitori che ingaggiò Giuseppe Conte – prima che diventasse premier – per lavorare a un affare che doveva chiudersi poche settimane prima dell'inizio del suo mandato. Lo scrive il ''Financial Times'': Conte era un professore di Firenze poco conosciuto quando nel maggio 2018 (le elezioni erano già state stravinte dal M5s e lui era il candidato in pectore al ministero della Pubblica Amministrazione) gli fu chiesta una consulenza legale in favore di Fiber 4.0, un gruppo di azionisti che stava lottando per Retelit, una società di telecomunicazioni italiana. L'investitore principale in Fiber 4.0 era l' Athena Global Opportunities Fund, finanziato interamente con 200 milioni della Segreteria di Stato di cui manager e proprietario era Raffaele Mincione. La fonte dei suoi fondi non fu mai rivelata durante la battaglia per il controllo di Retelit. Una volta sconfitto, Mincione pagò Conte in quanto esperto legale per ribaltare il risultato del voto. Conte ha scritto il 14 maggio 2018, in un memo visionato dal FT, che il voto poteva essere annullato se Retelit fosse stata posta sotto ''golden power'', la regola che permette al governo italiano di bloccare il controllo straniero di società considerate strategiche per il Paese. Due settimane dopo, Conte è stato nominato presidente del Consiglio, e dopo pochi giorni, il suo governo ha approvato un decreto che faceva esattamente quanto richiesto da Mincione. Però non basto' per ribaltare il risultato della disfida azionaria. Rocco Casalino non ha risposto alle richieste del quotidiano, mentre Mincione dice di non aver mai conosciuto Conte, e che era stato ingaggiato da un altro studio legale che lavorava per il consorzio.

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il “Corriere della sera” il 29 ottobre 2019. «Dal Vaticano, 28 novembre 2018. Spettabile Credit Suisse, con riferimento alla relazione bancaria n. S0456-033 intestata a questa Segreteria di Stato - Sezione per gli Affari Generali - presso codesto Credit Suisse (Lugano), mi pregio di disporre la seguente operazione (...): trasferire l' importo di Euro 45.400.000 alla Rubrica Gutt...». La lettera è firmata Edgar Peña Parra, da poco più di un mese Sostituto della Segreteria di Stato. È il bonifico che innesca l' acquisto esclusivo da parte del Vaticano del palazzo di Sloane Avenue 60 in centro a Londra, fin lì posseduto in tandem con il finanziere Raffaele Mincione (al 55%), e oggi al centro di un' inchiesta della magistratura del Papa. È l' uscita, concordata con Mincione, dallo spinoso investimento del 2014 quando l' allora Sostituto, Giovanni Angelo Becciu, prelevò 200 milioni di dollari dalla cassa dell' Obolo di San Pietro - alimentato dalle offerte dei fedeli - per rilevare, con il fondo Athena di Mincione, il 45% dell' immobile londinese. Con lo stesso accordo, escono dal portafoglio della Santa Sede partecipazioni speculative in Borsa, lontanissime da ogni logica di investimento «etico» e conservativo: Carige, Retelit, Tas. Il Vaticano chiude con Mincione e Athena. Ma riparte con Gianluigi Torzi, 40enne finanziere e abile trader di valuta a Londra. Torzi è alla guida di Gutt, la società nuova proprietaria del palazzo, su incarico della Segreteria. Ma la ripartenza è tutt' altro che lineare. Trame, sospetti e veleni si diffondono fin da subito nei corridoi della Santa Sede, ben prima che parta l' inchiesta vaticana. Gutt avrà vita breve e Torzi sarà liquidato con 10 milioni di euro. Anche il divorzio da Mincione, del resto, non era stato sereno. Si è consumato negli ultimi mesi del 2018 con l' arrivo di Peña Parra. Il colpo di grazia probabilmente è stato il report di settembre del fondo Athena Capital Global Opportunities Fund, quello tutto investito dalla Segreteria: -9% in un anno, -20% dal lancio, rispetto a +4% e +20% di un fondo comparabile. Il rapporto contiene nel dettaglio tutte le partecipazioni: la banca genovese in crisi; Tas, gruppo di pagamenti digitali; Retelit, società di telecomunicazioni che gestisce 12 mila chilometri di fibra ottica e ha tra i clienti il governo Usa. Tutte scalate da Mincione con soldi del Vaticano, come lui stesso ha rivelato il 13 ottobre al Corriere . Una storia ripresa ieri dal Financial Times. In particolare è dagli inizi del 2018 che il fondo Athena si muove in tandem su Carige, dove Mincione sfida la famiglia Malacalza per il controllo, e su Retelit. Su quest' ultima, lo scontro per la conquista del consiglio di amministrazione, attraverso la società Fiber 4.0, vede contrapposta Athena a un gruppo di investitori istituzionali con al centro la società statale libica Lptic (Libyan Post Telecommunications). I libici erano arrivati al 24% stringendo un patto con il fondo tedesco Axxion gestito da Shareholder Value Management. All' assemblea del 27 aprile Mincione viene sconfitto. Tuttavia, per fermare gli avversari, il 20 aprile il finanziere aveva presentato un esposto al governo Gentiloni: chiedeva che Palazzo Chigi dichiarasse la rilevanza strategica di Retelit usando i poteri speciali («golden power»), nella speranza di far decadere il nuovo cda. La battaglia legale proseguì dopo l' assemblea. Ed è qui che interviene l' avvocato Giuseppe Conte. Il 14 maggio emette un parere per Fiber 4.0 in cui sostiene che il golden power si può applicare a Retelit e che quindi andava comunicato al governo il passaggio del controllo ai libici. La settimana dopo, il 21, Conte è proposto premier da Movimento 5 Stelle e Lega. Per quel parere, a quanto risulta, Conte presentò una fattura da 15 mila euro il 29 maggio. Il 7 giugno, con il premier che si astiene, il neonato esecutivo riconosce Retelit come «strategica». Una coincidenza? «Abbiamo chiesto un parere a uno studio legale, che purtroppo aveva scritto un' opinione che non andava nella nostra direzione», ha spiegato a gennaio Mincione al Corriere . «Quindi ci ha suggerito il nome di un avvocato che aveva la nostra stessa scuola di pensiero. Era quello di Conte, che non era ancora nessuno. Io non l' ho mai incontrato, non lo conosco, non gli ho mai dato un incarico, lo ha fatto uno dei miei collaboratori». Ieri il presidente del Consiglio ha spiegato che anche l' Antitrust ha riconosciuto, il 23 gennaio, di non ravvisare «conflitti di interesse» e ha detto di non conoscere Mincione. Athena in Retelit aveva investito 5 milioni. A settembre il valore era sceso a 2,87 milioni, anche per il vincolo apposto dal governo. Una perdita che ha pesato nella rottura tra Mincione e Vaticano.

Cosa sostiene il Financial Times sulla consulenza di Conte a Fiber 4.0. Secondo il quotidiano inglese il premier avrebbe lavorato per una società al centro di un'inchiesta del Vaticano. Barbara Massaro il 28 ottobre 2019 su Panorama. "Nel maggio 2018 il primo ministro italiano Giuseppe Conte è stato ingaggiato per una consulenza legale dal gruppo Fiber 4.0. il cui principale investitore è l'Athena Global Opportunities Fund, fondo sostenuto interamente per 200 milioni di dollari dal Segretariato di Stato Vaticano e gestito da Raffaele Mincione". Così scrive il Financial Times che, nella sua edizione online, riporta alla cronaca una vicenda di cui si era già parlato all'epoca dei fatti.

I fatti. Secondo il quotidiano della City l'attuale Premier, poco prima della sua nomina a capo del governo, sarebbe stato incaricato - in qualità di consulente esterno - di fornire un parere legale circa la possibilità che il fondo Fiber 4.0 potesse ribaltare l'esito dell'acquisizione della società di telecomunicazioni Retelit, società che possiede 8.000 chilometri di fibra ottica in tutta Italia. Conte, in quell'occasione, avrebbe detto che l'unico modo di rovesciare la votazione sarebbe stato l'intervento del governo che avrebbe potuto applicare la cosiddetta golden power su Reteil. La golden power è lo strumento che permette all’esecutivo di imporre a società ritenute strategiche di seguire particolari orientamenti o di fare certe scelte piuttosto che altre. Era il 14 maggio e meno di un mese dopo Conte sarebbe stato chiamato a guidare il governo.

Conflitto d'interesse sì o no? I primi che avevano parlato del possibile conflitto d'interesse del premier erano stati i giornalisti di Repubblica, ma, proprio come avvenuto oggi, l'ufficio di gabinetto del capo del governo ha respinto l'accusa di conflitto d'interessi e in una nota Palazzo Chigi spiega: "Nei primi giorni del maggio 2018 l'allora avvocato Conte ha ricevuto dalla società Fiber 4.0 l'incarico di scrivere un parere pro veritate circa il possibile esercizio, da parte del governo, dei poteri di golden Power nei confronti della società Retelit. In quel momento, ovviamente, nessuno poteva immaginare che, poche settimane dopo, un governo presieduto dallo stesso Conte sarebbe stato chiamato a pronunciarsi proprio sulla specifica questione oggetto del parere". E poi la nota prosegue: "Per evitare ogni possibile conflitto di interesse, il presidente Conte si è astenuto anche formalmente da ogni decisione circa l'esercizio della golden Power. In particolare non ha preso parte al Consiglio dei Ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stato deliberato l'esercizio dei poteri di golden Power), astenendosi formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione. Si fa presente che in quell'occasione il presidente conte era impegnato in Canada per il G7. Pertanto non esiste nessun conflitto di interesse, rischio questo che peraltro era già stato paventato all'epoca da alcuni quotidiani. La circostanza era stata già chiarita e, in particolare, era stato già chiarito che Conte non ha mai incontrato né conosciuto il sig. Mincione". Mincione, interpellato dal FT, avrebbe, inoltre, specificato che la golden power non "gli ha fatto perdere nè guadagnare neppure un euro" e che il fatto che Conte fosse il nuovo capo del governo è stata solo una "fortuna".

I legami con la corruzione in Vaticano. L'aspetto su cui, però, ora il Financial Times insiste è il fatto che la società che avrebbe pagato Conte sarebbe stata finanziata da un fondo che sarebbe al centro di un'indagine sulla corruzione in Vaticano. Secondo il giornale, infatti, il denaro con cui Mincione si era imposto in Fiber 4.0, si parla di circa 200 milioni di euro, sarebbe provenuto dalla segreteria di Stato del Vaticano. La polizia vaticana già da ottobre è al lavoro su questa inchiesta e al momento ben 5 dipendenti sono già stati sospesi per cercare di capire se e chi ha sottratto illecitamente milioni di euro alle casse vaticane per investirli in maniera azzardata. In merito a questo aspetto della vicenda palazzo Chigi ha così commentato: "Quanto ai fatti riferiti dal Financial Times si precisa che Conte ha reso solo un parere legale e non era a conoscenza e non era tenuto a conoscere il fatto che alcuni investitori facessero riferimento ad un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano e oggi al centro di un'indagine".

Ecco la fattura per la consulenza di Giuseppe Conte: per il premier compenso di 15 mila euro. La parcella per il parere legale in merito alla tentata scalata del finanziere Mincione alla società Retelit. Il saldo inviato due giorni prima che il professore diventasse presidente del Consiglio. Il Vaticano non sta effettuando alcuna investigazione sull'incarico professionale. L'indirizzo della fattura è lo stesso di quello dello studio di Alpa. Emiliano Fittipaldi 29 ottobre 2019 su L'Espresso. La fattura firmata da Giuseppe Conte alla Fiber 4.0 di Raffaele Mincione è del 29 maggio 2018. Il professore (che sarebbe diventato premier incaricato solo due giorni dopo) due settimane prima aveva infatti consegnato un parere pro veritate scritto per la spa del finanziere che stava tentando di conquistare il controllo di Retelit, e ora spediva il conto della consulenza. Un compenso da 15 mila euro tondi tondi, a cui aggiungere 3.436 euro di spese generali, più la quota della Cassa degli avvocati e l'Iva. L'oggetto della fattura è coerente con il parere di sette pagine inviato a Mincione il 14 maggio 2018: «Saldo dei compensi per la redazione del parere sulla valutazione dell'assunzione, da parte di Libyan Post Telecommunications information Technology Company, del controllo su Retelit Spa all'esito dell'assemblea del 27 aprile 2018 e sulla eventuale violazione degli obblighi stabiliti in materia di golden power». L'Espresso pubblica il documento per fare chiarezza sull'entità del compenso ottenuto da Conte, dopo che la vicenda – già nota – è stata risollevata due giorni fa dal Financial Times. La perizia di Conte a favore della Fiber 4.0 di Mincione era stata infatti già svelata da Repubblica quasi in diretta a maggio del 2018. In quei giorni delicatissimi per il Paese e per la sua carriera politica, il futuro presidente del Consiglio continuava (peccando forse sul piano dell'opportunità) a fare l'avvocato. E a incassare (seppur modeste) parcelle da clienti importanti. Tra questi, c'è Mincione. Che da tempo stava combattendo una battaglia per il controllo della Retelit, azienda strategica che gestisce cavi in fibra ottica per 12.500 chilometri in molte città italiane. I suoi avversari sono proprio i libici di Lptic, una società statale, e quelli di Axxon, fondo teutonico gestito da Shareolder Value Management che con i libici ha stretto un accordo di ferro. Nell'assemblea citata da Conte, quella del 27 aprile, Mincione viene messo sotto, e non riesca a prendere il controllo del cda. Tenta così un'ultima carta: ottenere dal governo italiano, allora presieduto da Paolo Gentiloni, di considerare Retelit un'azienda strategica per gli interessi nazionali. In quel caso, l'esecutivo avrebbe potuto usare la sua golden power e fare decadere il cda appena insediato, riaprendo così la partita per il controllo. Come ha evidenziato Valentina Conte su Repubblica, la battaglia viene combattuta anche a colpi di consulenze tecniche. Mincione chiede aiuto a Conte, che di fatto spiega nel suo parere come i rivali del suo cliente avrebbero compiuto un'omissione grave: quella di non comunicare al governo italiano che la loro compagine – con dentro i libici – aveva ormai il controllo di Retelit. Le accuse di conflitto d'interesse per Conte, di cui hanno poi parlato diffusamente quasi tutti i quotidiani italiani per mesi, scattano poi il 7 giugno, quando il governo (in una seduta in cui il neo premier Conte si astenne) decise di considerare Retelit come “azienda strategica” e di esercitare la golden power. Esattamente come aveva suggerito il parere pro veritate dell'avvocato di Volurara Appula. Come mai, dunque, l'esterofila stampa italiana ha rilanciato in grande stile il pezzo del Financial Times? Perché il quotidiano tedesco, riprendendo altri scoop dell'Espresso in merito al fondo vaticano da 147 milioni di euro gestito da Mincione ed usato per comprare un palazzo nel centro di Londra (un business finito nel mirino della magistratura della Santa Sede), ha ricordato come Fiber 4.0 di Mincione usasse anche denaro del fondo lussemburghese della segreteria di Stato, l'Athena Capital Global Opportunities Fund. Mischiando le due storie, e piazzando nello stesso titolo Conte, Vaticano e il fondo di Mincione, l'effetto – soprattutto in concomitanza della notte delle elezioni umbre – è così assicurato. Il Financial Times si spinge a scrivere che il collegamento tra Conte e Mincione su Retelit (già svelato dallo stesso Mincione in un'intervista a un quotidiano) «probabilmente attirerà un ulteriore esame sull'attività finanziaria della Segreteria di Stato». In realtà se da un lato il premier, che fattura la consulenza a Fiber 4.0, poteva ovviamente non sapere nulla di Athena e dell'origine «sacra» dei suoi fondi, dall'altro i promotori di Giustizia – risulta a chi vi scrive - non hanno alcun interesse investigativo verso le consulenze fatte a professionisti dalle varie società in cui ha investito il fondo lussemburghese. Tantomeno ai 15 mila euro di Conte. L'intento dei pm del papa, come ha scritto l'Espresso, è quello di verificare se dietro il grande business immobiliare effettuato a Londra (con i denari dell'Obolo di San Pietro in teoria destinati alla beneficenza, ma gestiti con opacità e mancanza di etica dalla Segreteria di Stato) si nascondano reati come corruzione, abuso d'ufficio, riciclaggio e peculato. Detto questo, la fattura di Conte a Mincione ripropone ancora una volta – grazie all'indicazione dell'indirizzo dello studio romano del premier, a Piazza Benedetto Cairoli 6 a Roma – la questione dei rapporti tra Conte e Guido Alpa. Cioè il giurista e avvocato maestro di Conte che ha studio nello stesso palazzo, e che ha seguito la carriera dell'amico negli ultimi lustri. Un nome, quello di Alpa, che appare direttamente o indirettamente nei concorsi universitari vinti da Conte. Senza scordare che il mentore è stato – anche lui – avvocato di Mincione. Stavolta nell'affaire di Carige, la banca genovese che il finanziere italo-londinese ha provato ha scalare nel settembre del 2018. Il legame tra Alpa, Conte e Mincione finì già un anno fa in un'interrogazione parlamentare del Pd.  «Perché ho scelto Guido Alpa per il dossier Carige? Era la persona più giusta per lavorare con noi visto che era stato consigliere della banca, da cui si era dimesso denunciando tante cose sbagliate” spiegò Mincione mesi fa. «Mi spiace leggere di questa assurda strumentalizzazione politica».

Claudio Antonelli per “la Verità” il 29 ottobre 2019. Domenica sera il quotidiano della City, il Financial Times, spara ad alzo zero sul premier. Titola così l' articolo: «Il presidente del Consiglio italiano collegato a un fondo sotto indagine in Vaticano». Nel testo si spiega che nel maggio del 2018, Giuseppe Conte riceve l' incarico di elaborare un parere pro veritate a favore di Fiber 4.0, un gruppo impegnato a scalare Retelit, una compagnia di tlc italiana. Il principale investitore della Fiber 4.0 era il fondo Athena global opportunities, gestito da Raffaele Mincione e finanziato dalla segreteria di Stato vaticana. La gendarmeria d' Oltretevere un mese fa ha aperto un' inchiesta perché lo stesso fondo ha gestito 200 milioni finiti in un immobile di lusso a Londra. La notizia del Financial Times non è per nulla uno scoop. E qui sta probabilmente la notizia. Ce ne eravamo già occupati noi della Verità. Raffaele Mincione, inoltre, intervistato dal Corriere, ha confermato i link tra Athena e il Vaticano e persino il tema della consulenza rilasciata da Conte a Fiber 4.0 era già stata oggetto di una interrogazione parlamentare firmata dal Pd. Il partito che oggi tace, dovendo sostenere il Conte bis. Sparare, però, a pallettoni potrebbe avere un senso per l' Ft perché la notte di domenica non era una notte qualunque. Erano in corso le elezioni in Umbria e Conte ci ha messo la faccia. Il primo a commentare sui social l' articolo del Ft è stato un altro finanziere. Si chiama Davide Serra , anche lui, come Mincione, è ormai anglofono ma soprattutto è molto vicino a Matteo Renzi, che in questi giorni bramerebbe per sganciare qualche bomba mediatica nell' ufficio del premier, e vederlo in difficoltà e magari dimissionario. Infatti, rilanciare il tema ha imposto a Conte ben due note. La prima diffusa la sera della pubblicazione. Nella quale Palazzo Chigi spiega che al momento del parere non si poteva sapere che Conte sarebbe divenuto premier e tanto meno che in uno dei primi Cdm si sarebbe dovuto occupare della scalata a Retelit esercitando il golden power. «In particolare, Conte non ha preso parte al consiglio dei ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stato deliberato l' esercizio dei poteri di golden power), astenendosi», si legge nella stessa nota, «formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione». Ieri sera Palazzo Chigi è tornato sul tema, ribadendo che non ci fu alcun conflitto d' interessi, come ha certificato il Garante della concorrenza lo scorso 24 gennaio. «Ho fornito all'autorità tutte le informazioni richieste, unitamente ai necessari riscontri documentali, dimostrando in particolar modo la mia astensione (formale e sostanziale) a qualsiasi decisione relativa a Retelit, e ribadendo di non aver mai conosciuto o avuto contatti con i vertici societari di Fiber 4.0 (e specificamente con il signor Mincione)». Sembra di capire che la mossa del Ft possa proprio essere mirata a ciò. Far finire sul tavolo alcuni dettagli in più in una giornata delicata come quella di oggi. Il Copasir si riunirà per sentire Gennaro Vecchione direttore del Dis, a cui verrà chiesto di rispondere alle medesime domande rivolte la scorsa settimana a Conte sul tema dello spygate. Ma a quanto risulta alla Verità si discuterà anche di 5G, e delle scelte del governo di estendere le norme in tema (vedi primo Cdm del Conte bis): c' è quindi il rischio concreto che anche il dossier Retelit finisca sul tavolo del Copasir. A quel punto bisognerà capire se c' era la necessità di applicare a tutela della società di tlc Retelit lo «scudo» della sicurezza nazionale e se ciò, da un punto di vista politico (non tecnico), abbia implicato un conflitto d' interessi. Il golden power serviva a blindare l' azienda dagli stranieri. Ma chi erano gli stranieri? I libici tedeschi che già ne detenevano il controllo o la società finanziata dal fondo inglese gestito da Mincione? Il tentativo di scalata da parte del finanziere amico del Vaticano non è andato in porto. All' assemblea del 2018 gli sono mancate le quote per portare a termine il progetto. Ma resta ancora da capire quale fosse lo schema. Perché quella mini Telecom che ha cavi sottomarini che collegano gli Usa al Medioriente è così importante da imporre il golden power? Una domanda che oggi potrebbe essere posta a Vecchione. In quella scatola sono passati segreti così delicati anche per l' intelligence Usa, tanto da creare pericolose connessioni con i temi su cui il Copasir indaga? Vi è una terza domanda che invece andrebbe posta direttamente a Conte. Quando dice che non ha mai avuto contatti con i vertici di Fiber 4.0, che cosa intende? Chi gli ha chiesto il parere? Il socio Alberto Pretto? O «nessuno dei vertici», come dice lui? In tal caso dovremmo pensare che a girare all' avvocato Conte la pratica sia stato Guido Alpa? Quest' ultimo non avrebbe potuto esprimersi su Retelit in quanto legale di Carige, banca all' epoca sotto schiaffo dallo stesso Mincione. Ciò aprirebbe nuovi fascicoli, estranei al Copasir. Significherebbe che Conte e Alpa lavoravano nello stesso studio, eventualità già negata dal premier (Alpa dichiarò Conte idoneo all' insegnamento) e aprirebbe un' enorme voragine che riguarda Carige, istituto cui Conte si è più volte interessato.

QUEL CONFLITTO D’INTERESSI DEL PREMIER CONTE SU RETELIT. IL GOVERNO ESERCITA I POTERI SPECIALI. Carlo Festa per carlofesta.blog.ilsole24ore.com dell'8 giugno 2018. Sul primo passo del nuovo governo del neo premier Giuseppe Conte in ambito finanziario e Tlc, c’e’ l’ombra di un possibile conflitto d’interesse. Ma vediamo i fatti. Il nuovo Governo guidato da Giuseppe Conte ha deciso di esercitare la golden power su Retelit, che in Borsa oggi cede oltre il 4%. Lo ha deliberato il Consiglio dei Ministri che si è riunito nella serata di ieri sotto la presidenza del vice presidente Matteo Salvini. Nel dettaglio, l’esecutivo ha stabilito di “esercitare i poteri speciali con riferimento alla modifica della governance di Retelit derivante dall’assemblea dei soci del 27 aprile 2018, mediante l’imposizione di prescrizioni e condizioni volte a salvaguardare le attività strategiche della società nel settore delle comunicazioni”. Nell’assemblea del 27 aprile è stato nominato il nuovo cda del gruppo tlc, con la conferma dei precedenti vertici: la lista che ha conquistato la maggioranza dei voti, battendo la Fiber 4.0 (cordata guidata dal finanziere Raffaele Mincione), era sostenuta dai libici di Bousval (Lybian Post Telecommunications) e dai tedeschi di Axxion, sotto il coordinamento di Shareholder Value Management (Svm). Ma il conflitto d’interessi dell’avvocato Conte è dietro l’angolo. Come ricostruito da Radiocor – proprio il premier Giuseppe Conte, meno di un mese fa (lo scorso 14 maggio), nell’esercizio della propria professione di avvocato aveva formulato un parere per la Fiber 4.0 (cioè la cordata perdente guidata dal finanziere Raffaele Mincione) sull’assunzione del controllo dei libici nell’assemblea del 27 aprile e sull’eventuale violazione degli obblighi stabiliti in materia di golden power. La conclusione? Perlomeno alla data dell’assemblea i libici avrebbero dovuto notificare, come previsto dalla disciplina della golden power, l’assunzione del controllo di Retelit poichè quest’ultima detiene asset strategici. Per questo, sempre secondo Conte, la delibera assembleare e le successive delibere del cda neo-eletto sono da considerarsi nulle. Ora, non entrando nel merito tecnico-giuridico della vicenda, suona alquanto strano che un governo, come prima decisione in tema di finanza e come prima mossa nel mondo delle Tlc, eserciti un potere speciale su una vicenda dove il proprio premier era coinvolto fino a un mese fa (per conto della cordata perdente) da professionista e dove aveva pure percepito un compenso. Infatti Fiber 4.0 aveva segnalato alla Presidenza del Consiglio che Bousval, Axxion e SVM hanno compiuto un’omissione, grave a parere di Fiber 4.0, non comunicando al governo italiano di avere ormai il controllo di Retelit. Nella battaglia a colpi di consulenze, l’avvocato Conte ha stilato il parere pro veritate e supportato le ragioni di Fiber 4.0: a suo dire, l’obbligo di notifica, come prevede la legge, alla Presidenza del Consiglio dei ministri c’era eccome, proprio in ragione del passaporto libico della Bousval. Lo stesso Conte avvertiva che il governo avrebbe potuto sanzionare la mancata comunicazione sul nuovo assetto di controllo di Retelit, ricordando anche che “in casi eccezionali di rischio (…) il Governo può opporsi, sulla base della stessa procedura, all’acquisto”. Nel frattempo la replica del Cda non è tardata ad arrivare. Dopo la decisione del Governo di esercitare la golden power su Retelit, quest’ultima – attraverso una nota – precisa integralmente le disposizioni del decreto del Consiglio dei Ministri. Nel dettaglio, le condizioni e prescrizioni nei confronti di Retelit prevedono innanzitutto “garantire la continuità del servizio e la funzionalità operativa della rete, assicurandone l’integrità e l’affidabilità, attraverso adeguati piani di manutenzione e sviluppo”. In secondo luogo “assicurare l’elaborazione di programmi industriali e l’impiego di adeguati investimenti che garantiscano lo sviluppo e la sicurezza delle reti”; in terzo luogo “tutelare tramite idonei strumenti e strutture organizzative aziendali, la sicurezza fisica e logica della rete su tutto il territorio nazionale al fine di garantire la piena operatività”. Infine “mantenere stabilmente sul territorio nazionale le funzioni di gestione e sicurezza delle reti”. Al proposito, Retelit rende noto che “le condizioni e prescrizioni sopra menzionate riguardano attività che vengono già regolarmente svolte dalla società nello svolgimento della propria attività ordinaria, la quale è altresì titolare di certificazioni nazionali ed internazionali”. Di conseguenza, la società ritiene che “l’applicazione delle predette misure non comporterà costi e investimenti aggiuntivi ne’ restrizioni di carattere operativo e/o commerciale rispetto a quanto considerato nel piano industriale”. Insomma, sono già osservate prescrizioni in tema di Golden power.

RETELIT, LA GUERRA COL GOVERNO E LA SFIDA DI MINCIONE. Luigi Pereria per startmag.it del 14 giugno 2018. Guerra legale fra Retelit e governo che si affianca alla disfida finanziaria tra azionisti di maggioranza e socio di minoranza (Mincione) sempre scalpitante.

Ecco le ultime novità.

CHE COSA HA DECISO IL CDA DI RETELIT. Il consiglio di amministrazione di Retelit ieri ha deliberato di “dare mandato ai propri legali di impugnare nelle competenti sedi giurisdizionali il provvedimento dello scorso 7 giugno 2018 con il quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri – a seguito della notifica effettuata in via meramente prudenziale e cautelativa dalla Società successivamente all’assemblea ordinaria degli azionisti tenutasi 27 aprile – ha esercitato i poteri speciali previsti dall’articolo 2 del c.d. Decreto Golden Power”. La società conferma, inoltre, quanto già reso noto al mercato con il proprio comunicato dell’8 giugno e cioè che l’adozione del provvedimento non comporta in ogni caso per il Gruppo Retelit costi o investimenti sulla rete ulteriori rispetto a quelli già programmati nell’esercizio della propria attività, né mutamenti o restrizioni della strategia operativa e commerciale delineata nel piano industriale del Gruppo.

COSA FA LA SOCIETÀ. L’infrastruttura in fibra ottica di Retelit al 31 marzo 2018 si sviluppa per circa 12.500 chilometri (equivalente di circa 231.000 km di cavi in fibra ottica), di cui 68.000 km situati in MAN) e collega 9 Reti Metropolitane e 15 Data Center in Italia, inclusa la Cable Landing Station di Bari. Con circa 3.583 siti On-Net, di cui 2.371 siti cliente, 710 torri di telecomunicazione, 447 cabinets e 40 Data Center raggiunti, la rete di Retelit si estende, inoltre, anche oltre i confini nazionali con collegamenti ai maggiori PoP europei, inclusi Francoforte, Londra, Amsterdam e Parigi.

CHE COSA È SUCCESSO NELL’ASSEMBLEA DI RETELIT. Nell’assemblea del 27 aprile è stato nominato il nuovo cda del gruppo tlc, con la conferma dei precedenti vertici: la lista che ha conquistato la maggioranza dei voti, battendo la Fiber 4.0 (cordata guidata dal finanziere Raffaele Mincione presente nell’azionariato anche di Banca Carige), era sostenuta dai libici di Bousval (Lybian Post Telecommunications) e dai tedeschi di Axxion, sotto il coordinamento di Shareholder Value Management (Svm). In sostanza, l’assemblea non capisce il motivo di cambiare il management che porta in dote il primo dividendo della storia della società: la lista della continuità ottiene il consenso del 42% del capitale, la cordata sfidante si ferma al 24%.

LA DECISIONE DEL GOVERNO CONTE. Il nuovo governo M5S-Lega guidato da Giuseppe Conte ha deciso di esercitare la golden power su Retelit, come ha deciso la scorsa settimana il consiglio dei ministri. Infatti l’esecutivo ha stabilito di “esercitare i poteri speciali con riferimento alla modifica della governance di Retelit derivante dall’assemblea dei soci del 27 aprile 2018, mediante l’imposizione di prescrizioni e condizioni volte a salvaguardare le attività strategiche della società nel settore delle comunicazioni”.

I DETTAGLI DELLA DECISIONE DEL GOVERNO. Il 7 giugno, col nuovo inquilino di Palazzo Chigi in volo per il G7, la Presidenza del consiglio emana il decreto che applica a Retelit il golden power, dichiarandone strategiche le attività. Ma attiva l’articolo 2 della legge (non l’articolo 1 su difesa e sicurezza nazionale) che prescrive adempimenti ai quali la società dice già di non sottrarsi. Siccome – secondo le indiscrezioni di mercato – i legali di Mincione studiano tra le pieghe del decreto come riaprire la partita, il cda Retelit – come detto – ieri ha deciso comunque di ricorrere per via legale.

LA POSIZIONE DOPPIA DELL’AVVOCATO E PREMIER CONTE. Va anche ricordato che – come ricostruito nei giorni scorsi da Radiocor – proprio il premier Conte, meno di un mese fa (lo scorso 14 maggio), nell’esercizio della propria professione di avvocato aveva formulato un parere di parte (e non pro veritate) per la Fiber 4.0 sull’assunzione del controllo dei libici nell’assemblea del 27 aprile e sull’eventuale violazione degli obblighi stabiliti in materia di golden power. Ma il presidente del Consiglio Conte con la golden power ha preso una decisione diversa dalla posizione assunta dall’avvocato Conte.

LO STATO DELL’ARTE. Quali erano e quali sono dunque le mire del finanziere? Mincione, in altri termini, ha provato invano a fermare il voto agitando lo spettro del golden power per congelare i libici e sventolando i pareri legali di Gianni-Origoni e di Giuseppe Conte, che ancora nessuno immaginava sarebbe diventato il futuro premier. Il nuovo cda – con i libici e Ferrari – conferma Pardi e Protto e per precauzione notifica il “cambio di governance” a chi di dovere.

SCENARI E PROSPETTIVE SECONDO IL SOLE 24 ORE. Scrive oggi il Sole 24 Ore in un articolo di approfondimento a cura di Antonella Olivieri: “Nel frattempo il titolo è sceso sotto 1,7, Fiber 4.0 ha in carico la quota a 1,75 euro, finanziata almeno in parte a debito secondo il tam tam di Borsa. A fine anno scade un’opzione per rilevare un ulteriore 3,5%. Intanto però a settembre potrebbe aprirsi il data room di BT Italia, che la cordata Mincione aveva messo nel mirino, tant’è che all’inizio al posto di Talotta aveva pensato a Corrado Sciolla, l’presidente per le attività europee dell’operatore britannico. Pure Retelit è interessata, ma l’ad Protto pensa anche a come sviluppare il business, ipotizzando una collaborazione con Sparkle (al cui timone è tornato Riccardo Delleani) per servizi da offrire in comune alle aziende, laddove affiora il cavo sottomarino, e diventare così competitivi con le aree del Mediterraneo – vedi Marsiglia – che si sono già attrezzate. L’idea insomma è di costruire il “terminal” intorno alla pista di atterraggio. In campo anche Irideos, il polo dei servizi corporate di F2i, che a BT Italia guarda, a Retelit non più perchè un’Opa sarebbe troppo onerosa. Domani, chissà, se ci sarà la società della rete, magari anche piccola e grande Telecom potrebbero finire sotto lo stesso tetto. Ma è una prospettiva di anni e a Retelit, nel frattempo, potrebbe ancora succedere di tutto”.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 28 ottobre 2019. Esistono intercettazioni che rassicurerebbero sull' intervento di Giuseppe. Premetto che l'ombra del conflitto di interesse sull'operato dell'avvocato Giuseppe Conte, divenuto presidente del Consiglio all'inizio di giugno del 2018, c'è sempre stata, ora l'ombra si è fatta corposa perché è entrata di prepotenza nella devastante, micidiale inchiesta sulle finanze perdute del Vaticano.  Sono i soldi dell'obolo di San Pietro, quelli proditoriamente utilizzati per rischiosi investimenti, a volte persino per investimenti inesistenti, insomma, utilizzati con disinvoltura, i soldi dei fedeli. Così i vari filoni dell'inchiesta alla fine tornano a essere uno. Su Dagospia ve ne abbiamo parlato per primi, ma qui nessuno rivendica diritti di primogenitura o di scoob. È un puzzle complicato, una storia terribile, per quanto riguarda il Vaticano, cominciata nel 2012 con la Costituzione della Commissione Cosea voluta da Bergoglio per far luce su investimenti opachi. Allora rischiò la pelle e la reputazione chi nella commissione prese sul serio il compito ricevuto, e segnalò quel che non andava; oggi che l'inchiesta è andata avanti, anche perché certe casse sono vuote, è più difficile il tentativo di coprire le vere responsabilità, anche se per ora a pagare è stato ancora una volta un capro espiatorio, il comandante della gendarmeria, Giani, allontanato per fuga di notizie. Nello scandalo però rischia di entrare anche l'Italia, un po' come sta accadendo con il Russiagate di quelli che tramarono per non fare eleggere Donald Trump. Lì come in questo caso ci sarebbero state interferenze. Se l'inchiesta di Washington va avanti spedita perché questo è lo stile del presidente americano, qui tutto era stato messo sotto traccia, nonostante inchieste giornalistiche e nuove pubblicazioni di libri, prima dell'articolo del Financial Times che tira pesantemente in ballo Giuseppe Conte, il quale ha svolto una consulenza legale per il finanziere Mincione che ora è finita nell'inchiesta per corruzione del Vaticano. Sono 200 milioni di euro messi sul tavolo da Mincione per prendersi Retelit, che erano in realtà della Segreteria di Stato. Conte firma il suo parere il 14 maggio del 2018, dopo le elezioni vinte dai 5 stelle e quando era già in predicato di diventare ministro della Pubblica Amministrazione. Quindici giorni dopo diventò presidente del Consiglio invece, ed in quella veste ha esercitato il Golden Power su Retelit, come serviva al suo cliente Mincione. E ora? Il Vaticano potrebbe a questo punto decidere due cose:

1 . Chiedere che si indaghi sulla buona fede di Conte nell'esercizio della Golden Share.

2. Sostenere la correttezza del comportamento, a seguito delle intercettazioni che sarebbero nelle mani degli inquirenti vaticani e che sembrano confermare che il premier fosse a conoscenza dell'importanza dell'esercizio della Golden share anche per gli interessi della Santa Sede.

Infine, si dice oltretevere, impossibile pensare che il premier non fosse a conoscenza del fatto che i soldi di Retelit e quindi di Atena provenivano da investimenti vaticani. Qualche aggiunta per la comprensione della complicata questione.

I soldi dell’Obolo di San Pietro sono quelli che i fedeli donano alla Santa Sede per l’evangelizzazione, le necessità della Chiesa e il soccorso ai poveri. Raffaele Mincione è un uomo d'affari molto audace e astuto che si è piazzato a Londra e ha fatto il primo investimento immobiliare audace accaparrandosi una proprietà per meno della metà del suo valore. Nel 2012, fonda una società registrata nell’isola di Jersey chiamata 60S. Secondo il Financial Times, ottiene un prestito di 75 milioni da Deutsche Bank e per 129 milioni di sterline compra un palazzo al 60 di Sloane Avenue, che intende trasformare  in un condominio di lusso. Gli serve un socio e a quanto pare conosce bene quello che era allora Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Della Prima sezione della Segreteria è responsabile il Sostituto Angelo Becciu, che vuol investire 200 milioni di dollari in una società angolana, Falcon Oil, che ha il 5% dei diritti per costruire una piattaforma petrolifera offshore con Eni e Sonangol.  Mincione e rappresentanti del Vaticano si incontrano a Londra al Credit Suisse,istituto che  gestisce da tempo il tesoro della Segreteria di Stato, formato , vale la pena ricordarlo, prevalentemente dall’Obolo di San Pietro. Alla fine il progetto in Africa non si fa, Mincione dirotta gli investitori sul suo progetto immobiliare a Londra, per il quale viene creato un fondo.  La Segreteria di Stato compra il 45% della proprietà dell’immobile  attraverso il suo investimento nel fondo Athena Global Opportunities, gestita dalla Wrm di Mincione, che a sua volta ne detiene la maggioranza. La Segreteria di Stato è perciò l’unico investitore del fondo Athena. Quando arrivano le licenze nel 2016, è arrivata anche la Brexit, e il mercato immobiliare come la sterlina sono andati giù pesantemente. Non a danno di Mincione, il quale in un'intervista al Corriere della Sera ha spiegato che incassa in commissioni il 2%.  16 milioni in tutto. Inoltre: dei 147 milioni di euro investiti dal Vaticano, 80 sono finiti nel palazzo, circa 65 in altro del fondo. Sono denari che fanno comodo a Mincione per finanziare alcuni progetti. Il fondo Athena compare nelle incursioni in Carige, Retelit (comunicazioni) e Tas (pagamenti digitali). In Vaticano sapevano? “Tutto”, risponde Mincione al Corsera. E tutto è trasparente e legittimo. Secondo lui. Nel 2018 intanto è cambiato il Sostituto in Vaticano. A Becciu succede il venezuelano Edgar Peña Parra, assai poco convinto del' affare, che.  decide di acquistare tutto l’immobile e uscire da Athena. Sceglie anche un intermediario, Enrico Crasso, per vigilare sugli investimenti del fondo, che però non dura perché non va d'accordo con Mincione. Per riuscire ad entrare in possesso dell’intero immobile, la segreteria di Stato accende un mutuo da 130 milioni con due società lussemburghesi. Mincione si tiene gli investimenti finanziari. Per uscire da Athena, il Vaticano gli riconosce un conguaglio di 44 milioni. Per il mutuo  la Segreteria di Stato chiede 150 milioni allo Ior. La richiesta insospettisce il direttore Mammì, che infatti nel luglio scorso denuncia l’operazione. Anche l’Ufficio del revisore vaticano si rivolge alla magistratura vaticana. È così che faticosamente si arriva alle indagini che si sommano ad altre segnalazioni più antiche, che hanno portato alle perquisizioni in Segreteria di Stato e negli uffici dell’Antiriciclaggio vaticano il primo ottobre. Fino alle ipotesi "di peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio”, ma nel prosieguo dell'approfondimento sul ginepraio anche a ipotesi di "’appropriazione indebita, corruzione e  favoreggiamento”. Se a processo, ne dovranno rispondere cinque alti dirigenti  di Segreteria e Aif . Al di là delle dichiarazioni di Mincione, che si fa gli affari suoi e sostiene che il Vaticano ci ha guadagnato, la verità è che ci ha guadagnato ufficialmente solo lui. Secondo il Financial Times 138 milioni di sterline. Quanto al Vaticano, se lo Ior non gli dai i soldi per estinguere il mutuo, 150 milioni, l'immobile di Londra finirà nelle mani degli istituti di credito lussemburghesi, e quelli perduti saranno tutti i soldi dell'obolo di San Pietro.  Condannati saranno non solo gli utilizzi disinvolti del patrimonio in investimenti che non rendono, e che dimostrano come minimo incapacità, come massimo malafede di coloro che sono incaricati, stiamo parlando di Fondi extra bilancio. Poi ci sono tutti le conseguenze dell'inchiesta. Perché un finanziere disinvolto e con poca storia come Mincione è riuscito ad arrivare tanto vicino alla Segreteria di Stato Vaticana? Ti rispondono che le entrature importanti le aveva proprio in Italia e con Giuseppe Conte, attraverso la banca Carige e il giurista Guido Alpa, maestro di Conte. E di qui il rapporto diretto con Tarcisio Bertone.

Tobia De Stefano per “Libero quotidiano” il 31 ottobre 2019. È davvero un peccato che nel maggio del 2018, due settimane prima di diventare premier, l' avvocato Giuseppe Conte non abbia avuto l' accortezza di indagare sui soggetti che si nascondevano dietro a un suo assistito, il fondo Athena. Non solo perché era suo dovere farlo - glielo imponevano le norme sull' antiriciclaggio - ma anche perché ne avrebbe scoperte delle belle. Si sarebbe reso conto per esempio che in quel momento l' unico finanziatore del fondo di Raffaele Mincione era il Vaticano, che stava "sperperando" circa 150 milioni di offerte dei fedeli per l' acquisto di un immobile a Chelsea (Londra). E magari avrebbe potuto fare pure un po' di indagine storica su quel fondo - non servivano grandi investigatori bastavano delle banali ricerche su Internet - per vedere che Athena era lo stesso strumento finanziario nel quale, qualche mese prima, aveva bruciato un bel po' di milioni la banca popolare di Vicenza. Triste storia quella del crac di Bpvi. L' istituto gestito per diciannove anni da Gianni Zonin ha mandato in frantumi le ricchezze di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno visto le azioni della banca dissolversi dai 62,50 euro a 10 centesimi. Motivi? Tanti. Dalla mancata vigilanza fino ai prestiti concessi senza controllare la reale consistenza degli beneficiari, per non parlare delle operazioni illecite. Tra le numerose vicende poco chiare c' era il meccanismo delle cosiddette operazioni baciate che ormai erano diventate la prassi. Nella sostanza Bpvi concedeva finanziamenti molto vantaggiosi a clienti "amici" che poi con una parte di quei soldi acquistavano azioni della banca. In questo modo nel bilancio dell' istituto apparivano degli aumenti di capitale dove invece nella realtà c'erano dei debiti. Scontato che un certo punto i nodi sarebbero venuti al pettine e infatti così è stato. Ecco, se il capo del governo si fosse premurato di scoprire che nella storia del fondo Athena c'era stata anche la Popolare di Vicenza forse non avrebbe prestato quel parere legale retribuito "positivo" a Fiber 4.0, società nella quale il fondo Athena di Mincione pesava per il 40%. A fine 2012 la Popolare di Vicenza - il direttore generale dell' epoca era Samuele Sorato - aveva investito 100 milioni nel fondo lussemburghese del finanziere italo-londinese. L' operazione rientrava in una politica di "diversificazione" dell' istituto di credito che prevedeva di destinare circa 450 milioni di euro in fondi speculativi. Sta di fatto che la Bce apre un' indagine sul finanziamento ad Athena - considerandolo un' operazione anomala - e che quattro anni più tardi la Popolare di Vicenza chiuderà quell' affare con una perdita di una ventina di milioni. In sostanza tornano indietro circa 80 dei 100 milioni investiti. Cosa sia stato fatto con quei quattrini non è dato saperlo. Di sicuro ci sono state anche delle operazioni immobiliari e non è da escludere che parte di quella liquidità sia servita a Mincione per comprare l' immobile londinese nel quale poi è rimasto incastrato il Vaticano. Insomma tutto torna, tranne il comportamento di Conte prima da avvocato e poi da premier. Da legale, infatti, nel rispetto delle norme sull' antiriciclaggio, avrebbe dovuto sapere chi erano i principali quotisti del fondo Athena a cui stava prestando un parere pagato 15 mila euro. Da premier, invece, avrebbe dovuto evitare che tre settimane dopo quel parere il suo governo autorizzasse il golden power su Retelit, proprio in conformità a quello che lui aveva consigliato a Mincione e compagni. Conte si giustifica evidenzindo che non ha partecipato al Cdm incriminato perché era in Canada.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 30 ottobre 2019. Sono andato a rivedermi una vecchia puntata di DiMartedì, il programma di Giovanni Floris in onda su La 7. Nel talk show di prima serata, il 28 febbraio dello scorso anno, Luigi Di Maio si presentò accompagnato da quattro aspiranti ministri. Uno era Pasquale Tridico, attuale presidente dell' Inps, un altro era Lorenzo Fioramonti, oggi ministro dell' Istruzione. Poi c'era Alessandra Pesce, sottosegretaria alle politiche agricole, e infine tra i quattro spuntò il professor Giuseppe Conte, docente all' università di Firenze e candidato a guidare la Funzione pubblica.  Il futuro capo del governo non disse grandi cose, se non di essersi avvicinato ai 5 Stelle da quattro anni, e di voler mettere al servizio del Paese la propria competenza giuridica. Tuttavia, mentre a febbraio Giuseppe Conte si diceva pronto a servire l' Italia, a maggio serviva anche un signore di nome Raffaele Mincione, ossia un finanziere impegnato in una battaglia piuttosto complicata per il controllo di Banca Carige, il principale istituto di credito della Liguria. Un servizio che, guarda caso, coincide proprio con la sua ascesa politica. Oggi, nella vicenda in cui spuntano il Vaticano e un oscuro affare milionario nella City di Londra, il premier nega di conoscere il finanziere, anche se - come vedremo - mentre stava per conquistare Palazzo Chigi firmò per lui un parere pro veritate. All'epoca del suo insediamento ai vertici della Repubblica, a denunciare il conflitto di interessi di un presidente del Consiglio al servizio di un banchiere furono proprio gli attuali alleati di Giuseppe Conte, ossia i parlamentari del Pd. Quando infatti il Consiglio dei ministri approvò in fretta e furia un decreto che introduceva misure urgenti per salvare Carige, i compagni si scatenarono. Il decreto, approvato su proposta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, fu preso di mira da Luigi Marattin, attuale capogruppo di Italia viva, il quale chiese se il premier si fosse astenuto, essendo noti i suoi rapporti «tramite il suo socio Alpa, consigliere di Carige» con la banca, e per essere stato «consulente di Mincione». Alessia Morani, altra deputata dem, pose la stessa domanda sottolineando che «Conte è stato consulente di Raffaele Mincione, banchiere socio di Carige». E Simona Malpezzi, pasdaran renziana, rincarò parlando di «strane coincidenze» e di «conflitto d' interessi». Ovviamente non poteva mancare Michele Anzaldi, il quale scomodò addirittura il presidente dell' Anac, chiedendo a Raffaele Cantone di aprire un' indagine. A scatenare la raffica di dichiarazioni degli uomini del Pd fu il rapporto che legava e lega il premier a Guido Alpa, un professore che nel curriculum di Giuseppe Conte si incontra spesso. Innanzitutto perché Alpa fa parte della commissione che promuove Conte, facendolo diventare professore ordinario. E poi perché Conte e Alpa viaggiano spesso in coppia quando c' è da firmare un parere giuridico. Prova ne sia che è lo stesso premier a scrivere che «dal 2002 ha aperto un nuovo studio legale con Alpa», anche se poi, di fronte alle contestazioni, dice di esserne stato solo coinquilino. Che fosse socio o coinquilino poco cambia, resta il fatto che Alpa è stato consigliere di Carige e consulente legale di Mincione. E qui torniamo all'inizio, ossia all' affare milionario al centro di uno scandalo raccontato anche dal Financial Times. Di mezzo ci sono i soldi dell' Obolo di San Pietro, che invece di essere investiti dal Vaticano in opere pie finiscono per essere utilizzati per spregiudicate operazioni finanziarie. Il fondo d' investimento usato per le scorribande è quello di Mincione, che guarda caso investe in Carige e in Retelit, operatore di servizi digitali e infrastrutture. E Giuseppe Conte, l' uomo che il 28 febbraio da Floris diceva di volersi mettere al servizio del Paese, in quei giorni era invece al servizio delle società dello stesso Mincione. Infatti il 14 maggio, quando già il suo nome circolava non più come ministro della Funzione pubblica, ma addirittura come presidente del Consiglio (sarà incaricato una settimana più tardi), Giuseppi firma un parere giuridico per sostenere che il governo - di cui presto farà parte - deve esercitare la golden power, cioè bloccare la cordata di azionisti avversa a quella di Mincione. E il governo, di cui nel frattempo Conte è divenuto presidente del Consiglio, poche settimane dopo esercita proprio la golden power sollecitata dal Conte avvocato di Mincione e non ancora avvocato del popolo. Tutto chiaro? Il premier dice: non conosco Mincione e non presi parte alla riunione che deliberò l' esercizio dei poteri su Retelit, ma così il capo del governo si nasconde dietro a un dito, perché non basta uscire dalla stanza per raccontare che non esiste conflitto d' interessi. La realtà è che credo sia giunta l'ora che Giuseppi ci racconti bene i suoi rapporti con Guido Alpa, con il Vaticano e anche con alcune delle operazioni di cui abbiamo parlato in queste settimane. Non ci basta più il racconto del professore arrivato dalla Puglia e riuscito ad arrivare in alto: vogliamo sapere chi lo aiuta nella scalata e perché. In pratica, la sensazione è che finora Conte non ce l' abbia raccontata giusta. E che su di lui ci sia ancora molto da scrivere.

·        La messa in italiano.

LA MESSA IN ITALIANO COMPIE 50 ANNI. Scrive Alberto Bobbio su Famiglia Cristiana il 06/03/2015.  Paolo VI fu il primo pontefice a celebrare la celebrazione eucaristica in lingua italiana: esattamente mezzo secolo fa, il 7 marzo 1965. Messa in italiano, la vera storia. La prima messa in lingua italiana venne celebrata da Paolo VI esattamente 50 anni fa, il 7 marzo 1965. Montini scelse per la celebrazione una parrocchia di Roma, quella di Ognissanti retta dagli Orionini. Fu una scelta altamente simbolica. Paolo Vi avrebbe potuto celebrare in Vaticano. Invece va in una parrocchia, la stessa dove adesso per ricordare l’avvenimento si reca Papa Francesco. Montini allora disse nell’omelia: “Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo” poco dopo all’Angelus ripeté che “questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico”. Paolo Vi fece quello che deliberà il Concilio con la Sacrosantum Conciluium, la prima delle Costituzioni conciliari approvata il 4 dicembre 1963 con solo 4 voti contrari e 2147 voti a favore. Resta ancora oggi il frutto più visibile e popolare del Concilio vaticano II: la riforma liturgica con l’altare girato verso l’assemblea e la Messa in italiano. Conferma mons. Pietro Martini, per anni Maestro delle cerimonie pontificie. “L’uso della lingua volgare nella Chiesa latina può essere considerato un evento fondamentale nella storia della Chiesa d’Occidente”. Marini ha tenuto una relazione storica sui cambiamenti del rito della Messa alcuni giorni fa proprio nella parrocchia dio Ognissanti dove Paolo VI celebrò la Messa 50 anni fa, nella quale ha spiegato che “l’uso della lingua parlata fa parte della teologia dell’incarnazione che esige un dialogo di comunione tra Dio e il suo popolo”. Infatti, ha precisato, “la liturgia della Chiesa di Roma nelle sue origini è stata celebrata in greco, perché era la lingua di uso corrente”. Tecnicamente la data del 7 marzo 1965 venne scelta da Paolo VI perché quel giorno entrava in vigore l’istruzione “Inter Oecumenici”, la prima istruzione di attuazione della riforma liturgica, che non prevedeva solo l’uso delle lingua volgare, ma a che altri cambiamenti nella struttura della Messa. Alcune parti continuavano ad essere pronunciate in latino e occorrerà aspettare il 1969 per avere in italiano tutto il Messale Romano. Paolo VI fece fare nei mesi precedenti la celebrazione della messa del 7 aprile alcune prove in Vaticano e il giorno dell’Epifania del 1965 a Milano (era il pomeriggio del giorno dell’Epifania) il cardinale Colombo celebrò con una speciale dispensa una messa con parti in italiano in Duomo. Ma la prima messa celebrata in italiano risale al 15 settembre 1953. Venne celebrata a Lugano alle 8 del mattino nella chiesa di san Nicolao dal cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna, in apertura del terzo Congresso liturgico internazionale che aveva proprio per tema “La partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia”. Fu anche la prima messa concelebrata, allora un modo proibito. Il Giornale del popolo, quotidiano ticinese, scrisse il giorno dopo: “Abbiamo assistito ad un rito semplice di austera bellezza con la lettura dell’epistola e del vangelo in italiano”. Alla Messa prese parte anche il cardinale Ottaviani, custode della dottrina della fede, a Lugano per il Congresso, che il giorno dopo tornò a Roma in segno di protesta. Anche Lercaro in giorno successivo non partecipò alla concelebrazione, che venne presieduta dal cardinale di Colonia Frings, che poi partecipò al Concilio e scelse come suo teologo di fiducia un giovane sacerdote Jospeh Ratzinger. L’ultima Messa di quel Congresso che venne invece concelebrata dal vescovo di Lugano mons. Angelo Jelmini. Non c’era disposizioni per celebrare parti della messa in italiane e quel rito benne ritenuto un abuso. Tanto che nella preparazione del quarto congresso liturgico nel 1965 ad Assisi, il cardinale Cicognani, allora prefetto della sacra Congregazione dei riti, si impegnò in prima persona per evitare che la cosa si ripetesse. Al fuori dell’Italia alcune conferenze episcopali aveva già ottenuto la possibilità di avere rituali bilingue. Nel 1947 lo ottenne l’episcopato francese e tedesco e nel 1954 l’episcopato americano. In Italia nel 1953 venne solo autorizzato l’uso dell’italiano nelle risposte dei fedeli durante il rito del battesimo. Ma la prima Messa celebrata interamente in lingua volgare fu quella in croato e l’autorizzazione venne da Pio XI. Accadde il 1° maggio 1931. In Germania in alcuni monasteri si celebrava la messa in tedesco e in particolare in quello di Maria Laach nella Renania-Palatinato, diocesi di Treviri, alla domenica si recavano folle immense, soprattutto di giovani, appunto per poter avere la messa in tedesco.  

7 marzo 1965, Paolo VI e la prima Messa in italiano, scrivono il 7 marzo 2019 Silvia Morosi e Paolo Rastelli su Il Corriere della Sera. Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo”. Straordinario e ordinario. Era il 7 marzo del 1965 quando papa Paolo VI, nella parrocchia di Ognissanti sull’Appia Nuova, a Roma, celebrava la prima Messa in lingua italiana. Uno dei più grossi cambiamenti della Chiesa moderna, che iniziava a rivolgersi alla gente con le parole della gente. Non a caso Giovanni Battista Montini (che fu arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963, prima di diventare papa) scelse per la celebrazione una parrocchia retta dagli Orioniani e non celebrò in Vaticano. Per la prima volta venivano messe in pratica le decisioni prese all’interno del Concilio Vaticano II (avviato nel 1962 da Papa Giovanni XXIII e chiuso nel 1965 da Paolo VI): tra le varie nuove indicazioni c’era quella di celebrare nella lingua natale dei partecipanti al posto che in latino – usanza obbligatoria sin dal 1570 –, ai tempi poco conosciuto. Inoltre veniva specificata una nuova posizione del sacerdote durante la Messa, rivolto verso i partecipanti anziché verso l’altare, di spalle ai fedeli. Alcune parti continuarono a essere pronunciate in latino e occorrerà aspettare il 1969 per avere in italiano tutto il Messale Romano e il completamento della riforma.

COME SI ARRIVA ALLA TRASFORMAZIONE – Dopo una iniziale discussione all’interno del Concilio, il primo passo fu fatto il 4 dicembre del 1963, quando venne approvata la costituzione liturgica “Sacrosanctum Concilium” con 4 soli voti contrari e 2.147 a favore. All’interno del testo si legge: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato, però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti” (articolo 36). Questo primo provvedimento fu seguito il 27 gennaio del 1965 dalla promulgazione del “Ritus servandus in celebratione Missae” (il cosiddetto “Messale del 1965″), un testo che prevedeva la possibilità di utilizzare la lingua definita “volgare” in alcune parti della Messa, ed entrò in vigore la prima domenica di Quaresima del medesimo anno (appunto il successivo 7 marzo, ndr).

IL PRECEDENTE – La prima Messa celebrate – con alcune parti – in italiano risale, in verità, al 15 settembre 1953. Venne celebrata a Lugano, in Svizzera, alle 8 del mattino, nella chiesa di san Nicolao dal cardinale Giacomo Lercaro, l’allora arcivescovo di Bologna, in apertura del terzo Congresso liturgico internazionale che aveva proprio per tema “La partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia”. Fu anche la prima Messa concelebrata. Il Giornale del popolo, quotidiano ticinese, scrisse il giorno dopo: “Abbiamo assistito a un rito semplice di austera bellezza con la lettura dell’epistola e del Vangelo in italiano”. Alla Messa prese parte anche il cardinale Ottaviani, custode della dottrina della fede, a Lugano per il Congresso, che il giorno dopo tornò a Roma in segno di protesta. Al fuori dell’Italia alcune conferenze episcopali aveva già ottenuto la possibilità di avere rituali bilingue. Nel 1947 lo ottennero l’episcopato francese e quello tedesco e nel 1954 quello americano. In Italia nel 1953 venne solo autorizzato l’uso dell’italiano nelle risposte dei fedeli durante il rito del battesimo. La prima Messa celebrata interamente in lingua volgare fu quella in croato, il primo maggio del 1931, grazie all’autorizzazione di Pio XI.

TRA IL GRECO E IL LATINO – I primi riti strutturati che la storia ricorda vennero celebrati in una forma base di greco, la lingua più diffusa nella parte orientale dell’impero romano. Il passaggio all’utilizzo del latino avvenne solamente a partire dal IV secolo dopo Cristo, quando il Cristianesimo si stava avviando a diventare la religione ufficiale dell’Impero (ufficialmente questo avvenne nel 380 d.C., con il famoso editto di Tessalonica). Ricorda Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose: In me il ricordo di quella Messa (in latino, ndr.) resta vivissimo: dai sei ai ventiquattro anni è stata per me la Messa quotidiana, in cui «servivo» da chierichetto. Il prete mi spiegava: «La gente non sa il latino, quindi non può capire. Alla gente basta “assistere alla messa” e pregare come sa fare, con il rosario o le altre preghiere». In verità non si sarebbe nemmeno osato pensare il concetto di «assemblea», tanto meno ritenere che la gente («popolo di Dio» era un’espressione sconveniente) intesa come assemblea fosse soggetto della celebrazione…. Alla domenica invece le Messe erano tre: alle 6 per le donne, che poi dovevano andare a casa a preparare il pranzo; alle 8 per i ragazzi, a cui seguiva l’ora di catechismo; alle 11 la «Messa grande», soprattutto per gli uomini e i giovani. In quest’ultima, in particolare, vi erano i canti: la cantoria del paese eseguiva in gregoriano la Missa de angelis; all’inizio e alla fine si cantavano invece degli inni che ricordo con vera tristezza, in quanto composizioni brutte, con parole cariche di sentimentalismo, a volte contenenti elementi drammatici. Alla «Messa granda» non mancava la predica, adattata all’uditorio. Negli anni ’50-’60 del secolo scorso la predicazione era un’opportunità per la difesa della Chiesa, per la lotta contro l’ateismo, il comunismo e il venir meno della rigorosa morale sessuale. Molti uomini durante la predica restavano fuori, formando capannelli, e io dovevo uscire per forzarli a entrare prima che ci fosse l’offertorio, avvertendoli che altrimenti per loro la Messa non sarebbe stata valida. Quelli che entravano, uscivano di nuovo sul sagrato dopo il Padre nostro, dicendo con sollievo: «È finita!», e si lamentavano della predica borbottando.

Riforma liturgica. 50 anni fa la prima Messa in lingua italiana, scrive Giacomo Gambassi giovedì 26 febbraio 2015 su Avvenire. Cinquant’anni fa la prima Eucaristia celebrata in lingua nazionale. Fu presieduta da Paolo VI nella parrocchia romana di Ognissanti. «Si inaugura oggi la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo». Era il 7 marzo 1965 quando, in occasione dei 25 anni della morte di san Luigi Orione, Paolo VI presiedeva la prima Messa in italiano nella parrocchia di Ognissanti a Roma. Un «avvenimento», come lo definì Montini nell’omelia, che era la traduzione nel concreto della riforma liturgica scaturita dal Vaticano II con la Costituzione Sacrosanctum Concilium. «Di fronte a quella celebrazione la gente si commosse perché vide un grande passo che la Chiesa compiva verso di loro», spiega monsignor Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. E aggiunge: «Si ebbe l’esatta percezione che la Chiesa, senza tradire la tradizione, metteva i credenti in contatto diretto con azioni e parole che sono un’anticipazione alla liturgia celeste». A cinquanta anni da quello storico evento papa Francesco presiederà sabato 7 marzo la Messa nella stessa parrocchia, mentre domani si terrà un convegno di pastorale liturgica dal titolo “Uniti nel rendimento di grazie” nel teatro accanto alla chiesa di Ognissanti. «Parlare della riforma liturgica – afferma Sequeri – vuol dire guardare al traghettamento della Chiesa che Paolo VI ha guidato non senza fatiche e difficoltà. L’idea che lo ispirava era quella di un cristianesimo che, senza perdere uno iota della sua verità e della sua profondità, entrasse nell’ottica di potersi comunicare all’uomo contemporaneo. Un uomo che, quando pensa alla Chiesa, non può avere nella mente l’immagine di una struttura che, attraverso determinate spiegazioni, gli fa capire che dentro di essa c’è un mistero. No, l’uomo deve percepire fin da subito la bellezza del mistero che, poi, può cercare di approfondire». Uno dei cardini della riforma liturgica è stato la partecipazione piena, attiva e consapevole dell’assemblea. Basta con i fedeli che erano soltanto “spettatori” muti ed estranei. E la scelta di aprirsi alle lingue nazionali andava in questa direzione. «Certo, in questo mezzo secolo, c’è stato anche un accanimento terapeutico sul versante della partecipazione – sottolinea il teologo –. Accanto a riflessioni ed esperienze proficue, si sono registrate diverse forzature. Come se la partecipazione volesse dire muoversi sempre o fare comunque qualcosa. Queste ingenuità hanno nuociuto all’importanza del concetto. Oggi è possibile affermare che è venuta a mancare una dimensione dell’actuosa participatio: è la possibilità che la liturgia crei un senso di adorazione per il mistero. Ciò significa che rientrano nella partecipazione anche il silenzio, la sosta, la quiete e addirittura la passività giusta per essere toccati da Cristo e non solo metterci le mani sopra. Il resto è una questione di animazione». Nella Sacrosanctum Concilium si fa riferimento più volte alla formazione alla liturgia. «E molto è stato fatto negli anni – sostiene Sequeri –. Il merito va prima di tutto ai sacerdoti che hanno compiuto il miracolo di aver saputo spiegare la celebrazione. Però, se non si crea un clima di incantamento all’interno della liturgia, la preparazione naufraga sul più bello. È vero che il mistero ci introduce a se stesso. Ma è nostro compito avere cura e passione perché tutto ciò avvenga. Si può avere una celebrazione di grande intensità anche se è soltanto di quaranta minuti, dove ogni parola, ogni gesto e ogni silenzio sono così al loro posto che si fanno trasparenti e mostrano il volto del Signore». La Costituzione conciliare richiama anche alla conciliazione fra «sana tradizione» e «legittimo progresso». «Una delle icone più belle che ci consegna la Chiesa – conclude il teologo – è quella della tradizione che si rinnova rimanendo fedele a se stessa. Direi che sulla liturgia l’equilibrio compiuto non ci è stato ancora donato. Per questo ritengo che ogni celebrazione debba accogliere quanto la tradizione ci consegna. Così metterei sempre, per fare qualche esempio, un’antifona in gregoriano, un canto corale e un canto popolare. In fondo una celebrazione è tenuta a mettere in luce sia il suo rapporto con la tradizione, sia la capacità di essere parlante verso gli uomini del nostro tempo».

·        Pio XII ed il nazi-fascismo.

Il Papa: "Tra un anno si aprirà l'archivio segreto di Pio XII". Tutti i documenti inediti saranno pubblici dal 2 marzo 2020. La comunità ebraica: "Si faccia chiarezza", scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. Fra un anno, esattamente dal 2 marzo del 2020, il Vaticano aprirà l'Archivio segreto relativo al pontificato di Pio XII. Lo ha annunciato Papa Francesco, durante l'udienza ai membri dell'Archivio Segreto Vaticano ricevuti nella sala Clementina del palazzo Apostolico. "Annuncio la mia decisione di aprire alla consultazione dei ricercatori la documentazione archivistica attinente al pontificato di Pio XII, sino alla sua morte, avvenuta a Castel Gandolfo il 9 ottobre 1958", ha dichiarato solennemente il Pontefice. "L'augurio e la speranza ora è che si faccia chiarezza sul ruolo avuto da Pio XII nel periodo della Seconda Guerra Mondiale". Così la presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, commenta la notizia dell'apertura degli archivi vaticani del pontificato di Pio XII. E Noemi Di Segni, presidente dell'Ucei, l'Unione delle comunità ebraiche italiane, ha ribadito: "Apprezzabile l'apertura dell'archivio vaticano su Pio XII". "Ho deciso che l'apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII avverrà il 2 marzo 2020, a un anno esatto di distanza dall'80° anniversario dell'elezione al Soglio di Pietro di Eugenio Pacelli. Assumo questa decisione - spiega il Papa - sentito il parere dei miei più stretti collaboratori, con animo sereno e fiducioso". Il Pontefice si dice "sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e senza dubbio anche momenti di gravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori".  Papa Francesco, annunciando l'apertura dei documenti sul pontificato di Pio XII conservati nell'Archivio segreto Vaticano, ha sottolineato che "la Chiesa non ha paura della Storia, anzi, la ama e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio! Quindi, con la stessa fiducia dei miei predecessori, apro e affido ai ricercatori questo patrimonio documentario". Per il Papa, "la figura di quel Pontefice, che si trovò a condurre la Barca di Pietro in un momento fra i più tristi e bui del XX secolo, agitato e in tanta parte squarciato dall'ultimo conflitto mondiale, con il conseguente periodo di riassetto delle Nazioni e la ricostruzione postbellica, questa figura è stata già indagata e studiata in tanti suoi aspetti, a volte discussa e perfino criticata, si direbbe con qualche pregiudizio o esagerazione". Oggi, sottolinea ancora il Pontefice, "essa è opportunamente rivalutata e anzi posta nella giusta luce per le sue poliedriche qualità: pastorali, anzitutto, ma poi teologiche, ascetiche, diplomatiche".

Archivio segreto su Pio XII: il Papa ne annuncia l'apertura. Papa Francesco dispone l'apertura dell'archivio segreto su papa Pacelli. La Chiesa cattolica a confronto con la storia, senza timori di sorta, scrive Giuseppe Aloisi, Lunedì 4/03/2019, su Il Giornale. Papa Francesco è un sostenitore della trasparenza. Anche quando si tratta di fare i conti con la storia. E magari con qualche segreto. Può essere interpretato attraverso questa chiave di lettura l'annuncio dato poche ore fa, quello relativo all'apertura dell'archivio vaticano riguardante Pio XII, papa Pacelli, contemporaneo alla seconda guerra mondiale. La figura in questione è stata eletta al soglio pontificio nel 1939, agli albori quindi del secondo conflitto bellico di caratura internazionale. Bergoglio ha in qualche modo lasciato intendere di non avere alcun timore dell'emersione di contenuti che potrebbero rivelarsi scottanti: "Ho deciso che l'apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII avverrà il 2 marzo 2020, a un anno esatto di distanza dall'ottantesimo anniversario dell'elezione al Soglio di Pietro di Eugenio Pacelli". C'è, insomma, la volontà di non celare più quanto fatto dalla Chiesa cattolica durante uno dei periodi storici più drammatici per l'intera umanità. L'ex arcivescovo di Buenos Aires ha poi rincarato la dose, sciorinando le motivazioni dietro questa mossa: "Assumo questa decisione - ha proseguito il Santo Padre, come riportato pure dall'Agi - sentito il parere dei miei più stretti Collaboratori, con animo sereno e fiducioso, sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio anche momenti di gravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza, e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori". Sembra permanere la certezza, dunque, che il duecentosessantesimo pontefice romano possa uscirne rafforzato. Termineranno, forse, alcune dietrologie storiografiche sulla sua figura. Di questo, almeno, pare sicuro l'attuale vescovo di Roma, che ha anche associato questa scelta all' "amore" che l'istituzione ecclesiastica nutre, da sempre, nei confronti della storia. Tra un anno esatto, quindi, avremo modo di conoscere qualche dettaglio in più, presumibilmente qualche segreto, su quanto messo in campo dalla Chiesa cattolica in prossimità, durante e dopo il conflitto bellico più sconvolgente mai combattuto dagli esseri umani.

Pezzetti: «Pio XII doveva scomunicare i nazisti». Pubblicato venerdì, 08 marzo 2019 da Corriere.it. Ha soggiornato nel campo di sterminio di Auschwitz più di 250 volte, spesso per mesi, e ci torna di continuo. Ha recuperato la prima camera a gas di Birkenau: sopra ci viveva una famiglia di contadini polacchi che ignorava di coltivare il giardino sulle fosse comuni. «In passato dormivo nella Kommandantur di Rudolf Höss, l’artefice delle “docce” e dei forni, impiccato nel 1947 accanto al crematorio». E non aveva gli incubi? «No, solo un senso di rivincita». Marcello Pezzetti, direttore del nascente Museo della Shoah di Roma, è il più importante storico dell’Olocausto italiano, l’unico ad aver intervistato tutti i 105 ebrei tornati dai lager. Adesso con la compagna tedesca Sara Berger, pure lei studiosa di storia, ha ritrovato un fondo nascosto alla Farnesina. Si tratta di documenti della diplomazia italiana, dal 1938 al 1943, relativi alle persecuzioni razziali. Appunti per il Duce, telegrammi e note riservatissime riprodotti nel saggio Solo il dovere oltre il dovere (Gangemi editore), dai quali si evince che nelle ambasciate e nei consolati, così come a Palazzo Venezia e a Palazzo Chigi, all’epoca sede del ministero degli Esteri, tutti sapevano tutto dell’«Endlösung der Judenfrage», la «soluzione finale della questione ebraica». Per esempio, Roberto Venturini, console a Skopje, nel telespresso 417/92 del 16 marzo 1943 descrive la sorte di 5.000 deportati dei quali «si può ben dire che hanno ormai solo gli occhi per piangere», in balia di guardie che «adoperano sotto ogni pretesto con sadica energia le fruste delle quali sono munite». Coraggioso, il console Venturini. «Sì. Egli annota che “l’eliminazione degli israeliti dalla Macedonia sarebbe stata chiesta dalla Germania per ragioni militari” e denuncia “il più assoluto disprezzo di ogni più elementare principio umanitario”. Grazie a Venturini ho ricostruito la storia di Susanna Pardo». Chi era? «Un’italiana andata a vivere a Bitolj con il marito Davide, un ebreo jugoslavo. Aimée Pardo, residente a Milano, al numero 1 di corso Vercelli, scrisse al console per avere notizie della sorella e della nipote Esperance, di appena un anno. Ora so che sono le uniche due connazionali uccise a Treblinka. Nessun altro portato via dall’Italia sparì in quel campo». Ha potuto comunicarlo a qualcuno? «A Silvana, un’altra sorella di Susanna, che ho rintracciato a Milano. Mi ha dato le loro fotografie e le ultime lettere». Affondare le mani in questa tragedia infinita non le toglie la voglia di vivere? «Al contrario, me la rafforza. I superstiti mi hanno insegnato che alla morte di massa si risponde in un solo modo: con la vita, godendola il più possibile. Vuole una prova? A 61 anni sono diventato padre di Samuel. Ne ha appena compiuti 4. L’altra mia figlia, Vanina, che ne ha 46 e lavora per l’Onu a Tel Aviv, da piccola veniva con me ad Auschwitz. Pagavo una babysitter perché la facesse giocare con la slitta sulla neve e io intanto cercavo le prove dello sterminio. Non ha idea di quanti documenti ho nascosto nelle sue mutandine». Nelle mutandine? «Nei Paesi dell’Est vige tuttora una regola: non puoi portare fuori niente che sia antecedente al 1945. Ho subìto una decina di arresti fra Polonia, Germania Est, Cecoslovacchia e Urss. Una volta insieme con Shlomo Venezia e sua moglie Marika. Lui era fra gli ultimi Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, quasi tutti eliminati dalle Ss. Aveva il compito di estrarre dalle camere a gas le salme degli ebrei eliminati con lo Zyklon B». Conobbi i Venezia. Due giganti. «Shlomo mi manca tantissimo. Ci arrestarono in Polonia perché aveva comprato un vecchio yad, il puntatore a forma di manina per leggere la Torah». Credevo che i comunisti fossero amici degli ebrei.(Ride). «Non credo proprio. Un tempo sembravano una garanzia contro il ritorno dell’antisemitismo. Poi sono cadute le illusioni. Inoltre il bolscevismo è stato, con il capitalismo, un capo d’imputazione perfetto per altre persecuzioni». Lo storico David Irving sostiene che le camere a gas sono un’invenzione. «Deliri di un negazionista pluricondannato. Ho trovato i progetti della Topf und Söhne di Erfurt, l’azienda che costruì gli impianti di ventilazione per aerare le camere a gas dopo ogni strage. Con i disegni degli ingegneri Kurt Prüfer e Karl Schultze, le planimetrie, le foto. Documenti in cui si parla di “Gaskammer”». Che cosa avrebbe potuto fare Pio XII, e invece non fece, per fermare la Shoah? «Scomunicare il nazismo». Liliana Segre mi ha detto: «Poteva mettersi davanti al convoglio di 18 carri bestiame che nel 1943 tradusse ad Auschwitz i 1.024 ebrei catturati nel ghetto di Roma, compresi più di 200 bambini». «Non ci si può aspettare questo da un papa. Sono gesti coraggiosi da film». Perché nel 1944 il gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, dichiarò: «Il popolo d’Israele non dimenticherà mai ciò che Pio XII e i suoi illustri delegati stanno facendo per i nostri sventurati fratelli e sorelle nell’ora più tragica»? «Perché era vero, anche se ufficialmente il Pontefice taceva. Ho intervistato suor Emerenziana, 94 anni, che quel 16 ottobre 1943 nella Capitale spalancò agli ebrei le porte dell’istituto San Giuseppe di Chambéry. “Non avevamo indicazioni su che cosa fare, ma erano in pericolo”, mi ha detto. Fu così che salvò l’undicenne Lia Levi, futura scrittrice». La «notte dei cristalli» è del 1938, eppure ho visto l’elenco telefonico di Berlino del 1941, con tanto di svastica in copertina. Accanto ai numeri di Partito nazional-socialista, ministeri, Ss, Gestapo, Wehrmacht e Luftwaffe, vi è una sezione Judische con sinagoghe, scuole e ospedali ebraici. Com’è possibile? «Sa qual è la città tedesca in cui si è nascosto e salvato il maggior numero di israeliti? Berlino. Fino alla Conferenza di Wannsee del gennaio 1942, che varò la “soluzione finale”, non si sapeva che fare dei Mischlinge, quelli di sangue misto. Non tutti i tedeschi erano d’accordo sulla loro soppressione. Friedrich Bosshammer, l’unico nazista condannato per aver fatto finire ad Auschwitz la maggior parte degli ebrei italiani, ebbe l’ergastolo solo per aver agito di propria iniziativa nella deportazione dei misti». Lei fu consulente per «La vita è bella». «Mi cercò Roberto Benigni. Gli spiegai la Shoah e portai i sopravvissuti sul set». Ma si può ridere della Shoah? «No. Ma si può ridere “nella” Shoah. Come dimostrò Romeo Salmonì, da cui Benigni trasse lo spunto. Fu la sua autoironia a salvarlo dallo sterminio». Ha collaborato anche a «Rua Alguem, 5555», uscito con il titolo «My father». «Charlton Heston si fece vivo con il regista Egidio Eronico per avere la parte di Josef Mengele, il Dottor Morte di Auschwitz. Il film è imperniato sull’unico figlio, che va a trovarlo a Manaus, in Amazzonia, per la prima volta. Ho potuto conoscerlo. È un caso umano. Si chiama Rolf Mengele, vive in un paesino sul confine franco-tedesco, fra Strasburgo e Stoccarda. Suo padre era ossessionato dalle ricerche sui gemelli. Li uccideva in coppia con iniezioni di fenolo al cuore per comparare le reazioni mentre morivano. Conosco bene le due sorelle Bucci, scampate a quei folli esperimenti. Dopo la guerra, la moglie di Mengele visse a Merano. Lui riparò in Sudamerica con la cognata. Simon Wiesenthal, il cacciatore di criminali che in Argentina fece catturare Adolf Eichmann, poi impiccato in Israele, mi rivelò che in due occasioni mancò per un soffio di acciuffare Mengele, la prima volta in un albergo di Milano, la seconda in Alto Adige». Come mai per tanto tempo i superstiti della Shoah hanno taciuto? «Le ragioni sono più d’una. Perché si sentivano in colpa per essere ancora vivi. Perché credevano che la società non volesse saperne. Perché pensavano di aver delegato la testimonianza a Primo Levi, che però non era mai stato a Birkenau. Perché desideravano proteggere i figli da un dolore immane. Ma non fecero il loro bene, tutt’altro. Lo hanno capito solo negli anni Novanta, con i nipoti. Purtroppo a quel punto è saltata sul carro una marea di gente che ha trasformato la memoria in una professione». Un sospetto che potrebbe riguardarla. «Dice? Quando nel 1997, con il regista Ruggero Gabbai e Liliana Picciotto, riportai i sopravvissuti in visita ad Auschwitz, per girare il film Memoria, non avevo una lira. Una signora facoltosa mi chiese: “Le manca qualcosa?”. Sì, i 35 milioni per pagare il viaggio, risposi. L’indomani me li portò. La prima volta che intervistai Shlomo Venezia, l’operatore e la telecamera me li prestò la vaticanista del Tg5, Marina Ricci Buttiglione, sorella di Rocco, l’ex ministro». Sono finiti sumeri, akkadi, babilonesi, hittiti, assiri, egizi, fenici, persiani. Gli israeliti sono l’unico popolo dell’antichità giunto fino a noi. Come si spiega? «Si spiega così: hanno conservato la loro identità nel corso dei secoli. Si sono integrati senza mai farsi assimilare». È giusto indagare per diffamazione e odio razziale Elio Lannutti, senatore del M5S, che ha citato i Protocolli dei Savi di Sion per denunciare che la finanza mondiale sarebbe controllata dagli ebrei? «Mi fa pena. Misura lo stato di salute della società. È un termometro. Vuol dire che l’Italia non sta bene, ha la febbre». Teme il ritorno dell’antisemitismo? «L’antisemitismo non finirà mai. È un fiume carsico. Non lo vedi, ma sotto c’è». Non vorrebbe fuggire da Auschwitz? «Quando mi chiedono perché ci sono entrato, non capisco la domanda. Non puoi non entrarci. E non puoi uscirne».

·        Il Vaticano e l’Islam.

Prodi difende tortellini di pollo: "Così i musulmani possono mangiarli". L'ex presidente del Consiglio, bolognese, ha difeso la scelta di differenziare i ripieni con carne diversa per permetter a tutti di festeggiare san Petronio. E sui migranti ha detto: "Sono elemento indispensabile per l'elementare funzionamento della nostra società". Lavinia Greci, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Sulla polemica culinaria che, nei giorni scorsi, si è insinuata nel dibattito pubblico italiano, ovvero quella sui tortellini con la carne di pollo, in modo tale da essere mangiati anche da chi non può consumare il ripieno di maiale (e dai musulmani, in particolare), è intervenuto anche l'ex presidente del Consiglio, Romano Prodi. L'ex commissario europeo bolognese, infatti, con un commento sulla prima pagina de Il Messaggero, di cui è collaboratore, ha voluto dire la sua su quella che ha definito "l'occasione più ghiotta perché la politica si intromettesse subito nella guerra dei tortellini", imputando agli organizzatori "il duplice sacrilegio di avere profanato la nostra tradizione religiosa per compiacere gli islamici e la nostra tradizione culinaria per avere espulso il maiale da tutti i tortellini e non solo dai quattro o cinque chili previsti". Prodi ha scelto e, di fatto, si è schierato dalla parte di una differenziazione dei tortellini, per permettere a chiunque non mangi carne di maiale di poter partecipare alla sagra di san Petronio, patrono di Bologna. L'ex presidente, nel giorno in cui si consuma il celebre piatto, ne ha approfittato quindi per rimarcare la sua posizione e parlare di immigrazione, sottolineando come ognuno debba sentirsi libero di scegliere ciò che vuole, anche a tavola. Secondo l'ex premier, infatti, resta aperto il problema di come far avanzare il necessario processo di integrazione dei milioni di emigranti che, a suo avviso, rappresentano "un elemento indispensabile per l'elementare funzionamento della nostra società". E che non si tratta, infatti, di rinunciare alla necessaria regolamentazione del fenomeno migratorio "ma, più semplicemente, di tenere presente che non è di scarsa importanza il garantire agli italiani e agli stranieri la stessa libertà di scelta sul ripieno dei tortellini". Tanto più che, in fondo, gli immigrati "mangiando con noi i tortellini, finiscono con il fare propria una parte della nostra tradizione", ha spiegato Prodi. Per l'ex presidente del Consiglio, quindi "resta il discorso serio di come il messaggio politico dell'impossibilità di integrazione sia penetrato in tanta parte di noi così profondamente da coinvolgere anche gli aspetti del tutto assurdi dei nostri rapporti con gli altri". E nel suo editoriale, Prodi ha nominato anche il segretario della Lega, Matteo Salvini, attribuendogli, di fatto, la responsabilità del "perché, pur di fronte alla molteplicità e alla gravità dei problemi della società italiana, continui a insistere quasi esclusivamente sulla paura dell'immigrazione".

In difesa dei tortellini (e della tradizione). Andrea Indini l'1 ottobre 2019 su Il Giornale. Difendere. A oltranza. Con fatica. Al giorno d’oggi è una battaglia che affrontano in pochi: parare gli urti di una falsa modernità, schermirsi dai colpi del laicismo. Gli assalti vengono sferrati ogni giorno e, poco alla volta, minano la nostra identità privandocene pezzo per pezzo. Finché non ci troveremo nudi e indifesi. Senza la memoria che forgia il nostro presente. E così i veri reazionari sono i nuovi opliti che fanno scudo a questi attacchi e provano a non arretrare in questa guerra ad armi impari. Alla lunga sanno che avranno la peggio, ma nonostante questo continuano a proteggere le proprie tradizioni, a difendere la propria cultura e preservare la propria identità. Finché non soccomberanno. Arriverà un giorno in cui il laicismo avrà la meglio e i crocifissi verranno effettivamente banditi dalle aule scolastiche. Quando facevo le elementari il crocifisso stava lì, sopra la testa della maestra, e a nessuno sarebbe venuto in mente di tirarlo via. Oggi se ne parla. Qualche giudice lo toglie dalla propria aula di tribunale. Prima o poi, però, arriverà il giorno in cui una legge lo vieterà definitivamente. Allo stesso modo arriverà un giorno in cui i diktat della legge coranica non solo avranno la meglio sui menù delle mense scolastiche, ma cambieranno addirittura le tradizioni che per anni hanno accompagnato le nostre ricorrenze religiose. Non stupirà più vedere un cardinale riscrivere la ricetta dei tortellini da servire alla festa del Santo patrono per eliminare la carne di maiale e non urtare la sensibilità della comunità islamica. E non stupirà più vedere il prete di turno rileggere la Natività per raccontare il dramma dei migranti. Tutti novelli Efialte. È a piccoli passi che il nostro passato viene smantellato. Poi arriverà il giorno in cui, guardandoci allo specchio e rivedendoci negli occhi dei nostri nipoti, non ricorderemo più da dove siamo venuti. Consultado la Treccani, mi ha colpito il primo esempio usato dal vocabolario per spiegare il verbo difendere: “Difendere la patria dai nemici”. Oggi i nemici della nostra patria, di quel luogo a cui sentiamo di appartenere “per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni”, sono gli avvocati del laicismo, gli ultrà del multiculturalismo, i sostenitori del dialogo multireligioso e i portavoce del progressismo. Questi  vestono i panni degli insegnanti, sentenziano dai pulpiti delle cattedrali e dettano legge dalle aule dei tribunali. Sono loro che smontano le nostre tradizioni e gettano nell’oblio la nostra identità predicando l’accoglienza e il dialogo. Non sono nuovi a questo gioco al massacro. Ma se in passato gli opliti pronti a difendere la nostra patria erano un esercito silenzioso ma nutrito, oggi sono rimasti un piccolo manipolo. Come i trecento alle Termopili.

(AdnKronos l'1 ottobre 2019) - "Per il rispetto, il vescovo di Bologna, manco un passante, ha lanciato i tortellini senza carne di maiale. E' come dire il vino rosso in Umbria senza uva per rispetto. Vi rendete conto che stanno cercando di cancellare la nostra storia, la nostra cultura?" Lo ha affermato Matteo Salvini durante un comizio ad Attigliano, in provincia di Terni, a proposito della decisione del vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, di lanciare in occasione della festa del patrono il 'tortellino dell'accoglienza', con carne di pollo al posto di quella di maiale.

Massimo Selleri per Il Resto del Carlino l'1 ottobre 2019. Si chiama tortellino dell’accoglienza e farà il suo esordio venerdì, quando nella diocesi di Bologna non si celebra San Francesco ma si celebra il patrono delle Due Torri, San Petronio, e questa nuova pietanza sarà distribuita in piazza Maggiore insieme a quella tradizionale. Per quanto riguarda la pasta, comunemente detta sfoglia, la ricetta non cambia ma, nel ripieno anziché la collaudata carne di maiale nelle sue tre forme, lombo, mortadella e prosciutto, ci finirà il petto di pollo, oltre naturalmente al parmigiano reggiano, all’uovo e alla noce moscata. Alla presentazione dell’iniziativa la prendono alla larga. «Abbiamo introdotto questa novità – spiega il vicario generale dell’arcidiocesi di Bologna, monsignor Giovanni Silvagni – per consentire a tutti di consumare uno dei principali simboli della nostra città. Anche a chi per motivi religiosi o di salute non può consumare le carni suine». Ma in realtà il tutto è stato realizzato per dare un segno concreto che la chiesa locale ha intenzione di aprire a tutti la città, saldando il dialogo con le altre religioni. Che le persone di fede islamica non possano consumare tutto quello che arriva dal maiale è cosa nota, meno conosciuto il fatto che altre religioni impongano divieti alimentari sui suini. Il tortellino dell’accoglienza si lega anche a quello che accadrà sabato nella basilica di San Pietro nella Città del Vaticano, quando monsignor Matteo Zuppi, il 112° successore di San Petronio, sarà creato cardinale da papa Francesco in un concistoro pubblico. Saltato lo schema delle presunte sedi cardinalizie, ad oggi le arcidiocesi di Milano, Torino e Venezia non sono guidate da porporati, "l’umanità disarmante" di monsignor Zuppi è probabilmente uno dei motivi per cui il Santo Padre ha deciso di chiamare l’arcivescovo di Bologna a questo nuovo ministero. "Per la sua forma – prosegue monsignor Silvagni – il tortellino ricorda un qualcosa che abbraccia tutti, così come diventando cardinale, il nostro vescovo sarà uno stretto collaboratore del Papa e, quindi, avrà un compito che si estende oltre quelli che sono i confini della diocesi e abbraccia tutto il mondo. Il tortellino è il segno di come partendo, da Bologna, Zuppi si occuperà anche della Chiesa in generale". Bisogna andare indietro nel tempo per ritrovare il tortellino come protagonista indiscusso della festa di San Petronio. Era il 4 ottobre del 1997 e allora a guidare l’arcidiocesi bolognese era il cardinale Giacomo Biffi. "Ho pregato il santo di far capire ai bolognesi – spiegava Biffi durante l’omelia per il patrono - che mangiare i tortellini con la prospettiva del Paradiso, della vita eterna, rende migliori anche i tortellini, più che mangiarli con la prospettiva di andare a finire nel nulla". Toni fermi, ma concetti simili perché la prospettiva del Paradiso la si apre solo se ci si mette al servizio del prossimo. Sulla questione, almeno per ora, gli chef sono divisi. Per Davide Bendanti del ristorante ‘Oltre’ non è un delitto cambiare la ricetta del ripieno a patto di essere chiari. «Il tortellino bolognese è uno solo e non è ripieno di pollo. Poi, per quanto riguarda gli adeguamenti per questioni religiose o per scelte personali, si può fare. Non è un vero tortellino bolognese, ma ben venga se le persone di altre culture si possono avvicinare a quella bolognese". Mentre per Silvano Librenti, dello storico ‘Diana’, la questione è preclusa. "Il tortellino originale deve seguire la ricetta tradizionale, che tra l’altro riceve il suo massimo sapore dalla carne di maiale: una volta che cambi il ripieno ed elimini tutto, diventa un’altra cosa". Viene, però, da chiedersi se si possa escludere qualcuno per una questione di ricette, e la domanda appare davvero retorica.

Tortellini, la ricetta del vero ripieno: prosciutto, lombo e mortadella. Il 15 aprile  2008 alla Camera di Commercio di Bologna sono stati depositati ricetta e disciplinari. Ecco le istruzioni tratte dal sito della Dotta Confrarternita del Tortellino per circa mille ‘pezzi’: pasta fresca gialla preparata con 3 uova e 3 etti di farina; per il ripieno: 300 grammi di lombo di maiale rosolato al burro, 300 grammi di prosciutto crudo, 300 grammi di vera mortadella di Bologna, 450 grammi di parmigiano-reggiano, 3 uova, 1 noce moscata Per il brodo: 1 kg di carne di manzo; 1/2 gallina ruspante; sedano, carota, cipolla, sale. Preparare il ripieno macinando molto finemente la carne e incorporarvi le uova, il parmigiano, la noce moscata Il composto va lasciato riposare almeno 12 ore in frigorifero. La pasta va stesa sul tagliere di legno con il matterello fino a renderla molto sottile, quadretti di circa 3 centimetri di lato.

Da Corriere.it l'1 ottobre 2019. Qualche perplessità, l’idea dell’arcivescovo l’ha però scatenata tra i puristi della tradizione bolognese. Tra questi si segnala anche monsignor Ernesto Vecchi, grande appassionato di cucina. «Non giudico l’iniziativa, ma il tortellino se lo trucchi lo uccidi: servono gli ingredienti classici, tutti, a partire dalla mortadella, se no non è più il tortellino ma un’altra cosa». Con la cucina, sotto le Due Torri non si scherza. Quando nacque in città il Festival del tortellino, furono in tanti a urlare all’eresia gastronomica. I ristoranti coinvolti reinterpretavano il piatto più caro ai bolognesi «addirittura» con il pesce o senza carne. Con il tempo la scelta è stata (quasi) digerita. E il festival, di cui domenica prossima è in programma l’ottava edizione, è sempre un successo di pubblico e di gusto.

Ma i tortellini al pollo sono opera di carità e non una bestemmia. Sergio Valzania il 2 ottobre 2019 su Il Dubbio. L’accoglienza del cardinale di Bologna passa per la tavola. Ma la religione già prevede digiuni, sacrifici e pane e acqua.  Non sarei contento se durante un pranzo imbandito in occasione della festa di qualche comunità orientale mi venisse servita della carne di cane. Avrei qualche problema se la mangiassero al mio tavolo, e forse anche a quello vicino. Detto questo, siamo dentro la questione dei tortellini di pollo alla cardinale, dove il neo cardinale è sua eccellenza Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, che per la festa del patrono della capitale del tortellino ha lanciato questa specialità in nome dell’accoglienza e del rispetto reciproco. Innanzitutto occorre rifiutarsi di circoscrivere all’ambito religioso i tabù alimentari o, peggio ancora, tacciare di fisime o di regole anacronistiche le pratiche culinarie altrui mentre accogliamo le nostre con la massima naturalezza. I vegetariani rappresentano una consuetudine antica, a mezza via tra il salutismo e il rispetto religioso di ogni forma di vita, i vegani sono un passo più in là, con il rifiuto severo di cibarsi di qualsiasi forma animale. Chissà se arriveremo al rinuncia a mangiare anche i vegetali, che pure loro vivono, forse con una coscienza superiore al plancton marino. Per non dire delle diete. C’è chi si ciba per settimane di sole banane, o di zucchine crude. Ma prima di tutto questo l’Occidente ha avuto, e ancora conserva in qualche luogo, norme precise in tema di alimentazione. Digiuno il venerdì, per l’Avvento e la Quaresima. Nei monasteri i religiosi non hanno mangiato carne per secoli e anche il vino è stato ammesso solo in giorni particolari. La mensa dei trappisti è costituita da pane e acqua per la metà dei giorni dell’anno. Per fare a meno dell’olio nel corso della Settimana Santa i monaci del Monte Athos hanno imparato a spremere alcuni funghi e a ottenerne qualcosa che all’olio somiglia molto. Certo, si potrebbe dire, va bene cancellare dal menù di una festa comune ogni traccia di carne di maiale, rinunciare persino alla mortadella, che di Bologna è una bandiera e in alcuni luoghi viene chiamata con il nome del capoluogo emiliano, ma perché snaturare il tortellino, questo luogo dello spirito oltreché della cucina, la cui chiusura a mano rappresenta un’abilità rara, che si consolida nelle generazioni? Credo dipenda da una tendenza del neo cardinale a fare le cose fino in fondo e a volere che l’intenzione dell’agire appaia evidente. Eliminare la carne di maiale in un momento di scambio e di festa con dei musulmani è un gesto d’obbligo: alcuni consigliavano di sacrificare i tortellini, con lombo, prosciutto e mortadella, a favore dei tranquilli tortelloni, a base di ricotta, spinaci e parmigiano, e di saltare gli antipasti misti all’emiliana. Zuppi ha voluto compiere un gesto chiaro, trasparente, mostrare con esso la disponibilità a compiere qualche sacrificio, invero piccolo, in nome di quella grande opera di carità che l’accoglienza rappresenta e che di tanto in tanto deve essere proclamata con nettezza.

Papa Francesco, Maria Giovanna Maglie: "Il fedelissimo ci svende all'Islam", un caso il tortellino a Bologna. Libero Quotidiano l'1 Ottobre 2019. La notizia arriva da Bologna. Ed è surreale, ma drammaticamente vera. La rilancia Il Corriere della Sera: "Tortellini senza maiale per la festa del patroni. E Bologna si divide", recita il titolo. Il catenaccio spiega che la peculiare idea è di Matteo Zuppi, arcivescovo metropolitano di Bologna, il quale sabato prossimo verrà nominato cardinale da Papa Francesco. Fedelissimo di Bologna, insomma. Perché mai la rinunci al maiale? Per permettere di partecipare alla festa mangiando tortellini anche a chi, per ragioni religiose, non può mangiare il maiale. Gli islamici, per esempio. Scelta, quella di Zuppi, sempre più peculiare. Tanto che contro la decisione si scatena, su Twitter, Maria Giovanna Maglie: "Un altro cattolico bergogliano pronto a svenderci - tuona -. Zuppi inventa il tortellino dell'accoglienza ripieno di pollo. Non è proselitismo, è subalternità, è resa all'islam. Ed è boicottaggio del made in Italy", sottolinea la Maglie. Infine, la richiesta: "Bolognesi, restate a casa". Una Maglie semplicemente inappuntabile. 

Camillo Langone per “il Giornale” il 2 ottobre 2019. Da Biffi a Zuppi: povera Bologna, e povero tortellino. C'era una volta, sotto le Due Torri, il cardinale Giacomo Biffi, che alla famosa pasta ripiena dedicò un pensiero gastro-teologico: «I tortellini sono più gustosi se si mangiano avendo nel cuore la speranza nella vita eterna». Adesso la chiesa bolognese è guidata da Matteo Zuppi che potrebbe rimanere nella Storia come l'arcivescovo che ha fatto perdere l'anima al tortellino (un'anima cattolica, ovvio, essendo il ripieno a base di carne di maiale). L'iniziativa è partita da Paola Lazzari Pallotti, presidentessa dell'Associazione sfogline, capace di inventarsi un ripieno di pollo gradito ai musulmani per quello che lei chiama «tortellino dell' accoglienza» (ma io lo chiamerei «tortellino della resa»). Da lanciare il giorno della festa di San Petronio che quest'anno si sovrappone ai festeggiamenti per la berretta cardinalizia con la quale Papa Bergoglio premierà l'immigrazionismo di Zuppi, uomo talmente ideologico e settario da suscitare sconcerto, a un convegno del 2016, perfino in Maurizio Landini: «Che deve dire il segretario della Fiom se l'arcivescovo di Bologna è più a sinistra di lui?». Ieri Zuppi, per tamponare le polemiche, ha diffuso un comunicato in cui dichiara di non avere sollecitato la variazione di ripieno, peccato che la smentita somigli a una conferma quando parla di «una normale regola di accoglienza e di riguardo verso gli invitati con altre abitudini alimentari o motivazioni religiose». Insomma: del tortellino di pollo l'arcivescovo non ne sapeva nulla, però lo benedice entusiasta. Tradendo in un sol colpo Biffi, Bologna e Gesù che rese «puri tutti gli alimenti» (Marco 7,19), che spazzò via i tabù alimentari precristiani e anticristiani a cui oggi tanto clero, dimentico del Vangelo e ipnotizzato dal Corano, invece si inchina.

Dagospia il 2 ottobre 2019. Lettera 15: Caro Dago, tortellino senza maiale ripieno di pollo ribattezzato "tortellino dell'accoglienza", proposto della curia di Bologna per gli islamici che non mangiano il maiale in occasione della festa di San Petronio, il patrono della città. Resta da spiegare cosa c'entrino i musulmani con San Petronio. Perché dovrebbero festeggiare? Festeggiano forse anche Natale e Pasqua? Max A.

Ora i frati minori fanno gli auguri agli islamici (citando Papa e Corano). L'Ordine dei frati minori inoltra un messaggio di auguri alla comunità islamica per il Ramadan, ma non tutti, anche all'interno della Chiesa, ritiene che le due confessioni possano avere un rapporto gerarchicamente paritario. Francesco Boezi, Sabato 11/05/2019 su Il Giornale. I conservatori avranno magari qualcosa da ridire, ma quella di augurare 'buon Ramadan" alla comunità islamica è diventata una costante di buona parte degli ambienti cattolici. Sul blog dell'Ordine dei frati minori è possibile leggere un vero e proprio messaggio di auguri. Qualche giorno fa, il vescovo kazako Athanasius Schneider ha domandato una correzione papale della dichiarazione, quella congiunta, sottoscritta ad Abu Dhabi da papa Francesco, appunto, e dal grande imam di Al Azhar perché il presule, che si rifà a quello che ritiene un indissolubile precetto dottrinale, non considera possibile - sintetizziamo - che sia stato proprio Dio a volere che le religioni differissero tra di loro. E le modalità di dialogo con la confessione musulmana scelte dal Santo Padre sin dall'inizio del suo pontificato, in ogni caso, costituiscono un punto critico sollevato con stabilità dagli “antibergogliani”. Ma le critiche dei tradizionalisti non interrompono la dialettica interreligiosa. L'Ordine nato alla fine del 1800' per disposizione di Leone XIII si posiziona dall'altra parte della barricata dialettica. Del resto il Vaticano non è affatto un sostenitore dello "scontro di civiltà". Magari, citando alcuni versetti del Corano, i frati si sono spinti un po'oltre la consuetudine. Non è nostro compito valutare. L'esempio rimane quello papale: "Papa Francesco - scrivono - ha spesso parlato del suo desiderio di seguire l’esempio di San Francesco d’Assisi che, portando un “messaggio di pace e fraternità”, viaggiò in Egitto nel 1219 dove fu accolto calorosamente dal Sultano al-Malik al-Kamil". Poi c'è la volontà di connotare come storico il Documento sulla Fraternità Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza comune, quella dove si trova l'espressione contestata dal vescovo Athanasius Schneider e altri: "differenza di religioni". I frati minori - a firmare il messaggio sono quattro, tra cui tre membri appartenenti alla Commissione deputata al dialogo con la confessione musulmana - sostengono che tanto i cristiani quanto le persone di fede islamica siano "ugualmente esortati a proteggere la creazione e sostenere tutte le persone". Anche in questa circostanza, insomma, sembrerebbe essere presente quella tendenza che considera equiparabili le due confessioni religiose. Con buona pace, forse, del primato gerarchico del cattolicesimo. Ci sono pure riferimenti alla tutela dei migranti e al fatto che Bergoglio si esprima a loro nome. Baget Bozzo, la cui figura è stata ricordata in questi giorni per via del decimo anniversario della sua morte, la pensava così: "Per sua natura e vocazione, l’Islam ha il compito di superare il cristianesimo nella rivelazione definitiva di Maometto, 'sigillo della profezia'". È un virgolettato riportato sulla rivista Tempi. Ma per l'Ordine dei frati minori le cose non stanno così.

Meglio il ramadan della Madonna. È la sottomissione "dolce" all'islam. Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 Riccardo Cascioli su Il Giornale.it. Chiamatelo pure "effetto Abu Dhabi", sta di fatto che l'inizio del Ramadan lo scorso 5 maggio ha visto diocesi, parrocchie, ordini religiosi cattolici scatenarsi in una gara di amicizia e solidarietà con i musulmani. Tutti pazzi per l'islam. In nome di quella fraternità umana evocata da papa Francesco in tanti discorsi e documenti e, appunto, della "Dichiarazione di Abu Dhabi", che papa Francesco ha firmato lo scorso 4 febbraio insieme al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb.Una pietra miliare nel dialogo fra cristianesimo e islam che, come spesso accade per i gesti e le parole di papa Francesco, ha dato la stura a una serie di iniziative che vanno ben oltre lo scritto e le intenzioni del documento, come fu per l'omosessualità con la frase "Chi sono io per giudicare?", così accade ora per l'islam. L'iniziativa più gettonata è il messaggio di auguri per il Ramadan, il mese in cui Maometto avrebbe ricevuto la rivelazione del Corano. Il saluto in lingua lo hanno fatto anche l'Ordine dei Frati Minori che si è spinto a sostenere che musulmani e cristiani subiscono le stesse "persecuzioni, guerre e ingiustizie". Chissà se san Francesco approverebbe. La diocesi di Sassari fa un passo ulteriore: oltre al saluto in arabo introduce anche il calendario islamico, gli auguri sono per il Ramadan del 1440 (si contano gli anni dall'esodo di Maometto dalla Mecca a Medina).L'altro grande momento di fraternità catto-musulmana riguarda il pasto che interrompe il digiuno, il quotidiano iftar che scatta al tramonto. La diocesi di Torino sponsorizza l'iniziativa del Gruppo Abele e di alcune parrocchie che insieme al Coreis (Comunità religiose islamiche) organizza due incontri di dialogo interreligioso intorno a una tavola comune proprio in occasione dell'iftar. Il parroco di Novellara, diocesi di Reggio Emilia, addirittura vuole strafare offrendo i locali della parrocchia a tutti i musulmani proprio per celebrare ogni sera l'iftar. Non resta certo indietro la diocesi di Milano che, con il suo Forum delle religioni, "invita a vivere insieme l'iftar" il prossimo 18 maggio. La Caritas di Catania invece è preoccupata che gli islamici non abbiano abbastanza da mangiare al tramonto, così ha organizzato per l'inizio del Ramadan una raccolta speciale di beni alimentari che ha poi donato alla locale moschea della Misericordia. E se questo accade durante il mese del digiuno, possiamo immaginarci cosa accadrà dopo il 4 giugno, con la fine del Ramadan e la festa di Id al-fitr. Per non sbagliare, la diocesi di Mileto, in Calabria, ha già prenotato per una grande cena fraterna tra cattolici e musulmani. Ma non basta: in questo tempo imam e predicatori vari sono invitati a spiegare l'islam ai cattolici. È ancora la diocesi di Torino protagonista: lunedì 13 maggio, giorno in cui la Chiesa ricorda la prima apparizione della Madonna a Fatima, nella Basilica della Consolata il vice-presidente del Coreis, Yusuf Abd Al-Hakim Carrara, spiegherà perché "I musulmani onorano Maria madre di Gesù". Certamente non come madre di Dio, né come Immacolata Concezione.In ogni caso è difficile non notare che per la Chiesa in Italia quest'anno maggio sembra essere più il mese del Ramadan che il mese dedicato alla Madonna- Qualcuno la chiama "sottomissione dolce", riferendosi al romanzo dello scrittore francese Michel Houellebecq, ma in queste modalità di avvicinamento all'islam avanza il relativismo religioso; proprio ciò che l'allora cardinale Joseph Ratzinger voleva contrastare quando nel 2000 firmò la Dichiarazione dottrinale Dominus Iesus, "circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa". Soltanto in Cristo e nella Sua Chiesa c'è la piena verità e la salvezza per gli uomini, il che "esclude radicalmente quella mentalità indifferentista improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che una religione vale l'altra". Parole che tanti cattolici anche vescovi - non vogliono più sentire, ma che per la Chiesa restano sempre vere.

Lasciarsi morire o credere? Indagine su Houellebecq. In un libro interviste, saggi di diversi autori e qualche inedito. Un omaggio importante. Alessandro Gnocchi Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Tre-quattro regole di marketing spiegano tutti i comportamenti umani. Non siamo molto più complicati delle formiche. Dire «io» è una affermazione supponente, nel vero senso della parola. La società capitalista, che è comunque la migliore mai sperimentata, è una macchina per produrre alienazione e infelicità. La dimostrazione geometrica che i fatti sono questi, e non possiamo cambiarli, risiede nel sesso. Semplificando, ma neanche troppo, i belli e i ricchi scopano, gli altri devono accontentarsi di solitudine e masturbazione (a volte neanche quella). Il progresso è un'illusione. Meglio conservare ma la nostra epoca venera ciò che è nuovo soltanto perché è nuovo. Il dominio della tecnica conduce alla scomparsa di quella che un tempo si chiamava anima e oggi è solo un groviglio di reazioni fisiche del nostro cervello. La religione non ha senso ma sarebbe bello se ce ne fosse una in cui si riuscisse a credere. L'Occidente secolarizzato si dissolverà davanti a popoli più giovani uniti dalla fede, come i musulmani. Ci meritiamo o non ci meritiamo di sparire? Non ha nessuna importanza. Per le strade d'Europa si incontra soltanto gente che vuole gettare via un fardello troppo pesante chiamato libertà. Il multiculturalismo è roba da imbecilli che non si rendono conto di aver creato un supermercato e non una cultura. Oggi il mondo si degusta alla carta. Tutto è disponibile qui e ora: tutti i sapori, tutti i prodotti, tutte le musiche. Questo girovagare goloso tra gli scaffali non è una vittoria sullo sciovinismo. È solo mettere il sigillo dell'ideale alla società delle merci. Il supermercato è il maggior contributo del XX secolo alla civiltà. Sono idee tragiche ma si possono dire anche con un sorriso beffardo stampato in faccia. Come fa Michel Houellebecq. Certo, leggere lo scrittore francese conduce a una visione del mondo, quella appena esposta, di fronte alla quale c'è solo una decisione da prendere: spararsi un colpo in testa o cambiare strada. Cambiare strada per andare dove? Intanto, per farsi un'idea di quale sia il punto di partenza, oltre ai romanzi e alle poesie di Houellebecq, si può sfogliare il Cahier (La nave di Teseo, pagg. 390, euro 30) di Michel Houellebecq. Non è il nuovo libro dello scrittore francese. È un omaggio che include interviste, saggi di diversi autori e qualche inedito di Houellebecq stesso. C'è anche l'articolo nel quale si dichiara conservatore, finora pubblicato in Italia solo da questo quotidiano. Buttare in politica un autore come Houellebecq è demenziale. Quindi non cominciamo neppure: leggete nel Cahier l'articolo in questione. Non c'è bisogno di dire altro. Torniamo invece alla decisione da prendere. Lasciarsi sprofondare nel nulla? Oppure? Un «oppure» grande come una casa spunta a sorpresa tra le pagine di Sottomissione, il romanzo uscito per coincidenza nel giorno della strage di Charlie Hebdo, perpetrata da terroristi musulmani. La storia è notissima: l'Europa viene conquistata democraticamente da una versione «borghese» dell'islam. Tra le vittime di quell'attentato c'è l'economista Bernard Maris, amico dello scrittore. Prima di morire, Maris scrive una paginetta su Sottomissione, pubblicata nel Cahier. È l'unico articolo imprescindibile di questo volume, comunque pregevole e di alto livello. Si intitola La conversione di Michel e mette in luce il disperato bisogno (non soddisfatto) di credere in qualcosa, nel cristianesimo o almeno in una versione accomodante, perfino un po' ipocrita, dell'islam. Cosa che fa il protagonista, studioso di Joris-Karl Huysmans: e qui scatta il campanello d'allarme. Il decadente autore di A ritroso fu infatti protagonista di una clamorosa e inaspettata conversione. Il tema torna, ancora più chiaramente, nell'ultima pagina dell'ultimo romanzo di Houellebecq, Serotonina. Sarà anche pura fiction ma il lettore, specie quello affezionato a questo magnifico scrittore, è chiamato a interrogarsi. Cosa significa «credere» innanzi tutto? È necessariamente un «credere» in Dio o in Allah o in chi volete voi? No. Il senso della vita potrebbe essere il «credere»? Credere in noi stessi, credere alla verità dei nostri sentimenti, credere a quello che facciamo, credere di non essere del tutto inutili, credere negli altri, credere, pateticamente, nell'amore? Scommettere sul positivo, rifiutare di chiudersi nel nichilismo che porta solo a cuori spenti, voci mozzate, esistenze sprecate. Il nichilismo: ovvero il prodotto perfetto, quello che tutti devono acquistare in questa epoca livellatrice, descritta magistralmente da Houellebecq. La visione «positiva» del mondo viene considerata da molti una sorta di auto-illusione per allontanare gli spettri: la vecchiaia, il declino fisico-mentale, la morte. Per qualcuno sarà così. Per altri no. Certo, la speranza non viene spontanea. Ma quando diciamo «credo» intendiamo sempre «lotto ogni giorno per credere». Dài Houellebecq, lotta con noi.

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 21 novembre 2019. Sono pochi gli scrittori che, come Michel Houellebecq, creano tanta attesa a ogni nuovo romanzo, e tante discussioni quando il libro finalmente esce e viene letto. Inoltre, a differenza di altri autori di successo planetario, come Elena Ferrante, lo scrittore francese non può essere accusato di fare una letteratura mediocre. I suoi più fieri avversari Houellebecq li ha trovati sul terreno ideologico e religioso, non su quello artistico. Il "caso" Houellebecq si riapre insomma periodicamente, come, per usare una brutta immagine, una ferita incurabile nel tessuto dell' Occidente. Forse perché Michel Houellebecq è l' ultimo scrittore occidentale, di certo l' ultimo romanziere. Libri come Le particelle elementari, Piattaforma e La possibilità di un' isola sono nobili, audaci, terminali testimonianze di una tradizione narrativa destinata alla scomparsa, soppiantata da altre pratiche più veloci e meno intelligenti. Esce oggi un corposo libro di e su Houellebecq: Cahier, a cura di Agathe-Novak Lechevalier (La Nave di Teseo, 400 pagg., 26,50 euro). Più che di un "taccuino" o "quaderno" come indica il titolo, si tratta di un vero e proprio "museo Houellebecq" in forma scritta. Ci sono contributi di scrittori famosi come Salman Rushdie o Julian Barnes, ci sono brani poetici, ci sono le e-mail tra Houellebecq e la sua editrice Teresa Cremisi, c' è il rapporto tra Houellebecq e la musica, con preferenze che vanno dalle ultime, metafisiche pagine pianistiche di Liszt all' entusiasmo per Leonard Cohen, Neil Young e Iggy Pop. Tutto quello che vorreste sapere su Houellebecq, dai suoi inizi, con le interviste all' epoca del primo romanzo, Estensione del dominio della lotta e, ancor più antichi, brani di un suo ridondante e inedito poema giovanile dal grottesco titolo: Estratto della monumentale «Histoire des civilisations boréales», fino alle ultime posizioni circa la dissoluzione della civiltà occidentale e il suo rassegnato declino economico e morale, lo troverete in questo volume. Houellebecq fornisce anche un perfetto autoritratto in un pezzo dove parla delle canzoni di Neil Young, ma si capisce che vi sta proiettando sé e i suoi romanzi: «Le canzoni di Neil Young sono fatte per coloro che sono spesso infelici, solitari, che sfiorano le porte della disperazione; ma che continuano tuttavia a credere che la felicità sia possibile. Per coloro che non sono sempre felici in amore, ma che si innamorano sempre di nuovo. Che conoscono la tentazione del cinismo, senza essere capaci di cedervi a lungo. Che possono piangere di rabbia alla morte di un amico; che si chiedono realmente se Gesù Cristo possa venire a salvarli. Che continuano, in tutta buona fede, a pensare che si possa vivere felici sulla Terra. Bisogna essere un grandissimo artista per avere il coraggio di essere sentimentale, per correre il rischio della sdolcinatezza». Chi ha letto i suoi romanzi, sa che Houellebecq questo rischio lo corre spesso, ma la sdolcinatezza è abilmente miscelata con le considerazioni più scorate: «Non conosco nessuno che viva in Occidente senza esservi obbligato», afferma lo scrittore in un' intervista. Tutto ciò che un tempo Occidente voleva dire libertà, e oggi invece vuol dire obbligo: ecco cosa ci dice, se possiamo isolare un messaggio, l' opera di Houellebecq. Nessun altro scrittore afferma e argomenta questa degenerazione con la stessa crudezza. La speranza, forse l' utopia del progresso (che Houellebecq ha frequentato, da assiduo lettore di Auguste Comte) si è gradualmente tradotta nella certezza, disperata, del declino. «Il sesso è l' unica cosa che in Occidente mi sembri funzionare», dice in un' altra intervista; ma non è vero che i suoi romanzi siano ossessionati dal sesso, perché è anche vero, nel suo caso, che «il romanziere riflette l' infelicità del mondo». Sono le cose che non funzionano, non quelle che funzionano, che lo stimolano. E d' altra parte «scrivere un romanzo è l' attività più triste del mondo». In effetti, l' immagine pubblica di Houellebecq è quella di un uomo a dir poco triste e, per giunta, fisicamente disfatto. Una strana figura di San Giovanni Battista, emaciato e profetico, che però ha avuto la sventura di non avvistare alcun Messia. È di questo mancato Avvento che ci parla Houellebecq, un sentimento di carenza che si percepisce più acutamente in quell' Occidente che si illude di essere una perfetta macchina di liberazione terrena e di felicità mondana. Ecco perché Houellebecq e i suoi libri continuano a attrarci irresistibilmente, perché svelano la menzogna in cui siamo immersi e che continuiamo a ripetere. La grande menzogna che non riesce a scalfire minimamente le ferite più profonde: «Quando ero piccolo, mia madre non mi ha sufficientemente cullato. Ancora oggi, quando una donna rifiuta di toccarmi, di accarezzarmi, ne provo una sofferenza atroce, intollerabile; è uno strazio, un crollo, è una cosa così spaventosa che, anziché correre il rischio, ho sempre preferito rinunciare a ogni tentativo di seduzione» scrive Houellebecq in un diario del 2005, e conclude: «Ora lo so: rimarrò fino alla morte un bimbo abbandonato, urlante di paura e di freddo, affamato di carezze». Forse non a tutti è andata così male, ma in verità, a alcuni personaggi "di successo" non inferiore a quello ottenuto da Houellebecq, è andata anche peggio.

Vittorio Feltri, la durissima accusa contro l'islam: "Solo gli imbecilli non capiscono quanto sia grave", scrive il 13 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Lunedì 4 marzo, come ho già riferito, sono stato processato dall' Ordine dei giornalisti della Lombardia per aver scritto un articolo poco simpatizzante nei confronti degli islamici, specialmente terroristi e violenti di ogni genere. A giorni mi arriverà la sentenza in cui si dirà che ho offeso la dignità di un popolo e di una religione, quando invece personalmente ce l'ho soltanto con gli assassini e chi trasforma la fede in un alibi per commettere delitti. Ma questi sono dettagli irrilevanti per il lettore, al quale voglio solo far notare che, mentre perseguitano un cronista perché afferma la verità, in Iran è stata inflitta una pena detentiva di 38 anni, con l'aggiunta di 148 frustate, alla signora Nasrin Sotoudeh, 55 anni, avvocato di grido e difensore strenuo delle donne iraniane, dei loro diritti umani, di cui lo Stato musulmano se ne infischia ritenendoli capricci femminili. La vicenda dell'eroica professionista è emblematica di una situazione la cui gravità sfugge solamente agli imbecilli che tutelano l'inciviltà orrenda di un Paese - la ex Persia - col quale l'Italia ha intessuto rapporti commerciali intensi, fottendosene di trattare affari con un regime privo di un minimo di moralità. La stampa nostrana più sensibile, per esempio il Corriere della Sera, ha riservato meritoriamente mezza pagina alla vergognosa vicenda, tuttavia la categoria alla quale non mi onoro di appartenere non ha sprecato una parola contro la condanna di Nasrin che grida vendetta. Non un comunicato, non una frase solidale nei riguardi della vittima, zero. Però processa me in quanto sul mio quotidiano ho espresso riprovazione verso una cultura, quella musulmana, che permette scempi del tipo che ho narrato in queste poche righe. Mi auguro che i guru dell'Albo prendano atto della realtà emergente dalla citata storia iraniana per farsi un esame di coscienza, ammesso ne abbiano una. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri, la sfida all'Ordine dei giornalisti che lo processa: "I terroristi sono bastardi", scrive il 5 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Ieri mattina sono stato "processato" dall'ordine dei giornalisti per un articolo che scrissi per Libero nel 2017, in cui auspicavo che i musulmani fortemente sospettati di essere violenti venissero espulsi, secondo lo stesso piano proposto da Trump. In sostanza, sostenevo che non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Mi è stato detto che alcune mie espressioni non corrispondono alle norme deontologiche. E allora ecco la mia difesa che mi auguro venga accolta dai "giudici". Posto che la stragrande maggioranza dei terroristi che hanno compiuto stragi in Europa, facendo centinaia di vittime, sono estremisti islamici, nel mio pezzo incriminato ingiustamente sostengo (alla riga nona) che "non tutti i musulmani sono bastardi inclini a uccidere, ma è assodato che la minaccia alla nostra incolumità proviene dal loro (quello dei bastardi) fetido ambiente". Ovvio pertanto che coloro che sono fortemente sospettati di essere terroristi vadano eliminati dalla società, esattamente come intende fare Trump che non è un dittatore, bensì il presidente degli Usa, ossia un Paese democratico. Ho sottolineato che gli osservatori bigotti del Corano hanno una cultura che spesso contrasta con la nostra, tanto è vero che non sono rari gli episodi in cui si registrano violenze specialmente contro le donne che adottano costumi occidentali. E questa è una verità incontestabile. Noi non sopportiamo che taluni ospiti musulmani agiscano in violazione delle leggi italiane che prevedono la parità dei generi. L' Isis poi ha sparso troppo sangue e non lo accettiamo. Qui si tratta di espellere non gli islamici in blocco, ma coloro che commettono reati o progettano di compierne. I concetti da me espressi sono chiari e netti. Per quanto riguarda il titolo dell'articolo non posso venire chiamato in causa non essendo il direttore responsabile. Infine non credo che concordare con Trump sia un delitto perseguibile dall' Ordine dei giornalisti. Andando ad un'analisi logica del testo osservo che laddove scrivo "non tutti i musulmani sono bastardi inclini a uccidere" faccio un'evidente e netta distinzione fra chi è deprecabile (al quale ben si addice - essendo terrorista - l'aggettivo impiegato) e chi non lo è. Faccio notare che sul piano semantico del resto la stessa Treccani illustra a proposito del termine "bastardi" l'uso estensivo del sostantivo invalso per indicare un soggetto "degenere" o corrotto. Tornando all' analisi logica della frase, laddove aggiungo "ma è assodato che la minaccia alla nostra incolumità proviene dal loro fetido ambiente", appare incontrovertibile che il pronome personale "loro" è riferito ai terroristi, dunque l'aggettivo impiegato per identificare l'ambiente da cui provengono è assolutamente appropriato. Anche qui, sul piano meramente semantico, sempre la Treccani spiega che l'impiego dell'aggettivo fetido è in uso figurativo per esprimere grave riprovazione, condanna, disgusto. In definitiva c'è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che i terroristi non sono bastardi e che il loro ambiente non è fetido? Credo proprio di no! Non vorrei che i colleghi censori mi avessero confuso con Crozza quando esaspera i toni o confonde posizioni che non ho mai avuto. Vittorio Feltri

Coutts, il prelato che viene dal Pakistan: "L'islam non è mai uscito dal Medioevo". "Per i musulmani che vivono in Occidente è dura affrancarsi dalle famiglie", scrive Fabio Marchese Ragona, Giovedì 11/04/2019, su Il Giornale.

Eminenza, in Italia purtroppo ci sono stati diversi casi che vanno in senso opposto: ragazze pakistane, come Sana o Hina, uccise dai parenti perché volevano vivere all'occidentale...

«Vivere all'occidentale per un musulmano significa due cose: cambiare religione e lasciare quella del padre e degli antenati. E questo costituisce un grande disonore per tutta la famiglia. La società è cambiata, ma l'islam non è stato in grado di stare al passo coi tempi. Non sto dicendo che sia stato giusto uccidere queste ragazze, ma è purtroppo estremamente coerente con la logica del pensiero dominante, che è religioso ma soprattutto culturale. Per cambiare servirà del tempo e non potrà essere dall'oggi al domani».

Mi sta dicendo che quindi la religione è talmente totalizzante nella vita di queste persone, anche oneste, tanto da portare a uccidere?

«L'idea di discostarsi dalla religione della famiglia per sposare un occidentale è destabilizzante per il nucleo familiare perché significa considerare sbagliato il credo di provenienza e giusto quello che si sceglie. Inoltre devo anche ammettere che, statisticamente, i matrimoni combinati trovano molto più supporto nella risoluzione dei problemi, quindi non finiscono molto facilmente. Invece i matrimoni che nascono da decisioni individuali dei ragazzi, appena ci sono delle crisi di un mese o di un anno finiscono. Soprattutto nel caso di queste ragazze che arrivano in Europa e cambiano il proprio stile di vita perché subiscono uno shock culturale. È chiaro che queste ragazze musulmane che vivevano in Italia volevano allinearsi a quello che avevano intorno. Ma i loro genitori vivevano ancorati al passato e non hanno mai fatto un passo verso i nostri tempi.

E questo passo l'islam lo farà mai?

In Europa avete attraversato secoli di cambiamento, avete avuto il Rinascimento, l'Illuminismo, la Rivoluzione francese. Nella Chiesa cattolica abbiamo avuto il Concilio Vaticano II e abbiamo cambiato tante cose, a partire dalla lingua: non più quella latina. Io mi ricordo il cardinal Ottaviani che con il suo motto Semper idem (Sempre lo stesso), voleva rimarcare il suo no al cambiamento, perché non riusciva a capacitarsi di come si potesse celebrare la Messa in un'altra lingua. Ma Gesù non parlava latino, Gesù parlava la sua lingua, l'aramaico. Analogamente è come se l'islam non fosse uscito fuori dal Medioevo. Io lo dico sempre, l'islam ha ancora una gamba nel Medioevo e una nella modernità». (....)

Eminenza, è stato un vero miracolo la liberazione di Asia Bibi...

«Tutti hanno agito con cautela. È stato molto difficile anche per il Governo riuscire a dare una svolta alla vicenda, perché i fondamentalisti islamici non si sono fermati neanche di fronte alle guardie del corpo del governatore Taseer, un musulmano onesto ucciso dai suoi bodyguard perché voleva riformare la legge e perché aveva consigliato ad Asia di scrivere una lettera con la richiesta di grazia. Noi abbiamo fornito tutto l'appoggio psicologico e spirituale ad Asia e alla sua famiglia, ma finché persino un giudice viene ucciso e giudicato come cattivo musulmano per una sentenza emessa, la classe politica si farà in futuro molti scrupoli a mettere a repentaglio la propria vita per salvarne un'altra».

"Predica un Vangelo diverso". E il vescovo corregge il Papa. Il vescovo Athanasius Schneider, per il tramite di un'intervista, ha richiesto una rettifica della dichiarazione del papa con il grande imam. Alla base della domanda c'è la possibile equiparazione tra religione islamica e religione cattolica, che il presule ritiene almeno sbagliata dottrinalmente. Francesco Boezi, Giovedì 09/05/2019, su Il Giornale.  Il vescovo kazako Athanasius Schneider, che è considerato un tradizionalista o un conservatore, ha domandato, mediante un'intervista, una rettifica formale da parte del pontefice argentino. Sono tempi, questi odierni, in cui la Chiesa cattolica può dire di essere animata da una dialettica serrata. Il presule era già intervenuto in una maniera che era apparsa preoccupata sulla dichiarazione di Abu Dhabi, quella dal tenore storico che papa Francesco ha sottoscritto all'inizio di quest'anno con il grande imam di Al Azhar. Lo stesso imam che dopo il discorso di Ratisbona tenuto da Joseph Ratzinger sembrava aver chiuso la linea diplomatica con le istituzioni cattoliche. Ma Schneider si era già distinto per le sue posizioni. Così si era espresso nel corso di un'intervista che ci ha rilasciato nell'estate del 2018: "Il fenomeno della cosiddetta “immigrazione” rappresenta un piano orchestrato e preparata da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei". Non è la narrativa di buona parte della Santa Sede. Le critiche dovrebbero essere arrivate all'orecchio del Vaticano. Il Santo Padre, da quel che circola, ha pure avuto modo di parlare di recente con il vescovo incaricato nell'ex nazione sovietica. Ma forse l'udienza che ha avuto luogo in Santa Sede non si è rilevata chiarificatrice dei dubbi sollevati da monsignor Schneider. Perché c'è sempre l'equiparazione tra religione cattolica e religione musulmana in cima ai pensieri dottrinali del kazako: il tema che dovrebbe essere stato oggetto di quel summit tra i due. Quando i virgolettati riguardano la materia dottrinale si gioca sul filo e bisogna fare particolare attenzione. L'espressione vicino a cui Schneider sembra porre un asterisco è "diversità delle religioni". A riportarlo e a spiegare l'entità della richiesta diretta al Santo Padre, tra gli altri, è stata La Fede Quotidiana. Perché - questa è la versione che Schneider ha dato in un primo momento e che ha confermato in seguito - è una terminologia soggetta a interpretazioni che possono essere sbagliate. Quanto appena scritto è appurabile pure su questo blog. Ora, con la mossa del reclamo del rettifica, Schneider alza decisamente il tiro. Perché Dio - questo è il cuore del ragionamento del presule - non può aver caldeggiato, persino voluto, che le religioni fossero differenti e magari equiparabili. A venire meno, insomma, sarebbe il primato gerarchico del cattolicesimo. La proposizione selezionata - ventila sempre il presule kazako - contribuirebbe alla "confusione". Tanto che si starebbe "predicando un nuovo Vangelo". Ma le gerarchie vaticane, per ora, non hanno mai manifestato intenzione di modificare alcunché rispetto alla dichiarazione firmata da Francesco e dal grande imam.

Quella profezia di Giovanni Paolo II sulla Chiesa del terzo millennio. di Luigi Bisignani il 28 aprile 2019 su Nicola Porro. Passata la Pasqua con la strage nello Sri Lanka rivendicata dall’Isis continuano i giorni di passione in Vaticano da quando si sussurra che Papa Bergoglio, contro il parere del Segretario di Stato Pietro Parolin, voglia nominare per la prima volta una laica a capo della potente Prefettura degli Affari Economici, Claudia Ciocca, al posto del Cardinale George Pell, condannato in Australia per pedofilia. Contabile in KPMG-Spagna, è stata fortemente voluta in Vaticano da monsignor Lucio Balda, protagonista di Vatileaks, ora esiliato in Messico presso i Messaggeri della Pace dopo aver gestito un bar. Soprannominata scherzosamente nei Sacri Palazzi, in omaggio a Fantozzi, ‘ragionier Filini’, si è occupata dapprima, prevalentemente, delle spese riservate della Segreteria di Stato e oggi è direttore della sezione vigilanza e controllo. La polemica che infuria per questa nomina è velenosa, e fa il paio con le perplessità che gli episcopati dell’Asia, e non solo, hanno verso Bergoglio per la sua tiepida reazione dopo il massacro di Pasqua, rivendicato dall’Isis.

Infatti, oltre al cardinale americano Raymond Burke, patrono dell’Ordine di Malta, per il quale “l’Islam è una minaccia con lo scopo di governare il mondo e prendere Roma”, se n’è fatto portavoce anche Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto. Il cardinale guineano, vicino a Ratzinger, denuncia l’islamizzazione dell’Occidente e, a differenza del Santo Padre, non si fa scrupoli ad associare il termine ‘islamico’ al terrorismo, né a parlare dei seguaci di Cristo come vittime di azioni sanguinose. Ma come avrebbe reagito Papa Wojtyla davanti a queste stragi? Avrebbe appoggiato la linea Bergoglio o quella di Sarah? Di certo quando Giovanni Paolo IIsalì sul trono pontificio e trovò sulle scrivania gli esiti di un pasticciaccio combinato nel 1976 dal cardinale Sergio Pignedoli era furente. Il cardinale aveva organizzato un convegno sul dialogo tra cattolici e islamici a Tripoli, molto reclamizzato da Gheddafi. Quel convegno terminò con una dichiarazione scritta in italiano e arabo. Solo che Pignedoli ed i suoi collaboratori non conoscendo l’arabo, non si accorsero che, al posto del blablabla del testo italiano, quello arabo affermava la superiorità dell’Islam sul cristianesimo e quella di Maometto su Gesù Cristo. Wojtyła impiegò 10 anni a riparare i danni di quel documento, che ha avuto una incredibile circolazione nel mondo islamico. E capì ben presto che il “dialogo” pieno di ottimismo, come quello attuale di Bergoglio, si traduceva, in paesi strutturati su base tribale, in una vera e propria dichiarazione di debolezza, che permetteva ogni violenza contro i cristiani. Certamente Wojtyla sulla strage in Sri Lanka avrebbe scritto ai Potenti della terra, obbligandoli a condannare ufficialmente quanto accaduto. E certamente avrebbe anche raccolto il consiglio della Segreteria di Stato di officiare i funerali a Colombo. Non è poi un caso se la grande fuga in avanti delle persecuzioni anticristiane (praticate ora anche da buddisti e induisti) è iniziata nel 2012. Francesco appare intimorito dal dover parlare di terrorismo islamico, ha messo la mordacchia agli esperti, non dà peso a quello che gli viene detto dagli episcopati. Il giorno della strage di Pasqua ha chiamato “fratelli” anche i musulmani, non ha dato lo stesso titolo ai cristiani morti in Chiesa, limitandosi ad esprimere “affettuosa vicinanza” alle vittime. Tornano allora alla memoria le parole che il Santo Giovanni Paolo confidò a monsignor Mauro Longhi, dell’Opus Dei, che un paio di volte all’anno ha accompagnato Wojtyla nelle escursioni a San Felice d’Ocre, in Abruzzo: “Ricordalo a coloro che tu incontrerai nella Chiesa del terzo millennio. Vedo la Chiesa afflitta da una piaga mortale. Più profonda, più dolorosa rispetto a quelle di questo millennio, si chiama islamismo. Invaderanno l’Europa. Ho visto le orde provenire dall’Occidente all’Oriente”.

10 anni fa le famose parole sull’islam. Chi ha il coraggio di chiedere ‘scusa’ a Benedetto XVI? Articolo di George Weigel, intellettuale e attivista cattolico statunitense, è l’autore della biografia di San Giovanni Paolo II Witness to Hope. L’articolo originale, Regensburg Vindicated è stato pubblicato sul Denver Catholic Register, il 16 settembre 2014. Dieci anni fa, il 12 settembre 2006, Benedetto XVI, pronunciava un discorso all’Università di Ratisbona dedicato al dialogo tra Fede e ragione. Il fraintendimento di un passaggio di quel testo provocò inizialmente critiche dal mondo musulmano, ma oggi quella ‘lectio magistralis’ resta di grande attualità dal punto di vista teologico e del dialogo interculturale e interreligioso. Vi proponiamo la rilettura di ciò che segue. (da nostro archivio Papaboys 12 Settembre 2016)

La sera del 12 settembre 2006, io e mia moglie stavamo cenando a Cracovia, con nostri amici polacchi, quando un nervoso vaticanista italiano (perdonate la ridondanza degli aggettivi) mi chiamò, chiedendomi cosa pensassi del “Zees crazee speech of zee pope about zee Muslims” (“il folle discorso del papa sui musulmani”, detto in inglese con un forte accento italiano, ndr). Quello fu il primo sintomo di come l’orda delle “menti indipendenti” della stampa internazionale si sarebbe infuriata sul tema della Lezione di Ratisbona di Benedetto XVI, una “gaffe” su cui i media continuarono a mordere fino alla fine del suo pontificato. A otto anni di distanza, la Lezione di Ratisbona appare sotto una luce molto diversa. Infatti, coloro che la lessero per davvero nel 2006, compresero che, lungi dall’aver fatto una “gaffe”, Benedetto XVI aveva analizzato, con la precisione dello studioso, due domande chiave, la cui risposta avrebbe influenzato profondamente la guerra civile che sta tuttora infuriando all’interno del mondo islamico; una guerra il cui esito determinerà se, nel XXI Secolo, l’islam sarà sicuro per i suoi fedeli e per il mondo. La prima domanda chiave riguarda la libertà di religione. I musulmani possono trovare, all’interno del loro bagaglio culturale e spirituale, argomenti islamici a favore della tolleranza religiosa (compresa la tolleranza nei confronti di chi si converte ad altre religioni)? Questo auspicabile sviluppo, che il papa suggerì, potrebbe richiedere molto tempo (anche secoli) per elaborare una più completa teoria islamica della libertà religiosa. La seconda domanda chiave riguardava la struttura delle società islamiche: i musulmani possono trovare, anche qui all’interno del loro bagaglio culturale e spirituale, argomenti islamici per stabilire una distinzione fra l’autorità religiosa e politica in uno stato giusto? Questo sviluppo, altrettanto auspicabile, potrebbe rendere le società musulmane più umane al loro interno e meno pericolose per i loro vicini, specialmente se è legato a una istanza islamica per la tolleranza religiosa. Papa Benedetto XVI proseguì suggerendo che il dialogo interreligioso fra cattolici e musulmani dovesse concentrarsi su quelle due domande, fra loro strettamente legate. La Chiesa cattolica, come apertamente ammise il papa, attraversò le sue lotte interne mentre sviluppava una sua causa per la libertà di religione in un contesto politico di governo costituzionale, giocando un ruolo chiave nella società civile, ma non governandola direttamente. Il cattolicesimo ha infine sviluppato questi principi: non arrendendosi alla filosofia politica secolare, ma usando ciò che aveva appreso dalla modernità politica per tornare alla sua stessa tradizione, riscoprire gli elementi del suo pensiero su fede, ragione e società che erano stati perduti nel corso del tempo e sviluppare il suo insegnamento per la società giusta. Un simile processo di riscoperta/sviluppo è possibile anche nell’islam? Questa è la Grande Domanda posta da Benedetto XVI nella Lezione di Ratisbona. Il fatto che questa domanda sia stata prima fraintesa, poi ignorata, è una tragedia di proporzioni storiche. I risultati di quel fraintendimento e di quella ignoranza – e molti altri fraintendimenti e ignoranze – sono ora drammaticamente palesi in tutto il Medio Oriente: nella decimazione delle antiche comunità cristiane, negli atti di barbarie che hanno shockato un Occidente apparentemente apatico, come la crocefissione e la decapitazione di cristiani; negli Stati in subbuglio; nella speranza delusa che il Medio Oriente del XXI Secolo potesse guarire dalle sue varie malattie politiche e culturali per trovare la via di un futuro più umano. Sono sicuro che Benedetto XVI non sia affatto lieto nel vedere la sua Lezione di Ratisbona confermata dalla storia. Ma i suoi contestatori del 2006 possono comunque esaminare le loro coscienze e rivedere l’obbrobrio che gli hanno scagliato contro otto anni fa. Ammettendo di aver sbagliato nel 2006, potrebbero compiere un primo passo utile per uscire dalla loro ignoranza sul conflitto intra-islamico che minaccia gravemente la pace nel mondo del XXI Secolo. Quanto al discorso sul futuro dell’islam, che Benedetto XVI propose allora, ebbene, oggi, sembra alquanto improbabile. Ma se mai dovesse realizzarsi, i leader cristiani dovrebbero spianarne la strada, parlando, senza indugio, delle patologie dell’islamismo e dello jihadismo; smettendo di porgere scuse anti-storiche sul colonialismo del XX Secolo (imitando debolmente il peggio delle chiacchiere accademiche sul mondo arabo-islamico); e dichiarando pubblicamente che il prudente uso della forza militare è moralmente giustificato, una volta che ci si imbatte in fanatici sanguinari, come quelli che, da questa estate in poi, si stanno rendendo responsabili della nascita di un regno del terrore in Siria e Iraq.

BENEDETTO XVI E L’ISLAM. Amicidilazzaro.it 23 novembre 2018. Secondo Papa Benedetto XVI per evitare un conflitto di civiltà i l’Islam deve sganciarsi dalla violenza terrorista; l’occidente dalla violenza secolarista e atea. Benedetto XVI è forse fra le poche personalità ad aver capito profondamente l’ambiguità in cui si dibatte l’islam contemporaneo e la sua fatica nel trovare un posto nella società moderna e per questo egli sta proponendo all’Islam una via per costruire la convivenza mondiale e con le religioni basata non sul dialogo religioso, ma su quello culturale e di civiltà, basato sulla razionalità e su una visione dell’uomo e della natura umana che viene prima di qualunque ideologia o religione. Questo puntare al dialogo culturale spiega la sua scelta di assorbire il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso dentro al più grande Pontificio consiglio per la cultura. Mentre il papa chiede all’Islam un dialogo basato sulla cultura, sui diritti umani, sul rifiuto della violenza, nello stesso tempo chiede all’occidente di ritornare ad una visione della natura umana e della razionalità in cui non si escluda la dimensione religiosa. In questo modo – e forse soltanto così – si potrà evitare un conflitto delle civiltà, trasformandolo invece in un dialogo fra le civiltà.

Perché l’Islam è diverso dal Cristianesimo. Per comprendere il pensiero di Benedetto XVI e la religione islamica, occorre seguirne l’evoluzione. Un documento davvero essenziale si trova in un suo libro-intervista (scritto con Peter Seewald nel 1996, quando era ancora cardinale), dal titolo “Il sale della terra”. Egli mette in luce anzitutto che nell’Islam non c’è un’ortodossia, perché non c’è un’autorità, un magistero dottrinale comune. Questo rende il dialogo difficile: quando dialoghiamo, non dialoghiamo “con l’Islam”, ma con dei singoli gruppi. Ma il punto chiave che l’allora cardinal Ratzinger affronta è quello sulla sharia, che implica una concezione totalizzante della religione islamica tale da permeare anche gli aspetti socio-politici, profondamente diversa dal cristianesimo. «Il Corano è una legge religiosa che abbraccia tutto, che regola la totalità della vita politica e sociale e suppone che tutto l’ordinamento della vita sia quello dell’islam. La sharia plasma una società da cima a fondo. Di conseguenza, l’Islam può sfruttare le libertà concesse dalle nostre costituzioni, ma non può porre tra le sue finalità quella di dire: sì, ora siamo anche noi enti di diritto pubblico; ora siamo presenti [nella società] come i cattolici e i protestanti. A questo punto [l’Islam] non ha ancora raggiunto pienamente il suo vero scopo, si trova ancora in una fase di alienazione che si potrà concludere solo con l’islamizzazione totale della società. Quando ad esempio un islamico si trova in un società occidentale, lui può godere o sfruttare alcuni elementi, ma non si identificherà mai con il cittadino non musulmano, perchè non si trova in una società musulmana». In un seminario a porte chiuse, tenuto a Castelgandolfo (1-2 settembre 2005), il Papa ha insistito e sottolineato la stessa idea: la profonda diversità fra Islam e cristianesimo. Stavolta è partito da un punto di vista teologico, tenendo conto della concezione islamica della rivelazione: il Corano “è disceso” su Maometto, non è “ispirato” a Maometto. Per questo il musulmano non si sente in diritto di interpretare il Corano, ma è legato a questo testo in maniera letterale. Questo porta alle stesse conclusioni di prima: l’assolutezza del Corano rende molto più difficile il dialogo, perché le possibilità di interpretazione sembrano escluse e comunque molto ridotte. Il 24 luglio in Val d’Aosta, subito dopo l’Angelus, ad una domanda se l’islam può essere considerato una religione di pace, risponde: “Io non chiamerei questo in parole generiche, certamente l’Islam contiene degli elementi in favore della pace, come contiene altri elementi”. Anche se non in modo esplicito, Benedetto XVI fa comprendere che l’Islam soffre di ambiguità verso la violenza, giustificandola in vari casi. E ha aggiunto: “Dobbiamo sempre cercare di trovare gli elementi migliori”. Un altro chiede allora se gli attacchi dei terroristi possono essere considerati anticristiani. La sua risposta è netta: “No, generalmente l’intenzione sembra essere molto più generale e non precisamente diretta alla cristianità”.

Il dialogo fra culture è più fruttuoso del dialogo interreligioso. A Colonia, papa Benedetto XVI ebbe il suo primo grande incontro con l’Islam, parlando con i rappresentanti della comunità musulmana. In un discorso relativamente lungo, egli disse: “Sono certo di interpretare anche il vostro pensiero nel porre in evidenza tra le preoccupazioni quella che nasce dalla constatazione del dilagante fenomeno del terrorismo. (…) Il terrorismo di qualunque matrice esso sia, è una scelta perversa e crudele che calpesta il diritto sacrosanto alla vita e scalza le fondamenta stesse di ogni civile convivenza”. Quindi viene a coinvolgere il mondo islamico sottolineando che “solo sul riconoscimento della centralità della persona si può trovare una comune base di intesa superando eventuali contrapposizioni culturali e neutralizzando la forza dirompente delle ideologie”. Dunque, prima ancora della religione, c’è la voce della coscienza e tutti dobbiamo lottare per i valori morali, per la dignità della persona, la difesa dei diritti. Per Benedetto XVI, perciò, il dialogo va basato sulla centralità della persona, che supera sia le contrapposizioni culturali sia le ideologie: il dialogo con l’Islam e con le altre religioni non può essere essenzialmente un dialogo teologico o religioso, se non in senso largo di valori morali; esso deve invece essere un dialogo di culture e di civiltà: si tratta di affrontare il vivere insieme sotto gli aspetti concreti della politica, dell’economia, della storia, della cultura, delle usanze…

Razionalità e fede. In un dialogo del 25 ottobre 2004 tra lo storico Ernesto Galli della Loggia e l’allora card. Ratzinger (→ leggi), ad un certo momento il cardinale, parlando di teologia, ricorda i “semi del Verbo” e sottolinea l’importanza della razionalità nella fede cristiana, vista dai Padri come il compimento della ricerca di verità presente nella filosofia. Galli della Loggia allora dice: “La vostra speranza che è identica alla fede, porta con se un logos e questo logos può divenire un’apologia, una risposta che può essere comunicata agli altri” e quindi a tutti. Il cardinale Ratzinger risponde: “Noi non vogliamo creare un impero di potere, ma abbiamo una cosa comunicabile alla quale va incontro un’attesa della nostra ragione. È comunicabile perché appartiene alla nostra comune natura umana e c’è un dovere di comunicare da parte di chi ha trovato un tesoro di verità e amore. La razionalità era quindi postulato e condizione del cristianesimo, che rimane un’eredità europea per confrontarci in modo pacifico e positivo, sia con l’islam, sia con le grandi religioni asiatiche”. Per lui, dunque, il dialogo è a questo livello, cioè fondato sulla ragione. Andando oltre, egli aggiunge: “questa razionalità diventa pericolosa e distruttiva per la creatura umana se diventa positivista, che riduce i grandi valori del nostro essere alla soggettività, e diventa così un’amputazione della creatura umana. Non vogliamo imporre a nessuno una fede che si può accettare solo liberamente, ma come forza vivificatrice della razionalità dell’Europa essa appartiene alla nostra identità”. Qui viene la parte essenziale: “è stato detto che non dobbiamo parlare di Dio nella costituzione europea, perché non dobbiamo offendere i musulmani e i fedeli di altre religioni. E’ vero il contrario ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio e del sacro che ci separa dalle altre culture e non crea una possibilità di incontro, ma esprime l’arroganza di una ragione diminuita, ridotta, che provoca reazioni fondamentaliste”. Benedetto XVI ammira nell’Islam la certezza basata sulla fede, in opposizione all’occidente, che relativizza tutto; e ammira nell’Islam il senso del sacro, che invece sembra essere sparito in occidente. Egli ha capito che il musulmano, non è offeso dal crocifisso, dai segni religiosi: questa è in realtà una polemica laicista che tende ad eliminare il religioso dalla società. I musulmani non sono offesi dai simboli religiosi, ma dalla cultura secolarizzata, dal fatto che Dio ed i valori che essi collegano con Dio sono assenti da questa civiltà. Benedetto XVI mira a punti più essenziali: la teologia non è ciò che conta, almeno non in questa fase storica; importa il fatto che l’Islam è la religione che si sta sviluppando di più e che diviene sempre più un pericolo per l’occidente e per il mondo. Il pericolo non è l’islam in genere, ma una certa visione dell’Islam che non rinnega mai apertamente la violenza e genera terrorismo e fanatismo. D’altra parte egli non vuole ridurre l’Islam a un fenomeno socio-politico. Il papa ha capito profondamente l’ambiguità dell’Islam, che è insieme l’uno e l’altro, che talvolta gioca su uno o sull’altro fronte. E lancia la proposta che se vogliamo trovare una base comune, dobbiamo uscire dal dialogo religioso per mettere fondamenti umanistici a questo dialogo, perché solo questi sono universali e comuni a tutti gli esseri umani. L’umanesimo è un fattore universale, le fedi possono essere fattori di scontro e divisione.

Sì alla reciprocità, no al buonismo. La posizione del papa non cade mai nella giustificazione del terrorismo e della violenza che talvolta si nota anche fra personalità ecclesiali quando si scivola in un relativismo generico: in fondo la violenza c’è in tutte le religioni, la violenza è giustificata come risposta ad altre violenze… No, questo papa non ha mai fatto allusioni del genere, ma d’altra parte egli non cade nemmeno nell’atteggiamento di certo cristianesimo occidentale segnato dal buonismo e dai complessi di colpa. Di recente, tra i musulmani, c’è chi ha domandato che il Papa chieda scusa per le crociate, il colonialismo, i missionari, le vignette, ecc.. Il Papa non è caduto in questa trappola, perché sa che le sue parole potrebbero essere utilizzate non per costruire un dialogo, ma per distruggerlo: tutti questi atti, molto generosi e profondamente spirituali di chiedere perdono per i fatti storici del passato, sono strumentalizzati, e vengono presentati dai musulmani come una rivincita: ecco – dicono – lo riconoscete voi stessi, siete colpevoli. Questi fatti non suscitano mai una reciprocità. A questo proposito, vale la pena ricordare il discorso di Benedetto XVI all’ambasciatore del Marocco (20 febbraio 2006), quando ha fatto un’ allusione, al “rispetto delle altrui convinzioni e pratiche religiose, affinché in maniera reciproca, in tutte le società, sia realmente assicurato a ciascuno l’esercizio della religione liberamente scelta”. Si tratta di due piccole affermazioni importantissime sulla reciprocità dei diritti di libertà religiosa fra paesi occidentali e islamici e sulla libertà di cambiare religione, un fatto che è proibito nell’Islam. Oggi spesso nel mondo ecclesiale si ha paura di accennare a queste cose, basta vedere il silenzio che vige sulle violazioni alla libertà religiosa presenti in Arabia Saudita. Papa Benedetto XVI non fa nessun compromesso: continua a sottolineare la necessità di annunciare il vangelo in nome della razionalità e dunque non si lascia influenzare da chi teme e denuncia un preteso proselitismo. Il papa chiede sempre le garanzie perché si possa “proporre” la fede cristiana e perché essa possa essere “liberamente scelta”.

Benedetto XVI e l'islam: un magistero da riscoprire. Lanuovabq.it 12-08-2014. Di fronte alle uccisioni e alle le torture di cristiani da parte dei fondamentalisti islamici, molti tornano a parlare del magistero di Benedetto XVI, il Papa che ha approfondito più di ogni altro il rapporto con l'islam. - Studium Fidei: islamici d'Europa, parlate chiaro. A fronte dei tragici eventi di questi giorni, in cui si rinnovano le uccisioni e le torture di cristiani da parte di ultra-fondamentalisti islamici, molti tornano a parlare del magistero di Benedetto XVI, il Papa che ha approfondito più di ogni altro Pontefice il rapporto fra cristianesimo e islam. Ma non tutti lo fanno in modo preciso. Alcuni scrivono, è il caso del solito New York Times, che Benedetto XVI avrebbe esacerbato i musulmani con il discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, così che sarebbe in qualche modo corresponsabile del rinnovato odio di alcuni musulmani verso i cristiani e in particolar modo verso i cattolici. Altri invece contrappongono Benedetto XVI al suo successore Francesco, sostenendo che Papa Ratzinger, a differenza dell’attuale Pontefice, avrebbe chiaramente denunciato il potenziale di violenza e di odio dell’islam. Nell’uno e nell’altro caso, si rischia di presentare un’immagine riduttiva di Benedetto XVI,quasi si fosse trattato di una semplice versione cattolica di Oriana Fallaci, una scrittrice che il Papa tedesco leggeva con interesse ma cui in un incontro, lo rivelò lei stessa, disse che non poteva accettare la sua chiusura a ogni dialogo con i musulmani. Vale allora la pena di studiare nuovamente il ricco magistero di Benedetto XVI sull’islam. Il magistero non scade come lo yogurt, e si tratta d’insegnamenti che guidano la Chiesa ancora oggi. Anzitutto, Benedetto XVI ha denunciato il fondamentalismo islamico come una gravissima perversione della fede. Si tratta di un «pernicioso fanatismo di matrice religiosa» dove la fede nega la ragione e che non è che «una falsificazione della religione», come l’attuale Pontefice emerito ha ribadito il 7 gennaio 2013, nell’ultimo incontro con il Corpo Diplomatico, citando specificamente la Nigeria, la Siria e l’Egitto. Questo fondamentalismo, ha spiegato più volte Benedetto XVI, è un rischio che corrono anche altre religioni, quando separano la fede dalla ragione, e che corre anche il pensiero laico quando in nome della ragione nega la fede. Proprio questo è il punto della breve parte dedicata all’islam nel discorso di Ratisbona, che è principalmente un discorso sui mali dell’Europa e dell’Occidente: la violenza cieca nasce là dove manca un rapporto corretto ed equilibrato tra ragione e fede. La fede senza la ragione genera il fondamentalismo, così come la ragione senza la fede genera la dittatura del relativismo. Il problema dei musulmani è che il mancato approfondimento del rapporto fra fede e ragione segna tutta la storia dell'islam e non solo una sua «deviazione», e ha radici insite nella stessa tradizione coranica. Per questo, se è vero che il rischio del fondamentalismo è presente in tutte le religioni, non si offendono i musulmani ma si enuncia una verità storica se si afferma che nell’islam è più presente che altrove. E che, di nuovo, a partire dal Corano stesso, quando manca l’equilibrio tra fede e ragione, la fede rischia di giustificare e promuovere la violenza. Nello stesso tempo, però, Benedetto XVI, assumendo pienamente il magistero del predecessore san Giovanni Paolo II, ha insegnato che il dialogo interreligioso con l'islam è una scelta irrinunciabile della Chiesa. Poco prima di morire, proprio Oriana Fallaci confidava che il Papa tedesco, a lei che definiva questo dialogo «impossibile», avrebbe ribadito che si tratta di un dialogo «impossibile, ma obbligatorio». Del resto, Benedetto XVI proponeva continuamente il Catechismo della Chiesa Cattolica come norma prossima della nostra fede, e nel Catechismo si legge al numero 841, a proposito delle «relazioni della Chiesa con i Musulmani», che «il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i Musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale». L’esortazione apostolica di Benedetto XVI Ecclesia in Medio Oriente afferma con chiarezza che il dialogo diventa impossibile quando da parte musulmana si cerca di «giustificare, in nome della religione, pratiche di intolleranza, di discriminazione, di emarginazione e persino di persecuzione». In questo caso, coordinando quanto afferma il documento con il Catechismo della Chiesa Cattolica, espressamente richiamato nel testo, occorre ribadire con chiarezza che, di fronte alle persecuzioni e ai massacri, nasce un diritto di legittima difesa che non può manifestarsi soltanto in documenti e non può escludere per principio, come abbiamo spiegato su queste colonne con dovizia di citazioni del magistero, l’opzione militare (leggi qui). Ma lo stesso documento afferma pure che «fedele all’insegnamento del Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica guarda i musulmani con stima, essi che rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, l’elemosina e il digiuno, che venerano Gesù come profeta senza riconoscerne tuttavia la divinità, e che onorano Maria, la sua madre verginale». Presentando questa esortazione apostolica nel viaggio in Libano del 2012, Benedetto XVI ha lamentato le rovine e le distruzioni causate in Medio Oriente dalle persecuzioni promosse da una parte, non minore, del mondo islamico, ma ha rilevato che ancora esistono in quel Paese cristiani e musulmani che vivono insieme in pace, il che prova che, per quanto questo non sia facile, «i musulmani e i cristiani, l’Islam e il Cristianesimo, possono vivere insieme senza odio, nel rispetto del credo di ciascuno, per costruire insieme una società libera e umana». Ad Ankara il 28 novembre 2006, in un viaggio in cui ha rinnovato la condanna del fondamentalismo, Benedetto XVI ha fatto sue «le parole del mio immediato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II di beata memoria, il quale disse, in occasione della sua visita nel 1979: “Mi domando se non sia urgente, proprio oggi in cui i cristiani e i musulmani sono entrati in un nuovo periodo della storia, riconoscere e sviluppare i vincoli spirituali che ci uniscono”». Il dialogo con i musulmani, ha detto sempre in quell’occasione Papa Ratzinger, «non può essere ridotto ad un extra opzionale: al contrario, esso è una necessità vitale, dalla quale dipende in larga misura il nostro futuro». Per quanto ovviamente divisi su tante cose, «i cristiani e i musulmani, seguendo le loro rispettive religioni, richiamano l’attenzione sulla verità del carattere sacro e della dignità della persona. È questa la base del nostro reciproco rispetto e stima». «Rispetto e stima» indicano uno stile, ma non risolvono il paradosso di un dialogo che, se è «obbligatorio», è anche «impossibile». Anche perché l’islam, soprattutto quello sunnita, maggioritario, non ha una gerarchia, e non si sa mai se chi dialoga con la Chiesa a nome dell’islam rappresenti davvero i musulmani o soltanto se stesso. Nel dialogo, inoltre, è facile cadere in equivoci che derivano dalla nostra distinzione occidentale fra politica e religione, quindi fra autorità politiche e religiose ben distinte fra loro: una distinzione che nell’islam non solo non esiste in pratica, ma per la maggior parte delle scuole non esiste neppure in teoria. Benedetto XVI conosceva bene questi problemi, e ha dedicato tempo e risorse sia a una faticosa ricerca di interlocutori musulmani, sia, forse soprattutto, a una strategia di comunicazione che consisteva nel lanciare messaggi e proporre analisi nella speranza che, forse non immediatamente, nel mondo islamico emergesse qualcuno capace di raccoglierli. Parlando a musulmani in Turchia, Benedetto XVI non ha nascosto che il problema della libertà religiosa, quello della violenza e il rispetto dei diritti delle donne costituiscono tre pietre d’inciampo che rendono difficili i rapporti con l’islam. Ma il modo corretto di affrontare questi problemi, ha aggiunto, «è quello di un dialogo autentico fra cristiani e musulmani, basato sulla verità ed ispirato dal sincero desiderio di conoscerci meglio l'un l'altro, rispettando le differenze e riconoscendo quanto abbiamo in comune. Ciò contemporaneamente porterà a un autentico rispetto per le scelte responsabili che ogni persona compie, specialmente quelle che attengono ai valori fondamentali e alle personali convinzioni religiose. Come esempio del rispetto fraterno con cui cristiani e musulmani possono operare insieme, mi piace citare alcune parole indirizzate da Papa Gregorio VII [1020-1085], nell’anno 1076, ad un principe musulmano del Nord Africa, che aveva agito con grande benevolenza verso i cristiani posti sotto la sua giurisdizione. Papa Gregorio VII parlò della speciale carità che cristiani e musulmani si devono reciprocamente, poiché “noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, ogni giorno lo lodiamo e veneriamo come Creatore dei secoli e governatore di questo mondo”». Forse oggi è difficile incontrare principi musulmani come quello lodato da Gregorio VII. Tuttavia il magistero di Benedetto XVI ci guida da una parte a non confondere le posizioni del sanguinario e sedicente califfo al-Baghdadi con quelle di tutti i musulmani, dall’altra (come questo giornale ha ricordato) a comprendere come queste posizioni non derivano da deviazioni individuali ma da un rischio insito nell’islam, fin dalla stesura del Corano, il quale nasce da un rapporto non risolto fra fede e ragione che nella storia islamica genera continuamente – e, da un certo punto di vista, fatalmente – fondamentalismo e violenza. Il modo di rispondere a questa sfida consiste da una parte nel dire la verità, senza infingimenti, anche sul Corano e sulla storia dell’islam; dall’altra nel perseguire un dialogo «impossibile ma obbligatorio», aiutando gli islamici di buona volontà ad affrontare il nodo irrisolto del rapporto fra fede e ragione e partendo, come in ogni dialogo tra le religioni, dal senso religioso che nonostante tutto abbiamo in comune. Chi pensa diversamente, dovrebbe spiegarci se l’alternativa è la guerra atomica con un miliardo e mezzo di musulmani.

Papa Ratzinger l'aveva previsto ma fu crocifisso come islamofobo. Nel discorso di Ratisbona nel 2006 Benedetto XVI denunciò il lato violento della religione musulmana. New York Times e Repubblica lo accusarono: così si spezza il dialogo, scrive Renato Farina, Giovedì 15/01/2015, su Il Giornale. Il 12 settembre del 2006, Benedetto XVI tenne una lezione all'università tedesca di Regensburg. Il tema era sul diritto delle singole coscienze di aderire o non aderire liberamente a una fede. Il Papa osservò che Maometto, dopo avere in gioventù ammesso la facoltà di scelta, una volta raggiunto il potere, impugnò la spada per convertire il prossimo. Non si fermò lì, Ratzinger. Perfettamente cosciente del peso delle sue parole, spiegò dove stava l'errore, e propose un «dialogo sincero» per estirpare questa radice di violenza, presente anche in una certa visione del Dio cristiano e nell'ideologia atea, usando la ragione e vedendola come riflesso dell'Onnipotente. Questa seconda parte del discorso fu trascurata. E scandalo fu. Boom! Alt, però. Attenzione. Benedetto XVI, prima di essere raffigurato come un fantoccio e incendiato dai musulmani indiani e da quelli palestinesi, fu impiccato in Occidente. Cominciò il New York Times a gettare in pasto il mite tedesco alle folle feroci delle moschee. Seguì, dopo aver fiutato l'aria, Repubblica. In contemporanea con gli anatemi degli ulema e degli imam oltre che dei muftì, arrivò quello di Eugenio Scalfari. Ci fu l'assassinio di una suora gentile e votata al servizio degli orfani in Somalia. Chiese e canoniche furono assaltate in Oriente e in Africa. I signori del pensiero e della matita, gli uomini della satira e delle alte riflessioni, affibbiarono la responsabilità di questi linciaggi e tumulti al Papa. Non si sognarono neanche per un istante di ammettere che proprio le reazioni criminali al libero pensiero del Pontefice confermavano quanto avesse ragione il Vescovo di Roma a denunciare un legame piuttosto nefasto tra la fede islamica e la spada. Si disse: Ratzinger se l'è cercata. Non solo, il pensiero tradotto in italiano corrente era questo: Ratzinger causa con questi suoi discorsi un sacco di guai a noi occidentali di sinistra che vogliamo vivere in pace con quest'islam così moderato e gentile. Pochissimi in Europa e in America difesero il diritto del Papa a esprimersi liberamente. In Italia furono Il Giornale, Libero e Il Foglio. La sua libertà di pensiero in Europa fu calpestata. Persino in campo cattolico, il responsabile per il dialogo con l'islam della Compagnia di Gesù, padre Tom Michel, censurò il Papa: «Penso che il Papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai musulmani delle scuse». La suora era già stata uccisa, il fantoccio del Papa bruciato, le fatwa di condanna a morte verso Ratzinger pronunciate. Ma questi insistono. Colpa del Papa. Ritiri, si scusi. Intervenne in difesa di Benedetto chi non te lo aspetti. Salman Rushdie, intervistato dallo Specchio, si scandalizzò non per le frasi del Papa, ma per le repliche del famoso quotidiano liberal. «Sono rimasto scioccato da un editoriale del New York Times, che chiedeva al Papa di scusarsi perché durante il discorso di Ratisbona aveva citato un personaggio del XV secolo, con cui tra l'altro non era d'accordo. Perché pretendere le scuse, per un testo bizantino? Non ricordo l'ultima volta che è accaduto un fatto simile, nella storia. La Chiesa ci ha messo 400 anni per scusarsi con Galileo, ma il mondo ha preteso che si scusasse con l'islam in 8 minuti». Dinanzi a questo coro osceno contro il Papa, con un monito senza precedenti, fu il portavoce della Commissione europea Johannes Laitenberger a frenare l'assalto di satira e intellighenzia tutta contro la libertà di parola che dovrebbe essere riconosciuta persino al Vescovo di Roma: «Le reazioni sproporzionate, che corrispondono al rifiuto della libertà di espressione, sono inaccettabili... La libertà d'espressione è una pietra angolare dell'ordine europeo...». Il fatto è che chi praticò quel «rifiuto della libertà di espressione», e scartò la «pietra angolare» dell'Europa, sono quelli che oggi scrivono: a Parigi è nata l'Europa. E dicendo Europa pensano a se stessi, a quel microcosmo di sinistra che santifica e demonizza con decisioni da salotto ciò che è bene e ciò che è male. Lo stesso che oggi proclama Je suis Charlie, e che allora incoraggiò il rogo di Papa Charlie Ratzinger. La medesima sinistra chic e choc che non ha nessuna voglia di ammettere di aver sbagliato almeno un po'. In realtà in quel 2006, incolpando il Pontefice romano delle reazioni degli islamici, si regalò un alibi a qualsiasi futuro gesto criminale di reazione. Adesso è cambiato il vento. Ezio Mauro, direttore di Repubblica, si fa le foto in Boulevard Voltaire con il primo ministro socialista Manuel Valls, che gli parla addirittura in italiano, parbleu. Si mescola con i promotori della manifestazione di Parigi, e scrive Je suis Charlie, e ci crede senz'altro. Ma nel 2006 avrebbe meritato una maglietta onoraria con scritto: Je suis le Muftì. Oggi piacerebbe sentire, da tutti coloro che intimarono a Benedetto XVI di tacere e di chiedere scusa, una paroletta di resipiscenza. Macché. Piccola panoramica della vigliaccheria salva-vita. Il New York Times fulminò come «tragiche e pericolose» le parole del Papa. «C'è già abbastanza odio religioso nel mondo. Benedetto XVI ha insultato i musulmani». Repubblica usò l'editoriale di prima pagina per sistemarci sopra come su un rogo Benedetto. Marco Politi, oggi firma di punta de Il Fatto (che oggi diffonde Charlie Hebdo, ottimo marketing), lo accusò di aver fatto precipitare «la Santa Sede in una vera e propria Waterloo». Sostenne Politi: è stato «molto più di un incidente di comunicazione». L'«infelice citazione di Maometto» che ha suscitato l'«amara indignazione dei musulmani moderati europei ha portato violentemente alla luce lo strappo compiuto da Ratzinger». Come si vede: la reazione violenta è stata provocata da uno strappo violento. Chi la fa l'aspetti. Se l'è cercata. Il Papa tedesco ha dunque una responsabilità gravissima: «ha tragicamente spezzato» il dialogo con l'islam, «ha cancellato il riferimento ai rapporti fraterni con il monoteismo islamico». (A questo proposito Politi sostiene che il Papa ha ammesso di aver avuto torto, e infatti «si è scusato». Bugia. Non ha mai chiesto scusa. Ha espresso «rammarico» per non essere stato compreso. La vulgata dice che non fu ben consigliato, che si trattò di un errore da professor Ratzinger, scapestrato e temerario. So invece per certo che Benedetto XVI rispose no a chi gli chiese di espungere dal discorso le severe parole di Manuele II Paleologo su Maometto che ha portato al mondo «cose cattive e disumane» come la guerra santa. Riteneva falso un dialogo con l'islam che saltasse la questione dirimente della libertà). Eugenio Scalfari interviene e, con sicurezza infallibile, dice: «Anche il Papa è fallibile. Ha sbagliato dal punto di vista della sua Chiesa. Ha fatto un involontario passo avanti sulla via dello scontro religioso». Insomma: dicendo che l'islam si deve emendare dalla violenza, è colpevole della violenza che subisce. Perfetto. Scalfari va oltre e arriva alla scomunica: «Ha incrinato l'oggettività della trascendenza. Il Papa romano arriva alla soglia della miscredenza». Qui però lo lasciamo ai dialoghi con il successore Papa Bergoglio che lo capisce, io no. La libertà d'espressione, il diritto a parlare senza dover pagare un prezzo di minacce, senza dover sopportare il ricatto di essere qualificati come provocatori. Che belle cose. Je suis Charlie, come no?

Perché il Papa va da Maometto. Abu Dhabi e Marocco. S’intensifica la “diplomazia pastorale” verso l’islam, scrive il 7 Dicembre 2018 Il Foglio. Dal 3 al 5 febbraio dell’anno prossimo il Papa si recherà ad Abu Dhabi, negli Emirati arabi uniti. Sarà il primo Pontefice a mettere piede nello stato del Golfo persico. Francesco parteciperà all’Incontro interreligioso internazionale sulla “Fratellanza umana”, ha fatto sapere la Sala stampa vaticana, sottolineando che il dialogo tra religioni rappresenta un cardine dell’agenda del pontificato. Paradossalmente, nel momento in cui il dicastero vaticano preposto a tale scopo è vacante da molti mesi (il cardinale Jean-Louis Tauran, morto all’inizio di luglio, non è stato ancora sostituito), si intensifica la “diplomazia pastorale” del Papa verso la complessa realtà islamica. Tralasciando i pur importanti viaggi nell’oriente musulmano (Bangladesh), solo nei primi tre mesi del 2019 Bergoglio toccherà prima gli Emirati arabi e poi il Marocco, a marzo. Abu Dhabi sarà la seconda tappa ideale di un trittico iniziato l’anno scorso con il viaggio in Egitto, completando il disgelo con al Azhar dopo le incomprensioni insorte negli ultimi anni della stagione di Benedetto XVI. L’obiettivo è di tessere relazioni il più possibile proficue con il mondo islamico che promuove una visione tollerante del proprio credo religioso. Non una missione semplice, soprattutto se si vuole andare davvero in profondità al problema e non limitarsi alla firma di qualche generica dichiarazione, buona per gli archivi ma che poi, nel concreto, non porta a nulla. Ma la missione di Francesco negli Emirati sarà fondamentale anche per un altro aspetto: il Papa celebrerà la messa per la piccola comunità cattolica locale. L’emirato da anni favorisce il dialogo, anche se la conversione al cristianesimo è considerato reato d’apostasia punibile con la morte. La presenza del Pontefice, forse, potrebbe inaugurare un nuovo capitolo nella libertà della minoranza cristiana. Consentendole, magari, di potere esibire la croce all’esterno delle chiese.

Papa Francesco bacia i piedi al leader del Sud Sudan, terremoto in Vaticano: cosa non torna, scrive il 12 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Certo, un grandioso sfoggio di umiltà, quello offerto da Papa Francesco. Infatti, ha baciato i piedi ai leader politici del Sud Sudan nel corso di un'udienza a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un gesto che ha fatto per chiedere la pace nel Paese africano dove da decenni si sprecano i conflitti. Il gesto, però, non è piaciuto molto al sempre attento popolo del web: secondo molti - a riportare i commenti per primo è stato Il Messaggero -, il Pontefice, ovvero il massimo rappresentante della cristianità, non dovrebbe inchinarsi a nessuno. Inoltre, in molti hanno puntato il dito per il fatto che Francesco, recentemente, aveva rifiutato il bacio all'anello piscatorio a Loreto, notando una discrepanza tra i due comportamenti. Per Bergoglio, però, l'obiettivo della pace è superiore, troppo importante. E per quel che riguarda il mancato baciamano a Loreto, fu spiegato insistendo sul voler evitare il rischio di un possibile contagio tra le persone, tutte intente a baciare l'anello piscatorio.

I PIEDI SUDAN E IL PAPA LI BACIA. Giuseppe Aloisi per il Giornale il 12 aprile 2019. Papa Francesco, dimostrando ancora una volta la sua estrema umiltà, ha compiuto un gesto che non è piaciuto a molti utenti social. Ma poco gli interesserà. Jorge Mario Bergoglio ha più volte rimarcato, nel corso di questi sei anni, di non essere alla ricerca del consenso. Non è per suscitare simpatia che ha baciato i piedi ai leader politici del Sud Sudan. Il pontefice argentino gli ha domandato piuttosto di mettersi in ascolto del loro popolo. Lo stesso che è vessato dalla guerra e per cui il Santo Padre vorrebbe la pace. Il popolo web si è diviso tra chi ha apprezzato quanto messo in campo dall'ex arcivescovo di Buenos Aires e chi ha rimarcato come il massimo rappresentate della cristianità non si debba/possa inchinare a nessuno, meno che mai a delle personalità politiche. Come ha fatto notare pure Il Messaggero, alcuni fedeli non sembrano accettare la differenza di comportamenti che è intercorsa tra il non voler farsi baciare l'anello piscatorio, come è avvenuto nel santuario di Loreto, e l'essersi prostrato agli esponenti sud sudanesi. Ma la ricerca della pace, stando alla visione del papa argentino, non può prescindere dalla concretezza dell'esempio. Il gesuita, rispetto al suo "no" ai baciamano, aveva spiegato di non voler evitare il contagio tra le persone, nel momento in cui queste si posizionano in fila. Questo ragionamento, per il leader del Sud Sudan, non è stato fatto. Una distinzione che non è sfuggita a coloro che hanno criticato il bacio dei piedi. L'ottenimento della pace per tutte le nazioni del mondo, tuttavia, è un obiettivo più importante dell'uniformità cerimoniale.

Il Papa bacia i piedi ai leader del Sud Sudan, sui social si scatena la protesta, scrive Giovedì 11 Aprile 2019 Franca Giansoldati su Il Messaggero. Il Papa rompe il protocollo, si china fino a terra per baciare i piedi dei leader del Sud Sudan che sono arrivati nei giorni scorsi a Santa Marta per un ritiro spirituale e per parlare di pace. Un gesto, quello del Papa, che arriva a spiazzare i presenti, tanto è spontaneo e insolito. Un modo per chiedere loro di prestare ascolto al grido della gente che in quella regione è schiacciata da un destino segnato da carestie, guerre, violenze. Servono gesti forti. Francesco chiede «con sentimenti più profondi» la pace per il piccolo Paese africano. Nel calore della sua Casa, che ha offerto per il ritiro spirituale di due giorni, il Papa non nasconde le future difficoltà ma insiste nella richiesta. Lo fa come «fratello»,  dice, lasciando parlare il suo cuore, chiedendo ai leader di raccogliere la sfida per diventare «da semplici cittadini, padri della Nazione». L'immagine commovente del Papa chino davanti a Salva Kir fa subito il giro del mondo e viene però purtroppo bersagliata da critiche negative sui social perchè si è inchinato a baciare un presidente africano, mentre al santuario di Loreto, la scorsa settimana - viene rilevato dal web -  ha negato la mano a quei fedeli che si inchinavano per rendergli omaggio. Qualche giorno dopo il Papa aveva spiegato di averlo fatto per evitare che le persone possano essere contaminate da bacilli per via della saliva. Il Vaticano ha spiegato «il gesto sorprendente e commovente» di Francesco come un passaggio simbolico, fatto (non a caso) «una settimana prima che lo stesso gesto si ripeta nelle chiese di tutto il mondo per far memoria dell’Ultima Cena, quando Gesù, ormai alla vigilia della sua Passione, lavando i piedi degli apostoli, ha indicato loro la via del servizio». Le immagini di Francesco che con visibile sofferenza si è voluto inchinare per baciare i piedi del presidente della Repubblica del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, e dei vice presidenti designati presenti, tra cui Riek Machar e Rebecca Nyandeng De Mabio è «un’immagine forte che non si comprende se non nel clima di reciproco perdono che ha caratterizzato i due giorni di ritiro. Non solo un summit politico-diplomatico - si legge su Vaticano News - ma un’esperienza di preghiera e di riflessione comune tra leader che, pur avendo siglato un accordo di pace, faticano a far sì che questo venga rispettato».

Come lavora questo Papa? Tutta questione di… incontro, scrive il 7 febbraio 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. In questi giorni il Pontefice ha compiuto una visita pastorale negli Emirati Arabi e molte persone, sia giornalisti che coloro i quali sono impegnati sul fronte umanitario, si sono chiesti se la pace ed il dialogo valgano il mancato affondo diretto, da parte del Papa, sui diritti umani compromessi, se non annichiliti, da parte degli Emirati. Infatti, Papa Francesco non ha esplicitamente speso parole sulla guerra nello Yemen, sul necessario riconoscimento della parità tra uomo e donna, sui diritti di quest’ultima annientata dal regime arabo, così come non ha fatto cenno all’uccisione del giornalista Jamal Kashoggi. In buona sostanza, ha riproposto, negli Emirati, quella discrezione dialettica che aveva giù usato in Birmania, in merito alla questione dei Rohingya. Abituati alle sue vibranti stoccate, e che non lasciano spazio all’immaginazione o all’equivoco, abbiamo visto e sentito il Vescovo di Roma limitarsi a pronunciare queste parole dinanzi ai settecento leader di diverse religioni, presenti al Founder’s Memorial, tenutosi ad Abu Dhabi: “Nel nome di Dio Creatore, va senza esitazione condannata ogni forma di violenza, perché è una grave profanazione del nome di Dio utilizzarlo per giustificare l’odio e la violenza contro il fratello. Non esiste violenza che possa essere religiosamente giustificata”. Punto. Ed allora, da studiosi della natura umana, ancor prima che da cattolici, ci chiediamo quale sia il valore del silenzio utilizzato, pensato e riprodotto nell’antro di un lupo al quale l’istinto vorrebbe gridare ben altri comportamenti. E di certo non così ambigui. Questo Papa ripete molto spesso le parole “ponte”, “dialogo”, “rete”. Si è già recato in Egitto, Turchia, Azerbaigian, Bangladesh ed il mese prossimo volerà in Marocco. In attuazione pratica dei concetti espressi da questi vocaboli, Egli ha colto l’occasione dell’ottavo centenario dell’incontro tra S. Francesco d’Assisi ed il sultano Malik-al-Kamil, per raggiungere gli Emirati e compiere quel che aveva anticipato sul suo account twitter@pontifex: “Vado come fratello, per scrivere insieme una pagina di dialogo”. Di questo tweet colpisce ciò che non si legge. Non si legge: “Vado come fratello per parlare all’Islam”. No, non v’è alcuna autoreferenzialità. Al contrario, il Papa si propone come fraterno coautore, con l’islam, di un dialogo. E non di un dialogo di grandissimo respiro, bensì formato da una sola “pagina”. In altre parole, il Vescovo di Roma sta dicendo che si tratta di un avvicinamento, insufficiente, da solo, a far penetrare il germe della cristianità, ma essenziale perché, in unione ad altri momenti di incontro tra le due religioni, sia possibile costruire un dialogo fatto di “pagine”. Non si deve dimenticare che Francesco proviene dalla Compagnia di Gesù, nel cui ambito e specialmente in tema di apostolato missionario, si attribuisce risalto al tentativo di incarnare (nel senso letterale del termine) l’annuncio del messaggio di Cristo, nelle diverse culture da evangelizzare. Si tratta di un processo dialettico che prende il nome di “inculturazione” e che troviamo bene spiegato nell’Enciclica “Slavorum Apostoli”, di Giovanni Paolo II, ma già noto e definito da Papa Gregorio Magno intorno all’anno 600 d.C.. San Giovanni Paolo II la definisce: “l’incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ed insieme l’introduzione di esse nella vita della Chiesa”. In altre parole, l’ “inculturazione” si pone come due vettori consecutivi: da un lato una cultura accoglie il messaggio cristiano al livello più profondo del proprio specifico ed unico substrato psicologico collettivo e, dall’altro lato, quella stessa cultura si converte e propone una versione inedita del Cristianesimo, all’interno della Chiesa. Un concetto, quello di “inculturazione” che si usa anche in ambito antropologico culturale, per indicare la trasmissione, da una generazione all’altra, della cultura del gruppo sociale di appartenenza. Si tratta di un processo il cui principale cardine è la socializzazione del singolo, che apprende il linguaggio, riceve un’educazione nel suo nucleo di appartenenza, imita i suoi simili adulti, assimila e trasmette le componenti della cultura del suo gruppo. Come nella visione cristiana, anche in quella antropologica, l’incontro tra i singoli, la collettività (che è sempre altro, rispetto al singolo) e l’incorporazione del singolo all’altro, avviene per “pagine”, per frammenti dialogici. Ma anche per silenzi. Silenzi che non significano mancanza di parole espresse, ma momenti di “tradizione” (nel senso latino del vocabolo) concettuale e per fatti esaurienti. Una sorta di omissione che, proprio in quanto tale, si fa, ad un tempo, significante e significato. Di quelli che, muti, tracciano solchi profondi nella memoria. Un unico appunto, mi sento di fare all’utilizzo, errato, del termine inculturazione, da parte della dottrina sociale della Chiesa: sarebbe meglio, utilizzare il termine “acculturazione”, perché si tratta di un processo di incontro-scontro fra due culture diverse, in questo caso di tipo religioso, l’una cristiano-cattolica e l’altra islamica. E tutti noi stiamo vivendo, in Europa e altrove nel mondo, questo contatto, anche con sofferenze, morti e feriti. Ecco perché, proprio sulla base di questo mio appunto scientifico, direi che il valore di questo atto pubblico da parte del pontefice è oltremodo significativo.

La storia di Padre Dall'Oglio in 10 punti. Dagli studi all'Orientale di Napoli al rapimento in Siria, la storia di un gesuita favorevole al dialogo con l'Islam, scrive l'8 febbraio 2019 Panorama. A riferirlo sono state fonti curde al Times di Londra: padre Paolo Dall'Oglio sarebbe vivo, in mano all'Isis, che starebbe trattando il suo rilascio. Nel negoziato in corso fra le forze curde e lo Stato islamico, oltre al gesuita italiano, sarebbero coinvolti anche il giornalista britannico John Cantlie e un'infermiera della Croce rossa neozelandese. Per capire che cosa è successo a Padre Dall'Oglio, 64 anni, rapito in Siria nel luglio 2013.

1. Nato a Roma nel 1954, Paolo Dall'Oglio entra nella Compagnia di Gesù a 21 anni, nel 1975. Durante il noviziato, si laurea in Lingue e Civiltà orientali all'Orientale di Napoli. In seguito a un Dottorato in «Dialogo con l'Islam» alla Gregoriana di Roma, perfeziona i suoi studi a Beirut, in Libano.

2. Nel 1982 si reca in Siria, dove scopre le rovine dell'antico monastero di Deir Mar Musa, nel deserto a Nord di Damasco. Due anni dopo, ordinato sacerdote, decide di ricostruire il monastero. Nel 1992 fonda la comunità monastica cattolica di rito siriaco, al Khalil. Memore del suo dottorato, padre Dall'Oglio si propone di promuovere il dialogo fra Cristianesimo e Islam.

3. Il suo attivismo ecumenico non piace al regime del generale Hafez al Assad, il padre dell'attuale presidente Bashar, che lo mette nel mirino. I contrasti però esplodono nel 2011, quando inizia la rivolta popolare contro il regime. Il gesuita si schiera pubblicamente con i manifestanti, ricorrendo anche ai social media, per denunciare «una repressione inumana e indiscriminata che speravo proprio di non vedere nel ventunesimo secolo».

4. Padre Dall'Oglio si impegna in un tentativo di riconciliazione interna, proponendo un modello democratico basato sul consenso di tutte le comunità religiose e sociali del Paese. Risultato: nella primavera del 2011 il governo di Damasco minaccia di espellerlo. In un crescendo di intimidazioni, il 20 settembre il regime arriva al punto di accusarlo di connivenza con gruppi terroristici vicini ad al Qaeda.

5. A novembre dello stesso anno il governo passa ai fatti, dichiarandolo «persona non grata». Non essendo stata definita la data di espulsione, il religioso riesce a restare a Deir Mar Musa, a condizione di tenere un «basso profilo», evitando dichiarazioni pubbliche contrarie al regime.

6. Il 23 maggio 2012 padre Dall'Oglio scrive una lettera aperta a Kofi Annan, inviato speciale delle Nazioni unite e della Lega araba per la crisi siriana. All'ex segretario generale Onu chiede la creazione di una forza di interposizione di 3 mila caschi blu, per garantire il rispetto del cessate-il-fuoco e la protezione della popolazione civile. Previsti anche 30 mila volontari della società civile che sostengano la ripresa della vita democratica. «La priorità sia allora quella di proteggere la libertà d’opinione e d’espressione della società civile siriana» conclude la lettera, «senza la quale è impossibile perseguire gli altri obiettivi essenziali alla pacificazione nazionale».

7. Apriti cielo: il governo di Damasco riesuma il decreto d'espulsione. Il 16 giugno 2012 il gesuita ribelle lascia il Paese in cui ha vissuto per 30 anni, scortato dal nunzio apostolico a Damasco che lo accompagna alla frontiera con il Libano. Dopo un soggiorno in una comunità monastica nel Kurdistan iracheno, nel febbraio 2013 rientra in Siria, nel Nord controllato dai ribelli, con un viaggio che definisce «un pellegrinaggio del dolore e della testimonianza». 

8. Mentre cerca di riappacificare gruppi curdi e di jihadisti arabi, il 24 luglio rivolge un appello personale al Pontefice: «Stimato e caro Papa Francesco, sapendola amante della pace nella giustizia, le chiediamo di promuovere personalmente un'iniziativa diplomatica urgente e inclusiva per la Siria, che assicuri la fine del regime torturatore e massacratore». E gli chiede di «informarsi personalmente sulla manipolazione sistematica dell'opinione cattolica nel mondo da parte dei complici del regime siriano, specie ecclesiastici, con l'intento di negare in essenza la rivoluzione democratica e giustificare, con la scusa del terrorismo, la repressione che sempre più acquista il carattere di genocidio».

9. Durante un'altra sua missione in Siria, il 28 luglio 2013 se ne perdono le tracce. Il 12 agosto 2013 la pagina Facebook di un partito siriano diffonde la notizia della sua uccisione. «Con il massimo rammarico» scrive Lama Al Atasi, «comunico di avere notizie confermate da una fonte ben conosciuta che Padre Paolo è stato giustiziato». La Farnesina è cauta: «Si tratta di un'indicazione che va presa con estrema cautela e che non trova al momento alcuna conferma».

10. Il 7 febbraio 2019 l'annuncio del Times: circondato dalle forze curde, sostenute dagli Usa, l'Isis starebbe trattando un accordo. In cambio della liberazione di un gruppo di ostaggi, fra cui padre Dall'Oglio, le Bandiere nere vorrebbero un passaggio sicuro fuori dalla Siria. Ma il Vaticano risponde: «Non abbiamo riscontri».

·        L’Italia e la nascita di Israele.

Così l'Italia di Sonnino aiutò la nascita di Israele. Finita la guerra il nostro ministro degli Esteri, nella conferenza di Parigi, dettò la linea agli Alleati, scrive Ofir Haivry, Martedì 12/02/2019, su Il Giornale. Cent'anni fa, si apriva la Conferenza di Parigi (18 gennaio 1919 - 21 gennaio 1920) che segnò la conclusione formale della Prima guerra mondiale. Tra le varie conseguenze che ebbe, una delle più importanti fu il riconoscimento dei diritti nazionali del popolo ebraico. Quasi ignoto è il ruolo a tratti decisivo che ebbe l'Italia nel raggiungere questo obiettivo. Il personaggio centrale fu il barone Sidney Sonnino, già premier nel 1906 e 1909-1910, ma influente ministro degli Esteri tra 1914-1919. Figura insolita nell'Italia di allora, Sonnino era un anglicano di padre italiano d'origine ebraica e madre inglese; per molti aspetti simile a Benjamin Disraeli: era un intellettuale e un outsider che diventò il leader della destra nel suo Paese, rimanendo consapevole e fiero delle origine ebraiche. Quando scoppiò la Prima guerra mondiale nell'agosto 1914, il Movimento sionista riconobbe che gli assetti internazionali stavano per cambiare e che si offrivano nuove alleanze al fine di realizzare il sogno dello Stato ebraico. In Italia gli sforzi furono diretti principalmente da Angelo Sullam, segretario della Federazione Sionistica Italiana. Già nel 1914 Sullam, assieme al sionista Russo Pinhas Ruthenberg, incontrò Gaetano Mosca, anche lui ebreo e al tempo sottosegretario per le Colonie. I due gli proposero di far partecipare l'Italia alla creazione di unità militari ebraiche che combattessero a fianco degli Alleati Gran Bretagna, Francia e Russia, guadagnando così un posto ai tavoli diplomatici del dopoguerra. Ma l'Italia, al tempo ancora formalmente alleata agli Imperi Centrali e il tentativo sionista sfumò. Dopo maggio 1915, l'Italia entrò nel conflitto mondiale dalla parte degli Alleati e si aprirono nuove prospettive. Gli sforzi sionistici cominciarono ad aver frutto verso la fine del 1916, quando il premier britannico Asquith, molto avverso al sionismo, fu rimpiazzato nel ruolo da David Lloyd George. Già rappresentante legale in Inghilterra di Teodoro Herzl (il fondatore del Movimento Sionista), Lloyd George era, come il suo ministro degli Esteri Lord Arthur Balfour, entusiasticamente pro-sionista. Per di più il governo britannico riteneva che gli accordi Sykes-Picot per la futura spartizione tra Gran Bretagna e Francia dei territori Ottomani fossero stati troppo generosi. Un territorio ebraico sotto protezione Britannica avrebbe migliorato le posizioni. Il principale ostacolo alla creazione di un entità politica ebraica sotto protezione Britannica, era la prevista opposizione della Francia a cambiamenti negli accordi Sykes-Picot. Diventò cruciale per i sionisti portare una potenza alleata che non fosse la Gran Bretagna ad appoggiare il loro progetto. La potenza ideale forse sarebbe stata la Francia, ma Parigi si provò schiva e ambigua. La svolta venne durante la visita a Roma del Segretario Generale del Movimento Sionista, Nahum Sokolow, nel maggio 1917. Fu deluso del vago ed elusivo incontro con il premier, Paolo Boselli. Ma il 21 maggio, insieme ad Angelo Sereni, presidente del Consorzio delle Comunità israelitiche Italiane, Sokolow incontro Sidney Sonnino, ministro degli Esteri. Successivamente all'incontro il ministro preparò una lettera formale indirizzata a Sokolow, in cui dichiarava che, sebbene non potesse esprimersi definitivamente in merito a una proposta riguardante tutti gli alleati, in linea generale non era contrario alle legittime rivendicazioni degli ebrei sulla loro patria storica. Fu questo in assoluto il primo riconoscimento da parte di una potenza mondiale dei diritti nazionali ebraici esattamente l'apertura che il sionismo aveva lungamente cercato. Con la lettera di Sonnino in tasca, Sokolow partì per Parigi. Fino a quel punto i diplomatici Francesi che aveva incontrato, nella tradizione del Quai D'Orsay, sembravano in parti eguali simpatetici, evasivi e frustranti. Ma con la lettera italiana Sokolow poteva far penzolare davanti ai suoi interlocutori la prospettiva di salire sul treno sionista o rischiare di restare a piedi. Infatti, il 4 giugno, con l'approvazione di Alexandre Ribot, premier e ministro degli Esteri francese, una lettera che esprimeva «guardinga» simpatia francese per la causa sionista fu rilasciata a Sokolow da Jules Cambon, capo della sezione politica del ministero degli Esteri. A Sokolow era proibito rendere pubbliche le due lettere ma al suo ritorno a Londra, le presentò al Foreign Office britannico, come prova della disponibilità delle due potenze alleate ad appoggiare un'iniziativa britannica. Dopo mesi di preparativi, il 2 novembre 1917, Lord Balfour finalmente rilasciò la famosa lettera pubblica in cui dichiarava il sostegno britannico per erigere una «Casa Nazionale» degli ebrei, nella antica terra di Israele. Negli anni successivi, anche gli altri alleati, Francia, Stati Uniti e perfino Giappone pubblicarono simili lettere di sostegno per l'obiettivo sionista. La versione italiana affermava l'impegno del governo italiano di facilitare la formazione di «un centro nazionale ebraico». L'atto finale in questa vicenda diplomatica avvenne durante la conferenza di Parigi, dove furono formulate le disposizioni politiche e le nuove frontiere risultanti dalla guerra. Il 25 gennaio 1919 la conferenza approvò la fondazione della Lega delle Nazioni sotto i cui auspici si sarebbe creato un sistema di «mandati», per guidare aree dell'ex-impero ottomano verso l'autogoverno. Il passo cruciale per i sionisti divenne allora il ruolo a loro assegnato nel «mandato» britannico. Il 3 febbraio, il movimento sionista presentò agli Alleati un documento che proponeva di promuovere «il diritto degli ebrei a ricostituire» nella loro storica terra, una «Casa Nazionale» attraverso il sostegno di immigrazione, insediamento e autogoverno nell'area designata. Il 27 febbraio 1919 si tenne l'incontro decisivo dei rappresentanti sionisti con le delegazioni degli Alleati alla conferenza, per discutere il documento. Partecipano da parte sionista oltre a Sokolow anche Haim Weizmann presidente della Federazione Sionistica Britannica, e Menaem Ussishkin, segretario del Congresso sionista. I delegati presenti all'incontro erano Balfour e Lord Alfred Milner (Gran Bretagna), Stephen Pichon e André Tardieu (Francia), Robert Lansing e Henry White (USA), Makino Nobuaki (Giappone), e per l'Italia, Sonnino. Ma prima che iniziasse l'incontro, si apprese che la delegazione francese aveva aggiunto a sorpresa un ulteriore invitato, Sylvain Lévi, presidente dell'organizzazione educativa ebraica-francese Alliance Israélite Universelle. L'incontro si aprì con la presentazione della proposta da parte dei rappresentanti sionisti. Poi si alzo Lévi e confermò i sospetti sionisti riguardo ai motivi per cui era stato invitato dai francesi. Con ovvio intento di minare il progetto sionista, Levy espresse gravi dubbi a proposito della sostanza e praticabilità del medesimo. Dopo la replica di Weizmann all'intervento di Levi, fu il turno delle delegazioni. A nome della Gran Bretagna, Balfour fu esplicito nel suo sostegno al punto di vista sionista. I francesi, non sorprendentemente, furono scettici ma si astennero da ripudiare esplicitamente la proposta. Lansing, il segretario di Stato Usa chiese ai sionisti cosa significasse l'espressione «casa nazionale» nel loro documento. Weizmann rispose che la frase indicava l'aspettativa che, grazie all'immigrazione e sviluppo della popolazione ebrea, la terra sarebbe diventata ebraica come l'America era diventata americana e l'Inghilterra inglese. Il delegato Giapponese invece mostrò indifferenza e non partecipò al dibattito. Fu allora il turno di Sonnino. Si alzò e tenne un discorso risoluto, chiarendo che, come Balfour, anche lui era «molto soddisfatto» della replica di Weizmann alle obiezioni di Lévi, e che l'Italia sosteneva la posizione sionistica. L'intervento schietto e diretto di Sonnino, allineando la posizione italiana a quella britannica, ebbe l'impatto necessario per rompere l'impasse che i francesi avevano tentato di creare. La delegazione sionista lascio l'incontro con la sensazione che, nonostante i tentativi francesi, gli Alleati rimanessero fedeli all'interpretazione sionistica della dichiarazione di Balfour. La sensazione si confermò esatta nei giorni successivi, quando discussioni diplomatiche rivelarono che gli Alleati avevano raggiunto un consenso circa l'emanazione di un mandato britannico, destinato a realizzare gli obiettivi sionistici. La caduta del governo Italiano il 23 giugno, terminò la partecipazione attiva di Sonnino alla conferenza (lasciò Parigi dopo aver firmato i Trattati di Versailles, il 28 giungo). Ma il suo intervento era già stato decisivo. Nel luglio del 1922, dopo altri contrattempi e divergenze, la Lega delle Nazioni conferì alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina (Erez-Israel). Quattro mesi dopo, Sonnino era già deceduto, ma aveva vissuto quanto bastava per vedere realizzato il grande obiettivo al quale l'Italia aveva fornito un impulso decisivo. Ofir Haivry 

·        Gli ebrei, la Shoah e la Verità di Stato.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 12 dicembre 2019. «Ogni persona bianca che non verrà uccisa da Cristo quando tornerà, sarà ridotta in schiavitù». Così parlava General Mayakaahla Ka, predicatore della Israelite School of Universal Practical Knowledge, secondo un rapporto pubblicato il 29 agosto del 2009 dal Southern Poverty Law Center. Poi aggiungeva: «Io sto parlando di 99 milioni di negri! E tu parli di 6 milioni di morti di fame?». E ancora: «L' Olocausto è uno scherzo. Heil Hitler». Quel documento aveva lanciato l' allarme sul fenomeno dei «Black Hebrew Israelites», cioè i neri che si ritengono i veri discendenti degli ebrei delle Sacre scritture, perché stava prendendo una piega speculare a quella dei suprematisti bianchi. Martedì sera a Jersey City, se le prime informazioni raccolte dagli investigatori sono corrette, questa minaccia si è trasformata in realtà. Almeno uno dei due assalitori del mercato kosher, David Anderson, era infatti legato ai «Black Hebrew Israelites», e ciò potrebbe aprire una nuova pagina raggelante per il terrorismo domestico americano. Questa storia affonda le radici addirittura nel Diciannovesimo secolo, quando Frank Cherry aveva costituito la «Church of the Living God» a Chattanooga, nel Tennessee, e William Crowdy aveva creato la «Church of God and Saints of Christi» a Lawrence, in Kansas. Il punto di partenza era comune, ossia la persecuzione subita durante il lungo periodo della schiavitù. Allora tra gli afro-americani si era diffusa la convinzione che loro fossero i veri discendenti culturali, ma anche biologici, degli ebrei descritti nelle Sacre scritture. Ciò consentiva una rivalsa morale e una giustificazione della ribellione contro i bianchi cristiani, che era gli usurpatori della religione, appartenenti in realtà ad una razza inferiore. Il movimento da allora in poi si è allargato, prendendo molte direzioni diverse e contraddittorie. Gli studiosi distinguono i suoi appartenenti in almeno tre categorie: gli ebrei neri che restano legati al cristianesimo ma adottano i rituali ebraici; quelli che si uniformano di più alla tradizione ebraica; e quelli che invece intendono la definizione di israeliti soprattutto con un connotato nazionalistico. Nessuno di questi gruppi viene riconosciuto nell' ambito dell' ebraismo autentico, e in passato ci sono state anche frizioni quando alcuni membri sono emigrati verso Israele, chiedendo di ottenere la cittadinanza sulla base di una presunta discendenza diretta dal popolo delle scritture. Lo studio del Southern Poverty Law Center sosteneva che la maggioranza dei gruppi dei «Black Hebrew Israelites» «non sono nè esplicitamente razzisti, nè antisemiti, e non promuovono la violenza». Allo stesso tempo però avvertiva che «c' è un settore estremistico emergente, i cui adepti credono che gli ebrei siano impostori diabolici, e condannano apertamente i bianchi come la personificazione del maligno, meritevoli solo della morte e la schiavitù». Negli ultimi anni questi gruppi hanno seguito un percorso speculare a quello dei suprematisti bianchi, diventati più attivi durante l' amministrazione Trump, a partire dagli scontri di Charlottesville del 2017. La protesta nera si era stranamente calmata, dopo l' esplosione di Black Lives Matter all' epoca di Obama, ma questo potrebbe essere il primo segnale di un ritorno più violento.

Gina Di Meo per l'ANSA il 12 dicembre 2019. Scene da Far West per le strade di Jersey City, di fronte a Manhattan, dove una sparatoria ha causato diversi morti, almeno sei. Nello scontro a fuoco sarebbero infatti rimasti uccisi le due persone che hanno dato il via alla battaglia a colpi di fucile - un uomo e una donna - un poliziotto e almeno tre civili. Il bilancio non è stato ancora del tutto confermato. Ferito anche un altro agente. Quella che un residente ha definito come una vera e propria scena di guerra è iniziata nel primo pomeriggio. Secondo le autorità, tutto sarebbe partito da un cimitero. Secondo le prime ricostruzioni, alcuni agenti avrebbero avvistato due persone sospette - un uomo e una donna appunto - probabilmente coinvolte in un omicidio e all'interno di un furgone U-Haul, azienda specializzata in traslochi. E' lì che è iniziato il primo scontro, con qualche media che ha parlato anche di un'operazione antidroga. Poi, a seguito della fuga dei due sospettati, la sparatoria si è spostata in una zona residenziale della città che si trova solo a pochi metri di distanza in linea d'aria da Manhattan. A separare Jersey City e New York solo il fiume Hudson. I due killer si sono quindi asserragliati all'interno di un negozio sparando all'impazzata in strada dalle finestre, mentre sul posto sono intervenute anche le squadre speciali della polizia. Lo scontro è andato avanti per diverse ore prima che i sospettatati venissero neutralizzati. Il presidente Trump è stato messo subito al corrente dell'incidente e al momento gli investigatori escludono l'ipotesi terrorismo. Il negozio in cui è avvenuta la sparatoria è un kosher market, quindi frequentato principalmente da persone di religione ebraica. Tuttavia si ritiene che il market sia stato preso di mira solo accidentalmente e che non si sia trattato in alcun modo di un attacco di matrice antisemita. Nella zona del conflitto a fuoco si trova anche una scuola cattolica e per ore centinaia di studenti sono stati rimasti chiusi all'interno dell'edificio posto in lockdown. Jersey City è la seconda città dopo Newark del New Jersey. Molti newyorkesi la scelgono come residenza proprio per la sua vicinanza in particolar modo al Financial District, dove si trova Wall Street. La città è stata anche testimone indiretta degli attentati dell'11 settembre 2001 perché collocata proprio all'ombra di quelle che una volta erano le Torri Gemelle

Fanatici e vigliacchi attaccano gli ebrei quando pregano. Alberto Giannoni il 10 ottobre 2019 su Il Giornale. «Era un nostro bambino, un bambino italiano». Parole del discorso di insediamento di Sergio Mattarella al Quirinale. Era solo un bambino Stefano Gaj Taché, e il 9 ottobre 1982 fu ucciso solo perché ebreo. Sono passati 37 anni esatti. Anche in quel caso gli ebrei furono colpiti in un giorno di preghiera, in quel caso da un commando palestinese. Trentanove anni prima, in un altro giorno di ottobre, nel 1943 a Roma, oltre mille ebrei erano stati rastrellati e molti morirono nei campi di sterminio. Da allora, molti ebrei considerano «non farti uccidere» l’undicesimo comandamento, e questa è la storia recente di Israele e della sua forza, che l’Europa, l’Onu e la sinistra mondiale considerano di per sé una colpa, non comprendendo come la forza del giusto sia una benedizione. Non farti uccidere, dunque. Lo sanno i loro odiatori, siano essi estremisti arabi, nazisti o fanatici islamisti. E anche per questo li colpiscono quando sono vulnerabili: quando pregano. Questa la storia della «guerra del Kippur», scatenata improvvisamente nel 1973 dai Paesi arabi. Anche ieri era Kippur, anche ad Halle, in Sassonia. Nell’82 era shabbat, il sabato, ma a Roma era anche il bar mitzvah di un gran numero di giovani che passavano alla maggiorità religiosa. Ed era Shemini Atzeret. Festa. Nel tempio c’erano centinaia di persone, molti bambini. Tra questi Stefano, e il fratello maggiore Gady, che fu ferito come 40 altre persone. Non avevano alcuna «colpa» ovviamente, se non quella di trovarsi lì davanti alla sinagoga di Roma, in quel 1982 che fu anche l’apice di una campagna di demonizzazione contro gli ebrei italiani, delirante strascico ideologico dopo i controversi fatti di Sabra e Shatila che avevano coinvolto Israele, intenzionata difendersi appunto e furono indebitamente addebitati all’intero ebraismo, tanto che il 25 giugno, nel corso di una manifestazione con slogan antisemiti, dei sindacalisti scaraventarono una bara davanti alla sinagoga. E lì, alla sinagoga inspiegabilmente sguarnita nonostante gli allarmi, pochi mesi dopo quel commando arrivò scaricando mitra e lanciando granate. In pochi attimi fu l’inferno: l’Italia, e la comunità ebraica italiana, subirono quello che è stato il più grave attentato antisemita della nostra storia. Il presidente del Consiglio di allora, Giovanni Spadolini, si precipitò al «ghetto» da amico degli ebrei. Era stato l’unico, un mese prima, a rifiutarsi di ricevere Yasser Arafat, l’ambiguo leader palestinese che era stato accolto in Italia con tutti gli onori, anche dal Quirinale. Tale la tensione che il rabbino capo Elio Toaff, massima autorità morale dell’ebraismo italiano, alla vigilia della cerimonia disse al presidente Sandro Pertini che non avrebbe potuto garantire la sua incolumità ai funerali di Stefano. Due partigiani, il rabbino capo e il presidente, discutevano da pari a pari sulle responsabilità istituzionali di quel dramma. Il giorno prima delle esequie, il grande architetto Bruno Zevi, azionista e radicale, pronunciò in Campidoglio un durissimo atto d’accusa contro il suo Paese, l’Italia. Quella ferita del 1982 fu rimarginata lentamente, anche con la visita in sinagoga di Giovanni Paolo II, che chiamò gli ebrei “i nostri fratelli maggiori”. Dal 2007 il largo davanti al tempio porta il nome di Stefano Gaj Taché. Il fratello, Gady, nel 2017 ha scritto queste parole: «A quest’ora 35 anni fa ero ancora un ragazzino felice, non sapevo cosa sarebbe successo l’indomani. Fino a qualche anno fa ho partecipato da spettatore a tutte le commemorazioni. E ogni volta tornavo a casa deluso dal fatto di non aver avuto la forza di parlare in pubblico per gridare al mondo la mia rabbia. Così tornavo a casa e sfogavo le mie emozioni suonando la chitarra. Fu in una di queste occasioni che a 17 anni scrissi una canzone». La canzone si intitola «Little Angel».

Se la legge contro il negazionismo è un regalo ai nemici degli ebrei. Roberto Santoro il 5 maggio 2016 su loccidentale.it. E’ passato in Senato il ddl che aumenta le pene da 2 a 6 anni di reclusione per chi fa propaganda negazionista. Ma non ci si è fermati al negazionismo sulla Shoah. Governo e maggioranza infatti si sono spinti oltre, mettendo sullo stesso piano la Shoah con i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Sul ddl contro i negazionisti il dibattito è aperto: da una parte il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, che ha espresso grande soddisfazione per il provvedimento. Dall’altra autorevoli storici, ebrei, come Anna Foa e Sergio Luzzatto, che lo hanno invece bocciato sonoramente, e non è casuale che siano stati degli storici a parlare, visto che sono i più avvertiti di fronte a un uso della memoria che rischia di essere troppo disinvolto. Il negazionismo è una questione che torna periodicamente ad affacciarsi sulla stampa e anche stavolta i giornali hanno dato spazio alla vicenda, soprattutto quando Foa, Luzzatto, e il direttore dell’istituto storico della Resistenza, Flores, hanno difeso le posizioni di chi, in parlamento, Giovanardi, Quagliariello, aveva messo in guardia dalla nuova legge, la quale legge, sempre secondo gli storici, “rischia di trasformare dei farabutti in martiri”. A noi, che storici non siamo, sembra che l'equivalenza fatta tra Shoah e altri crimini brutali svuota di senso l'unicità dello sterminio degli ebrei nella Germania del partito nazista. Sorprende che fini giuristi esercitatisi sul provvedimento non colgano il senso simbolico e meta-storico di quell'evento. Per Anna Foa, poi, è “difficile dare torto a Giovanardi” quando il senatore avverte che il ddl potrebbe ritorcersi contro Israele. “C'è chi accusa Israele di una politica genocidiaria - cosa che giudico completamente sbagliata - ma queste critiche potrebbero trovare un sostegno nella nuova legge”, dice Foa citata da Repubblica. Queste "critiche" circolano persino ai piani alti delle Nazioni Unite: lo Stato di Israele si è macchiato di crimini di guerra durante il conflitto israelo-palestinese! Gli stessi slogan dell'antisemitismo di sinistra che risuonano nella propaganda contro la Brigata Ebraica durante le celebrazioni del 25 aprile. Di solito chi dà dell'assassino allo stato di Israele, "Israele Stato Sionista", pensa pure un'altra cosa. Che i sionisti volevano mettersi d'accordo con i nazisti per invadere la Palestina, sulla pelle degli stessi ebrei. Che il movimento sionista si è 'inventato' la Shoah per coprire quello che stava facendo in Palestina. Se non ci credete, basta farsi un giro sul web per scoprire che tante persone queste cose le pensano e le scrivono. Per alcuni Hitler, Himmler e il buon Eichmann sarebbero stati pedine nelle mani del sionismo politico, che li avrebbero usati senza scrupoli per i suoi turpi fini. Così come avrebbe "usato", nell'ordine, la Regina Elisabetta, e quindi gli Usa, Hollywood e la gilda dei mercanti della Serenissima. Come definirlo? Il complottismo lato peggiore del postmodernismo culturale. Avete presenti quelli convintissimi che gli ebrei telefonarono a chi stava nelle Torri Gemelle per avvertirli dell'attacco di Al Qaeda? Ecco, avete capito il tipo. Gente come il signor Breivik, il killer della mattanza di Utoya. Detto ciò, che cosa mi succederà domani se scriverò che nel 1941 i nazisti deportarono per ritorsione nei campi di concentramento centinaia di giovani ragazzi e ragazze ebrei che vivevano e lavoravano in un campo sionista nel nord dell’Olanda – regista dell'operazione Klaus Barbie, quel fiorellino? Qualcuno mi porterà le arance in cella? C’è da chiedersi se chi si è adoperato tanto per questa nuova legge certe cose se ricordi, le sappia o perlomeno le immagini. Perché all'antisemitismo, se non lo riconosci subito, rischi di fargli un favore. Magari votando una legge sul reato di negazionismo.

IL NEGAZIONISMO, LA SHOAH, E LA VERITA’ DI STATO: UNA VITTORIA POSTUMA DI HITLER. Sul tema, interventi di Sergio Luzzatto, Marco Politi, e un’intervista a Carlo Ginzburg - a c. di Federico La Sala, venerdì 22 ottobre 2010 su lavocedifiore.org. “L’unica cosa che non ci serve è riempire le galere di mentitori e far pensare al mondo che per farci credere abbiamo bisogno della scorta della polizia” (Anna Foa).

[...] Una legge che difende penalmente la verità storica “sarebbe la vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un immane conflitto mondiale”. Sergio Romano ha ricordato l’appello di Blois, redatto nel 2008 quando si pensava che gli stati membri dell’Unione dovessero punire chi avesse “grossolanamente minimizzato” genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.   Gli storici francesi risposero che “in uno Stato libero non spetta ad alcuna autorità politica definire la verità storica e restringere la libertà dello storico sotto la minaccia di sanzioni penali”. Anna Foa su Avvenire ha rivelato che mai ha pensato che una legge per mandare in galera il più celebre dei negazionisti David Irving (o Claudio Moffa) “possa essere giusta e utile” [...] [...] Il documento sul negazionismo più profondo e più drammatico, anche per le sue implicazioni personali, è il saggio di Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta, contenuto nella raccolta Gli assassini della memoria. I suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz. Ho immaginato quanto gli fosse costato scrivere questo saggio. Devo dire che leggendolo al principio ho provato una profonda perplessità, che però è scomparsa quasi subito. Quel libro andava scritto, e solo Vidal-Naquet poteva scriverlo [...]

Shoah vera o falsa? Non si decide per legge di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 17.10.2010). È certo avvilente la realtà delle cronache e delle inchieste di questi giorni. A Teramo, un professore di storia semisconosciuto agli studi, ma ultramediatizzato per le sue pseudo-lezioni sulla Shoah. Online, un intero sottobosco di siti antisemiti oltreché negazionisti. Il tutto, in coincidenza con l’anniversario del 16 ottobre 1943: quando una retata nazifascista consegnò oltre mille ebrei romani al treno per Auschwitz. Tutto ciò è appunto avvilente. Ma non giustifica la reazione della classe politica italiana, che dai vertici delle Camere ai leader del centro-destra e del centrosinistra ha accolto con favore la proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, di approvare entro il 27 gennaio (giorno della Memoria) una legge che introduca in Italia il reato di negazionismo. Penalizzare il negazionismo non può essere una soluzione del problema. Non foss’altro, perché il negazionismo è male culturale e sociale. Va dunque affrontato con anticorpi culturali e sociali, non attraverso la repressione giudiziaria: come già sottolineava, tre anni orsono, un appello degli storici italiani contro un possibile decreto-legge in materia dell’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Oggi, a fronte della rinnovata tentazione della nostra classe politica di legiferare sulla verità storica, bisogna rinviare i cittadini-lettori a quell’appello del gennaio 2007, sottoscritto dai più autorevoli storici italiani. Inoltre, si può oggi provare ad aggiungere qualche elemento ulteriore di riflessione. Distinguere il vero dal falso nella storia è cosa indispensabile, ma meno facile di quanto sembri. Ad esempio: possiamo facilmente concordare sulla verità dell’affermazione secondo cui la terribile «notte dei cristalli», in cui vennero distrutti decine di templi e migliaia di negozi di proprietà degli ebrei, fu quella del 9-10 novembre 1938. Ma se qualcuno sostenesse che «le politiche nazionalsocialiste di quegli anni ebbero un impatto fortemente positivo sull’economia tedesca, prostrata dagli effetti della crisi del 1929 » sarebbe forse un’affermazione falsa? Oppure diventerebbe falsa soltanto l’estrapolazione successiva, «Hitler fu un genio dell’economia»? È evidentemente assurdo instaurare criteri giuridico-legali per distinguere il vero dal falso nella storia. Porre limiti alla libertà d’insegnamento è comunque sbagliato. Beninteso: laddove certe lezioni universitarie sfociassero sull’incitazione all’odio razziale sull’apologia di crimini contro l’umanità queste lezioni assumerebbero un rilievo penale già contemplato e perseguito nei nostro ordinamento. Ma al di fuori di questo, un sistema educativo dovrebbe - piuttosto - tutelarsi con anticipo dalla tara dei cattivi maestri. Oggi, il problema non è sapere di cosa sproloqui dalla cattedra un docente di Teramo: il problema è sapere chi lo ha nominato professore ordinario in un’università italiana. Creare un precedente nella disciplina della libertà d’insegnamento sarebbe pericoloso. Facciamo qui un altro esempio che riguarda non il negazionismo ma il cosiddetto creazionismo. Bisognerebbe forse stabilire limiti legali anche al diritto d’insegnare che Charles Darwin aveva capito poco o nulla sulle origini della vita nel mondo, e che tutto si spiega grazie a un Disegnatore meravigliosamente intelligente? In democrazia, la scienza e la cultura selezionano da sole, senza intervento della politica, l’attendibile dall’inattendibile e il rigoroso dal ciarlatanesco. La conoscenza storica si nutre di tutto, perfino di negazionismo. Al riguardo un ultimo esempio, relativo ai diari di Anne Frank. Durante gli anni 80, soltanto certe accuse - ideologicamente abiette, ma filologicamente acute - del professore francese Robert Faurisson (il pioniere del negazionismo europeo) spinsero la Fondazione Anne Frank ad approntare un’edizione critica dei diari, che consentì di fare piena luce sulla ricchezza dei manoscritti lasciati da Anne. Fuori d’Italia, percorrere la strada della verità storica di stato si è già dimostrato un esercizio rischioso; e suscettibile di generare esso stesso - paradossalmente - forme di negazionismo. È quanto ha sperimentato, negli anni scorsi, la Francia: che infatti ha finito per rinunciare, nel 2008, a qualunque nuova "legge memoriale".

Contro il negazionismo non serve la storia “vera per legge” di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 20.10.2010) Pierre Vidal Naquet, lo storico francese, li ha chiamati “assassini della memoria”. Assassini spregevoli e vigliacchi perché tolgono alle vittime e ai loro discendenti persino il diritto di piangere i morti innocenti, di ricordarli e di combattere i carnefici e le ideologie che li hanno guidati. Assassini della memoria per eccellenza sono negazionisti e revisionisti, che cavillano sulle camere a gas, sulle cifre delle vittime, sugli “ordini scritti o non scritti” con l’obiettivo di spingere nell’oblio la Shoah e - mascheratamente - di continuare ad alimentare le radici dell’antisemitismo. IN QUESTA SCHIERA si inserisce certamente Claudio Moffa, il docente dell’università di Teramo, che al termine di un master è tornato a parlare (ripreso in video) del “cosiddetto Olocausto”, dei racconti “non fedeli” dei sopravvissuti, del “dogma-Shoah”. Alle proteste e all’indignazione dei rappresentanti dei sopravvissuti si è unito Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, lanciando la proposta di una legge che punisca il negazionismo. La rabbia è sacrosanta, la voglia di contrastare gli assassini della memoria è trasversale e comprende uomini e donne delle più varie credenze. Eppure in un secondo momento sono emersi dubbi fondati se questa sia la via giusta. Hanno cominciato gli storici. Adriano Prosperi su Repubblica, Sergio Romano sul Corriere della sera, Anna Foa sul giornale dei vescovi Avvenire. “L’inviolabile diritto di ciascuno - ha scritto Prosperi - è frutto di secoli di lotte contro l’intolleranza e la censura di poteri religiosi e politici”. Una legge che difende penalmente la verità storica “sarebbe la vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un immane conflitto mondiale”. Sergio Romano ha ricordato l’appello di Blois, redatto nel 2008 quando si pensava che gli stati membri dell’Unione dovessero punire chi avesse “grossolanamente minimizzato” genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Gli storici francesi risposero che “in uno Stato libero non spetta ad alcuna autorità politica definire la verità storica e restringere la libertà dello storico sotto la minaccia di sanzioni penali”. Anna Foa su Avvenire ha rivelato che mai ha pensato che una legge per mandare in galera il più celebre dei negazionisti David Irving (o Claudio Moffa) “possa essere giusta e utile”. Ultimo è intervenuto anche l’Osservatore Romano. “Negare l’Olocausto - ha affermato - è un fatto gravissimo e vergognoso”. Ma la storia non è vera per legge e “punire per legge non è la strada giusta”. Dubbi e perplessità sono affiorati anche all’interno del mondo ebraico. Su Moked, il portale dell’ebraismo italiano, Tobia Zevi ha scritto che i reati d’opinione sono “materia delicatissima” e si è chiesto: è pensabile tutelare un solo sterminio? E le vittime uccise dal gas italiano durante la guerra d’Etiopia rientrerebbero o no nella categoria della punibilità? Sono riflessioni a tante dimensioni. Ma quanto più il nodo si fa ingarbugliato tanto più è bene tenersi al filo dei principi più sicuri. E nella nostra cultura occidentale il principio base - contro ogni diffamazione, la più perversa - è mirabilmente espresso dalla Costituzione degli Stati Uniti. Così suona il Primo Emendamento: “Il Congresso non farà leggi che limitino la libertà di parola o di stampa o il diritto delle persone di riunirsi in pacifica assemblea”. Qualunque cosa dicano, qualunque cosa stampino, qualunque sia il segno sotto il quale si riuniscano. Anche antidemocratico, odioso, schifoso: purché pacificamente! Le tavole del Sinai delle moderne democrazie sono queste e non ce ne sono altre. E a ben vedere una legge che punisca i negatori della Shoah sarebbe inutile, controproducente, pericolosa. Inutile perché non impedisce l’antisemitismo. Controproducente perché - nonostante l’unicità dell’Olocausto - darebbe l’impressione che si tuteli la memoria di un solo massacro nella storia. Pericolosa perché apre la strada a un’ideologia di stato. HA DETTO mirabilmente Anna Foa: “L’unica cosa che non ci serve è riempire le galere di mentitori e far pensare al mondo che per farci credere abbiamo bisogno della scorta della polizia”. Nell’odierna situazione italiana finirebbe per fare da alibi al razzismo selettivo. Dove il primo gaglioffo leghista, protetto dal governo, magari afferma di difendere la Shoah e poi dichiara come il senatore Piergiorgio Stiffoni: “Gli immigrati? Purtroppo il forno crematorio di Santa Bona non è ancora pronto”. Dove si agita la bandiera dell’amore e si mandano maiali a pisciare sul terreno, destinato a una moschea. Dove nessuno è razzista, ma una “romena di merda” può essere uccisa. Dove ci si proclama moderati e si sdogana senza battere ciglio lo sfruttamento (che continua) dei “negri” di Rosarno. Antisemitismo e razzismo si combattono con l’impegno civile, la formazione, l’esempio delle istituzioni. Chiedendo coerenza a partiti, forze sociali, autorità, agenzie educative. E questo, in Italia, è ancora da costruire.

Intervista a Carlo Ginzburg. La verità non è di stato. Ginzburg: i tribunali non possono decidere. È sbagliato interferire con normative nella ricerca intellettuale. E non si deve offrire a chi nega lo sterminio il pretesto per ergersi di fronte al mondo come paladino della libertà espressione a cura di Simonetta Fiori (la Repubblica, 21.10.2010). «La verità storica non può essere certificata da un tribunale», dice Carlo Ginzburg. Il suo giudizio negativo sull’opportunità di una legge che punisca penalmente il negazionismo è una posizione condivisa dagli storici più autorevoli della comunità nazionale, al di là delle diverse ispirazioni politiche e culturali. Così come appare compatto il sì alla legge pronunciato da tutto il mondo politico, destra e sinistra insieme, con poche eccezioni. Da una parte le ragioni della ricerca, dall’altra le ragioni della politica. «Questa divergenza va sottolineata», sostiene Ginzburg, «ma non credo costituisca un sintomo negativo per la ricerca».

Perché è contrario alla penalizzazione del negazionismo?

«Perché si rende un servizio ai negazionisti, desiderosi di una notorietà mediatica e pronti a ergersi a paladini della libertà di espressione. La mia posizione non è cambiata rispetto a tre anni fa, quando insieme ad altri storici firmammo un manifesto contro il disegno di legge proposto dall’allora ministro della Giustizia Mastella. Ogni verità imposta dall’autorità statale rischia di minare la libera ricerca storiografica e intellettuale».

In quell’appello venivano ricordati gli esiti illiberali di alcune verità di Stato: il socialismo nei regimi comunisti, la negazione del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza di piazza Tienanmen in Cina.

«Soprattutto è sbagliato portare in tribunale le argomentazioni storiografiche. Si entra in un terreno difficile e delicato, con il rischio di offendere la verità ma anche le vittime dei genocidi. Prendiamo la formulazione della Decisione Quadro del 28 novembre 2008 adottata dall’Unione Europea, così come veniva riportata ieri su Repubblica. "Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili... l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra". La formula "minimizzazione grossolana" mostra immediatamente come scendendo su questo terreno possa cominciare una discussione infinita. Che cosa significa? Cosa intendiamo? Si entra in un gioco di distinguo e di sfumature assolutamente insensato».

Nella discussione intorno alla legge, qualcuno tra gli storici ha sostenuto che le argomentazioni dei negazionisti pur abiette possono essere di stimolo per la ricerca.

«No, sono ignobili e basta. Il documento sul negazionismo più profondo e più drammatico, anche per le sue implicazioni personali, è il saggio di Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta, contenuto nella raccolta Gli assassini della memoria. I suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz. Ho immaginato quanto gli fosse costato scrivere questo saggio. Devo dire che leggendolo al principio ho provato una profonda perplessità, che però è scomparsa quasi subito. Quel libro andava scritto, e solo Vidal-Naquet poteva scriverlo».

Più efficace Vidal-Naquet di una sentenza. Ma c’è il problema di come tenere i negazionisti lontani dall’insegnamento.

«Sono d’accordo con un vostro lettore: a proposito del professore negazionista di Teramo, invitava coloro i quali gli avevano dato la cattedra a riflettere sulle conseguenze della loro scelta. Il fatto che quel signore sia diventato docente è un sintomo dello stato vergognoso in cui è scivolata l’accademia italiana. Il negazionismo si combatte anzitutto moltiplicando la vigilanza critica e alzando gli standard delle nostre università».

Shoah, il diritto di non perdonare. Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 su Corriere.it da Ferruccio de Bortoli. Nel libro di Walter Barberis, «Storia senza perdono» (Einaudi), l’invito alla storiografia a farsi carico delle testimonianze dei singoli superstiti. «La memoria dev’essere collettiva». Uno studente chiese a Goti Bauer, sopravvissuta milanese alla Shoah, donna di grande dolcezza, se un giorno mai avrebbe perdonato i suoi aguzzini. «No» rispose Goti. Un no cortese ma secco. La domanda non l’aveva turbata. Forse gliel’avevano già fatta tante altre volte. Io, che pur l’avevo ascoltata in diverse occasioni, insieme a Liliana Segre e altri testimoni, mi sarei aspettato chissà perché, in quella circostanza, una risposta più articolata. Forse ai giovani e al pubblico contemporaneo andrebbe spiegato perché un reato di genocidio non va mai in prescrizione e perché con l’oblio le vittime muoiono una seconda volta. Ma quel no di Goti, mi convinsi, non aveva bisogno né di spiegazioni né tantomeno di giustificazioni. Andava bene così. Storia senza perdono è il titolo del saggio scritto da Walter Barberis e appena pubblicato da Einaudi. Lo storico torinese si interroga sulle ragioni che spingono una società — anche se sotto traccia — a tentare di chiudere i capitoli più dolorosi della propria storia. A mettere un punto. Quasi un istinto a liberarsi del passato nell’illusione che ciò rischiari e rassereni il futuro, lo liberi dalle «catene» del ricordo. Ma la memoria è una guida. Non è un peso, un fastidio retorico e nemmeno una distrazione. Walter Barberis (1950) insegna Storia moderna e Metodologia della ricerca storica all’Università di Torino; è presidente della Giulio Einaudi editore «Solo il Dio della Bibbia — scrive Barberis — può perdonare, chi altri ha il diritto di farlo, con quale autorità? Il “per-dono” è la più alta forma di amnistia, e l’amnesia è la sua diretta conseguenza». L’autore si domanda altresì che cosa abbia da guadagnare una società da un «occultamento pacificatore del suo torbido passato». Nulla. Ha tutto da perdere. Ed è come se rinunciasse a un prezioso vaccino e gettasse via tutti gli anticorpi — frutto del dolore delle vittime, del sacrificio e del coraggio dei giusti — nella speranza che una malattia si possa sconfiggere dimenticandone i sintomi. La malapianta dell’indifferenza, i germi dell’intolleranza, ricrescono facilmente. Si nutrono di pregiudizi, sospetti, caccia al diverso ritenuto colpevole senza prove di ogni nostro guaio, bersaglio delle nostre paure. L’ignoranza e la manipolazione della storia fanno riemergere vecchi fantasmi. La seduzione dei totalitarismi trova terreno fertile nel ribollire di nuovi rancori sociali. È l’arma impropria con cui spesso si reagisce a un senso di esclusione, di ingiustizia. E così i carnefici vengono riabilitati, le vittime ricacciate nei lager. L’oblio è anche questo. Ma si dimenticano anche i giusti. «Storia senza perdono» di Walter Barberis (Einaudi, pp. 96, euro 12) Ho ascoltato tante testimonianze, soprattutto di Liliana Segre, davanti a platee di studenti, attenti, spesso commossi, nel silenzio assoluto (con un pubblico di soli adulti non sempre è così). La preoccupazione del testimone, nella sofferenza rinnovata del racconto, è anche e soprattutto quella di restituire vita e dignità alle altre vittime, alle persone che non hanno avuto la fortuna di salvarsi. Il testimone si sente quasi in colpa per non averne condiviso il destino. Semmai volesse perdonare, non potrebbe mai farlo pensando ai tanti, tantissimi, non solo ai familiari, che non sono mai tornati. All’impossibilità di piangerli su una tomba. All’idea che persone trasformate, da una efficiente macchina di morte, in pezzi da smaltire possano ritornare alla condizione di scarti della storia. Ma i testimoni, che purtroppo si assottigliano con il passare degli anni, non bastano per consegnare alle prossime generazioni una memoria viva, non retorica, un insegnamento utile. Né sono sufficienti i musei, i memoriali. Occorre, come dice Barberis, una storiografia fatta di ricerca razionale, di onestà dell’insegnamento e soprattutto di «tanta umanità». Barberis riprende una frase di Primo Levi: «La memoria umana è uno strumento meraviglioso e fallace». Ma non va oltre la dimensione individuale. E attenzione a non abusarne, si può rimanerne impigliati. «L’abuso della memoria — scrive Barberis — non è meno dannoso di un cattivo uso della storia». Il libro elenca anche numerosi falsi, come L’uccello dipinto del 1965 di Jerzy Kosinski. Storie inventate come quella uscita dalla fantasia di Enric Marco, che ha ingannato a lungo un intero Paese, la Spagna, ed è stato descritto magistralmente da Javier Cercas ne L’impostore. Per lungo tempo, subito dopo la guerra, dimenticare e rimuovere apparvero due scelte di necessità, persino di buon senso. Anche da parte dei sopravvissuti, che un po’ si vergognarono. L’orgoglio della parola, il dovere della testimonianza verrà più tardi, dopo il processo Eichmann, con l’esposizione del dolore delle vittime. A Norimberga no: era prevalsa una trattazione più fredda e cartacea nell’individuazione delle responsabilità del regime nazista. A dieci anni dalla Shoah, il regista Alain Resnais rimontò le immagini mostrate a Norimberga in un documentario dal titolo Notte e Nebbia. Il primo sul genocidio degli ebrei. La censura francese ne proibì la diffusione. Per le scene dei corpi straziati? No, perché si poteva scorgere un militare francese spingere anch’egli, come i tedeschi, i connazionali ebrei sui treni diretti ai campi di concentramento e di sterminio. Stessa sorte ebbe, ma eravamo già nel 1969, un altro regista francese, Marcel Ophüls, con il documentario Le Chagrin et la Pitié. De Gaulle disse che il Paese non aveva bisogno di verità, ma di speranza e coesione. Le responsabilità francesi nella deportazione degli ebrei verranno riconosciute dall’appena scomparso Jacques Chirac a proposito del rastrellamento del Vélodrome d’Hiver, soltanto nel 1995. Ma anche altri Paesi compreso il nostro, caddero nella tentazione di dimenticare, rimuovere, lavare le coscienze dalle tante complicità nazionali. Il Nobel Elie Wiesel, ricordato da Barberis, sosteneva che i sopravvissuti hanno da dire più di tutti gli storici messi insieme. «Perché solo coloro che vi passarono sanno che cosa fu; gli altri non lo sapranno mai». Vero. L’importante, però, è che non se lo dimentichino, che ne assimilino la lezione storica. E soprattutto che non invertano ragioni e torti. Accade spesso quando la memoria si attenua, si spegne o muta semplicemente sostanza. Come diceva Levi, è fallace.

SHOAH È UNICA MA FARE PARAGONI SI PUÒ, A CERTE CONDIZIONI. Gadi Luzzatto Voghera il 18 agosto 2017 su glistatigenerali.com. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare. Primo Levi.

La Shoah è stata assunta negli ultimi anni come punto di riferimento ineludibile di riflessione etica sul peso della storia che ci portiamo alle spalle. Tentiamo di schematizzare brevemente i principali elementi storici che rendono unica la Shoah:

a) si è trattato dell’unico caso nella storia in cui pregiudizi alla base di un’ideologia secolare come l’antisemitismo  hanno suggerito e agevolato la progettazione dello sterminio di un intero popolo – gli ebrei – azione che da allora viene chiamata “genocidio” (termine ora in gran voga e di cui ampiamente si abusa);

b) è stato l’unico caso in cui la civiltà europea ha tentato di eliminare in modo largamente volontario una parte fondamentale del suo patrimonio umano e culturale;

c) per la prima e auspicabilmente unica volta nella storia l’intera macchina militare e burocratica di uno stato ha assunto come fine programmatico lo sterminio di un popolo;

d) è stato l’unico caso in cui la furia persecutoria propria di un uomo (Hitler) si è trasformata in azione che venne messa in pratica da chi riconosceva in questo uomo il proprio leader; un’intera generazione (fatte salve rare eccezioni) di un popolo – quello tedesco – partecipò in vari gradi alla macchina dello sterminio.

La Shoah è stata quindi un evento unico: ha travolto l’intera comunità ebraica e ha mobilitato milioni di uomini e donne direttamente coinvolti nel massacro. Ma non si tratta di una questione di numeri, non è lì che risiede la sua unicità. Sei milioni sono un numero spaventoso, eppure ci sono state nella storia anche stragi più sanguinose. Ogni morte violenta è di per sé “unica” e impone una riflessione etica che conduca all’elaborazione di una necessaria memoria. L’unicità della Shoah, oltre che negli elementi elencati schematicamente, risiede nel fatto che si trattò di un meccanismo sorto all’interno di un mondo occidentale liberale, industrializzato, tecnologicamente avanzato che nella sua presunzione di superiorità morale verso altre civiltà è stato capace di produrre sì cose ottime (dagli antibiotici al motore a scoppio, dalla democrazia al cinema a quel che si vuole aggiungere), ma anche dinamiche terribili, come appunto la Shoah. Senza la partecipazione di massa degli europei, che in vari gradi e con diverse responsabilità si sono trasformati in carnefici, la Shoah non avrebbe potuto essere realizzata ed è per questo che si può parlare di “macchina” dello sterminio.

La difficoltà di dare un nome allo sterminio degli ebrei. Per molti anni allo sterminio degli ebrei non venne mai neppure attribuito un nome (fatta salva la definizione di “soluzione finale del problema ebraico”,  per altro ideata dagli stessi nazisti); ora ne abbiamo a disposizione addirittura due, Olocausto e Shoah. Negli ultimi anni la parola ebraica Shoah (letteralmente: distruzione, catastrofe) è stata preferita in Italia e in altri paesi per la sua qualità descrittiva in lingua ebraica di un evento così estremo da essere stato definito variamente come “indicibile”, “impensabile” ecc. La parola Olocausto è sembrata ambigua per la sua origine etimologica che ne rimanda il significato più profondo a un’azione religiosa, l’offerta di un sacrificio in “olocausto” a un dio, che sembra particolarmente stridere con l’evento in sé. Tuttavia il primo ad usare la parola Olocausto fu lo scrittore ebreo Elie Wiesel, vittima assieme alla famiglia dei campi di sterminio e premio Nobel; la sua influenza culturale è forse all’origine dell’accoglimento della parola Olocausto soprattutto in ambito anglosassone e americano, tanto che il museo nazionale realizzato a Washington per ricordare lo sterminio degli ebrei prende il nome di Holocaust Museum.

Collocare nella giusta dimensione storica lo sterminio degli ebrei d’Europa. A fronte della questione dell’unicità o di quella dei “nomi” dello sterminio, soprattutto in ambito scolastico è necessario innanzitutto non prescindere da una accurata ricostruzione degli avvenimenti storici che hanno condotto alla realizzazione della soluzione finale. Sì, alla realizzazione, perché se è fuor di dubbio che le comunità ebraiche non sono scomparse dopo lo sterminio, è altrettanto vero che il nazismo e i suoi alleati sono riusciti nel loro intento di cancellare un intero mondo, la civiltà ebraica dell’Europa orientale che lì aveva trovato la sua culla fatta di elaborazioni culturali e religiose originali (chassidismo e haskalà russa), canti (il klezmer), lingua (lo Yiddish), esperienze politiche (bundismo, sionismo), vite umane. Solo una ricostruzione degli avvenimenti e una parallela ricostruzione dell’ambiente potrà condurre studenti e insegnanti a porsi interrogativi più teoretici e comunque ineludibili sull’importanza della memoria e sull’unicità della Shoah. Per dare quindi solidità concettuale all’evidenza dell’unicità della Shoah, sarà innanzitutto necessario lasciare un opportuno spazio a una sorta di formazione storica continua e permanente (indirizzata agli studenti, certo, ma anche ai politici e ai giornalisti e comunicatori di ogni sorta che troppo spesso usano e abusano del concetto di Shoah e di quello di genocidio) sugli elementi fondamentali che descrivono l’ascesa del nazionalsocialismo al potere, la soppressione rapida delle libertà democratiche in Germania, la rimessa in discussione del trattato di Versailles, il riarmo unilaterale. Poi il 1935 e le leggi di Norimberga sulla purezza della razza e loro conseguenze, accompagnate dai paralleli progetti di pulizia razziale della popolazione tedesca, soppressione dei malati mentali e degli handicappati; la costruzione dei primi campi di concentramento per oppositori politici, l’espansionismo (Anschluss), la “notte dei cristalli”, e infine l’esplosione della guerra mondiale e le tappe che hanno condotto alla realizzazione dello sterminio, dai Gaswagen alle Einsatzgruppen fino alle camere a gas e ai forni crematori. E tanto per non eludere le responsabilità (che ci sono assai più prossime di quanto in genere non si creda) sarà anche necessario analizzare le forme della collaborazione italiana allo sterminio: la promulgazione di una autonoma legislazione razzista antiebraica realizzata dagli apparati amministrativi italiani, la progressiva rapida emarginazione della minoranza ebraica, la caccia all’ebreo scatenata dopo l’8 settembre 1943 con la collaborazione attiva di civili, personale di polizia e Guardia Nazionale repubblicana. La deportazione, infine, di ottomila ebrei italiani per una destinazione (Auschwitz) che non era probabilmente del tutto “ignota” come per molto tempo si è voluto credere.

La necessaria fedeltà al monito di Primo Levi. «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare» (Primo Levi). Non c’è contraddizione fra l’affermazione di unicità della Shoah e il confronto con gli episodi che vedono l’oppressione, l’esercizio gratuito della violenza di massa, le minacce di sterminio che in vari contesti si manifestano nella nostra contemporaneità. La Shoah è stata un evento unico e una delle enormità di quell’evento è stata quella di aver stabilito un canone linguistico e concettuale dell’orrore. Le sue caratteristiche sono state tali per cui nell’immaginario dell’umanità quando si vuole condannare un massacro non c’è scelta se non quella di utilizzare quel vocabolario per dare la misura dell’allarme. Parole come Lager, deportazione, sterminio, annientamento, e l’accusa di “nazista” a chi perpetra omicidi di massa, fanno parte del comune armamentario retorico di giornalisti e politici a tutte le latitudini. Si tratta naturalmente di paragoni impropri, che spesso vengono proposti senza particolari cautele, ma anche senza malizia, tentando di esprimere un sincero allarme per troppe morti di innocenti, o per derive autoritarie, o per altri tipi di manifestazioni che spingono i commentatori a tener fede al monito dei principali sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti – fra tutti Primo Levi – che a più riprese ci hanno chiesto di non abbassare la guardia perché quel che è accaduto può, in determinate condizioni, ripetersi. Da qui l’invito costante a non permettere che l’indifferenza si appropri delle nostre coscienze, consentendo che vengano messe in atto azioni di sterminio. “Nel 2000 – disse Elie Wiesel – chiesi all’Assemblea dell’ONU se il mondo avesse imparato la lezione di Auschwitz. La risposta, ieri e oggi, è no. Come spiegare altrimenti Cambogia, Bosnia, Ruanda, Kosovo, Sudan e Siria?” Naturalmente ci sono anche contesti nei quali il paragone con il nazismo viene fatto in forma malevola e per nulla ingenua. In particolare quando si accusano le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi additandole come nuovo nazismo (l’archivio della Fondazione CDEC raccoglie da decenni vignette apertamente antiebraiche che azzardano questo paragone), oppure quando si suggeriscono analogie fra situazioni differenti  come la vita a Gaza o nei territori della Cisgiordania e le condizioni degli ebrei nel ghetto di Varsavia. Le dinamiche storiche sono differenti, le forze in campo anche, e il paragone viene fatto con intenti esplicitamente antisemiti e negazionisti. Perché un fatto è certo: la Shoah fu un evento unico e fu perpetrato dai nazisti e dai loro alleati contro gli ebrei in quanto tali. Compiuto il necessario sforzo di chiarezza sulle dinamiche storiche – del passato come del presente – fare paragoni però si può, eccome. I paragoni con il nazismo e con la Shoah sono stati fatti sempre nei decenni passati, alcune volte con giustificato allarme, altre volte a fini politici non sempre limpidi. Di certo le tragiche dinamiche che travolgono milioni di persone, i profughi in fuga da guerre e fame, il traffico di esseri umani gestito dalle mafie e dalle centrali del terrorismo internazionale, hanno storicamente poco a che fare con la Shoah. Hanno invece a che fare con il sacrosanto principio etico dell’intangibilità e sacralità della vita umana, e con l’impossibilità dell’indifferenza di fronte a tragedie che comunque accadono. E’ e rimane prioritario il dovere di soccorrere e di mostrare la necessaria pìetas verso quei civili che soffrono e sono nudi e impotenti di fronte ai movimenti della storia. Un bambino che ha fame va rifocillato e protetto, una madre va rivestita e difesa, un padre in fuga e disoccupato va soccorso e messo in condizioni di lavorare e di risollevarsi. Dare loro soccorso temporaneo in un luogo come il Memoriale della Shoah non significa stabilire connessioni fra dinamiche storiche differenti e incomparabili; è solo un modo civile di dare significato contemporaneo a valori etici quali la solidarietà e l’umanità da preservare. Ma ci sono situazioni contemporanee – in alcuni casi le stesse da cui tentano di sottrarsi i profughi in fuga dall’Africa – che concettualmente conducono a utilizzare il paragone senza rischiare di svilire o di colpire in qualche modo la memoria dello sterminio degli ebrei. Un campo di concentramento – ad esempio – è un luogo in cui viene conculcata la libertà umana in maniera volontaria da un potere quale che sia. Un luogo (nella Polonia degli anni ’40 come nella Siberia di anni anche precedenti, o come in Libia oggi o nella Serbia degli anni ’90) in cui per motivazioni diverse (politiche, economiche, religiose) gli esseri umani sono ridotti a numeri, disumanizzati, costretti all’indigenza e al lavoro forzato, uccisi per un nonnulla, malmenati e torturati. Se il canone linguistico e comportamentale di questo campi lo ha stabilito il nazismo, chiamarli Lager sarà in ogni caso legittimo e ci aiuterà a suscitare il giusto allarme fra i responsabili della cosa pubblica, delle politiche estere, per far sì che intervengano prima che le situazioni degenerino in dinamiche che la storia ci ha già proposto. Dovrebbe peraltro essere ben nota a chi usa quella terminologia la fondamentale differenza fra campo di concentramento e campo di sterminio. La parola tedesca Lager è solo una semplificazione contemporanea e dovrebbe essere ben chiarita – studiando adeguatamente senza proporre assurde analogie – l’impossibilità di paragonare un campo di detenzione di profughi in Libia con un Vernichtungslager nazista. E purtuttavia il canone dell’oppressione è stabilito, e l’oppressione dei prigionieri di oggi è reale e gravissima, suscita le coscienze e chiede che vengano assunte azioni politiche decise. Qui sta il nocciolo del lavoro sulla Memoria della Shoah, e sulla necessità di difenderne i confini dalle continue strumentalizzazioni politiche e giornalistiche per mantenere intatto il suo valore etico universale. Solo dopo aver acquisito una opportuna conoscenza dei fatti, si potrà tentare di rispondere ai perché dello sterminio, proiettandoli a una dimensione contemporanea che ci costringa a non trasformare la Shoah stessa in un inutile monumento storiografico alla Memoria, ma che ci conduca a interrogarci su quegli avvenimenti per ragionare sullo stato di salute delle nostre società contemporanee in materia di democrazia e rispetto dei diritti umani, di salvaguardia delle libertà fondamentali e di lotta all’odio razzista.

PIERLUIGI BATTISTA per corriere.it il 13 settembre 2019. Peccato che in Italia (ma anche altrove) il dibattito intellettuale si sia così rinsecchito e incattivito da preferire la scomunica alla libera discussione, altrimenti i saggi e gli articoli raccolti da Sergio Luzzatto in Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia, in libreria dal 12 settembre per la casa editrice Donzelli, potrebbero suscitare vivaci repliche, contestazioni, tentativi di confutazione, ma sempre basati su argomenti, tesi contrapposte, osservazioni specifiche. Invece, come è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro che riesumano alcune polemiche smodate del recente passato di cui Luzzatto è stato protagonista e vittima, si sfodera con grande facilità l’arma impropria dell’anatema, dell’isolamento del reprobo, della caccia all’eretico. Luzzatto racconta delle reazioni violente a un suo libro, Partigia (Mondadori), su Primo Levi: insulti, processi alle intenzioni, linciaggi, come se sfiorare temi controversi fosse la profanazione di un tabù. Mai un’aperta battaglia di documenti contro documenti, interpretazioni contro interpretazioni, in una disputa anche feroce ma leale. I lettori del «Corriere della Sera» conoscono inoltre con quanta virulenza e con quanta violenza venne fatto il vuoto attorno ad Ariel Toaff per un libro che poi l’autore è stato costretto a ripudiare per non perdere ogni aggancio con la cattedra universitaria. Lo sguardo di Luzzatto, ovviamente, si sofferma sulle vicende della grande storia ebraica, sul surplus di sensibilità che ogni esplorazione di questa storia comporta, perché sembra impossibile affrontarle come se si avesse come oggetto di studio «un popolo come gli altri», come appunto recita il titolo. C’è una frase di Luzzatto, per esempio, destinata ad esacerbare la discussione: «L’intera dinamica della Shoah viene consegnata a una dimensione astorica, o addirittura trascendente». Ma se non bastasse questa frase che è già aspra, urticante, dolorosa, eccone la conclusione: «con un vantaggio netto per gli eredi dei carnefici, e anche — in un qualche dolorosissimo modo — per gli eredi delle vittime». Luzzatto è intellettualmente incline alle affermazioni nette, poco aperte alle mediazioni e alle sfumature. È fortemente attaccato a una tesi. E la tesi che porta con accanimento avanti da anni è che lo Stato di Israele sia macchiato sin dalle origini da una tentazione etnicista, in cui l’integralismo religioso («lo Stato degli ebrei») si alimenta con la sacralizzazione della Shoah, la grande tragedia storica che l’Israele di David Ben Gurion, prima ancora delle componenti di destra, avrebbe voluto porre come base di perenne legittimazione di una creatura esclusivamente politica come lo Stato. Per quanto appoggiata ad alcuni scritti di Amos Oz, si tratta di una tesi estrema e ingenerosa, perché se c’è qualcosa di unico e di imparagonabile nella storia dello Stato di Israele è la pervicace, violenta, indiscussa negazione del suo diritto alla stessa esistenza decretata dai nemici. Ma è, appunto, una tesi che merita di essere contestata e, se si è in grado di farlo con argomenti forti, molto indebolita con le armi della discussione e non quelle del linciaggio: un linciaggio, su cui peraltro Luzzatto sorvola, che colpì brutalmente Hannah Arendt con il suo Eichmann a Gerusalemme. Ma Luzzatto, nelle sue considerazioni sulla storia dei «ghetti» italiani, o sulle manifestazioni dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo, sulle implicazioni culturali che hanno fomentato nei secoli la grande persecuzione antiebraica fino alla catastrofe apocalittica della Shoah, in realtà mostra una tenacia e un’attenzione che non è solo quella dello storico chino sui documenti. È soprattutto la ricerca di un filo che possa spiegare il destino di un popolo che non riesce ad essere «un popolo come gli altri» per scoprirne motivazioni profonde, anche inconsapevoli. Rifiutando gli assunti anch’essi spesso inconsapevoli che incardinano la maggioranza degli studi collocati nella «Jewish History»: «Il postulato — riconosciuto o sottaciuto — per il quale esiste, all’interno della storia universale, una storia ebraica a sé stante, quintessenziale, quasi metafisica, che va distinta dalla storia di tutte le altre culture del mondo, di tutti gli altri popoli della terra». E poi, continua e conclude Luzzatto, «il potere della storia non potrà mai essere tanto forte come il potere della letteratura. Ma anche lo scrivere di storia non è forse un modo per tenere insieme i vivi e i morti, la presenza e l’assenza». Come se Luzzatto cadesse in una considerazione sentimentale, «tenere insieme i vivi e i morti», che un po’ smentisce la freddezza analitica dello storico che parla attraverso lo spassionato esame dei documenti reperiti e disponibili, il demolitore dei miti sacri della storia ebraica tramandata trova però la radice di una pietas alimentata dalle innominabili persecuzioni subite da un popolo che gli «altri» non vogliono trattate come qualunque altro popolo. Una forma di immedesimazione simpatetica che addolcisce la rigidità dello storico. Non fosse che per questo, occorrerebbe dismettere l’atteggiamento arcigno dello scomunicatore che sostituisce l’argomentazione con l’anatema, che uccide ogni discussione e vuole conservare della storia soltanto il mito incontaminato.

Sergio Luzzatto. Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l'eccezione, la storia. Saggine, n. 320 2019, pp. VIII-312.

SCHEDA LIBRO. «La Shoah non è stata il “male assoluto” di cui tanto parlano i retori del 27 gennaio. Sia il sostantivo che l’aggettivo sono scelti senza cura. il sostantivo, in quanto evoca una dimensione etica piuttosto che storica; l’aggettivo, in quanto suggerisce che la persecuzione razziale sia stata a legibus soluta, sciolta da ogni legge, quando corrispose invece a una legislazione politicamente voluta e operosamente perseguita. risultato? L’intera dinamica della Shoah viene consegnata a una dimensione astorica, o addirittura trascendente: con un vantaggio netto per gli eredi dei carnefici, e anche − in un qualche dolorosissimo modo − per gli eredi delle vittime». La storia degli ebrei (diceva un illustre studioso di origini ebraiche) è come la gabbia del canarino in un appartamento signorile: se c’è, aggiunge qualcosa; se non c’è, non se ne avverte la mancanza. in effetti, più che fare storia degli ebrei, si ha l’abitudine di fare storia dell’antisemitismo: cioè la storia delle discriminazioni, delle persecuzioni, delle distruzioni che il popolo eletto ha subito nei duemila anni della sua diaspora. Più che fare storia di un popolo in carne e ossa, singolare e plurale, coeso e diviso, riconoscibile e inafferrabile come tutti i popoli della terra, si tende a fare storia di un popolo monolitico, granitico nello spazio quanto identico nel tempo: perennemente uguale a se stesso, e immancabilmente bersagliato. Ma rappresentato così, il popolo ebraico corrisponde fin troppo – in una forma rovesciata – allo stereotipo antisemita: il popolo eletto come sublimazione edificante del popolo maledetto. Dalla Roma di Tito all’Europa dei pogrom, dal ghetto di Venezia alle leggi razziali, dalla Soluzione finale al complotto contro Israele, il popolo ebraico diventa un metafisico tutt’uno di ashkenaziti e sefarditi, uomini e donne, poveri e ricchi, rabbini e laici, marrani e coloni, contadini e commercianti, banchieri e intellettuali, miracolosamente tenuto insieme dagli altrui vizi, e dalle proprie virtù. Sergio Luzzatto coltiva un’idea diversa degli ebrei nella storia. più che riconoscerli sempre e comunque buoni, sempre e comunque innocenti, sempre e comunque vittime, si appassiona della varietà di vicende storiche e della molteplicità di profili umani che hanno reso (e che rendono) il popolo eletto, nel bene o nel male, un popolo come gli altri. in questo libro il lettore incontra non già figurine in panpepato, caricature di storia, ma personaggi naturalmente vivi e vitali, complessi e controversi: siano rabbini taumaturghi del medioevo o soldati israeliani nei territori occupati, siano cappellai del ghetto o straccivendoli della rivoluzione.

AUTORE. Sergio Luzzatto. Sergio Luzzatto insegna Storia moderna all’Università di Torino. Fra i suoi libri, tradotti in varie lingue: da Einaudi, Il corpo del duce (1998), Padre Pio (2007), Bonbon Robespierre (2009), I bambini di Moshe (2018), Max Fox (2019); da Mondadori, Partigia (2013).

·        L’Italia ed il Vaticano.

Quei benedetti Patti (Lateranensi). A 90 anni dalla firma dell'accordo tra l'Italia ed il Vaticano un libro di Giancarlo Mazzuca ripercorre quei giorni, scrive Maurizio Tortorella l'11 febbraio 2019 su Panorama. L’immagine esce intatta dalla nostra memoria fotografica di studenti di Storia: a sinistra il cardinale Pietro Gasparri ha la penna ancora alta nella mano, e alla sua sinistra Benito Mussolini l’osserva attentamente, mentre l’alto prelato sta per firmare i Patti Lateranensi. Era l’11 febbraio 1929, esattamente 90 anni fa: il Duce del fascismo, presidente del Consiglio dal 1922, diventerà “l’uomo della provvidenza” perché chiude quasi un secolo di conflitti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Oggi Giancarlo Mazzuca, giornalista e saggista, oltre che ex direttore del Giorno, indaga su quell’atto storico con Quei Patti benedetti: che cosa resta dei Patti Lateranensi tra Mussolini e Pio XI (Arnoldo Mondadori editore, 191 pagine, 19 euro). Firmati a San Giovanni in Laterano, la basilica romana che dette il nome all’intesa, i Patti furono il frutto di un faticoso, intenso lavorio delle diplomazie vaticane e statuali, e vennero suddivisi in tre parti: il Trattato, che istituiva lo Stato della Città del Vaticano, l’enclave dotata di extraterritorialità nel centro di Roma; il Concordato vero e proprio, che regolava i rapporti tra la Santa sede e l’Italia; e un accordo finanziario tra i due Stati, e accordava un indennizzo alla Chiesa, in cambio della sua rinuncia a ogni rivendicazione sul vecchio Stato Pontificio. A Mussolini, la firma dei Patti Lateranensi bastò in un colpo per cancellare la fama di socialista mangiapreti e per ottenere la legittimazione della Chiesa; non per nulla, i giornali fascisti celebrarono quel passaggio storico facendo l’apoteosi del Duce. Al motto “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini era anche riuscito a creare un varco attraverso il quale tutti i cittadini – anche quelli cattolicissimi e fino a quel momento tenuti in qualche modo lontani dall’italianità - potevano finalmente entrare a pieno titolo nell’Italia fascista. Ma i Patti furono molto utili anche a Pio XI, al secolo Achille Ratti da Desio ed ex nunzio apostolico in Polonia, divenuto Papa nel 1922, che esce dalla penna di Mazzuca come l’appassionato di montagna che si rivela pontefice decisionista e autoritario, e comincia ad apprezzare il fascismo già nei primi anni del regime, quando Mussolini reintroduce l’ora di religione nelle scuole elementari e offre al clero prebende economiche più generose. Il dibattito per la ratifica dei Patti Lateranensi non ebbe certi vita difficile: iniziò in Senato il 23 aprile 1929 e si concluse con un ovvio voto a favore in un solo mese, il 25 maggio, sia pure al termine di vivaci discussioni e di polemiche. Soltanto sei senatori votarono contro l'approvazione, e tra di loro Benedetto Croce. Poi anche la Camera dei deputati votò per l'approvazione dei Patti. Lo scambio delle ratifiche avvenne con una solenne cerimonia in una saletta dei Palazzi apostolici, alla presenza di Mussolini. Era il 7 giugno 1929. Da allora, fino al 1948, i Patti Lateranensi hanno guidato i rapporti tra Stato e Chiesa. Poi sono stati confermati nella Costituzione repubblicana, con l’articolo7 (“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”), che fu votato da comunisti e democristiani, e avversato da liberali, socialisti, repubblicani. Ancora una volta, Benedetto Croce fu tra i No. Ma Palmiro Togliatti, che già cercava il favore delle masse cattoliche per il Pci, impose l’accordo che fu tanto criticato dal laico Piero Calamandrei: “Si introducono di soppiatto norme che sono in urto con altri articolo della Costituzione”. Al 1984 risale l’ultima revisione, dovuta al governo di Bettino Craxi. È stato abolito soltanto allora l’obbligo dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, ed è stato tolto il sostentamento economico dei sacerdoti da parte dello Stato. In cambio, nel 1985 è stato creato quell’obbrobrio del finanziamento surrettizio dell’8 per mille, che ogni anno garantisce da 800 milioni al miliardo di euro alla Chiesa cattolica. Alla fine del suo bel libro, Mazzuca si chiede che cosa accadrà in futuro: “Chi meglio di Papa Francesco” scrive “può rispondere a tale domanda?”. Vedremo.

·        Cara Chiesa, quanto ci costi!

Cara Chiesa, quanto ci costi! Carlo Troilo, Giornalista, il 15 febbraio 2019 su Il Fatto Quotidiano. Pochi italiani sanno esattamente quanti soldi vengono regalati dallo Stato alla Chiesa Cattolica grazie al meccanismo dell’otto per mille (abbreviato in 8xmille). Si tratta della quota di Irpef che lo Stato italiano distribuisce, in base alle scelte effettuate nelle dichiarazioni dei redditi, fra se stesso e le confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa. L’8xmille è stato introdotto dall’articolo 47 della legge n. 222 il 20 maggio 1985, durante il primo governo Craxi; lo stesso che – il 18 febbraio del 1984 – aveva firmato l’accordo noto come “Craxi-Casaroli” (quest’ultimo, all’epoca, segretario di Stato Vaticano). Un accordo che aveva abolito la congrua (lo stipendio pagato dallo Stato ai preti), sostituendola con l’autofinanziamento da parte dei fedeli grazie al meccanismo dell’8xmille. Per la legge del 1985 i contribuenti non sono tenuti ad esercitare obbligatoriamente l’opzione per la destinazione dell’8xmille; ma anche l’8xmille del gettito fiscale di chi non effettua tale scelta viene ripartito tra i soggetti beneficiari, in proporzione alle scelte espresse. Il  beneficio quantitativamente spropositato che viene alla Chiesa da questa legge ha due ragioni principali. La prima è che il potere politico (con tutte le maggioranze e tutti i governi che si sono succeduti dal 1985 ad oggi) non ha mai fatto nulla per far sapere ai cittadini che possono destinare anche allo Stato il loro 8xmille e soprattutto per quali finalità benefiche o sociali verrebbero utilizzati i loro contributi. Il risultato di questo silenzio è che mentre nel 1992 allo Stato fu destinato il 22% degli 8xmille, questa percentuale è scesa al 6% nel 2018: un dato molto eloquente! La mia opinione è che gran parte dei contribuenti (oltre il 50%) non opera una scelta perché non vuole finanziare alcuna confessione religiosa (la “secolarizzazione” della società italiana è fenomeno ormai ben noto) ma al tempo stesso non ha alcuna propensione a finanziare uno Stato in cui non ha fiducia. E soprattutto non sa che comunque il suo 8xmille, benché da lui “non destinato”,  finirà nelle casse di qualche Chiesa, e soprattutto della Chiesa Cattolica, cui la stragrande maggioranza dei contribuenti destina la propria quota. Dunque, una vera e propria “trappola” tesa dalla legge del 1985 alla massa dei contribuenti, per lo più disinformatissimi in materia tributaria.

Due dati a sostegno di queste affermazioni:

– mediamente, il 58% dei contribuenti non destina il proprio 8xmille;

– del totale degli 8xmille il 34% è destinato alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ma diviene l’81% grazie al meccanismo di assegnazione del non destinato (tradotto in termini di euro, 400 milioni diventano un miliardo).

Per capire l’enormità di questa cifra, basti pensare che il tanto deplorato finanziamento pubblico ai partiti raggiunse il suo picco nell’anno in cui giunse a 250 milioni di euro. Infine, sottolineo il fatto che mentre la Chiesa Valdese (per fare un solo esempio particolarmente virtuoso) destina tutto quanto le proviene dall’8xmille a opere di bene, secondo l’Unione degli Atei e degli Agnostici razionalisti, la Cei impegna il 36% per il sostentamento del clero, il 44% alle cosiddette “esigenze di culto” (in gran parte, costruzione di nuove chiese e gestione del proprio patrimonio), mentre solo l’8,6% del totale va ad opere di carità e ad aiuti al Terzo Mondo. Se i proventi dell’8xmille rappresentano la quota principale di ciò che lo Stato “regala” alla Chiesa Cattolica, non vanno dimenticate le altre numerose forme di finanziamento diretto Stato-Chiesa. Fra i più noti, i finanziamenti alle scuole private confessionali (in violazione dell’articolo 38 della Costituzione: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”) e quelli per i Giubilei (circa 2 miliardi di euro per quello del 2000). Ma ci sono altri costi, difficili da quantificare e per lo più ignoti all’opinione pubblica, come quelli legati al Fondo Edifici di Culto (FEC), nato a seguito delle leggi che nella seconda metà dell’Ottocento soppressero le proprietà ecclesiastiche, trasferendole allo Stato italiano, che si trova così ad amministrare 360 chiese, fra cui alcune fra le più celebri e fastose, da San Giovanni e Santa Maria del Popolo a Roma, Santa Chiara e San Domenico Maggiore a Napoli e molte altre in tutta Italia. Comprese tutte le opere d’arte presenti nelle chiese. La missione affidata al Fondo è quella di assicurare la tutela, la valorizzazione, la conservazione e il restauro dei beni, poi utilizzati dalla Chiesa Cattolica per le proprie esigenze di culto. Con un costo per lo Stato di cui non è facile conoscere l’entità. Ma che segnala comunque un’altra anomalia per un Stato che dovrebbe essere laico.

Vaticano, come sono investiti i 700 milioni di euro di offerte e donazioni. Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Fabrizio Massaro. Lo scandalo dei 200 milioni nel palazzo di Londra. Dove sono gli altri capitali? Tra Svizzera, Malta, molti affidati a Azimut. I soldi provengono dalla cassa della Segreteria di Stato che gestisce anche l’Obolo di San Pietro, cioè le offerte che ogni 29 giugno dal profondo della comunità cattolica salgono fino al Papa. Anche se sempre meno. Dai 70-80 milioni del 2013 si è scesi a circa 50 milioni. Non esiste una rendicontazione, ma la stima del patrimonio complessivo della Segreteria è intorno ai 700 milioni di euro. È una parte rilevante del tesoro (mobiliare e immobiliare) attribuibile alla Santa Sede e alla Città del Vaticano: 11 miliardi, secondo le stime più recenti, di cui circa 5 in titoli e 6 in immobili «non funzionali» all’attività istituzionale. Il patrimonio della Chiesa nel mondo è invece valutato oltre 2 mila miliardi, scuole, ospedali e università compresi. A gestire cassa e Obolo, dentro la Segreteria di Stato guidata dal 2013 da Pietro Parolin, è la sezione Affari Generali, affidata dal 2011 al 2018 a Monsignor Giovanni Angelo Becciu (oggi cardinale). Da ottobre dello scorso anno poteri e portafoglio sono passati nelle mani del nuovo responsabile, il venezuelano Edgar Peña Parra. La Segreteria è il dicastero più importante della Santa Sede e più vicino al Papa. Ed è centrale nelle decisioni di investimento, come quella di puntare al palazzo di Londra. Tutto comincia nel 2012 dall’Angola, cioè il paese africano in cui Becciu per molti anni è stato nunzio apostolico. Un imprenditore locale suo amico, Antonio Mosquito, gli propone di investire 200 milioni di dollari nella sua compagnia petrolifera Falcon Oil. Una scelta estremamente rischiosa, in uno dei Paesi più corrotti al mondo, e sconcertante per le modalità del progetto, rimaste finora riservate: si trattava di diventare di fatto soci di minoranza (5%) nello sviluppo di una piattaforma petrolifera offshore in consorzio con l’Eni e la compagnia nazionale Sonangol. Il Vaticano avrebbe dovuto coprire il debito di Mosquito verso il consorzio. Dalle carte consultate dal Corriere della Sera, di quei 200 milioni 35 sarebbero andati direttamente a Mosquito per rimborsare un suo precedente prestito a Falcon Oil. Inoltre l’investimento era a lungo termine: per guadagnarci qualcosa sarebbero serviti almeno 8 anni. Sempre che il prezzo del petrolio non fosse nel frattempo precipitato, come poi avvenuto. «In un primo momento sembrava attraente, ma dopo uno studio approfondito la proposta non fu accolta». Parole di Becciu. A spiegare alla Segreteria che l’operazione non gira è il finanziere italiano, con base a Londra, Raffaele Mincione, allora semisconosciuto, che entra nella partita grazie al Credit Suisse, nei cui conti svizzeri confluisce l’Obolo. Il custode della cassa vaticana è un dirigente dell’istituto, Enrico Crasso, banchiere di riferimento della Santa Sede. «Gli ho detto – racconta Mincione – volete raddoppiare i soldi? Vi propongo un mio palazzo al centro di Londra». L’immobile è ubicato al numero 60 di Sloane Avenue, già sede di Harrods. E gli uomini di chiesa affidano i 200 milioni al Fondo Athena, gestito da Mincione. Il fondo ha un solo cliente-sottoscrittore: il Vaticano.A giugno 2014 il Fondo Athena usa la maggior parte di quei soldi del Vaticano per comprare il 45% della società che possiede il palazzo, che è anche gravato da un mutuo di circa 120 milioni con Deutsche Bank. Mincione investe il resto dei soldi in speculazioni di Borsa su Carige, Retelit e Tas. Il piano del finanziere – che è rimasto proprietario del 55% – è di trasformare il palazzo da uffici a residenze, aumentarne la cubatura, creare 44 appartamenti e rivendere tutto per incassare 600-700 milioni di sterline. Gli affitti nel frattempo sono stati tutti scontati in cambio di uno sfratto rapido in vista dell’avvio dei lavori. Solo che i permessi arrivano solo a dicembre 2016, sei mesi dopo la Brexit. E la sterlina è crollata. Insomma, il Vaticano comincia a perdere tanti soldi. Settembre 2018: il Fondo Athena in 5 anni ha perso oltre 20%. Nel frattempo a Roma monsignor Becciu è stato promosso cardinale. Al suo posto alla Sezione Affari Generali arriva Peña Parra e la strategia cambia. L’ordine è: «Smontare l’investimento dal fondo per prendere tutto il palazzo». Dopo lunghe trattative, e 44 milioni di conguaglio a Mincione, l’accordo si trova. Ma a chi si affidano in Vaticano per una manovra finanziaria di questo calibro? Non a una banca d’affari o a intermediari di primo piano. La scelta cade su Gianluigi Torzi, sconosciuto broker molisano trapiantato a Londra, che ha condiviso già altri affari con Mincione, svelto e capace nel suo lavoro di trader ma con qualche piccola pendenza penale e la scia di un paio di fallimenti societari in Italia.Il 23 novembre 2018 si firma l’accordo quadro. Il palazzo passa da Mincione alla Gutt, una società lussemburghese costituita e amministrata da Torzi. Un minuto dopo la firma del contratto in Segreteria però si rendono conto di aver affidato tutti i poteri gestionali al broker che detiene solo lo 0,1% di Gutt. Inizia dunque la trattativa per smontare l’accordo e convincere Torzi a farsi da parte. A maggio 2019 il 100% del palazzo di Londra finisce in una nuova società, la London 60, questa volta controllata al 100% dalla Segreteria di Stato vaticana. Alla fine di tutta la vicenda il Vaticano ha dovuto sborsare a Torzi 10 milioni, 16 milioni a Mincione per la gestione degli investimenti e altri 44 per liquidare il fondo e infine almeno 2 per consulenze. Nelle casse del Papa invece, dopo sette anni, non è entrato un euro di guadagno. Il Pontefice ha parlato di «Corruzione, e si vede!» nella gestione del patrimonio della Segreteria. E su questo sta indagando la magistratura vaticana. Cinque persone sono finite sotto inchiesta: un ex potente della Segreteria come monsignor Mauro Carlino, il direttore dell’Aif (l’antiriciclaggio) Tommaso di Ruzza e tre dipendenti della Segreteria: Vincenzo Mauriello, Fabrizio Tirabassi e Caterina Sansone. Intanto a Londra è in corso un progetto di ristrutturazione del palazzo, affidato all’ingegnere Luciano Capaldo, per creare nuovi uffici. Insomma si vogliono far fruttare tutti quei milioni fermi da troppi anni. Come? L’ha spiegato lo stesso Papa Francesco, giorni fa: «Affittare e poi vendere». Perché i soldi dell’Obolo, ha sottolineato, vanno investiti ma poi anche spesi. Senza imbrogliare. Il palazzo di Sloane Avenue è il singolo maggiore investimento effettuato con le disponibilità della Segreteria: tecnicamente si è trattato di un prestito di 200 milioni del Credit Suisse con a garanzia asset della stessa Segreteria. Un contratto più tipico da private banking che da fondo sovrano. Ma dove sono gli altri fondi (centinaia di milioni)? Depositati sempre presso il Credit Suisse. A occuparsene è il consulente di riferimento Enrico Crasso che nel 2014, lasciata la banca svizzera, si mette in proprio e si fa carico di investire i 500 milioni della Segreteria, naturalmente con adeguate provvigioni. Lo fa per un paio d’anni attraverso la sua Sogenel Holding di Lugano ma nel 2016 vende il «cliente» Vaticano – circostanza mai emersa prima – ad Az Swiss del gruppo Azimut, colosso della gestione di fondi quotato in Borsa. Crasso però diventa contestualmente dirigente di Az Swiss ed entra in consiglio di amministrazione continuando a gestire, sotto l’ombrello Azimut, il mezzo miliardo del Papa. Quest’anno ha lasciato entrambe le cariche e sulle provvigioni sarebbe in corso una revisione da parte della stessa Segreteria. Tuttavia nel 2016, dopo aver venduto ad Azimut, Crasso ha creato un fondo tutto suo a Malta per gestire in proprio circa 50 milioni della Segreteria. È il fondo Centurion e ha investito quei soldi del Vaticano in varie direzioni: 6 milioni nella società di occhiali di Lapo Elkann, Italia Independent; circa 10 milioni nella galassia Giochi Preziosi dell’imprenditore patron del Genoa Calcio, Enrico Preziosi; altri 4,7 milioni per entrare nelle acque minerali (Acqua Pejo e Goccia di Carnia); 1,2 milioni per una quota di minoranza del sito Abbassalebollette; oltre 16 milioni per rilevare un immobile in una sede italiana della multinazionale ABB; 4,3 milioni in bond per finanziare i film «Rocketman», biografia di Elton John, e l’ultimo «Men In Blac» infine 4,5 milioni prestati a una piccola società di costruttori romani, la Bdm Costruzioni e Appalti. Affari oculati? Non proprio. Nel 2018 il fondo Centurion ha perso il 4,61%. Ai manager però sono andati quasi 2 milioni di commissioni.

Francesco Semprini per “la Stampa” il 4 dicembre 2019. E' di quattro miliardi di dollari l' ammontare dei risarcimenti su cause relative ad atti di pedofilia compiuti da prelati che potrebbe travolgere la Chiesa cattolica americana con conseguenze al limite del catastrofico. E' quanto suggerisce un' inchiesta condotta dall'Associated Press e rilanciata ieri sui media americani. Il tutto reso possibile dalle nuove norme adottate l'anno scorso da 15 stati, tra cui New York, New Jersey, California e il Distretto di Colombia (la capitale), che estendono o sospendono i termini di prescrizione e autorizzano azioni legali per abusi vecchi di decenni. Da una costa all' altra degli Stati Uniti gli avvocati delle diocesi si troveranno presto costretti a fronteggiare migliaia di nuove cause, almeno cinquemila, secondo le fonti consultate dalla Ap, con importo stimato appunto a quattro miliardi di dollari. Non era mai successo prima d' ora che tanti stati si muovessero contemporaneamente per revocare restrizioni che in passato avevano impedito alle vittime di rivalersi in tribunale se non avevano fatto denuncia entro uno certo periodo di tempo, solitamente i venti anni. Ed il tutto avviene a 17 anni dallo scoop del Boston Globe sugli abusi sessuali dei preti cattolici, che ha dato inizio a inchieste e dato coraggio a molte vittime di parlare avviando processi e ottenendo opportuni risarcimenti. "Pubblico disgustato per gli abusi" «Il pubblico è più disgustato che mai per gli abusi e le loro coperture e questo finirà per essere riflesso nei verdetti», ha detto Mitchell Garabedian, l' avvocato che aiutò il Globe a portare in luce lo scandalo. Ancora oggi è in prima fila nella sua battaglia, svolgendo la funzione di legale di un uomo che sostiene di esser stato molestato dal porporato quando aveva solo undici anni. A contribuire alla corsa al risarcimento è stata anche l' indignazione per le molestie sessuali riaccesa dal movimento #MeToo e l' esplosivo rapporto di un gran giurì della Pennsylvania che lo scorso anno ha riportato alla luce oltre un migliaio di abusi da parte di 300 preti nell' arco di sette decenni. Dopo quel dossier i procuratori di una ventina di Stati hanno promosso inchieste indipendenti. Dallo New York arrivano intanto indiscrezioni secondo cui il vescovo di Buffalo Richard Malone, messo sotto inchiesta dalla Santa Sede per presunta copertura delle molestie, sta per dimettersi prima della fine del mandato. Il Vaticano aveva inviato ad indagare su Malone il vescovo di Brooklyn Nicholas DiMarzio, a sua volta finito lui stesso sotto accusa per atti di pedofilia da egli sempre smentiti.

Da “Libero quotidiano” il 3 dicembre 2019. «La rovina della Chiesa non sono i pochi preti, ma sono i preti che ci sono: cominciando dai cardinali». Così don Antonio Mazzi, parlando a "Uno, nessuno, 100Milan" su Radio24 in occasione dei suoi 90 anni. E se diventasse Papa? «Chiuderei il Vaticano e San Pietro diventerebbe una chiesa normale. I Musei Vaticani li darei in affitto ai giapponesi e ai cinesi. I cardinali li manderei in Africa, che c' è bisogno di preti».

Nuzzi: «Il Papa vive in un bilocale, i cardinali in 600 metri quadrati». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it  da Candida Morvillo. Il suo nuovo libro è dedicato alle finanze vaticane. Il cuore dell’ultimo libro di Gianluigi Nuzzi, il quinto sul Vaticano, sta in una parola, «default», mai pronunciata nei secoli fra le sacre mura e ora messa nero su bianco dal Consiglio dell’Economia di Papa Francesco. In assenza d’interventi urgenti, si rischierebbe il fallimento entro il 2023. Su questo e altri tremila documenti inediti è costruito Giudizio Universale, edito da ChiareLettere. Scrive Nuzzi: «L’esercizio 2018, per la prima volta, è in rosso: risultato operativo -27%, finanziario -67%, di gestione –56%». Le sue 368 pagine sono il resoconto di come Bergoglio si affanni per risanare i conti, ma ottenga l’opposto, con spese lievitate del 244 per cento. Nel 2015, per aver rivelato in «Via Crucis» altri disastri vaticani, Nuzzi finì processato, e prosciolto, dal Tribunale della Santa Sede.

Nuzzi, ora che si aspetta?

«Un cambio di rotta: indagini su ciò che racconto. Ho depositato al tribunale vaticano una copia del libro: l’avevo fatto con “Peccato Originale” nel 2017 e ha portato a un’inchiesta per gli abusi sessuali sui chierichetti del Pio X». Però, i primi a negare il rischio-default sono stati due prelati vicinissimi al Papa: monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa che amministra il patrimonio della Chiesa, e il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, grande elettore di Bergoglio.

Come se lo spiega?

«Hanno aperto un dibattito ed è un passo avanti: ieri, mi hanno processato per un libro; oggi polemizzano. È ovvio che non piace far sapere che, ogni dieci euro di obolo, solo due vanno ai poveri e il resto a coprire buchi di bilancio, mentre esistono conti milionari intestati a cardinali o fondazioni fantasma».

Galantino lamenta «una lettura da Codice da Vinci».

«Il pessimismo sui bilanci non è mio, ma del loro Consiglio dell’Economia».

Maradiaga dice che lei così colpisce il papato.

«Mi attribuisce superpoteri che non ho. Bisognerebbe prendersela non con chi racconta i fatti, ma con chi li crea».

Lei scrive che i porporati paventano dimissioni di Papa Francesco.

«C’è il timore perché il Papa si arrabbia su queste cose tutti i giorni. È l’unico che sta in un bilocale mentre i cardinali vivono ancora in residenze da 600 metri. Quando è arrivato, gli immobili dell’Apsa non erano nemmeno censiti e, a oggi, 800 restano sfitti e i 3.200 locati lo sono, per lo più, a canone nullo o bassissimo».

Perché è così difficile intervenire?

«Basta ricordarsi di Ettore Gotti Tedeschi: allo Ior trovò appalti gonfiati anche del 700 per cento e fu impalato. Io non immagino una spelonca di ladri, ma qualche delinquente e meno soldi gestiti sempre peggio. Il Papa ha poteri ridotti e due freni: non può licenziare e i mezzi sono arcaici, con molti conti tenuti a mano».

Come legge le dichiarazioni del papa, quando dice che con le indagini sul palazzo di Londra «è la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro»?

«Più che una pentola, è una batteria di pentoloni: oltre al palazzo si indaga su altre operazioni gemelle. L’arrivo di un magistrato come Giuseppe Pignatone e di un consulente come Saverio Capolupo sono segnali importanti».

Come trova ancora fonti dopo che due sue — il maggiordomo di Ratzinger Paolo Gabriele e monsignor Lucio Ángel Vallejo Balda — sono state arrestate, condannate e solo infine graziate?

«Ci sono ancora persone che, per amore della Chiesa, sono disposte a perdere tanto».

Che precauzione ha usato nel maneggiare i tremila documenti?

«Non li tenevo in casa, anche se il Vaticano, quando vuole sapere qualcosa, lo sa. C’è gente, dentro le mura, convinta che vi siano telecamere che leggono il labiale. Gli incontri defilati con le fonti sono la norma».

Quanto defilati?

«Sono anche stato bendato mentre mi conducevano in un appartamento. Per “Via Crucis”, invece, mi avvicinò un signore che si disse dei servizi italiani, sosteneva che c’era chi voleva ostacolarmi. È comparso due volte sulle scale del mio albergo a Roma».

Lei è credente?

«Per me, la chiesa sono i miei nonni che dicevano il rosario fra le mucche della loro fattoria. Fatico a identificare il Vaticano con questo. Vorrei lanciare una provocazione: se le offerte fossero tracciabili, la Chiesa si salverebbe in pochi mesi».

Vuole abolire anche lei il contante come il governo?

«Gli italiani non sono avari. Amano ancora la Chiesa, danno meno solo perché sono indignati dall’impunità».

Krajewski: «Cardinali e vescovi aprano le case ai profughi». Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. Il volo da Lesbo è appena atterrato al Terminal 3 di Fiumicino, «viva l’Italia!», grida uno, c’è uno striscione con scritto «corridoi umanitari», una neonata in tuta rosa dorme beata, i bambini giocano con i palloncini colorati davanti al gate 55. Trentatré persone, quattordici minorenni, gli sguardi di chi ancora non ci crede. Roma li accoglie con una giornata primaverile, verranno ospitati della Comunità di Sant’Egidio e dell’Elemosineria apostolica. Il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, è andato a prenderli a nome di Francesco e ora abbassa lo sguardo un po’ intimidito, quando lo applaudono. «Questo corridoio è una cosa totalmente evangelica e vuol dire a tutti noi, in Europa: svegliatevi. Dobbiamo cominciare da noi stessi, sull’esempio del Santo Padre che nel 2016 portò con sé tre famiglie. Dai cardinali, dai vescovi, dai presbiteri…Apriamo le nostre case, le nostre canoniche, i nostri palazzi», dice. «Il cardinale del Lussemburgo, Jean-Claude Hollerich, ci ha dato l’esempio: due settimane fa ha portato da Lesbo due persone, a carico suo. Ha diviso con loro il proprio spazio della sua casa, vivono insieme. Dobbiamo svuotare questi campi che Papa Francesco ha chiamato campi di concentramento. Se anche ogni monastero, casa religiosa o parrocchia si aprisse per una persona, una famiglia, nel campo profughi di Lesbo non troveremmo più nessuno». Al Corriere spiega: «Se penso a quel campo... In Europa gli animali vivono meglio. Dobbiamo incominciare da noi stessi. I soldi li abbiamo, il Santo Padre vuole la Chiesa povera: ecco la possibilità di essere veramente poveri, e cioè molto ricchi, perché è quando dividiamo con gli altri che siamo davvero ricchi, tutto torna». I corridoi umanitari sono una «creazione» di Sant’Egidio, realizzata per la prima volta assieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei. Visti umanitari, accordi tra Stati, controlli delle autorità. Oltre ai 33 di oggi, altri dieci arriveranno nei prossimi giorni. A Fiumicino c’è il prefetto Michele Di Bari, a capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, tutta l’operazione è stata concordata e organizzata con le autorità greche e il Viminale della ministra Luciana Lamorgese. «Con lo sforzo di tutti, il corridoio di oggi potrebbe diventare un corridoio umanitario europeo», dice il prefetto Di Bari. Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, ricorda una sua visita al campo Moria di Lesbo, «una signora anziana mi disse: non ho mai perduto la speranza nel mio lungo viaggio, l’ho persa qui», e racconta: «Quando l’ho riferito al Papa, mi ha detto: “Dobbiamo fare qualcosa , il mio viaggio non deve essere solo un episodio, ma un inizio, dobbiamo dare un segno di speranza”. Ecco: questo corridoio dev’essere l’inizio di un processo che noi vogliamo europeo e largo, condiviso da tutti i Paesi europei». Il cardinale Krajewski era partito per Lesbo l’altro giorno: «Con Sant’Egidio eravamo già andati a maggio, e c’erano settemila persone nel campo profughi. Ieri ne abbiamo trovate quindicimila. E ottocento bambini non accompagnati. Oggi in tutto il mondo viene letto il brano evangelico in cui Gesù moltiplica i pani e i pesci. Io non posso farlo, perché è Dio che fa le grandi opere. Ma insieme a tutta la gente di buona volontà possiamo moltiplicare il corridoio di oggi, e questo sarà il nostro miracolo». Ciascuno deve fare la sua parte, dice ancora al Corriere, a cominciare dalla gerarchie ecclesiastiche: «Se si aprono i vescovi e i cardinali, anche il popolo si apre. Noi dobbiamo dare l’esempio. L’esempio, del resto, viene dal Vangelo. Noi aiutiamo, come Chiesa, perché non dobbiamo pensare cosa deve fare lo Stato per i profughi ma cosa possiamo fare noi. Pensiamo al nostro compito: come diceva Madre Teresa, le piccole gocce formano un fiume e poi arrivano al mare». E pazienza se c’è chi contesta, «anche Gesù veniva contestato». Cosa direbbe a chi ha paura davanti alle migrazioni? «È normale che la gente abbia paura. Ma dobbiamo superarla, questa paura, perché il prossimo soffre. E il prossimo è Cristo stesso». Il modello dei corridoi umanitari, spiega il cardinale, può aiutare: «Tutte le persone arrivate oggi sono state controllate, hanno ricevuto documenti italiani al posto di quelli greci. E a Roma non verranno messe in un campo ma vivranno in varie famiglie, in diversi quartieri. C’è anche un aspetto di integrazione: impareranno l’italiano, andranno a scuola, verranno assistiti da noi. Difficile trovare un modello migliore».

·        L’Italia e l’Islam.

Moschea selvaggia. Dalla Consulta via libera ai luoghi di culto dell'islam. Bocciata la legge lombarda che imponeva limiti. Alessandro Sallusti, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge della Regione Lombardia che introduceva regole rigide per la costruzione di moschee sul suo territorio. In estrema sintesi non sarà più necessario il via libera da parte degli enti locali per aprire luoghi di culto islamici. E se si trattasse di luoghi esclusivamente di culto la decisione dei giudici sarebbe ovvia: la libertà di religione è un diritto inviolabile come scritto pure nella nostra Costituzione. Il problema, che con la sua legge la Regione Lombardia intendeva contenere, è che le moschee non sono soltanto luoghi di preghiera come hanno certificato numerose inchieste giudiziarie. È infatti proprio in moschea che si annida il cancro della radicalizzazione islamica. Nei giorni scorsi un imam di Padova è stato espulso per terrorismo, incitava i suoi fedeli all'odio contro gli occidentali e i cristiani: «Li uccideremo e mangeremo i loro cadaveri», diceva non sapendo di essere intercettato. Prima di lui l'imam di Vercelli aveva fatto la stessa fine perché minacciava i musulmani che frequentavano italiani, quello di Milano perché inneggiava al terrorismo islamico e un altro di Padova alla «macellazione lecita dei cristiani». L'elenco dei predicatori di Allah seminatori di odio è assai lungo e anche a non volere generalizzare il pericolo delle moschee fuori controllo è reale. Anche perché l'islam non è una religione gerarchizzata ed è divisa al suo interno in correnti spesso in contrasto tra loro. Più volte l'Italia ha cercato di strutturare un rapporto con questo mondo. Nel 2017 il ministro degli Interni Minniti firmò un «patto nazionale» con una serie di sigle che rappresentano circa il sessanta per cento della comunità islamica, ma parliamo di impegni generici per garantire trasparenza e sicurezza (compreso quello del sermone in lingua italiana) senza alcun obbligo o pena in caso di non applicazione. Certamente l'Europa e l'Italia sono culla di libertà, e questo le differenzia dai paesi islamici. Ma non c'è libertà che possa sopravvivere alla mancanza di regole, neppure quella di culto. E dalle nostre parti funziona che a ogni diritto corrisponde un dovere. Per questo credo che la decisione della Consulta sarà pure giusta in punta di norma ma apre, in assenza di trasparenza dell'islam, un nuovo fronte di rischio per la sicurezza di tutti noi.

I poliziotti non possono schierarsi politicamente e i magistrati SI???

Poliziotti pro-Salvini, scoppia la polemica: la questura di Ascoli apre inchiesta. Il senatore leghista Arrigoni pubblica la foto dei due in divisa mentre firmano al banchetto: "Hanno voluto manifestare la libertà di esprimere la loro opinione". Per il ministro dell'Interno la disputa è "surreale", scrive il 3 febbraio 2019 La Repubblica. E' scoppiata la polemica dopo che il senatore della Lega Paolo Arrigoni ha pubblicato sul suo profilo Facebook l'immagine di due poliziotti in servizio fotografati ad Ascoli Piceno, in piazza Arringo, a firmare in un gazebo una petizione pro-Salvini. La questura di Ascoli Piceno, intanto, ha "aperto un'inchiesta amministrativa per l'accertamento dei fatti". Il ministro dell'Interno replica: "A me interessa che i poliziotti lavorino per difendere la sicurezza dei cittadini italiani, altre polemiche secondo me sono surreali". La foto della polemica era stata in un primo momento rimossa dal senatore. Ma oggi l'onorevole è tornato sui suoi passi e ha pubblicato un nuovo post: "Ieri sui miei social ho pubblicato questa foto. La foto di due agenti di polizia che con un atto di generosità e coraggio nelle #Marche hanno voluto sottoscrivere la raccolta firme a sostegno del ministro dell'Interno Salvini. Poche ore dopo l'ho cancellata per ragioni di privacy e per rispetto a quei due ragazzi, sapendo che c'era il rischio che venisse strumentalizzata da chi non vede l'ora di infangare il lavoro delle nostre Forze dell'Ordine. Cosa che è prontamente avvenuta". Poi continua: "Eppure quando i colleghi e le colleghe di quei due agenti vengono insultati o malmenati da spacciatori, clandestini, criminali o dai centri sociali nessuno muove un dito per esprimere indignazione...Basta! Io rivendico la vicinanza della Lega e del ministro Salvini agli uomini e alle donne delle forze dell'ordine, che ogni giorno rischiano la vita per garantire la nostra sicurezza; ed è solo motivo di orgoglio vedere che quella stima è ricambiata, vedere che gli agenti si mobilitano per un ministro che finalmente garantisce la loro sicurezza e la possibilità di svolgere nel migliore dei modi il loro lavoro". Poi conclude: "Sono stanco di chi cerca sempre di gettare fango verso una divisa. Quei due ragazzi hanno voluto manifestare la libertà di esprimere la loro opinione e la Lega e Matteo Salvini li tuteleranno in ogni sede. Facciamo sentire anche a loro il nostro sostegno!". Profluvio di commenti. "Si, senatore, è stato piuttosto incauto - dice un utente - A prescindere, non trovo il gesto dei due poliziotti deontologicamente corretto. Come poliziotti devono essere (e avere comportamenti) super partes". E un altro pubblica l'immagine della legge che vieta "ai militari di partecipare a riunioni o manifestazioni politiche nonché di svolgere propaganda a favore o contro i partiti".

Poliziotto in divisa firma per Salvini e finisce nei guai. La Questura apre un'indagine. La questura di Palermo ha aperto un'inchiesta per accertare quanto accaduto a Partinico, dove un poliziotto in divisa, mentre era in servizio, ha firmato all'interno di un gazebo allestito per Salvini. La foto, che ha sollevato una polemica, è stata postata dalla militante leghista Katya Caravella sui social, scrive Roberto Chifari, Lunedì 04/02/2019, su Il Giornale.  Uno scatto innocente, un uomo si china per firmare una petizione in piazza all'interno di un gazebo. Una foto che, una volta che è stata pubblicata sui social, ha creato non poche polemiche. A firmare all'interno del gazebo "Salvini non mollare" è stato un poliziotto in divisa e in servizio a Partinico, nel palermitano. La foto è stata postata dalla militante leghista Katya Caravella sui social. Sotto la foto dell'agente, il commento: "Grande entusiasmo e partecipazione al Gazebo - scrive la militante -. Tanta gente che ci ha raggiunto anche dai paesi limitrofi per firmare la petizione. E' una vergogna indagare una persona per avere difeso i confini del proprio paese e che lotta per dare sicurezza agli italiani". La foto però non è piaciuta a tanti che hanno visto nel gesto del poliziotto una scelta fuori luogo, soprattutto durante il servizio di controllo del territorio. Tant'è che lo scatto è finito sul tavolo del questore di Palermo, Renato Cortese, che ha deciso di avviare un'indagine amministrativa. "In riferimento alle notizie stampa relative a quanto sarebbe avvenuto a Partinico nella giornata di ieri riguardanti un appartenente alla questura di Palermo, è stato dato avvio a un approfondimento per l'accertamento dei fatti", si legge in una nota diffusa dall'uffico di gabinetto della polizia. Nel fine settimana si sono registrati altri episodi spiacevoli. Sempre a Partinico nel gazebo di piazza Duomo, un tunisino si è scagliato verbalmente contro un militante e lo ha minacciato di morte dicendo: ‘ti taglio la testa, ti apro tutto…’, prima di dileguarsi tra i vicoli del paese. A Bagheria sarebbe comparso un messaggio inquietante scritto con un pennarello rosso all’ingresso della sede del circolo leghista bagherese. Ed un altro messaggio, ben più minaccioso del precedente, è stato invece inciso con un chiodo ed indirizzato ad una rappresentante della Lega. A denunciare entrambi i fatti è stato Igor Gelarda, capogruppo della Lega in consiglio comunale a Palermo. "Nessuno pensi di intimidire i militanti e i rappresentanti istituzionali della Lega a Partinico e Bagheria, come in ogni angolo dell'Isola - dice Gelarda - impegnati ogni giorno con passione e dedizione sui territori per portare avanti il progetto del cambiamento per il riscatto della Sicilia. Sugli episodi è intervenuto anche Tony Rizzotto, deputato della Lega all'Ars. "Quanto avvenuto in queste ore a Partinico e a Bagheria è inaccettabile e ci saremmo aspettati una reazione di condanna unanime dal mondo politico e istituzionale, ma spesso questi “mondi” rappresentativi delle diverse facce della società sembrano non vedere o dimostrano di avere una visione distorta di questi gravi episodi di gratuita violenza". Il segretario regionale della Lega in Sicilia, Stefano Candiani, rincara la dose. "Ci aspettiamo cori di solidarietà - dice Candiani - a cominciare proprio dai primi cittadini di Partinico e Bagheria, oltre che dal sindaco della città metropolitana di Palermo, Leoluca Orlando".

MARESCIALLO PRISCIANO: CONTINUA L'ACCANIMENTO PERSECUTORIO DEL COMANDO GENERALE DELL' Arma dei Carabinieri e del Ministero della Difesa nei miei confronti. Ora basta, però! 

Dalla pagina facebook di Riccardo Prisciano il post del 10 marzo 2019.

È giunto il tempo che tutta #Italia sappia come stanno davvero le cose: le questioni politiche alla base del mio #congedo INCOSTITUZIONALE erano soltanto una scusa... la verità è che ho la colpa di aver videoripreso e denunciato un'estorsione gravissima perpetrata a mio danno da parte di militari dell'Arma su spinta di un Avvocato "che conta nell'Arma" (cit.).

Ho vissuto e sto vivendo, in maniera analoga, ciò che è accaduto (e sta continuando ad accadere) al Carabiniere Riccardo Casamassima per il caso Cucchi: chi denuncia reati commessi da superiori nell'Arma è lasciato solo, umiliato, perseguitato ed infine cacciato. Una cricca di DELINQUENTI pronta a tutto pur di coprire le maleffate del superiore o di difendere gli INTERESSI PRIVATI di quell'Avvocato "che conta nell'Arma". "Lasciati soli", come accade a chi denuncia reati mafiosi all'interno di una società omertosa, così accade a chi ha la forza di denunciare quando a commettere un reato è chi veste la tua stessa divisa, magari con ruoli apicali. Ma allora qual è la differenza? Il silenzio del Ministro Elisabetta Trenta fa rabbrividire. Si rifiuta di ricevermi. Ministro vorrei soltanto farle vedere il video di questa ESTORSIONE, null'altro! Spesso, purtroppo, una simile "cricca associativa" non si trova dinanzi un militare come il sottoscritto (con il proprio carattere forte e la sua famiglia sempre pronta a sostenerlo) ed ECCO SPIEGATO IL COSÌ ALTO NUMERO DI SUICIDI NELL'ARMA dei Carabinieri. Per certe "cricche", il suicidio di un #militare "conviene" e poi per "archiviare la pratica" basta andare sulla stampa a dichiarare "non si conoscono i motivi del gesto"...State tranquilli - ma già lo sapete - mai sceglierò quella via: il desiderio di vedervi pagare per i vostri #crimini è troppo forte...UNA "CRICCA ASSOCIATIVA" che come una #piovra si trova all'interno dell'Arma, per 5 anni ha rovinato la mia esistenza e quella dei miei cari... e non per stupide scuse politiche! Ora è giunto il momento che tutta #Italia conosca i nomi ed i cognomi di chi, FACENDO GLI INTERESSI dell'Avvocato "che conta nell'Arma", infanga ogni giorno la MIA divisa. Sappiate che d'ora in poi, chi dirà di non sapere, in realtà mente sapendo di mentire. Da Taranto a Varese, passando per Roma, Nuoro e la Toscanatutta: con registrazioni e filmati di quello che avete detto e fatto, ora non si fanno più sconti a nessuno. E non dimentichiamoci di Palermo, Basilicata e Triveneto!

Il Tar reintegra il maresciallo che ironizzava sulla Boldrini. FdI: “Fatelo lavorare”, scrive lunedì 4 febbraio 2019 Giovanni Pasero su Secolo d’Italia. “Il Tar del Lazio ha reintegrato il maresciallo dei Carabinieri Riccardo Prisciano: ora, nell’assoluto rispetto del prestigio dell’Arma, ci auguriamo che venga recepita la sentenza senza fare ricorso”. E’ quanto dichiara il deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone. “Il maresciallo scrittore – prosegue – aveva rivolto alcune critiche libero dal servizio e per questo era stato congedato a seguito della notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata””. “Ora – conclude Mollicone – ci auguriamo che intervenga anche il ministro Trenta affinché si concluda questa vicenda e il maresciallo possa tornare in servizio a servire il Paese e a esprimere liberamente le sue idee”. Il maresciallo Prisciano, autore del libro “Nazislamismo” (Ed. Solfanelli), la cui presentazione è stata curata da Magdi C. Allam. Il maresciallo dell’Arma racconta in questi termini, la sua vicenda: «Ho subito tre procedimenti disciplinari di rigore, svariate denunce presso la Procura Militare (procedimenti terminati tutti con archiviazione od assoluzione), trasferimenti ad 800km dalla mia famiglia, visite psicologiche e psichiatriche alle quali ovviamente sono risultato perfettamente idoneo al servizio militare: non contento di tutte queste angherie fattemi subire, il Comando Generale dell’Arma mi ha posto in congedo “per non meritevolezza” proprio a causa delle mie idee politiche sovraniste, patriottiche, anti-Islam, anti-aborto, contrarie alla pratica dell’utero in affitto ed alle adozioni di bambini a coppie omosessuali. Tra le accuse – scrive ancora Prisciano – anche quella di aver commentato in maniera troppo “ironica” sulla mia pagina Facebook le scelte politiche del Presidente della Camera Laura Boldrini, dell’allora Ministro dell’Interno Angelino Alfano, dell’allora Premier Matteo Renzi, nonché dell’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano». L’auspicio di tutti è che questa guerra contro un servitore dello Stato venga finalmente terminata e che il maresciallo Prisciano possa tornare a compiere il suo dovere di cittadino e di militare.

Il TAR reintegra il Maresciallo congedato dall’Arma per le sue idee anti islam. “Licenziamento non motivato”, scrive il 04/02/2019 Infodifesa. Il caso del Maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano iniziò nel 2015 quando gli venne notificato l’avvio di un procedimento disciplinare per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata” sino ad essere definitivamente posto in Congedo dall’Amministrazione. Tutta colpa di un libro. Il suo libro, “Nazislamismo” con presentazione di Magdi Cristiano Allam. Un saggio, estensione della tesi di laurea, in cui dimostra l’incostituzionalità giuridica dell’Islam. Ma il Maresciallo Prisciano non demorde e propone ricorso al Tar Lazio che con la sentenza che vi proponiamo di seguito in stralcio ha dato ragione al ricorrente. “Il ricorrente, già maresciallo dell’Arma, non è stato ammesso al servizio permanente. In particolare l’amministrazione rilevava che : “che il complessivo quadro di situazione emergente dall’esame della documentazione caratteristica e matricolare del Maresciallo Prisciano, riferita al periodo quadriennale di ferma volontaria, ha evidenziato un rendimento assolutamente insoddisfacente del militare per: carenti qualità morali, militari e di carattere; minore affidabilità sul piano professionale, da cui è scaturito un profitto valutato per due volte con giudizio equivalente a “inferiore alla media”, emesso da diverse scale gerarchiche; che il Maresciallo Prisciano ha palesato una marcata refrattarietà alla disciplina militare, con gravissime carenze sostanziatesi negli ultimi due anni in quattro sanzioni di corpo, di cui ben tre “consegne di rigore”, irrogate da differenti Comandanti”.

Secondo il Tar Lazio la disciplina normativa che presidia l’ammissione al servizio permanente (artt. 948 del D.L. 15 marzo 2010, n.66) recita: “Al termine della ferma volontaria, i carabinieri che conservano l’idoneità psico-fisica al servizio incondizionato e sono meritevoli per qualità morali e culturali, buona condotta, attitudini e rendimento, di continuare a prestare servizio nell’Arma dei carabinieri, sono ammessi, salvo esplicita rinuncia, in servizio permanente …”. Si tratta di previsioni normative a contenuto aperto, la cui puntuale determinazione è rimessa alla stessa Arma. In altre parole il significato concreto di: qualità morali, buona condotta e rendimento, invero necessitano di una conseguente e puntuale precisazione motivazionale, sia con riferimento ai principi costituzionali della pari dignità sociale tra i cittadini, del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, del diritto al lavoro, che per consentire l’eventuale scrutinio del giudice amministrativo. Si tratta di diritti essenziali e non comprimibili della persona, il cui pregiudizio necessita una adeguata, congrua e documentata motivazione tale che, nel bilanciamento degli opposti interessi, sia evidenziata, in modo oggettivo ed inconfutabile, la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, motivazione che, in ogni caso, deve essere declinata con i principi di ragionevolezza e proporzionalità così come introdotti anche dalla giurisprudenza comunitaria. Ritiene il Collegio che una lettura costituzionalmente orientata delle citate norme, in uno con i riferiti principi di proporzionalità e ragionevolezza, non può essere limitata ad una mera elencazione delle asserite mancanze disciplinari, atteso che l’irrogazione di tali sanzioni costituiscono un sintomo della mancanza dei requisiti richiesti dalla norma, sintomo che, però, deve essere supportato da un concreto disvalore del comportamento contestato, la cui valenza negativa può essere ricavata dalla completa lettura del comportamento del militare. In altre parole è necessario che la p.a. dimostri, attraverso una documentata prospettazione, le ragioni per cui l’interessato non è più ritenuto meritevole di far parte del consesso militare. Si tratta, pertanto, di un giudizio ponderato e non sintetico (diversamente il legislatore avrebbe previsto il mero dato numerico delle sanzioni riportate), in cui deve essere valutata l’intera esperienza professionale e privata del militare, in cui i rilievi sintomatici negativi e positivi devono essere adeguatamente soppesati nell’ambito di un compiuto processo motivazionale che non può essere certamente limitato alla enumerazione delle sanzioni irrogate, ovvero a meri e stereotipati giudizi negativi. Nel caso di specie, infatti risulta che una prima sanzione di rigore è stata irrogata in relazione ad una denuncia avanzata nei confronti del ricorrente, il cui fatto presupposto è stato, poi, archiviato dalla giustizia militare. Le altre due sanzioni di rigore risultano, invece, connesse a manifestazioni del pensiero espresso dal ricorrente in modo da non comportare alcuna reazione penale. Tale evenienze fattuali devono essere necessariamente considerate dall’amministrazione indipendentemente e a prescindere dalla reazione giudiziaria non attivata dal ricorrente, proprio perché nel giudizio e nel conseguente provvedimento, la p.a. deve sempre far prevalere, allorquando si tratta di giudizi personali, la sostanza sulla forma. Allora, le sanzioni disciplinari su cui, anche, si fonda il provvedimento espulsivo, se esattamente valutate nell’attuale contesto costituzionale, certamente, di per sé, non giustificano il grave provvedimento espulsivo, alla luce proprio del necessario bilanciamento degli interessi, anche costituzionali, che la questione coinvolge, atteso che la sintetica motivazione adottata dalla p.a. non dà modo al collegio di verificare la ragionevolezza e la proporzionalità della misura adottata. In altre parole la p.a. è chiamata ad adottare un provvedimento discrezionale che, in quanto tale deve essere adeguatamente motivato, tanto più che la misura pregiudica essenziali e fondamentali diritti costituzionali del ricorrente e la p.a. non può limitarsi ad una mera applicazione automatica delle norme riportate sulla base di evenienze meramente formali. Infine, non può essere sottovalutato il fatto che il giudice ordinario ha assolto il ricorrente dal reato previsto e punito dall’art. 572 c.p. perché il fatto non sussiste, condannando, di contro, l’ex coniuge a mesi otto di reclusione. Tale evenienza risulta sintomatica della singolare condizione vissuta dal ricorrente e non può essere omessa dalla p.a. nella motivazione del giudizio finale. Per ultimo, e la circostanza non è stata smentita dalla difesa erariale, l’arresto (maggio 2016) da parte del ricorrente, di un malvivente che aveva aggredito un anziano, convalidato dall’A.G.. Ebbene, neppure tale episodio risulta introdotto nella motivazione escludente. Si tratta, cioè, di un significativo aspetto professionale del ricorrente che la p.a. non ha considerato nella complessiva valutazione dello stesso ai fini dell’adozione della misura contestata. Pertanto – secondo il TAR Lazio – il provvedimento risulta non adeguatamente motivato e deve essere annullato. 

Chi è Riccardo Prisciano, maresciallo carabinieri anti Islam, scrive Silvia Cirocchi il 9 marzo 2016 su Blitz Quotidiano. Prisciano, maresciallo dei carabinieri che considera l’Islam incostituzionale. Maresciallo Prisciano, vi dico io chi è. In queste ore sui social network si sente solo parlare di lui: il Maresciallo Riccardo Prisciano. Ma chi è questo uomo? Ve lo dico io visto che ho auto modo di conoscerlo collaborando con lui allo stesso quotidiano online (i cui articoli gli vengono ora contestati) fino a quando la censura dei “taglialingua” gli ha tappato la bocca. Riccardo Prisciano non è un “semplice” Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri; onore alla categoria, ma intendo dire che, nella sua vita, Riccardo è anche tante altre cose. Laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Roma Tor Vergata, da sempre impegnato culturalmente ed artisticamente, ha pubblicato la raccolta di poesie “Insonnia” ed il poema biblico “L’Arcangelo crociato”, Prisciano è in primis un uomo che ha sempre combattuto per tutto nella sua vita; odia il compromesso e l’ipocrisia perbenista: per lui esiste solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, “vie di mezzo” non possono esistere. Basta leggere i suoi articoli per saggiarne la preparazione culturale, giuridica e filosofica. Riccardo Prisciano è uomo d’azione; azione che si estrinseca attraverso la penna, la parola ed i fatti … e per questo è stato punito e trasferito in Sardegna a ben 800 km dalla propria figlioletta. Il Maresciallo Prisciano aveva argomentato le proprie tesi giuridiche circa l’incostituzionalità dell’Islam e circa l’impossibilità di credere nell’esistenza di un islam moderato, nonché aveva espresso su Facebook la propria contrarietà circa le unioni omosessuali e le adozioni gay. Il tutto libero dal servizio e mai qualificandosi come carabiniere. Ebbene, in un processo, nonostante l’assenza del Prisciano e di un suo difensore, il maresciallo veniva condannato a 7 giorni di consegna di rigore e trasferito. Non è finita: i nuovi Comandanti (della Sardegna) instaurano un ennesimo procedimento disciplinare nei confronti del Maresciallo Prisciano per condotte successive al 06 agosto 2015 (data del processo-condanna fiorentino) sempre per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Quest’ultimo procedimento disciplinare è ancora più assurdo del primo: si contesta all’ispettore il fatto di aver scritto, sempre libero dal servizio, articoli, in cui si parlava di aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Addirittura, si contesta il prossimo libro del Maresciallo Prisciano – lo si contesta prima della pubblicazione, prima di leggerlo quindi. Il Mar. Prisciano pubblicherà a breve un saggio giuridico, il cui titolo è “Nazislamismo” e l’editore è Solfanelli. Come si evince dagli atti, gli Ufficiali dell’Arma scrivono che “benché si tratti di un saggio giuridico, scaturito dalla stessa tesi di Laurea in Scienze Giuridiche del Mar. Prisciano, non è opportuno che si parli in tali termini dell’Islam”. Sarà un caso che tutta la storia gira attorno alla Toscana, ed a Firenze in particolare? A noi non sembra un caso, visto che il Maresciallo Prisciano in entrambi i procedimenti si è visto accusare “di aver leso e vilipeso l’immagine del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Repubblica, del Ministro dell’Interno e della Presidenta Boldrini.

"Io, carabiniere anti islam, congedato per mie idee". Maresciallo scrittore che si è espresso contro l'islam viene congedato dall'Arma. Il caso di Prisciano, che ora attende l'espressione del Tar, scrive Francesco Boezi, Sabato 16/09/2017, su Il Giornale. Il maresciallo Riccardo Prisciano è stato congedato. Durante luglio del 2015, gli era stato notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Sentito da Il Giornale.it, il maresciallo ha dichiarato in merito alla sua vicenda: "Sono stato congedato per aver espresso idee di destra, libero dal servizio e nella normale dialettica democratica, riguardanti l'incostituzionalità dell'islam, la mia contrarietà ai matrimonio omosessuali, all'adozione di bambini da parte di persone dello stesso sesso, alla pratica dell'utero in affitto, all'attuale legge sull'aborto e per aver espresso perplessità sull'operato politico di Boldrini, Alfano, Renzi e Napolitano". "In due anni - aggiunge Prisciano - sono stato umiliato in ogni modo: sanzioni disciplinari, denunce (poi ovviamente archiviate), visite psicologiche, trasferimenti ad 800km dalla mia famiglia, note caratteristiche umilianti e financo il congedo per "non meritevolezza". Secondo quanto riferito dal maresciallo, prima del congedo ci sarebbero stati tre procedimenti disciplinari: 7 giorni di consegna con rigore e il trasferimento d'autorità in Sardegna, un provvedimento derivante dalla pubblicazione del suo libro "Nazislamismo", infine una denuncia da parte dei suoi superiori presso la Procura Militare di Roma per "insubordinazione con ingiuria" e "diffamazione militare aggravata". Queste ultime accuse sarebbero state archiviate. Il maresciallo sostiene di aver subito questi provvedimenti a causa delle sue prese di posizione. L'inizio della vicenda, infatti, risale a quando Prisciano, in qualità di scrittore, partecipò ad un convegno sulla "incostituzionalità dell'islam". Il 12 ottobre 2017 il Tar del Lazio dovrebbe esprimersi sul congedo. Il Consiglio di Stato, secondo un documento inviatoci da Prisciano, aveva ribaltato le sospensive precedentemente concesse dal Tar. Il maresciallo dichiara di essere in congedo da dieci mesi, di non percepire stipendio e di avere una figlia di 6 anni e un altro figlio in arrivo.

Scrive un libro critico sull’Islam e lo “licenziano”, scrive il 15/06/2018 Il Giornale off. Stava facendo uno sciopero della fame da tre giorni. Per tre giorni è rimasto a gambe incrociate davanti alla sede del Ministero della Difesa. Lui è Riccardo Prisciano, maresciallo dei Carabinieri, la cui storia i lettori di OFF conoscono: nel 2015 gli viene notificato l’avvio di un procedimento disciplinare per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Tutta colpa di un libro. Il suo libro, “Nazislamismo” (Ed. Solfanelli), con presentazione di Magdi Cristiano Allam. Un saggio, estensione della tesi di laurea, in cui dimostra l’incostituzionalità giuridica dell’Islam. «Ho subito tre procedimenti disciplinari di rigore, svariate denunce presso la Procura Militare […] in congedo a causa delle mie idee politiche sovraniste, patriottiche, anti-Islam, anti-aborto, contrarie alla pratica dell’utero in affitto ed alle adozioni di bambini a coppie omosessuali». Un ricorso al T.A.R. di Roma ha censurato i comportamenti dell’Amministrazione. Riccardo Prisciano vuole tornare a servire la Patria nell’Arma e per questa ragione da tre giorni è in sciopero della fame, davanti al Ministero della Difesa e ora davanti alla sede del Viminale. Leggiamo dalla sua Pagina Facebook: In Italia, non si può congedare un servitore dello Stato solo per aver scritto un libro che a qualcuno non è piaciuto. Sono qui per essere ricevuto dal Ministro della Difesa per far rispettare un’ordinanza del TAR ormai passata in giudicato. Anche i militari hanno dei diritti costituzionali. Alle ore 13.51 di venerdì 15 giugno 2018 il Viminale ha preso in carico la pratica. Oggi, giovedì 21 giugno, sappiamo che Federico Mollicone (Responsabile nazionale del Settore Comunicazione di Fratelli d’Italia e dirigente romano nella Costituente di Roma) sta preparando un’interrogazione parlamentare unitamente a Gianni Tonelli (deputato della Lega, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia) e al sottosegretario alla Difesa Raffaele Volpi per affrontare il caso a livello istituzionale. E intanto la presa in carico del caso si estende a livello governativo: anche il Sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo (M5S) si sta interessando per risolvere il problema.

A proposito di omertà e censura…puoi parlar male di Avetrana, ma mai parlar male dell’Islam.

L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

L’Italia delle libertà mancate, dell’omertà e della censura. Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione. Ma di tutto questo non se ne deve parlare. Si deve parlare sempre e comunque solo di Avetrana omertosa.

“Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti”. Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: “Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.” A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

D’altro canto bisogna ricordare a questo signore, come a tutt'Italia, che gli Avetranesi parlano e non hanno paura di nessuno, nonostante le ritorsioni. Da ricordare che il sottoscritto è un avetranese doc, e non può certo essere tacciato di omertà, visto quello che scrive, tanto che alcuni magistrati questa prolificità non gliela perdonano affatto. Ma esiste un altro avetranese che paga il suo non essere omertoso: Riccardo Prisciano, tanto da essere perseguitato per le sue idee espresse contro Islam e gay.

Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele. Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta. Ecco perché a sinistra se ne dolgono quando dell’Islam o dei gay se ne parla male.

È contro l'islam e i gay, il maresciallo rischia il posto di lavoro. Ha partecipato a una conferenza in qualità di scrittore e relatore sull’"incostituzionalità dell’Islam". Dopo essere stato condannato per "islamofobia, xenofobia, omofobia", ora il Maresciallo Prisciano rischia di perdere il posto per un saggio giuridico, scriveva Gabriele Bertocchi, Lunedì 07/03/2016, su “Il Giornale”. Riccardo Prisciano è un maresciallo dei carabinieri, a luglio gli viene notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Come racconta Infodifesa, solo un mese dopo, mentre si trova in Puglia per un congedo parentale dovuto alle gravi condizioni della figlia, lo raggiunge l'avviso in cui si specifica che la data in cui avverrà il processo disciplinare. La notifica viene recapitata solo con due giorni d'anticipo, non consentendo così a Prisciano di essere presente alla sentenza che lo condanna a sette giorni di consegna di rigore. Motivo di questo procedimento nei confronti del maresciallo è la sua posizione nei confronti dell'islam. Più precisamente li viene contestata la partecipazione a una conferenza, in cui Prisciano ha preso parte in qualità di scrittore e relatore, sull’"incostituzionalità dell’Islam". Un impegno preso e svolto mentre era libero dal servizio. Come se non bastasse, ora è stato è stato avviato un nuovo procedimento disciplinare, con le stesse accuse, per diversi articoli scritti da Prisciano, pubblicati su un quotidiano online, che trattano argomenti come aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Nel fascicolo vengono allegati anche post e stati di Facebook del carabiniere ritraenti il patriota cecoslovacco Jan Palach e frasi del filosofo Ernst Junger. Inoltre viene anche contestata la prossima pubblicazione del maresciallo di un saggio giuridico intitolato "Nazislamismo", con prefazione di Magdi Allam. Il volume non è ancora andato in stampa. Se dovesse essere nuovamente punito, Prisciano rischia di perdere il posto di lavoro.

Carabiniere-scrittore contesta l'islam. Punito con sette giorni di consegna. Vietato criticare, maresciallo accusato di islamofobia, scrive Domenico Ferrara, Sabato 26/03/2016, su “Il Giornale”. Vietato criticare l'islam. Guai a scriverne e a esporre la propria opinione in pubblico. Mentre l'Europa è sconquassata dallo jihadismo, in Italia ci si preoccupa di mettere all'indice un carabiniere colpevole di aver studiato e analizzato magari con troppa animosità il problema del terrorismo e dei flussi migratori. Per questo motivo, Riccardo Prisciano, maresciallo pugliese 25enne, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e punito con sette giorni di rigore. Il 23 maggio 2015, il militare partecipa in qualità di scrittore a un convegno a Pisa organizzato da un movimento politico. Già, perché Prisciano, oltre a essere un carabiniere, è anche uno scrittore, laureato in scienze giuridiche della sicurezza all'Università di Tor Vergata a Roma con una tesi dal titolo «Multiculturalismo e islam, problemi e soluzioni». Esprime le proprie idee in veste di libero cittadino e non di carabiniere. Parla dell'integralismo dell'Islam, sostiene che non esistano musulmani moderati, afferma la necessità di interrompere i flussi migratori tra le coste del nord Africa e l'Italia. Apriti cielo. Il 25 giugno viene avviato il procedimento disciplinare e si richiede una visita medico-psicologica. Il 6 agosto, mentre era in Puglia in congedo parentale per problemi familiari, si svolge il processo in sua assenza. Risultato? L'Arma decide di punirlo, non solo per la partecipazione al convegno, ma anche per una serie di post su Facebook in cui esternava posizioni critiche in materia di islam e immigrazione. Sette giorni di rigore «per islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l'apoliticità della Forza Armata». Inoltre a Prisciano vengono contestati altri addebiti per post sui social. In caso di ulteriore condanna, non potrebbe entrare in servizio permanente.

Ma non è la prima volta che cala la scure della censura.

Islam, il giovane scrittore Riccardo Prisciano censurato da Facebook, scrive “Imola Oggi” il 20 gennaio 2015. Il giovane poeta e scrittore Riccardo Prisciano, censurato da Facebook, non ci sta! È l’ennesimo atto di censura quello che Riccardo Prisciano, autore della raccolta di poesie “INSONNIA” e del poema biblico “L’Arcangelo crociato”, riceve da Facebook: ma questa volta non ci sta! La pagina pubblica Facebook del giovane autore è stata bloccata (dallo stesso sito) fino al 1° febbraio 2015, ma le motivazioni ancora non sembrano chiare …La storia ha dell’incredibile: dopo la macabra strage consumatasi a Parigi qualche giorno fa, ad opera di terroristi islamici, il poeta Prisciano ha pubblicato sulla sua pagina facebook alcuni commenti, correlati da apposite immagini, che hanno scatenato l’ira dei sostenitori del melting-pot. La scintilla che ha fatto scatenare la raffica di segnalazioni a Facebook, sembrerebbe essere un post in cui il giovane scrittore, citando preventivamente Oriana Fallaci, ha scritto “La paura di camminare a schiena dritta è, oggi, la vera causa del declino della millenaria società cristiana europea. Ricordare le proprie radici è il principale dovere di ogni europeo (cristiano e non)”. In conclusione l’autore, conscio dell’inesistenza di un Islam moderato, afferma ancora una volta: “se per un Cristiano è doveroso seguire il messaggio d’amore del Messia, per il musulmano è doveroso seguire il messaggio di morte di Maometto”. Immediate le condivisioni del post ma anche, di contro, le segnalazioni a Facebook. L’intento dei segnalatori sembrerebbe essere quello di bloccare, almeno per un po’, il giovane autore che, quotidianamente, sveglia le coscienze attraverso la sua pagina. MA RICCARDO PRISCIANO NON CI STA! Ed ecco che con l’ultimo post spiega i motivi giuridici ed etico-legali, secondo i quali, “L’Islam non è Costituzionale!”; una vera e propria scintilla che presto scatenerà chissà quali reazioni.

Facebook ha riservato lo stesso trattamento all’avv. Mirko Giangrande, chiudendogli la sua pagina “Azione Liberale”.

Riccardo Prisciano: l’Islam come il nazismo, scrive Gian Giacomo William Faillace su “Milano Post” del 14 giugno 2015. Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con “Insonnia”, una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico “L’Arcangelo crociato” in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell’Arcangelo Uriel. Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l’incostituzionalità dell’Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l’ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell’Islam. Partendo dal tema della “tolleranza” sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di “società aperta” le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” oltre ad asserire che “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che “La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che “Il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo “Trattato sulla tolleranza” pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido “Esacrez l’infame” (Schiacciate l’infame) incita quell’umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia. Pertanto, alla domanda “Cosa intende per apologia dell’Islam” Prisciano, prontamente risponde:” In considerazione di ciò che sostenne l’Ayatollah Khomeini, ossia che l’Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l’Islam non può essere considerata una religione, nel senso “occidentale” del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l’ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l’Islam: ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche”.

Lo scrittore Riccardo Prisciano sfida Khalid Chaouki: - “Io sono pronto" …”, scrive Riccardo Ghezzi, il 11 agosto 2015.

Riccardo Prisciano, il tuo prossimo libro in uscita ad ottobre paragona l’Islam al Nazismo. Puoi spiegarci in breve di cosa si tratta?

«Quando si parla di terrorismo islamico, non si parla di “antico folklore”; è, piuttosto, qualcosa di concreto e spaventosamente vicino, come hanno dimostrato numerosi fatti di cronaca, anche in Italia. Non è comprensibile, altresì, come, proprio le frange anticlericali che, da sempre, si sono battute contro la Chiesa Cattolica (incriminando, quasi, le religioni di “incatenare” l’uomo) siano, ora, così rispettose e tolleranti verso comportamenti barbari e sanguinari, predicati in nome dell’Islam. Incredibilmente, la stessa pubblica opinione, che si discosta dall’osteggiare ideologie violente e razziste, non si rende conto di quanto, l’Islam, in certi suoi aspetti, non si discosti molto da queste dottrine».

Perché allora questa difformità di trattamento?

«Anche lo scrittore tedesco Thomas Mann sosteneva che “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male”, addirittura il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler sostenne che “il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Tale totalitarismo, ammantato da pretesti religiosi ed etici e che, dietro una parvenza di spiritualità, trasudano un’alcova ideologica tra le più intolleranti del mondo, è di gran lunga peggiore di qualunque totalitarismo politico. L’Islam è anche, e forse soprattutto, un’ideologia, come ci tenne a precisare l’Ayatollah Khomeini, uno dei più autorevoli pensatori musulmani: “L’Islam o è politica, o non è nulla!” L’Islam è un’ideologia politica che, ancora oggi, si serve della religione come strumento di potere; o, se volessimo intenderla come religione, non possiamo non rilevare che tale religione, sfruttando la spiritualità umana, si pone il preciso obiettivo d’espandere il proprio potere politico. Se, giustamente, intendessimo l’Islam come una dottrina politica, e non già come una mera fede religiosa, sarebbe doveroso chiedersi per quanto ancora si potrà permettere che, nella civile e democratica Europa, si predichi l’odio religioso, l’intolleranza e la disuguaglianza tra i sessi o tra gli appartenenti a diverse religioni, senza andare a vietare le organizzazioni islamiche, che si ispirano ad una dottrina di gran lunga più totalitaria e intollerante del Nazismo stesso. Non a caso Al-Husayni fu l’assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata (’intifadah) contro gli ebrei, condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Egli fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell’antisemitismo strinse un’alleanza tattica con il nazismo, in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Fu tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati, per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei, destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l’Egitto, dove rinsaldò i rapporti con Sayyid Qutb e Hasan al-Bannah, rispettivamente il teorico e il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove pose sotto la sua ala protettiva un giovane che negli anni successivi diventerà un protagonista della politica mediorientale: Yasir ‘Arafat».

La prefazione sarà curata da Magdi Allam. Come è avvenuto l’incontro con lui?

«La Stima che mi avvicina al grande Magdi Cristiano Allam è profonda. Il nostro incontro “fatale” è stato lo scorso 7 giugno 2015, in quel di Milano, durante un incontro-dibattito politico-culturale organizzato dal Fronte Nazionale per l’Italia (il nuovo partito “nato dal basso” che, democraticamente, sta andando a colmare quel vuoto elettorale equiparabile, a detta dei sondaggi, al 60% degli aventi diritto). È stato “amore a prima vista”: l’unità d’intenti e d’ideali è stata tale che, già dopo pochi minuti, Magdi mi aveva già assicurato la prefazione per il mio prossimo saggio».

Nel saggio, definisci l’Islam “Incostituzionale”. È una dichiarazione forte, ma da quali elementi normativi è suffragata questa tua affermazione?

«Oggi, assistiamo sovente ad una visione della Costituzione italiana, come nominata a sostegno della laicità dello Stato, incredibilmente, però, questo accade solo in funzione anticristiana. L’Islam è anticostituzionale perché predica concetti ed ideologie contrari ai principi costituzionali fondamentali, in tema di rispetto per la vita ed uguaglianza tra le persone (anticostituzionalità sostanziale); nonché per la mancanza d’Intesa tra Stato italiano ed Islam (anticostituzionalità normativa). Ecco alcuni esempi pratici, puramente a titolo esemplificativo, di altri articoli (oltre all’ormai noto art.8) della Costituzione che, più nello specifico, sono in netto contrasto con l’Islam:

– Art. 2 Cost: “… i diritti inviolabili dell’uomo …”, che sono totalmente diversi nella religione islamica, tanto da aver creato una propria carta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi.

– Art. 3 Cost: “pari dignità sociale … senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”; nel Corano, invece, è sancita la superiorità dell’uomo sulla donna e del musulmano sul non-musulmano.

– Art. 13 Cost: “La libertà personale è inviolabile, può essere limitata solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge . …” ; nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, invece, la libertà individuale viene subordinata alla shari’a.

– Art. 27 Cost: “Non è ammessa la pena di morte …” ; nell’Islam, invece, è imposta per apostati, adulteri ed omosessuali; tale imposizione, mai messa in discussione da nessun organo dirigente islamico, è confermata da tutte e quattro le scuole coraniche e, pertanto, attendibile;

– Art. 29 co. 2 Cost: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”;

– Art. 30 co. 1 Cost: “il dovere-diritto di entrambi i coniugi di educare i figli..”;

– Art. 30 co. 3 Cost: “per la tutela dei figli naturali”.

Oltre al contrasto con dette norme fondamentali della Costituzione, vi è un altro duplice problema, certamente, non meno rilevante, riguardante la legittimità e la gerarchia delle fonti, in quanto la Shari’a funge da “legge” per i mussulmani, a prescindere dalla loro nazionalità».

Riccardo Prisciano contestato a Avetrana. Il suo Nazislamismo non piace a…, scrive il 10 luglio 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Scontro per fortuna solo verbale fra il maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano, sostenitore della tesi che l’Islam è anticostituzionale e un gruppo di giovani che contestavano le sue tesi e il suo ultimo libro, “Nazislamismo”. Il vivace confronto è avvenuto nel corso della presentazione di “Nazislamismo” a Avetrana, città in provincia di Taranto diventata nota in Italia per il delitto e la morte misteriosa di Sarah Scazzi. La serata era intitolata “Estate d’autore, fra parole, poesie e pensieri”, organizzata da una associazione locale; tre in tutto erano i libri di cui si discuteva. Il pubblico era foltissimo visto l’interesse, com’è chiaro, per l’argomento trattato: l’islam. La tesi dominante del libro di Riccardo Prisciano è: inconciliabilità tra Occidente e mondo mussulmano, non scindibilità fra politica e religione islamica, inesistenza di un islam moderato. Al termine della presentazione, però, Prisciano è stato attaccato ed offeso da estremisti locali, filoislamici e, si presume, di “sinistra”; Prisciano ha reagito con molto autocontrollo e, grazie all’aplomb di Prisciano, i toni accesi si sono avuti esclusivamente a senso unico. I contestatori non apprezzavano l’opera di Prisciano, definendola “volgare e razzista”, pur dichiarando di non averla “mai letta ed [essere] intenzionati a non volerla leggere”. Pregiudizi, insomma; come hanno affermato gli stessi contestatori, dichiarando di avere dei “pregiudizi” nei confronti dello scrittore anti-islam. E, rivolgendosi agli organizzatori dell’evento culturale, si sono proclamati “delusi dalla serata”. Tra le gravi accuse rivolte allo scrittore Prisciano, quella di “essere la causa, insieme a Salvini e Giorgia Meloni, dell’omicidio di Fermo”. I toni erano diventati talmente accesi che, per evitare che si passasse dagli insulti a modi più diretti, il vicesindaco di Avetrana è intervenuto, smorzando le proteste ed elogiando il coraggio del Dott. Prisciano, che continua a dire che l’Islam è incostituzionale.

Al termine della presentazione, un gruppo di dissidenti, estremisti filo islamici, hanno iniziato a contestare e protestare, criticando l’opera di Prisciano, senza neppure conoscerne il contenuto e soprattutto senza volerli conoscere, scrive Giovanna Rispoli su “News 24 oggi”. Un duro attacco dai toni estremamente volgari ed offensivi, come abitudine di questi gruppi disagiati sociali. Volano parole pesanti ed offensive, oltre ogni limite, ma l’aggressione verbale è a senso unico. Infatti il Dr. Prisciano ha reagito in completo autocontrollo, facendo innervosire ancor di più i contestatori. Purtroppo queste volgarità ed offese erano talmente pesanti, che molti partecipanti si sono allontanati indignandosi. Gli estremisti di sinistra, non apprezzano l’opera, la reputano offensiva, volgare e razzista, ma assurdità della cosa, dichiarano apertamente: “Non conosciamo quest’opera e non abbiamo intenzione di conoscerla, i nostri occhi mai leggeranno queste righe di propaganda razzista”. Parole che dimostrano senza ombra di dubbio quali siano le facoltà dei contestatori, aggrappati ad ideali pre-confezionati, senza utilizzare il minimo di materia grigia.

Pier Francesco Galati, uno dei contestatori, insieme al padre Franco Galati già giorni prima, sulla sua pagina facebook, aveva prima citato e poi dichiarato: «“Odio gli indifferenti...credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti...” - Antonio Gramsci - non mi vergogno a dire che se verrà data la possibilità di presentare libri che incitano alla violenza e all'odio razziale, episodi come quello di Fermo saranno sempre più frequenti...Perciò ribadisco la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che un libro, intitolato "Nazislamismo" venga presentato nel mio paese. Educhiamo alla multietnicità, all'uguaglianza, al rispetto e a credere che nonostante tutto possa esserci un mondo migliore e più giusto...Come diceva il buon Vittorio Arrigoni: “Restiamo UMANI...”» Ed a seguire i soli commenti dei soliti ignoranti…Altra considerazione è riportata sulla pagina facebook di Milvia Renna, madre e moglie dei contestatori: «CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NAZISLAMISMO". Credo sia doveroso a questo punto, visti i commenti astiosi su fb e gli articoli pretestuosi, fare alcune considerazioni personali sulla presentazione del libro ''nazislamismo''. In democrazia ognuno può scrivere e pubblicare ciò che vuole, ma credo che un libro che criminalizza un intero popolo, un'intera civiltà e un intero credo vada in direzione opposta a quelli che sono i valori della solidarietà, della pace e della convivenza tra gli uomini ed è questo il messaggio che è stato lanciato in maniera corretta agli organizzatori della serata, da chi è intervenuto per esprimere la propria opinione. Come insegnante non capisco come un'associazione culturale che più volte ha chiesto la collaborazione della SCUOLA per diffondere i valori del ''rispetto'' abbia pensato di presentare un libro che col suo messaggio, andava in direzione completamente differente...e lo dimostrano i toni volutamente accesi e i commenti di chi non era neanche presente alla serata, nel giudicare la spontanea obiezione di chi crede nei valori dell'umanità e della comunione tra i popoli ..Qualcuno obietterà che in democrazia tutto è possibile...ma credo che per il suo contenuto, un libro simile andasse presentato in altre sedi e non in una serata culturale, offerta all'intera comunità di cui fanno parte da anni cittadini di religione islamica. In un articolo apparso in rete, leggo di aggressioni verbali all'autore ...di accuse di razzismo...E' stato solo affermato che messaggi simili...possono acuire i sentimenti di avversione per un popolo, in un determinato e delicato contesto storico come quello che si sta vivendo oggi...Leggo che è stato addirittura reso necessario l'intervento del vicesindaco per smorzare i toni della protesta..., preciso che gli interventi sono stati fatti da un giovane studente e da un serio professionista, a differenza di ciò che è scritto...Ma quali toni avrebbe dovuto placare il vicesindaco? Ho solo ascoltato la sua condivisione ai contenuti espressi nel libro...che poteva pure fare da esponente, però, politico di un partito...ma quella sera lui rappresentava l'Istituzione...e sorge spontaneo chiedermi se le parole, espresse in occasioni di manifestazioni scolastiche organizzate all'insegna della solidarietà tra i popoli fossero davvero autentiche ...Non condividere un'idea o come essa venga presentata non significa ''aggredire''...Nessuno lo ha fatto, nè lo ha mai fatto!!! E mi rammarica aver sentito dire alla fine della serata, dallo stesso autore di aver raggiunto il suo obiettivo, cioè: quello di INDIGNARE. Forse sarebbe opportuno che l'organizzatore della serata facesse chiarezza, nel rispetto della verità!!! Ciò che leggo in questi giorni mi convince sempre più, che spesso volutamente, si scelgono le strade della non condivisione pacifica, della polemica a tutti i costi, dell'odio e soprattutto della distorsione della realtà... e come educatrice provo solo una grande delusione...e una grande amarezza...»

Intanto, sul suo profilo facebook, domenica Prisciano ha pubblicato: Splendida serata ieri sera ad Avetrana (TA), per la presentazione di “Nazislamismo”. Ringrazio gli organizzatori, le Autorità locali intervenute, il folto pubblico presente, ma soprattutto ringrazio quegli estremisti di sinistra che mi hanno offeso e calunniato: hanno confermato ancor di più che noi siamo dalla parte giusta, quella della Libertà. E per Essa sempre ci batteremo. #noinonindietreggiamo.

Oriana Fallaci, ex partigiana, ha combattuto l’Islam esattamente come combatteva il nazifascismo. Eppure, dalla sinistra è stata considerata una “traditrice”. Come si può spiegare l’antifascismo abbinato al filoislamismo della sinistra?

«La grande Oriana, che nel saggio in questione chiude con le sue citazioni ogni capitolo, è quasi da ringraziare per le grandi verità che tramandò a noi (oggi come ieri) poveri buonisti. Mi trovo perfettamente d’accordo con la Fallaci (e con i grandi autori citati poco fa): bisogna svegliarsi e rendersi conto che la nostra utopia (o quella di qualcuno …) ci farà ritrovare molto presto in una guerra dove non saremo padroni a casa nostra. La tolleranza è la base della democrazia; tuttavia, essa non deve mai tradursi nel buonismo relativista radical-chic, tipico della Sinistra Italiana di oggi. Aristotele diceva che “l’apatia e la tolleranza sono le ultime virtù di una società morente”. L’integrazione va bene, purché sia tale, ma ad oggi mi sembra che questa volontà non si sia mai palesata. “Integrazione” vuol dire adattarsi alle regole del Paese ospitante. Pericle (il “Padre della Democrazia”) se fosse vissuto ai nostri giorni si sarebbe sentito chiamare “razzista”, “xenofobo”, “omofobo” finanche “islamofobo”. La Sinistra italiana, tanto brava a sventolar bandiere rosse in piazza a difesa della libertà, non è capace di capire che l’Islam ne è oggi la più grande minaccia. Questo discorso è da farsi nei confronti dei “militanti” della Sinistra italiana; per i vertici, ci sono ben altri interessi dietro … ma questo è un altro discorso».

Esiste un pericolo terrorismo in Italia, oltre che in Europa?

«Ovvio! I numerosi arresti, le iscrizioni nel registro degli indagati nelle varie Procure italiane, nonché i bigliettini dell’Isis che girano sornioni e spaventosi su facebook, parlano chiaro. Smettiamola di dire “io conosco tizio che è mussulmano ed è una bravissima persona”: non si può (e non si deve) ragionare sulle eccezioni, soprattutto dinanzi a simili pericoli. Se ancora qualcuno si ostina a dire che non tutti i mussulmani sono terroristi, certamente dovranno darmi atto che, quantomeno, tutti i terroristi sono islamici».

Sarebbe pronto e disponibile ad un dibattito con Khalid Chaouki del PD?

Io sì … non so lui, semmai!»

·        Quelli che non vogliono la Croce ed i Presepi.

Che diritto abbiamo di abbattere gli abeti per festeggiare il Natale? Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Frondolino su Corriere.it. Per una volta non parliamo di animali, ma di alberi: anzi, dell’Albero per eccellenza, quello di Natale. A Roma, seguendo una barbara usanza in uso ormai da decenni, ne sono stati eretti addirittura due: uno comunale a piazza Venezia e un altro vaticano a piazza san Pietro. Il primo, quello comunale, era – bisogna usare il verbo al passato, perché parliamo di una creatura vivente che è stata uccisa – un abete del Caucaso (Abies nordmanniana) di quarant’anni alto quasi 23 metri: è stato abbattuto a Cittiglio, in provincia di Varese, e per trasportarlo i rami più grandi sono stati tagliati, numerati e impacchettati per essere poi rimontati a Roma. Viene invece dall’Altipiano di Asiago e ha qualche anno in più l’abete rosso (Picea abies) eretto in Vaticano: era alto 26 metri e aveva un diametro di 70 centimetri e, prima di essere abbattuto, viveva felice nei boschi del comune di Rotzo in compagnia di abeti bianchi, larici e faggi. Che diritto abbiamo noi di togliere la vita a piante così maestose, così straordinarie, così imponenti? Che diritto abbiamo di sradicare un albero dalla sua foresta, trasportarlo al centro di una città, addobbarlo di lucine sceme (quello di piazza Venezia, informa con orgoglio un comunicato stampa, «sarà illuminato con 80mila luci led accese ventiquattr’ore al giorno e decorato con mille addobbi tra sfere e cristalli di neve») e poi buttarlo in una discarica il giorno dopo la Befana? E che divertimento proviamo nel vedere il cadavere di un albero un tempo libero e rigoglioso reggersi artificialmente in una piazza impazzita di traffico? Le piante sono esseri senzienti, proprio come noi: ma siccome, diversamente dagli animali, non si muovono e non parlano, nella nostra sovrana e arrogante ignoranza pensiamo siano pietre. Senza di noi gli alberi vivrebbero senz’altro meglio: senza di loro, moriremmo in pochi mesi. E, soprattutto, sono esseri intelligenti: se non ci credete, leggete «Verde brillante», un entusiasmante saggio sulla sensibilità e sull’intelligenza del mondo vegetale scritto da uno dei maggiori esperti mondiali, il professor Stefano Mancuso, che all’Università di Firenze ha fondato e dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale. Le piante, spiega e dimostra Mancuso, hanno una personalità, possiedono i nostri cinque sensi ma ne hanno molti altri in più, si scambiano informazioni e interagiscono con gli animali. Per sopravvivere adottano strategie mirate, hanno una vera e propria vita sociale, sfruttano al meglio le risorse energetiche e alimentari di cui dispongono. Sono capaci di scegliere, imparare e ricordare, e sentono perfino la forza di gravità. Le radici sono in grado di decidere dove dirigersi in base alla presenza di acqua e nutrienti, e tuttavia non hanno occhi né nasi né radar. Le piante non hanno un cervello così come lo intendiamo noi, e neppure un sistema nervoso centrale, e tuttavia sono in grado di acquisire informazioni, elaborarle e scegliere di conseguenza grazie ad un sistema modulare che somiglia molto alla nostra internet: ogni «nodo» è indipendente dagli altri e sa fare (quasi) tutto, di modo che la pianta è in grado di funzionare, cioè di sopravvivere, anche se una sua parte significativa viene amputata. Certo, di fronte ad una motosega gli alberi non possono nulla, sono del tutto indifesi e cadono morti a terra. Intendiamoci: non sto dicendo che abbattere un albero per farci un tavolo o un armadio sia riprovevole o immorale. Così come mangiamo molti animali e molte piante, possiamo anche servirci di loro per ripararci dal freddo o abbellire la nostra casa. Naturalmente il taglio del bosco dev’essere regolamentato per evitare il disboscamento selvaggio, che in Italia è fra le cause principali delle frane e delle inondazioni sempre più rovinose, e per ogni albero tagliato sarebbe utile piantarne almeno un altro. Ma qui non parliamo di legname o di arboricoltura industriale: qui ci sono due abeti che hanno impiegato la bellezza di quarant’anni per crescere più alti di una casa sfidando il vento e la neve, il sole e la tempesta, che hanno vissuto per quasi mezzo secolo in un bosco, indisturbati dall’uomo e, per quanto ne sappiamo, felici di esserlo, che hanno respirato l’aria cristallina delle montagne assorbendo anidride carbonica e donandole nuovo ossigeno, e che improvvisamente, per un capriccio sciocco, vengono abbattuti ed esibiti come trofei in una città lontana che in un attimo si è già dimenticata di loro.

Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it l'11 dicembre 2019. C’era una volta il presepe… Che l’Occidente cristiano sia prossimo all’implosione, alla sua fine senza possibile remissione di peccati, l’ho intuito pochi giorni fa. Mi è accaduto esattamente a Napoli, capoluogo planetario d’ogni presepe che voglia e possa essere immaginato, concepito, messo in opera e così infine allestito da mani attente e provette. Tuttavia, senza nulla togliere agli artigiani che lavorano a ridosso del Vesuvio, devo aggiungere che certo genere di pii personaggi in miniatura brillano pure tra i Sassi di Matera, dove qualche settimana prima ho avuto modo di imbattermi in una bottega colma d’ogni dettaglio d’arredo presepizio, compresi i meloni gialli da appendere dinanzi alle ideali botteghe dell’anno zero dopo Cristo. Cosa sia esattamente il presepe nella nostra post-modernità è facile a dirsi: si tratta sostanzialmente dell’antagonista autoctono dell’albero di Natale, oggetto decorativo di derivazione statunitense, presidiato da un Santa Claus che, rosso o verde abbigliato, scampanella tra le sue renne e il carico di doni, faccione da Hemingway rimasto disoccupato o, pensando a noi, da Abatantuono, testimonial non meno gagliardo, il primo, della Coca-Cola, sfavillante al centro della pista di pattinaggio del Rockefeller Center di Manhattan, la stessa dove Snoopy volteggia lì sul ghiaccio. Questo e nient’altro. Poco male che perfino i sessantenni, già baby boomer, da sempre ignorino che si tratti di un prodotto d’importazione, convinti invece di poterlo associare alla tradizione perenne di dicembre. Tornando all’annunciata cessazione della civiltà d’Occidente, bene, è avvenuto esattamente nella storica strada partenopea dei presepi, San Gregorio Armeno, che la certezza del tracollo valoriale si è manifestata in modo netto. Con una statuetta, non meno votiva di quelle altre dei pastori, dedicata a Cristiano Malgioglio. Proprio Malgioglio, presente con solennità sugli scaffali a surclassare nella medesima fila sia un’Angela Merkel sia Giuseppe Conte oppure Salvini o il capocannoniere della locale squadra dalla maglia azzurra non meno antologizzato nella leggenda quotidiana. Con l’irruzione di Cristiano Malgioglio nel teatro del mistero festivo, ripeto, muore ogni possibile dibattito presente e futuro sul valore d’uso simbolico, allegorico e perfino sentimentale del presepe, o presepio, o che dir si voglia. Illusi e masochisti appaiono in questo senso sia il giornalista Mario Giordano, che sulla berlusconiana Rete4 ne allestisce quasi quotidianamente uno proprio in prima serata sotto il titolo davvero appropriato di "Fuori dal coro" con Maria Giovanna Maglie e Daniele Capezzone nel ruolo delle cornamuse sovraniste, più che di Maria e Giuseppe; a Giordano, si devono infatti queste parole riferite alle obiezioni non meno natalizie dello storico dell’arte Tomaso Montanari: “Fare il presepe? «Inaudita violenza». Chiedere di fare il presepe? «Razzismo». Anzi, «banalità del razzismo». Accidenti, non si smette mai di imparare nella vita: abbiamo appena finito di sentirci dire che la capanna con Gesù Bambino è una terribile offesa nei confronti delle altre religioni e che perciò va bandito dalle scuole; abbiamo appena finito di ascoltare parroci pronti a spiegare che il simbolo della tradizione cattolica va eliminato in quanto ipocrita”. E ancora, sempre chiamando in causa il laico prof: “Un uomo di cultura come Montanari conosce il valore degli aggettivi, quindi è chiaro quello che vuole dirci: non c'è mai stato niente di così violento sulla Terra come cantare Astro del Ciel in una terza elementare”. Oh, se solo entrambi sapessero che il presepe è ormai, nel migliore dei casi, come dire, un plastico di urbanistica fantastica, dove Gesù bambino e ogni altro suo protagonista sono semplici dettagli, simulacri. Nessun razzismo e nessuna banalità, dunque, semmai innanzitutto una piccola forma ingegneristica, da affiancare al Meccano, al Lego, ai plastici ferroviari oppure, se proprio volete vederci qualcosa di epico, alle battaglie di Austerlitz o, che so, di El Alamein, con tutti i personaggi, poco importa se angeli o ussari, schierati, posizionati nei punti esatti. Credeteci, così va immaginato, fuori da ogni pregressa sacralizzazione: il presepe come teatro abitato da piccoli volti in scala, una forma artigianale e spettacolare che va perfino oltre il sincretismo culturale. Nel senso che perfino sempre nuove figure possono farvi la loro apparizione nonostante alcuni suppongono si tratti di un mistero sacro, fossero anche i Peanuts. Tuttavia, nel momento in cui vi giunge Malgioglio dovrebbe essere chiaro a chiunque quanto le parole di Benedetto Croce sul “perché non possiamo non dirci cristiani” abbiano cessato di avere senso, al massimo, sia a tutti chiaro, possiamo dirci “bricoleur”, amanti del bricolage, un po’ come i fissati con il modellismo aereo: Gaspare, Baldassarre e Melchiorre come Lindbergh, De Pinedo e Italo Balbo trasvolatori o forse perfino, per chi ne ha memoria, i capitani Bellini e Cocciolone della guerra del Golfo, o, restando in tema, come il Barone Rosso sia nella variante von Richthofen sia in quella di Snoopy sul tetto della cuccia trasformata idealmente nella carlinga del Sopwith Camel. Talvolta basta poco perché millenni di storia dell’Avvento, e della stessa incarnazione del cristianesimo, che è tale in quanto pone la propria presenza al centro della Storia, svanissero, e nessuno provi a supporre che dietro tutto ciò vi sia il trionfo della greve società dello spettacolo, no, c’è assai di meno e assai di più: a cominciare, ripeto, dal muschio artificiale, della carta stellata e su tutto del Bostik per fare il lavoro al meglio. Se solo ci ripenso alla scena iniziale de “La dolce vita” di Federico Fellini, dove un elicottero trascina nel cielo dell’Eur di Roma con i suoi attici eleganti la statua di un Gesù non più bambinello, sembra di scorgere anche in quel caso il gettonatissimo Malgioglio. Adesso mi credi quando dico che il sacro è ormai alla portata di tutti?

Ora il sito del Vaticano retrocede la Vergine a "leggenda". "La leggenda della Morenita", a scriverlo è stato Vatican News. Ma l'apparizione della Vergine in Messico nel 1531 è da tempo riconosciuta come reale. Giuseppe Aloisi, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Due giorni fa si è celebrata la Vergine di Guadalupe - protettrice del continente sudamericano -, ma Vatican News - il portale ufficiale del Vaticano - ha utilizzato l'aggettivo "leggenda" per descrivere la Nostra Signora, che per la Chiesa cattolica è apparsa in Messico, a San Juan Diego, nel 1531. L'evento è riconosciuto in via ufficiale. Un dettaglio, quello inerente alla definizione, che non è sfuggito a La Verità, che ne ha parlato nell'edizione odierna. L'espressione completa - quella usata sul sito sopracitato - è "la leggenda della Morenita". In molti, in specie tra i commentatori e gli analisti cattolici, hanno segnalato scandalizzati quello che potrebbe essere stato un vero e proprio svarione. La Vergine di Guadalupe non è altri che la Madre di Dio. Anche per questo motivo le parole pronunciate dal Santo Padre durante la ricorrenza hanno fatto discutere. Jorge Mario Bergoglio ha preso posizione sul dogma di "Maria corredentrice". Un dogma che alcuni, tra cattolici e teologi, vorrebbe adottare. Se ne discute da anni. La posizione dell'ex arcivescovo di Buenos Aires è chiara: nuovi dogmi sulla Vergine non servono. Pure Benedetto XVI era dello stesso parere. Ma non è questo il punto focale. Il Papa, durante l'omelia pronunciata a braccio, ha detto quanto segue, suscitando delle polemiche a mezzo social: "Ha voluto essere meticcia, si è mescolata ma non solo con Juan Diego, è diventata meticcia per essere madre di tutti, si è meticciata con l'umanità. Perché lo ha fatto? Perché lei ha ‘meticciato’ Dio e questo è il grande mistero: Maria madre meticcia, che ha fatto Dio, vero Dio e vero uomo, in suo Figlio Gesù". Una metafora? Un modo di sostenere ancora una volta il multiculturalismo? Le interpretazioni emerse dopo la pubblicazione dei virgolettati differiscono tra di loro. Di sicuro il Papa ha voluto difendere l'uguaglianza dei popoli. Ma le frasi del Santo Padre, in relazione all'accostamento del termine "leggenda" alla Vergine di Guadalupe, rischiano di passare mediaticamente in secondo piano. Se non altro perché una parte della stampa, in queste ore, si sta occupando del caso della "leggenda della Morenita". Su Vatican News, nel frattempo, è apparso un articolo intitolato: "Guadalupe: apparizioni vere, non leggenda". In Vaticano è da poco finito il Sinodo panamazzonico, che ha offerto la possibilità di parlare ancora di evangelizzazione nelle terre sudamericane. "Una Chiesa dal volto amazzonico" è uno degli obbietivi individuati dai padri sinodali. E proprio la Madonna di Guadalupe è considerata centrale per la trasmissione della fede cristiana in quella zona di mondo. Ma per qualcuno, e per qualche tempo, l'avvenimento del 1531 è stato equiparabile ad una "leggenda".

Il Papa: "Maria è madre e meticcia, ha reso meticcio anche Dio". Il Papa, in occasione della festa per la Madonna di Guadalupe, ha parlato del ruolo svolto dalla Vergine per rendere Dio "meticcio". Francesco Boezi, Giovedì 12/12/2019, su Il Giornale. Le frasi rilasciate oggi dal Papa durante la celebrazione della Madonna di Guadalupe, che è la patrona del continente sudamericano, sono destinate a far discutere. Oggi, Jorge Mario Bergoglio, ha detto quanto segue: "Si è meticciata per essere tutt'uno con l'umanità, Maria madre che riesce a fare questo meticciato con Dio, vero Dio e vero uomo". Il riferimento è appunto alla Vergine Maria, per cui il vescovo di Roma ha individuato tre caratteristiche utili alla definizione: "donna", "madre" e appunto "meticcia". L'ex arcivescovo di Buenos Aires ha anche fatto intendere come non siano necessari nuovi dogmi dottrinali. Ma non è tutto. Sempre il Santo Padre, durante le ritualità del caso, ha detto - stando all'Adnkronos - che la madre di Dio ha reso suo figlio meticcio. Un aggettivo - "meticcio" - che il Papa utilizza spesso per prendere posizione in favore del multiculturalismo e dell'accoglienza dei migranti. Qualche Natale fa, aveva fatto discutere l'asserzione secondo cui Gesù Cristo sarebbe stato figlio di migranti. Questo, secondo Vatican News, è il virgolettato completo: "Ha voluto essere meticcia, si è mescolata ma non solo con Juan Diego, è diventata meticcia per essere madre di tutti, si è meticciata con l'umanità. Perché lo ha fatto? Perché lei ha ‘meticciato’ Dio e questo è il grande mistero: Maria madre meticcia, che ha fatto Dio, vero Dio e vero uomo, in suo Figlio Gesù". Con le considerazioni odierne, è possibile che nasca una nuova bufera teologico-mediatica. Perché non tutti sono d'accordo con questi aspetti della pastorale di Bergoglio. Poi il riferimento al ruolo che le donne occupano all'interno della Chiesa odierna: "Quando cerchiamo il ruolo della donna nella Chiesa possiamo seguire la strada della funzionalità ma quello ci porterebbe solo a metà strada. La donna nella Chiesa va oltre, con questo principio mariano che maternalizza la Chiesa e la trasforma nella Santa Madre Chiesa. Maria donna, Maria madre. Senza altro titolo essenziale". In seguito alle dichiarazioni del pontefice, è arrivato un commento proveniente dal cardinal Marc Oulett, prefetto della Congregazione per i vescovi: "Non tutti capiscono le sue decisioni (del Papa, ndr) - ha detto il canadese - ma il popolo di Dio è incoraggiato".

Gesù è gay e ha un fidanzato. Monta la polemica per un film su Netflix. Monta la polemica in Brasile per un film in onda su Netflix in cui Gesù è omosessuale ed ha un fidanzato di nome Orlando. Pubblicata una petizione per la rimozione della pellicola. Rosa Scognamiglio, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Gesù è gay ed ha un fidanzato di nome Orlando. Una reinterpretazione omosessuale del testo biblico? In un certo senso, potrebbe esserlo. O almeno, lo è nelle fantasie artistiche del collettivo di sceneggiatori Porta Dos Fundo che ha realizzato una commedia satirica sulla la vita di Cristo, uomo di fede, certo, ma impegnato in una relazione sentimentale con uomo. Insomma, da Nuovo Messia a portavoce Lgbt, il passo sembrerebbe davvero breve. Il lungometraggio in questione , dal titolo "La prima tentazione di Cristo", è in onda in questi giorni su Netflix ed è rivolto – per ragioni puramente linguistiche – a spettatori di lingua portoghese. La trama è incentrata sul personaggio di Gesù (interpretato da Gregory Duvivier) che deve presentare il fidanzato Orlando (Fàbio Porchat) ai discepoli e alla sua famiglia. L'occasione è quella di un party a sorpresa organizzato per il suo trentesimo compleanno, che si terrà subito dopo il ritorno di Gesù di Nazareth dal deserto, dove è stato in pellegrinaggio per quaranta giorni. Sarà proprio durante la festa che il protagonista Gesù scoprirà la verità su suo padre. La pellicola è stata premiata con un Emmy come miglior commedia per Ser Beber, Não Ceie e sta sta già riscuotendo discreto successo di pubblico. Ma, come sovente accade in questi casi, non sono mancate le polemiche del caso. Se, infatti, molti spettatori hanno apprezzato il tono faceto della commedia, altri ne hanno disapprovato il contenuto dissacrante. Tanto da insorgere in massa. A tal riguardo, un utente ha lanciato una petizione su charge.org in cui chiedere la rimozione del lungometraggio poiché "offensivo nei confronti di tutti i cristiani". E le adesioni, ad oggi, sono già 7.800. Un numero esorbitante. Sulla vicenda si è espresso anche Edoardo Bolsonaro, figlio del premier Jair Bolsonaro, che qualche giorno fa ha manifestato il proprio disappunto con un tweet. "Siamo a favore della libertà di espressione – scrive – ma vale la pena attaccare la fede dell'86% della popolazione?". Più dura, invece, la linea del deputato Julio Cesare Ribeiro che ha incalzato la polemica. "In questo film – twitta anche lui – Nostro Signore Gesù viene mostrato come omosessuale. In più, i discepoli sembrano degli ubriaconi. Inammissibile! Si tratta di una presa in giro verso i cattolici e gli evangelici", sentenzia. Ovviamente, non è mancata l'immediata risposta della dirigenza Netflix che provato a quietare gli animi con una nota chiarificatrice riportata dal quotidiano O Estado De Sao Paulo. "Valorizziamo la libertà creativa degli artisti con cui lavoriamo e sappiamo che non tutti apprezzeranno questo contenuto. Diamo grande possibilità di scelta che include anche, per esempio, storie bibliche".

Collettivi choc: veglia blasfema. La Madonna circondata da preservativi. Dopo il party annullato per la Immacolata Con(trac)cezione, Link Bologna, Rethink e La Mala educacion tornano alla carica. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Dopo la festa (annullata) per l'Immacolata con(trac)cezione, i collettivi bolognesi tornano alla carica. Chi pensava di essersi liberato "dall'iniziativa più attaccata dalle lobby cattoliche e destre reazionarie", dovrà (purtroppo) ricredersi. In fondo al peggio non c'è mai fine. A Bologna per dopodomani è previsto il "Vegione per la contraccezione", pubblicizzato da una locandina in cui si vede la Madonna circondata di preservativi. Una provocazione volutamente blasfema. A organizzare l'evento "in onore della Santissima Contraccezzione" sono le stesse associazioni che avevano ideato la prima edizione, ma con qualche defezione. Ci sono La MALA educacion, Rethink - Collettivo di Economia e Link Bologna - Studenti Indipendenti (quella che sulla sua pagina Facebook condivideva entusiasta foto delle sardine in piazza). A quanto pare non sarà tra gli organizzatori Uni LGBTQ, che non appare nel nuovo evento lanciato online. La festa dell'Immacolata Contraccezione era stata annullata, dicono i diretti interessati, per un "cavillo burocratico" trovato dall'Ateneo Bolognese. Il party infatti avrebbe dovuto svolgersi nei locali di via Filippo Re, messi a disposizione dalla stessa Università (in piena notte e, in teoria, a cancelli già chiusi). Sono insorti il senatore Pillon, Salvini, il deputato FdI Bignami, Azione Universitaria e Student Office. Incassato il colpo, ora i collettivi puntano ad una festa che non potrà trovare l'opposizione dell'Unibo. I "percorsi di sessualità libera e consapevole" saranno rilanciati in piazza Verdi (cuore della vita universitaria, luogo di degrado e auto-definita antifa) "portando preservativi - veri, cartonati, disegnati o come volete - e con qualunque altro mezzo contraccettivo". I collettivi si scagliano contro i "neo-fondamentalisti e fanatici cattolici", contro "il clima di odio e bigottismo", contro "chi pratica l'obiezione di coscienza negandoci il diritto all'aborto", contro la "morale a senso unico" e chi "narra il femminicidio come un raptus". Come se il problema di quella festa fosse il parlare liberamente di contraccezione. Non sia mai, che lo facciano apertamente. Diverso è il discorso (e questo è il punto) se per discutere di sesso libero e responsabile si decide di deridere la figura regina del cattolicesimo. Maria, la madre di Gesù. Per meritare rispetto, occorre portare rispetto. La regola è semplice. I collettivi però non sembrano averlo capito, visto che si lamentano di chi li ha accusati "pubblicamente" di mancanza di riguardo nei confronti della religione. Era il minimo.

“Immacolata contraccezione”: il fanatismo liberal è ormai patologico? Cristiano Puglisi su Il Giornale il 10 dicembre 2019. Pare sia stato Roger Scruton a inventare, inteso in senso politico e culturale, il termine “oikofobia”. Il filosofo britannico, i cui saggi il sottoscritto non ha colpevolmente mai letto, vuoi per una pregiudiziale avversione a tutto ciò che sia anglofono, si riferirebbe criticamente a coloro che hanno paura (e dunque ripudiano) le proprie tradizioni e la propria identità. Tuttavia bisognerebbe forse analizzare questa paura da un punto di vista clinico. Medico. Psichiatrico. Sì, perché l’oikofobia (letteralmente “paura di casa propria”) è, in realtà e prima di tutto, un disturbo mentale. E, allo stesso modo, non può che essere una forma patologica collettiva quella che porta alla materializzazione di determinati fenomeni sociali, nel mondo anglosassone e nord-europeo assai più presenti rispetto all’Europa centro-orientale e mediterranea. Non è, per fare un esempio concreto, sana la rabbia manifestata da certe femministe contro il maschio bianco in quanto tale. Non è sana la violenza verbale espressa da gran parte dei “liberal” contro chi non la pensa come loro, gente colpevole soltanto di non ritenere un mero costrutto sociale o culturale caratteristiche degli individui invece legate interamente o in buona parte alla biologia come, per esempio, sesso ed etnia. C’è qualcosa di malato, delirante, perfino demoniaco nella cieca volontà distruttiva di ogni residuo identitario da parte di certi “attivisti” o “democratici progressisti”. Quelli che si infuriano e invocano la censura immediata ogniqualvolta qualcuno si permette di contestare la liceità anche etica di genitorialità omosessuale, utero in affitto e altre innaturali opere della tecnica contemporanea. Quelli che si eccitano all’idea di poter rimuovere il crocifisso da qualsiasi edificio pubblico o che, per non usare il termine “cristiani”, usano termini come “adoratori della Pasqua”. Quelli che chiedono (è accaduto davvero, a Cambridge) di escludere dall’insegnamento universitario le opere… degli autori bianchi per “decolonizzare” la cultura. Quelli per i quali l’accoglienza del migrante non è guidata da cristiana carità, ma da un sincero auspicio di annientamento dell’identico a sé. Una censura, quella invocata da costoro e dai loro simili, che assume sempre e comunque (all’apparenza) le vesti eleganti del “rispetto” e della “tolleranza”. Perché, si sa, “il diavolo non viene da noi con la sua faccia rossa e le corna. Lui viene da noi travestito da tutto quello che abbiamo sempre desiderato”. O, per citare l’ultimo Twin Peaks di David Lynch, “Il cavallo è il bianco degli occhi, ma oscuro all’interno”. E, infatti, quando qualcuno la contraddice, questa pseudo-tolleranza mostra la sua erinnica e distruttiva violenza, che poi è la sua vera e diabolica essenza. Che si manifesta nelle invettive e nei manifesti violenti alle manifestazioni contro i vari Putin, Trump, Salvini, Le Pen. Negli insulti alle forze dell’ordine dei centri sociali. Negli atti vandalici di black bloc e soci. In certa parodia piccata e sarcastica, presente quasi ogni giorno sui principali canali televisivi e sui social network. Una satira a tratti ossessiva. Perché, per i moderni oikofobici, la distruzione della propria identità, delle proprie radici e, a volte, dell’ordine in quanto tale è più di una missione. Si tratta, per l’appunto, di ossessione. Ma, dunque, si sta forse dicendo che il “liberal” contemporaneo è, in fondo, un malato mentale? No, certo. Ci sono ovviamente persone intellettualmente oneste e pacate, pronte al confronto. Ma, sebbene chi qui scrive non sia uno psicologo, e nemmeno uno psichiatra, pare piuttosto evidente che quelli (e non sono numero esiguo, in quella parte dello spettro politico) che istericamente rifiutano qualsiasi dialogo con un pensiero altro, quelli per i quali ogni tradizionalista o conservatore dovrebbe essere bruciato, se possibile non solo metaforicamente, sulla pubblica piazza, in qualità di nemico delle “magnifiche sorti e progressive”, presentino decisamente dei sintomi di disturbo. E, lo si conceda, anche un po’ disturbanti. Alcuni esempi? L’ultimo raccapricciante episodio arriva dall’Italia. Qui dei collettivi hanno ideato, per il prossimo 12 dicembre, un evento dal blasfemo titolo di “Immacolata contraccezione”. La locandina della manifestazione lascia poco spazio alla fantasia e ha, come prevedibile, generato polemiche. Senza, però, suscitare l’ondata di indignazione che sarebbe stata giusta e normale, in altri tempi. Già, perché quelli che una volta sarebbero andati incontro a un processo per decenza o ricevuto cure sanitarie obbligatorie oggi, invece, sono considerati esponenti di un’avanguardia. Concezioni malate, senza dubbio. Proprie di un’epoca altrettanto perversa.

Da repubblica.it il 6 dicembre 2019. Titolo volutamente e fortemente provocatorio, così come la locandina. "Immacolata con(trac)cezione", e l'icona della Madonna attorniata non da angeli o colombe ma da confezioni di preservativi. Sul party in programma domani sera, 6 dicembre, nei locali universitari di via Filippo Re "Lab deriva", a cura di alcuni collettivi fra cui Link e Mala Educacion si scatena l'ira della Lega, che chiama in causa il rettore Francesco Ubertini. "Guardate che schifezza- scrive sui social, rilanciando la locandina dell'evento, il senatore del Carroccio Simone Pillon- ecco cosa sono capaci di produrre i collettivi di estrema sinistra a Bologna. Scopro su Facebook che hanno organizzato un party blasfemo contro la Vergine denominato 'Immacolata contraccezione'. Offensivo per tutti i cattolici del nostro Paese e non solo. Il tutto per attaccare me, Salvini e Fontana. Quanto sono tristi. Che peccato vedere gente senza ideali, che porta avanti solo cattiveria, provocazioni, insulti e blasfemie disgustose. E meno male che sarebbero loro i combattenti contro l'odio. Guardatevi allo specchio, ragazzi". Polemiche che ricordano quelle scoppiate dodici anni fa. Era l'estate del 2007, il sindaco era Sergio Cofferati, e nel cartellone dello spazio Bolognetti al quartiere San Vitale spuntò un evento, patrocinato dal Comune, dal titolo "La Madonna piange sperma". Anche allora si alzarono polemiche, e non di poco conto, soprattutto da parte della Curia, con tanto di preghiere riparatrici a San Luca guidate dall'allora arcivescovo Carlo Caffarra. Un evento poi cancellato, vista anche l'ira del primo cittadino, e che tenne impegnata per un paio di stagioni anche la Procura bolognese, che poi decise di archiviare quelle "offese alla Madonna" non riscontrandovi reati, né vilipendio né bestemmia. La festa di domani si lega provocatoriamente alla immediata celebrazione dell'Immacolata concezione ma punta alla sessione invernale di esami universitari. "Gli esami sono alle porte e hai un'ansia della Madonna? Ci pensiamo noi- scrivono- mettiamo al bando la verginale santità mariana. E' arrivato il momento di celebrare l'Immacolata con(trac)cezione con un indecoroso party della Madonna". I collettivi invitano dunque a scatenarsi "contro i vari Salvini, Pillon e Fontana che vorrebbero limitare le scelte sui nostri corpi e le nostre vite". E concludono: "Ovviamente nessuno spazio a comportamenti fascisti, razzisti, omolesbotransbifobici, machisti, sessisti e killjoy".

Da ansa.it il 16 ottobre 2019. Un rosario digitale per pregare per la pace nel mondo che dimostra come "le moderne tecnologie possono essere di supporto alla preghiera". E' stato presentato in Vaticano Click to Pray eRosary (per la Pace nel Mondo), un nuovo strumento elettronico, connesso ad un'app omonima, che permette di recitare la tradizionale preghiera mariana con modalità innovative e adatte ai più giovani. eRosary è un dispositivo interattivo che può essere utilizzato come bracciale e si attiva facendo il segno della croce. L'app permette di accedere a un'audioguida, immagini esclusive e contenuti personalizzati sulla preghiera del rosario. Il dispositivo è costituito da dieci grani del rosario consecutivi, realizzati con ematite e agata nera e da una croce intelligente che memorizza tutti i dati connessi all'applicazione. Una volta attivato, l'utente ha la possibilità di scegliere tra pregare il rosario standard (tradizionale), un rosario contemplativo e diversi tipi di rosari tematici che saranno aggiornati ogni anno (di volta in volta per i giovani, per i migranti e i rifugiati, la Laudato si', le missioni, ecc.). Una volta che l'utente inizia a pregare, il rosario intelligente mostra la sua progressione mentre avanza sui diversi misteri e tiene traccia di ogni rosario pregato. "Pensiamo di proporre una delle migliore tradizioni spirituali della Chiesa con le migliori tecnologie attuali", ha commentato il gesuita francese Frederic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera del Papa.Vittorio Feltri in difesa del crocefisso: "Nessuno lo tocchi, vi dico io perché". Libero Quotidiano il 14 Ottobre 2019. Il crocefisso non può infastidire nessuno né offendere alcun sentimento religioso. È il simbolo del cristianesimo che, inutile nasconderlo, ha cambiato il modo di pensare degli uomini. Chi lo nega mente a se stesso o rivela platealmente la propria ignoranza. Da un paio di millenni infatti tutti diciamo «prima di Cristo» o «dopo Cristo». Significa che costui ha segnato la storia e i nostri destini. Il crocefisso è l’immagine drammatica del dolore, con le sue spine, e sorvoliamo sui chiodi, che solo a vederli fanno venire i brividi e l’angoscia. Non c’è nulla di più straziante di quei due pezzi di legno a cui è appesa agonizzante una persona. Essi suscitano pietà e rappresentano la solitudine della morte. Noi esseri viventi siamo consapevoli che Gesù torturato riassume la nostra tragedia: siamo gente povera, debole, in balia dei potenti, pronti ad essere venduti, traditi, martoriati. Per i cattolici Cristo è figlio di Dio, ma questo è indimostrabile. Per noi laici è comunque l’emblema di una ingiustizia perpetrata dai rappresentanti della politica che hanno barattato la coscienza allo scopo di non avere grane con le autorità. Anche per gli atei Gesù è un punto di riferimento morale e culturale. Fu lui a predicare di amare il prossimo come se stessi, e di porre al centro della esistenza l’obbligo di essere solidali con i nostri simili. Principi che resistono da secoli e secoli e che hanno modificato i rapporti tra i popoli. Fare una meschina guerra al crocefisso, ossia pretendere che venga abolito in omaggio ad altre fedi, equivale a combattere noi medesimi e la nostra vicenda terrena. Un mio amico prete, monsignor Mansueto Callioni, col quale da ragazzo giocavo a calcio nella squadra del suo seminario, un giorno lontano mi regalò una croce d’argento dell’Ottocento. E, quando recentemente ho fatto un trasloco, gli addetti al trasporto lo hanno gettato tra gli oggetti da scartare. Quasi quasi, poco cristianamente, li prendevo a calci. Vittorio Feltri

Crocefisso in aula? Fioramonti: «Meglio una cartina del mondo». Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 su Corriere.it da Valentina Santarpia. L’intervento del ministro dell’Istruzione: «Penso ad una scuola laica e che dia spazio a tutti i modi di pensare». Crocefisso sì, crocefisso no. La polemica in Italia periodicamente torna: in una società in maggioranza cristiana cattolica, ma sempre più contaminata dalle altre religioni, non è pacifico appendere il simbolo della Croce di Gesù sulla cattedra. Il neo ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ha però trovato la soluzione che potrebbe accontentare tutti, all’insegna della laicità e dell’educazione: «Meglio appendere alla parete una cartina del mondo con dei richiami alla Costituzione», ha detto intervistato a «Un giorno da pecora», la trasmissione radiofonica di Rai Radio 1. Il ministro ammette che «è un’altra di quelle questioni divisive che potrebbe attendere», ma lui pensa «ovviamente ad una visione della scuola laica e che dia spazio a tutti i modi di pensare». La questione del crocifisso in classe «è molto sentita in Italia. Ritengo - ha aggiunto Fioramonti - che le scuole non debbano rappresentare una sola cultura ma permettere a tutte di esprimersi». In passato qualcuno aveva ipotizzato la possibilità di integrare il crocefisso con altri simboli, musulmani o ebraici, in base alla presenza di bambini di altre religioni in classe. Fioramonti invece eviterebbe «un’accozzaglia di simboli, altrimenti diventa un mercato». E la foto di Mattarella? «Non penso che andrebbe bene - ha concluso - la foto del presidente della Repubblica, credo che nemmeno lui la vorrebbe». «Il crocifisso non è un elemento di arredo, ma la testimonianza delle radici del nostro Paese. La sua presenza sulle pareti delle aule scolastiche, contrariamente a quel che pensa il ministro Fioramonti, non impedisce di esprimersi agli studenti di altre culture e religioni, ma sta lì a ricordare che la laicità che il ministro liberamente rivendica è conseguenza diretta proprio delle radici cristiane dell’Italia e dell’Europa», obietta Mariastella Gelmini, presidente dei deputati di Forza Italia. «Ricordiamo al Ministro che, pur rispettando tutte le religioni, qui siamo in Italia ed è giusto che nelle aule ci sia il Crocifisso» per Paola Frassinetti, deputato di Fdi e vicepresidente della Commissione Cultura della Camera.

Crocifisso a scuola, il no di Fioramonti divide. Fioroni: "Patrimonio indisponibile". Le dichiarazioni del neotitolare dell'Istruzione ("Nelle classi meglio una cartina del mondo. Io toglierei anche le foto di Mattarella") riaccendono la polemica sui simboli religiosi. Insorge il centrodestra. Gelmini: "Non è un elemento di arredo ma testimonianza delle nostre radici". E Salvini: "Ma è un comico o un ministro". La Repubblica l'1 ottobre 2019. "Credo in una scuola laica, ritengo che le scuole debbano essere laiche e permettere a tutte le culture di esprimersi non esporre un simbolo in particolare". Queste affermazioni del ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti durante la trasmissione "Un giorno da Pecora" hanno riaperto una polemica storica tra i favorevoli e contrari al crocifisso nelle aule delle scuole italiane. Una controversia mai sopita tra cattolici e laici, che partì quasi un ventennio fa con una crociata da parte di Adel Smith, presidente dell'Unione musulmani d'Italia e del giudice Luigi Tosti, promotori di una battaglia anti-crocefisso. La Corte europea dei diritti dell'uomo, con una sentenza definitiva, nel 2011 sancì che il crocifisso poteva restare affisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Nessun provvedimento è stato pensato dal governo, tanto che il ministro ha premesso: "Il crocifisso a scuola è una questione divisiva, che può attendere". E ha chiarito: "Penso ovviamente ad una visione della scuola laica e che dia spazio a tutti i modi di pensare". Meglio perciò, secondo il ministro, "appendere alla parete una cartina del mondo con dei richiami alla Costituzione". Fioramonti si è detto contrario all'ipotesi di esporre nelle aule i vari simboli religiosi: "Eviterei l'accozzaglia, diventa altrimenti un mercato" e non è favorevole nemmeno alla foto di Mattarella nelle aule perché, a suo dire, "neanche il presidente la vorrebbe". Di parere opposto il presidente dei deputati Forza Italia Maria Stella Gelmini: "Il crocifisso non è un elemento di arredo - ha sottolineato -, ma la testimonianza delle radici del nostro Paese". E replicando direttamente al ministro dell'Istruzione ha aggiunto: "La sua presenza sulle pareti delle aule scolastiche, contrariamente a quel che pensa il ministro Fioramonti, non impedisce di esprimersi agli studenti di altre culture e religioni, ma sta lì a ricordare che la laicità che il ministro liberamente rivendica è conseguenza diretta proprio delle radici cristiane dell'Italia e dell'Europa". Gelmini si è infine augurata che il ministro "nella sua smania di tassare non proponga di introdurre un balzello a carico di qualche professore con un crocifisso al collo o di giustificare uno sciopero contro i dirigenti scolastici che hanno mantenuto il simbolo della cristianità all'interno degli istituti". Sulle stesse posizioni anche Fratelli d'Italia. "Ricordiamo al ministro che, pur rispettando tutte le religioni, qui - ha sottolineato Paola Frassinetti, deputato di Fdi e vicepresidente della commissione Cultura della Camera - siamo in Italia ed è giusto che nelle aule ci sia il Crocifisso. I fedeli di altre religioni devono per prima cosa rispettare i simboli della nostra fede, altrimenti, se ne sono infastiditi, nessuno li obbliga a rimanere qua". Lapidario il leader leghista Matteo Salvini su Twitter: "Prima l'idea di tassare merendine e bibite, adesso l'idea di togliere i crocifissi dalle aule: ma questo è un ministro o un comico?". E contro l'idea di Fioramonti si schiera anche l'ex ministro dell'Istruzione Beppe Fioroni, oggi nella direzione nazionale Pd: "So bene la fatica che si affronta a inizio anno scolastico in Viale Trastevere. Il ministro, di questi tempi, è sotto pressione: vive, se posso usare questo termine, un piccolo calvario. L'elenco delle urgenze sarebbe troppo lungo. Ci sono ragazzi disabili che non trovano accoglienza, altro che inclusione sociale e investimento sulla cultura. Basterebbe questo a farci riflettere sullo stato della nostra scuola. Il crocefisso nelle aule? Mi sembra opportuno ricordare che duemila anni di storia costituiscono un "patrimonio indisponibile" dell'Italia in quanto tale".

Crocifisso nelle scuole? La risposta a Fioramonti con una foto da Aleppo. La dura risposta del sacerdote al dibattito inerente il Crocifisso nelle scuole, riaccesosi dopo le dichiarazioni del ministro Fioramonti. Ecco la foto del simbolo religioso profanato dai terroristi diffusa da don Lazzara, da tempo impegnato a seguire le vicende in Siria. Federico Garau, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. L'ultima uscita del neo-ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti in merito alla presenza del crocifisso nelle scuole continua a far discutere, e dopo la fredda bocciatura della Chiesa, arriva la dura provocazione di don Salvatore Lazzara. Alle parole di Fioramonti, il quale giorni fa si è espresso a favore di una scuola laica, affermando che è "meglio appendere alla parete una cartina del mondo con dei richiami alla Costituzione" in quanto "le scuole non devono rappresentare una sola cultura ma permettere a tutte di esprimersi", ha voluto rispondere il sacerdote, che da tempo segue da vicino le drammatiche vicende in Siria. Lazzara ha voluto stroncare una volta per tutte le polemiche postando sulla propria pagina Twitter un'immagine decisamente forte. Si tratta di un Crocifisso dissacrato dai terroristi in un edificio di Aleppo, città nel nord della Siria. Lo scatto condiviso dal religioso è accompagnato da un secco commento."Questo crocifisso di Aleppo dissacrato dai terroristi è dedicato a tutti quelli che ritengono sia divisivo mostrarlo nelle scuole ma che poi alzano la voce quando gli usi alimentari dei musulmani non sono rispettati. Cristo rimane, i suoi nemici passano. Fatevene una ragione". Un intervento che ha ricevuto l'approvazione di moltissimi utenti, che si sono dichiarati in totale accordo con il sacerdote.

Il crocifisso per Toscani e la deriva della nostra cultura. Per il fotografo Cristo è "...uno magro, inchiodato...". Ormai in Italia si difendono più i valori degli altri rispetto a quelli della nostra cultura. E sarà la fine. Panorama il 3 ottobre 2019. "Il crocifisso mi fa impressione, uno magro, inchiodato...". Oliviero Toscani definisce così in una trasmissione radio il Cristo sulla croce, da due millenni simbolo della Chiesa ma anche della nostra storia e cultura. Un'opinione legittima dato che in Italia esiste totale libertà di opinione, anche se qui rasentiamo la bestemmia e come tale non la si può commentare. L'unico sentimento che suscita è sana compassione e carità cristiana. Ma bisogna chiedersi da dove nasca una frase del genere, quale sia il terreno culturale su cui poggia oggi il nostro paese andando al di là del personaggio e delle sue provocazioni. Perché qualche anno fa nessuno si sarebbe mai sognato di dire una frase del genere. Ma oggi, le cose sono cambiate. Non si può infatti non pensare ad altri piccoli fatti che, di per se sarebbero anche comici, ma che messi tutti assieme aiutano a mostrarci le cose per quello che sono. Prendiamo ad esempio la recente disputa sul tortellino di Bologna, doc, la cui ricetta è stata modificata su richiesta della Curia di Bologna che in occasione di una festa popolare ha fatto mettere nel ripieno il pollo al posto della mortadella e della carne di maiale per non offendere i musulmani. Pensiamo poi alle recite di Natale proibite, per non isolare, ai presepi nascosti se non tolti nelle scuole, sempre per non urtare e discriminare...Se si mettono insieme tutte queste cose il quadro è molto chiaro. In Italia stiamo facendo di tutto per rispettare al massimo (per alcuni troppo, per altri in maniera corretta e civile) le religioni, le tradizioni, le culture degli altri. Quello che però forse non vediamo o non vogliamo vedere è che contemporaneamente stiamo distruggendo la nostra di cultura, per motivi misteriosi. Attaccando per di più chiunque provi a tenere su certe cose la "barra dritta". Non sappiamo se sia buonismo o debolezza o tutte e due le cose messe insieme; sta di fatto che questa è la strada, questo è il terreno dove si poggia culturalmente oggi il nostro paese. Un albero con sempre meno radici (storiche e culturali) e, come tutte le piante deboli, destinato a crollare. 

Papa Francesco, lo sfregio alla tradizione dei suoi amici: cosa vogliono abolire, la rabbia di Antonio Socci. Libero Quotidiano il 16 Giugno 2019. Lo sfrenato attivismo di papa Bergoglio e dei vertici episcopali (la Cei), nella campagna elettorale delle Europee, aveva - com' è noto - un solo obiettivo: sconfiggere la Lega di Salvini. Memorabili due titoli del Fatto quotidiano: «Il papa è la vera opposizione a Matteo Salvini» e «Cei: "Votate tutti tranne Salvini"». In particolare dal Vaticano e dalla Cei si è cercato di convogliare i voti dei cattolici sul Pd, su Leu, su "Più Europa" di Emma Bonino (per la coincidenza di idee su Ue, migranti e altro) e pure sul M5S da quando Di Maio decise di fare campagna elettorale contro Salvini (un cardinale aveva confidato al Fatto che in Vaticano ormai «i Cinque Stelle sono di casa»). Com' è noto l' appoggio bergogliano ha portato questi partiti alla sconfitta (i cattolici hanno in gran parte votato Lega). Ma è significativo che proprio da questi stessi partiti, appoggiati alle elezioni da Bergoglio e dalla Cei, partiti che hanno posizioni molto laiciste sui temi etici, provengano i parlamentari che adesso hanno presentato una mozione al Senato in cui si propone di dare un colpo durissimo alla Chiesa Cattolica. Infatti a 90 anni dal Concordato del Vaticano con lo Stato italiano essi avanzano quattro proposte micidiali contro la Chiesa. La prima: abolire l' ora di religione nella scuola e sostituirla con un' ora obbligatoria di educazione civica. La seconda: chiedere formalmente di avviare con la Cei la procedura per rivedere i criteri di ripartizione dell' otto per mille che sono stati finora vantaggiosi per la Chiesa (è ovvio che si avrebbe una pesante penalizzazione economica per la Chiesa). La terza: rivedere le norme sull' Imu degli immobili della Chiesa. La quarta: dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea per il recupero dell' Ici non pagata dalla Chiesa negli anni passati. Si tratta di quattro colpi di maglio pesantissimi: nel primo caso cercano di colpire a livello spirituale e culturale, cancellando il cattolicesimo dalla formazione scolastica dei giovani italiani. Negli altri casi vanno a colpire quello che ai vescovi sta più a cuore (i soldi).

QUATTRO DURI COLPI. Ma - come dicevo - interessante è il nome dei parlamentari che hanno firmato tale mozione, perché provengono da quei partiti che sono stati votati dai cattolici di obbedienza bergogliana. Questa mozione - che nasce da un appello lanciato a gennaio da un dirigente dell' associazione Luca Coscioni (vicina al partito radicale) fatto proprio da associazioni laiciste come l' Uaar - è stata depositata al Senato da Riccardo Nencini che è stato viceministro con Renzi e Gentiloni e nel 2018 è stato eletto nella coalizione di centrosinistra. La mozione è stata firmata da Emma Bonino, di "Più Europa", da Roberto Rampi e Tommaso Cerno (Pd), Maurizio Buccarella, Elena Fattori e Matteo Mantero (tutti M5S), Loredana De Pretis (Leu) e Carlo Martelli (già M5S, ora gruppo misto). In tale mozione si spiega il motivo per cui intendono colpire così la Chiesa: «Tutti questi privilegi per la Chiesa Cattolica contrastano con la crescente secolarizzazione della società italiana dove i cattolici praticanti sono circa il 30% della popolazione e scendono al di sotto di questa percentuale tra i giovani». Non si capisce perché mai l' ora di religione, che già oggi è un' opzione facoltativa, sarebbe un privilegio della Chiesa. È una libera scelta di famiglie e studenti che evidentemente si riconoscono nell' identità cattolica in percentuali molto più ampie del 30% (vicine al 90%). Sarà interessante vedere cosa accadrà. È chiaro che Lega e FdI (come pure Forza Italia) difenderanno l' ora di religione spiegando che - nella formazione scolastica - è essenziale la conoscenza del cattolicesimo per capire la nostra storia, la nostra cultura, il nostro patrimonio artistico e spirituale. Così però si esporranno agli anatemi, venendo bollati da sinistra come «identitari» e «sovranisti». E siccome Bergoglio e la Cei - con la sinistra - da mesi tuonano contro gli «identitari» e i «sovranisti» cosa faranno le gerarchie? Difenderanno almeno l' ora di religione a costo di trovarsi con i cattivissimi «identitari» di Salvini e Meloni? O staranno con quei partiti che i vescovi hanno fatto votare e che fanno la crociata contro la Chiesa Cattolica - al contempo - esaltando Bergoglio come loro simbolo nella lotta contro Salvini?

CHI È CAMBIATO? È significativa la firma di Emma Bonino che è - in assoluto - la leader politica più benvoluta da papa Bergoglio. Fra la radicale, ultra abortista, e il papa argentino c' è un forte rapporto politico che non ha paragoni con altri leader italiani. Tutti ricordano la famosa e calorosa stretta di mano fra la Bonino e il papa, immortalata dai fotografi. Un gesto significativo che Bergoglio ha fatto sapere di negare a Salvini («non posso e non voglio stringergli la mano»). Il papa argentino inorridisce di fronte a un politico che si dice cattolico, che mostra un rosario e il Vangelo invitando la sua gente a pregare la Madonna. Invece Bergoglio stravede per la Bonino. Oltre alla stretta di mano, nel novembre 2016 le ha concesso addirittura una udienza privata (per parlare di immigrazione). Quella udienza privata che negò invece ai poveri familiari di Asia Bibi, venuti a Roma a cercare aiuto (e furono liquidati frettolosamente, fra tanti altri, in piazza san Pietro). Poi c'è stata addirittura una lode pubblica straordinaria. Bergoglio infatti, nel febbraio 2016, citò proprio la leader radicale e Giorgio Napolitano definendoli «i grandi dell' Italia di oggi». La Chiesa Cattolica di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, aveva sempre considerato la Bonino e il suo partito radicale come il nemico numero 1 essendo costoro i promotori di tutte le battaglie contro «i principi non negoziabili» (nemici come il comunismo). Con Bergoglio, la Bonino diventa invece la leader politica più esaltata dal papa. È cambiata la Bonino? No. È Bergoglio che è agli antipodi di tutti i papi precedenti. Che la Bonino non sia cambiata lo dimostra la mozione che ha appena firmato. D'altra parte è di queste ore la notizia secondo cui Bergoglio ha ricevuto in udienza privata una delegazione della Cgil guidata dal segretario generale, Maurizio Landini. Evidentemente a Bergoglio non importa nulla delle posizioni ultra laiciste che la Cgil ha su temi come l' aborto e le battaglie Lgbt. Lui va in sollucchero per le organizzazioni di sinistra. D' altra parte è lo stesso Bergoglio che ha ricevuto in Vaticano il Centro sociale Leoncavallo, che ha ricevuto più volte Evo Morales (quello che gli regalò la gradita scultura con Cristo su Falce e martello) e che - a Cuba - è andato a far visita a Fidel Castro a casa sua, conversando amabilmente con il dittatore comunista a cui teneva fraternamente le mani. Se si considera pure l' atteggiamento di estrema apertura che Bergoglio ha verso i regimi islamici e il regime comunista cinese, si può concludere che più che il papa dei cattolici è il papa di chi avversa i cattolici. Antonio Socci

Papa Francesco, Maria Giovanna Maglie durissima: "Ma chi si crede di essere?" Libero Quotidiano il 15 Giugno 2019. Oggi, sabato 15 giugno, Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata in Vaticano una delegazione della Cgil guidata da Maurizio Landini. All'ordine del giorno, immigrazione e lavoro. Un incontro che ha scatenato la rabbiosa reazione di Maria Giovanna Maglie, che picchia durissimo su Twitter: "Francesco e Landini contro le ideologie della paura e della divisione. Si rischiano derive autoritarie". La Maglie cita un passaggio del comunicato diffuso dalla Santa Sede dopo l'incontro. Dunque, la giornalista piazza il carico da novanta: "Questo Papa lascia senza parole. Chi si crede, Pio XII al tempo di Hitler?", conclude corrosiva.

Papa Francesco comunista? Non riceve Matteo Salvini ma la delegazione Cgil guidata da Landini. Libero Quotidiano il 15 Giugno 2019. Pare che Matteo Salvini non lo voglia riceve. Ma Papa Francesco trova tempo e modo per accogliere altri ospiti in Vaticano. Gli ultimi? Una delegazione della Cgil guidata dal segretario generale, Maurizio Landini, e della Flai-Cgil (il sindacato dei lavoratori agro-alimentari), insieme all’Associazione Romana Studi e Solidarietà, rappresentata dal Vice Presidente Manuel Sanchez, e al Presidente dell’associazione Elpis, oltre che direttore dell’Istituto Massimo, Padre Giovanni La Manna. Il gruppo è stato ricevuto in udienza privata dal Pontefice sabato 15 giugno. Landini ha illustrato a Papa Francesco le azioni di solidarietà, tutela e promozione dei diritti del lavoro e di accoglienza nei confronti dei migranti. A sua Santità, Landini ha portato in dono la "Carta dei diritti Universali del Lavoro".

La Cgil in udienza privata dal Papa per parlare di migranti e lavoro. L'incontro in Vaticano. Papa Francesco e Landini contro "le ideologie della paura e della divisione": "Si rischiano derive autoritarie". Sergio Rame, Sabato 15/06/2019, su Il Giornale. Azioni di solidarietà, accoglienza degli immigrati e promozione dei diritti dei lavoratori. Di questo hanno parlato papa Francesco e la delegazione della Cgil durante l'udienza privata in Vaticano. Al Santo Padre il segretario generale del sindacato, Maurizio Landini, ha portato in regalo la Carta dei diritto universali del lavoro. All'incontro di oggi, insieme alla delegazione della Cgil e della Flai-Cgil, hanno partecipato anche l'Associazione Romana Studi e Solidarietà, rappresentata dal vice Presidente Manuel Sanchez, e il presidente dell'associazione Elpis, oltre che direttore dell'Istituto Massimo, padre Giovanni La Manna. A papa Francesco il sindacato e le due associazioni hanno illustrato le azioni di solidarietà che insieme hanno sviluppato nel corso del 2018 e che hanno portato a donare all'elemosineria vaticana, tramite il cardinale Konrad Krajewski, quattro tir di derrate alimentare da donare ai più poveri. Durante l'udienza privata Landini ha illustrato a papa Francesco tutte le azioni di solidarietà, di tutela e di promozione dei diritti dei lavoratori, di accoglienza nei confronti degli immigratiche il sindacato ha sviluppato e ha intenzione di incrementare nel progetto Sindacato di strada di cui la Flai-Cgil è capofila. A Bergoglio il segretario della Cgil ha confermato l'intenzione di proseguire la collaborazione con le due associazioni, allargandola anche ad altre "culture sindacali" per "incrementare la solidarietà nei confronti dei poveri, dei bisognosi e dei diseredati, a partire da azioni concrete e dal basso". Il Pontefice non solo ha approvato l'operato del sindacato rosso ma lo ha anche incoraggiato a continuare nell'opera di "rivalutazione del lavoro" e di "contrasto al considerare i lavoratori come merce". Nel corso dell'incontro, che entrambe le parti hanno definito "amichevole e cordiale", papa Francesco e Landini hanno stigmatizzato "le ideologie della paura e della divisione" e condiviso "il pericolo di derive autoritarie".

Matteo Salvini attaccato da Don Nando Ottaviani: "Allora sono comunista", come si è conciato il prete. Libero Quotidiano il 15 Giugno 2019. Ogni giorno spunta un prete che attacca Matteo Salvini. L'ultimo arriva da Coreglia Antelminelli, in provincia di Lucca. Si tratta di Don Nando Ottaviani, il quale mette nel mirino la politica dei porti chiusi del leader della Lega. Il Don, della sagrestia della parrocchia San Michele, lancia la sua provocazione facendosi fotografare con un grosso cartello in mano, cartello che recita: "Ama il prossimo tuo (cit. Gesù). Se questo vuol dire essere comunista, allora io sono comunista". Quell'"ama il prossimo tuo" si riferisce alla vicenda di Cremona, dove un giovane è stato aggredito dopo aver esibito a un comizio di Salvini un cartello con quella frase. Don Nando, per inciso, attacca il ministro dell'Interno anche per il crocifisso sfoggiato in campagna elettorale: "Gesù non ha mai imposto la sua parola , quindi se non l’ha imposta lui figuriamoci un uomo di Stato laico. Non sapendo nemmeno il significato di quel crocifisso. Povero cristianesimo, povero crocifisso. Attenti a essere cristiani di facciata". Amen.

Il cardinal Ravasi: «Sventolare il crocefisso? Rituale magico Cristo non sopporta ipocrisie». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it.

Cardinal Ravasi, lei è del 1942. Cosa ricorda della guerra?

«Luci rossastre nella notte: i bombardamenti su Milano». 

La sua famiglia è brianzola. 

«Sono nato a Merate, ma con mia mamma sfollammo a Santa Maria Hoè. Passai il primo anno della mia vita a piangere: lasciavo intravedere un’indole pessimista, diversa da quella di oggi. Papà era antifascista. Fu mandato a combattere in Sicilia in prima linea. Disertò, con molti altri. Tornò a casa a piedi, ci mise un anno e mezzo. Quando arrivò, faticai a prendere confidenza con lui. La compagna di giochi della mia infanzia era un’oca di legno: quando pioveva il sentiero diventava un rigagnolo, dove la portavo a nuotare. Non invidio ai ragazzini di adesso i loro videogame». 

La fede nella Brianza degli anni 40 era naturale.

«Se la domenica mattina qualcuno l’avesse sorvolata in elicottero, avrebbe visto i contadini e gli operai confluire da tutte le strade verso le chiese». 

Lei quando ha scoperto la fede?

«La prima intuizione, a quattro anni. Con mio nonno materno Giovanni, cui ero molto legato, guardavamo il tramonto da una collina che dominava la valle. Sentimmo il fischio del treno. Era il Milano-Lecco. Avvertii la percezione della fine delle cose. La malinconia. L’idea che la realtà è instabile. Il senso della morte. Da qui il desiderio di qualcosa di eterno». 

Ha mai avuto dubbi sull’aldilà, sull’immortalità dell’anima?

«Ho sempre concepito la fede come intrecciata con la tenebra, l’oscurità, la domanda, il dubbio. I modelli sono Abramo e Giobbe. Penso all’ascesa di Abramo al monte Moria, accanto a Isacco, il figlio da sacrificare: per tre giorni Dio non parla più, scompare, e i due parlano tra loro, “padre mio”, “figlio mio”; il solo conforto è la solidarietà umana, il legame della carne». 

E Giobbe?

«Giobbe dice a Dio: “Quand’anche tu mi uccidessi, io continuerò a credere in te”. Nella sua fede c’è un elemento paradossale. L’itinerario del suo credere può comprendere persino la blasfemìa. Giobbe accosta Dio a un arciere sadico che scaglia frecce contro di lui, a un leopardo che affila gli occhi su di lui, al generale trionfatore che gli sfonda il cranio». 

Cosa ne deduce?

«Che credere è un rischio. Fede e religione non sono sinonimi, anche se tra loro connessi. La fede è un’esperienza esistenziale, una scelta radicale. La religione è la manifestazione esteriore. Agitare il Vangelo, ostentare il rosario, baciare il crocefisso non fa di te necessariamente un credente». 

Quindi Salvini sbaglia?

«Sono segni che di per sé non rappresentano l’autenticità del credere. Cristo condanna chi prende i primi posti in sinagoga, chi allunga i filattèri, le pergamene con i versetti della Torah. Cristo perdona tutte le colpe, ma non sopporta le ipocrisie. Non esiste l’autosalvezza. Non ci si salva con le manifestazioni esteriori, ma con la profonda adesione alle scelte morali ed esistenziali. Non è il gesto rituale che salva. Il sacramento è “opus operatum”, atto oggettivo segnato dalla presenza divina, ma anche “opus operantis”, atto soggettivo, scelta vitale e morale. Altrimenti è rito magico. Magia». 

I cattolici in politica oggi contano poco.

«È difficile ricostruire una struttura, un’esplicita presenza cattolica. È però possibile e necessario essere una spina nel fianco della società. Non avere paura di andare controcorrente». 

Con la sua difesa dei migranti, il Papa non ha perso un po’ della sua sintonia con l’opinione pubblica?

«Il Papa parla da cristiano, la sua voce ci ricorda i nostri valori. Come diceva padre Turoldo, non dobbiamo inseguire il consenso, né il dissenso fine a se stesso; dobbiamo inseguire il senso». 

L’Italia è in crisi di fede?

«Sì. Tutti i grandi studiosi affermano il ritorno del sacro. Però il sacro può essere solo qualcosa di rituale, di esteriore, di convenzionale. Temo che il credere profondo sia in crisi. I veri credenti sono minoranza. Non dobbiamo e non possiamo pretendere di essere maggioranza, di gestire la società come è avvenuto in passato. Possiamo e dobbiamo essere, lo ripeto, una spina nel fianco, cioè una testimonianza viva. Come i cristiani delle origini, che si rifugiavano nelle catacombe ma non per questo rinunciavano a impegnarsi in pubblico. Noi oggi possiamo e dobbiamo provocare. Dire anche il contrario di ciò che è dominante. Cristo del resto è stato in cattiva compagnia: prostitute, peccatori, apostoli che lo tradiscono...». 

E muore sulla croce.

«La morte del sedizioso, del terrorista, dello schiavo. Sono convinto che la scelta del Cristo, e quindi la scelta della Chiesa, non sia adeguarsi al contesto, ma essere forza di provocazione, che grida innanzitutto le verità ultime — la vita e la morte, il bene e il male — ma anche le verità penultime: solidarietà, giustizia, etica sessuale, lotta al crimine... Il Vangelo autentico non è una cosa che si accoglie come un messaggio tranquillo. E il Cristianesimo non è una religione solo trascendente come l’Islam; è una religione incarnata. Ha sempre avuto una dimensione sociale e “politica”, nel senso originario del termine». 

Però oggi nel mondo esistono teocrazie islamiche.

«Sì, ma per l’Islam Dio è il sole, e tu sei una pozzanghera. A volte la pozzanghera può riflettere il sole; ma resta una pozzanghera. Per noi cristiani, il Dio trascendente ha deciso di condividere la nostra condizione. Non di consolare l’uomo, né di dominarlo; ha deciso di attraversarlo. Dio si è fatto uomo e ha condiviso con noi quello che ci rende umani: il dolore e la morte. Sorprendente è la rilettura dell’Incarnazione fatta da Jung: l’uomo Giobbe contesta Dio sull’oggettività dell’etica, dubita su cosa sia bene e cosa sia male; Dio si incuriosisce, e decide di mandare suo figlio, farlo diventare umano, spalla a spalla con Giobbe». 

Cosa intende?

«Cristo condivide la domanda di Giobbe: perché il dolore? Perché il male? Perché la morte? Ed ecco che la morte per noi non è più uguale a prima, se è stata attraversata da Dio». 

Come ricorda i suoi Papi? Pio XII?

«Avevo otto anni, lo vidi a Roma per il Giubileo del 1950, sulla sedia gestatoria. Una teofania del sacro». 

Giovanni XXIII?

«Lo incontrai brevemente una volta: parlammo di Bergamo, della Brianza, della provincia bianca lombarda. Ero stato in piazza San Pietro la sera dell’apertura del Concilio: il discorso della luna. Ci incantò. Ero appena arrivato a Roma con una borsa di studio che mi aveva fatto avere l’arcivescovo di Milano». 

Giovanni Battista Montini, che l’anno dopo sarebbe diventato Paolo VI. A Milano lei tornerà poi come prefetto dell’Ambrosiana, chiamato da Martini. Che ricordo ne ha?

«Martini era freddo nel tratto, caloroso e creativo nel dialogo con la cultura contemporanea. Fu mio insegnante di critica testuale, un argomento molto tecnico, che consiste nell’individuare tra i vari codici e papiri il testo più autentico della Bibbia. Si ricordava ancora l’esame che avevo sostenuto con lui, su una frase del secondo libro dei Maccabei, costruita su due verbi differenti secondo i diversi codici...». 

Com’erano davvero i rapporti tra Martini e Wojtyla?

«Avevano alcune visioni diverse. Non credo al concordismo assoluto. Fatta salva la verità di fede, esistono nella Chiesa prospettive diverse. Papa Benedetto lo sapeva, eppure mi affidò lo stesso il Pontificio consiglio per la cultura. Ho organizzato il Cortile dei Gentili in modo un po’ diverso da come l’aveva pensato lui, eppure me l’ha consentito e mi ha sostenuto. Ricordo bene le sue parole al telefono quando mi chiamò a Roma: “Devo chiederle un favore, so che per lei è un sacrificio lasciare Milano... se vuol pensarci qualche giorno...”». 

Lei cosa rispose?

«Di sì, subito. Anche se mi è spiaciuto davvero lasciare Milano». 

Com’è Milano? 

«Una città straordinaria, per socialità e generosità. Il recupero dell’Ambrosiana valeva 47 miliardi di lire: alla Chiesa non è costato un centesimo, li hanno pagati tutti i milanesi, dalla Fondazione Cariplo fino alle persone semplici, come quei genitori che mi pregarono di dare a un codice restaurato il nome del figlio morto di droga. A Roma, per salvare gli affreschi delle catacombe dei santi Marcellino e Pietro ho dovuto chiedere aiuto all’Azerbaigian. Al Centro San Fedele ho avuto per 22 anni almeno mille persone, ogni sabato di Avvento e di Quaresima, per la lettura della Bibbia. A Roma ne avrei cinquanta». 

Non crede che Bergoglio sia andato oltre quello che si attendevano i cardinali che l’hanno eletto, lei compreso?

«Francesco è stato una sorpresa. Quando entrammo in Conclave, in pochi si attendevano che dopo Benedetto sarebbe stato scelto — e in pochissime votazioni, non più del Conclave precedente — un tipo diverso di Papa, con una visione così innovativa. Tenga conto che tra noi in Conclave non si parla più di tanto...». 

Come mai?

«Il rito è lunghissimo. Ognuno viene chiamato per nome, deve prendere la scheda in mano, posarla su un vassoio d’argento, passare sotto lo sguardo severo del Cristo di Michelangelo, recitare una formula latina di “automaledizione”, in cui ci si augura il giudizio divino se non si compie una scelta secondo coscienza e per il bene della Chiesa. Non resta molto tempo per parlarsi. Qualche giorno dopo l’elezione di Francesco, incontrai sul Lungotevere un signore che mi disse: “Resto ateo, ma comincio a credere allo Spirito santo”». 

Però lei ha appena detto che l’Italia è in crisi di fede.

«È necessaria una profonda revisione della pastorale e del linguaggio, tenendo conto del nuovo contesto; pensiamo solo alla cultura digitale. Noi non facciamo abbastanza per i fedeli. È più semplice fornire una tesi cui aderire e imporre un rituale. Ma la fede implica formazione, riflessione, condivisione, comprensione». 

Lei cita spesso Agostino: «Chiunque crede pensa, e pensando crede. La fede se non è pensata non è nulla».

«Amo molto anche Spinoza, che nel suo Tractatus politicus scriveva: Sedulo curavi actiones humanas non ridere, non lugere, neque detestari; sed solum intelligere». 

Ho assiduamente tentato di imparare a non ridere delle azioni umane, a non piangerne, a non odiarle; solo capirle. 

«Intus legere: leggere dentro, conoscere. Noi non conosciamo solo con la ragione o con i sensi o con l’esperienza estetica. Quando uno si innamora, non si innamora solo della bellezza: anche un volto imperfetto diventa espressione di significati che non sono percepibili soltanto con la ragione. Sono stato amico di Mario Luzi, ho visto da quanta fatica, da quanti rifacimenti nasceva ogni suo verso: il poeta dice cose che non riesci a elaborare con la sola razionalità. Così è la fede: un altro canale di conoscenza che però non esclude appunto la ragione, il pensiero». 

Lei da biblista come immagina l’aldilà?

«L’immortalità dell’anima nella Bibbia quasi non c’è. C’è la ri-creazione dell’essere intero: la visione di Ezechiele». 

Gli scheletri che tornano in vita.

«Nel Cristianesimo la risurrezione della carne è centrale. Io non ho un corpo; io sono un corpo». 

Gesù resuscita Lazzaro, diventa popolarissimo, entra trionfalmente in Gerusalemme, e il Sinedrio lo fa uccidere.

«Ma la risurrezione di Gesù non è la stessa di Lazzaro, che rinasce alla vita per poi morire di nuovo. Risorgere non è rianimare un cadavere. La Bibbia usa tre verbi greci: egheirein, che significa risvegliare; anistemi, che significa levarsi in piedi; e hypsoun, che indica l’ascensione all’eterno e all’infinito. Rilke pensava la morte come l’altra faccia della vita, rispetto a quella rivolta verso di noi. La filosofia moderna non esclude affatto la possibilità di superare le frontiere del tempo e dello spazio, ed entrare nell’eterno e nell’infinito». 

Ma Gesù dice pure che nell’aldilà non ci saranno né moglie né marito, né fratello né sorella.

«Lo dice per confondere i sadducei, che volevano farlo cadere in trappola chiedendogli di chi sarebbe stata moglie nell’aldilà una donna rimasta vedova che avesse sposato i sei fratelli del marito. Ma noi, una volta risorti, ritroveremo le persone care dentro una nuova creazione, affidata al Dio dei vivi e non dei morti, come dice Gesù. Una frase che Pascal portava sempre con sé su un foglio cucito nel suo abito, con un breve commento intitolato Fuoco».

Vittorio Feltri, la verità dietro gli attacchi della Chiesa a Matteo Salvini: "La Madonna, Gesù e i Santi". Libero Quotidiano il 10 Giugno 2019. Sia chiaro, non sono mai stato anticlericale, anzi ringrazio gli oratori dove sono cresciuto e diventato adulto, ringrazio altresì monsignor Angelo Meli, che è stato per me un professore (una volta si diceva precettore) fenomenale, il quale mi ha insegnato tutto il poco che so. Quindi l'articolo che sto per scrivere non è un insulto alla Chiesa e ai suoi uomini, ma una lamentala che esprime un dolore. Mi sono accorto tardivamente che i vescovi ce l' hanno a morte con Salvini perché nei suoi comizi a un certo punto brandisce il rosario e bacia il crocefisso con la stessa passione con cui bacia la signorina Verdini, la sua morosa. Lo rimproverano come se commettesse un sacrilegio, tra un po' forse lo scomunicheranno, cosa che se toccasse a me non mi fregherebbe un tubo. Mentre a Matteo darebbe assai fastidio poiché è consapevole che i voti cattolici contano e pesano quanto quelli degli allocchi di sinistra. Ora però scopro (oggi pubblichiamo un articolo significativo in proposito) che in Puglia, zona San Giovanni Rotondo, dove Padre Pio continua ad affascinare il popolo dei fedeli, infuriano i commerci di Santini e generi affini. L'organizzazione, diciamo pure ecclesiale, è talmente professionale da fare concorrenza all'Esselunga. Vende più roba di un supermercato e consente alla Chiesa di incassare montagne di denaro. Nulla di male, per carità. Senza soldi è impossibile fare beneficenza. Il punto è un altro. I vari porporati, che attaccano la Lega perché ha un leader bigotto e dedito alla preghiera nonché a manifestazioni in favore del cristianesimo attivo, deplorando lo sfruttamento della religione a fini politici, scordano che lo scudo crociato fu fondato da don Sturzo, un sacerdote con i controcoglioni. Mi domando perché questi abbia potuto dominare l'Italia col suo personale partito cattolicissimo e, invece, Salvini non sia autorizzato a emularlo solo in quanto non ha frequentato il seminario. Il Vaticano e dintorni non penso abbiano il monopolio di Gesù, della Madonna e dei Santi, per cui cessino in fretta di vantare l'egemonia della terra e del cielo rivendicando il diritto di padroneggiare la materia spirituale quasi fosse una loro esclusiva. Salvini non vale meno di un curato anche se non è stato consacrato da un vescovo. La Chiesa si occupi pure dei propri interessi economici legati allo sfruttamento di Padre Pio, tuttavia eviti di proibire ad Alberto da Giussano di sbaciucchiare il crocefisso. Se Dio è di tutti, a parte me, lo è altresì del Carroccio e non soltanto dei parroci. Vittorio Feltri

Signa: crocifisso al seggio coperto con lo scotch. Polemiche per il gesto della presidente di un seggio, moglie del candidato del Pd. Panorama 10 giugno 2019. I fatti. A Signa, cittadina della toscana, la presidente di uno dei seggi elettorali impegnati nel ballottaggio copre con lo scotch il crocifisso presente nell'aula. Siccome le cose vanno spiegate per bene ecco che bisogna aggiungere alcuni piccoli particolari: la presidente del seggio in questione che ha messo lo scotch sul simbolo "della vergogna" è del Pd. La seconda è che è anche la moglie del candidato della sinistra in città. La terza è che la stessa ha motivato il suo gesto spiegando che "al primo turno in molti si erano lamentati della presenza del crocifisso, così ho deciso di coprirlo". Per la cronaca la cosa è durata poco perché sono stati molti di più quelli che si sono lamentati dello scotch rispetto a coloro che erano infastiditi dalla figura di Gesù sulla croce. La presidente infatti (investita dalle polemiche che grazie ai social hanno fatto in fretta il giro del web ed ovviamente del paesino vicino a Firenze) ha tolto i due pezzi di nastro adesivo... Questi i fatti. A leggere questa vicenda è evidente che la parola chiave sia "vergogna". Come uomini infatti tendiamo a coprire le nostre nudità, le cose che non ci piacciono in casa, gli errori domestici. Le cose di cui, appunto, ci vergogniamo. Qui però è diverso. Perché quel crocifisso è un simbolo, certo religioso, ma anche culturale. Un simbolo della nostra cultura (leggere qui il pensiero di un poeta, Davide Rondoni, proprio sui simboli ed il loro significato). Coprire quel Gesù significa non solo vergognarci di lui ma anche di quella che è la storia e la cultura degli italiani, siano cattolici o atei. Precisiamo che non è obbligatorio avere un crocifisso in classe e che coprirlo o toglierlo è assolutamente lecito. La preside di quella scuola (per fortuna) non l'ha mai fatto. La gente, la maggioranza anche in quel paesino da sempre di sinistra, non ne ha mai sentito il fastidio, o vergogna. Stai a vedere che forse l'unica cosa di cui vergognarsi siano proprio questi due pezzi di scotch. Forse se ne renderà conto anche la Presidente del seggio (e moglie del sindaco che ha vinto il ballottaggio).

Al seggio elettorale coprono il crocifisso con lo scotch. Polemica a Signa al seggio per il ballottaggio per il sindaco. Esplode l'ira della Lega: "Siamo sbigottiti: è un simbolo culturale". Giuseppe De Lorenzo, Domenica 09/06/2019 su Il Giornale. Alcuni criticano la forma, altri la sostanza. La legge non è stata violata, ma quel crocifisso coperto con lo scotch in un seggio elettorale non può non sollevare polemiche. In fondo siamo nell’epoca dei comizi elettorali col rosario in mano, della Cei poco attratta da Salvini e dell’eterno dibattito tra laicismo e tradizioni culturali. Gesù oscurato col nastro adesivo non è cosa che passa inosservata. Non stupisce dunque se qualcuno ha storto il naso entrando in quel seggio elettorale di Signa, piccolo comune nel Fiorentino dove oggi si vota il ballottaggio tra il candidato sindaco del Pd, Giampiero Fossi (sostenuto da Pd e liste civiche), e quello di centrodestra, Vincenzo De Franco (spinto da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia). “Quando sono arrivata al seggio - racconta a IlGiornale.it Irina, rappresentante di lista - la scrutatrice mi ha fatto notare che indossava un rosario. Mi ha detto di averlo messo in segno di protesta, perché la presidente aveva tappato con dello scotch il crocifisso sulla porta”. Nella foto (guarda) si vedono larghe strisce di nastro adesivo coprire il simbolo cristiano: una verticale, l’altra orizzontale. Sotto, coperto, il Cristo in croce. Inevitabili le proteste. “Sono andata a chiedere alla presidente il perché di una simile scelta - insiste Irina - e lei mi ha detto che per legge lo può fare”. In effetti, alcuni recenti pronunciamenti giudiziari vanno in questa direzione. In una sentenza della Corte di Appello di Perugia si legge che “tra ciò che la sala delle elezioni deve avere non è affatto menzionato o considerato il crocefisso” e quindi è opportuno che “la sala destinata alle elezioni sia uno spazio assolutamente neutrale, privo quindi di simboli che possano, in qualsiasi modo, anche indirettamente e/o involontariamente, creare suggestioni o influenzare l’elettore”. Croce compresa. “Effettivamente - ammette anche Filippo La Grassa, segretario Lega piana fiorentina - la polizia ci ha detto che forse non è il massimo, ma lo poteva fare”. Restano però le critiche politiche del Carroccio. “Sinceramente lascia sbigottiti - aggiunge - la volontà grottesca della presidente di seggio, per di più moglie del candidato sindaco del Pd, di coprire il crocifisso. Questo è un gesto di volgare miopia sì, ma anche gravemente offensivo della sensibilità della maggior parte dei signesi e degli italiani. È inaccettabile che chi dovrebbe rappresentare il popolo italiano nella sua interezza anteponga a concordati e leggi dello stato i propri personali convincimenti. Un gesto del quale dovrebbe solo vergognarsi”. Ovviamente non si fa che dibattere sul perché si sia deciso di non mostrare un emblema così innocente. “La presidente - confessa Irina - ci ha spiegato che in passato qualcuno si era lamentato perché non voleva vedere il crocifisso”. Dopo il polverone, il nastro adesivo è stato rimosso. Abbiamo provato a contattare il candidato sindaco piddino così come a raggiungere la presidente del seggio. Non appena possibile, saremo pronti a dar credito alle loro ragioni. Intanto, nell’attesa di sapere chi sarà il prossimo primo cittadino di Signa, la politica locale si divide su Gesù. “Non è giusto coprirlo - conclude Irina - Il crocifisso non induce a pregare. È solo il simbolo della nostra cultura”.

Papa Francesco, i veri numeri che sbugiardano il pontefice: l'accusa di Socci. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 28 Maggio 2019. Ormai sembra il bacio della morte. Tutto quello che Bergoglio tocca va in rovina. Nella Chiesa anzitutto (ed è evidente a tutti). Ma anche nella politica, che poi è la vera ossessione del gesuita argentino. Alle presidenziali americane si lanciò contro Trump (e a favore della Clinton) e Trump trionfò, mentre Hillary sprofondò. La stessa cosa è accaduta nelle presidenziali della sua Argentina e in quelle del Brasile. Due sconfitte brucianti per i candidati sostenuti da lui. Eguale disastro alle consultazioni in Colombia. Fece fare poi opposizione alla Brexit e sappiamo come è finita. Ormai si dovrebbe sfuggire l'appoggio di Bergoglio come una condanna sicura. In Italia il Pd dal 2013 ha seguito Bergoglio nella sua linea migrazionista. Così il Vaticano nel 2016 appoggiò il referendum costituzionale di Renzi e fu un tale disastro che il governo dello stesso Renzi crollò. Poi, alle elezioni del 2018, la chiesa bergogliana sostenne il Pd contro Lega e centrodestra e il Pd uscì a pezzi, precipitando al minimo storico, con le dimissioni di Renzi dalla segreteria. Alle elezioni europee del 2019, per fermare Salvini, il Vaticano ha instaurato un collegamento con il M5S, che è ultralaicista, ma a Bergoglio non importa: a lui interessava che Di Maio bombardasse quotidianamente Salvini. E Di Maio lo ha fatto. Un cardinale aveva confidato al Fatto quotidiano che in Vaticano «i Cinque Stelle sono di casa». Ebbene, anche per il M5S quello di Bergoglio è stato il bacio della morte: crollo e voti dimezzati. Così queste elezioni europee ci hanno consegnato un vincitore, Matteo Salvini, e due sconfitti assoluti: il M5S e Giorgio Mario Bergoglio. È evidente a tutti perché Bergoglio, dimenticandosi il sacro ministero del Vicario di Cristo, in queste settimane si è buttato anima e corpo nella mischia politica lanciandosi in una campagna elettorale sfrenata contro Salvini. Il vescovo di Roma ha trascinato anche la Chiesa italiana in un vortice di fanatismo antisalviniano che è arrivato fino al punto di permettere al Fatto quotidiano di titolare: «Il papa è la vera opposizione a Matteo Salvini». E anche: «Cei: "Votate tutti tranne Salvini"». L' Espresso, proprio nel giorno del voto, ha dedicato la copertina a Bergoglio, come eroe della Sinistra, lo "Zorro" che avrebbe dovuto spazzar via il leader leghista. Eloquente il sottotitolo: «Gli striscioni e le maschere. Il popolo della protesta e la Chiesa di papa Bergoglio che passa all' opposizione». Ha voluto trasformarsi in politico (umiliando la Cattedra di Pietro e scandalizzando milioni di credenti), dunque è giusto che Bergoglio venga ora valutato come politico: bocciato totalmente dal popolo e soprattutto dal popolo cattolico. In quanto politico è stato addirittura sfiduciato dai fedeli che hanno sfruttato questa occasione per far capire al Vaticano come la pensano sul papato di estrema sinistra che ha ridotto la Chiesa in condizioni penose e che vuole riempire l' Italia di immigrati (magari islamici).

INDIFFERENTE AL POPOLO. Lo svilimento del ministero petrino, lo svuotamento della fede a una dimensione tutta orizzontale, sociologica, da attivismo politicante di estrema sinistra, il concentrarsi esclusivo e ossessivo sui migranti, l' essere del tutto indifferente ai problemi del nostro popolo, tutto questo ha convinto la gente che l' attuale vertice vaticano - oltre a maltrattare i cristiani spesso con pessime espressioni - disprezzi gli italiani e, dopo l' episodio del cardinale elettricista, si è avuta la netta sensazione che non rispetti neanche lo Stato italiano e le sue regole. È stata un' operazione sconcertante. In queste settimane di massacri di cristiani nel mondo, di attacchi pesanti alla vita e di dati allarmanti che mostrano lo svuotarsi delle chiese in Italia, la gerarchia vaticana, infischiandosene di Dio, ha ritenuto di gridare allo scandalo per l' unica cosa per la quale avrebbe dovuto esultare: un politico che affida i destini d' Italia e d' Europa al Cuore Immacolato di Maria e che richiama la sua gente alla protezione dei santi patroni dell' Europa. La corte bergogliana è inorridita davanti a un rosario quasi come se ne avessero terrore. Bergoglio ha perfino fatto sapere che lui non stringerà mai la mano a Salvini: eppure aveva stretto calorosamente la mano alla laicissima e abortista Bonino e aveva accolto in Vaticano il Centro sociale Leoncavallo con altri centri sociali della sinistra sudamericana. In effetti il Bergoglio che inorridisce per il rosario baciato da Salvini in piazza è lo stesso Bergoglio che gradì (portandolo con sé) il dono del socialista boliviano Morales: la falce e martello con sopra l' immagine di Cristo. Non si scandalizzò e non insorse come ha fatto quando Salvini ha baciato il rosario. Se il messaggio di Bergoglio - tramite la Cei è stato (come sintetizzato dal Fatto) «votate tutti tranne Salvini», il popolo italiano e anzitutto il popolo cattolico ha risposto votando Salvini e bocciando Bergoglio e la Cei.

IL ROSARIO. Salvini lo ha capito e nei commenti a caldo, la sera di domenica, è tornato a baciare il rosario e a ringraziare la Madonna, proprio per ringraziare i tanti cattolici che gli hanno dato fiducia e per ribadire la sua convinta difesa delle radici spirituali dell' Italia e dell' Europa, che poi è la tenace battaglia per la nostra identità. Dopo che i catto-progressisti, in questi decenni, hanno tanto enfatizzato (a parole) il ruolo dei laici nella Chiesa, le gerarchie clerico-progressiste hanno invaso abusivamente il campo dei laici, la politica, e hanno fallito, venendo sonoramente bocciati dal laicato cattolico. Dunque adesso imparino dai cattolici. Apprendano umilmente la lezione che i laici, nel loro campo specifico, hanno dato alla corte bergogliana e alla Cei. Facciano mea culpa e chiedano scusa al popolo cattolico, che hanno tradito, e a tutti gli italiani. Tornino, queste gerarchie, a occuparsi della fede, di Gesù Cristo, e magari - invece di fare comizi - riportino per le strade delle città la Madonna pellegrina che un tempo servì anche per ricordare al popolo il pericolo mortale del comunismo (persecutore dei cristiani). Bergoglio e la Cei potrebbero chiedere a qualche laico di insegnare loro la devozione alla Madonna e ai nostri santi. Per esempio potrebbero chiamare Salvini a far loro lezione. Infatti, a quanto pare, la Madonna, tramite il popolo, ha risposto alla preghiera di Salvini benedicendone le intenzioni. Antonio Socci

Perché c'è una Chiesa che attacca Salvini? Il bacio al crocefisso alla manifestazione di Milano ha dato il via a opinioni ed accuse su cui Maurizio Belpietro ha detto la sua a Dritto e Rovescio su Rete 4. Panorama il 24 maggio 2019. C’è un politico che difende i temi della religione cattolica, che difende la famiglia, che difende il crocefisso e c’è una Chiesa che va contro questo politico, una Chiesa che dice di non votarlo, in realtà non hanno il coraggio di dirlo chiaramente ma poi lo dicono, perché stanno dalla parte degli immigrati. Ma vi sembra un paese normale? In un paese normale la Chiesa si occupa dei suoi fedeli, non di quelli che non sono fedeli, che hanno un’altra religione e che spesso hanno una concezione della religione e della libertà di religione ben diversa dalla nostra. Noi rispettiamo le altre religioni, qualsiasi altra religione tanto è vero che se qualcuno in questo paese volesse costruire dei templi per celebrare un’altra religione non è vietato. Altrove invece portare la croce è una reato, è un rischio, è vietato. Per questo non capisco come mai la Chiesa non stia dalla parte di chi interpreta un sentimento vicino ed attento ai valori cattolici, perché Salvini ha molte opinioni che si possono discutere tranquillamente ma sicuramente se c’è qualcuno che difende la nostra religione, i suoi simboli e la nostra famiglia è lui e penso che non vada osteggiato. Da giorni tutti ad attaccare Salvini per aver baciato il crocefisso alla manifestazione di Milano; sono intervenuti tutti: preti, vescovi, la Cei, mentre due giorni fa in Africa una suora è stata sgozzata, decapitata, una martire, ma la Chiesa non ne ha parlato, non ha raccontato la sua storia. Il problema resta Salvini che ha baciato il crocefisso; poi la Chiesa non capisce perché le chiese si svuotano. E poi, come mai non parla del maggior numero di morti nel mondo per la religione che sono proprio cristiani? La Chiesa oggi parla solo di immigrati, sempre e solo di quello, sempre per difenderli e dimentica tutto il resto. Senza un perché.

La Cei punge Salvini: "No a richiami e simboli religiosi". Il cardinal Gualtiero Bassetti, in vista delle elezioni europee, ha tuonato contro l'utilizzo di simboli religiosi in politica. Matteo Salvini non viene nominato, ma l'allusione è sottintesa. Giuseppe Aloisi, Martedì 21/05/2019, su Il Giornale. Il fatto che Matteo Salvini abbia ripristinato il rosario durante la manifestazione di Milano di sabato scorso non è piaciuto alla Cei. I vescovi italiani, in queste ore, sono riuniti in assemblea generale. Ieri papa Francesco ha inaugurato i lavori. Oggi è toccato al presidente dei presuli del Belpalese, al cardinal Gualtiero Bassetti, introdurre la plenaria ecclesiastica. Il ministro dell'Interno non è stato nominato esplicitamente dall'arcivescovo di Perugia, ma il riferimento è apparso chiaro quando il porporato italiano ha affermato che: "...non si vive di ricordi, di richiami a tradizioni e simboli religiosi o di forme di comportamento esteriori!". A riportarlo, tra gli altri, è stata l'Agi. Bassetti, insomma, sulla scia di quanto dichiarato a stretto giro dal cardinale segretario di Stato Parolin, ha messo qualche punto. Tra meno di una settimana, i cittadini italiani si recheranno alle urne per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo. Il vertice della Conferenza episcopale non ha affatto evitato di citare problemi inerenti all'assetto sovraistituzionale dell'eurozona. La riflessione centrale del suo intervento, però, ha riguardato l'Italia, che è stata accostata alla "fatica" di "vivere come comunità politica". Naufragato del tutto il progetto di dar vita a un "partito dei cattolici", la Cei, attraverso il suo presidente, ha invitato alla rivitalizzazione del "patrimonio" italiano. Nel contesto politico-culturale, europeo, insomma, c'è necessità che l'Italia reciti un ruolo più importante. Poi, ovviamente, sono arrivati il richiamo alle radici cristiane del Vecchio continente e l'appello sulla bontà dell'accoglienza dei migranti. Matteo Salvini, come detto, non viene citato, ma quando i presuli i presuli della Chiesa cattolica italiana predicano a favore di coloro che "sbarcano sulle nostre coste" non è difficile intravedere un'allusione sottintesa.

Famiglia cristiana “scomunica” Salvini. Durissime le reazioni della stampa cattolica dopo il rosario brandito dal ministro in piazza a Milano. Il Dubbio il 19 Maggio 2019. La prima “scomunica” arriva di mattina presto via facebook: “Rosari e crocifissi sono usati come segni dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto al passato: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio”. La firma è di Antonio Spataro, direttore di Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti. E il destinatario è il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che nel corso della manifestazione di Milano ha impugnato il rosario e invocato “il cuore immacolato di Maria che ci porterà alla vittoria”. Poi è stata la volta del segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin: “Io credo che la politica partitica divida, Dio invece è di tutti. Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso”. Ancora più duro il commento di Famiglia Cristiana: “Il rosario brandito da Salvini e i fischi della folla a papa Francesco, ecco il sovranismo feticista”, titola infatti il settimanale cristiano commentando la manifestazione di Milano della Lega. “Mentre Matteo Salvini esibiva il Vangelo come un amuleto e si affidava al Cuore Immacolato di Maria una nave carica di naufraghi riceveva il divieto di approdare a Lampedusa e l’Onu ci condannava per violazione dei diritti umani”, si legge. “Cos’altro manca per suscitare l’indignazione dei cattolici?””. Glaciale la replica del ministro dell’Interno: “Mi dicono che c’è su Facebook il direttore di un settimanale cattolico che mi attacca perché ieri ho osato parlare di Dio, del Papa, per parlare dei nostri valori, delle nostri radici, e aver mostrato un rosario. Io sono orgoglioso della nostra storia e delle nostre radici”.

Povera Chiesa: Allah sì, la Madonna no. Alessandro Sallusti, Lunedì 20/05/2019, su Il Giornale. Le gerarchie della Chiesa, a partire dal Segretario di Stato Vaticano Parolin, si sono scagliate contro Matteo Salvini per uso improprio della Madonna. Il leader leghista, sabato a Milano, aveva infatti esibito un rosario e chiesto protezione alla Vergine che, essendo lui in piazza Duomo, lo guardava dalla guglia più alta della cattedrale, probabilmente anche un po' perplessa. Quello che pensiamo delle spericolate avventure politiche e di certe frequentazioni di Salvini - cioè male - non lo abbiamo taciuto. Ma siamo altresì convinti che la Madonna, suo Figlio e il di Lui Padre, Dio, non siano proprietà privata del cardinale Parolin, né di Famiglia Cristiana o Civilità Cattolica, riviste sinistrorse auto proclamatesi portavoce del Verbo. Non siamo teologi, per carità, ma affidarsi pubblicamente alla Madonna non sarà corretto in punta di Scritture, ma da sempre è il cardine della religiosità popolare, sulla quale non i teologi, ma la Chiesa ha fondato la sua fortuna bimillenaria. Dobbiamo scomunicare gli sportivi che, entrando in campo, si fanno il segno della croce a favore di telecamera? Considerare profano che il presidente degli Stati Uniti, al momento del suo insediamento, giuri sulla Bibbia, pur sapendo che siamo di fronte a uno spergiuro? O cancellare dalla storia come eresia il fatto che Cristoforo Colombo abbia preso possesso delle Americhe «in nome di Dio e della Regina Isabella», dando vita, peraltro, alla prima tratta di schiavi della storia? Che quella di Salvini sia un'esibizione di fede furbetta è probabile. Ma non più di quella che la Democrazia Cristiana, con la benedizione della Chiesa, fece nelle prime elezioni della Repubblica (1948) quando adottò per la campagna elettorale lo slogan del grande Guareschi: «Nel segreto dell'urna Dio ti vede, Stalin no: vota Dc». A noi piace quell'Italia lì, quella di don Camillo e Peppone, che tirava dentro Dio nell'arena politica pur sapendo che il Signore non si fa prendere per i fondelli da nessuno. Adesso invece le gerarchie cattoliche pretendono l'esclusiva dell'uso del marchio. Per metterlo al servizio di chi vogliono loro, oppure per censurarlo al fine di non offendere Allah e i musulmani. Alcuni dei quali, in nome di quel dio, non sperano di vincere le elezioni, ma fanno stragi di cristiani. Povera Italia, povera Chiesa. È proprio il caso di dire, come Salvini: o Madonnina, pensaci tu.

Michele Serra per "la Repubblica" (17 giugno 2019). Magari è già accaduto, nella lunga storia della Rai, che qualcuno conducesse un telegiornale con un crocefisso a penzoloni sul petto. E dunque la figura della mezzobusta confessionale non è proprio inedita: però fa sempre una certa impressione. Si tratta del Tg2 (quello delle 13), privatizzato dal governo sovranista, con l'implicito logo Dio Patria Famiglia che incombe su ogni inquadratura. Con una compattezza formale che perfino memorabili tigì non blended, come Telecraxi e Telekabul, nemmeno si sognavano. Ma almeno per ipocrisia, almeno per uno scrupolo formale, almeno per fare finta che, tra gli utenti pagatori di canone, ne esista qualcuno che preferirebbe evitare i simboli religiosi al collo di chi esercita una funzione pubblica, ovvero di tutti: non si potrebbe cortesemente evitare? In Francia condurre un telegiornale con un crocefisso al collo, a meno che non si tratti di un'emittente religiosa privata con preti e suore nel palinsesto, sarebbe inconcepibile; forse anche un reato, perché è vietato ostentare simboli religiosi nei luoghi pubblici. Ma la Francia, si sa, è una nazione atea e corrotta, per questo destinata ben presto a cadere nelle fauci sovraniste. E poi non è il caso di buttarla sul piano legale, con tutte le norme e contronorme che già avvelenano la vita di noi tutti, compresi i conduttori di tigì. Buttiamola dunque su quel tanto di civile convivenza che ci rimane, ammesso che qualche scampolo sia disponibile anche per l'opposizione: amici del Tg2, che ne direste di sospendere almeno per i pochi minuti della messa in onda la vostra fervente battaglia? Basta infilare il crocefisso sotto la camicetta, badando che non urti il microfono.

Michele Serra per “la Repubblica” il 20 giugno 2019. Massone, satanista, servo dell'Islam. Sono alcune delle imputazioni leggibili nella raffica on line (innescata da un paio di giornalisti di destra, disonesti lettori delle mie parole e di conseguenza disonesti nello scrivere le loro) della quale sono bersaglio per avere sostenuto che non si dovrebbe condurre il tigì di un servizio pubblico (che è di tutti) con il crocefisso al collo. Concetto diventato, nella distorsione consapevole data in pasto al branco degli inconsapevoli (che non mi hanno letto, e non mi leggeranno mai), «Serra vuole vietare il crocefisso». Tout court. Venendo da una lunga storia di fede nella parola, ho sempre creduto (sbagliando) che decine di miei articoli contro lo spirito genocida del jihadismo, contro l'ebraismo ortodosso che sta teocratizzando Israele, contro il nazional-cattolicesimo polacco che confonde la croce con il filo spinato, e perfino contro l'iperateismo quando diventa a sua volta fondamentalista, bastino e avanzino a far capire a chiunque che non è mai "contro una religione" che si esercita lo spirito di laicità, ma a favore di tutte le scelte di fede che abbiano rispetto per le altre; e contro tutte le fedi che si arroghino il diritto di essere la sola lecita, e di prevaricare. Ma è un pensiero troppo complicato per essere capito dai bigotti. E difatti sono tanti i bigotti che, non avendo capito una mazza, digitano «gli piacerebbe, a Serra, una conduttrice con il burqa». E dunque, piuttosto che attendere le scuse dei fanatici di parte cristiana (povero Cristo) mi aspetto, in aggiunta, gli insulti dei musulmani oltranzisti, degli ebrei ortodossi, dei polacchi xenofobi e infine, forse, anche dei produttori di filo spinato.

COSE MAI VISTE: FACCI IN DIFESA DI SERRA! Dagospia il 23 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Caro D’Agostino, l’Italia che chiama «satanista» e «servo dell’Islam» Michele Serra, solo perché ha scritto che non si dovrebbe condurre un Tg del servizio pubblico con al collo un crocefisso tipo suora (su camicetta bianca, poi) è la stessa Italia che caricaturizza ogni refolo vincente e lo trasforma in tornado: il Paese dei craxini, dipietrini, berluschini, renzini e ora Salvini. La questione del crocefisso è semplice: fu reso obbligatorio quando il fascismo dispose che la cattolica era la religione dello Stato dopodiché la Costituzione sancì l'eguaglianza delle religioni di fronte alla legge, sinché la revisione del Concordato del 1984 perfezionò il tutto. L'Italia da allora è uno stato perfettamente laico - dovrebbe esserlo - e quindi ogni simbolo religioso dovrebbe avere i diritti di ogni altro. Ne consegue che l'obbligo del crocefisso presto o tardi sparirà, come pure sparirà l'ora di religione configurata come è oggi, e sparirà il diritto delle chiese cattoliche di scampanare come altre non possono fare, e sparirà insomma ogni uso e consuetudine che non sia armonizzato con la lettera del diritto positivo. L'unica incognita è quando succederà: ma succederà - piaccia o non piaccia - come è destino di ogni tradizione che la legge non preveda espressamente. Il Tar e il Consiglio di Stato, quel giorno, smetteranno di attaccarsi alla mancata esplicita abrogazione di un decreto fascista del 1924. La Corte di Cassazione, da par suo, l’ha già detto più volte: nessuna legge impone la presenza dei crocifissi nei luoghi pubblici. La Corte di Strasburgo invece ha stabilito che la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche «è una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni»; una persona di religione non cattolica, allo stesso modo, potrebbe sentirsi a disagio nel sentirsi giudicata da un tribunale che dica «la legge è uguale per tutti» e intanto esponga un simbolo che privilegia un'identità precisa: qualcosa che è davvero arduo liquidare come «tradizione» o «cultura» in senso stretto o altri sinonimi-cazzate tipo «messaggio d’amore» come ha scritto Mario Giordano su La Verità, il quotidiano del Ku Klux Klan del Nordest. Il crocefisso rappresenta anzitutto una religione, poche palle. Ho letto, a sua difesa, che la mezzobusta Marina Nalesso si è avvicinata alla fede attraverso un percorso di sofferenza personale: ma a me che cazzo me ne frega? Legga le notizie, è pagata per quello. Da noi. Fosse per me farei come in Francia, dove è vietato esibire come trofei dei simboli religiosi, ma potrei anche tollerare che ciascun o indossi quello che vuole con certa discrezione e senza palese esibizione. La mezzobusta del Tg2 non ha fatto né uno né l’altro, con l’aggravante del servizio pubblico che ha utilizzato per esibire i cazzi suoi, cioè la sua fede religiosa e politica. Siamo riusciti a bipolarizzare anche il crocefisso: al punto che io preferisco scrivere a te piuttosto che scriverlo su Libero, che di recente ha difeso il diritto di Matteo Salvini, durante i comizi, di baciare tutti i crocefissi che vuole: questione effettivamente molto diversa. Ma capire che è diversa, e spiegarlo, pare che sia uno sforzo che i giornalisti e i lettori non sono più disposti a fare. Michele Serra ha ragione, ma questo, in questa fase storica, non conta abbastanza: sicché pochi, o nessuno, sono disposti a dargliela.

Palombelli contro Serra: "Assurda la polemica sul crocifisso in Rai". La conduttrice di Forum è intervenuta nella polemica sul crocifisso: "Accusare una collega della Rai per avere una catenina al collo mi sembra incredibile". Giorgia Baroncini, Venerdì 21/06/2019, su Il Giornale. "Ho liberamente condotto diverse trasmissioni con un crocifisso al collo". Così Barbara Palombelli è intervenuta nella polemica sul crocifisso in televisione. Tutto è nato da L'Amaca di Michele Serra. Il giornalista sulle colonne di Repubblica aveva infatti criticato la scelta di Marina Nalesso di indossare il crocifisso durante la conduzione di un'edizione del Tg2. La Nalesso era stata definita da Serra un "mezzobusto confessionale" che, addirittura, "fa impressione". Parole dure che hanno fatto sorgere non poche polemiche. E nel dibattito, compe riporta Libero, ha preso posizione anche la conduttrice di Forum. "Ne ho diversi, alcuni di famiglia, altri regalati, oppure comprati dalla mia amica Giovanna di Oro incenso e mirra. Qualcuno dice che avrei - in questo modo - anche io offeso chi non crede". "Capisco che scrivere rubriche ogni giorno è faticoso - ha attaccato la giornalista -, ma davvero accusare una collega della Rai per avere una catenina al collo mi sembra incredibile". Serra ha replicato alle critiche ricevute direttamente sulla sua Amaca. Chissà cosa dirà ora delle parole della Palombelli.

Barbara Palombelli Rutelli su Facebook, 21 giugno 2019. Ho liberamente condotto diverse trasmissioni con un crocifisso al collo... ne ho diversi, alcuni di famiglia, altri regalati, oppure comprati dalla mia amica Giovanna di oro incenso e mirra. Qualcuno dice che avrei - in questo modo - anche io offeso chi non crede... capisco che scrivere rubriche ogni giorno è faticoso, ma davvero accusare una collega della Rai per avere una catenina al collo mi sembra incredibile.

Barbara Palombelli Rutelli su Facebook, oggi, 5 luglio 2019. Michele Serra insiste. Però, nel continuare a scrivere che non si può condurre in tv con un crocifisso al collo, mi attribuisce frasi mai scritte e mai pronunciate. Qualcuno lo avvisi... fare il giornalista/moralista/satirico/ editorialista/autore tv è impegnativo e spero che si faccia aiutare a controllare meglio le sue fonti... io penso che si possa usare il crocifisso al collo tranquillamente, sia su un palco che in un tg o in un programma televisivo. Da credenti, da non credenti, da imitatori di Madonna. Penso che la croce sia un simbolo fortissimo. Ancora oggi portatrice di una infinita’ di sentimenti. Sono altre le cose che dovrebbero scandalizzarci.

Rubrica delle lettere de ''Il Venerdì - la Repubblica'', curata da Michele Serra il 5 luglio 2019. Lettere al settimanale: Caro Serra, ammiro la tenacia con la quale lei e Augias avete tentato di spiegare che non è affatto anticristiano chiedere di evitare di condurre un telegiornale del servizio pubblico con un crocefisso penzolante in primo piano. Nel pensiero binario dominante non vale ragionamento o pensiero articolato. O sei tifoso ultras di Cristo, o sei l' Anticristo, tertium non datur. La gazzarra che ne è seguita lo dimostra. Appeso alla croce, oggi, è soprattutto il pensiero critico: la famosa Ragione. È tradita e abbandonata come Cristo in croce. Ed è così sola che non ha più neppure i due ladroni ai lati. Caro Serra, solo per avere affermato una cosa ovvia, e cioè la laicità di un servizio pubblico, contro di lei è partito un fuoco di sbarramento da parte anche di personaggi che con quello che rappresenta il crocifisso hanno poco a che fare. Mi sono costretto a non guardare più quel tigì per il disagio che provo non per la croce, ma per chi la ostenta in quel modo. Si abbia tutta la mia solidarietà per quegli attacchi sgangherati. 

La risposta di Michele Serra: Con la stessa intenzione mi hanno scritto molti altri lettori - e li ringrazio tutti - per esprimermi comunanza di pensiero. Se ne è parlato, nei giorni scorsi, anche nella rubrica delle lettere di Augias. Devo dire di essere rimasto sorpreso non tanto per qualche schiamazzo imbecille: essere definito "satanista" mi ha fatto solo sorridere, al netto della pena umana che si prova di fronte a certe patologie fobiche. (Codicillo alla ben nota "emergenza per la mancanza di medici": servono anche psichiatri, e parecchi). Mi ha preoccupato, piuttosto, la bassa qualità delle reazioni "normali". Non quelle dei social, che contengono sempre un tasso fisiologico di violenza e di scemenza. Quelle dei media tradizionali, giornalisti, opinionisti, che con poche eccezioni (una è Filippo Facci), a quanto ho potuto leggere (non tutto, per fortuna) non hanno neppure fatto lo sforzo di capire, e dunque di far capire ai loro lettori, di che cosa si stava parlando. Mi domando se fatuità come quelle espresse dalla conduttrice televisiva Barbara Palombelli, tipo «che male c' è ad avere un ciondolo al collo», e pensierini congeneri («il crocefisso è simbolo d' amore, forse Serra è contro l' amore?»), non esprimano davvero, come scrive il lettore Lanterna, l' impossibilità di un vero confronto intellettuale su qualunque cosa. È in forse, in molti casi, la comprensione stessa del testo. Ognuno legge, in fretta, quello che gli pare e quello che gli serve. Si saltano molte righe. Si divorano parole senza masticarle, si digerisce male, si metabolizza peggio. Il rapporto tra laicità dello Stato e simboli religiosi è sempre stato molto dibattuto. La forte immigrazione musulmana in Europa, e la risorgenza degli integralismi di ogni genere, lo ha reso ancora più acceso. Servirebbe uno sforzo per confrontarsi con serietà e rispetto, facendo la fatica di capire che cosa dicono "gli altri". Vedi l' utile libro di Giancarlo Bosetti La verità degli altri, Bollati Boringhieri, che racconta la possibilità non teorica ma concreta, nelle sue manifestazioni storiche, della convivenza tra culture. Ognuno di noi è tenuto a fare il possibile affinché la società non diventi uno stadio gremito solo nelle due curve contrapposte. Tra l' altro, la partita si vede molto meglio dalle tribune più vicine al centro del campo.

Dagospia il 21 giugno 2019. POSTA! - MICHELE SERRA DEVE SPIEGARE A NOI POVERI ANALFABETI FUNZIONALI PERCHÉ MARINA NALESSO NON POSSA CONDURRE IL TG2 COL CROCIFISSO E INVECE SUMAYA ABDEL QADER POSSA PARTECIPARE AI CONSIGLI COMUNALI DI MILANO COL VELO…

Mario Giordano per “la Verità” il 19 giugno 2019. Ma come si permette? Condurre un telegiornale con un crocifisso al collo? Mostrare in tv un simbolo religioso? Per di più cattolico? È un' offesa alla «civile convivenza». Una cosa «inconcepibile». Da «evitare». Non ancora un «reato», ecco, ma in attesa che lo diventi, un gesto assolutamente da proibire. Insomma, giornalista del tg: nasconda in fretta quella croce dentro la camicetta. E la prossima volta che deve tirare fuori qualcosa da là sotto, provi con una tetta. Vedrà che darà meno scandalo. Lei è Marina Nalesso, conduttrice del Tg2. L' altro giorno, lunedì 17 giugno, alle ore 13, si è presentata in video con un crocifisso appeso al collo, come quello che hanno milioni di italiani. Come quello che probabilmente ha sempre portato sua mamma, sua nonna, la mamma di sua nonna, come si usa nelle famiglie cattoliche che, incredibilmente, continuano a considerare il crocifisso il più grande messaggio d' amore che sia mai stato lanciato. E non uno strumento di offesa. Lo vedete come sono strani questi cattolici? Davvero oscurantisti, retrogradi, passatisti. Inutili avanzi di Medioevo. Nel frattempo che si provveda all' uopo (cioè alla loro eliminazione) bisogna per lo meno cominciare a eliminare i loro simboli. Che almeno non si vedano. Via dagli ospedali (è successo pochi giorni fa a Chivasso), via dalle scuole (succede dappertutto), via dai seggi elettorali (è successo l' altra domenica in provincia di Firenze). E soprattutto via dal collo di chi appare in tv. In tv, come è noto, ormai si può mostrare tutto: simboli erotici, simboli sessuali, simboli che inneggiano alla droga, tatuaggi di ogni foggia e tipo, specialmente se un po' hard, mostri, teschi, draghi, cannabis varie, mutandine invisibili, feste transessuali e scritte demenziali. Tutto, ma non il crocifisso. Quest' ultimo (e solo quest' ultimo) infatti turba gli animi sensibili.

Non lo sapevate? Per fortuna gli animi sensibili hanno trovato il loro paladino nel noto opinionista interista e di sinistra Michele Serra che ieri, steso sulla sua amaca di Repubblica, ha tralasciato per un giorno di attaccare Salvini che mostra il crocifisso in piazza per attaccare Marina Nalesso che mostra il crocifisso al Tg2. Dev' essere un' ossessione per il giornalista, già direttore di Cuore e poi autore preferito di Fabio Fazio. «In Francia condurre un telegiornale con un crocifisso al collo sarebbe inconcepibile, forse anche un reato», ha scritto. E in nome degli «utenti pagatori di canone» ha invitato la «mezzobusta confessionale» (sic) a «infilare il crocifisso sotto la camicetta badando che non urti il microfono». Ovvio, non deve urtare il microfono. Altrimenti, se urtasse, non si potrebbe tenere nemmeno sotto la camicetta. Bisognerebbe, come minimo, frantumarlo a martellate. O buttarlo nell' inceneritore. Stiamo aspettando da ieri reazioni sdegnate di garanti, authority, cdr, articoliventuno, senonoraquando, ordinideigiornalisti e affini per queste parole sprezzanti («mezzobusto confessionale»), allusive («se lo infili sotto la camicetta»), offensive e chiaramente censorie della libertà di culto e di pensiero. Ma, purtroppo, non abbiamo sentito nulla. Forse ci siamo distratti. Ma osiamo immaginare che cosa sarebbe successo se qualcuno avesse chiesto a una giornalista islamica di togliersi il velo dal capo per poter parlare davanti alle telecamere della Rai tv. Oso sospettare che il coro delle proteste non sarebbe passato inosservato, neppure ai più disattenti. Invece si tratta di un crocifisso. «Non si potrebbe cortesemente evitare?», domanda Serra. E bisogna pure ringraziarlo che lo domanda cortesemente. Almeno per ora. Marina Nalesso, del resto, è pure recidiva. Già alcuni anni fa, era al Tg1, cadde nello stesso peccato mortale: non nascondere il crocifisso prima di andare in onda. Per lei, mestrina di nascita, trevigiana di adozione, avvicinatasi alla fede anche attraverso un percorso di sofferenza personale, a questo punto non ci sono che due soluzioni: o abiura, si cosparge il capo di cenere e si inginocchia cinque volte al giorno verso l' amaca di Serra, in segno di pentimento. O la prossima volta, su quella camicetta bianca, ci mette un gigantesco zero. Che oltre a essere un simbolo finalmente all' altezza del commentatore di Repubblica, è anche l' immagine di ciò che diventeremo, a forza di voler cancellare ciò che siamo. Nel frattempo, per portarci avanti con il lavoro, senza più disturbare gli animi sensibili, gli «utenti pagatori di canone» e il loro portavoce Michele, ci premuriamo di consigliare a Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, di impartire un severo ordine di servizio: vietato indossare croci sopra le camicette, vietato indossare croci anche sotto le camicetta (caso mai urtassero il microfono), vietato indossare reggiseni a croce (potrebbero essere messaggi subliminali), vietato citare la Croce Rossa, la Croce Bianca e soprattutto la Croce Verde (evidentemente sovranista), proibire le espressioni tipo «croce e delizia» oppure «sei la mia croce», non citare mai il filosofo Benedetto Croce, non mostrare mai le bandiera della Svizzera, della Grecia, della Svezia, della Norvegia e della Finlandia, dove compaiono croci, evitare le inquadrature in cui si vedano chiese, cattedrali e campanili, quasi sempre sormontati da croci, e se possibile oscurare dalle immagini dei tg pure le farmacie, incredibilmente simboleggiate anch' esse da una croce. Lo si chieda cortesemente, per ora. In attesa che, come è ovvio, tutto ciò diventi reato.

Milano mette il velo. Cittadinanza onoraria alla paladina delle iraniane. Ma le donne con il volto coperto sono sempre di più. Alberto Giannoni, Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Milano mette il velo. Anzi, il niqab, la veste pesante (e spesso scura) che copre il volto e il corpo delle donne, nascondendole al mondo e negando loro un’identità. Milano mette il niqab, dalle vie del centro ai casermoni di periferia. Donne pesantemente velate da tessuti di pregio si vedono nel Quadrilatero della moda, in piazza San Babila e in via Montenapoleone, in quel pezzo di città che anche in questi giorni richiama turisti ricchi da ogni parte del mondo, compresi i Paesi del Golfo. Sono spesso saudite, accompagnate da facoltosi mariti vestiti sportivi e sono cariche di borse, risultato di uno shopping con alti livelli di budget. Sempre più frequenti, quasi una nuova moda, sono le «veline» semitrasparenti che si accompagnano al rigido niqab ma lasciano sperare nel passaggio a veli meno invasivi, o almeno fanno supporre una qualche attenuazione di una «regola» che in questi giorni di gran caldo salta agli occhi ancor di più. «Potremmo definirlo velo 2.0, si vede e non si vede - spiega Maryan Ismail, sufi ed esponente della comunità somala, da anni impegnata nella battaglia per la libertà delle donne musulmane - un timido passo probabilmente per girare in hijab. Mettere il velo così trasparente su un niqab significa forse volerlo abbandonare, per poi passare al hijab. Il velo davanti alla bocca è più semplice toglierlo con una specie di mix fra niqab e hijab. Le donne modificheranno i precetti attraverso una moda inventata, e poi inventeranno qualcosa per abbandonare anche il hijab rivisitandolo in chiave moderna. Noi attendiamo con speranza». Ma donne velate si vedono anche nelle vie dei quartieri più periferici, nell'altro «quadrilatero» per esempio, quello San Siro, o davanti ai casermoni delle case popolari ormai quasi interamente abitati da stranieri. Sono due mondi distinti, che non si toccheranno mai direttamente, molto più distanti delle poche fermate di metropolitana che accidentalmente li separano. Due mondi lontani eppure uniti da questo denominatore: le donne sono nascoste, prigioniere, non si devono guardare, sono «proprietà privata» di mariti abbigliati con bermuda e maglietta. In alcuni paesi europei si stanno adottando normative che regolano il velo. Ultima l'Austria. Dopo la messa al bando due anni fa di burqa e niqab negli uffici pubblici, e dopo lo stop stabilito a novembre per i veli negli asili come misura anti-indottrinamento religioso, a maggio Vienna ha vietato il velo nelle scuole elementari, approvando coi voti della maggioranza di centrodestra - ora andata in crisi - una legge che proibisce di «indossare indumenti religiosi che coprano la testa». Un anno fa anche la Danimarca ha approvato una legge che proibisce burqa, niqab e altri «veli» che coprano il viso. Ma tre anni fa anche la Regione Lombardia ha vietato il velo negli uffici: «Per ragioni di sicurezza è vietato l'ingresso con il volto coperto», si legge nei cartelli che impediscono l'accesso col volto «travisato» all'ingresso degli ospedali e degli uffici regionali. Sono accompagnati a simboli simili a quelli indicati dal codice della strada. Un casco integrale accanto a un passamontagna e a un niqab, appunto. Per quanto timidamente questa usanza cambi, il velo pesante imposto alle donne resta strumento e simbolo di oppressione. E Milano è la città che ha conferito la cittadinanza onoraria a Nasrin Sotoudeh, avvocata paladina delle donne iraniane, condannata a 33 anni di carcere e a 148 frustate. Alberto Giannoni

Vietato indossare il crocifisso in tv, l'ultima trovata dei laicisti. La giornalista Marina Nalesso indossa il crocifisso in diretta tv durante l’edizione del Tg2 e scoppia l'ira di Repubblica. Costanza Tosi, Mercoledì 19/06/2019, su Il Giornale. La giornalista Rai Marina Nalesso si si macchia di peccato. La sua colpa? Aver indossato il crocifisso in diretta TV, durante l’edizione del TG2. È bastato questo per scatenare le ire della rete e non solo. La conduttrice del Tg sovranista è andata in onda indossando il rosario. Lo stesso mostrato in piazza Duomo da Matteo Salvini, quello usato ogni giorno da preti e suore, monaci e laici per pregare. Un simbolo di pace e non di guerra, un simbolo che, certamente, non offende. Eccetto qualcuno, che ha dato sfogo alla polemica dalle colonne di Repubblica che non tarda a definire, la croce della giornalista, uno sfregio alla laicità nonché uno spot del motto “Dio, Patria, Famiglia… che incombe su ogni inquadratura”. Non è la prima volta che Marina Nalesso, che non fa affatto mistero della sua fede, attira le rabbie laiciste. La giornalista aveva già fatto vedere in passato, allora alla conduzione del TG1, il crocifisso e alcune medagliette della Madonna Miracolosa. Era accaduto nel 2016. Ad agosto del 2018 ha deciso di andare in video con un rosario al collo. E anche allora non mancarono sfoghi rabbiosi di blog e, addirittura, di telespettatori di altre religioni. “Un’offesa” tuonarono. Come se quel crocefisso potesse fare del male a qualcuno.

Questa volta ad essere affetto da cristo-fobia è Michele Serra. Il giornalista, dalle righe che compongono la sua “Amaca”, arriva a definire la conduttrice del TG2 un “mezzobusto confessionale” che, addirittura, “fa impressione”. E grida alla censura: “Non si potrebbe cortesemente evitare? […] Basta infilare il crocefisso sotto la camicetta, badando che non urti il microfono”. Scrive Serra, visibilmente offeso da Gesù. Dalle scuole agli ospedali, fino ai seggi elettorali, lo spazio concesso al Figlio di Dio appeso sulla Croce si restringe ancora. È accaduto a Firenze durante le elezioni, quando la presidente del seggio ha deciso di coprire la Croce con del nastro isolante per paura di offendere i musulmani. Ora vogliono sfrattare Gesù anche dal collo dei giornalisti. Ma questo avviene solo con i cristiani. Nessuna donna di religione musulmana è mai stata costretta a togliere il proprio velo, nessun ebreo a rimuovere dal capo la kippah, ma si chiede ai Cattolici di nascondere la croce. Così, la scelta di Marina Nalesso appare come una provocazione. Eppure, non c’è divieto nel nostro Paese che imponga alla giornalista di non testimoniare la propria fede, il proprio credo. La stessa Costituzione, inquadrando il nostro Stato come laico e aconfessionale, garantisce “la protezione della coscienza di ogni persona che si riconosce in una fede”.

Ma lo scrittore, simpatizzante della sinistra, non lo accetta. E con la sua condanna decide di mettere un limite alla libertà individuale di esprimere la propria persona, il proprio pensiero, la propria fede e religione. É forse questa democrazia? L’occultamento di un simbolo religioso si avvicina più alla censura delle vecchie e ormai passate dittature.

Tg1, nuove polemiche per Marina Nalesso in onda con crocifisso. La giornalista del Tg1 Marina Nalesso, dopo due anni, torna nuovamente al centro delle critiche dei laici che sui social la contestano di condurre l'edizione pomeridiana del telegiornale con addosso un crocifisso. Francesco Curridori, Giovedì 16/08/2018, su Il Giornale. Ci risiamo. La giornalista del Tg1 Marina Nalesso, dopo due anni, torna nuovamente al centro delle critiche dei laici e dei "laicisti" che sui social la contestano di condurre l'edizione pomerdiana del telegiornale con addosso un crocifisso. Ora i suoi oppositori tornano alla carica. "L'ostentazione dell'occupazione della #Rai da parte dia una fazione politica. Un affronto alla #laicità dello #Stato. Una grave mancanza di rispetto nei confronti de #cittadini. Se questi son cattolici autentici o carrieristi? #tg1 #Rai1 #Rai #ServizioPubblico #MarinaNalesso", scrive un utente su Twitter. A difenderla ci hanno pensato i cattolici ma non solo. "Non ho mai visto Marina Nalesso aprire e chiudere il #Tg1 facendosi il segno della Croce. E non ho mai ascoltato da lei, tra una notizia di cronaca e una di economia, recitare una giaculatoria. Ho buona memoria. Il Rosario sta bene dove sta!", cinguetta un altro utente di Twitter. L'ex deputato Daniele Capezzone, invece, scrive: "+Ultime follie a sinistra+ Sono notoriamente liberale e laico, non sospettabile di derive clericali di alcun tipo. Ma trovo allucinante che a sinistra se la prendano perché la (brava) giornalista Marina #Nalesso indossa il #crocifisso. Solo un talebano (laico) può offendersi". La Nalesso, dal canto suo, in un'intervista rilasciata lo scorso giugno a Cristiani Today, ha spiegato cosa significa per lei indossare il crocifisso:"Ci hanno inculcato in maniera strisciante che la fede vada vissuta privatamente. Ma questo è un controsenso, se una persona ha fede, è ciò che è in tutto ciò che fa, in ogni gesto, ogni piccola attenzione, ogni sorriso. Non può essere nascosta, nei gesti come nei simboli".

ORA NON SI PUÒ NEMMENO INDOSSARE IL CROCIFISSO DURANTE IL TG.  Marina Nalesso, mezzobusto del Tg1, è stata oggetto di forti critiche sui social network per essere apparsa in Tv con una catena al collo raffigurante l'immagine di Gesù. Ma che male può fare quel volto che appartiene alla nostra cultura anche a chi non crede? I campioni del laicismo dimostrano ancora una volta di essere solo dei censori: altro che libertà. Eugenio Arcidiacono su Famiglia Cristiana il 24/09/2016. Dopo essersi scagliati contro il crocifisso nelle scuole, i talebani del laicismo se la sono presa contro Marina Nalesso, giornalista e speaker del Tg1. La sua colpa? Aver indossato una collana con un crocifisso al collo. "La religione deve essere un fatto privato", ha scritto un internauta ripetendo la solita frase fatta. " Anche oggi al Tg1 l'arroganza di un rosario al collo della conduttrice. E' il Tg di una Tv pubblica e laica, non un Tg Vaticano", ha rincarato la dose su Twitter il radicale, ex consigliere Pd a Torino e sostenitore dell'Unione atei razionalisti Silvio Viale. Si fa davvero fatica a capire dove stia l'arroganza di mostrare in pubblico un simbolo d'amore e di civiltà come il Cristo. Ma se vogliamo restare a un ambito strettamente legale, giova ricordare a questi laicisti che in realtà vogliono solo censurare le libertà altrui, la sentenza della Corte di Strasburgo del 2011 che a larghissima maggioranza assolse l'Italia dall'accusa di violazione dei diritti umani per l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Oppure il titolo del libro del grande filosofo laico Benedetto Croce Perché non possiamo non dirci cristiani o le parole perentorie della scrittrice ebrea Natalia Ginzburg: «Non togliete quel crocifisso! C’è sempre stato. È il segno del dolore umano, della solitudine della morte, dell’ingiustizia. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo». Ma anche in rete, accanto ai messaggi polemici, ne sono arrivati anche tanti di solidarietà per Marina Nalesso, tra cui quello di Giorgia Meloni: "Ormai siamo all'assurdo. Il cristianesimo è parte della nostra cultura e della nostra storia di italiani e di europei, anche di chi è ateo o crede in un'altra religione". Da parte sua la conduttrice veneziana al sito Fanpage ha spiegato che lo fa  "per fede e per dare una testimonianza", anche se non può dire altro perché "a noi giornalisti Rai non è permesso rilasciare interviste senza l'autorizzazione dell'azienda". Che comunque non pare intenzionata a prendere alcun provvedimento contro di lei. Ma come funziona negli altri Paesi europei? Come al solito, in ordine sparso. Se in Norvegia i giornalisti non possono esporre alcun segno religioso, alcuni anni fa in Inghilterra, contro una giornalista della Bbc contestata per aver indossato un crocifisso non venne preso alcun provvedimento. 

A Pieve di Cento il crocifisso… fa paura! Marco Lomonaco il 30/04/2019 su Il Giornale Off. Chi ci legge sa quanto ci siamo spesi per sottolineare come parte integrante della nostra cultura sia essenzialmente connessa alla tradizione classica, giudaica e cristiana, senza voler però creare dei semplicistici steccati culturali. Ci siamo spesi per ricordare l’anniversario della morte di Giovannino Guareschi e vi abbiamo anche parlato di certe esagerazioni inutilmente anti-cristiane in ambito artistico. Conoscete anche la nostra idiosincrasia per il politicamente corretto, perché, citando Emanuele Beluffi che a sua volta cita Pietro Nenni, “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”, come in questo caso che vi raccontiamo. Ebbene, in nome di una malintesa pluralità delle visioni del mondo in Italia è successo anche questo: mettono delle tendine motorizzate per coprire le immagine sacre in chiesa. Questa non è una libera interpretazione di parole dette da altri, è proprio un virgolettato (“…c’è la possibilità con delle tendini amovibili che salgono e scendono di coprire, qualora sia in corso una cerimonia laica, i simboli religiosi“) che sta facendo tanto discutere in quel di Pieve di Cento (e in quel dei social). A pronunciare questa frase è stata Alessandra Moretti, consigliere regionale del Veneto, che, ospite di Paolo Del Debbio su Rete4 a Dritto e Rovescio, ha citato la suddetta proposta in un suo discorso, generando lo sgomento degli altri ospiti e del pubblico. Non l’ha presa bene l’opposizione cittadina e nemmeno Giorgia Meloni, che nella giornata di ieri ha ritwittato dal suo account l’intervento della Moretti definendo “delirante” la proposta del Sindaco della cittadina della provincia di Ferrara. Ma facciamo un passo indietro: quali simboli sacri vorrebbe coprire il Sindaco della cittadina emiliana e perché? Il progetto – ancora da approvare – andrebbe a installare delle tendine motorizzate volte a coprire immagini sacre, tombe e crocifissi all’interno di una cappella e di un cimitero di proprietà del comune, in modo tale che gli spazi possano essere utilizzati anche per funzioni laiche.

Il crocifisso è il simbolo più contestato ma dal significato fondamentale: testimonianza della nostra civiltà che lega l'umano e l'universale. Marcello Veneziani il 2 luglio 2019 su Panorama. Non c’è giorno che un vescovo, un prete o un opinionista non deplori l’esibizione del crocifisso in politica, nei luoghi pubblici o in tv. Il bacio di Salvini al crocifisso e al rosario, la croce al collo della giornalista Marina Nalesso nella conduzione dei tg, i crocifissi rimossi o rimessi nelle aule pubbliche: arriva la scomunica ai crociferi, con espressioni feroci e poco cristiane. Eppure dai tempi di Costantino e della croce come simbolo di vittoria, In hoc signo vinces, fino allo scudo crociato usato dalla Democrazia cristiana pure sulle schede elettorali, sono svariati secoli che la croce è usata in ambito non religioso ma politico, militare e civile. Senza suscitare scandalo, anzi godendo spesso dell’appoggio della Chiesa. È facile poi notare che il ribrezzo del clero e dei nuovi chierici atei è verso chi ostenta il crocifisso non riguarda, invece, chi offende, calpesta, ridicolizza, con parole, atti e leggi, la fede cristiana e i suoi ambiti primari: il diritto alla vita, la nascita e la morte, l’aborto e la blasfemia, la parodia del cristianesimo e la scristianizzazione. O chi ostenta altri simboli di fede o di appartenenza. Lo scandalo in nome di Dio del crocifisso esibito, ritenuta una profanazione superstiziosa e strumentale della fede, coincide curiosamente con lo scandalo del crocifisso nel nome del laicismo ateo, che non tollera simboli religiosi fuori dalle chiese e dall’intimità, come se i segni visibili della religione fossero il nuovo atto osceno in luogo pubblico. Si può esibire la propria sessualità ma guai a esprimere la propria religione, concordano atei e sacerdoti progressisti. C’è chi arriva persino a ipotizzare il reato di «crocifisso ostentato»...Ma non è della rabbia schiumante dei chierici che vorrei parlarvi, e nemmeno della «cristofobia» diffusa, ma di qualcosa di più profondo. Se eliminiamo dalla vita pubblica i simboli che derivano dalla nostra tradizione civile e religiosa, quali sono i simboli viventi e visibili della nostra civiltà, da cosa siamo collegati, qual è il linguaggio che ci unisce e ci distingue? Se togli la religione e la storia che a essa ha attinto, se togli la tradizione cristiana e umanistica l’unica universalità che ci resta è nell’incrocio tra la tecnologia e l’economia. Uniti dal web e dal mercato globale, e poi basta. L’Europa naufraga in questo vuoto pneumatico di simboli e lessico comune. Se rimuovi i segni della tradizione da cui proveniamo, che sono inevitabilmente legati alla civiltà cristiana e alla civiltà greco-romana, non abbiamo alcun orizzonte comune fuori dall’universo tecnico e consumistico. Scavando più a fondo, c’è un nodo cruciale che va ben oltre il gesto di Salvini e la stizza dei suoi detrattori. Che significato può avere oggi il crocifisso, qual è il suo messaggio più profondo? Ci sono due modi di intenderlo che convivono da secoli e sono la linea di confine tra fede e civiltà cristiana, tra cristianesimo e cattolicesimo. Per i primi il crocifisso è simbolo vittimario, per i secondi è simbolo identitario. Mi spiego. Per i primi, il significato proprio del crocifisso è di essere sempre e comunque dalla parte delle vittime, i deboli, i malati, i sofferenti, gli schiavi, i poveri, gli oppressi, i discriminati. Cristo muore in croce per loro, per salvare tutte le vittime passate, presenti e future da ogni violenza e persecuzione. È questa, secondo René Girard, l’eredità che ha lasciato il cristianesimo al mondo d’oggi, «la preoccupazione per le vittime» e con essa il ripudio di ogni guerra, violenza, persecuzione in virtù delle quali la vittima matura un diritto assoluto. Al cristianesimo che considera la croce come il supremo simbolo delle vittime, si oppone la tradizione cattolica, la civiltà cristiana, che riconosce nella croce il supremo simbolo identitario dell’Europa e dell’Occidente. Cioè il segno di riconoscimento di un mondo, di un’appartenenza comunitaria, di una fede trasmessa di padre in figlio. La prima è la religione del Figlio, si cura delle vittime e degli ultimi ed è protesa verso la santità. La seconda è la religione del Padre, si cura di trasmettere, educare, proteggere ed è protesa verso il sacro. È come se la prima visione della croce si fermasse al suo asse orizzontale che allarga le braccia al mondo; e la seconda si concentrasse sull’asse verticale, piantato in terra ma rivolto verso l’alto, con gli occhi al cielo.

Le due visioni sono esposte a degenerazioni simmetriche: la prima rischia di risolversi in una tensione umanitaria e terrena, di puro soccorso, in cui sparisce Dio, il senso del Mistero, la liturgia sacra, l’immortalità dell’anima e la fede ultraterrena. La seconda rischia di risolversi nell’osservanza formale di alcuni riti e di alcune regole, nella difesa della civiltà in pericolo e dei suoi assetti, fino a perdere il senso religioso e la carità. Nei fondali della nostra vita e della nostra cultura questa divergenza originaria si ripete, seppure nel contesto profano e irreligioso di oggi. La Chiesa di Bergoglio è schierata dalla parte delle vittime, salvo alcune vistose incoerenze: per esempio trascura le vittime delle persecuzioni anticristiane, i martiri, curandosi delle vittime più remote e non cristiane. O per esempio, quando nel nome del perdonismo, è più vicina a detenuti e criminali, piuttosto che alle loro vittime. E il Pontefice non sa e non vuole far da ponte tra le due visioni. È nell’aria uno scisma, ma ancora non sappiamo se sarà interno alla Chiesa e alla Cristianità o se spaccherà l’intera società. Lo scandalo della Croce.

Il Papa: riscoprire il presepe, farlo in case, scuole e carceri. Pubblicato domenica, 01 dicembre 2019 da Corriere.it.  GRECCIO (Rieti) - La grotta è aggrappata a settecento metri sul fianco dei monti Sabini, davanti si apre il panorama della piana reatina. È qui che San Francesco d’Assisi, di ritorno da Betlemme, allestì nel Natale 1223 il primo presepe della storia. Ed è qui che il primo Papa a sceglierne il suo nome ha voluto arrivare per pregare in silenzio e firmare la Lettera apostolica «Admirabile signum» sul presepe: «Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze…Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata». Nelle case e anche nei luoghi pubblici. È come se Papa Francesco si riappropriasse e rivendicasse nel modo più solenne - una lettera apostolica, a Greccio - il significato autentico di quel «mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano», sottraendolo alla retorica sovranista e ad ogni uso politico in Italia e in Europa. Il presepe «suscita stupore» e «ci commuove» perché «manifesta la tenerezza di Dio». San Francesco «realizzò una grande opera di evangelizzazione con la semplicità di quel segno: il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità», scrive il pontefice. Lo stesso arcivescovo Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione, scrive nell’introduzione al testo pubblicato dalla Libreria editrice vaticana: «Il presepe appartiene a tutti, non può essere strumentalizzato, perché quel bambino che tende le braccia si lascia abbracciare da chiunque si accosta a lui». Davanti al Santuario francescano di Greccio, Francesco viene accolto dal coro di decine di bambini con in mano dei palloncini colorati. «È Natale anche qui», cantano. Nella grotta Bergolgio resta a lungo a occhi socchiusi e capo chino, le mani intrecciate, muovendo appena le labbra. Il presepe «è davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare», scrive Francesco. «Fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi». Il Papa ricorda che «l’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme». E poi ripercorre, attingendo alle Fonti francescane, l’invenzione del Santo di Assisi: «Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti». È così «che nasce la nostra tradizione», spiega il Papa: «Tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero». Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, «ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, “ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia”». Nel testo Francesco spiega il senso dei «segni» del presepe. Il cielo stellato e il buio della notte ci dicono che «Dio non ci lascia soli» anche nella «notte della nostra vita». Le rovine dei palazzi antichi sono «il segno visibile dell’umanità decaduta» e mostrano che «Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario». I pastori «diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione». I mendicanti sono il segno che «i poveri sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi». Il pontefice conclude: «Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli».

"Vietato il presepe a scuola per gente arrivata in Italia l'altro ieri". La rabbia dell'assessore regionale Elena Donazzan per il provvedimento di un preside. Polesine24.it il 30/11/2019. In merito alla polemica sulla scelta della scuola di Zerman di Mogliano di non allestire quest’anno il presepe in classe l’assessore regionale alla scuola Elena Donazzan dichiara: “Quanto accaduto a Mogliano è vergognoso. La decisione del Preside di vietare il presepe non solo è irrispettosa nei confronti della nostra identità e della nostra tradizione, ma ha il chiaro obbiettivo di tranciare le nostre radici culturali a beneficio di chi è arrivato in Italia l’altro ieri, tutto questo in nome della laicità. E’ un segnale di sottomissione che non possiamo accettare. Il presepe rappresenta la nostra identità cristiana, è sinonimo di famiglia, maternità e pace ed è un simbolo riconosciuto universalmente.”  “Questa è l’ennesima dimostrazione - continua Donazzan – di faziosità da parte di chi dovrebbe invece fare gli interessi dei più piccoli e delle loro famiglie. La realizzazione del Presepe poteva essere un momento di condivisione tra tutti i bambini, soprattutto con quelli di altre nazionalità e di altre religioni che avrebbero avuto l’occasione di comprendere una parte importante della nostra identità per proseguire in quel percorso di crescita che li porterà un giorno a scegliere di essere italiani e a richiedere la cittadinanza”. “Invito le famiglie ad andare a scuola – conclude - e a fare il presepe insieme ai propri figli perché la scuola appartiene a loro e non a dirigenti e insegnanti che preferiscono vietare la pericolosa capanna di Nazareth piuttosto che donare alla scuola un presepe simbolo dei valori solidaristici della cristianità”.

Quando il presepe è vietato. In Terris il 2 dicembre 2018. Nelle scuole di tre località del Veneziano il divieto ha generato la protesta di genitori e alcune insegnanti. Nelle scuole di Favaro Veneto, Tessera e Dese, nel Veneziano, è stato vietato il presepe dai dirigenti scolastici. Il che ha fatto scoppiare la protesta dei genitori e di alcune insegnanti verso la dirigenza dell’istituto comprensivo. La preside avrebbe addotto la scelta alla mancanza di fondi. La Lega ha ricordato che esiste uno stanziamento della Regione Veneto di 50mila euro alle scuole proprio per realizzare i presepi di Natale. “Se davvero a Favaro Veneto una preside ha stabilito di vietare il presepe nella scuola si sarebbe davanti a un fatto preoccupante. Noi della Lega ci opporremo con fermezza” afferma il deputato leghista Alex Bazzaro, come riporta Orizzonte Scuola. “Se qualcuno ritiene di favorire i nostri bambini negando le tradizioni e la nostra cultura - osserva Bazzarro - deve evidentemente cambiare mestiere, e se qualcuno si sente infastidito dai nostri simboli di Natale e dalle nostre tradizioni, può sempre tornare da dove è venuto”. Bazzaro aggiunge di voler “contribuire economicamente per la realizzazione del presepe” nella scuola di Favaro. “Mantenere le nostre tradizioni religiose negli istituti del territorio - continua - è un nostro preciso impegno e lo dimostra anche il contributo messo dalla Regione Veneto”. Sulla stessa linea il consigliere regionale del gruppo ‘Zaia presidente’, Gabriele Michieletto: “Chi osteggia i presepi nelle scuole del Veneto - afferma - è contro la nostra storia e i nostri valori. Se, poi, questo diniego arrivasse direttamente da un funzionario scolastico il fatto sarebbe gravissimo”.

Natale, presepi che spariscono nelle scuole e canzoni senza Gesù. “Si fomenta intolleranza”, “No, una festa per tutti”. Come ogni anno arrivano le polemiche sulle iniziative troppo poco natalizie in alcuni istituti: da Vallo della Lucania a Milano a Castellammare di Stabia polemiche e accuse. Alex Corlazzoli il 17 dicembre 2017 su ilfattoquotidiano.it. Non c’è pace per il Natale nelle scuole italiane. Se in Veneto il consiglio regionale ha approvato una mozione per finanziare dal prossimo anno i presepi fatti nelle scuole c’è anche chi pensa di bandire le tradizioni, le recite con nenie che fanno riferimento a Gesù o persino di evitare l’uso del sostantivo Natale per la festa pre-vacanze. A far scalpore è soprattutto il caso di Vallo della Lucania finito sotto i riflettori a seguito di una lettera del sindaco Antonio Aloia a Nicola Iavarone dirigente scolastico dell’istituto “Aldo Moro” accusato da alcuni genitori di aver annunciato il proprio no alla realizzazione del presepe artistico e delle recite all’interno dei plessi. Il primo cittadino allarmato ha preso carta e penna e ha voluto chiarire: “Cancellare il presepe, con tutte le iniziative e i riti connessi al Santo Natale, che tradizionalmente si svolgono nelle nostre scuole, significherebbe cancellare la nostra identità. Ben venga una scuola interculturale, a tutela anche di credenze diverse da parte di studenti stranieri, come previsto dalla più recente normativa. Ma colpire gli emblemi del Natale non garantisce il rispetto di alcunché, non produce una scuola e una società accogliente”. Parole che sono state rispedite al mittente dal dirigente che intervenuto anche alla trasmissione “La Vita in diretta” ha ribadito che non c’è mai stata alcuna intenzione di bandire il presepe. Da Vallo della Lucania a Milano dove a far scoppiare il caos è stato il presidente del Municipio 2 Samuele Piscina, in forza alla Lega. Di fronte al volantino dell’istituto “Italo Calvino” che ha organizzato “La grande festa delle buone feste” si sono riscaldati gli animi. Piscina al “Corriere della Sera” ha dichiarato: “Così si smantellano le nostre tradizioni e i nostri valori, come se ce ne dovessimo vergognare. Il nome dato alla festa della Italo Calvino? Ridicolo, se non fosse triste. In questo modo si fomenta l’intolleranza verso la nostra cultura Dopo i presepi e i crocefissi, ora nelle scuole anche le feste della tradizione vengono ostacolate”. Dal canto suo la dirigente Dorotea Russo ha provato a spiegare le ragioni e in una lettera a tutto il personale docente e alle famiglie degli alunni scrive: “Si è pensato di organizzare una festa nel teatrino di via Mattei per accogliere “vecchie” e nuove famiglie della nostra scuola, scambiarsi gli auguri in vista della pausa natalizia e presentare de visu il percorso di formazione scuola-famiglia, sensibilizzando alla massima partecipazione. Il volantino è molto bello”. Clima poco natalizio anche a Castellamare di Stabia dove all’istituto “Basilio Cecchi” avrebbero scelto i canti della tradizione popolare e non quelli della fede cristiana. Intanto all’istituto comprensivo Di Capua nella stessa città hanno scelto di organizzare sotto le feste un convegno portando a scuola l’imam, due rappresentanti della comunità ebraica e il parroco. A Castelfranco Pandiscò, invece, i consiglieri dell’opposizione dopo aver presentato sulla questione una mozione respinta dalla maggioranza hanno scritto al dirigente dell’istituto “Don Milani” per chiedere che venga fatto il presepe a scuola. A buttare acqua sul fuoco è Antonio Affinita, direttore del Moige, il movimento italiano genitori: “A noi tutte queste polemiche sembrano patetiche. Va detto che ad alimentarle non sono mai persone di altre religioni ma presidi o docenti. L’inclusione parte nell’accettazione della diversità della fede religiosa. Nei Paesi Baschi Gesù diventa “Perù” e da qualche altra parte “Gesù è nato” diventa “l’inverno è arrivato”. Dobbiamo smettere di arrivare a dinamiche davvero ridicole. In queste ore stiamo ricevendo segnalazioni occasionali sul fatto che alcuni genitori notano l’assenza del presepe”. Netta la posizione del vice presidente dell’Associazione nazionale presidi, Mario Rusconi: “Certe tradizioni legate alla storia culturale del nostro Paese non possono essere liquidate con atteggiamenti manichei o apparentemente politicamente corretti”.

·        L’Islam e l’Italia.

Perché l’Italia non è stata colpita dai jihadisti? Giovanni Giacalone il 12 agosto 2019 su it.insideover.com. Lo scorso 18 luglio un articolo dal titolo “Is Italy immune from terrorism“, firmato da Robin Simcox sul sito analitico statunitense “Foreign Policy”, poneva alcuni interrogativi sul fatto che l’Italia non fosse stata colpita da attentati di matrice jihadista al pari di altri Paesi europei come Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio e Spagna. In particolare venivano indicati alcuni elementi che vengono spesso citati da istituzioni ed analisti per giustificare l’assenza di attacchi in suolo italiano, tra cui l’esperienza acquisita dall’intelligence di Stato e dalle forze dell’ordine durante i difficili anni Settanta (caratterizzati dal sanguinoso terrorismo di estrema sinistra e di estrema destra) e l’elevato numero di appartenenti alle forze dell’ordine, rispetto ad altri Paesi europei. L’articolo cita inoltre la creazione, nel 2003, del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo formato nel dicembre 2003, in seguito all’attentato di Nassiriya. C’è poi tutto un filone esplicativo che ricollega il fenomeno al basso numero di foreign fighter partiti dall’Italia per unirsi ai jihadisti in Siria e Iraq (circa 130) di cui pochissimi cittadini italiani e il basso numero di soggetti radicalizzati che hanno abbracciato l’ideologia jihadista, sempre in relazione ad altri paesi europei. In aggiunta, l’assenza di ghetti islamicial pari di quelli presenti in Francia e Gran Bretagna, il fatto che diversi leader di centri islamici collaborerebbero con le Istituzioni nel segnalare soggetti potenzialmente pericolosi e l’utilizzo delle espulsioni preventive di individui radicalizzati andrebbero a completare il quadro esplicativo. C’è inoltre un ulteriore elemento legato alla politica estera che vedrebbe nell’Italia un ruolo strategicamente meno rilevante rispetto ad altri Paesi, aspetto discutibilissimo, come evidenziato da Simcox, in quanto l’Italia è stata ampiamente attiva in Iraq, Afghanistan e Somalia.

Gli attentati e la presunta radicalizzazione limitata. Dal 2009 ad oggi gli unici attentati in suolo italiano catalogabili come “jihadisti” sono quello perpetrato il 12 ottobre 2009 dal cittadino libico Mohamed Game contro la caserma Santa Barbara (attacco che non causò vittime) e quello del 18 maggio 2017, sempre a Milano, quando l’italo-tunisino Ismail Tommaso Hosni aggredì con dei coltelli due militari e un agente della Polfer in servizio presso la stazione Centrale. In questo secondo caso non tutti concordano tra l’altro nel catalogarlo come “attentato islamista” nonostante il soggetto in questione avesse pubblicato sul proprio profilo Facebook filmati inneggianti all’Isis. Tutto ciò è sufficiente a delineare un contenuto tasso di radicalizzazione di stampo islamista e jihadista? Difficile crederlo. Senza mettere in dubbio l’ottimo operato delle forze di sicurezza italiane, bisogna infatti mettere in evidenza alcuni aspetti, primo fra tutti il falso mito secondo cui “in Italia non vi sarebbero ghetti islamici”; è infatti sufficiente fare un giro per certe zone di grandi città come Milano, Torino, Roma, Bologna, Padova e Napoli per rendersi conto che le cose sono ben differenti. Il quartiere di Porta Palazzo a Torino, le zone di Piazza Selinunte (dove nel dicembre 2016 venne arrestato un cittadino marocchino che progettava un attentato) e alcune parti di via Padova a Milano, così come Centocelle e Tor Pignattara a Roma (giusto per citarne alcune), assumono sempre di più le sembianze di ghetti a maggioranza islamica. Vi è poi tutta la componente pakistana presente nel bresciano, più volte finita nel mirino degli inquirenti anti-terrorismo. C’è poi il discorso legato al “limitato tasso di radicalizzazione“, aspetto più che discutibile, se non altro perché è veramente difficile misurare in maniera oggettiva dei dati del genere. Il fenomeno radicale è visibile nel momento in cui viene a galla o viene in qualche modo individuato, ma ciò non è affatto scontato. La radicalizzazione può infatti anche essere estesa e nel contempo silenziosa, senza necessariamente fornire segnali e può rimanere latente per anni. In che modo si può dunque affermare che in Italia il livello di radicalizzazione sia contenuto? Certamente non in base a un’assenza di attentati o a potenziali segnalazioni da parte di rappresentati delle comunità islamiche “consapevoli del fatto che i propri centri islamici sono monitorati”, visto che plausibilmente lo sanno anche eventuali soggetti estremisti. Non bisogna inoltre dimenticare i numerosissimi luoghi di culto islamici in territorio italiano, più di 1200 secondo un recente articolo di Panorama. Luoghi di culto islamici che spesso si dividono internamente a causa di differenti visioni ideologiche, politiche o organizzative, dando vita a nuovi centri. È possibile tenere efficacemente sotto controllo un fenomeno così dinamico, imprevedibile e in continua evoluzione? Che dire poi dei luoghi di ritrovo privati dove non tutti possono accedere? La situazione è ben più complessa di quanto appare.

La teoria della trattativa Stato-Islam. Lo scorso gennaio è stato pubblicato il libro della giornalista Francesca Musacchio dal titolo La Trattativa Stato-Islam nel quale l’autrice mette in evidenza alcuni interessanti aspetti e pone quesiti non banali in relazione alla minaccia jihadista in territorio italiano. La Musacchio parla della mancanza di atti ostili importanti (fino ad ora) da parte di cellule organizzate operanti, comunque, in Italia e si interroga sui perché, ipotizzando accordi o trattati di non belligeranza, magari ricollegabili a provvedimenti mai varati, come gli interventi nei confronti dei luoghi di culto irregolari e l’effettiva entrata in vigore del divieto di portare il niqab in pubblico. L’autrice tratta anche di quella mancata integrazione che genera spazi socio-culturali separati dove usanze difficilmente coniugabili con uno Stato laico vengono comunque tollerate. Un fenomeno che contraddice ampiamente quella teoria secondo cui in Italia si può stare tranquilli perché non ci sono ghetti islamici, teoria dall’intento rassicurante, ma ben lontana dalla realtà dei fatti. Insomma, è in vigore un possibile accordo simile a quello degli anni Settanta col terrorismo palestinese per salvaguardare l’Italia da possibili attacchi? Difficile dirlo e alcuni troveranno le ipotesi della Musacchio complottiste, del resto ne è consapevole l’autrice stessa: “È difficile rispondere in modo esaustivo e credibile alla domanda sugli attentati senza essere accusati di complottismo o peggio ancora di scarsa conoscenza dell’argomento”, affermava la stessa in un’intervista ad Analisi Difesa. In realtà i dubbi espressi dalla Musacchio sono più che legittimi e difficilmente catalogabili come “complottisti”, tanto più che l’autrice non ha pretese di fornire risposte, ma pone più che altro dei leciti quesiti e mette in evidenza alcuni aspetti che andrebbero senza dubbio approfonditi.

Da Anis Amri alle cellule operanti in Italia. Anis Amri, l’autore dell’attentato al mercatino di Natale di Berlino, veniva ucciso nella nella notte del 23 dicembre 2016 in uno scontro a fuoco con due agenti della Polizia di Stato nel piazzale della stazione dei treni di Sesto San Giovanni. Nel marzo del 2018, con l’operazione denominata “Mosaico“, veniva smantellata una rete legata ad Anis Amri e attiva in diverse province italiane. Nonostante l’uccisione di Amri da parte di membri delle forze di sicurezza italiane, non solo non vi furono atti di ritorsione da parte del jihadismo internazionale, ma non risultano neanche serie minacce in seguito al fatto.

La rete di Amri è solo una delle tante che ha operato in territorio italiano dagli anni ’90 ad oggi: basta pensare agli algerini del Gia attivi nel napoletano, piuttosto che ai tunisini “takfiri” operanti sempre in quegli anni nella zona di Bologna e Varese o agli egiziani della Gamaa al-Islamiyya presso il centro islamico milanese di viale Jenner, con tutti i relativi collegamenti con gli islamisti attivi in Bosnia contro i serbi durante il conflitto balcanico. Altre reti, ben più recenti, sono la “Rawti Shax”, sbaragliata nel novembre 2015 in Alto Adige e legata al mullah Krekar (recentemente arrestato in Norvegia). Nell’aprile del 2015 in Sardegna veniva invece sgominata una rete di estremisti islamici pakistani legati ad Al Qaeda e attivi anche nel traffico di immigrati irregolari. Nel maggio del 2018 veniva neutralizzata una rete jihadista prevalentemente composta da siriani, che operava su scala nazionale nel supporto finanziario all’ex Jabhat al Nusra. In ultimo, ma non per ordine di importanza, è inoltre fondamentale ricordare la rete balcanica legata a Bilal Bosnic, che ha operato per anni nel nord-Italia nella predicazione e nel reclutamento. L’Italia appare sempre più come una zona essenziale per i jihadisti sia dal punto di vista logistico che del transito, un “ponte” tra l’Europa e lo scacchiere mediorientale e nordafricano. Un ruolo molto simile a quello svolto dalla penisola balcanica e in effetti, se si osserva attentamente, nemmeno i Balcani sono stati oggetto di significativi ed importanti attentati di stampo islamista. Nell’area italo-balcanica opera inoltre, con modalità più che evidenti, quell’islamismo radicale politicamente attivo, legato ai Fratelli musulmani e al wahhabismo. Vi sono numerosissimi casi segnalati in Bosnia, Kosovo, Macedonia, Albania, ma anche in Italia dove non solo sono state numerosissime le manifestazioni a favore dell’ex presidente islamista egiziano Mohamed Morsi, legato ai Fratelli musulmani, organizzazione inserita nella black list da diversi paesi tra cui Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Siria e Russia. La stessa Alleanza islamica, inserita nella black list dagli Emirati, in Italia continua ad operare dalla propria sede milanese. Alcune teorie ipotizzano persino una tolleranza nei confronti di organizzazioni e associazioni islamiste potenzialmente “estremiste” ma non “terroriste” in un progetto più ampio che punterebbe a contenere i jihadisti facendo accordi con quell’islamismo radicale politicamente attivo, dal duplice linguaggio e altrettanto avverso all’Occidente. Una strategia che, se venisse confermata, sarebbe quantomeno imbarazzante oltre che estremamente rischiosa. Il contesto italiano, per quanto riguarda la minaccia jihadista, è indubbiamente complesso. È evidente come il fenomeno stia riscuotendo molto interesse sul piano internazionale, non soltanto per quanto riguarda il meccanismo delle espulsioni, strumento fondamentale che ha certamente salvaguardato il Paese da minacce incombenti, ma in un quadro più generale nel quale entrano in gioco diversi fattori e interessi di vari attori coinvolti. Trattasi di un tema di cui probabilmente si sentirà parlare ancora molto, specialmente in seguito al risveglio del jihadismo in Africa, Libia inclusa.

Italia comprata dal Qatar. Alberghi, case di moda, un ospedale. Gli emiratini ci stanno comprando e intanto finanziano l'apertura di moschee a casa nostra. Antonio Rossitto il 13 maggio 2019 su Panorama. Il cortocircuito è arrivato un mese fa. Del tutto casualmente. A Roma, il premier Giuseppe Conte sale sulla scaletta del volo di Stato che lo porterà a Doha: per stringere mani e accordi economici. Nel mentre, a Parigi esce Qatar Papers: un saggio sui finanziamenti dell’emirato a moschee e centri islamici in Europa. Petrodollari, affari e proselitismo. Che cementano sacro e profano. Il piccolo e ricchissimo Paese mediorientale è l’auspicata manna. Negli ultimi anni, i fondi sovrani hanno fatto incetta d’italianità. Hanno comprato Porta Nuova, icona del dinamismo. Valentino, maison identitaria. La Costa Smeralda, emblema del lusso. L’ex Meridiana, compagnia aerea sarda, ribattezzata Air Italy. E sempre nell’isola, in società con enti cattolicissimi, l’ospedale Mater Olbia, d’imminente apertura. Nessuno, insomma, ha disdegnato i miliardi del Qatar. Ma i flussi sono stati biunivoci. L’emirato ha acquistato navi, caccia ed elicotteri. Il cerchio s’è chiuso. Per la nostra zoppicante economia è un indubitabile giovamento. Ma l’altro lato della sberluccicante medaglia è «l’islamizzazione dolce». Così la definisce Paolo Branca, docente di Islamistica all’Università Cattolica di Milano: «È il gioco simbolico di chi cerca consenso e visibilità» spiega. «Gli investimenti finanziari sono strategici: è la politica postmoderna dell’Islam più organizzato. I musulmani d’Italia si compiacciono di aver referenti tanto munifici e politicizzati. Nessuno, però, si domanda: quale sarà l’effetto di questa qatarizzazione tra dieci anni?». Una montagna di soldi. Che rischiano di mescolarsi a propaganda ed equivoci. Gli autori di Qatar Papers, i giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, rivelano la mole di finanziamenti partiti da Doha verso l’Europa, finiti a moschee e centri islamici. Nel 2014 sono arrivati 72 milioni di euro: 22 solo in Italia. Donazioni dietro cui potrebbero nascondersi, sostiene il saggio, frange radicali. I giornalisti hanno avuto accesso a migliaia di documenti inediti della Qatar Charity: una munifica ong controllata dall’emirato, dedita a dottrina e cultura. Negli ultimi anni, la fondazione avrebbe largamente sponsorizzato progetti legati agli influenti Fratelli musulmani. Che adesso il presidente americano, Donald Trump, medita di inserire nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Proprio il Qatar resta uno dei principali finanziatori dei Fratelli musulmani. L’associazione, a sua volta, viene considerata vicina all’Ucoii. Ovvero: la più rappresentativa associazione di comunità islamiche in Italia. «E il Qatar» chiude il cerchio Branca «ha creato un asse culturale con l’Ucoii. Così noi, con i finanziamenti dell’emirato, ci portiamo in casa l’Islam più conservatore: quello più tradizionale». Due anni fa è l’allora presidente dell’associazione, Izzeddin Elzir, a confermare stretti legami: «È stato fatto un lavoro di raccolta fondi molto valido con il Qatar, che ci ha consentito di procurarci 25 milioni di euro. Sono soldi del Qatar Charity, che garantisce trasparenza, tracciabilità tra chi dona e riceve». Doveva andare così anche a Bergamo. Negli anni scorsi, la Qatar Charity invia un robusto aiuto per costruire la nuova moschea: cinque milioni. Denari che, dopo la denuncia del tesoriere dell’Ucoii per appropriazione indebita, diventano pomo della discordia. Il processo è in corso. I magistrati sentono come testimone pure Ayyoub Abouliaqin, già direttore della sede londinese dell’ente caritatevole e responsabile dei progetti in Europa. Ai giudici spiega il funzionamento delle donazioni: «La fondazione presenta il progetto ai donatori, che poi lo finanziano. Il denaro è vincolato: a quel progetto e a quel destinatario». A Bergamo, aggiunge, si prevedeva: sala di preghiera, scuola di corano e spazi per le attività giovanili. I soldi partono dal Qatar per Bergamo, passando dall’Ucoii. I bonifici, però, sarebbero poi finiti a un’associazione familiare, che li avrebbe destinati a un altro progetto. Scatenando una guerra tra opposte fazioni. Sullo sfondo dell’inchiesta, si delinea il quadro generale: le comunità musulmane in Italia non hanno grandi risorse. Si mantengono con le piccole donazioni dei fedeli. La pioggia dell’emirato è acqua nel deserto. Che facilita, insinuano molti, una sorta di concambio morale: l’Islam da predicare è quello conservatore. Quello più vicino al Qatar. Per questo Doha investirebbe tempo e denaro. Alla luce del sole, tra l’altro. Come dimostra l’acclamato giro di inaugurazioni, nel maggio 2016, del principe Hamad Bin Nasser Al Thani, membro della famiglia reale e presidente della Qatar Charity. Piacenza, Brescia, Mirandola, Vicenza, Saronno. Lo sceicco taglia nastri e festeggia inaugurazioni di moschee e centri islamici finanziati dalla sua fondazione. Al suo fianco ci sono sindaci, prelati e imam. Anche qui: nessuno scandalo. Pecunia non olet. I rapporti tra l’Italia e il minuscolo Paese del Golfo sono saldissimi. E, soprattutto, vicendevoli. Nell’ultimo anno, Fincantieri ha venduto all’emirato sette navi da guerra per 4 miliardi di euro. A cui si aggiungono i 3 miliardi di euro finiti a NHIndustries, partecipata da Leonardo, per acquistare 28 elicotteri. Infine, è stata siglata un’intesa per 24 caccia da combattimento con il consorzio Eurofighter, che ha tra gli azionisti sempre l’ex Finmeccanica: una commessa da 6,8 miliardi di euro. Insomma: Roma è ormai un alleato più che strategico per Doha. L’interscambio commerciale ha toccato i 2,6 miliardi di euro nel 2018: un balzo del 23,2 per cento rispetto all’anno precedente. Le nostre esportazioni agroalimentari in Qatar, negli ultimi dieci anni, sono cresciute del 291 per cento. E i rapporti s’intensificano. Commercio, energia, difesa, infrastrutture, impiantistica: i settori in cui fare affari si moltiplicano. Ecco perché, lo scorso novembre, è arrivato in Italia l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani. «Constato con piacere che la nostra cooperazione bilaterale è ampia, strutturata ed efficace in ogni settore» l’ha omaggiato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un mese fa il premier Conte ha ricambiato la cortesia. Il premier è volato a Doha, per la sua prima visita ufficiale nel Paese mediorientale. Seguito, il 27 aprile 2019, dal presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Ad aprire le danze diplomatiche era stato però, lo scorso ottobre, Matteo Salvini. Il vicepremier, come solito, era stato chiaro e diretto: «C’è tanta voglia di investire dai fondi qatarini anche in imprese italiane della moda, dell’agroalimentare, nel mobile, nel bello, non snaturando e le aziende. Di questo ho parlato con alcuni imprenditori e ministri. Ci sono margini di crescita incredibili». Indubitabile. Ma Doha, fino a oggi, non è stata certo a guardare. Il suo fondo sovrano, la Qatar Investment Authority (Qia), gestisce 335 miliardi di dollari. Dopo aver puntato su Francia e Inghilterra, adesso ha l’Italia nel cuore e nel portafogli. Così, mentre cominciavano ad arrivare piogge di milioni per le moschee, Doha comprava a suon di petrodollari pregiatissimi pezzi d’Italia. Nel 2012 viene acquistata, 650 milioni di euro, la Smeralda Holding, che possiede alcuni tra gli alberghi più lussuosi al mondo: come il Cala di Volpe o il Pevero golf club. Nonché la Marina di Porto Cervo. E soprattutto 2.300 preziosi ettari di terreni immacolati nella costa gallurese. Nel 2015, l’altro colpo finanziario: l’effige dell’Italia che sarà. I grattacieli di Porta Nuova, simbolo dell’acclamato skyline di Milano, vengono comprati per 2 miliardi di euro. Lo stesso anno, Katara hospitality, ramo hotellerie, si aggiudica per 222 milioni l’Excelsior di Roma: l’albergo della Dolce vita felliniana. Si aggiunge al Gallia di Milano, appena ristrutturato. Poco più tardi, nel 2016, è la volta del San Domenico di Taormina: il più blasonato dell’isola. Allargando l’orizzonte del settore turistico, un anno dopo, viene definito l’acquisto del 49 per cento della compagnia aerea Meridiana, oggi Air Italy. Senza dimenticare le bandierine qatariote piantate nell’alta moda. Valentino è rilevata nel 2012 per 700 milioni di euro. Poi tocca a Pal Zileri. Nemmeno l’arcitalico pallone sfugge agli emiratini. Nelle mire degli sceicchi ci sarebbe adesso la Roma, che la Qatar airways già lautamente sponsorizza. Un affare che per la giornalista Souad Sbai, ex deputato del Pdl e presidente dell’Associazione donne marocchine in Italia, sarebbe l’ennesima, allarmante, metafora: «È l’occupazione del territorio. È la conquista di Roma, già evocata dal teologo Youssuf al Qaradawi, star della tv qatariota al Jazeera: non serve più la spada, bastano fede e idee. Ora in più ci sono i soldi, che tutto possono. E gonfiano di orgoglio la comunità islamica: “Avete visto che possiamo comprarci l’Italia?”». Ancor più strategico sarebbe l’ultimo investimento. Quello dell’ospedale Mater Olbia, che aprirà nelle prossime settimane dopo lunga e tormentata gestazione. Un’idea nata trent’anni fa. Quando don Luigi Verzè, fondatore del San Raffaele di Milano, sceglie Olbia come sede periferica del suo impero. Nel 2012 l’idea sembra tramontata. Nel 2014 però si fa avanti la Qatar foundation endowment con un sontuoso piano industriale: 1 miliardo di euro. Cinque anni dopo, il taglio del nastro è imminente. I posti letto sono 248: 202 convenzionati con il Sistema sanitario nazionale, che elargirà 60 milioni all’anno. Ma è la compagine societaria a meravigliare. Il 60 per cento del Mater Olbia è in mano alla Innovation arch, controllata lussemburghese della Qatar foundation. Il 35 per cento è, invece, della Fondazione policlinico Agostino Gemelli: a sua volta costituita dall’Istituto Toniolo, presieduto dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e dall’Università Cattolica. Mentre il 5 per cento è controllato dalla Luigi Maria Monti Mater Olbia srl, creata da una fondazione legata al Vaticano. Apertura incombente, quindi. Dopo, promette Doha, partirà la fase due con «ingenti investimenti finalizzati allo sviluppo territoriale». Una sorta di Piano Marshall per la Sardegna. Certo, i qatarini non assomigliano agli americani. Se non per lo stesso, occidentalissimo, principio: tutto si può comprare. Basta avere montagne di dollari. O meglio, petrodollari.

Moschee abusive e fondi opachi. Si moltiplicano in Italia i luoghi di culto islamico, spesso in garage e magazzini, con soldi provenienti dai paesi arabi. Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi il 18 luglio 2019 su Panorama. Nel 2019 la corsa ad aprire nuove moschee in tutta Italia è ripartita. Milioni di euro di finanziamenti piovuti dal Golfo Persico e dall’Asia minore attraverso banche, società finanziarie, privati e facilitatori in loco, abilissimi nel trovare strutture adattabili all’uso. Obiettivo non dichiarato è raddoppiare le 1.251 moschee attualmente disseminate su tutto il territorio nazionale, secondo l’ultimo censimento del Viminale, per il controllo delle quali competono Qatar, Turchia e Arabia Saudita. Solo attraverso la Qatar Charity Foundation, tra il 2013 e il 2017 sono arrivati 25 milioni di euro per moltiplicare i centri di preghiera. Che, tuttavia, restano in molti casi illegali. La loro dislocazione geografica non è più concentrata solo nei grandi centri urbani: da alcuni anni, sono soprattutto piccole realtà come Agrigento, Olbia, Lecco, Merano, Andria, Modica, Barcellona Pozzo di Gotto, Mazara del Vallo, Donnafugata, Scicli, Vittoria, Ravenna, Colle Val d’Elsa, Piacenza, Vicenza, Saronno e Mirandola (il primo luogo di culto a riaprire dopo il terremoto del 2012) a registrare la crescita del fenomeno. «Tradizionalmente, il triangolo “pericoloso” rimane la zona compresa tra Milano, Brescia, Bergamo, per storia e dinamiche jihadiste» sostiene Michele Groppi, docente associato all’Accademia della Difesa del Regno Unito. «Tuttavia, centri meno popolosi vanno assumendo sempre più rilevanza. Questo cosa ci insegna? Sebbene i grandi centri e le loro emergenti periferie potenziali stiano crescendo, e restino le principali fucine dell’estremismo, aree meno controllate e fuori dai radar possono essere meglio utilizzate come piattaforme logistiche e/o di reclutamento. In futuro, continueremo ad assistere a un mix delle due». Molte delle associazioni islamiche e scuole coraniche, infatti, sono ricavate in appartamenti privati, negozi, garage e magazzini affittati - talvolta, acquistati - attraverso il sistema della Zakat, la «decima» che ogni buon musulmano deve devolvere alla propria comunità per purificarsi, nonché uno degli istituti più importanti della religione islamica. Quasi sempre i soldi circolano in contanti, dunque non tracciabili, e si perdono tra i rivoli delle donazioni estere, tra ong e associazionismo selvaggio. L’incremento registrato nell’ultimo anno somiglia quasi a una «resistenza islamica» contro la politica del titolare degli Interni, Matteo Salvini, che ha più volte dichiarato di non voler concedere «neanche mezza moschea» fino a quando «l’Islam non farà chiarezza e non ribadirà che gli esseri umani sono tutti uguali davanti a Dio e alla legge». Ma di chiarezza, per il momento, ce n’è davvero poca. Un esempio su tutti, la Grande Moschea di Roma: nonostante le rassicurazioni fornite al precedente ministro degli Interni, Marco Minniti, cui era stato consegnato il piano di risanamento «Centro islamico culturale d’Italia – Piano strategico 2017-2021», persiste una quasi assoluta mancanza di trasparenza nei finanziamenti. L’ultimo disponibile risale al 2015 ed è parziale. Fatto che, secondo più fonti, prelude a un possibile commissariamento della struttura da parte del Viminale. In ogni caso, stando all’ultimo rendiconto, nel 2014 la Grande Moschea ha ricevuto dall’Arabia Saudita finanziamenti per 334 mila euro, e 15 mila dagli Emirati Arabi. Altri 23 mila rientrano nella voce non meglio specificata «iscrizioni ai corsi»; 22 mila dai «contributi Halal» e altri 31 mila da «contributi Ramadan». In totale, le entrate sono pari a 426.345 euro. Nel 2015, invece, i soli contributi presenti nel rendiconto sono quelli del Regno del Marocco, che avrebbe versato nelle casse del centro religioso almeno 211 mila euro. Ciò che più stupisce, è il fatto che non esista un solo documento indicante i nomi dei soci e del cda della moschea capitolina. Se questo è quanto accade, sotto gli occhi delle autorità, nel centro religioso più importante d’Italia, figurarsi la trasparenza delle strutture clandestine. Secondo il segretario della commissione parlamentare Antimafia Gianni Tonelli l’aumento di piccoli centri religiosi legati all’ambiente islamico è determinato da due fattori: «Il primo è un modo di “serrare le fila” di fronte all’atteggiamento maggiormente attento dei nostri uffici di polizia e dei servizi di intelligence, inaugurato dopo l’ultima stagione di attentati, a partire dai fatti di Charlie Hebdo e del Bataclan. Il secondo è di ordine economico: le grandi strutture costano e, se si considera che i flussi di finanziamento nell’ambiente islamico sono meno liberi e maggiormente controllati, si comprende facilmente perché si ricorra allo strumento dell’autofinanziamento, che fornisce più discrezione». Come per la Grande Moschea, oggi guidata da esponenti marocchini ed egiziani, all’interno di tali realtà è sempre l’Islam sunnita a farla da padrona: non solo quello afferente al Maghreb, ma anche alla Turchia, alla corrente indo-pakistana dei Jamaat Tabligh e all’insidiosissimo Islam balcanico, considerato tra i più radicali. A farla da padrona è però ancora la corrente saudita: Riad ha varato una specie di «piano Marshall» per la diffusione dell’Islam in tutto l’Occidente, con conseguente formazione e invio in Europa di imam dai curriculum poco specchiati. Intanto, le concessioni per le moschee vanno avanti, senza una vera e propria strategia nazionale (ne esistono solo di regionali): il Comune di Bologna, per esempio, ha accordato gratuitamente un terreno di 7 mila metri quadri edificabili, mentre a Bergamo si vorrebbe trasformare una chiesa in moschea, e a Sesto Fiorentino è stato addirittura il vescovo ad approvare la vendita di un terreno della Curia per edificare un centro islamico. E, ancora, nella capitale la discussa moschea di Centocelle, da oltre vent’anni in un parcheggio sotterraneo, vorrebbe trasferirsi in un ex mobilificio. Quanto al contrasto del fenomeno terroristico, che si nutre proprio di strutture refrattarie ai controlli e alle leggi dello Stato, le linee operative per questi centri esistono già. Oltre al principio inderogabile di dialogo, prevedono: il rifiuto del salafismo e del wahabismo, le teorie alla base del terrorismo jihadista; l’indicazione alle autorità di sospetti in odore di radicalizzazione; la notifica di tutte le sovvenzioni ricevute dall’estero, specie quelle provenienti da anonimi; l’accettazione del principio che la formazione degli imam sia fatta dove operano, e in lingua italiana. L’intelligence le ha comunicate a ogni governo che si è succeduto, ma la loro applicazione è tutto un altro affare.

Ci odiano da un secolo e noi siamo rimasti a guardare. I jihadisti che stanno colpendo l'Europa non sono terroristi isolati, ma fanno parte di unico grande movimento islamico, scrive Francesco Alberoni, Lunedì 28/03/2016, su "Il Giornale". Ancora qualcuno non ha capito che i jihadisti che stanno colpendo l'Europa non sono terroristi isolati, ma fanno parte di unico grande movimento islamico che va dalle Filippine all'Africa. Cent'anni fa gli europei erano padroni di quasi tutto il mondo, in particolare dell'ex impero ottomano, tagliuzzato in protettorati o occupato direttamente come in Libia e Algeria. Parallelamente, per secoli i musulmani avevano dominato l'India, l'Indonesia, gran parte della Russia meridionale, tutto il Medio Oriente, un terzo dell'Africa e l'Europa fino a Vienna. La loro fede li aveva invitati a islamizzare l'Europa. Si sentivano invincibili, superiori ai cani infedeli e consideravano la loro sharia infinitamente superiore al diritto europeo. Per questo anche quando gli europei sono diventati i dominatori del mondo, loro non hanno mai accettato la civiltà occidentale: la subivano digrignando i denti. Poi un giorno si sono svegliati e, ricordando la loro gloria passata, è nato un movimento per tornare alle origini. Sono stati gli imam e gli intellettuali a mettere in moto il processo. L'integralista Arabia Saudita ha così riempito l’Europa di predicatori che hanno propagandato fra i giovani il compito di distruggere l'Occidente. E poi hanno dato loro soldi e armi. Oggi costituiscono un vero e proprio esercito organizzato, del quale però gli europei e gli americani si sono accorti tardi, pensando in realtà di trovarsi di fronte a terroristi isolati. Ma quando Bin Laden ha fatto saltare le Torri gemelle, da tutto l'islam si è alzato un grido di esultanza, perché anche fra i musulmani moderati c'è ammirazione per i guerrieri di Allah. E quando gli americani, che non hanno mai capito cosa succedeva, hanno abbattuto i regimi laici, le bande jihadiste sono andate al potere con massacri paurosi. Poi si sono infiltrati dappertutto anche in Europa, protetti dalle nostre leggi liberali, mentre l'Ue imbelle non capiva e neppure creava un proprio esercito e un'unica polizia di frontiera.

Medina, bimbo di 6 anni decapitato davanti alla mamma perché sciita. Nella città saudita di Medina, un bimbo di 6 anni è stato decapitato davanti alla mamma da sconosciuti perché di confessione sciita, scrive Gabriele Laganà, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. Decapitato a soli 6 anni davanti alla propria mamma, che piangeva ed implorava pietà ai carnefici, solo per essere di confessione sciita e non sunnita. Secondo quanto riporta il sito del Mirror, l’orribile storia è accaduta a Medina, in Arabia Saudita. La donna ed il bambino erano giunti in città per visitare un tempio. Improvvisamente, alcuni sconosciuti li hanno avvicinati ed hanno chiesto loro se fossero sciiti. La madre ha risposto di sì. Un grave peccato, questo, per i fanatici fondamentalisti che, senza pensarci su, hanno fatto salire con la forza i due innocenti pellegrini a bordo di una macchina per, poi, separare subito il piccino dalla donna. Ma quello era solo il preludio della choccante vicenda. Il bimbo, infatti, è stato colpito al collo con un bicchiere di vetro rotto finchè non è stato decapitato. La mamma, invece, come punizione per la sua fede "sbagliata" è stata costretta ad assistere al barbaro massacro del figlio, nonostante le sue urla strazianti e le preghiere per salvare la vita del piccolo. "Shia Rights Watch", una Ong impegnata nella difesa dei diritti degli sciiti nel mondo, ha reso noto che fino ad ora le autorità saudite non hanno commentato o preso una posizione in merito alla terrificante storia. La comunità sciita, sotto choc, ha invece dichiarato che quest'episodio è il frutto delle continue violazioni dei loro diritti e della mancanza di protezione nei loro confronti da parte delle autorità in Arabia Saudita.

Ecco chi sono veramente i Fratelli Musulmani, scrive l'8 febbraio 2019 Mauro Indelicato su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. I Fratelli Musulmani costituiscono un movimento internazionale diffuso soprattutto nei paesi arabi, in cui vengono raggruppati i partiti che si rifanno al cosiddetto “Islam politico”. Si tratta di formazioni che promuovono la necessità di islamizzare le società arabe, tornando ad un Islam non “corrotto” da usi e consumi occidentali. Dai movimenti jihadisti terroristici, i Fratelli Musulmani si differenziano per il non ricorso alla lotta armata e per non avere come obiettivo l’esportazione dell’islamizzazione in paesi non arabi. 

La nascita dei Fratelli Musulmani in Egitto. Come anno di nascita dei Fratelli Musulmani viene indicato il 1928. A fondarlo è un insegnante egiziano che vive ad Ismaila, cittadina che si trova sulle rive del canale di Suez, ossia Hasan Al Banna. Il contesto e gli obiettivi non sono però soltanto religiosi: si parla, in particolare, delle condizioni dei lavoratori egiziani e della società, con l’Islam che assume il ruolo di guida etica e fissa i principi per il “risveglio” dell’Egitto e dell’intero mondo arabo. I Fratelli Musulmani si inquadrano quindi tra quei movimenti che all’inizio del XX secolo vedono nei precetti islamici l’occasione per riavvivare l’orgoglio arabo ed evitare l’eccessiva occidentalizzazione del mondo musulmano. Ben presto il movimento diventa popolare, ramificandosi soprattutto in Egitto ed attirando molto consenso tra le diverse classi sociali. Oltre che politica, i Fratelli Musulmani assumono un’importante dimensione sociale e diventano anche tra i riferimenti per il nazionalismo egiziano.

L’ideologia dei Fratelli Musulmani. Come detto, i Fratelli Musulmani partono dai principi fondamentali dell’Islam per provare a dare una guida alle società arabe. L’obiettivo è il risveglio del mondo arabo e musulmano, l’occidentalizzazione dei costumi ed il colonialismo vengono visti come elementi in grado di corrompere irrimediabilmente la morale e la società islamica. Il raggio d’azione dei Fratelli Musulmani è quindi a 360 gradi: il movimento, dopo la fondazione in Egitto nel 1928, si diffonde ed ha un discreto successo sociale e guarda ad ogni aspetto della vita pubblica. Dal lavoro alla società, dalla vita quotidiana al ruolo politico degli arabi che iniziano ad opporsi al colonialismo europeo, tutto passa dai precetti dell’Islam ed ogni ambito viene preso sotto esame dai Fratelli Musulmani. Il movimento negli anni ’40 e ’50 si fa strada tra i ceti meno abbienti e tra i nazionalisti egiziani. Il fondatore Al Banna, nel 1942 si dichiara vicino alle posizioni del partito Wadfista, il quale coniuga istanze nazionaliste al conservatorismo religioso. I Fratelli Musulmani considerano le due grandi ideologie che si dividono il mondo nel secondo dopoguerra, ossia capitalismo e marxismo, facce della stessa medaglia: entrambe, secondo la fratellanza, portano all’umiliazione dell’uomo comune. Il manifesto dei Fratelli Musulmani viene scritto nel 1954 da Sayyid Qutb, durante il suo periodo di prigionia. In esso, tra le altre cose, si legge: “La comunità musulmana deve essere riportata alla sua forma originaria. Oggi è sepolta tra i detriti delle tradizioni artificiali di diverse generazioni ed è schiacciata sotto il peso di quelle false leggi ed usanze che non hanno niente a che fare con gli insegnamenti islamici”. 

I Fratelli Musulmani sotto Nasser. Le vicende dei Fratelli Musulmani si legano in maniera molto stretta quelle della storia dell’Egitto del dopoguerra. Il movimento si sviluppa sempre di più ed acquisisce maggiori consensi, ma si scontra con il nuovo potere rappresentato dal 1954 da quello di Gamal Nasser. Il “rais” inaugura una politica volta alla laicità dello Stato e porta avanti una Repubblica governata sotto rivendicazioni socialiste e panarabe. Non passa molto tempo prima che il potere nasseriano ed i Fratelli Musulmani entrano in conflitto. Troppo divergenti le visioni sulla società, sul ruolo della religione e su quello dei precetti fondamentali dell’Islam. Il 26 ottobre 1954 Nasser viene fatto oggetto di un attentato, al quale scampa miracolosamente. Vengono incolpati i Fratelli Musulmani ed i principali leader iniziano ad essere perseguiti. Il movimento per la verità è fuori legge già dal 1948. In quell’anno Re Faruq teme la loro deriva nazionalista ed anti monarchica, l’anno seguente lo stesso fondatore Al Banna viene ucciso da un membro delle forze di sicurezza. Ma, come detto, è sotto Nasser che avviene la persecuzione vera e propria. In questo momento come leader dei Fratelli Musulmani emerge la figura dell’ideologo sopra citato Sayyid Qutb. È lui a redigere il manifesto mentre è in galera, scrivendo le “Pietre Miliari”, una raccolta dei precetti fondamentali e degli obiettivi principali dei Fratelli Musulmani. Si usa anche il termine “jihad”, che però è ben lontano dall’uso attuale: non si intende, in particolare, il concetto di guerra santa bensì quello di lotta interiore contro le cattive intenzioni da frenare e combattere. Qutb nel 1966 viene impiccato a seguito dell’esecuzione della condanna a morte dopo il processo che lo vede coinvolto come imputato. Nel 1970 muore improvvisamente Nasser, colto da infarto. Il suo successore, Anwar Sadat, non toglie dalla clandestinità i Fratelli Musulmani ma lascia loro maggiori margini di spazio e di manovra. Nonostante siano fuori legge, i Fratelli Musulmani acquisiscono ugualmente una grande diffusione in seno alla popolazione ed un importante radicamento territoriale. 

L’era Mubarack ed il ruolo sociale dei Fratelli Musulmani. Il 6 ottobre 1981 viene ucciso Anwar Sadat. Nel commando omicida, tra gli altri, vi è un giovane Ayman Al Zawayri, ossia il futuro leader di Al Qaeda. I Fratelli Musulmani sono estranei all’attentato: la lotta armata, ripresa in parte durante gli anni di Nasser, viene accantonata proprio sotto Sadat. Il gruppo jihadista che compie l’attacco non può essere nemmeno equiparato ad una costola dei Fratelli Musulmani estremista e distaccatasi dal movimento. Si tratta di uno dei primi gruppi terroristici che, pur ispirandosi in parte ad alcune delle ideologie dei Fratelli Musulmani, intraprende diversi percorsi nelle modalità e nelle idee propagandate. A succedere a Sadat è il presidente Hosni Mubarak. Con il nuovo Capo dello Stato i Fratelli Musulmani escono parzialmente dalla clandestinità. Nel 1984 possono tornare a presentarsi alle elezioni, seppur in coabitazione con alcuni partiti laici dell’opposizione. L’organizzazione continua ad avere vitale importanza sotto il profilo sociale. Il radicamento dei Fratelli Musulmani è sempre più importante nella popolazione: i membri del movimento appaiono impegnati nelle periferie delle grandi città in opere caritatevoli ed in assistenza alla cittadinanza sotto diversi fronti, da quello scolastico a quello sanitario. Diverse organizzazioni ed associazioni sono legate a doppio filo ai Fratelli Musulmani, segno di una grande importanza del movimento sotto il profilo sociale.

La breve parentesi di Mohammed Morsi. Non è un caso che, con la caduta del governo di Mubarack nel 2011, a seguito delle proteste scaturite dalla cosiddetta “primavera araba”, siano proprio i Fratelli Musulmani a dimostrarsi maggiormente pronti a prendere le redini del potere. Subito dopo la fine dell’era Mubarack, l’organizzazione fonda il partito “Libertà e Giustizia” e candida Mohammed Morsi alla presidenza. Nel 2012 proprio Morsi viene eletto nuovo capo dello Stato e per la prima volta nella storia i Fratelli Musulmani prendono il potere. Dopo appena un anno però, quella di Morsi si dimostra una breve parentesi. Molti egiziani, timorosi circa le sorti laiche dello Stato, tornano in piazza e l’esercito interviene per destituire il presidente. Da allora, i Fratelli Musulmani tornano ad essere malvisti dal potere egiziano. 

L’Islam politico finanziato da Turchia e Qatar. Fin qui dunque la storia dei Fratelli Musulmani nel loro paese d’origine, ossia l’Egitto. Ma l’organizzazione è presente in diversi Stati arabi od a maggioranza islamica. Un vasto movimento ben ramificato, non mantenuto in vita soltanto da donazioni o da finanziamenti privati. La fratellanza da anni ha diversi sponsor internazionali, ma sono soprattutto Turchia e Qatar i maggiori finanziatori. Ankara lo è in particolar modo dal 2002, anno della scalata al potere di Recep Tayyp Erdogan, che porta al potere nel suo paese il partito Akp. Si tratta di una formazione politica che si rifà, per certi versi, alla stessa Fratellenza Musulmana: si parla, in particolare, del cosiddetto “Islam politico”, movimenti accomunati dall’obiettivo di una maggiore islamizzazione della società da perseguire per mezzo di vie politiche. Nel finanziamento dei Fratelli Musulmani la Turchia ha un solido asse con il Qatar, paese che vuole sfruttare le sue ingenti risorse economiche per estendere la propria influenza politica e commerciale. Ankara e Doha legano il proprio nome ai più importanti partiti e movimenti che compongono l’organizzazione dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo arabo. Vengono finanziate moschee, associazioni, partiti e scuole capaci di far sviluppare socialmente e politicamente il pensiero della fratellanza nella galassia musulmana. In questo sia Turchia che Qatar entrano in competizione con l’Arabia Saudita, che invece sia a livello strategico che ideologico vede nei Fratelli Musulmani un importante nemico internazionale. Il sostegno di Doha alla fratellanza è tra le cause scatenanti dell’embargo imposto dai Saud al Qatar nel giugno 2017. 

La diffusione nel mondo arabo dei Fratelli Musulmani. Oltre che in Egitto, come detto, i Fratelli Musulmani sono diffusi anche in gran parte degli Stati arabi ed in alcuni Stati non arabi ma in maggioranza musulmana. Tra i partiti riconducibili alla galassia della fratellanza, spiccano in particolare Ennahda in Tunisia, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo in Marocco, il Movimento della Società per la Pace in Algeria, il Raggruppamento Nazionale per la Riforma e per lo Sviluppo in Mauritania, il Partito del Congresso Nazionale in Sudan, il Fonte Islamico d’Azione in Giordania. Lo “zampino” della fratellanza è ravvisabile anche nei paesi arabi attualmente alle prese con gravi instabilità interne e con le guerre civili. In Libia vi è il Partito della Giustizia e dello Sviluppo a mettere insieme diversi membri dei Fratelli Musulmani, anche se in generale il movimento, che risulta essere molto influente specialmente nelle zone occidentali del paese e tra i membri del consiglio presidenziale riconosciuto dall’Onu, è frazionato in diversi altri partiti. In Siria sono diversi i movimenti riconducibili alla fratellanza che, ad inizio guerra civile, vanno contro il presidente Assad. Qui nel 1982 i Fratelli Musulmani si organizzano nella città di Hama, dove risultano molto radicati, e danno vita ad un’importante rivolta contro l’allora presidente Hafez Al Assad. Damasco reagisce bombardando la città e mettendo al bando l’organizzazione. Nello Yemen, i Fratelli Musulmani sono presenti con il partito Al Islah. Come detto, è ricollegabile alla fratellanza il partito Akp in Turchia del presidente Erdogan, fondato nel 2002 e tuttora al governo nel paese anatolico. Infine, anche in Somalia (paese dove aumenta l’influenza di Ankara) vi è una formazione collocabile tra i Fratelli Musulmani, ossia il Partito per la Pace e lo Sviluppo.

Il caso di Hamas in Palestina. Discorso a parte merita il caso palestinese. Qui dal 1987 è attivo il partito denominato “Hamas”. Si tratta di una formazione nata sulla scia della prima intifada e radicatasi soprattutto all’interno della Striscia di Gaza. Hamas è in grado, nel corso degli anni, di erodere il consenso al partito guida della causa palestinese, ossia la formazione laica di Al Fatah, fondata da Yasser Arafat. Hamas è riconducibile ai Fratelli Musulmani, per la prima volta in Palestina vengono accorpate le rivendicazioni territoriali con quelle islamiste. Anche se il partito ufficialmente non persegue la lotta armata, diverse fazioni nate da Hamas sono invece impegnate negli anni nell’organizzazione di numerosi attentati terroristici in Israele. Per tal motivo, sia Tel Aviv che Washington riconoscono Hamas come organizzazione terrorista. Nel 2005 Hamas vince clamorosamente le elezioni parlamentari in seno all’Autorità Nazionale Palestinese, sopravanzando per la prima volta Al Fatah. I due principali partiti entrano in rotta di collisione nel 2007: nell’estate di quell’anno scoppia una vera e propria guerra civile tra i palestinesi, al termine della quale Hamas ha il pieno controllo da allora della Striscia di Gaza. 

I Fratelli Musulmani oggi. In Egitto, paese da cui parte il movimento, l’organizzazione è considerata illegale e fuori legge. Il presidente Al Sisi, insediatosi nel 2014, considera i Fratelli Musulmani una minaccia alla sicurezza ed all’integrità nazionale. Nel corso degli anni, diversi alti dirigenti dell’organizzazione vengono arrestati ed in alcuni casi condannati a morte. Al Sisi anche di recente promette la prosecuzione di ogni azione volta a conservare la laicità dello Stato egiziano ed a perseguire ogni forma di islamismo, sia politico che jihadista. Nel Magreb, i Fratelli Musulmani sono attualmente al governo con Ennahda in Tunisia, paese dove appare radicato il loro consenso elettorale. Come detto, in Libia risultano molto influenti nella Tripolitania mentre sono osteggiati dal generale Haftar, molto vicino all’Egitto e uomo forte della Cirenaica. In Marocco ed Algeria i partiti della fratellanza sono all’opposizione. Con l’Akp, l’Islam politico è al potere in Turchia, risulta soppiantato dai movimenti integralisti invece in Siria all’interno dell’opposizione ad Assad. In generale, se all’interno del mondo musulmano i principali sostenitori sono Ankara e Doha, principale nemico è invece l’Arabia Saudita assieme ai suoi alleati nel Golfo. E questo sia per ragioni ideologiche date dall’incompatibilità tra Fratelli Musulmani e Wahabismo, così come per motivazioni geo strategiche.

A Trani apre la prima biblioteca in Europa specializzata in libri islamici. La Bibliotheca Orientalis “Attilio Petruccioli” con 12mila volumi , promuove «un aperto e rispettoso scambio di conoscenze tra individui e gruppi appartenenti a culture e religioni differenti», scrive il 28 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Una biblioteca di 12 mila volumi specializzata in architettura dei Paesi islamici, la prima in Europa, aprirà sabato a Trani, in Puglia, un porto che nei secoli ha unito Oriente e Occidente. La Bibliotheca Orientalis “Attilio Petruccioli” - esperto di architettura islamica che ha insegnato 58 anni tra Roma, Boston, Bari e Doha, da decenni legato a Trani -, promuove «un aperto e rispettoso scambio di conoscenze tra individui e gruppi appartenenti a culture e religioni differenti». Sotto l’ombrello della Fondazione Seca, coabiterà con il Museo della Scrittura e altre istituzioni scientifiche quali il Museo Diocesano di Trani e il Museo ebraico dell’antica sinagoga-chiesa di Sant'Anna. «Nel corso della storia la costa della Puglia, su cui si apre il porto di Trani, ha rappresentato una cerniera Oriente-Occidente, un confine non baluardo ma approdo - si legge in un comunicato -, che a dispetto delle continue frizioni tra potenze politiche e militari ha sempre concesso un intenso parallelo intreccio culturale, trasportato dalle navi commerciali. Scambi che in una perenne condizione di incertezza tra mondo greco e latino, arabo musulmano e cristiano, hanno favorito la contaminazione di culture opposte, e una sintesi che è un arricchimento». Nel Polo Museale di Trani la Bibliotheca Orientalis Attilio Petruccioli raccoglie migliaia di testi sulla architettura e l'urbanistica dei paesi islamici e orientali, con diversi pezzi rari. Unica in Europa, compete con la Roche Library del Massachussetts Institute of Technology (Mit) negli Stati Uniti. La biblioteca promuove la ricerca scientifica attraverso l'Islamic Environmental Design Research Centre e numerose pubblicazioni.

Chi paga per le moschee? Da dove arrivano i soldi per la costruzione delle nuove moschee e la manutenzione delle vecchie? Speso organizzazioni estere non controllabili, scrive il 28 marzo 2019 Panorama. Moschee, centri culturali, scuole coraniche. Il 5 per mille e la questua dei fratelli musulmani in Italia bastano sì e no a mantenerli attivi e in buona salute. Per l’acquisto o l’edificazione di nuove strutture, invece, l’aiuto economico spesso arriva da Organizzazioni non governative estere. Controllare la tracciabilità delle risorse è quasi impossibile. Ne sa qualcosa il consigliere regionale umbro della Lega Valerio Mancini: dopo aver studiato i bilanci del Centro culturale islamico che sta costruendo una grande moschea a Umbertide, nel cuore dell’Umbria, su un terreno inizialmente destinato ad attività per disabili, ha presentato un esposto in Procura. «Non c’è trasparenza». E ha denunciato di aver trovato nei conti solo donazioni in contanti, per grosse cifre e sempre nei momenti cruciali legati all’edificazione del luogo di culto. Lo stesso è accaduto qualche mese prima a Prato, dove la comunità islamica ha acquistato un immobile per 460 mila euro. Questa volta a chiedere chiarezza è stato il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli: «Facciano sapere i nomi di chi ha versato i soldi». Spesso invece le comunità si riuniscono in garage, cantine e retrobottega di negozi trasformati per l’occasione in musalla, la sala per le preghiere. Anche in quel caso parlare di trasparenza è impossibile. Pure perché viene tutto gestito in modo piuttosto «casalingo»: dalle figure che guidano la preghiera e che, almeno il venerdì, tengono la khutba, il sermone, a improvvisati imam che assumono il ruolo senza aver seguito percorsi religiosi. Tra associazioni, centri studi e moschee, di luoghi di culto se ne contano oltre 1.200 in Italia. E il dato è in continuo aggiornamento. Come quello che arriva regolarmente al ministero dell’Interno sulle moschee a rischio radicalizzazione. Nell’elenco ci sono sempre quella di piazza Mercato a Napoli, di viale Jenner a Milano e di Centocelle a Roma. La segnalazione più recente, invece, arriva da Sarno, in provincia di Salerno. Lì la moschea è censita come associazione culturale Abu Bakr As Saddiq e si trova in pieno centro. Ogni venerdì, come sottolineano gli investigatori della Digos, fa il pieno di fedeli provenienti dall’hinterland vesuviano. In Campania diventa un caso di destinazione d’uso. E quindi è stato chiesto ai Comuni di Salerno, Angri, Battipaglia, Bellizzi, Castelnuovo Cilento, Eboli, Matinella, Scafati e San Valentino Torio, se gli ambienti usati per la preghiera dai musulmani siano mai stati oggetto di contestazione per il loro utilizzo e se siano registrati in categorie catastali che non consentano l’uso che se ne fa. Ufficialmente sono quasi tutti centri studi, tra i tanti presenti sul territorio italiano, con maggiore concentrazione in Emilia, a Novara e Venezia. Solo a Bologna, infatti, se ne contano 18 sistemati in garage o scantinati, e frequentati, secondo le stime, da almeno 44 mila fedeli nell’area metropolitana e da circa 25 mila in città. I loro documenti contabili hanno un unico denominatore: i fondi per il sostentamento arrivano dalla Zakat, la carità: in occasione della festa Eid Al-Fitr, ogni buon musulmano deve versare una quota. A quella donazione annuale, elargita da circa un milione di musulmani in Italia, si aggiunge la Sadaqa, ossia un’elemosina non obbligatoria, offerta dai fedeli tutti i venerdì, dopo la preghiera, nella propria moschea. E, così, i luoghi di culto più grandi, come la moschea di Milano, riescono a mettere insieme anche 600 mila euro l’anno. E a queste cifre si aggiunge il sostegno estero. Si parla di somme ingenti, vicine ai 42 milioni di euro. Come ricostruito dal quotidiano la Verità, ci sono Paesi interessati a finanziare progetti di islamizzazione in Italia: Marocco, Turchia e Arabia Saudita. Riad, capitale dell’Arabia Saudita, cerca da tempo di conquistare il mercato delle moschee italiane. A tal punto che gli sceicchi sauditi, tramite alcune Ong, si propongono come il primo partner per i musulmani in Italia. Questo aspetto ha chiaramente anche una finalità politica: avere sul territorio moschee pagate dai sauditi equivale a controllare i centri di propagazione di una specifica confessione islamica. A Palermo ricordano tutti una visita di Zamil Al Zamil, lo sceicco del Bahrain che atterrò nel 2012 a Palermo per annunciare investimenti per 2 miliardi di euro in città. In cambio chiese la costruzione di un luogo di culto. Ovviamente, durante la visita, il ricchissimo consigliere di amministrazione di diverse banche islamiche fece tappa alla moschea di Palermo e lasciò un abbondante contributo. Sette anni dopo, le relazioni tra il generoso uomo d’affari e la comunità musulmana palermitana si sono ulteriormente saldate. Non si hanno invece notizia degli investimenti annunciati in città. Investimenti sono arrivati a Ravenna, dove la seconda moschea più grande d’Italia è stata finanziata con 800 mila euro arrivati dal Qatar. A dispensare fondi è la Qatar charity, Ong governativa molto ricca il cui nome è legato alla ricostruzione in tempi record della moschea di Mirandola, danneggiata dal sisma. Izzeddin Elzir, presidente dell’Ucoii, l’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia, in un’intervista a Repubblica ha riconosciuto l’esistenza di un piano di finanziamento per la costruzione di centri islamici in Italia: circa 25 milioni di euro in tre anni, a partire dal 2017, per 43 centri previsti. Ovvio che in questa operazione il Qatar è lo sponsor ufficiale. E, oltre a quella di Ravenna, ha già portato a termine le strutture per le moschee di Catania, Piacenza, Colle Val d’Elsa, Vicenza e Saronno. E chi non rientra nelle grazie della Qatar charity? Qua e là in Italia c’è traccia del sostegno di altre organizzazioni: la Lega musulmana mondiale, la World islamic call society libica, il ministero degli Affari religiosi del Kuwait, conta 54 società in 60 Paesi. C’è anche l’Arabia Saudita a investire ufficialmente nelle grandi moschee delle capitali europee, tra cui Roma. Le ricche famiglie finanziano, invece, centri culturali, tramite contatti diretti. Come è facile immaginare, anche in questo caso la tracciabilità delle operazioni non è mai del tutto trasparente.

·        L’Islam ed il carcere.

Le carceri, ecco le nuove università del jihad. Laura Cianciarelli il 18 luglio 2019 su it.insideover.com. Dal crollo del califfato in Siria e Iraq, la questione del rimpatrio dei foreign fighters, detenuti nei centri curdi nel nord della Siria, è all’ordine del giorno. Non così quella sul loro destino, una volta tornati in patria. Verosimilmente, gli ex-combattenti dovranno scontare una pena detentiva per i reati commessi: solo un inizio, nel loro caso, di un percorso lungo e accidentato, che dovrebbe portarli a rivedere in maniera critica quel bagaglio ideologico grazie al quale possono fare nuovi adepti proprio all’interno delle carceri. Già in passato – come nel caso del famigerato Camp Bucca, in Iraq – le carceri si sono rivelate terreno fertile per il reclutamento di jihadisti. Ed è oggi opinione condivisa che la reclusione acceleri il processo di radicalizzazione dei prigionieri, esponendoli più facilmente al contatto con teorie ideologiche e rendendoli facili prede di reclutatori pro-jihad.

L’attività dei reclutatori. Per i soggetti reclutatori – secondo un’analisi condotta da Anne Speckhard e Ardian Shajkovci -, le carceri rappresentano un’occasione unica da sfruttare, non dovendo nemmeno faticare per trovare nuove reclute, già tutte presenti nello stesso luogo. Il loro ruolo consiste “solo” nel diffondere le proprie idee e nel fomentare una “violenza per procura“, ovvero indottrinando altre persone affinché, una volta uscite, conducano azioni terroristiche in nome del gruppo.

Le potenziali reclute non sono necessariamente detenute per reati connessi al terrorismo, anzi hanno spesso pene brevi da scontare. Ma proprio per questo possono essere avvicinate e istruite, senza suscitare particolari sospetti, perché commettano attacchi una volta fuori dal carcere. Anche per i soggetti finiti in carcere perché già terroristi o fiancheggiatori di organizzazioni terroristiche la detenzione può essere un’esperienza deleteria. Li può rafforzare nella loro dedizione alla causa jihadista, attraverso il contatto con individui ancora più estremisti, e può ampliare il loro “network” di conoscenze nella rete del terrore. Secondo i dati elaborati dall’International Center for the Study of Radicalisation (Icsr), il 27 per cento dei sostenitori dell’Isis sarebbe stato radicalizzato in carcere: una percentuale alta, che fa riflettere sulla necessità di misure effettive di recupero degli ex-combattenti.

I soggetti reclutati. Coloro che entrano in carcere per la prima volta sono individui particolarmente vulnerabili e possono trovarsi ad affrontare numerose minacce, di fronte alle quali sono costretti a elaborare dei modi per difendersi. Uno di questi consiste proprio nell’affiliarsi ai prigionieri musulmani, i quali formano già un gruppo compatto che organizza momenti di preghiera e di studio. Gli individui che si avvicinano a questi gruppi o si convertono in carcere per diventarne parte sono elementi potenzialmente sensibili a una successiva radicalizzazione. I neo-convertiti, in particolare, essendo più ingenui e quasi sprovveduti nei confronti dei reali dettami dell’islam, sono facile preda di reclutatori islamisti, incitanti alla violenza. La conversione e radicalizzazione delle persone in carcere costituisce una minaccia per la sicurezza proprio per la sua imprevedibilità. Gli stessi operatori del carcere sono portati a sottovalutare il fatto che persone condannate per crimini non legati in alcun modo al terrorismo possano diventare in poco tempo dei jihadisti. Molto dipende anche dalla capacità dei reclutatori, che di solito presentano tratti comuni: hanno cioè buone capacità comunicative, sono dotati di una grande intelligenza emotiva e scusano il passato criminale dei loro seguaci, arrivando persino ad apprezzarlo. Nella propaganda jihadista, infatti, i crimini commessi contro gli infedeli non sono qualcosa di cui vergognarsi, bensì azioni legittime, che devono essere fatte nel nome di Allah.

I programmi di de-radicalizzazione. Che il carcere possa favorire la radicalizzazione jihadista non è una novità. Nel 2006, ad esempio, se ne era già occupato il Dipartimento di Stato americano, che aveva sottolineato la necessità di realizzare un programma di de-radicalizzazione, destinato ai detenuti delle carceri gestite dalle forze statunitensi in Iraq. Proprio i militari americani si erano resi conto che, nelle carceri di Camp Bucca e di Camp Cropper, i membri di Al-Qaeda avevano iniziato a indottrinare i detenuti, insegnando loro anche a realizzare ordigni esplosivi improvvisati, disegnando le istruzioni sulla sabbia. Inizialmente, le forze americane avevano cercato di isolare i jihadisti, allontanandoli dai prigionieri più vulnerabili; con l’aumento del numero dei prigionieri e lo sviluppo delle capacità di dissimulazione dei terroristi, questo metodo è risultato inadeguato. Da qui la necessità di veri e propri programmi di de-radicalizzazione. Il tema riguarda da vicino anche l’Italia, seppur in misura inferiore rispetto ad altri Paesi europei. Il sistema italiano è al passo nella protezione dalla minaccia costituita dai foreign fighter e dagli homegrown terrorist. Recentemente, l’antiterrorismo italiano è stato elogiato per aver riportato in patria un jihadista dello Stato islamico, per sottoporlo a processo con l’accusa di terrorismo internazionale. Al momento, tuttavia, mancano nel Paese sia centri di de-radicalizzazione appositamente pensati, sia leggi che ne stabiliscano il funzionamento. Eppure servirebbero, per evitare che le carceri diventino l’ultima frontiera del jihad e quasi un’università, dove l’estremismo è l’unica materia insegnata.

DIETRO LE SBARRE L'ISLAM PROSPERA. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 maggio 2019. Sarebbe puerile attribuire al Guardasigilli tutte le colpe per il disastro delle carceri: tutte no, parecchie sì. Tra le colpe principali di questo ministro incompetente - il più imbarazzante che abbiamo mai avuto con questa carica - in fondo c' è la meno grave: l' assenza. Spesso non ha fatto disastri: Alfonso Bonafede non ha fatto nulla, e ovviamente alcune situazioni si sono incancrenite. I sistemi penitenziari funzionano come orchestre: alcune possono suonare anche senza direttore (come i Wiener) e altre se ci provano, dopo un po', divengono bande di paese dove ognuno va per conto suo: noi siamo a metà strada, ma il suono peggiora ogni giorno. Il Rapporto Antigone sulle carceri italiane l'ha spiegato bene: il sovraffollamento aumenta, i reati no. E questo è un segno evidente di malagestione a fronte di un apparato repressivo - facente capo a un altro ministero - che viceversa fa la sua parte, o perlomeno non fa registrare peggioramenti. Abbiamo 60.439 detenuti e il sovraffollamento sfiora il 120 per cento, con una crescita dei suicidi carcerari. Ci sono 8.000 detenuti in più rispetto a 4 anni fa, insomma ci stiamo riavvicinando alla soglia che vide punire l' Italia per violazione dei diritti umani: nel 18,8 per cento dei casi non si rispetta il parametro dei 3 metri quadri per detenuto (soglia minima secondo la Corte di Strasburgo) con il 7 per cento degli istituti che ha celle senza riscaldamento e il 35 per cento che non ha acqua calda. Non si tratta di posti strani e isolati: parliamo di Poggioreale, Napoli. Viene ritenuto meno grave che il 54,1 per cento delle celle siano prive di doccia. Prima di proseguire e di trarre una morale dalla relazione di Antigone, però, val la pena ascoltare anche le parole e le cifre del Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria che per bocca del suo leader Donato Capece ha raccontato anche altre cose. Per esempio che sarebbe in aumento un pericolo che troppo spesso viene rimosso o quasi dalla memoria collettiva: il radicalismo islamico. Non quello che preme dall' estero, ma quello che è sotto chiave nelle nostre carceri: ci sarebbe una netta crescita - secondo il Sappe - di detenuti che si radicalizzano, fanno proselitismo e dispongono persino di materiale propagandistico in giro per le celle. La situazione, dice Capece, come riportato anche dal Secolo d' Italia, rischia di diventare allarmante, perché c' è una particolarità della struttura religiosa dell' Islam: «È più orizzontale della nostra, nel senso che non è strutturata in gerarchie, e chiunque abbia un certo carisma può proclamarsi Imam». E a fronteggiare questo fenomeno c'è la polizia penitenziaria, quella che qualcuno chiama ancora «i secondini», e che di rischi forse ne corre già abbastanza. Il Sappe ha fatto avere al Dap (dipartimento per l'amministrazione penitenziaria) e soprattutto al ministro Bonafede delle relazioni e delle precise proposte. Risulta che Bonafede abbia agito come ha fatto sempre: non pervenuto. Il Sappe vorrebbe che il governo s' impegnasse maggiormente sul fronte delle pene da scontare nei paesi di provenienza (c' è una proposta di legge che stabilisce la concessione dei permessi di soggiorno solo a migranti provenienti da paesi con cui ci sia un accordo) ma la proposta è dell'opposizione, di Fratelli d' Italia. In pratica dice: io accolgo gente del tuo paese, ma solo se tu ti riprendi chi delinque nel mio. Ma torniamo alla Relazione degli amici di Antigone, che peraltro censisce la popolazione nelle carceri e non contempla i detenuti messi in prova, o in prigione domiciliare o impegnati in lavori di pubblica utilità: tanti. Gli altri dati sono fisiologici. È logico che ci siano più detenuti in Lombardia e un maggior affollamento in regioni meridionali (la Puglia giunge al 160,5 per cento della capienza). Meno noto è che i record di sovraffollamento sono a Taranto e a Como, e che prive di sovraffollamento sono solo la Sardegna (anche grazie all' incredibile lavoro di Pier Luigi Farci, uno che di orchestre ne farebbe suonare dieci assieme) e poi le Marche. È poi risaputo che non c'è nesso tra criminalità e lunghezza delle pene: la crescita dei detenuti nelle galere, infatti, corrisponde a una diminuzione dei reati e degli ingressi in carcere: un paradosso tutto italiano ma collegato alla carcerazione preventiva e alla non applicazione dell'articolo 27 della Costituzione (l'imputato non è colpevole sino alla condanna definitiva). Avete letto bene. In pratica, rispetto al 2019, gli omicidi sono calati del 12,2 per cento, i tentati omicidi del 16,2, le rapine del 20,9, i furti del 15,1, le violenze sessuali del 32,1, l' usura del 47: ma in galera c' è più gente, nonostante il numero degli ingressi in carcere sia diminuito e quasi dimezzato rispetto a un decennio fa. Semplicemente, non escono. Altro che scarcerazioni facili. Il resto si sa da una vita: i posti-cella in Italia sono pochi in assoluto (per uno Stato di 60 milioni di individui) e indulti e amnistie resteranno inevitabili. La direttiva europea sui suini prevede che ciascun maiale disponga di almeno 6 metri quadri, ma la Corte di Strasburgo condannò l' Italia perché un detenuto a Rebibbia viveva in 2,7. I paesi di provenienza non rivogliono gli stranieri e noi manteniamo i loro delinquenti. La legge Fini-Giovanardi è un disastro siderale che tiene in galera solo drogati o piccoli spacciatori. La legge Gozzini invece funziona (a fuggire è meno dell' 1 per cento dei detenuti) ma questo popolo di forcaioli la tira sempre in ballo. Accanto a questo c' è la certezza che le carceri sono una fabbrica o un corso di perfezionamento per delinquenti, se non, come visto, un centro di proselitismo islamico. I magistrati usano la custodia cautelare in modo estensivo (migliaia di persone, statisticamente, sono in carcere ma saranno assolti dopo il primo grado) e al ministero della Giustizia c' è Alfonso Bonafede.

·        La Sinistra e l’Islam.

L'alleanza tra sinistra e islam che sfocia nell'antisemitismo. Così dietro l'immigrazione incontrollata e la difesa dei palestinesi si nasconde l'odio contro gli ebrei. Fiamma Nirenstein, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. La questione dell'antisemitismo continua ad agitare il Partito laburista britannico e a perseguitare il suo leader, Jeremy Corbyn. Ancora in questi giorni è in primo piano sulla stampa britannica la denuncia fatta da 64 membri laburisti della Camera dei Lord i quali hanno acquistato una pagina di pubblicità sul quotidiano The Guardian per accusare Corbyn di «aver fallito il test di leadership» con la sua gestione dei casi di antisemitismo all'interno del Labour. «Questo è il tuo lascito, Corbyn: il Partito laburista accetta chiunque eccetto gli ebrei», recita il testo della denuncia sottoscritta da un terzo degli esponenti laburisti della Camera dei Lord. L'iniziativa fa seguito alle polemiche scoppiate nel Partito laburista dopo la messa in onda sul primo canale della Bbc di un documentario intitolato «Il Labour è antisemita?». Inoltre, decine di ex funzionari del Partito laburista sono pronti a testimoniare davanti alla «Commissione indipendente per l'uguaglianza» che i più stretti collaboratori di Corbyn hanno interferito nelle procedure disciplinari interne per impedire l'adozione di misure contro molti esponenti laburisti accusati di antisemitismo. In questo clima si muove la riflessione che la nostra collaboratrice Fiamma Nirenstein affida alle pagine del Giornale. L'antisemitismo diventa ancor più pericoloso quando molte acque afferiscono alla sua corrente. Così è oggi. Si può dire che l'antisemitismo contemporaneo sia un «coacervo intersezionale», come si dice oggi, alla rovescia... Ma poiché esiste lo Stato d'Israele, esso può essere fermato. Lo dico in maniera chiara: finché si permetterà all'antisemitismo di travestirsi, non ci sarà alcuna strategia adeguata per batterlo. Per esempio, ho trovato del tutto insufficiente la comparazione - per altro scelta dalla prestigiosa firma del presidente dell'«European Jewish Congress» Moshe Kantor - fra la pericolosità dell'aggressione del «Nordic Resistence Movement», un gruppo neonazista pure molto violento e feroce, agli ebrei di Umera nel 2016, con lo svuotamento imposto agli ebrei di Malmö dall'odio della comunità musulmana antisemita. La fuga da Malmö, dove la presenza islamica è diventata devastante, è specialmente significativa se si considera che l'anno scorso la Svezia ha sperimentato il più alto numero di morti violente: 306. La maggior parte degli attacchi sono avvenuti per mezzo di Kalashnikov, un'arma classica del conflitto israeliano-palestinese, in aeree «vulnerabili» abitate soprattutto da immigrati non occidentali. La polizia parla nei suoi rapporti di «presenza» di simpatizzanti di gruppi terroristi... Malmö, città da cui sta svanendo la comunità ebraica, soffre la presenza di un estremismo diffuso, tanto che il Comune ha stampato delle «guidelines» per i suoi impiegati e li invita fra l'altro a fare attenzione prima di lasciare un edificio «per evitare di finire in una situazione indesiderata». Il rischio più comune è quello dei continui incendi e distruzioni vandaliche: insomma la presenza islamica crea, e non solo a Malmö, una vera e propria «situazione di guerra», come la definiscono molti autorevoli commentatori. La violenza importata dall'immigrazione islamica incontrollata o mal controllata si è trasformata in antisemitismo: ma nessuno ha voglia di dirlo, per paura di essere accusato di islamofobia. Ne sa qualcosa l'ex presidente dell'Unione Europea Romano Prodi che nel 2003 nascose un'inchiesta che provava la presenza di diffusi sentimenti antisemiti presso i musulmani in Europa. L'antisemitismo svedese è un caso di studio molto speciale, in cui si trovano esaltati tutti gli elementi dell'antisemitismo europeo di oggi. C'è, in primis, un sottofondo di antico antisemitismo cristiano, un antico fantasma utilizzabile al bisogno. È l'antisemitismo light: a volte lo vediamo nello sciocco snobismo dell'upper class, altre volte invece è plebeo e demenziale negli stadi. In secondo luogo esiste una minoranza, residuo del passato, di idioti marciatori all'ombra di una svastica di suprematisti privi di riferimenti politici e culturali che non siano miserie razziste o memorie ipernazionaliste con le loro icone. E poi - terzo elemento - ecco la grande immigrazione islamica, il fenomeno contemporaneo per eccellenza, quello che fa tremare il mondo occidentale e arriva con un carico di antisemitismo pressoché invincibile, che parte dall'educazione dei bambini, come scrive Ayaan Hirsi Ali, che «imparano da piccoli che gli ebrei sono figli di scimmie e maiali», «disumani uccisori di palestinesi». Nella Carta di Hamas si dice chiaramente: «Le pietre e gli alberi diranno O Abdullah, c'è un ebreo qui nascosto, vieni e uccidilo». Nell'antisemitismo islamico si trova il nocciolo più duro dell'antisemitismo israelofobico, condito da incitamento e caricature ripugnanti. Infine c'è la maggiore di tutte le macchine da guerra antisemite, che ora viene chiamata in un modo e ora in un altro, che si basa sull'immensa costruzione della cultura contemporanea di Sinistra, coi suoi film, i suoi libri, le case editrici e i centri di cultura. Alla base c'è la storia europea vista attraverso il messaggio sovietico che in piena Guerra Fredda amava accusare gli Usa e i suoi alleati di essere colonialisti e guerrafondai. Israele, e quindi gli ebrei, diventano nemici dei drappelli per la pace, antimperialisti, contro il nazionalismo, che manifestano per l'uguaglianza, la libertà d'opinione, il femminismo, la difesa dei gay ... Che peccato, tante belle battaglie insozzate dal comune odio antisemita.

Torniamo in Svezia. Io stessa, quando guidavo la Commissione esteri del Parlamento italiano, nel luglio 2009, poco dopo che il giornale Aftonbladet aveva pubblicato un lungo articolo in cui spiegava che i soldati israeliani uccidono i giovani palestinesi per rubargli gli organi e poi farne commercio, mi sono sentita rispondere dal presidente della riunione delle Commissioni esteri europee, il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, che «non esiste nessun antisemitismo in Svezia». Gli avevo chiesto che cosa intendesse fare per bloccarne l'evidente ondata. La sua risposta fu: «nulla». Perché il problema, secondo lui, non esisteva. E in effetti è difficile estrapolare l'antisemitismo dal mainstream contemporaneo. Si tratta di rivoluzionare l'intera costruzione ideologica dell'Occidente post bellico, che oggi marcia nel segno di un evidente antisemitismo. La confusione, dovuta anche alla faciloneria ideologica delle classi dirigenti con cui si è affrontato il problema dello Stato-Nazione (come se si potesse cancellare con un colpo di spugna ciò che ha volto, confini, lingua, identità, cibo, famiglia...), dei confini, delle minoranze, dell'immigrazione, della condizione della donna, si è trasformata in quella famosa «intersezionalità» per cui chi si batte per la libertà della condizione omosessuale, alla fine arriva, secondo l'ideologia dei «diritti umani», a essere anti israeliano. Israele è uno dei Paesi più gay friendly del mondo. Eppure lo si dipinge sempre come se usasse le sue leggi e i suoi costumi a favore dei gay come una bandiera di «pinkwashing». Perché la vera natura dello Stato degli ebrei deve essere quella oppressiva e quindi anti-gay, come è anti-palestinese. I mille affluenti ideologici del liberalismo conducono a una quantità di altre stravaganze anti-israeliane, fra cui considerare Israele un Paese genocida (mentre la popolazione palestinese, prima di Israele un popolo alquanto volatile, adesso raddoppia, triplica, quadruplica...). O di essere un Paese in cui vige l'apartheid, o antidemocratico. Tutte accuse che i fatti smentiscono. Basta una passeggiata in un Mall, o in un ospedale, o alla Knesset. Ma tant'è: Bildt quando diceva che in Svezia non esiste l'antisemitismo voleva dire che se c'era una vibrante critica allo Stato d'Israele, se persino lo si criminalizza, ciò è giustificato dalle azioni perverse che quello Stato, sin dalla sua nascita, compie contro i palestinesi. Israele, per così dire, è la somma perfetta dell'«intersezionalità rovesciata»: ovvero chiunque al fondo abbia il germe del trimillenario malanno che affligge l'umanità, può trovarne il germe in tutte le possibili lotte per i diritti umani. Imbarazzante? Dovrebbe esserlo, in un mondo che solo 70 anni fa ha perpetrato l'Olocausto. E invece ogni organizzazione, anche quelle che come l'Unesco dovrebbero dedicarsi a preservare la bellezza del mondo, ha nell'ispirazione internazionalista il paravento per l'avversione agli ebrei. Quando scrivevo in anni molto lontani il mio primo libro sulle donne comuniste, restavo attonita scoprendo che sin dal loro inizio le prime riunioni internazionali femministe, sempre sotto l'egida dell'Urss, mettevano in relazione la rivoluzione sociale necessaria in Sud America con i movimenti femminili, mentre però l'assemblea votava l'espulsione delle donne israeliane dal loro consesso.

La Sinistra mondiale ha adottato sempre di più questo modello per cui un oppressore o presunto tale è il coacervo di tutti i mali, dall'odio anti-omosessuale allo sfruttamento economico. Israele incarna la connessione del tema dell'identità col potere, e da qui a farne l'assassino di bambini palestinesi il passo è breve. La cosiddetta «Grande marcia del ritorno» dei palestinesi di Hamas, un'organizzazione terrorista che uccide, quella sì, donne e bambini innocenti e teorizza l'antisemitismo, è considerata spesso simile alle manifestazioni dei neri d'America, alle masse di immigrati disperati, tutti perseguitati dai privilegiati, dai potenti. I missili e gli attentati di Hamas, i palloni incendiari, sono considerati epifenomeni non collegati alla natura terrorista di Hamas che domina la Striscia di Gaza. Così gli ebrei sono tornati nell'empireo degli sfruttatori e dei mostri dopo le sofferenze della Shoah. La battaglia contro l'antisemitismo deve partire dal difendere Israele dalle accuse di genocidio, colonialismo, apartheid, ossia le bandiere del nuovo antisemitismo. Gli ebrei sono i nazisti moderni, e quindi non si meritano di esistere, tanto meno come Stato nazione, di per sé un'identità che incarna il potere, la prepotenza, l'espulsione dei miseri. Se chiedessimo a Jeremy Corbyn, il leader del partito laburista britannico, perché è antisemita, risponderà che i suoi migliori amici sono ebrei, e che è semplicemente contro l'oppressione che Israele infligge ai palestinesi. Se gli si chiedesse perché tuttavia è amico di Hamas, la risposta invocherà i valori della resistenza contro l'oppressione. Questa è la bandiera europea dell'antisemitismo odierno, qui si combatte la battaglia. E di nuovo il centro è Israele, attaccato sì, ma forte: lo Stato degli ebrei oggi esiste per difenderli in tutto il mondo. Ed è solo rafforzandolo ulteriormente che si batte l'antisemitismo.

·        «Musulmani schierati a sinistra? Un errore: sono identitari e sovranisti».

«Musulmani schierati a sinistra? Un errore: sono identitari e sovranisti». Il salentino Karim Benvenuto lancia una associazione di islamici nazionalisti. Scrive Michele De Feudis il 25 Aprile 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Per un islam nazionale, contro ogni estremismo e marginalizzazione». È il musulmano pugliese Cristian Karim Benvenuto (di Lecce) a lanciare, con una intervista a ofcs.report, una associazione che riunisca tutti i musulmani sovranisti, al fine di dare un orizzonte italiano alle varie comunità presenti sui territori. Il progetto è portato avanti anche da Omar Camiletti, ex portavoce della Grande Moschea di Roma: il riferimento intellettuale di questa area è Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e artista sciita. Benvenuto, salentino, già presidente del dipartimento regionale per le politiche migratorie per la Puglia di Fratelli d’Italia, sostiene che si commette un errore «nell’identificare il musulmano come un cittadino di origine straniera e automaticamente votante a sinistra». E aggiunge una riflessione culturale che lo avvicina alle posizioni identitarie salviniane: «Un cittadino di fede musulmana non dovrebbe aderire a ideologie che vogliono disintegrare la tradizione della famiglia, specialmente quando si parla di coppie gay, coppie di fatto, utero in affitto, teorie gender e così via. Ovviamente, sempre nel massimo rispetto delle scelte altrui, pur non condividendole». Benvenuto, già promotore del quotidiano digitale dailymuslim.it inoltre mette in guardia dalla islamofobia latente nelle destre italiane: «Diventa difficile dialogare con chi si ostina a vedere l'Islam e i musulmani non come un alleato naturale, ma come nemico e causa della decadenza italiana, nonostante ci dichiariamo di destra, fieri del nostro retaggio e della nostra italianità»'. Ecco dunque una categoria politica, «il musulmano sovranista», il cui copyright è di Omar Camiletti: «Il movimento che ho contribuito a fondare - puntualizza ancora Benvenuto - insieme a molti amici ma anche, voglio ribadirlo, grazie a una notevole presenza femminile, é l'Associazione Nazionale Musulmani Italiani che si pone come obiettivo la promozione della cultura e delle radici italiane per dare voce a una realtà spesso trascurata: i musulmani italiani autoctoni e i ragazzi di seconda generazione che possono dare un contributo fondamentale alla nostra società civile». «Il mio punto di vista - argomenta il salentino - è che spesso e volentieri si sbaglia ad identificare il musulmano con luoghi comuni che lo catalogano tra i progressisti. La realtà è ben diversa e molto più complessa».

Intanto ieri il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha fornito i numeri della presenza dell’associazionismo musulmano in Italia: nel paese di sono 1.382 sodalizi culturali islamici, di cui 44 di origine salafita, «più intransigenti e radicali, sui quali c'è un attento monitoraggio». Tra queste sigle, ha specificato Salvini, 1.161 sono di origine sunnita e 1.068 sono utilizzate anche come luoghi di preghiera. La maggioranza, 840, si trovano al nord, altre 262 sono al centro e 279 al sud.

L’Ateismo arabo.

Francesca Paci per “la Stampa” il 27 giugno 2019. Non so se Dio esista, ma se esiste e a me tocca curare le malattie alla cui mercé lascia i bambini dev'essere veramente cattivo». Così parlò Sharif, oncologo del reparto di pediatria di un grande ospedale privato egiziano, in una calda sera cairota di qualche tempo fa. Come oltre l' 85% dei suoi connazionali Sharif è nato e cresciuto musulmano in una società che pur secolarizzandosi nei costumi considera la fede il paradigma della vita e l' ateismo il più inviolabile dei tabù. Eppure Sharif non è l' unico: il dubbio illuminista a cui finora sembrava immune la umma, la grande famiglia dell' Islam, comincia a insinuarsi anche all' ombra del Corano, il testo ininterpretabile per eccellenza e dunque indiscutibile nel suo ruolo di guida morale e politica, come ben sanno i riformisti alla Muhammad Taha, il teologo sudanese nemico della sharia impiccato nel 1985 con l' accusa di apostasia. Secondo una recentissima ricerca dell' Arab Barometer in 10 diversi Paesi del Nord Africa e del Medioriente, gli arabi, un quinto dell' oltre miliardo e mezzo di musulmani del mondo, sono sempre più inclini a mettere in discussione il proprio credo. Parliamo di cifre ancora ridotte rispetto all'Occidente, ma è un fatto che la percentuale di chi si definisce «non religioso» sia passata in media dall' 8% del 2013 al 13% del 2019. Tra gli under 30 poi, il fenomeno è ancora più significativo: con l' eccezione dei palestinesi, popolo un tempo assai meno religioso di quanto sia oggi (i non credenti si sono spostati appena dall' 8% al 9%), un giovane su cinque non riconosce la dimensione confessionale come fulcro della propria identità. Ogni società fa storia a parte, ovviamente. Nello studio dell' Arab Barometer l' attitudine alla religione viene misurata insieme a quella verso la condizione femminile, la sicurezza, il rapporto con la sessualità. Non stupisce dunque che l'avanzata della laicità sia maggiore laddove il terreno è più fertile come in Tunisia, con il coming out dei renitenti alla fede (dal 16% al 35%) germogliato in un Paese in cui sin dagli anni '50 è bandita la poligamia, le donne votano e accedono alle cariche pubbliche mentre l'aborto è legale dal 1965, assai in anticipo rispetto all'America e a diverse realtà europee. Tunisia a parte però, gli «obiettori» crescono a macchia d'olio: in Libia (dall' 11% al 25%), in Algeria (dall' 8% al 13%), in Marocco (dal 4% al 12%), in Egitto (dal 12%). Il punto non è la dimensione spirituale, che per altro l'occidente laico inizia ora a riscoprire. La cieca sottomissione a Dio diventa la cifra di un'immobilità sociale asfittica se religione e politica si sovrappongono, come quasi ovunque nel mondo musulmano. È interessante perciò che dopo il 2011, la promettente stagione delle rivolte arabe troppo rapidamente sfiorita, la domanda sull'aldilà si sia fatta strada proprio tra chi aveva osato sfidare poteri e regimi inamovibili. A mettere nero su bianco il cambio di passo è stato nel 2013 il libro del reporter inglese Brian Whitaker "Arabs without God", Arabi senza Dio, una serie di storie di non credenti circolate all' inizio in modo quasi clandestino, considerando che Riad giudica l' ateismo al pari del terrorismo mentre l' Egitto di Al Sisi, d' intesa con l' università al Ahzar e la Chiesa ortodossa, ha giurato di far guerra a «una moda» che un giornale locale di qualche anno fa stimava aver contagiato già 3 milioni di giovani. Più laici dunque, per quanto in arabo la parola non sia neppure ben traducibile. Ma anche più disponibili a una donna presidente (oltre il 50%), sebbene ad eccezione del Marocco la maggioranza creda ancora che il marito abbia priorità sulla moglie. Resta vivo il pregiudizio sull' omosessualità, l' ultima frontiera identitaria dopo aver intaccato un po' quella della fede. Un po', non del tutto: basta pensare che se Putin surclassa di gran lunga Trump nell' immaginario politico arabo è zero rispetto all' adorazione per Erdogan, il religiosissimo presidente turco.

·        Liberté, egalité. E décolleté. Libera Tetta in libero Stato.

Da Il Messaggero il 26 giugno 2019.  Una protesta che è costata cara, quella di un gruppo di donne musulmane che hanno sfidato un'ordinanza che impediva loro di frequentare una piscina pubblica indossando il particolare costume da bagno noto come 'burkini'. Le donne, infatti, hanno deciso di tuffarsi in piscina indossando il burkini, che copre l'intero corpo tranne il volto, le mani e i piedi, ma sono state multate. È accaduto domenica scorsa in Francia, all'interno di una piscina comunale di Grenoble. La protesta, esplicitamente ispirata all'esempio di Rosa Parks, era stata lanciata da un'associazione culturale di stampo femminista, l'Alleanza Cittadina di Grenoble. Le sette donne in burkini che si sono rese protagoniste della protesta, però, hanno ricevuto una multa di 35 euro ciascuna. La notizia ha fatto molto discutere in Francia ed ha rapidamente oltrepassato i confini nazionali: a parlarne anche media britannici come l'Independent. L'iniziativa non è affatto nuova: già un anno fa, l'associazione aveva promosso proteste simili contro l'ordinanza di Eric Piolle, sindaco di Grenoble, che aveva vietato l'utilizzo del burkini nelle piscine comunali. I fatti di domenica scorsa, però, hanno suscitato reazioni opposte sui social network. Uno dei sostenitori della protesta, Taous Hammouti, ha dichiarato: «Quella norma discrimina non tanto le donne musulmane, quanto i loro figli, che non potrebbero essere accompagnati in piscina dalle loro mamme. Martin Luther King, però, amava ripetere che il potere va sfidato». Non mancano ovviamente gli attacchi dei partiti di destra, ma qualche critica è giunta anche da giovani di fede musulmana: «In un paese come la Francia non può esserci spazio per il burkini. La comunità islamica deve saper rispettare le leggi di questo paese».

In Francia è guerra tra musulmane e non a colpi di burkini e décolleté hot. Da una parte il diritto delle donne occidentali di mostrare le proprie forme senza essere importunate. Dall'altra le musulmane ribelli che sfidano la legge per farsi il bagno coperte con il burkini. Eugenia Fiore, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. Liberté, egalité. E décolleté. In Francia è guerra tra chi sfida il divieto del burkini nelle piscine e chi, invece, rivendica la laicità dello Stato a colpi di foto hot. Tutto è iniziato qualche giorno fa a Grenoble. Qui un gruppo di donne musulmane ha lanciato una protesta nelle piscine a favore del burkini, il costume da bagno in linea con i dettami islamici che copre tutto il corpo lasciando scoperti solo mani, piedi e viso. Ma tante piscine in Francia lo proibiscono, considerandolo un simbolo religioso islamico e quindi contrario alla laicità dello Stato. Alla protesta hanno aderito i membri della Alleanza cittadina di Grenoble, scesi in campo per difendere quello che viene considerato un diritto delle donne musulmane. Un'altra incursione è avvenuta poi in un'altra piscina della città francese, la Jean Bron. Per tutta l'operazione, tra l'altro, non è da escludere che le islamiche si beccheranno pure delle multe. Le musulmane che hanno partecipato hanno poi spiegato alla stampa di aver agito in nome della libertà di tutte le donne. Ma non a tutte le donne francesi, appunto, l'iniziativa è piaciuta. E anzi, c'è proprio chi ha lanciato una sorta di contro-protesta. E sempre in nome della libertà. Il vero protagonista dell'hashtag #JeKiffeMonDécolleté è, appunto, il seno. A lanciare l'iniziativa è stata la giornalista francese Zohra Bitan, che ha invitato le donne a condividere le foto del loro décolleté su Twitter. L'obiettivo? Incoraggiare gli utenti di Internet a reclamare il loro diritto di vestirsi come desiderano, senza subire insulti o commenti sprezzanti. Mentre continua la ribellione pro-burkini, sui social sono iniziate a girare sempre più foto di décolleté di donne francesi. E qual è la differenza tra le due proteste? Be', il décolleté rispetta la legge. Il burkini, invece, no.

Mauro Zanon per Libero Quotidiano il 26 giugno 2019. Il décolleté contro il burkini. Il diritto delle donne occidentali di mostrare le proprie forme senza essere importunate da una parte, e la battaglia delle musulmane per farsi il bagno coperte nel rispetto di Allah dall' altra. Eccole servite, le prime polemiche balneari francesi. Polemiche sui tre temi che più degli altri hanno infiammato i dibattiti negli ultimi tempi: la laicità, l' islam e i diritti delle donne. Nel Paese che inventò il bikini (l' ingegnere Louis Réard, nel 1946, scelse una danseuse del Casino de Paris, Michelle Bernardini, come prima indossatrice del mitico costume da bagno che aveva ideato), oggi alcune donne vogliono imporre l' utilizzo del burkini, vietato nelle piscine pubbliche e contrario alla laicità. Si sono autoproclamate «Rosa Parks musulmane», in riferimento alla celebre icona afroamericana che si rifiutò nel 1955 di cedere il suo posto a un uomo bianco. Invocano il presunto «diritto delle donne velate» e dicono che la Francia è «islamofoba» perché non permetterebbe loro di fare ciò che desiderano. «Vogliamo disobbedire per rivendicare il diritto di fare il bagno coperte», gridano in faccia a laici e cattolici. Domenica, come già un mese fa, sette donne appartenenti al collettivo Alliance Citoyenne hanno fatto irruzione in una piscina di Grenoble, la Jean-Bron, in violazione delle regole: un happening per dire al mondo che loro vogliono «solo fare sport» e nessuno glielo dovrebbe impedire.

IL SILENZIO DI MACRON - «Visto che il sindaco di Grenoble Eric Piolle non esercita l' autorità della polizia che gli appartiene, è lo Stato che deve sostituirsi. Il presidente Emmanuel Macron ha dichiarato di voler lottare contro l' islamismo: è il momento di passare dai principi all' azione», ha twittato Gilles Clavreul, ex prefetto e presidente del think tank Aurore. Come lui, in molti hanno denunciato coloro che scambiano una battaglia identitaria islamica, quella per introdurre il burkini, per una lotta di emancipazione paragonabile alla nobile ribellione di Rosa Parks. E dal governo Macron? Silenzio. Un silenzio denunciato duramente dalla militante laica e anti-velo Zohra Bitan, che su Twitter ha segnalato alla segretaria di Stato per le Pari opportunità Marlène Schiappa anche i molti utenti che si sono espressi con toni violenti sull' altra polemica di questo fine settimana: quella del décolleté. Con migliaia di donne che, per solidarietà con una ragazza vittima di commenti inappropriati (tale Céline B., trattata da «sporca baldracca» per una canottiera giudicata da un uomo troppo succinta), hanno pubblicato una foto delle loro forme, più o meno generose, e lanciato l' hashtag #JeKiffeMonDécolleté (amo il mio décolleté). «Non dimenticatevi ragazze, domani sabato 22 giugno alle 18, aspettando la canicola e per resistere alla polizia dei vestiti che tenta di incunearsi qua e là #JeKiffeMonDécolleté. Preparate le vostre foto», ha scritto venerdì Zohra Bitan. Hanno risposto in migliaia al suo appello, anche persone famose come l' attrice Véronique Genest, e l' hashtag è stato ai primi posti durante tutto il weekend.

SHARIA STRISCIANTE - Per «polizia dei vestiti», va da sé, la Bitan si è riferita alla polizia morale, sul modello dei Paesi musulmani, che si sta diffondendo nelle banlieue multietniche di Francia e nelle zone a maggioranza arabo-africana, dove l' islam detta legge e le ragazze vengono trattate come «puttane» se non si coprono abbastanza. «Il décolleté non è un precetto religioso, ma una libertà naturale in Francia!», ha scritto la Bitan. Purtroppo il suo grido laico, a sinistra, è ancora isolato. Pullulano invece gli utili idioti che non capiscono che le donne sono usate dagli islamisti come cavallo di Troia per halalizzare la Francia, e che i cattivi maestri dell' islam politico vogliono trasformare il Paese del bikini nel Paese del burkini.

Valentina Rigano per “il Giornale” il 29 luglio 2015. La Francia ha reagito, immediata, unita, «spogliata» sulla rete sull'onda di migliaia di selfie in costume da bagno, all'ipotesi di un nuovo attentato alla sua libertà, concretizzatosi in quello che sembrava un vero e proprio linciaggio ai danni di una ventunenne che prendeva il sole in bikini in un parco pubblico, da parte di due giovani musulmane. La strage di Charlie Hebdo ha delineato una marcata linea rossa nelle coscienze del paese d'oltralpe che, al primo accenno di un nuovo attacco al modello di vita occidentale, si è virtualmente preso per mano per combattere il razzismo religioso. È questo il tassello importante emerso tra le ombre del volto gonfio di lividi della vittima di un presunto episodio di integralismo, dove la tolleranza e la cautela nei giudizi vengono spinte via dal viscerale bisogno di delimitare e respingere ogni forma di estremismo da un Paese che ha pagato a caro prezzo la sua forte, a tratti per mano di spregiudicata penna, voglia di libertà. È trascorsa una settimana dalla pubblicazione su un sito locale francese (L'Union) della notizia che dava per certa una feroce aggressione ai danni di Angelique Slosse, ventenne di Reims, comune francese nel dipartimento della Marna, regione Champagne-Ardenne, presa di mira da cinque giovani donne, di cui due islamiche, perché prendeva «immoralmente» il sole al parco in bikini. La vicenda è stata catapultata immediatamente alla ribalta dei media nazionali dove, però, con il tempo è stata ridimensionata. «L'Union» aveva titolato l'episodio «aggredita in bikini da donne mussulmane perché ritenuta immorale». Secondo quanto ricostruito dal media straniero la vittima stava prendendo il sole nel parco Leo-Lagrange quando un gruppo di cinque giovani, tra cui le maggiorenni Ines Nouri, Zohra Karim e Hadoune Tadjouri, le sarebbe passato accanto e una di loro, perché musulmana, l'avrebbe offesa a causa del succinto bikini che indossava. La risposta piccata della giovane avrebbe, secondo «l'Union», scatenato la reazione violenta del branco, che le si sarebbe scagliato contro riempiendola di calci, schiaffi e pugni al volto. A bloccare il pestaggio sarebbero stati alcuni passanti che, chiamata la polizia, avrebbero messo in fuga la «banda» di giovinastre, poi identificate e fermate dagli agenti francesi. Sia «Le Monde» che «Liberation» hanno però reso noto nei giorni scorsi che la magistratura francese tende ad escludere un movente religioso alla base del pestaggio. Attraverso BuzzFeed France poi, la diciannovenne mussulmana presunta istigatrice dell'aggressione, avrebbe dato ieri la sua versione dei fatti: «Ero con tre amiche e la mia sorellina, siamo passate davanti a tre donne in bikini. Ho detto alle altre che io non avrei mai avuto il coraggio di prendere il sole in quella tenuta. Ma l'ho detto perché sono complessata, niente a che vedere con la questione religiosa o morale. Sono mussulmana, è vero, ma tollerante». Il dubbio quindi resta. Ma a prescindere che si sia trattato di una questione «religiosa» o di bestiale stupidità, ciò che resta inciso nella pietra è la campagna #jeportemonmaillotauparcleo («indosso il mio bikini al parco Leo»). Sono migliaia le fotografie di giovani, soprattutto donne, che circolano su twitter e tutti gli altri social network, a sostegno di Angelique, divenuta suo malgrado in poche ore simbolo della libertà di espressione (in qualsiasi forma) della Francia. Un emblema che pone l'accento sulla forza di un Paese che oltre a non essersi lasciato intimidire dai fiumi di sangue versati a inizio anno, dimostra di non permettere a nessuno la messa in discussione della condizione della sua popolazione femminile. La difesa di quel bikini, è come una carezza carica di rassicurazioni al volto tumefatto di Angelique, quasi a dirle che decenni di battaglie culturali per la libera gestione del proprio corpo da parte di una donna, sono intoccabili. Il bikini non si copre, al massimo si strappa, #jesuislibre.

Barbara Costa per Dagospia 15 settembre 2016. “Sono una pornostar. E sono musulmana. E non ci trovo nessuna contraddizione”. Lunghi capelli corvini, occhi scuri, labbra carnose: è Nadia Ali, 24 anni, nata negli Stati Uniti da immigrati pakistani. E’ la prima pornostar professionista, mussulmana praticante e fiera di esserlo. E’ famosa in rete per i suoi film girati per la PornFidelity, casa cinematografica americana guidata da una donna, l’attrice e produttrice hard Kelly Madison. “Io non mi sento diversa dalla altre donne della mia famiglia”, ha detto Nadia Ali al Daily Beast, “loro sono tutti ferventi praticanti. Io mi sento vicina a loro, la mia cultura è islamica, il mio background è mediorientale. Mi hanno educata e cresciuta così. Non mi sento per nulla a disagio con il lavoro che faccio, ma i miei familiari sì, mi hanno ripudiata, dicono che sono una vergogna per tutto l’islam”. Un ripudio che l’ha resa ancora più combattiva: Nadia gira le scene indossando il velo islamico e vuole specializzarsi nel porno lesbo, perché se nei paesi islamici l’omosessualità è condannata, quella femminile lo è ancora di più: “Che vorrebbero fare, proibirci di scopare? Ci penserò io a mostrare a tutti come ci masturbiamo bene e quanto ci piace il sesso a noi mediorientali”. Filmati porno con donne islamiche in rete ci sono sempre stati, ma fino a poco tempo fa erano solo porno amatoriali, girati in webcam, o produzioni realizzate a bassissimo budget. Video con pornoattrici improvvisate che si cimentavano in tutto: fellatio, rapporti anali, lesbo, orge. Ogni ragazza recitava seminuda, coperta solo dal velo islamico. Nel 2014 avviene il salto di qualità: BangBros.com gira e distribuisce in rete “Mia Khalifa Is Cumming For Dinner”, una sorta di indovina chi viene a cena in versione porno, con una giovane mussulmana che presenta il fidanzato americano a sua madre. Le due offrono un’accoglienza a base di pompini al nuovo “membro” della famiglia. Alla fine finiscono tutti e tre a letto, in un threesome senza sosta. E’ il film debutto della 20enne Mia Khalifa, libanese, immigrata negli Stati Uniti da bambina. Con questo film, Mia è stata per due mesi in vetta alla classifica di PornHub come pornostar più cliccata. Con lei è nato l’“hijab porn”, un settore specifico di video porno, interpretati da ragazze mediorientali, che scopano con il velo islamico. Denudano il loro corpo, tolgono tutto, fanno sesso in ogni posizione, ma con indosso l’hijab, il chador, il niqab, e perfino il burqa. Dopo il successo del primo film, Mia ha iniziato una promettente carriera, girando altri hijab porn, tra cui “BJ Lessons With Mia Khalifa”, in cui insegna ad altre ragazze mediorientali, velate, ingenue e curiose, tutti i segreti del sesso orale. La produttrice hard Kelly Madison ha capito subito le potenzialità dell’hijab porn. Nel 2015 ha girato e distribuito in rete “Women of Middle East”, un film in 4 episodi che ha fatto molto scalpore. Kelly Madison voleva capovolgere lo stereotipo delle donne mussulmane sottomesse, rendendole protagoniste di scene porno dove venisse fuori tutta la loro dirompente sessualità: “Le donne mediorientali sono bellissime, non c’è niente di male nel metterle dentro un porno. Ho mostrato lo splendore dei loro corpi celato dai loro abiti tradizionali”. Nel primo episodio del film, una sensualissima afgana porta a guinzaglio un uomo, lo picchia, lo maltratta, per poi scoparselo alla grande. Una scena sadomaso di dominazione davvero originale, girato da una pornostar latinoamericana dal corpo mozzafiato, Karmen Bella, nuda sotto il niqab nero. Nel secondo episodio una moglie saudita, Nadia Ali, rivendica il diritto a guidare un’automobile e la sua indipendenza. Il solo luogo dove suo marito può comportarsi da padrone è il letto. Nel terzo episodio, l’iraniano-tunisina Arabelle Raphael balla un’erotica danza del ventre, prima di darsi da fare in un bordello. E infine, l’episodio più “osceno”: Nikki Knightly in burqa che si prostituisce, prendendolo in bocca ai suoi clienti. “Il mio è solo un porno”, ribadisce Kelly Madison, “non un film di critica e denuncia sociale. Il porno è fantasia. Curiosità. Divertimento. Deve far eccitare chi lo guarda”. I dati parlano chiaro: su Google, i paesi che ricercano più siti porno sono quasi tutti mussulmani. Pakistan e Egitto ai primi posti, seguiti a breve distanza da Iran, Marocco, Arabia Saudita e Turchia. Mia Khalifa non è mussulmana, bensì cristiana. Per i suoi hijab porn riceve continue minacce in rete da vari gruppi fondamentalisti. Lei non demorde e prende tutto con ironia. Anche quando le è stato inviato un fotomontaggio con la sua testa sopra il corpo di un prigioniero in tunica arancione, in procinto di essere decapitato da un boia dell’ISIS: “Meno male che hai deciso di tagliarmi la testa e non le tette”, ha risposto lei via twitter, “perché quelle mi sono costate parecchio”. Le intimidazioni e gli insulti via social non si fermano. E neanche Mia: “Ma quelli del Medio Oriente non hanno fin troppi problemi a cui pensare invece di importunare una brava pornostar come me?”.

·        Il Vaticano e gli abusi sulle suore.

Da liberoquotidiano.it il 22 novembre 2019. Per Papa Francesco un'altra gatta da pelare. Chiuso il monastero perché la madre superiora è fuggita per amore. È successo nel cuore della Valtiberina, il ramo della provincia che declina verso il Tevere. Una storia raccontata dal Giorno in edicola venerdì 22 novembre: la madre superiora che col tempo perde i suoi punti di riferimento, quelli che ne avevano guidato la vita fino ai suoi 40-45 anni. Tutto dovuto all'incontro con un uomo. Una persona vicina a quella realtà e dalla quale la suora non si staccava mai. Un legame che diventa col passare del tempo sentimentale. Lei frena la sua attività, capisce quanto sia in contraddizione con quanto sta vivendo. Insieme decidono di dire stop. Ma ormai la vita è cambiata. In accordo tra la superiora e l'ordine ecco il passo indietro. Il legame sentimentale è finito ma insieme si rompe anche l'altro, che pure pareva per sempre. Con l'addio della suora però chiude però il convento, conosciuto come quello dei matrimoni: non senza aver propiziato l'ultima storia d'amore. La più scomoda che ha creato grande imbarazzo anche nelle alte sfere del Vaticano, ma non per questo la meno vera.

La sventurata di Sansepolcro. E il convento chiude per amore. La superiora ha una relazione e lascia i voti. Nel monastero restano soltanto tre sorelle: troppo poche. Il vescovo di Arezzo: “Decisione della Santa Sede”. Lei: “Anch’io piango, sarò segnata per sempre”. Maria Cristina Carratù su La Repubblica il 23 novembre 2019. Riaperto quattro anni fa dopo un periodo di abbandono, chiude di nuovo, all’improvviso, l’antico convento dei Padri Cappuccini di Sansepolcro. Dal 1611 appollaiato sul colle che domina il centro storico, centro di spiritualità e di accoglienza, fu concesso nell 2015 alle monache benedettine olivetane e diventò un monastero, dedicato a San Bernardo Tolomei. Una chiusura, però, che per una volta non si deve (soltanto) a carenza di vocazioni. È una storia di cuore, infatti, all’origine della improvvisa decisione della Congregazione Olivetana di riconsegnare le chiavi ai Cappuccini, di allontanare prima la superiora Maria Teresa Saccente, e poi le altre tre monache - una consorella di 80 anni, e due novizie - e chiudere «definitivamente» il monastero, come è scritto in rosso nel sito delle benedettine. Nonostante le olive da cogliere, il frutteto in produzione, e i nuovi progetti annunciati di recente dalla stessa superiora. Pugliese, quarantenne, energica e sempre sorridente, capace di gestire con piglio manageriale i lavori di ristrutturazione e l’accoglienza per il turismo religioso — 19 posti letto nel convento, più altri 20 in alcuni bungalow nel bosco, con un grande spazio anche per matrimoni, battesimi e comunioni — , Suor Maria Teresa aveva ridato vita a un luogo caro a generazioni di fedeli della città di Piero della Francesca. «Mai visto un entusiasmo simile», dicono i tanto che avevano ricominciato a frequentare il colle. Incapaci di spiegarsi le voci che girano da settimane: Suor Maria Teresa, ebbene sì, la superiora che promuove ritiri spirituali e conferenze sulla vita contemplativa, si è innamorata di un uomo, ha dovuto lasciare il velo e in mancanza di sostitute il monastero deve chiudere. Non una novità, del resto, se si resta alle chiusure per carenze vocazionali (come quella, recente, del vicino Cenacolo di Montauto, ad Anghiari). Più raro, invece, anche se non inedito, l’addio da love story. La storia, in realtà — o secondo qualcuno, la coinvolgente relazione sentimentale della superiora di Sansepolcro — a un certo punto si sarebbe interrotta proprio per sua volontà, di sicuro, dice chi la conosce, spinta dalla sua forte vocazione. La rinuncia, però, non le ha evitato il peggio. Non è chiaro se per iniziativa della monaca, o per un ordine perentorio, o per la moral suasion della Congregazione, ma Suor Maria Teresa tornerà allo stato laicale. È lei stessa a confermarlo al telefono a "Repubblica": «Le pratiche sono in corso», spiega. Chi l’ha frequentata negli ultimi giorni, la descrive sorridente come al solito, ma molto provata: «La gente piange per la chiusura del monastero, e anch’io piango», ha detto, «quello che sto subendo mi segnerà per la vita, e sarà difficile che in futuro io voglia ancora avere a che fare con la Chiesa». Ma davvero la causa di tutto è una storia di cuore? «Hanno voluto dire così, lasciamo che lo dicano, la faccenda è molto più complicata di quanto sembra», replica lei, catapultata nel ruolo di pietra dello scandalo, stile monaca di Monza, e di responsabile indiretta della nuova sottrazione alla città di quello che il sindaco, Mauro Cornioli, definisce, «un luogo spirituale e uno spazio di accoglienza di cui Sansepolcro non può fare a meno». A confermare la vicenda è lo stesso vescovo di Arezzo Riccardo Fontana, che pure dice di aver saputo «a cose fatte». Del resto, sottolinea, «io non c’entro nulla, è intervenuta la Santa Sede e tutto è finito».

Finito, per modo di dire: «È una vicenda molto dolorosa per le persone coinvolte», ammette il vescovo. E anche per chi, nel terzo millennio, si è ritrovata nei panni di una sventurata monaca seicentesca.

"Quelle suore pregano troppo". E il Vaticano chiude l'ordine. Riccardo Cascioli, Domenica 23/06/2019, su Il Giornale. Governo autoritario della Congregazione, immobilità nel vivere il carisma, troppa preghiera e in modo tradizionale. A causa di queste accuse e di fronte al rifiuto delle suore di vedere snaturata la loro missione, un altro ordine religioso viene distrutto ad opera del Vaticano. Questa volta tocca a un giovane istituto francese, quello delle Piccole Sorelle di Maria Madre del Redentore, ma è solo l'ultima puntata di una serie di attacchi a congregazioni religiose, magari ricche di vocazioni in tempi di magra generale, giudicate «troppo tradizionaliste» e poco in sintonia con «la nuova teologia della vita consacrata». La storia delle Piccole Sorelle ha inizio nel 1939 quando un gruppo di giovani si riunisce in comunità a Tolosa attorno a Maria Nault, poi Madre Maria della Croce. Dopo la nascita di altre comunità, nel 1989 vengono riconosciute come istituto religioso dall'allora vescovo di Laval, Louis-Marie Billé. Gestiscono case di riposo per anziani, insegnano catechismo e aprono le loro case all'ospitalità di parrocchie e movimenti. Tanta accoglienza e impegno per i più vulnerabili della società affonda però in una vita di preghiera intensa, nelle tante ore dedicate all'adorazione eucaristica e all'amore per la liturgia tradizionale, come ad esempio la celebrazione della messa in rito antico. Anche il loro abito dice di questo amore per la tradizione, visto che indossano il guimpe, quel copricapo di origine medievale che incornicia il viso e copre il petto e le spalle. È proprio a Laval che cominciano le disavventure delle suore, che già nel 2010 entrano in conflitto con il nuovo vescovo, Thierry Scharrer, che vuole separare la comunità delle religiose dalla gestione della casa di riposo. Nel frattempo a Roma la Congregazione che si occupa degli istituti religiosi, guidata dal cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz, è diventata implacabile nel perseguire ordini di frati e suore che hanno vocazioni abbondanti e sono troppo legati alla Tradizione. Così le Piccole Sorelle di Maria Madre del Redentore entrano nel mirino vaticano e vengono sottoposte a ispezioni, invio di commissari e diktat. L'associazione di sostegno alle suore, nata nel frattempo per sostenerle in questa battaglia per la loro sopravvivenza, denuncia che alle suore è stata rimproverata «troppa preghiera». In questo pontificato si sta realizzando uno stravolgimento della vita religiosa, che tende a ridurre al minimo l'autonomia di conventi e monasteri e a fare passare in second'ordine la preghiera e la liturgia rispetto all'utilità sociale. Così, alle suore francesi che non accettano questa intrusione violenta nella loro vita religiosa il Vaticano risponde con un ultimatum: accettare una superiora-commissario indicata da Roma o uscire dall'ordine. La nuova superiora imposta è suor Geneviève Médevielle, religiosa che veste con abiti laici. Docente di Etica all'Istituto cattolico di Parigi, è anche autrice di un libro dal titolo significativo, I migranti, Francesco e noi. L'esito della vicenda è segnato: 34 delle 39 suore di Laval respingono la nuova superiora e piuttosto chiedono di essere sollevate dai loro voti nell'istituto, nella speranza che questo gesto clamoroso spinga i responsabili in Vaticano almeno ad ascoltarle. Invece nei giorni scorsi la richiesta delle suore è stata accettata e l'ordine distrutto. Le suore hanno annunciato l'intenzione di intraprendere un'azione legale contro le autorità ecclesiastiche per molestie morali e diffamazione. La vicenda delle suore francesi è solo l'ultimo episodio di questa guerra contro gli istituti religiosi, di cui viene ritenuto responsabile operativo il francescano José Rodriguez Carballo, segretario della Congregazione vaticana per la vita religiosa. Tra i più clamorosi, va certamente citato il caso dei Francescani dell'Immacolata, commissariati già da sei anni, con il loro fondatore praticamente agli arresti domiciliari, senza che sia mai stato chiarito ufficialmente il motivo di tanto accanimento. Curiosamente anche in questo caso si è parlato di una generica gestione autoritaria, anche con denunce di maltrattamenti, poi caduti nel vuoto. Ma anche qui si capisce che c'è di mezzo la vita di preghiera e la preferenza per la liturgia antica, che pure Benedetto XVI aveva valorizzato e liberalizzato. Più recentemente la scure è calata su Familia Christi, che il nuovo vescovo di Ferrara, l'immigrazionista estremo Giancarlo Perego, ha denunciato a Roma e allontanato dalla sua diocesi dove erano stati riconosciuti dal vescovo precedente, Luigi Negri. Anche loro, che pure avevano ridato vita a un santuario dove è avvenuto un miracolo eucaristico nel XII secolo, troppo amanti delle liturgie in latino e troppo dediti all'adorazione eucaristica. E poi ancora, la Fraternità dei Santi Apostoli di Bruxelles, soppressa nel novembre 2017 perché aveva «troppi seminaristi francesi». Un pretesto ai limiti del ridicolo per una Chiesa che si chiama cattolica, il problema vero è sempre il solito: non sono troppo inclini ai dettami della nuova Chiesa.

Tra le monache di clausura: «Anche qui donne e poi suore. L’errore è credersi sante». Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it. Tra le monache di clausura: «Anche qui donne e poi suore L’errore è credersi sante». Tra le religiose nel monastero di Città della Pieve. «Ho combattuto con Dio, gli dicevo: non farmi questo. La grata una reclusione? No, è la siepe di Leopardi. Sono andato al monastero di Santa Lucia a Città della Pieve per ascoltare la voce di donne che hanno compiuto una scelta esistenziale e religiosa molto radicale. Ho nella memoria un bellissimo documentario radiofonico di Sergio Zavoli dedicato a queste persone. Incontro la Madre Badessa Manuela Corvini e suor Fedele dopo che una sorella mi ha fatto avere, attraverso una «ruota», la chiave di una piccola sala in fondo alla quale c’è una grata. Dietro di essa siederanno a lungo, con pazienza e sorriso, due donne italiane che hanno accettato di raccontare la loro scelta e la loro vita.

Quante sorelle siete qui?

«Ventotto: dai 104 ai trentadue anni. La fascia media è tra i cinquanta e i sessanta».

Suor Fedele, com’è una giornata qui dentro?

«Inizia molto presto, alle cinque e mezza con la celebrazione delle Lodi mattutine. Poi preghiamo per tutto il giorno, tranne i pasti e le ore lavorative che vanno dalle nove alle dodici e dalle sedici alle diciotto. Dopo la cena abbiamo 45 minuti di ricreazione per stare insieme e dopo la preghiera della sera, alle nove e trenta, ci ritiriamo nelle nostre celle».

Madre Manuela, cosa rende una giornata diversa dalle altre?

«L’intenzione con cui la vivi, credo. Ripartire da capo ogni mattina, con il Signore e con le sorelle».

Posso chiedervi come siete arrivate, ciascuna, a questa scelta così radicale?

«Non è mai un’iniziativa personale, la persona non dice: “Ecco adesso entro in monastero”. È come quando si incontra una persona e ci si innamora, stesso modo. Se ragioniamo con un’ottica di fede, c’è una chiamata. È un’iniziativa di qualcuno, con la q maiuscola. Io ho lottato con il Signore prima di dire di sì a questa vocazione. L’iniziativa non è stata mia, ero proiettata verso altro nella vita. Anche se all’interno di una formazione più o meno religiosa, ho combattuto con il Signore perché gli dicevo: tutto, ma non questo. Però ad un certo punto ricevi un amore così grande che non puoi non restituirlo».

A che età è entrata?

«Ventisette».

Come era la sua vita prima?

«Studiavo. Ho fatto Lettere classiche, mi sono laureata al Raimondi a Bologna. Ero fidanzata, proiettata sul matrimonio e sull’insegnamento».

E poi che successe?

«È intervenuto il Signore».

In che momento? Come si è manifestato?

«Ad un certo punto si è interrotto il rapporto con questo ragazzo, ma non perché ci fosse un’altra persona, né da parte mia né da parte sua. Per quello che riguarda me non mi bastava più questo rapporto. Avevo tutto, avevo l’affetto di un ragazzo, dei miei, prospettive sicure per il futuro, tutto quello che si vuole. L’impegno in parrocchia, tante cose gratificanti, però avvertivo un’insoddisfazione dentro, un senso di vuoto profondo a cui, in alcuni momenti, non sapevo dare il nome. Il nome l’ho messo dopo, a posteriori».

Quindi non c’è stato un momento particolare nel quale ha sentito questa chiamata?

«Non sono stata buttata da cavallo come san Paolo. È stata una cosa lenta, graduale e, ripeto, ho combattuto con il Signore. Solo alla fine, quando ho detto va bene mi arrendo hai vinto tu, ho trovato la pace e una pace profonda. Come un mare: possono esserci tempeste in superficie, però le acque in basso sono calme».

E perché la scelta della clausura nel monastero e non di un’altra forma di impegno?

«Al Signore ho detto: “Va bene ti faccio la suora, ma non la clausura” proprio perché mi attirava, questa scelta, ma allo stesso tempo mi angosciava. Solo che qualunque altra forma non mi restituiva la radicalità che io cercavo. Io cercavo un amore radicale per il Signore, per la Chiesa, e li ho trovati solo in clausura, perché se avessi scelto la forma di vita attiva, non avrei potuto essere contemporaneamente dove avrei dovuto. Se ero in una scuola non ero in Africa, se ero in Africa non ero in parrocchia... Mentre, è un paradosso come ce ne sono tanti nella nostra fede, questo è stato l’unico modo che mi ha permesso di raggiungere tutti».

Suor Fedele?

«Per me invece è stata la caduta di San Paolo. L’opposto della Madre».

Di dove è?

«Tortona, provincia di Alessandria. Sono entrata a 24 anni, dodici anni fa, nel 2007. Dopo gli anni di catechismo, finita la Cresima, ho fatto come tanti. Ho iniziato la mia vita, la scuola superiore. Non ci pensavo proprio più, alla chiesa. Poi nel 2006, sono venuta qui perché sapevo che c’era una suora della mia città. Era la mattina di Pasqua. Sono entrata in chiesa. Noi alla messa apriamo la grata, scorre e si apre. E mi sono emozionata a vedere le suore con quel sorriso vero, non stampato. Da hostess, come direbbe Papa Francesco. E ho pensato: come fanno ad avere quel sorriso, stando rinchiuse lì dietro? Mentre loro sorridevano, io piangevo. Ed è iniziato così il travaglio interiore. Ho ripreso un cammino catechistico, avevo solo le nozioni di base. Ma mi ero innamorata di questo luogo, della loro vita e sarei entrata subito. Mi ricordo che questa sorella mi aveva detto: “Almeno impara quando si dice il Padre Nostro, nella messa”... Facevo pazzie per venire: finivo di lavorare alle sei di sera, dormivo qualche oretta, partivo verso l’una per essere qua alle Lodi».

Che lavoro faceva?

«Di giorno lavoravo con mia sorella che ha una ditta di riscaldamento e condizionamento. L’aiutavo, curavo in particolare l’assistenza. Stabilivo gli interventi degli operai e di sera avevamo persino un discopub. Il periodo della mia conversione è stato l’anno boom del nostro lavoro. Ero all’apice della mia carriera. Mi andava bene la vita e lì è arrivato il Signore».

Si ricorda il momento in cui ha detto alla sua famiglia che aveva fatto questa scelta?

«L’ho detto a mia mamma. Mi ricordo, era proprio la festa della mamma. Lo aveva già capito perché è stata una conversione radicale: ho cambiato vita, alle sei uscivo di casa per andare a messa. Mi ricordo ancora la domenica mattina in cui le ho detto: “Mamma ti devo parlare”. Lei mi ha guardato: “Ti fai suora” e io le ho detto “sì”. “Fai tutto, ma non di clausura”. Mia mamma è invalida quindi avevo tanta paura. Invece il Signore le ha dato tanta grazia e non mi ha mai ostacolato».

E sua sorella come l’ha presa?

«Male. Tra l’altro io avevo chiesto un segno al Signore. Mia sorella ha otto anni più di me. Voleva avere un figlio e non riusciva. Questa suora aveva citato una frase di don Bosco, quando ero in cammino di discernimento, che dice: “Quando il Signore chiama a sé una giovane in una famiglia, manda sempre un angelo al suo posto”. E io davvero su questa frase ho gettato le reti. Ho pensato: “Allora fai rimanere incinta mia sorella”. È rimasta incinta».

Madre Manuela, ci sono stati momenti nei quali la sofferenza le ha fatto avere dei dubbi tanto radicali quanto la scelta compiuta?

«In superficie sì, questa non è assolutamente una vita tranquilla. No, c’è la fatica, ci sono momenti di dubbio, di buio. Guai se non ci fossero veramente, sarebbe una vita falsa. Ci può essere la tempesta, nel nostro mare, però nel profondo rimane la pace. Questo rapporto con il Signore è talmente profondo, che niente lo può mettere in discussione».

Suor Fedele, come filtra il mondo esterno qui dentro?

«Abbiamo alcuni giornali cattolici: l’Osservatore e l’Avvenire e poi abbiamo un po’ di accesso a Internet, soprattutto la madre».

Non vedete televisione?

«No, solo in infermeria. Quando c’è stato il terremoto ad Amatrice tre anni fa, abbiamo visto un telegiornale per capire cosa stava succedendo. Abbiamo tanti contatti telefonici. Siamo abbastanza vive. Concretamente l’esterno entra così, poi sta a te ricordarti qual è il tuo servizio per quel mondo».

Madre Manuela, quindi voi avete la percezione di quello che succede fuori?

«Direi proprio di sì. Poi sono tante anche le persone che chiamano al telefono, scrivono, o vengono ad affidarci le loro intenzioni di preghiera. Il mondo entra con le loro parole».

È giusto che Dio chieda delle rinunce nel rapporto di amore con lui?

«Dipende cosa si intende per rinuncia».

È paradossale ma la vostra può apparire all’esterno una scelta egoistica: sottrarre se stessi alle relazioni con gli altri, all’aiuto, al sostegno. C’è questo rischio?

«Il rischio c’è. Il problema dell’uomo, da Adamo ed Eva, è l’individualismo. Lo puoi vivere nel matrimonio, nel lavoro, in monastero, da monaca clarissa. Non si entra e non si rimane in monastero per se stessi, mai. Certo, a occhi solo umani è una follia, o una raffinata forma di egoismo. La clausura è stato per me il “modo” concreto per raggiungere tutti. Ogni altra forma di consacrazione mi appariva limitata, circoscritta. Radicalità dell’amore per il Signore e amore per la Chiesa, per l’umanità vanno insieme. Una vita apparentemente “persa” per Lui, per potere in Lui raggiungere tutti. È un paradosso, come è un paradosso che Cristo abbia salvato l’uomo dall’alto di una croce. Il cuore di una monaca non è più solo un cuore di donna, fatto per accogliere e donare l’amore. Al di là delle debolezze umane, diventa il campo del mondo, il campo di Dio, in cui, sotto i suoi occhi, avvengono le fatiche e le lotte di tutti. Nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Quando — non importa se si vedrà solo in cielo — una piccola speranza fiorisce all’improvviso nel cuore di un fratello, dietro c’è un cuore che si è aperto per tutti. C’è mai stato un tempo in cui si sia più sentito il bisogno di questo? Oggi l’uomo cerca la vita, quella vera, ha sete di bellezza autentica, della positività del reale. La notte è giunta troppo in là».

C’è una differenza tra la clausura degli uomini e quella delle donne?

«Ci sono tante forme, anche le clausure delle donne non sono tutte uguali, noi per esempio abbiamo la clausola papale che è quella forse più rigida».

Non c’è una regola universale?

«No. Ci sono monaci che vivono in clausura, ci sono i certosini...».

Ma perché le grate per le donne sì e per gli uomini no?

«La grata anzitutto è un segno. Quindi un segno è sempre qualcosa di visibile e che deve parlare, deve rimandare a qualcosa d’altro. La grata rimanda a Dio. Il motivo è quello, non è né un segno di difesa, di protezione di o da non so bene cosa».

La domanda è: perché un sacerdote maschio non dovrebbe accettare lo stesso segno? Se è un segno...

«Ci sono anche religiose suore che non vivono in clausura. Sono forme di vita diversa. I certosini penso abbiano la forma più rigida anche della nostra. Non so se volevamo arrivare a dire che la clausura imposta alle donne...».

No, volevo solo capire la ragione di questa differenza. Quanto è bello il silenzio in una società rumorosa come la nostra? Quanto è grande il silenzio?

«C’è silenzio e silenzio. C’è un silenzio che è uguale al mutismo e questo è egoistico sia in monastero che fuori: mi metto le cuffie e non sento nessuno e mi faccio gli affari miei. E c’è un silenzio abitato da una presenza forte. Questo è il silenzio vero che ci riempie».

Voi vi siete mai arrabbiate con Dio?

«Come no».

Per esempio?

«Quando ti smonta, quando ti dice “non sei quella che pensi di essere ma sei quella che ho scelto io”. Noi possiamo solo accogliere. Credo che la vita per ogni cristiano cambi quando si fa accoglienza e non conquista. Un po’ come: “Signore ti servo, vado a messa la domenica, faccio questa offerta così mi fai andare bene l’esame, mi guarisci dalla malattia e magari alla fine mi dai anche il Paradiso”. Questa non è la fede, al massimo può essere religione, quindi qualcosa ancora costruita dall’uomo. Ma non si chiama fede, la fede è affidarsi a una persona, un po’ come il bambino che impara a camminare. Perché impara a camminare il bambino? Perché sa, lo ha sperimentato, che se cade ci sono le braccia del papà o della mamma che lo tirano su. La fede è questo, cioè affidarsi».

Uno degli elementi essenziali della vita umana è il dubbio, nel senso che il dubbio è il viaggio, il dubbio è la ricerca dell’altro da sé. Come esiste il dubbio nella vostra scelta?

«È negativo se ti porta a mettere in discussione sempre tutto: c’è anche la moda oggi del mettere in discussione tutto, non ci sono certezze. E anche questo diventa un dogma, il dogma di non avere certezze. E questo è negativo. Diventa positivo il dubbio se mi fa mettere in discussione, cioè se non pretendo di aver raggiunto la meta. Se è qualcosa che mi fa ripartire ogni giorno verso una meta ulteriore, verso un traguardo che si sposta più avanti».

Madre Manuela, perché questa passione per l’Infinito di Leopardi?

«Non so, è dalle medie. L’infinito è proprio questo, forse pensare a questo colle che alla fine diventa un mare, attraverso la parola attraversa il limite, la siepe, e si apre l’infinito. E poi c’è quel verbo “s’annega” che mi aveva interessato tanto e avevo trovato quella frase dello Zibaldone che dava una spiegazione: Leopardi parla della compassione e dice che la compassione è quasi una negazione che l’uomo fa di se stesso e del proprio egoismo. Mi sembrava che il “s’annega” dell’ultimo verso non fosse solo legato alla dimensione semantica dell’andare a fondo, ma del negare se stessi. Da qui poi il naufragare dell’ultimo verso».

Qualcuno ha cercato di mettere in discussione l’esistenza di Dio con Auschwitz. C’è qualcosa in cui vi sembra che l’uomo abbia tradito al massimo livello Dio?

«Noi tradiamo in continuazione il Signore. Ma Dio non rinuncia alla nostra libertà. Siamo noi che spesso non teniamo alla nostra libertà e andiamo dietro ai vari burattinai di turno. Noi diciamo “non ho fede” ma crediamo agli oroscopi, ai telegiornali, agli slogan pubblicitari. Finiamo per credere a tutto. Però Dio ci lascia liberi, preferisce che noi pecchiamo piuttosto che rinunciare alla nostra libertà. Non vuole dei burattini. L’uomo è libero, questo ci deve sempre interrogare e richiamare alla responsabilità».

Cosa pensate del risorgente razzismo?

«Aver estromesso Dio ci porta a estromettere anche l’uomo: se tolgo Dio dalla mia vita perché devo amare il fratello? Cercherò di sopraffarlo, di prendere quello che è suo, di trarre tutto per me. Cioè l’io al centro. Io, io, io».

Quanta sofferenza dà, a voi che avete fatto una scelta così radicale, vedere nella chiesa comportamenti intollerabili?

«Tanta sofferenza, tanto dolore. Soprattutto se pensiamo al Papa. È chiaro che lo scandalo nella chiesa fa più male ancora di quello esterno alla Chiesa. La Chiesa è santa e peccatrice. Il peccato rimane, lo spirito santo deve lavorare con il materiale che gli mettiamo a disposizione. E siamo noi uomini, peccatori. Il peccato non va mai nascosto e mi sembra che il Papa stia dando chiari segnali in questa linea».

Suor Fedele, come è arrivata qui la notizia delle dimissioni del Papa? Come l’avete commentata?

«Per telefono, ci ha chiamato qualcuno, siamo andate a vedere su Internet. Bocca aperta. Inaspettata. Una cosa nuova. Poi però l’abbiamo letta con tanta sapienza».

Un telefono cellulare non sapete cosa sia?

«Lo sappiamo».

Lo avete, Madre Manuela?

«Sì, abbiamo tre telefoni cellulari che usiamo per chiamare. Ci sono tanti monasteri in cui le badesse girano con il telefono. Io mi rifiuto, sono una badessa alternativa, senza cellulare. È a disposizione delle sorelle per fare chiamate».

Non ricevere?

«No, lo teniamo spento. Adesso abbiamo una sorella in ospedale e lo usiamo per chiamarla».

Parlatorio, celle e grate sono cose che esistono in altri istituti. Che differenza c’è, Madre Manuela?

«La scelta».

Per voi è un punto dell’orizzonte la grata, non è una reclusione?

«No, assolutamente. È la siepe».

Leopardi per suor Emanuela, per lei, suor Fedele, qual è il riferimento letterario più importante?

«La canzone di Jovanotti, “Penelope”. Quando stavo facendo il cammino, era uscita la canzone che diceva proprio: “Chiara era una ricca signorina che divenne più ricca quando ebbe la povertà”. Jovanotti è il mio poeta preferito. Mi piacerebbe venisse a trovarci».

La rinuncia alla maternità, non è la rinuncia ad una parte delle possibilità umane?

«La maternità non è solo quella fisica, il cuore di una donna è fatto per amare e per essere amato, quindi guai se non c’entra l’amore. Se non c’entra la fecondità che è spirituale. La madre è quella che si dona. Che dà la vita, che rinuncia a qualcosa di sé per il figlio. E questo siamo chiamate a farlo anche noi. Se non lo facciamo siamo zitelle. Ed è un peccato da confessare».

La rinuncia alla sessualità è dura? Fa parte di questo scambio?

«C’è un modo diverso di viverla. C’è una sessualità che non è solo genitalità ma è molto più profonda e fa parte dell’essere uomo e dell’essere donna. Io rimango donna fino in fondo: prima di essere clarissa sono donna e poi sono una donna cristiana e poi clarissa. Nel mio modo di accostare le sorelle, nel mio modo di accostare le persone che vengono, nel mio modo di comportarmi con il Signore io rimango una donna, quindi con anche la mia sessualità, la mia affettività, la mia razionalità. Tutto di me rimane. Questo vale anche per la gente fuori: l’amore non può mai essere solo genitalità. Andare dietro l’emozione del momento per soddisfare l’emozione del momento. Non è questa la vita. L’amore è qualcosa di più. Mi viene in mente l’immagine del mio babbo, scomparso due anni fa. All’improvviso è stato ricoverato e il giorno dopo è morto. Io ho sempre con me una foto fatta col cellulare da mio fratello. Il giorno prima era nel letto di ospedale con l’ossigeno e gli occhi chiusi. Questa foto riprende mia mamma che si china sul mio babbo — papà aveva 86 anni, anche mia mamma un’ottantina — e gli tocca la maschera di ossigeno, cosa che non aveva mai fatto. Un gesto di tenerezza. Questo a me ha insegnato tanto: dopo una vita intera trascorsa insieme tu ti chini sull’uomo con cui hai diviso ogni giorno e lo accarezzi, comunque...».

Le è costato non andare lì?

«Sono andata per il funerale. Non sono arrivata in tempo a vederlo vivo, ma sono andata per il funerale. Siamo libere di andare, per la morte dei genitori».

Che impressione le ha fatto stare fuori da qui?

«Noi usciamo per votare e per andare dal dottore, dal dentista, per cui è normale».

Parlate di politica, tra voi?

«Come no. Due domeniche fa siamo andate a votare. In questi casi ci vediamo tutte e una sorella si documenta, stampa qualcosa da Internet e discutiamo. Poi votiamo liberamente. Chi vuole dire per chi vota lo dice e chi non vuole non lo dice. Abbiamo votato anche per il sindaco. I candidati sono venuti e si sono presentati. Trenta voti. Non sono pochi».

Che impressione vi ha fatto la decisione del sinodo di aprire a sacerdoti sposati?

«Ho potuto dare solo una rapida occhiata al documento finale del sinodo. Il filo conduttore, come balza subito agli occhi dai titoli dei capitoli, è “conversione”. Per le enormi difficoltà di accedere ai sacramenti nel territorio dell’Amazzonia, il documento propone di “stabilire criteri e disposizioni” perché diaconi permanenti sposati possano essere ordinati sacerdoti. Quindi non il prete che si sposa, ma lo sposato che può diventare prete. Sono due realtà diverse. Piuttosto che invocare lo scisma o ipotizzare scenari apocalittici, restiamo in attesa dei pronunciamenti del Santo Padre. Con tanta pace e tanta serenità...».

Gravidanza a sorpresa per due suore a Messina e a Ragusa. A Militello Rosmarino, la scoperta dopo un ricovero della religiosa. A Ispica la madre superiora è già stata allontanata dal centro per anziani dove prestava servizio. La Repubblica l'1 novembre 2019. In due paesi siciliani, nel Messinese e nel Ragusano, non si parla d'altro in questi giorni. Due suore di origine africana, molto conosciute per il loro impegno, sono incinte. A Militello Rosmarino, la religiosa era andata in ospedale perché accusava forti dolori addominali, i medici hanno fatto un'ecografia e hanno scoperto la gravidanza. Lei ha 34 anni, adesso si trova a Palermo, trasferita in un altro istituto. Ambienti ecclesiastici fanno sapere che la donna, dopo avere partorito, potrà scegliere di abbandonare l'Ordine e fare la mamma a tempo pieno. L'altro caso a Ispica, riguarda una suora del Madagascar, che era madre superiore di un istituto che si occupava dell'assistenza agli anziani: è già tornata nel suo paese d'origine. Il sindaco di Sant'Agata di Militello Rosmarino, Salvatore Riotta, parla di "rammarico per quanto avvenuto". E aggiunge: "Sono cose che dispiacciono, la nostra comunità di 1.200 abitanti è sconcertata. La situazione è stata gestita male e non in modo riservato come si doveva". Il primo cittadino, che dice di conoscere bene la suora, racconta che "meno di un anno fa la suora aveva preso i voti, si è sempre fatta volere bene da tutti", Riotta tiene a precisare come "il collegio Bambin Gesù sia un istituto molto serio. Nel tempo - conclude il sindaco - è sempre stata la realtà più positiva del paese e anche per la gente che viene da altri centri. Nel collegio si occupano anche di famiglie indigenti e di bambini in grande difficoltà. Anche per questo siamo delusi per l'accaduto e per come sia stata gestita la notizia, ma il buon nome dell'Istituto non va discusso".

Salvo Toscano per il "Corriere della Sera" il 2 novembre 2019. Due gravidanze a sorpresa hanno suscitato clamore nello stesso giorno in due centri della provincia siciliana. Protagoniste due suore, entrambe africane. Il primo caso in un paesino dei Nebrodi, nel Messinese, Militello Rosmarino. Una religiosa, che aveva accusato dei forti dolori addominali, si è recata all' ospedale nella vicina Sant' Agata di Militello e lì ha scoperto dopo aver effettuato un' ecografia di essere incinta. La notizia, riportata dalla stampa locale, è stata confermata da ambienti ecclesiali che hanno anche spiegato che adesso la donna potrà, se lo vorrà, abbandonare il suo ordine religioso. Turbamento e sorpresa nel borgo collinare, un migliaio di anime nel Parco dei Nebrodi. «C' è rammarico per quanto avvenuto. Sono cose che dispiacciono. La nostra comunità è sconcertata. La situazione è stata gestita male e non in modo riservato come si doveva», ha detto Salvatore Riotta, sindaco di Militello Rosmarino. Il primo cittadino del comune nebroideo ha detto di conoscere personalmente la suora e ha sottolineato l' encomiabile lavoro svolto dalla religiosa e dall' istituto sul territorio in favore delle fasce più deboli. La suora, intanto, è stata trasferita in un' altra località della Sicilia. Ma sempre ieri si è appreso di un altro caso analogo, avvenuto in provincia di Ragusa, a Ispica. Anche qui una suora, originaria del Madagascar, che aveva incarichi di responsabilità in un centro che si occupa di assistenza agli anziani, ha scoperto di aspettare un bambino. La notizia, diffusa da una testata locale e rilanciata dalle agenzie, risalirebbe a circa un mese fa. La donna a quanto si apprende ha lasciato l' istituto di cui era ospite, facendo ritorno nel suo Paese d' origine. Anche in questo caso nessun commento da parte delle autorità ecclesiastiche. Nel paese, che fu il set di «Divorzio all' italiana», si chiacchierava da un pezzo di questa notizia, un po' come nei crocicchi ricreati da Pietro Germi nel suo capolavoro premiato con l' Oscar. «Sì, la notizia circolava, ma qui a Ispica per ora abbiamo altro a cui pensare. Otto giorni fa siamo stati colpiti dal maltempo e abbiamo danni per un milione di euro», commenta il sindaco del comune del Ragusano, Pierenzo Muraglie. Il doppio caso siciliano non è isolato: negli ultimi anni, in Italia si erano verificati altri episodi analoghi. Nel 2014 era successo a Rieti, e allora il tam-tam mediatico che si scatenò per la notizia della gravidanza di una suora di origini salvadoregne costrinse l' ospedale locale a predisporre un servizio di sicurezza per tenere lontani i troppi occhi indiscreti. L' anno dopo a dare alla luce un bambino fu una novizia nelle Marche.

Il Papa ammette: "Abusi sulle suore da parte dei preti, impegno a fare di più". Sul volo di ritorno da Abu Dhabi il Pontefice riconosce che "il maltrattamento delle donne è un problema che esiste anche nella Chiesa, anche oggi", dice Francesco riferendosi alle rivelazioni dell'Osservatore romano sugli abusi. E ricorda i tentativi di Rtzinger di far fronte al problema. Il Pontefice parla anche del Venezuela: "Per una mediazione ci vuole la volontà di ambedue le parti", scrive Paolo Rodari il 5 febbraio 2019 su La Repubblica. A sole due settimane dal summit che avrà luogo in Vaticano dedicato agli abusi su minori da parte dei preti, Francesco nella conferenza stampa tenuta sul volo della Etihad che da Abu Dhabi lo riporta a Roma ammette che il tema sollevato una settimana fa dall’inserto femminile dell'Osservatore Romano circa le suore abusate anch'esse da preti è reale: "Il problema esiste nella Chiesa", dice. E parla apertamente di sacerdoti e anche vescovi che hanno abusato: "Io credo che si faccia ancora, ma ci stiamo lavorando", spiega. E riporta un episodio che ha coinvolto Joseph Ratzinger quando ancora era cardinale: provò a fare pulizia di una congregazione il cui superiore abusava delle suore, ma non vi riuscì tanto che disse al suo segretario di mettere via la cartella con tutto l'incartamento: "Mettila nell’archivio, ha vinto l’altro partito", disse. Francesco amplia poi l'argomento a livello culturale dicendo in generale che "il maltrattamento delle donne è un problema". E ancora: "Io oserei dire che l'umanità ancora non è maturata: la donna è considerata di seconda classe" e spesso ci sono "femminicidi". Il resto della conferenza stampa è dedicato a tematiche più internazionali o inerenti il viaggio negli Emirati: il Papa conferma la richiesta di Maduro di una mediazione vaticana in Venezuela ma, dice, non basta, "perché si faccia un ultimo passo, una mediazione, ci vuole la volontà di ambedue le parti", e cioè anche di Guaidò. Spiega che negli Emirati ha parlato della crisi dello Yemen e che ha "trovato buona volontà nell'avviare processi di pace", insieme a un "islamismo aperto". Racconta che la sua grande preoccupazione, come quella degli altri leader religiosi presenti, è "la distruzione, la guerra, l'odio tra noi. Se noi credenti non siamo capaci di darci la mano, abbracciarci e anche pregare - dice - la nostra fede sarà sconfitta". E, in ogni caso, citando il caso di un uomo musulmano a cui l'Isis ha sgozzato la moglie cristiana dopo averle chiesto di convertirsi, ricorda che anche per i saggi islamici il fondamentalismo non è vero islamismo. E ancora, risponde ai cattolici che lo accusano di farsi strumentalizzare dal mondo islamico spiegando che il documento sulla fratellanza firmato ieri con Al-Tayeb "non si è schiodato di un millimetro dal Concilio Vaticano II". Francesco sale riposato sull'aereo per Roma. Dopo tre giorni negli Emirati Arabi per partecipare a un incontro sulla fratellanza universale assieme ad oltre settecento leader religiosi di varie fedi, parla coi giornalisti del significato profondo di questo viaggio, il primo di un Papa nella penisola arabica: "È stato un viaggio troppo breve - dice -, ma per me un'esperienza grande. Penso che ogni viaggio sia storico, così anche lo sono i nostri giorni, scrivere la storia di ogni giorno…nessuna storia è piccola, ogni storia è grande e degna anche se brutta, la dignità nascosta sempre può venire su".

La rivista femminile dell'Osservatore Romano ha pubblicato un articolo denunciando l'abuso sessuale delle donne consacrate nella Chiesa da parte del clero. Qualche mese fa anche L'Unione delle Superiore generali ha fatto una denuncia pubblica. Sappiamo che la prossima riunione in Vaticano sarà sull'abuso sui minori, ma possiamo pensare che la Santa Sede possa fare qualcosa per affrontare anche questo problema con un documento o delle linee guida?

"È vero, è un problema. Il maltrattamento delle donne è un problema. Io oserei dire che l'umanità ancora non ha maturato: la donna è considerata di seconda classe. Cominciamo da qui: è un problema culturale. Poi si arriva fino ai femminicidi. Ci sono dei Paesi in cui il maltrattamento delle donne arriva al femminicidio. È vero, dentro la Chiesa ci sono stati dei chierici che hanno fatto questo. In alcune civilizzazioni in modo più forte che in altre. Ci sono stati sacerdoti e anche vescovi che hanno fatto quello. E io credo che si faccia ancora: non è che dal momento in cui tu te ne accorgi, finisce. La cosa va avanti così. E da tempo stiamo lavorando in questo. Abbiamo sospeso qualche chierico, mandato via, e anche - non so se è finito il processo - sciogliere qualche congregazione religiosa femminile che era molto legata a questo fenomeno, una corruzione. Si deve fare qualcosa di più? Sì. Abbiamo la volontà? Sì. Ma è un cammino che viene da lontano. Papa Benedetto ha avuto il coraggio di sciogliere una congregazione femminile che aveva un certo livello, perché c'era entrata questa schiavitù, anche persino sessuale, da parte dei chierici o da parte del fondatore. A volte il fondatore toglie la libertà alle suore, può arrivare a questo. Vorrei sottolineare che Benedetto XVI ha avuto il coraggio di fare tante cose su questo tema. C'è un aneddoto: lui aveva tutte le carte su una organizzazione religiosa che aveva dentro corruzione sessuale ed economica. Lui provava a parlarne e c'erano dei filtri, non poteva arrivare. Alla fine il Papa, con la voglia di vedere la verità, ha fatto una riunione e Joseph Ratzinger se né andato lì con la cartella e tutte le sue carte. Quando è tornato, ha detto al suo segretario: mettila nell'archivio, ha vinto l'altro partito. Non dobbiamo scandalizzarci per questo, sono passi di un processo. Ma appena diventato Papa, la prima cosa che ha detto è stata: portami dall'archivio questo. Il folklore lo fa vedere come debole, ma di debole non ha niente. È un uomo buono, un pezzo di pane è più cattivo di lui, ma è un uomo forte. Su questo problema: preghi che possiamo andare avanti, io voglio andare avanti. Ci sono dei casi. Stiamo lavorando".

Santità quali saranno i risultati del viaggio negli Emirati Arabi Uniti e quali sono state le sue impressioni sul Paese?

"Ho visto un Paese moderno: mi ha colpito la città, la pulizia della città, e curiosità piccole, come fanno ad innaffiare i fiori in questo deserto? Un Paese accogliente dei tanti popoli che vengono qui, ma anche un Paese che guarda al futuro: ad esempio l'educazione dei bambini, li educano guardando al futuro, sempre. Poi la cosa che mi ha colpito è il problema dell'acqua: stanno cercando per il futuro prossimo di prendere l'acqua del mare e renderla potabile, e anche l'acqua dell'umidità. Sempre vanno cercando cose nuove. Ho sentito da qualcuno che un giorno mancherà il petrolio: 'Ci stiamo preparando per avere qualcosa da fare quando mancherà'. Questo è un Paese che guarda al futuro. Poi mi è sembrato un Paese aperto non chiuso, anche la religiosità, anche l'islamismo, è un islamismo aperto, non chiuso, di dialogo, un islamismo fraterno e di pace. L'educazione alla pace che è sentita come un dovere, malgrado ci siano alcuni problemi di alcune guerre nella zona. È stato per me molto toccante l'incontro con i saggi. I saggi dell'Islam, di varie culture, a indicare l'apertura a un dialogo universale. Sono stato colpito anche dal convegno interreligioso, è un fatto culturale forte. E anche quanto hanno fatto qui sulla pedofilia nei media, in Internet... perché la pedopornografia oggi è un'industria che dà tanti soldi, e approfittano dei bambini e questo Paese se ne è accorto da tanto tempo. Cose positive. Sicuramente ci saranno dei problemi, forse negativi, ma in un viaggio di meno di tre giorni queste cose non si vedono e se si vedono uno guarda dall'altra parte".

Il viaggio è stato segnato dalla firma del documento sulla fraternità. Come questo documento sarà applicato in futuro e qual è il suo pensiero sull'annuncio del principe Mohammed circa la costruzione di una chiesa accanto a una moschea?

"Il documento è stato preparato con tanta riflessione e anche pregando, il grande Imam con la sua equipe e io con la mia. Abbiamo pregato tanto per riuscire a fare questo documento perché per me esiste un solo pericolo grande, in questo momento: la distruzione, la guerra, l'odio tra noi. E se noi credenti non siamo capaci di darci la mano, abbracciarci e anche pregare, la nostra fede sarà sconfitta. Questo documento nasce dalla fede in Dio che è padre di tutti e padre della pace e condanna ogni distruzione, ogni terrorismo. Il primo terrorismo della storia è quello di Caino. È un documento che si è sviluppato in quasi un anno, andata e ritorno, preghiere, è rimasto così per maturare, un po' confidenziale, per non partorire il bambino prima del tempo, prima che sia maturo".

È stato un viaggio pieno di incontri, di impressioni, di immagini. Al suo arrivo, è stato accolto con gli onori militari, con gli aerei militari che hanno disegnato i colori vaticani nel cielo. Mi chiedo: cosa c'entra questo con lei, con il Papa che viene con un messaggio di pace. Cosa pensa di questo?

"Interpreto tutti i gesti di benvenuto come gesti di buona volontà, ognuno li fa secondo le proprie culture. Cosa ho trovato qui? Una accoglienza così grande, che volevano fare di tutto, piccole cose e grandi cose, perché sentivano che la visita del Papa era qualcosa di buono. Qualcuno ha detto anche una benedizione. Dio lo sa. Ma loro volevano farmi sentire che io ero benvenuto".

Il suo appello per la pace in Yemen. Quali reazioni ha ricevuto nei suoi incontri che fanno sperare che questo messaggio venga accolto, che si fanno dei passi verso la pace nello Yemen?

"Sul problema delle guerre: lei ne ha menzionato una. È difficile dare un'opinione dopo due giorni e dopo aver parlato sull'argomento con poche persone. Dirò che ho trovato buona volontà nell'avviare processi di pace. Questo l'ho trovato".

Dopo la firma storica del documento quali potranno essere secondo lei le conseguenze nel mondo islamico? Penso soprattutto ai conflitti nello Yemen e in Siria... E quali le conseguenze anche tra i cattolici, considerato che c'è una parte di cattolici che accusa lei di farsi strumentalizzare dai musulmani?

"Ma non solo dai musulmani... mi accusano di farmi strumentalizzare da tutti, anche dai giornalisti... È parte del lavoro, ma una cosa voglio dirla. Dal punto di vista cattolico il documento non si è schiodato di un millimetro dal Concilio Vaticano II, è anche citato più volte. Il documento è stato fatto nello spirito del Vaticano II. Ho voluto, prima di prendere la decisione, dire 'va bene così' e poi di firmarlo. Da parte mia l'ho fatto leggere a qualche teologo e anche ufficialmente al teologo della casa pontificia che è un domenicano: che bella tradizione dei domenicani non di andare alla caccia delle streghe ma di vedere la cosa giusta... e lui ha approvato. Se uno si sente male io lo capisco, non è una cosa di tutti giorni... ma non è un passo indietro è un passo avanti. Un passo in avanti che viene da cinquant'anni, viene dal Concilio e deve svilupparsi. Gli storici dicono che perché un Concilio abbia radici nella Chiesa ci vogliono cento anni, siamo a metà strada. È questo che attira anche la mia attenzione ... Ho visto una frase, ma questa frase non sapevo se era sicura, ma alla fine ho visto che è una frase del Concilio...anche a me ha sorpreso... Anche nel mondo islamico ci sono diversi pareri, ci sono alcuni più radicali altri no. Ci saranno anche tra loro delle discrepanze, ma è un processo e i processi maturano".

Ha appena concluso la visita negli Emirati Arabi e fra pochissimo andrà in Marocco. Ci sembra di capire che ha scelto di parlare con interlocutori ben precisi dell'Islam. È una scelta di campo? Il documento storico firmato ieri è molto ambizioso per l'educazione, secondo lei può davvero toccare i fedeli musulmani?

"Ho sentito da alcuni musulmani che va studiato nelle università, almeno ad Al-Azhar di sicuro, e nelle scuole. Va studiato. Non imposto, ma studiato. Questo per iniziare dalla fine della sua domanda. Sul Marocco è un po' il caso la vicinanza dei due viaggi perché io volevo andare a Marrakech - alla Conferenza dell'Onu sulle migrazioni, ndr - ma c'erano cose protocollari e non potevo andare a un incontro internazionale senza fare prima una visita al Paese, ma non avevo tempo. E per questo abbiamo rimandato la visita. Ed è stato il segretario di Stato ad andare a Marrakech. È una questione diplomatica e di educazione, pure, ma non è una cosa pianificata. In Marocco seguo le tracce di san Giovanni Paolo II che è stato il primo ad andare. Sarà un viaggio gradevole. Poi sono arrivati inviti da altri Paesi islamici, ma non c'è tempo quest'anno. Io o l'altro Pietro, qualcuno ci andrà".

Giovanni Paolo II, con la sua mediazione, evitò una guerra tra Argentina e Cile. Maduro le ha inviato una lettera chiedendo aiuto per il dialogo in Venezuela. Il cardinale Parolin conosce bene il Paese. A che punto siamo nella disponibilità della Santa Sede per una possibile mediazione?

"La mediazione Argentina-Cile fu un atto coraggioso di Giovanni Paolo II che ha evitato una guerra. Ma ci sono piccoli passi, l'ultimo è una mediazione, sono piccoli passi iniziali facilitatori, ma non solo dal Vaticano, tutta la diplomazia, vicinanza all'uno e all'altro per avviare una possibilità di dialogo: si fa così in diplomazia. Dalla segreteria di Stato potranno spiegare bene tutti i passi differenti che si possono fare. Io prima del viaggio sapevo che sarebbe arrivato col plico diplomatico una lettera di Maduro, questa lettera ancora non l'ho letta. Ma perché si faccia un passo, una mediazione, ci vuole la volontà di ambedue le parti. Se saranno entrambe le parti a chiederlo, come nel caso di Argentina e Cile... La Santa Sede nel Venezuela è stata presente nel momento del dialogo con Zapatero, nella prima riunione con monsignor Celli, e poi ha continuato... Ma lì è stato partorito un topino, niente... fumo. Adesso vedrò la lettera e vedrò cosa si può fare. Ma le condizioni iniziali siano chiare: che le parti lo chiedano. Lo stesso quando la gente va dal curato perché c'è un problema tra marito e moglie, va uno: e l'altra parte viene o non viene? Vuole o non vuole? Servono sempre ambedue le parti. Questa è una condizione che i Paesi devono pensare prima di chiedere una facilitazione o la presenza di un salvatore o una mediazione".

Negli Emirati ha avuto un incontro con il consiglio degli anziani. Per quello che ci può raccontare, che temi ha toccato? Torna a Roma con l'impressione che il messaggio sia arrivato ai suoi interlocutori?

"Gli anziani davvero sono saggi. Ha parlato prima il Grande Imam. Poi ognuno di loro, cominciando dal più anziano, che parlava lo spagnolo, sì perché era della Mauritania. Anziano, eh, ottantenne. Fino al più giovane, che è il segretario del consiglio degli anziani. Ha parlato poco, ma ha detto tutto in un video: è un comunicatore. Mi è piaciuto questo, è stata una cosa bellissima. La parola chiave è "saggezza". Poi "fedeltà". Poi hanno sottolineato un cammino della vita con il quale questa saggezza cresce e la fedeltà si fa forte. E da lì nasce l'amicizia tra i popoli. Erano di diverse provenienze. Saggezza e fedeltà sono il cammino per la costruzione della pace. Perché la pace è un'opera della saggezza e della fedeltà. Fedeltà umana, tra i popoli".

L'Imam al-Tayeb ha denunciato l'islamofobia, perché non si è sentito qualcosa sulla cristianofobia, sulla persecuzione dei cristiani?

"Ne ho parlato della persecuzione dei cristiani, non in quel momento, anche in questo viaggio ne ho parlato ma non ricordo dove ma ne ho parlato. Credo che il documento era più sull'unità e l'amicizia... anche il documento comunque condanna la violenza e alcuni gruppi che si dicono islamici - i saggi dicono che non è l'islamismo - perseguitano i cristiani. Ricordo un papà con tre bambini, aveva trent'anni, piangeva: 'Sono islamico, mia moglie era cristiana, sono venuti i terroristi dell'Isis, hanno visto la croce e le hanno detto: 'Convertiti e davanti a me l'hanno sgozzata'. Questo è il pane nostro di tutti i giorni dei gruppi terroristici, la distruzione della persona. Il documento ha condannato questo".

Che rapporto c'è tra libertà religiosa e di culto?

"La libertà è un processo, sempre avanti. Mi ha impressionato un colloquio prima di partire con un ragazzo di 13 anni, a Roma. Mi ha detto: 'Santità, io sono ateo, cosa devo fare come ateo per diventare un uomo di pace?'. Io ho detto: 'Fà quello che tu senti, gli ho parlato un po', mi è piaciuto il coraggio del ragazzo, è ateo ma cerca il bene. Anche questo è un processo, un processo che dobbiamo rispettare e accompagnare. Accompagnare tutti i processi per bene, tutti, di qualsiasi colore. Questi credo che siano passi in avanti".

Oggi una ragazzina le ha portato una lettera, abbiamo visto. È corsa da lei quando stava sulla macchina. Che impressione le ha fatto, quando ha visto questa ragazzina venire verso di lei... questa bambina che è scappata tra la folla...

"È una bambina coraggiosa! Quella bambina ha futuro, eh, ha futuro...e oserei dire: povero marito... Ha futuro, è coraggiosa, mi è piaciuto! Ci vuole coraggio per fare quello, e poi un'altra l'ha seguita, erano due...".

Abusi sessuali su suore. L’altra bomba che sta per esplodere, scrive il 30 gennaio 2019 Sandro Magister su "L'Espresso". A giudicare da quanto Francesco ha scritto e ha detto – da ultimo sull’aereoche l’ha riportato da Panama a Roma –, saranno gli abusi sessuali compiuti su minori da parte di sacri ministri l’argomento dominante del summit convocato in Vaticano dal 21 al 24 febbraio tra il papa e i presidenti delle circa 130 conferenze episcopali del mondo. Rischia così d’essere elusa, invece, quella piaga che statisticamente risulta preponderante tra gli autori di abusi in Europa e nell’America del Nord e del Sud, ossia la pratica omosessuale con giovani e giovanissimi. Ma non è tutto. C’è ancora un’altra piaga su cui continua a pesare una cappa di silenzio. Ed è quella degli abusi sessuali compiuti da chierici su suore. È una piaga diffusa soprattutto in Africa, stando ai rapporti che per primi hanno sollevato il velo. Ma che risulta sia presente anche in Asia. Si registra oggi in India, infatti, il più clamoroso scandalo di questo tipo. È quello che ha per protagonista il vescovo Franco Mulakkal, già titolare della diocesi di Jullundur, nel Punjab, nonché consultore in Vaticano del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, finito in prigione e ora sottoposto a processo; e ha per vittima una suora del Kerala appartenente alla congregazione delle Missionarie di Gesù, che sarebbe stata abusata sessualmente dal vescovo – il quale si dice però innocente – una dozzina di volte, tra il 2014 e il 2016. Curiosamente, sono soprattutto dell’Africa e dell’Asia le conferenze episcopali che, a distanza di otto anni dall’ordine ricevuto dalla congregazione per la dottrina della fede, non hanno ancora elaborato delle linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale su minori. Una delle ragioni di questa inerzia – come lo stesso papa Francesco ha osservato – è la scarsa consapevolezza, in questi continenti, della gravità e universalità della questione, immaginata come di pertinenza del solo Occidente. E ciò vale anche per la piaga delle pratiche omosessuali. Nello stesso tempo, però, manca anche la consapevolezza della gravità di quell’altra piaga, quella degli abusi sessuali compiuti da chierici su suore. È una cecità di cui patiscono per prime le Chiese dell’Africa e dell’Asia, dove il fenomeno è più diffuso, ma di cui sono colpevoli anche le Chiese dell’Occidente e la stessa Chiesa madre di Roma. Bisogna tornare agli anni Novanta per trovare le prime denunce organiche, inoltrate da suore alle autorità vaticane. Ma ciò che è più grave è che da allora è stato fatto pochissimo non solo per contrastare il fenomeno, ma almeno per portarlo alla luce. Va dato atto che a puntare i riflettori su questa realtà sono stati dei media cattolici. Il primo a rompere il silenzio fu nel marzo del 2001 il “National Catholic Reporter”, che in un ampio servizio di John Allen e Pamela Schaeffer rese pubbliche le due denunce inoltrate in via riservata in Vaticano nel 1995, a firma di suor Maura O’Donohue, medico e specialista dell’AIDS, e nel 1998, a firma di suor Marie McDonald, superiora delle Missionarie di Nostra Signora dell’Africa: Reports of abuse. Sexual exploitation of nuns. L’ultimo è il quotidiano francese “La Croix”, che in un servizio di Constance Vilanova del 17 gennaio scorso ha arricchito con nuove testimonianze le due capitali denunce di suor O’Donohue, riguardante 23 paesi per lo più dell’Africa subsahariana, e di suor McDonald: En Afrique, les religieuses victimes de la loi du silence

Come dice il titolo de “La Croix”, l’omertà continua a regnare sovrana, sia tra gli abusatori e le vittime, sia tra i rispettivi superiori gerarchici, che tendono a tollerare e coprire le malefatte dei primi, e invece a colpevolizzare e punire le sventure delle seconde.

Ed è un’omertà che trova radice in una pluralità di fattori, all’origine degli abusi:

- l’idea che il celibato e la castità interdicano il matrimonio, ma non i rapporti sessuali;

- il timore del contagio dell’AIDS, che fa delle suore un oggetto sessuale più “sicuro”;

- la posizione subordinata della donna al maschio nella società e nella Chiesa;

- una disistima della vita femminile consacrata, da parte di vescovi, preti e laici;

- la dipendenza economica dalla diocesi di tante piccole congregazioni religiose femminili;

- il sostegno materiale e spirituale dato da chierici a suore in cambio di prestazioni sessuali.

Avviene anche che il prete o il vescovo costringa ad abortire la suora che ha reso incinta. Lo scorso 23 novembre l’Unione internazionale delle superiore religiose ha emesso un comunicato nel quale chiede “che ogni religiosa che sia stata abusata denunci questo abuso presso la responsabile della sua congregazione e presso le autorità ecclesiastiche e civili del caso”. Ma non è detto che la suora che denunci trovi un aiuto. Anzi, spesso accade il contrario. Suor Mary Lembo, del Togo, sta preparando una tesi di dottorato sui rapporti tra preti e suore in Africa, presso l’istituto di psicologia della Pontificia Università Gregoriana, a Roma. Ha analizzato a fondo 12 casi di abuso sessuale e ha detto a “La Croix” che se in Africa l’omertà continua a regnare è perché lì la figura del prete “è rispettata e nello stesso tempo temuta. Le vittime tendono a colpevolizzarsi. Nei casi di abuso, spesso è la religiosa a finire sotto accusa, è lei che ha attirato gli sguardi e le attenzioni, è lei che finisce con l’essere condannata”.

Per papa Francesco la causa numero uno degli abusi sessuali è il “clericalismo”. In Europa e nelle Americhe è un teorema discutibile, specie se applicato alle pratiche omosessuali, in un clima di generale giustificazione delle stesse, sia fuori che dentro la Chiesa. Ma per gli abusi sessuali di chierici su suore, in Africa e in Asia, il teorema appare in buona misura fondato. L’ha scritto a chiare lettere Lucetta Scaraffia – storica della Chiesa, direttrice di “Donne Chiesa Mondo”, il supplemento mensile de “L’Osservatore Romano”, e fino allo scorso dicembre “consulente editoriale” del quotidiano della Santa Sede – in un articolo su “El País” del 12 gennaio: Non prendere sul serio le donne, ha scritto, è “causare un fenomeno troppo poco considerato, quello degli abusi di chierici su religiose, abusi etichettati dai gerarchi della Chiesa come relazioni romantiche”. Quando invece che relazioni romantiche consensuali essi rappresentano l’imposizione di un uomo in una posizione di potere su una donna vulnerabile, talvolta forzata a sopportare una relazione non voluta dalle sue stesse superiore, che “temono ritorsioni contro i loro istituti religiosi”.

·        Il Femminismo in Vaticano.

Maddalena Oliva per “il Fatto quotidiano” - Traduzione a cura di C. Guarnieri e N. Forcano l'1 ottobre 2019. È tornata a indossare il velo della monaca di clausura, nel suo monastero di Sant Benet de Montserrat, poco distante dalla Barcellona dove 53 anni fa è nata. E così Suor Teresa Forcades - la "rivoluzionaria e pacifica", come lei stessa ama definirsi, teologa femminista e queer, paladina della causa indipendentista catalana - conclusa la "brutta esperienza coi partiti politici", è tornata sì dalle sue consorelle, ma ha ripreso anche a girare il mondo (sarà a Roma il 2 ottobre per la rassegna "Ripensare la comunità"), per continuare a denunciare "una Chiesa patriarcale e misogina".

Alcuni giorni fa il Papa ha detto che, a causa del clericalismo, "ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all'ingiustizia sociale".

«Suona come una scusa, un alibi. È la stessa cosa che dicevano i leader dei movimenti negli anni 60-70: prima facciamo la rivoluzione, poi ci occuperemo dei diritti delle donne. O degli omosessuali. È un errore. La pedofilia ecclesiastica è un problema importante, così come la misoginia e l' omofobia: ma lo è pure l' ingiustizia sociale. In modo diverso, sono forme di violenza che si tengono tra loro. Non ha senso contrapporle».

Cosa chiede Dio all' uomo in tema di sesso?

«Onestà rispetto alla propria esperienza. E chiede di non mettere la Legge al di sopra delle persone».

Lei ha "sentito" Gesù, mentre era studentessa di Medicina. Che rapporto ha col sesso?

«Credo sia un dono di Dio, non finalizzato solo alla procreazione. L'intimità fisica di per sé non è sufficiente, ma, quando c'è un dono sincero di sé all' altro, consente un livello di unione che nessun altro tipo di relazione permette. Quando due persone si amano con impegno non può essere la differenza sessuale a ostacolare questo amore. L'amore è sempre sacramento di Dio, se si rispetta la libertà dell' altro».

Una suora o un prete avrebbero diritto a essere liberi di vivere la propria corporeità?

«Sì, ma per me la libertà non è in contrasto con l' impegno o con la fedeltà. Una suora o un prete non possono prescindere da questo. Neppure, però, viverlo come un' imposizione. Dipende dalla responsabilità di ognuno».

Da teologa, crede davvero che la Chiesa necessiti di una "rivoluzione queer "?

«Sì, lo credo, perché interpreto la parola queer alla luce del terzo capitolo del Vangelo di Giovanni: bisogna nascere di nuovo, non dalla madre, ma dall'acqua e dallo Spirito. Essere queer significa credere che la nostra vita abbia un'originalità radicale: Dio spera che noi la rispettiamo, senza seguire modelli o etichette, né di genere né di altro».

È stata spesso attaccata per le sue posizioni sull'amore omosessuale. Il papato di Bergoglio sta facendo passi in avanti?

«Non ha apportato modifiche al Magistero ecclesiale, ma, nella prassi, sì. Le persone che parlano dell'unione omosessuale come voluta e benedetta da Dio hanno smesso di essere perseguitate. Me compresa».

Lei si definisce femminista.

«Essere femminista significa essere consapevoli di una discriminazione che, se non c'è per legge, c'è di fatto, e lavorare per superarla».

In Germania, la Conferenza episcopale discute di sacerdozio femminile, di abolizione del celibato, di una maggiore libertà sulla morale sessuale.

«È la mia battaglia: l'esclusione delle donne dai sinodi e, più in generale, dai luoghi di potere. Continuo a battermi contro il patriarcato, dentro e fuori la Chiesa».

Nella costruzione di un certo immaginario relativo alla donna, alcuni partiti conservano un ruolo attivo.

«Sì, ma la questione non riguarda soltanto le destre. Ci sono più donne a guidare partiti di destra che di sinistra. Sebbene non affermino che la vocazione delle donne è di "essere mogli e madri", molti, proprio a sinistra, continuano ad assegnare alle donne i compiti di cura».

A proposito di sinistra, lei nel 2015 si è candidata con Podemos.

«Avevo contribuito a fondare un movimento per l' indipendenza catalana, "Processo Costituente". Poi non abbiamo raggiunto l'intesa con Podemos. Mi sembrava, con la politica, di poter contribuire a un futuro migliore per la democrazia della mia Catalogna. Il mio posto è il monastero non la politica, ma ero disposta - e lo sarei di nuovo - ad adoperarmi in via eccezionale».

Prima di diventare monaca di clausura ha mai pensato a lei come madre?

«Sì. Da adolescente volevo avere nove figli».

Cosa significa la fede?

«Credere che io, lei, il mondo abbiamo un futuro che non è di morte. Significa credere che nessun gesto d'amore sia vano. Significa credere nel perdono».

In questi giorni in Italia c'è stato un duro scontro sul "fine vita". C' è chi spinge per avere una legge sull' eutanasia, mentre un ampio fronte cattolico si oppone.

«Che ci sia una legge o meno, è la realtà, come sempre, a imporsi. Quando si tratta di persone e non di cose, il criterio della maggioranza serve a poco. Per ogni persona che decide liberamente di morire, ce ne sono almeno altre dieci che, potendo scegliere, arriveranno a farlo, spinte da circostanze che esistono anche se la legge le ignora. Cosa farebbe lei se avesse una certa età, fosse malata, non particolarmente abbiente, e a casa sua avessero difficoltà a prendersi cura di lei?»

CI MANCAVA IL FEMMINISMO IN VATICANO. Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 27 marzo 2019. Per molti nelle Sacre Stanze la fuoriuscita di Lucetta Scaraffia da L' Osservatore Romano era una bomba a orologeria: si aspettava solo la fine del conto alla rovescia. La professoressa, giornalista e scrittrice, figura simbolo della presenza femminile nella Chiesa, lascia la collaborazione con il quotidiano della Santa Sede e soprattutto la guida del supplemento «Donne chiesa mondo». Con lei sbattono la porta molte delle redattrici dell' inserto, con duri atti d' accusa alla nuova direzione di Andrea Monda, ritenuta responsabile di avere depotenziato il progetto editoriale, lasciando la redazione in un «clima di sfiducia e delegittimazione». Accuse rispedite al mittente dallo stesso Monda. La rivista è un inserto mensile nato sette anni fa quando direttore era Giovanni Maria Vian e papa Benedetto XVI. Per molti rappresentava una svolta sul tema donne nella Chiesa, e Scaraffia un'«icona» del riscatto femminile. Il culmine un paio di mesi fa, quando in un articolo denunciava lo scandalo degli abusi sessuali e di potere sulle suore commessi da preti e vescovi. Una piaga riconosciuta dallo stesso papa Francesco, a febbraio, sul volo di ritorno dagli Emirati Arabi Uniti. La Scaraffia era ritenuta una figura determinante dentro il quotidiano d'Oltretevere. Fino al 31 dicembre 2018, ultimo giorno della direzione Vian. Con Monda la sua influenza sul giornale è calata. E nei Sacri Palazzi l' incompatibilità veniva già sussurrata fin da subito. C' è chi racconta della prima volta in cui Monda si è affacciato alla riunione dell' inserto: una redattrice gli avrebbe detto che non era «gradito, perché sei maschio». «È stato un logoramento inesorabile», dice Scaraffia, e l' accumulo di episodi significativi ha avuto alcuni picchi, tra cui un articolo di Monica Mondo, giornalista di Tv2000, pubblicato sul giornale del Papa: era una recensione critica su un documentario che mostrava abusi su religiose, e per lo staff dell' inserto sarebbe stato in contrapposizione alla denuncia di un mese prima. Così si arriva all' editoriale che uscirà sul prossimo numero, in cui la direttrice scrive che la sua linea «non ha trovato l'appoggio della nuova direzione, indirizzata a depotenziare "donne chiesa mondo"». Come? «Avviando iniziative concorrenziali, con l' effetto di mettere le donne l' una contro l' altra». Poi, un altro attacco: «Si torna alla selezione delle donne che parte dall' alto, alla scelta di collaboratrici che assicurano obbedienza». Monda affida le sue repliche a una nota. Smentisce la sospensione del mensile: «Non era in discussione. Dunque la sua storia continua». Assicura che «in questi pochi mesi ho garantito alla Professoressa Scaraffia, e al gruppo di donne della redazione, la stessa totale autonomia e la stessa totale libertà che hanno caratterizzato l' inserto da quando è nato», astenendosi «dall' interferire sulla fattura del supplemento mensile e limitandomi a offrire il mio doveroso contributo (nel suggerimento di temi e persone da eventualmente coinvolgere) alla libera valutazione della redazione». Dichiara che «il mio impegno non è stato in alcun modo quello di depotenziare il mensile, al quale è stato semmai confermato il budget ed è stata garantita la traduzione e la diffusione in altri Paesi» nonostante «la necessità di contenere i costi della Curia». E mai «ho selezionato qualcuno, uomo o donna, con il criterio dell' obbedienza. Semmai, al contrario, ho sollecitato confronti liberi, non costruiti sul meccanismo degli uni contro gli altri o dei gruppi chiusi». È chiaro che Monda fin da subito non ha considerato Scaraffia l' unica depositaria del pensiero femminile nel mondo ecclesiale, e questo avrebbe acceso la miccia. Il direttore annuncia che «lunedì si terrà una tavola rotonda su un saggio, firmato da 17 teologhe e studiose, "La voce delle donne" (Ed. Paoline)». La Scaraffia sarebbe stata invitata, ma non avrebbe risposto. Il timer esplosivo si stava già avvicinando allo zero.

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 27 marzo 2019. «Ci siamo sentite continuamente smentite dagli articoli dell' Osservatore Romano sul tema "donne-Chiesa"». Ecco il motivo concreto per cui Lucetta Scaraffia ha lasciato la collaborazione con il quotidiano vaticano e si è dimessa dalla guida dell' inserto "donne chiesa mondo". Seguita da molte delle redattrici della rivista femminile, in aperta polemica con il direttore Andrea Monda.

Professoressa Lucetta Scaraffia, quando ha deciso di lasciare?

«Si tratta di una scelta collettiva, maturata con sofferenza dai primi di gennaio».

Perché l'annuncio è avvenuto ieri?

«Perché le ragioni che ci hanno spinto a lasciare si sono accumulate in modo per noi insopportabile, abbiamo capito che c'era rischio di logoramento».

Che cosa è cambiato con la direzione di Andrea Monda dopo quella di Giovanni Maria Vian?

«È mancato il rispetto per la nostra diversità, l'interesse a confrontarsi con noi».

Che cosa significa che vi siete sentite delegittimate e in un clima di sfiducia?

«Significa sentirsi continuamente smentite dagli articoli sul tema "Donne-Chiesa" che uscivano sul quotidiano, senza possibilità di rispondere. Era sempre più chiaro che il nostro modo di affrontare il problema non piaceva, e non veniva neppure considerato degno di discussione».

In che modo «un' iniziativa vitale», come definisce lei la rivista, è stata «ridotta al silenzio»?

«La nostra è stata un' iniziativa nuova, che partiva dall'attività di un gruppo di donne che si è autogestito in totale libertà, con l' appoggio di papa Benedetto XVI e papa Francesco. Siamo state un laboratorio intellettuale di riflessione sul tema donne, e donne e Chiesa, pensando di offrire spunti nuovi alla Chiesa e soprattutto di dare voce a quanto le donne stavano pensando, facendo e progettando. La voce delle donne non è mai ascoltata, sono una presenza invisibile se pure indispensabile. Volevamo renderla evidente, ascoltata.

Far capire che è degna di discussione, di confronto e può dare un aiuto fondamentale alla Chiesa in questo momento di crisi».

Monda ha negato il ritorno al costume «della scelta dall' alto, sotto il diretto controllo maschile, di donne ritenute affidabili»: che cosa ne pensa?

«Non rispondo».

Che peso e risvolti ha avuto la vostra denuncia di abusi di religiose da parte di preti e vescovi?

«Non siamo state le prime, e neppure le più ricche di esempi, ma è stato fondamentale che dall' interno del Vaticano qualcuno avesse il coraggio di rompere il silenzio. Il problema cruciale è sempre quello: rompere il silenzio, e in questo siamo contente di avere dato un contributo».

Vi aspettavate qualcosa di diverso da papa Francesco?

«Il Pontefice ha detto cose importanti sulla servitù delle donne, e ha preso decisioni altrettanto degne di rispetto, come la consacrazione di Maddalena come apostola e la derubricazione dell' aborto dal numero dei peccati riservati, cioè che possono essere assolti solo da un vescovo, a peccato ordinario.

Ma sono le donne che devono chiedere, che devono farsi avanti e chiarire che nella maggior parte delle situazioni la loro esclusione non è motivata né da dogmi né da precetti evangelici, ma solo dalla tradizione. E la tradizione si può e si deve cambiare».

Bergoglio recentemente ha detto che bisogna integrare la donna «come figura della Chiesa nel nostro pensiero» e pensare la Chiesa «con le categorie di una donna»: quali cambiamenti potranno portare queste affermazioni?

«Non lo so, penso che le donne non dovrebbero essere ascoltate come metafora di qualcosa, ma come esseri umani degni di rispetto e con qualcosa da dire. Senza smettere di essere donne, naturalmente».

Dalle sue parole si capisce che per lei la Chiesa in generale è e resta maschilista: quanto e come lo è?

«Tanto, in tutto. È come se le donne non esistessero».

Lucetta Scaraffia e l’addio al mensile vaticano: «Le donne pensanti danno fastidio». Pubblicato da Gian Guido Vecchi mercoledì, 27 marzo 2019 su Corriere.it. Ha pesato la denuncia degli abusi sessuali commessi da preti e vescovi sulle suore? «Per la verità davamo fastidio già prima. Le donne pensanti danno fastidio. Poi, certo, con il racconto degli abusi abbiamo dato loro la prova che avevano ragione a diffidare...». Lucetta Scaraffia sorride, ha imparato a prenderla con ironia. Dopo il Sinodo sulla famiglia scrisse un libro, Dall’ultimo banco, che raccontava la sua esperienza di donna ai margini dell’assemblea, senza diritto di voto. 

Perché è successo? 

«Perché non ci volevano. Vogliono solo persone che controllano. All’inizio c’è stato un tentativo di commissariarci, di mettere Monda anche come direttore di “donne chiesa mondo” perché partecipasse alle riunioni. Abbiamo detto che se fosse avvenuto ci saremmo dimesse. Rientrato il progetto, ci hanno lasciate libere di lavorare ma è iniziata una forma di delegittimazione strisciante». 

Ha scritto della volontà di controllo degli uomini che vogliono «donne affidabili». 

«Ci hanno lasciate libere di lavorare, ma sull’Osservatore sono apparsi articoli sui nostri temi che seguivano una linea opposta. Il nostro giornale è nato da un’iniziativa di donne, è stato un laboratorio intellettuale, un’esperienza bellissima. Hanno creato una seconda voce delle donne, però ammaestrata. Hanno messo donne contro donne». 

Ne ha parlato con il prefetto per la Comunicazione, Paolo Ruffini? 

«Sì, all’inizio. Volevano che la comunicazione vaticana fosse compatta e univoca, mi ha detto. E io: va bene, fatemi partecipare alle riunioni».

E lui? 

«Si è messo a ridere. Come fosse una pretesa inaudita».

Come sono considerate le donne in Vaticano? 

«Malissimo. Non esistono». 

Eppure il Papa ripete che «la Chiesa è donna». 

«Bello, ma è un modo per trasformarci in una metafora. Vogliamo esser ascoltate, contraddette, discusse come si fa con gli uomini, non diventare metafore. Essere riconosciute come interlocutrici nella nostra diversità: io, ad esempio, sono contraria al sacerdozio femminile». 

Resiste la mentalità per cui le suore devono lavare i calzini ai preti? 

«Ah sì, quella è rimasta intatta. L’anno scorso pubblicammo un’inchiesta sullo sfruttamento delle religiose. Ci sono arrivati moltissimi biglietti di suore. Senza dire chi erano, ci scrivevano: grazie. Una cosa commovente». 

A Loreto, il Papa ha parlato di Maria come «figlia, fidanzata, sposa e madre», punto.

«Era una donna di grande coraggio che, giovanissima, ha sfidato la società. Una ragazza che ha accettato questo figlio e rischiava di essere lapidata. Nessuno ne parla».

Le donne potrebbero aiutare la Chiesa ad uscire dalla crisi dei preti pedofili? 

«Certo, un vero coinvolgimento delle donne è l’unico modo per uscirne». 

Quanto sono diffusi gli abusi sulle suore? 

«Molto. Io credevo fosse solo in alcuni continenti, America Latina, Asia, Africa, e invece accade anche in Europa. La vaticanista Valentina Alazraki ha detto ai vescovi in Vaticano: «Vorrei che la Chiesa giocasse all’attacco e non in difesa, com’è avvenuto nel caso degli abusi sui minori». «Non so cosa farà. Per il momento la Chiesa non gioca, ha deciso di non giocare». 

Come ha reagito finora? 

«Col silenzio. Perché c’è la questione aborto che rende tutto ancora più complicato e drammatico rispetto alla pedofilia. Ci sono vescovi e preti che hanno fatto abortire le donne di cui hanno abusato».

Il vostro mensile come è stato accolto in Vaticano? 

«Abbiamo avuto l’appoggio dei Papi, Benedetto XVI e Francesco, e anche della Segreteria di Stato. Per il resto, non ci leggevano. O almeno dicevano di non farlo, di considerarci una lettura per cameriere». 

Chi lo ha detto?

«Lasciamo perdere… Vivono in un mondo maschile nel quale non è concepito che entrino le donne. Non riescono neanche a pensarci, per loro le donne non esistono».

Vaticano, Papa Francesco e la drammatica rivolta: "Dopo gli abusi sulle suore...", dimissioni a raffica, scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Dura la vita delle femministe all'ombra del Cupolone. Almeno a leggere la vibrante lettera, indirizzata a papa Francesco in persona, scritta da Lucetta Scaraffia, la quale, insieme a tutto il suo staff composto da donne, si è dimessa dall' incarico di direttore di "Donne Chiesa Mondo", supplemento mensile dell' Osservatore Romano, nato sette anni fa durante il pontificato di Benedetto XVI sotto la direzione di Giovanni Maria Vian. Un' iniziativa salutata come inedita apertura del mondo vaticano alla presenza e alla voce più forte delle donne. Cos' è successo, allora? Ecco i fatti: ieri è stata rilanciata, con grande clamore mediatico, la lettera aperta della Scaraffia in cui annuncia e spiega queste dimissioni di massa. Il direttore dell' Osservatore, Andrea Monda, subentrato a Vian - con le sue dimissioni piuttosto affrettate e "pilotate" - il 18 dicembre scorso, a sua volta dichiara, in una nota pubblicata proprio sul quotidiano della Santa Sede, quanto questa decisione sia «volontaria» e in alcun modo indotta.

Gli abusi sulle suore - Per la Scaraffia, invece, le cose sono diverse: parla di come lei e le colleghe si sentano circondate «da un clima di sfiducia e di delegittimazione progressiva, da uno sguardo in cui non avvertiamo stima e credito per continuare la nostra collaborazione». Ma in definitiva, spiega ancora la Scaraffia, quello che deve aver scatenato le vere ostilità, e il tentativo di «delegittimazione», deve essere stata la precisa volontà di sollevare il velo sullo sfruttamento di tante suore da parte di membri del clero, uno sfruttamento che comporta anche gli abusi sessuali. Uno scandalo che la rivista aveva denunciato anche recentemente. Con amarezza, poi, viene sottolineato il fatto che una «iniziativa vitale», come quella del supplemento, «sia ridotta al silenzio e che si ritorni all' antiquato e arido costume della scelta dall' alto, sotto il diretto controllo maschile, di donne ritenute affidabili», tornando così «all' autoreferenzialità clericale». Accuse piuttosto pesanti, come si vede. A cui però il direttore Monda, nella sua nota, risponde quasi punto per punto. Non è mai stato impedito alcunché alla professoressa Scaraffia e al suo staff, anzi è stata garantita la «totale autonomia e libertà» che hanno caratterizzato il supplemento fin dalla sua nascita. E soprattutto «in nessun modo ho selezionato qualcuno, uomo o donna, con il criterio dell' obbedienza. Semmai, al contrario, evitando di interferire con il supplemento mensile, ho sollecitato nella fattura del quotidiano confronti realmente liberi, non costruiti sul meccanismo degli uni contro gli altri o dei numeri chiusi». Alle accuse di ostilità verso la voce delle donne, e di reazione alle loro denunce contro abusi e sopraffazioni perpetrate verso tante religiose che sono rimaste a lungo in silenzio, si ribatte con l' accusa di avere costruito gruppi chiusi e contrapposti, senza un autentico confronto libero.

Lotta di potere - In realtà, secondo molti osservatori, il divorzio tra Osservatore Romano e "Donne Chiesa Mondo" era atteso. Dopo che Vian ha lasciato la direzione del quotidiano, per volontà del Papa, anche l' addio della Scaraffia era previsto, dato che era molto legata editorialmente al precedente direttore: oltre a dirigere il supplemento, era anche editorialista e ogni giorno sovrintendeva all' impaginazione del giornale, prima della sua messa in stampa. I nuovi equilibri editoriali, insomma, comportano decisi cambiamenti. C' è invece chi, come il vaticanista Sandro Magister nel suo blog "Settimo cielo", individua in questo episodio l' ultima mossa di una strategia mirata a ricondurre tutti i media vaticani «sotto il pieno controllo di Santa Marta», e il supplemento "Donne Chiesa Mondo" rappresentava «l' ultimo bastione di resistenza». Sulla vicenda interviene anche la Federazione nazionale della Stampa, che in un comunicato chiede «si faccia chiarezza al più presto e non venga lasciata alcuna zona d' ombra, in linea con lo spirito introdotto da Papa Francesco».

·        I Gay ed il Vaticano.

La Chiesa tedesca verso la rivoluzione: "L'omosessualità è normale". La Chiesa tedesca, impegnata nel "sinodo interno", apre riflessioni dottrinali, che possono cambiare il Catechismo. Ping pong con Roma. Giuseppe Aloisi, Martedì  10/12/2019 su Il Giornale. La rotta è tracciata: la Chiesa tedesca marcia verso la rivoluzione. Il terreno da percorrere è dottrinale. Di tassa ecclesiastica - quella che Ratzinger avrebbe voluto abolire e che rende l'episcopato teutonico tra i più ricchi al mondo - non si dovrebbe discutere. I tabù destinati a cadere sembrano molti. La tassazione (l'aliquota è circa l'8%), che coinvolge tutti i cittadini teutonici che si professano cattolici, non fa parte dei punti all'ordine del giorno resi noti. Il cardinale Reinhard Marx, che Bergoglio ha posto a capo della "spending review" del Vaticano, è alla guida di un "cammino sinodale" interno, che ha avuto inizio lo scorso primo dicembre. Da Roma, nel corso di questi mesi, sono arrivati un paio di altolà: quello del cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, e quello di monsignor Filippo Iannone. Perché i tedeschi vorrebbero procedere per conto loro. Quasi come se appartenessero ad una Chiesa autocefala. Sono temi - quelli cari a Marx e ai presuli progressisti - sui quali dovrebbe poter decidere solo la Chiesa universale. E Pure Papa Francesco ha inviato una lettera. Non si è trattato di un vero e proprio botta e risposta. Non c'è uno scontro acceso tra Roma e Berlino. La famiglia teologica progressista di Germania è in ottimi rapporti col Santo Padre. Il cardinale Walter Kasper rimane un riferimento centrale. La partita però è grossa. Marx e i suoi ventilano da tempo la laicizzazione della gestione parrocchiale, l'intercomunione tra protestanti e cristiano-cattolici (si è pure ipotizzato che si stesse lavorando a una "messa ecumenica", cioè valida per tutti cristiani), la normalizzazione della dottrina sulla omosessualità, l'apertura di un ragionamento sull'obbligo di celibato per i sacerdoti e l'estensione del valore attribuito alle donne in seno alla vita ecclesiastica. Dalle diaconesse ai sacramenti celebrati dai laici, passando alla benedizione per le coppie omosessuali: alcuni vescovi di Germania vogliono osare. Persino lì dove il Sinodo panamazzonico non è arrivato. Ma tutto ruota attorno a un singolo termine, che è "vincolante". Se la nostra epoca fosse quella delle Chiese nazionali, allora i tedeschi potrebbero deliberare in autonomia. Ma fino a prova contraria è ancora Roma a decretare per tutti. Per quanto questo "concilio interno" voglia proporre una natura "vincolante" di quello che verrà deciso. In Vaticano, insomma, potrebbero frenare tutto nell'arco di questi due anni. Il tempo che i tedeschi si sono concessi. Stando a quanto riportato da Lifesite News, però, qualche novità già c'è: la Conferenza episcopale tedesca ha parlato di omosessualità quale "forma normale di predisposizione sessuale". Dal punto di vista catechistico, è una svolta di rilievo. Ma non è tutto. Perché altri esponenti dell'equivalente della nostra Cei hanno anche ridimensionato l'adulterio. La base su cui la riflessione è stata poggiata è Amoris Laetitia, l'esortazione apostolica di Papa Francesco cui sono seguiti i dubia di quattro cardinali. Tra due anni i tedeschi potrebbero aver prodotto una serie di considerazioni ultra-progressiste in grado di smantellare alcune certezze dei tradizionalisti. Vale anche la pena sottolineare come esista una frangia teutonica, ma contraria a questo genere di fughe in avanti. Tutto, però, dipenderà dalle eventuali reazioni romane.

I cinquant’anni del Pride: orgoglio e diritti per costruire una società più libera. Nel luglio del 1969 a New York ci fu il primo Pride, nato dopo gli scontri con la polizia. Angela Azzaro l'8 giugno 2019 su Il Dubbio. Da quando sono nati i Pride, tante conquiste sono state fatte, tanti passi avanti messi a segno. Ma la strada da fare è ancora molta. Per questo ogni anno il rito si ripete con pari intensità. Nel 2019, come accade da diversi anni, il Pride italiano si articola in diverse manifestazioni che attraversano tutto il Paese, da maggio fino a settembre. È l’idea giusta che non serve solo un grande appuntamento, ma una visibilità diffusa, ancora più necessaria in quelle parti del Paese dove ancora resistono i pregiudizi. Questo sabato si preannuncia particolarmente intenso: scenderanno in piazza Roma, Trieste, Pavia, Messina, Ancona. Una festa dei diritti, dell’orgoglio, contro le discriminazioni. Nel luglio del 1969 – esattamente cinquanta anni fa – a New York ci fu il primo Pride, nato dopo gli scontri con la polizia. Nel locale Stonewall, frequentato principalmente da trans, le forze dell’ordine avevano la cattiva abitudine di fare irruzione, picchiando le presenti e arrestandole. La colpa? Erano considerate un problema di ordine pubblico solo per il fatto di esistere, di essere quello che erano. Ma quel giorno di 50 anni fa, Sylvia Rivera disse basta: si levò una scarpa e la lanciò contro la polizia, dando inizio alla rivolta. Una rivolta che non si è ancora fermata. Il gesto di Sylvia, morta nel 2002, è paragonabile a quello di Rosa Park per i diritti degli afroamericani: un gesto che riscatta una intera comunità discriminata. Da allora, molte scarpe sono state lanciate, molte rivolte, personali e collettive, sono andate in scena. Roma per esempio festeggia i 25 anni del primo Pride. All’inizio erano pochi, oggi le strade della capitale si riempiono perché tanta strada è stata fatta, tanta ne resta da fare. Finché un solo ragazzino o una ragazzina vengono presi in giro perché non sono eterosessuali, non ci si può fermare. Un altro anniversario ci aiuta allora a ricostruire questo mosaico della Storia, fatta di contraddizioni, di passi avanti e di pericolosi rigurgiti. Il 5 giugno di tre anni fa furono approvate le unioni civili. Dopo vari colpi di scena e il timore di non farcela ancora una volta, il governo Renzi mise la fiducia e divennero legge dello Stato. Lo stesso coraggio non ha poi avuto il governo Gentiloni quando si trattava di mettere la fiducia per far approvare lo ius soli temperato. La battaglia, portata avanti dalla senatrice dem Monica Cirinnà, ha già permesso a diecimila persone di unirsi civilmente uscendo da una condizione di clandestinità. La normativa ha consentito l’accesso a diritti fondamentali, come la reversibilità della pensione o la possibilità di avere accanto in ospedale il proprio compagno se si è malati. Ma ha consentito anche di affermare nel senso comune la “normalità” dell’amore tra due uomini e tra due donne, ha costruito un simbolico diverso. Purtroppo non basta. Sono tanti gli episodi di omofobia, tante le affermazioni che tendono a riportare indietro le lancette dell’orologio. Si deve lottare ancora, non solo perché le coppie che decidono di unirsi possano accedere al matrimonio vero e proprio come le coppie etero, ma per cambiare profondamente la cultura e la società. Il Pride è tutto questo: orgoglio, diritti, costruzione di una società diversa, in cui tutti e tutte siano più liberi. È così che nasce la connessione, sempre più forte, con una parte del movimento femminista. Quando leggete la sigla di chi partecipa alle manifestazioni, Lgbtq, non spaventatevi. Stiamo parlando di questa apertura. “B” per esempio sta per bisexual, “q” sta per queer, un movimento che è anche una disciplina universitaria e che, indipendentemente dalla traduzione letterale, significa nuove identità, nuove soggettività, cioè la possibilità per tutti di essere se stessi fuori dalla norma imposta. Il Pride è per tutti e tutte, per la libertà di essere sempre se stessi. Una buona ragione per continuare a lanciare la scarpa contro il potere.

Così una parte di Chiesa cattolica celebra il mese del pride. I progressisti presenti nella Chiesa cattolica, anche a livello ecclesiastico, elogiano il mese dedicato alla promozione dei diritti Lgbt. Polemiche in arrivo. Giuseppe Aloisi, Sabato 08/06/2019, su Il Giornale. C'è una parte di Chiesa cattolica che interpreta la pastorale dell'accoglienza in modo estensivo. Le battaglie della comunità Lgbt - ci si domanda - devono essere solo accolte o possono trovare piena legittimazione negli ambienti ecclesiastici? Per alcuni di questi, specie tra quelli americani e progressisti, non esiste una differenza sostanziale tra i due approcci possibili. Il gesuita statunitense e consultore della Segreteria per la Comunicazione James Martin ha persino augurato "buon mese del pride" via Twitter. Poi c'è chi organizza "preghiere" o "processioni" di riparazione per rispondere alle "veglie" contro l'omofobia. Sono tutte vicende che, di tanto in tanto, hanno luogo pure nelle parrocchie del Belpaese, alimentando lo scontro tra i cattolici tradizionalisti e quelli meno inflessibili, i cosiddetti "cattolici adulti". Dando uno sguardo a quello che sta accadendo in questi primi giorni di giugno, che è il mese dedicato all'orgoglio Lgbt, è possibile segnalare - come si legge sul sito Lifesite News- una celebrazione, la seconda in due anni, predisposta dalla diocesi di Newmark, nel New Jersey, in relazione al pride. Forse è il caso più emblematico. Durante lo scorso Sinodo sui giovani, si è molto dibattuto della dottrina in materia: dopo le prime fasi, quelle in cui sembrava possibile che l'omosessualità venisse sdoganata, si è optato per non modificare il Catechismo. Ma l'acronimo "Lgbt" è sto utilizzato, per la prima volta nella storia del cattolicesimo, per un documento ufficiale del Vaticano. Qualcosa, prescindendo dalla volontà dei teologi conservatori, sta cambiando. C'è un collettivo dell'Università Cattolica di Milano, "LGBcatT", che per giovedì 20 giugno, presso viale Pasubio, ha organizzato un aperitivo tramite cui preparsi alla sfilata per i diritti omosessuali. Il simbolo dell'organizzazione studentesca è un gatto arcobaleno. Alcuni cattolici, in definitiva, non si chiedono più se accogliere o no le persone appartenenti alla comunità Lgbt: è un dato scontato. Il piano della discussione, oggi, è un altro: la Chiesa cattolica, le istituzioni ecclesiastiche e i fedeli possono o non possono promuovere quelli che Joseph Ratzinger, in maniera critica, chiamava "nuovi diritti"? Le iniziative descritte in maniera sintetica tramite questo articolo contengono una risposta implicita, ma vale solo per la corrente progressista. Le critiche dell'altro emisfero, quello che ritiene che tutto questo sia fuori dalla dottrina ufficiale, non si faranno attendere.

Il gesuita augura "Buon mese del pride" alla comunità Lgbt. Il gesuita James Martin, consultore della Segreteria per la Comunicazione, ha lanciato ancora un segnale di dialogo alla comunità Lgbtq, augurando "buon mese del pride". Giuseppe Aloisi, Domenica 02/06/2019, su Il Giornale. Il gesuita James Martin continua a sorprendere per lo spiccato progressismo dottrinale. Quella che ha avuto inizio un giorno fa è la mensilità che la comunità Lgbt di tutto il mondo riserva alla festività del gay pride e il consultore del Vaticano per la Segreteria per la comunicazione, lo stesso sacerdote americano già balzato agli onori delle cronache negli anni passati per via delle sue posizioni dialoganti e aperturiste, tra cui quella - contenuta in un suo noto e discusso libro - che sostiene la necessità di edificare un "ponte" tra la Chiesa cattolica e le persone Lgbtq, ha scritto su Twitter quanto segue: "A tutti i miei molti amici #LGBTQ, cattolici e non, Happy #PrideMonth Sii orgoglioso della tua dignità data da Dio, dei doni che Dio ti ha dato, del tuo posto nel mondo e dei tuoi numerosi contributi alla chiesa. Perché tu sei "fatto meravigliosamente" da Dio (Sal 139). # PrideMonth2019". James Martin, insomma, insiste su quello che ritiene corretto per la Chiesa, dimostrando di non tenere troppo conto delle critiche e degli attacchi che in questi anni gli sono arrivati da parte del "mondo tradizionale". Per alcuni esponenti di quell'insieme di credenti cristiano-cattolici, il consacrato statunitense è direttamente un "attivista" della causa Lgbtq. L'ecclesiastico, già durante il 2018, aveva invitato i cattolici a non provare "diffidenza nei confronti del gay pride". Nel corso della giornata di ieri, il gesuita ha scelto di augurare "buon mese del pride".

Da Marco Tosatti su marcotosatti.com il 2 dicembre 2019. Cari Stilumcuriali, come sapete ieri a Vienna per il terzo anno di seguito la cattedrale ha ospitato un concerto di beneficenza per le persone LGBT, a cui ha partecipato anche Conchita Wurst, la cantante con barba e in abito lungo scollato che ha rappresentato l’Austria nel 2014 all’Eurovision. L’evento si chiamava “Believe together”, e quello in cattedrale “Desiderare gli angeli”; e l’organizzatore, l’attivista omosessuale Gery Keszler, ha ringraziato il cardinale Christoph Schönborn: “Siamo molto grati per la fiducia che il cardinale ha riposto in noi”. L’anno scorso nella navata della cattedrale del ‘300 in un contesto di musica ad altissimi volume un attore noto per recitare ruoli omosessuali si è esibito a torso nudo in mezzo a comparse vestite da demoni. Alexander Tschugguel, il giovane che ha gettato nel Tevere le Pachamama ha detto che i cattolici austriaci non amano molto che la cattedrale di santo Stefano sia usata per promuovere eventi LGBT. E ha organizzato un rosario fuori della Chiesa. L’arcivescovo Carlo Maria Viganò gli ha inviato la lettera che riproduciamo: Caro Alexander, Cari fedeli riuniti in preghiera per la recita del Rosario fuori dalla Cattedrale di Santo Stefano a Vienna, Il Signore Gesù e la Vergine Maria siano con voi! Abbiamo visto l’idolatria penetrare nel Tempio di Dio e rivendicare a sé l’adorazione dovuta esclusivamente al Dio vivente e vero. Delle statuine, identificate come idolo Pachamama, sono state portate processionalmente. Il caro Alexander si è ricordato del monito del Dio geloso – geloso perché “Amico dell’uomo”, della sua eterna verità e del suo destino di gloria. Quel monito riecheggia nelle pagine della Scrittura rivelata, che tutti dovrebbe riempire di sacro tremore: “Voi demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, brucerete nel fuoco i loro idoli!” (Deuteronomio 7, 5). Li annegherete nelle acque del Tevere, “perché sono un abominio per il Signore tuo Dio; non introdurrai quest’abominio in casa tua(Deut 7, 25-26). San Paolo ci insegna che l’uomo cade nell’idolatra quando, divenuto incredulo ed apostata, disprezza la conoscenza di Dio e si ostina nel suo rifiuto di glorificarlo, “Lui che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del Cielo e della terra…. Lui che a tutti dà la vita e il respiro a ogni cosa…. Colui nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo; Colui del quale noi siamo la stirpe.” (Att. 17, 22, 28) L’idolatria soffoca la verità nell’ingiustizia, ottenebra la mente e perverte il giudizio. Allora l’uomo, in balia della tirannia delle sue passioni infami e delle sue voglie vagabonde, si abbandona ad ogni forma di perversione e di impurità, “così da disonorare il proprio corpo, poiché ha cambiato la verità di Dio con la menzogna e ha venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli.” (Rom 2, 25). Ancora una volta Vienna, la gloriosa capitale che seppe resistere con le armi della luce e della fede, all’avanzata della Orda Ottomana, subisce – sgomenta e scandalizzata – l’ennesima provocazione omoeretica e blasfema. Sulla cattedra di Santo Stefano si esibiscono attivisti gay, travestiti e transessuali che dalla Chiesa Cattolica dovrebbero invece ricevere l’annuncio della Verità liberatrice di Cristo e il dono dell’Amore salvifico, gratuitamente offerto a tutti coloro che, dal più profondo delle proprie ferite e del proprio pentimento, osano riconoscersi bisognosi di salvezza. Mi associo di tutto cuore al piccolo gregge, rimasto forse senza Pastore ma chiamato a raccolta nel Cuore dell’Immacolata, per implorare da Lei, mediante la preghiera riparatoria del Santo Rosario, il perdono di Dio per le offese e gli oltraggi perpetrati. L’enormità degli scandali non diminuirà mai la potenza del Signore: non abbiamo perciò motivo di perdere coraggio né fiducia. Di fronte alla sinistra visione di una chiesa che sembra volersi riedificare contro la fede e contro la verità della persona umana, che sostiene e promuove ciò che avvilisce la vita e procura la perdita delle anime, vogliamo raddoppiare la fede e pregare senza mai stancarci l’Immacolata Madre di Dio e nostra vera Madre: Vitam praesta puram, iter para tutum, ut videntes Iesum semper colletemur. Insegnandoci a guardare Gesù, la Vergine Maria ci rende capaci di perseverare nella fede come “Acies ordinata, uno schieramento di anime militanti, sofferenti e trionfanti, unite per affermare l’onore della Chiesa, la gloria di Dio e il bene delle anime. L’arruolamento è aperto.” (Roberto de Mattei) Mentre ci apprestiamo a varcare le soglie di un nuovo anno liturgico, san Bernardo mette nei nostri cuori e sulle nostre labbra le parole della nostra incrollabile speranza, della nostra fede certa, mentre i nostri cuori si aprono all’ardore della carità di Cristo, unici rimedi contro l’avanzare dell’iniquità. “Fin da ora, celebriamo con tutto il cuore la venuta del Nostro Signore Gesù Cristo… Egli è venuto non solo a noi, ma per noi… La grandezza della grazia che ci ha donata, mostra qual era l’indigenza del nostro bisogno. Giudichiamo la gravità della nostra malattia da quanto costa guarirla… La venuta del Salvatore è perciò necessaria. Lo stato in cui sono gli uomini rende indispensabile la sua Presenza. Venga presto, dunque, il Salvatore!” Carlo Maria Viganò Arcivescovo tit. di Ulpiana

Cattolici tradizionalisti in processione a Rimini: "Ripariamo al Gay Pride". Una "processione riparatrice" contro il Summer Pride si è tenuta ieri tra le strade di Rimini. All'evento indetto dai cattolici tradizionalisti hanno aderito centinaia di persone. Gabriele Laganà, Domenica 29/07/2018, su il giornale. Diverse centinaia di persone hanno sfilato ieri pomeriggio lungo le vie del centro storico di Rimini, dalla Chiesa di San Gaudenzo in Piazza Mazzini fino alla Chiesa del Suffragio in Piazza Ferrari, per la “processione di riparazione pubblica”. L’appuntamento è stato indetto dal comitato cattolico tradizionalista “Beata Giovanna Scopelli” di Reggio Emilia in concomitanza del “Summer Pride”, la manifestazione dell’orgoglio Lgbt tenutasi sul Lungomare della città romagnola. Davanti alla chiesa, sotto un attento controllo delle forze dell’ordine, i partecipanti si sono prima raccolti in un momento di riflessione e poi si sono mossi per le strade recitando il Santo Rosario, le Litanie dei Santi e la preghiera di riparazione al Sacro Cuore. Al corteo religioso, oltre ai padroni di casa riminesi, vi erano fedeli giunti da Parma, Reggio Emilia, Forlì, Ravenna e Modena. Numerose anche le famiglie che hanno aderito all’iniziativa in modo entusiasta e che hanno sfilato con i bambini al seguito. Tra i presenti anche attivisti locali di Forza Nuova e dell’associazione femminile “Evita Peron”. Diversi partecipanti indossavano magliette con la scritta “Instaurare Omnia in Christo”. A guidare i fedeli nella preghiera vi erano tre religiosi: due provenienti dalla Fraternità sacerdotale San Pio X fondata dall'arcivescovo Marcel François Lefebvre ed un parroco modenese don Giorgio Bellei. Proprio quest’ultimo ha spiegato che il corteo non deve essere considerato come una manifestazione politica ma un momento di preghiera riparatrice, realizzato con la forma liturgica della processione. “L’obiettivo del Comitato non è protestare politicamente contro le cosiddette unioni civili, che in ogni caso sono da condannare fermamente” ha scandito il prelato ma porre rimedio ad un “atto contro natura”.

Sinodo dei giovani, ora nel testo spunta la parola "Lgbt". È caccia alla «manina» che dedica il paragrafo 197 alle «attese dei gay». Riccardo Cascioli, Domenica 21/10/2018, su Il Giornale. Sembra proprio che il Sinodo sui giovani attualmente in corso in Vaticano (si concluderà il 28 ottobre) passerà alla storia come la prima volta in cui la Chiesa cattolica adotta la terminologia Lgbt. In effetti, quando ormai tre anni fa fu deciso un Sinodo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, dopo le esperienze del Sinodo sulla famiglia in molti si sono chiesti a quale parte della dottrina sarebbe stato dato l'assalto questa volta. La prima risposta è arrivata con il documento preparatorio del Sinodo, il cosiddetto Instrumentum Laboris, dove in mezzo a un mare di futili chiacchiere veniva buttato lì, con una certa nonchalance, un paragrafo (il 197) in cui si parla delle attese dei «giovani Lgbt». La cosa non poteva passare inosservata, è la prima volta che la terminologia Lgbt entra in un documento ufficiale vaticano. E l'arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput, si è fatto interprete dei malumori; intervenendo nei primi giorni del Sinodo ha chiaramente detto che «la sigla Lgbt o linguaggi simili non dovrebbero essere utilizzati nella Chiesa» perché è «come se le nostre tendenze sessuali definissero chi siamo; come se queste designazioni descrivessero comunità distinte di diversa ma uguale integrità all'interno della vera comunità ecclesiale, il corpo di Gesù Cristo. Questo non è mai stato vero nella vita della Chiesa, e non è vero ora». Infatti, un conto è parlare di persone con tendenze omosessuali, come fa il Catechismo, e un altro usare termini e concetti che appartengono alla militanza gay, all'omosessualità fatta ideologia e orgoglio. In ogni caso quello che gli ottimisti giustificavano come uno scivolone linguistico, si è dimostrato invece soltanto un passo nella direzione voluta. Nella conferenza stampa di presentazione dei lavori, infatti, sull'argomento è stato smascherato il segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri. Questi ha cercato di minimizzare dicendo che nell'Instrumentum Laboris sono stati inseriti i contributi dei giovani così come sono stati presentati, ma una giornalista gli ha dimostrato che nessun contributo conteneva quanto scritto nel paragrafo 197. Da dove esce dunque la «rivendicazione» dei giovani Lgbt? Che anche in Vaticano ci siano «manine» che ogni tanto intervengono non è una novità, ma qui la «manina» deve essere molto potente se il cardinale Baldisseri, facendo finta di essere sorpreso, ha escluso categoricamente che quel termine possa essere cancellato. Quindi in questa ultima settimana i padri sinodali saranno loro malgrado costretti a parlare della richiesta dei giovani Lgbt di una apertura della Chiesa all'omosessualità anche se dai giovani non è venuta alcuna richiesta in questo senso. E non solo di quella dovranno discutere: proprio nei giorni scorsi il nuovo Prefetto del Dicastero per la comunicazione, Paolo Ruffini, nel tradizionale briefing ha citato interventi secondo cui «i temi dell'omosessualità e dei matrimoni tra persone dello stesso sesso non possono essere lasciati fuori dalla pastorale». Chissà perché poi, affrontando il tema «giovani e vocazione», si dovrebbe necessariamente parlare di nozze gay? Forse che esiste una vocazione matrimoniale omosessuale o la possibilità di un sacerdozio omosessuale? Certamente no, se guardiamo a cosa la Chiesa ha insegnato per duemila anni riferendosi al progetto creatore di Dio, e però è esattamente ciò che vorrebbe la lobby gay che sembra aver preso il comando delle operazioni in Vaticano. E tanto per non lasciar cadere il discorso, anche l'arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Zuppi, giovedì scorso è intervenuto al briefing quotidiano del Sinodo per dire che «serve una pastorale per i cattolici omosessuali». La cosa interessante è che tutti costoro parlano di «risposte che bisogna dare ai giovani» dando l'idea che finora la Chiesa non abbia mai affrontato il tema. E invece la Chiesa ha parlato e risolto la questione già da molto tempo, con un giudizio chiaro sull'omosessualità (dice nulla San Paolo?) e anche per quel che riguarda la pastorale le linee guida ci sono già nel Catechismo, per non parlare della Nota pastorale del 1986 firmata dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. L'unica cosa nuova invece è che si ha l'obiettivo di cambiare la dottrina della Chiesa su questo punto, ed è a questo che mirano gli interventi di certi prelati che vedono il Sinodo sui giovani come il pretesto per fare un decisivo passo avanti in questa direzione. Si può stare certi che, a meno di una rivolta dei padri sinodali, il documento che uscirà da questo Sinodo andrà anche oltre il semplice riferimento ai giovani Lgbt. A spiegare il vero obiettivo ci ha pensato nei giorni scorsi il potente gesuita padre James Martin, autore del libro Un ponte da costruire Una relazione nuova tra Chiesa e persone Lgbt, nominato da papa Francesco consulente al Dicastero per la comunicazione e relatore molto discusso al recente Incontro mondiale delle famiglie a Dublino. Su America, la rivista dei gesuiti americani di cui è direttore, padre Martin ha sostenuto l'importanza di usare la terminologia Lgbt come forma di rispetto e inclusione, e anche di considerare le coppie omosessuali famiglie a tutti gli effetti (il che porta con sé la bontà della benedizione alle coppie gay, passaggio già approvato da alcuni vescovi). Ovviamente parliamo di obiettivi intermedi, perché il traguardo finale è l'effettiva parificazione di ogni tipo di unione e di orientamento sessuale. Ma intanto si comincia con il dirottamento del Sinodo sui giovani.

"Relazioni gay lecite se fedeli". ​Così la Chiesa vuole sdoganare l'omosessualità. Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Riccardo Cascioli su Il Giornale.it. "Arrivano i piemontesi": a quasi 150 anni dalla conquista militare di Roma, un altro assalto parte simbolicamente da Torino alla conquista del cuore della cattolicità. Si tratta della piena legittimazione nella Chiesa delle relazioni omosessuali, un cambiamento del Catechismo che estende i suoi effetti ben oltre la sfera sessuale. Alla fine di aprile la diocesi di Torino ha organizzato un ritiro in convento per persone omosessuali. L'obiettivo? Dare lezioni di fedeltà. Potrebbe sembrare una cosa positiva dal punto di vista della morale cattolica, in realtà è esplosiva. "L'esperienza dell'amore fedele di Dio è un modo per mettere ordine nelle relazioni disordinate, omosessuali o eterosessuali che siano", ha spiegato il gesuita padre Pino Piva, uno dei relatori del ritiro. È la negazione di quanto affermato dal catechismo della Chiesa per cui sono proprio "gli atti omosessuali" ad essere "intrinsecamente disordinati". La fedeltà non può far diventare buono uno stile di vita intrinsecamente disordinato. In gioco non c'è il giudizio morale su certi comportamenti, ma la dottrina della Creazione e l'esistenza di un ordine naturale stabilito da Dio. Uno dei pilastri della fede. La diocesi di Torino ha in pratica riscritto il Catechismo, dando corpo a un movimento internazionale che sta intensificando la sua pressione, come del resto l'allora cardinale Joseph Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva già previsto nel 1986: "Oggi si legge nella Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali - un numero sempre più vasto di persone, anche all'interno della Chiesa, esercitano una fortissima pressione per portarla ad accettare la condizione omosessuale, come se non fosse disordinata, e a legittimare gli atti omosessuali". Ratzinger invitava tutti i vescovi della Chiesa cattolica a "far in modo che le persone omosessuali affidate alle loro cure non siano fuorviate da queste opinioni, così profondamente opposte all'insegnamento della Chiesa". Torino ha deciso altrimenti. Il ritiro in convento è stato organizzato alla chetichella e se ne è saputo solo a cose fatte, per evitare quanto accaduto l'anno scorso, quando l'arcivescovo Cesare Nosiglia bloccò l'iniziativa parlando di un equivoco sulle intenzioni; allo stesso tempo però esprimeva pieno apprezzamento per il promotore dell'iniziativa, don Gianluca Carrega, il cui pensiero "omosessualista" è molto chiaro. E infatti, non solo don Carrega è rimasto al suo posto, ma ha alla fine organizzato il suo ritiro in convento. Stavolta l'arcivescovo Nosiglia non ha sentito neanche il bisogno di giustificare quanto accaduto. In effetti in un solo anno molte cose sono maturate e la diocesi di Torino sa di poter contare su un ampio sostegno in Italia e all'estero. Diversi vescovi in Germania ed Austria, ad esempio, stanno prendendo posizione a favore della benedizione in chiesa delle coppie dello stesso sesso. In febbraio abbiamo assistito alla grande operazione Sodoma, dal titolo del libro scritto dal sociologo francese Frédéric Martel: interviste a decine di cardinali e vescovi per concludere che una grande fetta di sacerdoti cattolici sono omosessuali, e che quindi sarebbe giusto un coming out generale. Inutile dire che Martel ha potuto trovare porte spalancate in Vaticano, e non fa mistero di incontri ripetuti con padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e "una delle eminenze grigie" di questo pontificato. Non è dunque un caso che più tardi sia stato proprio Martel ad anticipare con un tweet che all'inizio di aprile il Papa avrebbe incontrato una delegazione internazionale Lgbt con previsto un discorso "storico". All'ultimo momento discorso e incontro sono stati annullati, ma la delegazione Lgbt ha potuto incontrare almeno il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. Del resto poche settimane prima, papa Francesco aveva incontrato, con tanto di foto ricordo, il Consiglio pastorale dei cattolici Lgbt+ della diocesi di Westminster, direttamente inviati dal primate inglese cardinale Vincent Nichols.Fatti e gesti eloquenti, accompagnati anche da una martellante insistenza del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, che della legittimazione delle unioni gay ha ormai fatto una bandiera e non passa settimana che non la proponga. Si dà spazio alle esperienze positive di amore omosessuale, si sprecano interviste a teologi che riscrivono la Bibbia, si insiste sulla presunta emarginazione patita da sempre nella Chiesa e sull'omofobia che accomuna molti cattolici; si valorizzano le iniziative pastorali come quelle di Torino e si oscurano quelle nel solco dell'insegnamento della Chiesa, come quella di Luca di Tolve, autore del libro-testimonianza Ero gay. E ora, in maggio, le iniziative cattoliche pro-gay esploderanno intorno alla Giornata mondiale per la lotta all'omo-transfobia. In Italia c'è già tutto un fiorire di veglie di preghiere per le vittime dell'omofobia e della transfobia: da Roma a Firenze, da Genova a Vicenza, da Bologna a Ragusa è già partita la macchina della propaganda, perché come già accaduto negli anni passati si tratta di occasioni importanti per cambiare l'atteggiamento dei cattolici nei confronti dell'omosessualità. E di anno in anno aumentano diocesi e parrocchie che aderiscono o che comunque danno ospitalità. I "piemontesi" marciano sicuri della vittoria.

·        I Gay e l’Islam.

Transgender sul web, «picchiata a Sharm el-Sheikh perché sono trans». Il Messaggero Giovedì 22 Agosto 2019. Episodio di discriminazione in Egitto. Bloccata in aeroporto al suo arrivo a Sharm el Sheik, sputi, offese e anche a calci da parte della polizia perché in Egitto le persone transessuali «non sono gradite». È quanto denuncia Federica Mauriello, transgender partenopea socia dell'Associazione Transessuale Napoli che ha sollevato il caso attraverso un post su FB. Secondo quanto racconta Federica in una intervista rilasciata al sito web GayNews, tutto sarebbe avvenuto lo scorso 16 agosto. «Sembrava che fosse andato tutto bene - racconta - ma quando hanno notato che sulla mia carta di identità elettronica erano riportati i dati anagrafici al maschile, mi hanno bloccata in aeroporto per una notte». «Non mi hanno dato alcuna spiegazione valida», dice ancora la trans, «mi hanno fatto capire in modo molto chiaro che le persone trans non sono gradite. Ai poliziotti non è bastato non farmi entrare in Egitto: mi hanno offesa, presa a calci e sputato addosso». Le forze dell'ordine non le avrebbero neppure consentito di usare il telefono per mettersi in contatto con i suoi parenti: «Per fortuna un ragazzo di Napoli mi ha fatto usare il suo telefono per chiamare mia sorella». Federica annuncia di voler chiedere un risarcimento ma soprattutto di volere rendere noto a cosa vanno incontro i trans che si recano in vacanza in Egitto.

(Ansa 24 agosto 2019)  Due transessuali di Bitonto (Bari) sono stati bloccati e trattenuti dalla polizia aeroportuale egiziana al loro arrivo ieri a Sharm El Sheik, dove si erano recati in vacanza con due loro amici: lo ha detto all'ANSA la sorella di uno di loro, Ivana Sannicandro. Si tratta di Cosimo "Loredana" Corallo, 43 anni, e Michele "Mikela" Sannicandro, di 45 anni. Tecnicamente il fermo provvisorio, in attesa di essere rimpatriati in Italia, sarebbe dovuto al fatto che le autorità egiziane non ritengono validi i loro documenti, ma gli amici parlano di visto negato per il loro orientamento sessuale. "Mia sorella è stata fermata in aeroporto - racconta all'ANSA Ivana Sannicandro -, la motivazione è che pensano che i documenti non corrispondano a lei, a loro. Non sono documenti falsi, ma pensano non siano loro in quanto trans". Al momento la famiglia non ha ancora interpellato un avvocato, né sa quando è previsto il rientro in Italia: "Ma è certo che se non rientrano oggi, vado io", afferma la sorella.

NON È UN PAESE PER GAY. Giordano Stabile per La Stampa il 21 agosto 2019. L’Autorità palestinese ha messo al bando le attività del gruppo per i diritti degli omosessuali e dei transgender Al-Qaws, fondato nel 2001 e che finora aveva operato senza restrizioni in Cisgiordania. La polizia ha proibito alcuni eventi previsti nelle principali città palestinesi. Il portavoce Louai Irzeiqat ha spiegato che tali attività sono «contrarie agli ideali e ai valori della società palestinese». Il governo di Ramallah è laico e finora non aveva ceduto alle pressione dei movimenti islamici conservatori, che considerano l’omosessualità un crimine punito dalla sharia. Per questo i gruppi che difendono i diritti dei Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) hanno finora operato senza grossi problemi. Al-Qaws è uno dei più importanti e promuove la tolleranza e la diversità sessuale all’interno della società palestinese. E’ anche forte l’influenza di Israele, dove c’è molta tolleranza e da anni si svolgono massicci gay pride a Tel Aviv. Il gruppo ha condannato «le persecuzioni, intimidazioni, le minacce di arresto da parte della polizia o singoli individui». In una dichiarazione postata sulle reti sociali Al-Qaws invita la polizia e la società palestinese «a concentrarsi nella lotta contro l’occupazione e altre forme di violenza che stanno facendo a pezzi il tessuto delicato della nostra società e i nostri valori, invece di perseguitare attivisti che lavorano instancabilmente per mettere fine a ogni forma di violenza».

·        Il Vaticano ed i sacerdoti “Padri”.

Vaticano, regole segrete per i sacerdoti padri. La Chiesa conferma l'esistenza di linee guida interne per i preti che devono lasciare il ministero. Da giovedì un summit con 190 rappresentanti in Vaticano sulla pedofilia, scrive il 19 febbraio 2019 L'Espresso. Per i sacerdoti padri il Vaticano ha delle regole segrete interne. "Posso confermare che queste linee guida esistono", ha detto al New York Times il portavoce vaticano Alessandro Gisotti. "Si tratta di un documento interno", ha aggiunto Gisotti, precisando che ai preti padri si chiede di lasciare il sacerdozio "per assumersi la responsabilità di genitore dedicandosi esclusivamente al figlio". Il Nyt è venuto a conoscenza di queste linee guida da Vincent Doyle, figlio di un prete che ha creato un gruppo di sostegno denominato "Coping International". Doyle segnala che la sua organizzazione ha 50.000 utenti di 175 diversi Paesi. Doyle ha detto al Nyt di essere venuto a conoscenza di queste linee guida nell'ottobre del 2017 quando gli sono state mostrate dall'arcivescovo Ivan Jurkovic, l'inviato vaticano all'Onu a Ginevra. "Si viene veramente chiamati figli degli ordinati - ha detto Doyle - sono rimasto scioccato per il fatto che abbiano un'espressione per questo". La conferma arriva alla vigilia del summit Vaticano sulla protezione dei minori nella Chiesa in calendario dal 21 al 24 febbraio.  Una riunione di quattro giorni che prevede relazioni, confronti, video e testimonianze con i presidenti di tutte le conferenze episcopali di ogni parte del mondo. L'iniziativa dell'incontro in Vaticano assolutamente inedita, fortemente voluta da papa Francesco, vedrà sul tavolo il delicatissimo tema della pedofilia, degli abusi sessuali sui minori. Il work-shop sarà inaugurato dallo stesso Bergoglio che terrà una breve introduzione nel primo giorno di confronto. L'incontro, dal titolo "La protezione dei minori nella chiesa", è stato presentato nella sala stampa vaticana, mentre proprio davanti, in via della Conciliazione, alcuni rappresentanti delle associazioni delle vittime degli abusi lanciavano un appello al papa. "Chiediamo si metta in pratica la tolleranza zero - le loro parole -: ogni prete colpevole deve essere dimesso dallo stato clericale e anche i vescovi che hanno coperto devono essere espulsi dalla Chiesa". Da giovedì dunque sorgerà una "nuova alba", come è stato sottolineato più volte questa mattina durante la presentazione. Tutte le relazioni, nove in tutto, saranno inoltre trasmesse in diretta streaming sul sito del Vaticano, nel segno della trasparenza, uno dei punti cardine sul quale è incentrato l'incontro. "I vescovi devono assumersi le proprie responsabilità - ha spiegato in conferenza stampa l'arcivescovo di Chicago, card. Blase Cupich -. Questo è un punto di svolta. Non posso assicurare che da oggi in poi non ci saranno più abusi, ma le persone dovranno rispondere di quello che fanno". "Dobbiamo spezzare questo codice del silenzio", le parole dell'arcivescovo Malta, mons. Charles Scicluna, da anni in prima linea contro la pedofilia nella Chiesa, che, a chi gli chiede se questo incontro possa trasformarsi in un buco nell'acqua replica: "Non smetteremo mai di sperare che sia la volta giusta. Non bisogna mollare sulla protezione dell'innocenza dei nostri figli, dei nostri giovani". Durante la quattro giorni dei lavori, saranno organizzati anche incontri privati con le vittime degli abusi. I video delle loro testimonianze saranno trasmessi anche prima delle relazioni. Alcuni, inoltre, saranno pubblicati online sul sito che seguirà passo passo l'evolversi dell'incontro e dove sono già disponibili numerosi documenti che accompagnano quello che lo stesso papa Francesco ha definito un "atto di forte responsabilità pastorale" per affrontare la piaga della pedofilia, "una sfida urgente del nostro tempo". I problemi per la Chiesa sono complessi, come dimostra anche la vicenda del nunzio a Parigi, mons. Luigi Ventura, che ricevuto una denuncia per molestie sessuali e che oggi ha visto arrivare una seconda accusa dello stesso tenore: la seconda vittima, anche in questo caso un dipendente del comune di Parigi, ha definito quanto fatto da Ventura il "gesto abituale di un predatore". Un'altra vittima ha fatto un appello al Vaticano per revocare l'immunità diplomatica che protegge il nunzio".

·        Le fidanzate dei Papi.

Le fidanzate segrete dei papi? Rosse, immacolate e tentatrici. Pacelli si dichiarava con poesie, Wojtyla un rubacuori, scrive Massimo M. Veronese, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale".  La data è «Santa Marinella 1889», il sonetto, che in realtà era una lettera d'amore camuffata l'aveva intitolato un po' come Leopardi per Silvia ma più generico «Ad una giovinetta.

Pio XII allora si chiamava solo Eugenio Maria Giuseppe Pacelli, aveva 13 anni, ed era un ragazzino lungo e pallido, terzogenito dell'avvocato della Sacra Rota Filippo. Lei, Lucia, era di Onano, un paesino del Lazio, era amica della sorella Elisa, e gli pareva «verginella, grata, dolce, pietosa, docile, pura». Comprensibile dunque vista la prosa, che lei gli abbia detto no. Lucia è stata l'unico amore di Papa Pacelli, lo stordimento dell'adolescenza, il calore della vacanza al mare: le scriveva, nella passione mistica, «giovinetta ama Dio che t'ha creata/sopra ogni cosa e con ardente amore/t'hanno amata...» Messa così un po' scoraggia.

Si sa che in tempi più crudeli ma meno severi di questo, i pontefici hanno avuto famiglia, prole e padri sacerdoti, senza arrivare a scomodare Alessandro VI, Papa Borgia, l'unico ad avere, oltre a una processione di figli più o meno illegittimi, anche moglie e amante. Ma fanno tenerezza i duri e puri del Novecento che al contrario di Giovanni XII, che trasformò il palazzo del Laterano in bordello, o di Pio II, il papa playboy, al massimo si sono votati, più nei pensieri che nelle opere, a San Valentino.

Benedetto XVI per esempio, quand'era un giovane capellone di bella presenza, trovò tra le tante fanciulle che volevano strapparlo alla castità, un amore che aveva, scrivono «reso difficile la scelta del celibato», causandogli notevole tormento interiore. Fortuna che non fece come un altro Benedetto, il IX, raccontato come «un diavolo venuto dall'Inferno travestito da prete» che vendette il titolo di Papa per sposarsi una fanciulla che lo ricompensò con un meritato due di picche.

Il sogno di Bergoglio ragazzino era sposarsi e comprare una piccola casetta bianca dove vivere con il suo grande amore che faceva parte, racconta lui stesso «del gruppo di amici con i quali andavamo a ballare. La ragazza si chiamava Amalia: «Eravamo poco più che bambini e lui mi consegnò una letterina d'amore - raccontò - se non mi sposo con te, disse, mi faccio prete...». E così sia.

A Karol Wojtyla invece i biografi, attribuirono come fidanzata una bella ebrea dai capelli neri, di nome Ginka Beer, figlia dei vicini di casa di Wadowice e più anziana di due anni. Lei non negò. Così come Irka Dabrowska, figlia diciottenne di uno dei direttori della cava Zakrzówek di Solvay dove lavorava. Alta, snella e con i capelli rossi si fece chiudere da un amico dentro un armadio per sapere di nascosto cosa Karol pensasse di lei. «Ti piace Irka?» gli chiese infido l'amico. «Si, incantevole, però dovrebbe tagliarsi le gambe perchè è troppo alta e mettere su carne perchè è troppo magra». Lei, giustamente, lo mandò al diavolo.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2019. Commissariamento del coro della Sistina e «avviso» a monsignor Georg Gänswein, prefetto della casa Pontificia che fino a ieri era ne era il responsabile. È questo il messaggio inviato da papa Francesco con la sua lettera «Motu Proprio» che «inserisce nell' Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, la Cappella Musicale» e ne affida la responsabilità a monsignor Guido Marini. Una decisione comunicata ieri mattina, mentre arriva a una nuova svolta l'inchiesta avviata dalla Santa Sede proprio sull' attività del maestro del coro Massimo Palombella. L' indagine si muove su due filoni: i maltrattamenti dei «pueri cantores» e la sparizione dei soldi dirottati su due conti segreti. E ha avuto eco mondiale con la pubblicazione delle foto dei cantori travestiti da donne e circondati dalle star di Hollywood alla festa del Metropolitan Museum di New York, celebrata nel maggio scorso. Ora sembra arrivata la resa dei conti e nelle prossime settimane il primo a pagare potrebbe essere lo stesso monsignor Georg con la destinazione ad un altro incarico. Negli ultimi giorni l'ufficio del promotore di giustizia ha convocato come testimoni alcuni cantori, ma anche dipendenti che si sono occupati della gestione amministrativa del coro. L' inchiesta riguarda le denunce contro Palombella per aver gridato e insultato i «pueri», che cantano durante le celebrazioni del Papa in San Pietro. Ma anche le migliaia di euro depositate sui conti aperti nel 2013 presso banca Finnat. Qualche mese fa era stato proprio padre Georg a ricevere una relazione coperta dal segreto che denunciava una gestione incontrollata dei fondi. Copia del testo era stata inviata anche al segretario di Stato Pietro Parolin dal nunzio apostolico Mario Giordana che aveva svolto gli accertamenti interni. Le verifiche compiute sinora hanno dimostrato che una parte dei fondi è stata trasferita fuori dalle Mura da Palombella e dal direttore amministrativo Michelangelo Nardella senza che ci fosse l'autorizzazione. E per questo entrambi sono stati indagati per riciclaggio, peculato e truffa aggravata. Nardella è stato sospeso, mentre Palombella risulta ancora il maestro del coro. Nei giorni scorsi avrebbe avuto diversi incontri con il pontefice e la sua sostituzione appariva imminente, ma poi lui stesso avrebbe raccontato di aver ricevuto rassicurazioni dal papa sulla riconferma. A monsignor Marini il Papa ha affidato «il compito di guidare tutte le attività e gli ambiti liturgico, pastorale, spirituale, artistico ed educativo della Cappella». Ed evidentemente per marcare la distanza da quanto accaduto sinora ha scelto monsignor Guido Pozzo come responsabile «della specifica cura dell'amministrazione economica della Cappella». Una scelta che taglia fuori monsignor Gänswein ma tiene Palombella, nonostante l'inchiesta e le polemiche che ne sono seguite. E proprio per questo protesta l'avvocato Laura Sgrò che difende Nardella: «Da sei mesi il mio assistito risulta indagato in un procedimento di cui non abbiamo informazione alcuna, in quanto il diritto vaticano in questa fase non consente l'accesso agli atti. Le uniche cose certe che sappiamo è che Nardella è sospeso cautelativamente dal maggio scorso, cioè da ben otto mesi, dal suo incarico e dall' accesso al suo ufficio per un procedimento disciplinare che nulla ha a che vedere con i fatti che gli sono stati contestati dal Tribunale Vaticano.

·        Preti sposati.

Filippo di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 24 novembre 2019. Ordinare preti uomini sposati? Nella Chiesa cattolica latina è una prassi decennale. Sono passati già due lustri (il 4 novembre scorso) dall' entrata in vigore della Costituzione Apostolica di Benedetto XVI Anglicanorum coetibus con la quale papa Ratzinger introduceva accanto ai due tradizionali "riti latini", il romano e l' ambrosiano, quello che riunisce i fedeli di tradizione anglicana. Per adesso ancora suddivisi in tre "ordinariati personali", uno per Inghilterra, Galles e Scozia, l' altro per Stati Uniti e Canada, l' ultimo per Australia e Giappone. In sostanza intere parrocchie, per mantenere le tradizioni spirituali e liturgiche della Chiesa anglicana, si sono poste, dice il documento, "corporativamente" in comunione con il Papa e la Chiesa cattolica. Insieme a circa diecimila fedeli, sono diventati cattolici duecento tra vescovi e pastori che, una volta riordinati sacerdoti cattolici, hanno continuato il ministero nelle 150 parrocchie delle tre circoscrizioni anglocattoliche. Tutti sacerdoti sposati che hanno proseguito nella loro vita matrimoniale e familiare. Il problema più serio è stato di ordine pratico: lasciando la Comunione anglicana, avevano perso luoghi di culto e residenze pastorali, ma è stato felicemente risolto "assorbendoli" nelle parrocchie e nelle opere del luogo dove risiedevano. Quanto al resto, l'inclusione nel corpaccione del cattolicesimo contemporaneo è avvenuta senza problemi. Anzi, il loro ministero sacerdotale è talmente apprezzato da spingere i vescovi locali a farli diventare parroci anche di parrocchie di rito romano, fin qui abituate ad avere solo pastori celibi. E il loro inserimento non solo è stato pacifico, ma gradito da fedeli persino felici nel vederli vivere sereni in famiglie spiritualmente motivate e zelanti.

Il documento sul Sinodo che cambia per sempre la Chiesa. Preti sposati, leadership femminile e battaglie ecologiste: questi, tra i temi presenti nel documento di preparazione al Sinodo, sono quelli destinati a essere messi in discussione dai tradizionalisti. Francesco Boezi, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Le aspettative sono state rispettate: l'Instrumentum Laboris sul Sinodo per l'Amazzonia può rivoluzionare la Chiesa cattolica. "Niente sarà più come prima," aveva detto il vescovo progressista Overbeck. Dando un primo sguardo agli argomenti che i vescovi riuniti dovranno studiare, comprendiamo meglio cosa volesse dire il presule sull'appuntamento sinodale. Ottobre non è vicino. In quattro mesi il dibattito dottrinale può modificare l'ordine del giorno. La rotta, però, è stata tracciata con una penna indelebile. Il testo pone l'accento sulla causa ecologista: nella foresta si è arrivati a un "punto di non ritorno". Vengono citati la "deforestazione" e l'"inquinamento", ma pure i "cambiamenti climatici" e gli "interventi umani". L'ambientalismo diviene così, a tutti gli effetti, una priorità dottrinale della Chiesa che verrà, quella che qualcuno vorrebbe "indigena". In uno dei passaggi riportati dall'Agi, si legge della necessità di recepire l'urlo della "Madre Terrà attaccata e gravemente ferita dal modello economico di sviluppo predatorio ed ecocida, che uccide e saccheggia, distrugge e sgombra, allontana e scarta, pensato e imposto dall'esterno e al servizio di potenti interessi esterni". C'è una soggettivizzazione della natura che può far storcere il naso ai teologi meno elastici. L'oggetto del Sinodo è l'Amazzonia, ma può valere per tante altre zone del mondo. Diviene abbastanza facile prevedere le rimostranze sollevate dal "fronte tradizionalista". Sull'ecologismo integrale non tutti la pensano allo stesso modo: c'è pure chi ritiene che sia una "nuova religione globale". La stessa da cui le istituzioni cattoliche dovrebbero stare alla larga. Il cardinale Piacenza, che certo non è un "anti-bergogliano", ha integrato la dialettica odierna qualche mese fa, ponendo il tema della "ecologia dell'anima". Ecco, alcuni ecclesiastici continuano a pensare che le questioni spirituali presentino più urgenza di altre. Poi c'è la necessità di coprire con dei sacerdoti un territorio vasto e oggi privo di riferimenti pastorali numericamente adeguati. Il documento dispone per i vescovi la facoltà di mettersi a studiare l'ipotesi secondo cui, a essere ordinati, sarebbero indigeni di chiara fede, nonostante la presenza di un matrimonio già contratto e ancora in corso. Siamo a tutti gli effetti dalle parti dei "preti sposati". Non verrà introdotto - su questo punto papa Francesco ha già detto la sua - il cosiddetto "diaconato femminile", ma viene rivendicata una leadership femminile. Si ragionerà, inoltre, su una sorta di ministero. Il trait d'union di queste due novità è quella laicizzazione della gestione ecclesiale che tanto spaventa i cattolici conservatori. Dopo il Sinodo sull'Amazzonia, insomma, la Chiesa cattolica avrà adottato misure nuove. Nei prossimi mesi, com'è spesso accaduto nel corso di questo pontificato, avremo modo di verificare la sussistenza di osservazioni critiche. La contrarietà di certi ambienti ecclesiastici a questi, che rimangono cambiamenti circoscritti all'Amazzonia ed eventuali sino all'approvazione, non è un mistero.

Il Sinodo propone di ordinare preti gli uomini sposati. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. Il documento dei vescovi dell’Amazzonia apre anche al riconoscimento di «ministeri femminili»Il pastore di Bereguardo-Zelata: «Ordinato da vedovo» Lorenzetto Schönborn: «Conversione ecologica per salvare il mondo». Uomini sposati da ordinare preti per compensare la mancanza di clero. In Amazzonia lo chiedevano da anni, se ne parlava ormai da mesi, ma è la prima volta che la «proposta» compare nero su bianco in un testo ufficiale della Chiesa, il documento conclusivo del Sinodo Panamazzonico votato ieri: «Proponiamo di stabilire criteri e disposizioni, da parte dell’autorità competente, per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, che abbiamo un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo avere una famiglia costituita e stabile, per sostenere la vita della comunità attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica». Alla fine deciderà il Papa, nei prossimi mesi scriverà un’«esortazione post-sinodale» per fare il punto delle tre settimane di assemblea, «una parola del Papa su quello che ha vissuto nel Sinodo la vorrei dare entro la fine dell’anno, dipende dal tempo che ho per pensarci». Già il cardinale Christoph Schönborn, molto vicino a Francesco, invitava alla «prudenza» e spiegava al Corriere: «Prima si deve cominciare con i diaconi permanenti, poi si vedrà». Resta il fatto che Francesco ama «avviare processi» e il processo è avviato. Tra l’altro il testo non parla neppure di uomini «anziani» sposati, come di solito si usa - di recente lo ha fatto anche il Papa - quando ci si riferisce ai cosiddetti «viri probati». Questione delicata, e infatti la maggioranza del paragrafo in questione (i padri sinodali hanno votato il documento punto per punto: tutti approvati a maggioranza assoluta) è quella che ha avuto più voti contrari, 41 contro 118 a favore. Alcuni, aggiunge il testo, «si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento», e cioè studiarlo a parte per tutte le regioni remote del pianeta. La maggioranza era scontata anche perché la richiesta arrivava dai padri amazzonici, in maggioranza (113) nell’assemblea. Al contrario di quanto credono molti, peraltro, nella Chiesa cattolica esistono già dei preti sposati. La disciplina monastica del celibato vale solo nella Chiesa latina, ma nelle Chiesa cattoliche orientali non c’è obbligo. Lo stesso Papa ricordava che nel rito orientale «si fa l’opzione celibataria o di sposo prima del diaconato». Un’altra eccezione è dovuta a Benedetto XVI, attraverso la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus pubblicata il 4 novembre 2009: si permetteva a gruppi di anglicani che lo avevano chiesto, compresi sacerdoti sposati, di rientrare nella Chiesa Cattolica. È facile immaginare che il fronte conservatore - il Papa ha parlato ironico di «élite cattoliche» - continuerà a fare resistenza, come del resto per altre due questioni affrontate dal testo. Anzitutto, il riconoscimento di «ministeri femminili» alle donne. Escluso dal magistero dei Papi il sacerdozio, mai in discussione, Francesco ha spiegato che l’ex San’Uffizio «approfondirà» il tema del diaconato femminile «che già esisteva nella Chiesa primitiva» e che «riconvocherà» la commissione di studio: nominata due anni fa per valutare la prassi nelle prime comunità cristiane, si era bloccata nelle interpretazioni differenti. Anche il punto del documento finale che si limita a nominare la questione è stato tra i più controversi (137 favorevoli, 30 contrari). Per il momento il testo chiede (160 favorevoli, 11 contrari) la «revisione» di una Lettera apostolica di Paolo VI, Ministeria quoedam (1972), che introduceva per i laici i ministeri del «lettorato» e dell’«accolitato», in modo che si possa applicare anche alle donne. Altra questione delicata (119 favorevoli, 29 contrari), quella del «rito amazzonico» pensato per i popoli nativi: l’idea di creare una commissione per «studiare e dialogare, secondo gli usi e i costumi dei popoli ancestrali, l’elaborazione di un rito amazzonico che esprima il patrimonio liturgico, teologico, disciplinare e spirituale dell’Amazzonia». Il cuore del testo, come si attendeva, riguarda del resto la necessità di una «conversione integrale» per ascoltare «il grido della terra» e «il gruppo dei poveri» di fronte alla distruzione di popoli e natura che minaccia il putrido del pianeta. Francesco, prendendo la parola al termine dei lavori, ha citato «il movimento dei giovani, Greta e gli altri» e aggiunto: «I ragazzi sono usciti portando un cartello “il futuro è nostro”. Hanno consapevolezza del pericolo ecologico, che esiste non solo in Amazzonia». Il Papa non ha mancato di lanciare una frecciata alle «élite cattoliche» che andranno a cercare «le cosette e si dimenticheranno del grande». E ha concluso: «Mi sono ricordato di una frase in cui si dice che c’è gente che, siccome non ama nessuno, crede di amare Dio, e così perdono il contatto con le sfide che affronta l’uomo di oggi e si illudono di stare con Dio».

Preti sposati, i vescovi al Papa: "Sì al sacerdozio per i diaconi con famiglia". Il Sinodo chiede al pontefice l'ordinazione di "uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile". Su diaconato donne si attende esito della commissione di studio. Paolo Rodari il 26 ottobre 2019 su La Repubblica. È stato il punto del documento finale del Sinodo dei vescovi sull'Amazzonia, il numero 111, con più voti contrari: 41 "non placet" contro 128 "placet". Ma è passato. In esso i vescovi riuniti in Vaticano chiedono al Papa esplicitamente la possibilità di valutare per le zone del pianeta dove c'è scarsità di preti l'ordinazione sacerdotale di uomini, possibilmente presi fra i diaconi permanenti, "che già hanno una famiglia legittimamente costituita e stabile". Se la proposta verrà giudicata positivamente da Francesco - l'uscita di un suo testo è prevista entro un anno - in futuro potranno esserci anche nella Chiesa cattolica i sacerdoti sposati, così come già avviene per alcune comunità di rito latino e per i sacerdoti anglicani convertiti al cattolicesimo. Mai un Sinodo dei vescovi si era spinto così in avanti. Ed anche se il punto 111 del documento finale è soltanto una proposta, resta significativa l'esplicita richiesta da parte dei presuli. Nelle settimane che hanno preceduto il Sinodo si è parlato a lungo di vagliare l'ordinazione sacerdotale dei cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età. L'ipotesi rimane in piedi anche se la richiesta dei membri del Sinodo è comunque più generale, riguarda appunto l'ordinazione di diaconi (tutti coloro che vogliono farsi preti devono per forza di cose passare prima dal diaconato) scelti fra candidati sposati. Spiega infatti il cardinale Michael Czerny, sottosegretario della sezione migranti e rifugiati del dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale: "Che i vescovi parlino dell'ordinazione di uomini sposati scelti fra i diaconi è normale perché chiunque desidera accedere al sacerdozio deve essere diacono anche solo per pochi mesi". Francesco, chiudendo il Sinodo, chiede alle "elite cattoliche" di non andare a cercare le "piccole cose, questioni singole, perdendo di vista la dimensione globale del documento, in particolare le diagnosi". E, in effetti, circoscrivere l'ampio documento soltanto al tema del celibato sacerdotale è limitante. Dice non a caso Marcello Semeraro, vescovo di Albano e segretario del Consiglio dei cardinali che aiutano il Papa nella riforma della Chiesa: "Il testo conclusivo non va letto soltanto in rapporto all'abolizione del celibato". Piuttosto "occorre ascoltare le istanze di comunità che chiedono una presenza stabile per la presenza dell'eucaristia in modo stabile. Il loro obiettivo non è di per sé l'abolizione del celibato, ma una soluzione per la scarsità di preti nel mondo". Le aperture dei vescovi riguardano anche altri argomenti. Fra questi la presenza delle donne nella Chiesa. Qui è il Papa, chiudendo i lavori, a sorprendere, dicendo che la Congregazione per la Dottrina della Fede approfondirà e studierà la questione del "diaconato femminile": è necessaria "creatività" nell'ambito di "nuovi ministeri", spiega. Anche sulle donne e sul ruolo nella Chiesa c'è battaglia tra frange tradizionaliste e più progressisti. Eppure la crisi di vocazioni investe in qualche modo anche la necessità di rivalutare il ruolo delle donne spesso relegate a comparse in una visione maschilista ed elitaria. Diversa vuole Francesco che sia la Chiesa, come diversa la vogliono, stando almeno ai numeri dei "placet" dati alle 120 proposizioni votate ieri sera, i vescovi riuniti in assemblea sinodale. Il Papa, fra l'altro, lascia aperta la possibilità che si torni a indagare se nella storia della Chiesa vi erano donne diacono con l'apporto di nuovi membri. I vescovi parlano a lungo anche del problema principe dell'Amazzonia, ovvero l'inquinamento e lo sfruttamento ambientale. Per questo, come anticipato nelle scorse settimane, chiedono "di definire il peccato ecologico come un'azione o un'omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l'ambiente". Si tratta di peccati, dicono, che portano alla "distruzione dell'armonia dell'ambiente". Più volte i Pontefici, prima di Francesco anche Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, hanno condannato il peccato di chi non rispetta il creato. L'attenzione di Francesco è in scia ai magisteri di chi l'ha preceduto e così le proposte dei vescovi riuniti in Sinodo. Il peccato ecologico, scrivono i vescovi, è un peccato "contro le generazioni future". I vescovi hanno percepito in questi giorni le chiusure rispetto al loro lavoro da parte di una fetta della Chiesa. E per questo dicono che "dobbiamo stare attenti a coloro che non vogliono cambiare nulla, che vogliono che le cose finiscano qui, e anche fare attenzione ai profeti di sventura". E aggiungono: "Il documento finale di questo Sinodo sarà uno strumento importante, ma non è il documento che determinerà i nuovi percorsi".

Papa Francesco, è terremoto in Vaticano: il Sinodo apre ai preti sposati, sfida alla tradizione. Libero Quotidiano il 26 Ottobre 2019. Il lavoro del Sinodo sull’Amazzonia è terminato. E il documento finale è un vero e proprio terremoto per il Vaticano, già da tempo spaccato sulla figura di Papa Francesco per le sue eccessive aperture. Già, perché vi è nero su bianco l’apertura ai preti sposati (ma passando dal diaconato permanente). Apertura, seppure meno esplicita, alla possibilità di un diaconato femminile. In molti lo sollecitano, si legge, ma si attendono gli esiti della commissione di studio in Vaticano. Questi, sin dall’inizio, sono stati i due nodi principali di un’Assemblea convocata per sottolineare l’urgenza del rischio di una catastrofe climatica nel polmone del mondo. L’attenzione però, sin dall’Instrumentum Laboris, il documento di preparazione, si è spostata subito sulla questione pastorale. In zone remote del mondo, come l’Amazzonia, l’evangelizzazione è diventata un’urgenza. I sacerdoti sono pochissimi, le religiose sono molte e portano avanti intere comunità. La proposta dei vescovi locali era quella di ordinare ’viri probati', uomini di comprovata fede con funzioni sacerdotali. Il termine scompare dal documento, che fa riferimento al paragrafo 111 all’ordinazione sacerdotale di "uomini idonei e riconosciuti dalla comunità", che siano però diaconi permanenti e quindi ricevano una "formazione adeguata per il presbiterato", potendo avere una famiglia "legittimamente costituita e stabile", per sostenere la vita della comunità cristiana predicando la Parola e celebrando i Sacramenti nelle aree più remote della regione amazzonica. Poi, però, si aggiunge una frase inaspettata: "A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento". Non dunque soltanto per la regione amazzonica, ma possibilmente, in futuro, anche per altre zone del mondo. Di fatto, si apre al sacerdozio per diaconi sposati. Molto più prudente, come accennato, la posizione sulle donne diacono. Al paragrafo 103 si ammette che nelle tante consultazioni effettuate in Amazzonia, si è riconosciuto il "ruolo fondamentale" delle religiose, ma anche dei laici nella Chiesa dell’Amazzonia e loro comunità, dati i molteplici servizi che forniscono. In molte consultazioni, è stato "sollecitato" il diaconato permanente per le donne. Ma il Sinodo non vuole scavalcare la commissione creata da Papa Francesco nel 2016 che aveva proprio il compito di studiare questa possibilità. L’organismo ha raggiunto un risultato parziale, descrivendo la realtà del diaconato femminile nei primi secoli della Chiesa e prospettando implicazioni attuali: "Vorremmo condividere le nostre esperienze e riflessioni con la Commissione e restiamo in attesa dei risultati". I vescovi, con non poche difficoltà, hanno raggiunto un compromesso e consegnato al Papa la posizione condivisa dai due terzi dell’assemblea. La posizione definitiva della Chiesa la stabilirà Francesco in una Esortazione apostolica che dovrebbe esserci, ma non prima della fine del 2019. 

DIO DELLE AMAZZONI. Manuela Tulli per l'ANSA il 27 ottobre 2019. Si apre uno spiraglio per l'ordinazione sacerdotale di persone sposate. Non sono i "viri probati", ovvero persone riconosciute dalla comunità ma prive di una formazione specifica, ma coloro che sono già diaconi permanenti. Persone, anche sposate e con famiglia, ma che hanno fatto già un percorso preciso all'interno della Chiesa fino ad arrivare all'ultimo gradino prima appunto del sacerdozio. Nessun passo in avanti per le donne: la questione del diaconato viene rimandata alla riapertura della Commissione che aveva istituito nel 2016 il Papa e che era arrivata a "risultati parziali". Arrivano invece i peccati "ecologici" e l'idea di studiare un rito ad hoc per l'Amazzonia. Sono alcuni degli elementi che emergono nel documento finale del Sinodo dei vescovi per l'Amazzonia. Un documento che è stato consegnato al Papa al quale spetta l'ultima parola. E Bergoglio ha espresso l'auspicio che "entro l'anno" possa pubblicare la sua Esortazione apostolica in materia, o comunque un documento. Il Papa nel suo discorso conclusivo ha parlato delle "elite cattoliche" che nel documento finale del Sinodo sull'Amazzonia "andranno a cercare le cosette e si dimenticheranno del grande. Mi sono ricordato di una frase" in cui si dice che ci sono persone che "siccome non amano nessuno, credono di amare Dio", "perdono il contatto con le sfide che affronta l'uomo di oggi e si illudono di stare con Dio". Il Papa ha ribadito che la Chiesa deve "essere sempre riformata", salvando però "la tradizione che è la salvaguardia del futuro, non la custodia delle ceneri". Su possibili nuovi riti, che tengano conto della cultura locale, il Papa ha invitato a "non avere paura". Il Sinodo dei vescovi sull'Amazzonia chiede dunque la possibilità per l'area amazzonica - anche se "alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all'argomento" - di "ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile". Per questo occorre stabilire "criteri e disposizioni da parte dell'autorità competente". Il paragrafo è stato approvato superando i due terzi dei voti richiesti ma ha registrato il maggior numero di 'no': 41 (128 i sì). Tutti i paragrafi comunque hanno ricevuto i due terzi utili per il "placet". I vescovi amazzonici forse non hanno gradito la 'frenata' rispetto alle loro richieste iniziali, i viri probati e le donne diaconesse, tanto che, un po' irritualmente, hanno pubblicato anche un loro messaggio nel quale hanno sottolineato: "Dobbiamo stare attenti a coloro che non vogliono cambiare nulla, che vogliono che le cose finiscano qui, e anche fare attenzione ai profeti di sventura". E aggiungono: "Il documento finale di questo Sinodo sarà uno strumento molto importante, ma non è il documento che determinerà i nuovi percorsi". Arriva infine dal Sinodo la proposta di individuare "il peccato ecologico come un'azione o un'omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l'ambiente". Lo afferma il documento finale individuando questi peccati "in atti e abitudini di inquinamento e distruzione dell'armonia dell'ambiente". Ora si attende la parola del Papa.

Alberto Melloni per ''la Repubblica'' il 26 ottobre 2019. I" preti sposati". È fatale che la necessità della sintesi definirà così la proposta del Sinodo Amazzonico che ieri è stata votata in aula, e la presenterà come una svolta epocale. In realtà qualcosa di epocale c' è, ma riguarda qualcosa di più importante del prete: cioè l'eucarestia e il modo di comprendersi della Chiesa. Al di là delle leggende sul celibato la Chiesa cattolico-romana ha da sempre un clero uxorato. Lo aveva nel primo millennio e lo ha avuto nel secondo grazie alle chiese orientali in comunione con Roma. Ma un clero uxorato lo ha avuto anche la Chiesa latina: dai tempi di Pio XII, che dava dispensa dal celibato ai pastori protestanti che diventavano cattolici, fino a quello di Benedetto XVI che ha permesso di ordinare preti gli anglicani sposati che diventavano cattolici. Da Pacelli a Ratzinger è dunque sempre stato pacifico che l' ordinazione dei celibi era stata ristretta da ragioni venerabili, ma derogabili: che nulla hanno a che fare col diritto divino, invocato dalla furia asinina di qualche prelato anti-bergogliano. Tant' è che la questione sembrava risolta quando il concilio restaurò il diaconato "uxorato". Tutti allora capirono che quel che si diceva per un grado del sacramento dell' ordine - e cioè che la vocazione e la grazia di servire il vangelo discende dal battesimo e non dal celibato - sarebbe presto valso anche per il prete. Sul "presto" Paolo VI frenò: alimentando la malizia di chi imputava al Vaticano II il calo quanti-qualitativo dei preti e la malizia di chi lodava il celibato fingendo di non sapere che migliaia di donne e uomini non celibi garantivano il culto divino là dove nessuno andava. Ciò che Francesco ha fatto col Sinodo Amazzonico è stato mettere fuori gioco le malizie. E chiedere ad una Chiesa povera di preti di affermare il diritto ad aver fame e sete della eucarestia, che per definizione non può essere riservata a chi ha preti celibi o li può importare. Questo diritto alla eucarestia implica molto altro: ad esempio pensare il ministero pastorale delle battezzate senza smancerie romantiche sul "genio femminile" o camuffamenti linguistici sulle "leader di comunità" o ripensare tutta la formazione dei ministri. Ma passa anche dalla richiesta, ormai matura e accettabile, di ordinare preti uomini sposati. Il modo in cui Francesco recepirà tale richiesta dirà come la Chiesa si comprende. Un atto pontificio di deroga territoriale potrebbe nascondere l' ultimo sussulto di un "clericalismo uxorato". Una assunzione del diritto delle conferenze episcopali, eredi dei concili provinciali, ad assumere le responsabilità dottrinali di cui il papa aveva parlato nella Evangelii Gaudium sarebbe un segno per la chiesa universale che ristabilirebbe come fondamento della comunione cattolica la celebrazione eucaristica e non una filosofia dell' universale. Una semplice controfirma alla decisione sinodale una svolta ecclesiologica. E dato che quando la Chiesa pensa il suo fondamento fa più politica di quando crede di far politica, la scelta fra queste modalità avrà un grande peso politico.

Domenico Agasso Jr per ''la Stampa'' il 26 ottobre 2019. L' apertura dei vescovi ai preti sposati e la richiesta di un ministero femminile ad hoc, quello di «dirigente di comunità», sono «passi avanti» enormi. Però dopo questo Sinodo la Chiesa non deve fermarsi, ma proseguire sulla via che porta all' annullamento delle discriminazioni - «ancora troppo presenti» - nei confronti delle donne. Parola di Marinella Perroni, biblista, fondatrice del Coordinamento Teologhe italiane.

I vescovi aprono ai preti sposati: che cosa ne pensa?

«I tempi della Chiesa sono sempre molto lenti. Già al Concilio Vaticano II questa istanza era stata presentata, e ciò significa che sta nel vissuto reale della Chiesa da tempo. Paolo VI l' ha bloccata, non era pronto lui, ma non era pronta, forse, neppure la Chiesa. Ora, una simile petizione passa a maggioranza in un Sinodo locale, ma a cui è stato riconosciuto un peso non indifferente. Passi in avanti sono stati fatti».

Quali?

«Possiamo dirlo con un po' di ironia: se ci sono voluti più di 1100 anni perché, come recita il Concilio Lateranense II (1139), l' ordinazione sacerdotale diventasse definitivamente un impedimento al matrimonio, possiamo anche accettare che ci possa volere più di un secolo perché il matrimonio non sia più un impedimento all' ordinazione!».

Senza celibato potrebbero calare abusi e deviazioni dei preti?

«Certo, le deviazioni, ma non solo quelle sessuali, anche quelle legate al cibo o al denaro, sono sempre espressione di uno stato di disidentificazione e di frustrazione. Io, comunque, non ho mai accettato l'equazione secondo cui le deviazioni sessuali dipenderebbero dallo stato celibatario. Ne sono testimonianza gli abusi familiari o il turismo sessuale che vede in prima fila uomini sposati. Eventualmente, riterrei più opportuno ragionare sul rapporto tra maschilità e abusi. Senza per questo voler fare delle donne una riserva umana di innocenza, ma rapportando la questione degli abusi e delle deviazioni anche a quella delle diverse forme di potere».

Papa Francesco ha annunciato che riconvocherà la «Commissione sul diaconato delle donne»: che ne dice?

«Mi sembra che il Papa abbia anche detto che ne faranno parte pure altri/e studiosi/e. Se i vescovi l' hanno richiesto, vuole certamente dire che l' esigenza che le donne nella Chiesa cattolica assumano ministeri gerarchici nasce dal basso. Mi ha colpito che nel Documento finale torni più volte, nel paragrafo dedicato al servizio ecclesiale delle donne, il termine "liderazgo" (leader, ndr). A mio avviso si dovrebbe andare nella direzione che non si tratta di istituire un diaconato femminile, perché il diaconato nella Chiesa è uno solo, e la questione autentica è se può, o addirittura deve, essere esercitato anche da donne».

Che cosa pensa dell' ordinazione femminile?

«Le cose sono complesse a seconda di quale ordinazione si tratta. Nel Documento finale si postula che venga rivisto il Motu proprio di Paolo VI Ministeria quaedam del 1972 che, praticamene, escludeva le donne da qualsiasi ordinazione e possano invece essere ordinate al Lettorato e all' Accolitato, cioè a due ministeri considerati minori, ma comunque ricevuti per ordinazione. La richiesta è stata fatta anche in altri Sinodi e rifiutata. Ora passa a maggioranza. Si conferma così che il passaggio dolente sta proprio nella parola "ordinazione" perché, di fatto, le donne sono lettori e accoliti, e anche molto di più, decisamente da molto tempo».

Qual è la novità?

«Verrà "istituito" un nuovo ministero ad hoc per le donne, quello di "donna dirigente di comunità" e questo significa riconoscere una realtà di fatto ma, ancora una volta, alla luce, se non di una discriminazione, di una tendenza all' apartheid: non dovrebbero essere dirigenti di comunità uomini e donne?».

Queste aperture rappresentano bene i cambiamenti che stanno avvenendo dentro e attorno alla Chiesa?

«Dentro, forse. Fuori, un po' meno: la storia del mondo oggi corre certamente molto più veloce della storia della Chiesa».

Quali sono i suoi pensieri quando legge le chiusure della galassia tradizionalista su questi temi?

«Tutti hanno diritto di parlare. Ma parlare non significa avere per forza ragione».

Ora quali passaggi dovrà compiere la Chiesa?

«Il Papa ha chiuso il suo discorso finale auspicando per la Chiesa un cammino di sinodalità. Forse, quando i Sinodi torneranno a essere come nel passato, Sinodi di chiese e non di vescovi, saranno anche le donne a poter decidere». D.A.JR

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 28 ottobre 2019. Dopo l'Amazzonia rischiano di arrivare al Papa altre richieste per ordinare preti sposati in zone geografiche anch'esse funestate dalla cronica carenza di vocazioni. Forse dalla Germania, dagli Stati Uniti, dall'Europa del Nord o dall'Australia. Ora che su un documento sinodale è stata inserita per la prima volta - nero su bianco - la proposta indicativa di consacrare anche uomini sposati, in assenza di giovani seminaristi, si è inevitabilmente riaperto l'annoso dibattito sul celibato ecclesiastico e si fanno scommesse. Quando Papa Francesco ha annunciato l'intenzione di dedicare un sinodo specifico all'Amazzonia, una vastissima regione con problemi enormi, forse non immaginava che anche altrove si sarebbero accarezzate aspettative e speranze di riforma simili. Alimentando la speranza di sgretolare in prospettiva il muro del celibato sacerdotale. Una parte della Chiesa in Germania, per esempio, da tempo spinge in questa direzione. Lo hanno fatto sapere chiaramente i vescovi tedeschi alcuni mesi fa quando hanno chiesto a Roma il permesso di iniziare un periodo di riflessione comune e sviluppare nell'arco di due anni alcune riforme capaci di riportare la Chiesa vicino alla società tedesca. Una di queste proposte di revisione riguarda proprio la prospettiva dei preti sposati. Analoghe sollecitazioni arrivano ciclicamente dagli Stati Uniti e anche dall'Australia. Di conseguenza il Sinodo sull'Amazzonia convocato dal pontefice il mese scorso per risolvere una serie di problemi pastorali e andare concretamente incontro alle richieste delle comunità indigene che vivono nella foresta e che per la mancanza di preti sono costrette ad attendere anche sei mesi di tempo prima di poter ricevere la visita di un missionario per la messa della domenica, ha finito per caricarsi di aspettative maggiori di quelle che altrimenti non avrebbe mai avuto. I vescovi brasiliani, colombiani, peruviani e boliviani hanno insistito tanto presso il Papa facendo presente che per l'Amazzonia serve una soluzione pratica. Inizialmente l'ipotesi era di consacrare i viri probati, uomini di comprovata fede, già sposati, ai quali affidare il ministero per somministrare i sacramenti, celebrare matrimoni, funerali, confessare, dire messa. Tra gli articoli votati al Sinodo si indica la possibilità «di stabilire criteri e disposizioni da parte dell'autorità competente per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile». L'ultima parola adesso spetterà al Papa visto che il documento ha un valore solo consultivo e non deliberativo.

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 28 ottobre 2019. La Chiesa non può essere solo «in visita», con un prete che passa a distanza di mesi. Deve avere una «presenza fissa». Essere «vicina alla gente». Da questa esigenza delle «zone remote dell' Amazzonia» è nata la richiesta dei vescovi di ordinare sacerdoti i diaconi con famiglia. Però l' apertura ai preti sposati è «solo uno dei risultati del Sinodo». Non vanno trascurati i «passi avanti» sul «ruolo delle donne». E sarebbe uno sbaglio irrecuperabile tralasciare il principale obiettivo dell' Assemblea: lanciare un grido di allarme al mondo, perché la devastazione della regione panamazzonica mette in pericolo il pianeta intero. E dunque l' umanità. E questo è un tema cristiano, non solo ambientalista. Parola del cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, teologo domenicano, considerato uno dei porporati più influenti e autorevoli del collegio cardinalizio.

Eminenza, come si è svolto il Sinodo?

«Il clima è stato sereno e fraterno. Ci si è ascoltati, condividendo le esperienze e le preoccupazioni. È stato uno dei migliori che ho vissuto, per l'atmosfera e l'efficacia».

Quali erano gli obiettivi generali?

«Innanzitutto la questione ecologica, con la drammatica situazione dell'Amazzonia che per il clima mondiale ha un'importanza cruciale».

Fino a che punto c'è da preoccuparsi?

«Un grande esperto climatico tedesco, il professor Schellnhuber, ha descritta l'emergenza così: la morte della selva amazzonica è la morte del mondo. Ecco, è l'emergenza che ha portato a questo Sinodo, perché il Papa e i padri sinodali volevano lanciare un grido di allarme al mondo».

Le urgenze sono limitate all'aspetto ambientale?

«No. I partecipanti al Sinodo hanno fatto sentire la voce degli indigeni, una delle popolazioni più povere e sfruttate del pianeta».

Qual è l'importanza dell' apertura all'ordinazione sacerdotale di diaconi sposati?

«Innanzitutto va fatta una precisazione: la pastorale in Amazzonia era uno dei compiti del Sinodo, e la mancanza di sacerdoti era un elemento tra tanti altri, non si deve parlare solo dei preti sposati. Per esempio va affrontato il ruolo pericoloso delle sette. Poi la diffusione delle chiese pentecostali, che hanno un influsso tale per cui si stima che già più del 50% dei fedeli siano passati alle correnti evangeliche. Le riflessioni sui diaconi sono partite dal rilevamento di una necessità: la pastorale cattolica non deve più essere solo "di visita", ma di presenza».

Ci spiega che cosa significa?

«A volte occorrono mesi, se non anni, prima che un prete possa tornare - in visita - in una comunità per celebrare messa. Invece il diacono, persona con famiglia e lavoro, è un uomo vicino, che ha una presenza fissa».

Ci aiuta a fare chiarezza sui vari passaggi?

«Nella Chiesa cattolica per essere presbitero (sacerdote, ndr) bisogna prima ricevere l'ordinazione diaconale. Da 50 anni abbiamo l'apertura stabilita al Concilio Vaticano II di uomini sposati che possono ricevere il sacramento dell'ordine nel quadro del diaconato. Sono diventati diaconi permanenti sposati, che hanno famiglia, vita professionale e servono la Chiesa. Molte conferenze episcopali hanno già utilizzato questa possibilità».

Quale per esempio?

«La nostra arcidiocesi di Vienna. Abbiamo una lunga e fruttuosa esperienza di diaconi permanenti, a servizio nelle parrocchie».

Dunque come potrà funzionare in Amazzonia?

«Nelle zone remote, dove c' è una grave mancanza di preti, la comunità potrà chiedere al vescovo, che avrà ricevuto la facoltà dal Papa, di ordinare sacerdote il diacono lì presente. Questo è il cammino che ha proposto il Sinodo e che ha sottoposto al giudizio del Pontefice».

Sulle tematiche della donna nella Chiesa sono stati fatti passi avanti?

«Sì, due in particolare. Si chiede di rivedere il Motu proprio di Paolo VI Ministeria quaedam del 1972 che, praticamene, escludeva le donne da qualsiasi ordinazione. La richiesta è che possano invece essere ordinate al Lettorato e all' Accolitato».

Che cosa vuol dire in pratica?

«In tante diocesi le donne praticano questi ministeri che presuppongono vari compiti: da noi a Vienna ce n' è una trentina che hanno ricevuto dal vescovo la facoltà di presiedere i funerali, altre hanno guidano la liturgia della Parola. Il Sinodo domanda che questa prassi già esistente diventi regolare».

Qual è l'altro risultato?

«In tante comunità amazzoniche le donne hanno responsabilità di guida. Si propone al Papa di dare più ampio rilievo a questi ministeri di fatto già esistenti, riconoscendo ufficialmente il ruolo di "donna dirigente di comunità"».

·        Le Dive di Dio.

DA CLAUDIA KOLL A ILARY BLASI PASSANDO PER DANIELA ROSATI E SIMONA TAGLI, SONO NUMEROSE LE DIVE DELLO SPETTACOLO CHE SONO STATE FOLGORATE DA DIO. Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2019. Sante non si nasce. La baronessa Giovanna Francesca di Chantal, fondatrice nel 1610 dell' Ordine in Francia, era moglie e madre di sei figli; vedova colta e benestante. Ed era vissuta per 38 anni nel frastuono del mondo, quando diventò la pietra angolare delle Visitandine. La vocazione arrivò nella piena maturità, anzi oltre, se si considera che i quarant' anni di oggi non sono certo quelli di allora. Un percorso, il suo, che nel 1767 la portò a diventare Santa, proclamata da papa Clemente XIII. E oggi a due passi dalla movida, vicino Porta Ticinese a Milano, nel monastero dell' Ordine della Visitazione tra le suore c' è infatti pure una divorziata. «La nostra regola ha nel suo cuore la dolcezza, per poter accogliere persone di qualsiasi età e condizione», raccontava in un' intervista suor Maria Silvia Bossi, la madre superiora. «Siamo qui più per la mortificazione spirituale che per quella fisica, la questione non è tanto il digiuno o la rinuncia al dolcetto, ma il volgere ogni desiderio e ogni pensiero all' amore per il Signore», secondo lo spirito della fondatrice Giovanna di Chantal.

Niente regole austere e rigori eccessivi. Tanta preghiera e opere di bene. Così è stato il pellegrinaggio a Lourdes di Ilary Blasi, scesa dal tacco 12 per indossare il velo da dama. La conduttrice tv, moglie di Francesco Totti, non ha saltato una messa, si è messa a disposizione degli altri durante il cammino all' interno del Santuario. «Ha lasciato fuori tutto il suo mondo patinato, per far vivere e vincere quello delicato della fede. Ha affrontato tutto: penitenza, carità, processioni, visita alla grotta e la maggior parte del tempo l' ha trascorso accompagnando i malati nelle basiliche», scrive Chi. «Ho avuto tanto dalla vita, non lo dimentico. Penso che sia giusto e bello dedicarsi anche a chi ha bisogno», dice la Blasi. Scarpe da ginnastica, tunica da suora laica (al dito soltanto la fede nuziale) per il bagno spirituale. Due giorni dopo è volata a Montecarlo: look scintillante (gonna lunga, maglia nera, chiodo di pelle), per festeggiare i suoi 38 anni con il marito, la sorella Silvia e gli amici più cari. E chi se ne importa se negli ambienti tv si sussurra che Alessia Marcuzzi forse prenderà il posto di Ilary alla conduzione del Grande Fratello Vip, un altro brindisi era già comunque assicurato: per la serie tv che si farà sulla vita del Capitano. La casa di produzione Wildside, infatti, ha acquistato i diritti dell' autobiografia dell' ex campione giallorosso.

Sembra una conversione senza ritorno quella di un' altra moglie (seppure ex) di un grande sportivo come Adriano Galliani, ex amministratore delegato del Milan. Lei è Daniela Rosati (60 anni, due matrimoni alle spalle): «Sono diventata un' oblata, ovvero consacrata all' ordine di Santa Brigida, e mi sono trasferita in Svezia dove la Santa fondò il suo Ordine». Una vita piena «ma incompleta, e oggi grazie alla fede posso dire di avere una vita felice». Qualche anno fa ha lasciato tutto: «Non sono una vera suora, ma un giorno spero di entrare in convento e di vivere in adorazione perpetua. Ci ho messo parecchio tempo prima di capire che questa era la mia missione, anche se le mie visioni sono cominciate quando ero ancora una bambina». Il momento più difficile: l' annuncio al compagno di voler vivere in castità. «Lui mi ha domandato se mi sembrava il momento adatto per fare scelte del genere», ironizza la Rosati. «Gli ho risposto che lo Spirito Santo sceglie le persone e non i momenti, così siamo rimasti amici. E io da cinque anni vivo in castità». La conduttrice ha lasciato la tv per seguire la fede: «Nella mia vita ho capito che nulla accade per caso, che ogni nostro desiderio buono e ogni nostra aspirazione al bene viene da Dio e che lui dispone ogni cosa per la nostra felicità, anche terrena, se solo riusciamo ad affidarci a lui». Nessun rimpianto, però qualcosa le manca: «I miei amici, la famiglia, gli affetti non ho smesso di frequentarli. Ho lasciato da parte invece la vita sentimentale. Se mi manca il lavoro? Ho un po' di nostalgia del periodo a Mediaset, sono stati gli anni più belli».

La devota Daniela Rosati è in buona compagnia. «Sono casta da almeno 10 anni», ha rivelato Simona Tagli (55 anni) qualche giorno fa. L'ex showgirl amatissima dagli italiani si è allontanata dai riflettori e ha cambiato vita. «Per un voto alla Madonna di Lourdes, legato a qualcosa di importante ma di cui preferisco non parlare. Posso dire che non è ancora sciolto», ha confidato la bomba sexy di Drive In che negli ultimi tempi si è avvicinata al buddismo. «C' è un' idea molto bella, quella di essere felici qui e ora, una filosofia di vita che trasmette pace e serenità e che ti aiuta nella centratura del tuo io».

Lourdes e Fatima invece hanno giocato un ruolo decisivo nella vita spirituale di Claudia Koll che è cresciuta in una famiglia particolarmente devota alla Vergine Maria. E come ha confessato in questi giorni su Tinto Brass: «Le scene osé mi hanno rovinato». L' attrice tentando di liberarsi dei ruoli sensuali in "Così fan tutte" si è avvicinata sempre di più alla fede. In molti programmi televisivi nei quali è stata ospite ha ribadito la sua voglia di ricostruire la sua personalità basandosi sulla dottrina cattolica e questa scelta ha cambiato sia il suo privato, sia il suo lavoro. «Se potessi, certi errori non vorrei averli commessi. Qualche giornale di recente ha scritto che non mi sono pentita, ma non può essere: certamente lo sono, altrimenti non avrei mai cambiato vita». L' attrice ha raccontato in un' intervista per un noto quotidiano, che è rinata nel 2000, quando ha scelto di avvicinarsi alla Chiesa ed è diventata mamma di un ragazzo in affido, Jean Marie, originario del Burundi: «Mi vedo più luminosa di prima, vedo la gioia nel cuore di avere una vita piena, intensa e ringrazio il Signore perché, se non l' avessi incontrato, la mia vita non avrebbe sapore».

·        “Churchbook”: quando la fede si fa social.

Gianmaria Tammaro per Dagospia il 29 novembre 2019. Il modo migliore per parlare di “Churchbook” di Alice Tomassini è partendo dalla fine. E quindi: la Chiesa, intesa come prelati, come funzionari, come responsabili della comunicazione, sa usare i social meglio di noi. Di più: la Chiesa sa perfettamente il peso e la funzione dei vari social, e li ha scelti con cura, con attenzione, convinta non tanto dell’importanza della forma quanto – eccola qui, la vera rivoluzione – dell’importanza del contenuto. La Tomassini, che ha passato un anno seguendo il team responsabile dei social del Vaticano, è riuscita non solo a catturare il passaggio di testimone tra Benedetto XVI e Francesco in una chiave inedita, ovvero: attraverso i social (i tweet vengono cancellati, gli account vengono ripuliti, eccetera eccetera); ma è pure riuscita a mettere insieme una vera e propria lezione di comunicazione. “Churchbook”, sottotitolato “#quandolafedesifasocial”, non è un documentario per credenti (per i credenti, forse, non ce n’è nemmeno bisogno: loro credono); ma per tutti quanti gli altri, per il mondo laico, per chi guarda con curiosità al Vaticano e, soprattutto, per chi di questi tempi segue i social e l’utilizzo che ne viene fatto. Tra i primissimi a spingere fortemente perché anche a San Pietro arrivasse Twitter, c’è stato papa Ratzinger. E, sorpresa, Bergoglio non è il fan numero uno di cinguettii digitali e foto su Instagram: vuole rileggere tutto, ogni frase, ogni parola, ogni tag; e senza la sua approvazione, non si pubblica. Una delle persone più interessanti intervistate dalla Tomassini è senza ombra di dubbio Gregory Joseph Burke, ex-direttore della sala stampa del Vaticano, membro dell’Opus Dei, corrispondente per Fox News da Roma, che non si risparmia mai, nemmeno per un istante, nel dire quello che pensa. E quindi: il papa è uno che sa a malapena che cosa sono i social, è un vecchio, e va bene; con la nomina di Bergoglio, temeva che tutta la sezione social venisse chiusa, e quasi sperava che non diventasse papa. Per il Vaticano i social sono sempre stati un mezzo e nient’altro; non c’è mai stata una caccia all’ultimo follower, né c’è mai stato il tentativo di denaturalizzare quella che la Chiesa è solo per poter “funzionare” meglio online. Prima di aprire i profili del papa, il team della comunicazione della Santa Sede ha studiato quelli di altri uomini istituzionali, politici e capi religiosi, per poter avere un’idea più chiara di quali messaggi ottengono più interazioni, se quelli più brevi o quelli più lunghi; di quanti tweet al giorno fare, e in che modo impostarli. Per Instagram, è stata un’altra storia. All’inizio, “perché troppo frivolo, troppo attento alle apparenze”, il Vaticano non era intenzionato ad aprire un account. Ma poi, corteggiato anche dal colosso di Internet, si è deciso, attingendo di fatto al lavoro dei fotografi ufficiali, che ogni giorno – viene raccontato – scattano centinaia di immagini. Ma la cosa più intelligente di questo documentario, ed è intelligente perché è un messaggio chiaro, non di parte, condivisibile anche dai non credenti, è come i social vengano “definiti” dalla Chiesa. E cioè come una possibilità per creare contatti, per arrivare a chi è lontano, e non come dei pulpiti da cui urlare i propri sermoni. Non mancano le frecciatine a chi li usa così, e anche questo mostra la bontà e l’onestà del lavoro della Tomassini: non si nasconde niente, mai, anche se tra i co-produttori del film, insieme a Officina della Comunicazione, c’è Vatican News.  “Churchbook” andrà in onda su Rai2 stasera, nella cornice di Petrolio, intorno a mezzanotte, e sarà poi in replica sabato mattina, alle 10, sempre su Rai2.

·        I Francescani.

Santa Chiara riparò la tonaca di San Francesco con il suo mantello. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Paolo Conti. Lo studio su 19 delle 31 toppe. Il cardinal Bassetti, arcivescovo di Perugia e presidente della Cei: «È la condivisione della povertà». La scoperta riguarda certamente i fedeli cattolici, ma interesserà anche i tanti laici attenti alle radici storiche del francescanesimo. La tonaca di San Francesco d’Assisi, conservata ed esposta nel Sacro Convento, ha una particolarità che spicca sul grigio della tela: ben 31 pezze, autentici rattoppi sul tessuto usurato, molto ben visibili. In particolare 19 di queste sono di color marrone, tutte cucite con evidenza dalla stessa mano. Ed ecco la scoperta, che apparirà raccontata nel dettaglio nel nuovo numero della rivista San Francesco diretta da padre Enzo Fortunato: quelle 19 pezze provengono tutte dal mantello di Santa Chiara (a sua volta esposto nella Basilica di Assisi a lei dedicata). Chiara ne tagliò un pezzo per riparare la tonaca del Poverello di Assisi. «È la condivisione della povertà», ha commentato il cardinal Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e presidente della Conferenza episcopale italiana. Padre Enzo Fortunato, nel suo articolo di introduzione sulla rivista, racconta il senso della copertina affidata a Mimmo Paladino, ovvero un parallelo tra la tunica rossa di Gesù così come viene tramandata dall’evangelista Giovanni, e la tonaca grigia di Francesco d’Assisi: tessuta tutta d’un pezzo la prima, non strappata «perché l’immagine e la somiglianza che ha impresso in noi non è strappabile, ma inossidabile e inattaccabile». Mentre la tunica di Francesco è «la metafora della fragilità dell’uomo, la lacerazione e il limite che ognuno porta con sé inevitabilmente». Qui Fortunato rimanda a un testo proposto oggi nella rivista e firmato dalla studiosa tedesca Mechthild Flury-Lemberg (esperta di restauro di antichi tessuti, autrice di saggi storico-scientifici sulla Sindone, ma anche sulle vesti di Sigismondo Malatesta e di Rodolfo di Boemia). La studiosa scrisse dopo l’osservazione scientifica dei due tessuti: «Le molte pezze marroni poste con cura sulla tonaca di Francesco provengono tutte dal mantello di Chiara. I pezzi usati per la tonaca di Francesco mancano al mantello all’altezza del punto dove una volta c’era la cucitura mediana. Le pezze, attaccate con cura particolare, non lasciano alcun dubbio sul fatto che l’operazione sia stata compiuta da una sola persona. Chiara è sopravvissuta a Francesco diversi anni. È possibile che lei abbia rappezzato la tonaca del suo fratello di fede quando questi era ancora in vita, ma è anche possibile che lei abbia “abbellito” col suo mantello quella veste come ultimo atto d’amore dopo la morte del santo, quanto era già diventata una reliquia». Molta attenzione è posta sul tipo di cucitura delle 19 pezze del mantello di Chiara: «Gli orli del taglio sono seguiti da un filo di lino lineare che forma la cucitura chiudendolo in un punto ripreso. Le altre pezze, meno curate, sono cucite con semplici punti a sopraggitto». Commenta sulla rivista monsignor Felice Accrocca, attento studioso del francescanesimo e arcivescovo di Benevento, a proposito del legame tra Francesco e Chiara: «Fu anche di affetto umano, di vera amicizia, perché chi ama e segue Cristo vive nella piena libertà dello Spirito. Nulla di strano, quindi che Chiara stessa possa aver rattoppato la tonaca di Francesco. Molte testimonianze riferiscono che lei stessa teneva spesso in mano ago e filo, perché non avrebbe potuto usarli per qualcosa che era appartenuto a Francesco?». Mimmo Paladino, nell’intervista rilasciata a Roberto Pacilio per la rivista San Francesco, propone un’ipotesi suggestiva a proposito di Burri, grande artista umbro, quindi «consapevolmente o inconsapevolmente ispirato a un’idea francescana... Le toppe aggiunte al saio di Francesco hanno un’origine speciale... e Burri aggiungeva delle toppe ai suoi sacchi, e forse non lo poteva sapere. Ma probabilmente, come tutti gli artisti importanti e grandi, aveva delle antenne speciali per capire di più di coloro che poi studiano sui libri». Padre Enzo Fortunato, nel suo articolo, spiega le ragioni di quei rattoppi citando le Fonti Francescane: «In nessun caso Francesco ammetteva che i frati avessero più di due tonache, che però concedeva fossero rattoppate con pezze. Diceva che le stoffe ricercate le aveva in orrore, e ruvidamente rimproverava quelli che facevano il contrario. E per eccitarli con il suo esempio, portava sempre cuciti sulla sua tonaca dei pezzi di sacco grossolano. Morente, comandò che la tonaca per le esequie fosse ricoperta di sacco». Conclude Fortunato: «Il colore marrone e grigio del tessuto naturale della tonaca è l’immagine della terra. Non solo l’humus dove poggiamo i piedi: la terra cui l’abito richiama è la capacità intrinseca che ha ogni persona di generare vita, è il compito di nostra madre terra, di ognuno di noi. Forse comprendiamo anche perché la Laudato si’, l’Enciclica di papa Francesco, è innervata di francescanesimo».

·         Il Vaticano, i Gesuiti ed i complotti.

Paolo VI era il bersaglio indiretto della manovra  contro Lercaro. Pubblicato lunedì, 30 settembre 2019 su Corriere.it da Paolo Mieli. Un libro di Alberto Melloni rievoca le vicende che nel 1968 portarono alla rimozione dell’arcivescovo di Bologna. All’epoca qualcuno cercò di isolare il Pontefice. Valenze oscure, menzogne reiterate, opacità inconfessate e inconfessabili. Queste le caratteristiche dell’«accelerazione violenta» che agli inizi del 1968 — ai tempi di Papa Paolo VI, vittima probabilmente inconsapevole di questa manovra — portò all’allontanamento del cardinale arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro e alla sua sostituzione con Antonio Poma. Giuseppe Dossetti fu il primo a definire quella di Lercaro una «rimozione». E Rimozioni. Lercaro. 1968 è adesso il titolo di un intrigante libro (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino) dedicato da Alberto Melloni alla complessa vicenda di cui si è testé detto. Perché quel plurale, «rimozioni»? Apparentemente il saggio si occupa soltanto della destituzione di Lercaro. Poi, però, pagina dopo pagina, Melloni allarga il discorso alla «rimozione della rimozione», cioè a come i veri significati di quell’affaire furono progressivamente avvolti in una coltre di nebbia. Fu la Chiesa, senza ombra di dubbio, a volere che la storia di quella violenza consumata ai danni del cardinal Lercaro fosse «silenziata». E la «rimozione della rimozione» fu resa possibile «dalla decisione della vittima di tacere, nella (vana) attesa che chi aveva architettato quella manovra uscisse allo scoperto e che chi aveva il dovere di scoprirlo individuasse i colpevoli». Dopodiché la «rimozione della rimozione», fu facilitata «dall’abilità con cui vennero seminati diversivi, depistaggi, calunnie, allusioni» attorno a quell’«evento lacerante». E alla fine la «rimozione della rimozione» fu corroborata storiograficamente «dalla riduzione della rimozione stessa a frammento della storia del Pci o a capitoletto dell’eccezionalismo migliorista bolognese». Seppellita oltretutto «da quintali di dettagli che», sostiene Melloni, «non fanno un grammo di storia». Esce in libreria il 10 ottobre il saggio di Alberto Melloni «Rimozioni. Lercaro. 1968» (il Mulino, pagine 446, euro 35)Adesso nuove carte (e l’indiretto incoraggiamento di Papa Francesco) «permettono e forse impongono di ricostruire più accuratamente» l’avvicendamento tra Lercaro e Poma di oltre cinquant’anni fa. Melloni fa notare che «nel momento in cui quel “delitto” si compiva era passata una dozzina d’anni da quando un’altra Chiesa — quella di Firenze — si era trovata ad essere l’ossessione» di quegli stessi «ambienti ecclesiastici romani abituati a ritenersi onnipotenti». Anche allora era stato messo nel mirino un cardinale, Elia Dalla Costa, autorevole al punto che nel conclave del 1939 avrebbe potuto contendere la tiara a Eugenio Pacelli (Pio XII). A metà anni Cinquanta finì nel mirino del mondo pacelliano un giovane prete, don Lorenzo Milani, diventato «il parafulmine e la vittima designata della ferocia istituzionale» della Chiesa di Roma. In quell’occasione, assieme a don Milani, fu travolto l’intero «chiostro dei folli di Dio» radunato attorno alla carismatica figura di Dalla Costa. Poi, tra il 1967 e il ’68, la tempesta si abbatté sulla Chiesa di Bologna «vittima designata» a causa del «protagonismo oggettivo» dell’arcivescovo «uscito dal Concilio con un’aura che dava autorevolezza alla sua idea secondo cui le Chiese locali dovevano porsi come ermeneute della riforma conciliare». Stavolta non ci fu un don Milani su cui riversare l’aggressività romana, e i fulmini si abbatterono direttamente sul cardinal Lercaro, che era un esponente della parte più progressista del clero italiano. Progressista sì, ma aveva fatto il suo «dovere» nella battaglia contro il Pci al punto che nel 1956, per intercettare le sensibilità di sinistra, aveva imposto al recalcitrante Giuseppe Dossetti di candidarsi a sindaco di Bologna contro il comunista storico Giuseppe Dozza. Dossetti accettò e, come era nei pronostici, perse: Lercaro sentenziò che con l’elezione di Dozza la città si era voluta «sbattezzare». In seguito Lercaro svolse un ruolo assai importante nel Vaticano II e quando nel dicembre 1965, terminati i lavori conciliari, tornò a Bologna, Dozza andò ad accoglierlo alla stazione a testimoniargli il riconoscimento della città (e forse anche del Pci) per il ruolo da lui avuto in quelle assise. Alberto Melloni, docente di Storia del cristianesimo, è segretario della Fondazione per le scienze religiose di BolognaDa quel momento l’arcivescovo di Bologna, con il suo supposto spostamento a sinistra, divenne (probabilmente senza accorgersene) il pretesto per il duro conflitto del dopo Concilio tra coloro che volevano che tutto cambiasse e quelli che auspicavano un riassorbimento delle novità. Nell’aprile del 1967 fu dato alle stampe uno strano libretto del tradizionalista Tito Casini, La tunica stracciata. Lettera di un cattolico sulla «Riforma liturgica» (Sates), in cui Lercaro veniva accusato d’aver fatto alla Chiesa addirittura più danni di Lutero. Colpiva che la prefazione al pamphlet fosse stata scritta da un cardinale, Antonio Bacci. Strano segnale. In quell’occasione, Paolo VI — preoccupato che, scrive Melloni, Lercaro potesse «ritenerlo ispiratore o corresponsabile dell’attacco di Bacci» — espresse «in modo pubblico e plateale» la sua solidarietà all’arcivescovo di Bologna. E parve che tutto dovesse fermarsi qui. Ma non fu così. Se c’era un giornale all’epoca caro all’arcivescovo di Bologna questo era «L’Avvenire d’Italia» diretto (da cinque anni) da Raniero La Valle. Il quotidiano aveva difficoltà economiche e Paolo VI decise di «lasciarlo morire». Lercaro cercò di ottenere aiuti per «L’Avvenire d’Italia» che, «proprio per la funzione di supporto alla maggioranza riformatrice», si era fatto nel mondo cattolico molti nemici che ne auspicavano la chiusura. A marzo 1967 Lercaro si rivolse al Papa, comproprietario della testata, per caldeggiare il ripiano del debito. Preferirei «morire o almeno non essere io sulla cattedra bolognese», scriveva Lercaro, «anziché, sedendovi, vedere ammainata una bandiera che i miei antecessori e io avevamo sempre sostenuto». La risposta dal Vaticano fu gelida: «Non è da pensare che la Santa Sede consumi le già limitate risorse della sua carità per la stampa cattolica in Italia, quando non fa e non può fare questo per la stampa cattolica degli altri Paesi, e quando innumerevoli altre necessità caritative ed apostoliche reclamano il suo aiuto». Poco dopo sull’«Avvenire» cadde la mannaia. Il giornale venne ceduto alla Nuova Editoriale Italiana di monsignor Giuseppe Bicchierai, che lo fuse con il milanese «L’Italia». La Valle fu indotto alle dimissioni (finirà indipendente eletto nelle liste del Pci). Così dall’agosto del 1967 Lercaro rimane senza il «suo» giornale in un contesto informativo nel quale, scrive Melloni, «Il Resto del Carlino» — diretto dal 1955 da Giovanni Spadolini, prossimo alla nomina alla direzione del «Corriere della Sera» — «affonda i suoi attacchi all’arcivescovo e alla “repubblica conciliare” in nome degli interessi di una borghesia moderata “laica” che si saldano (paradosso bolognese non infrequente) con quelli di un cattolicesimo reazionario». Sulla vicenda «Avvenire» molto aveva pesato la questione Vietnam. Lercaro aveva preso una posizione nettamente favorevole alla pace in un discorso pronunciato all’Archiginnasio il 26 aprile 1967. Allocuzione che subito allarmò i dorotei alla guida della Dc con Mariano Rumor. Flaminio Piccoli criticò apertamente l’arcivescovo di Bologna. Ma tutto sembrava dovesse finire lì. Lercaro tornò però sull’argomento il 1° gennaio 1968 con un’omelia ancora più clamorosa, in cui sosteneva che la Chiesa non avrebbe potuto né dovuto essere «neutrale» in merito al conflitto vietnamita. Discorso destinato a scompaginare i piani di Paolo VI che, sulla questione vietnamita, aveva in corso una complessa mediazione con il presidente americano Lyndon Johnson (nel corso della quale aveva assicurato al successore di John Kennedy che la Chiesa mai si sarebbe schierata al fianco dei comunisti). A febbraio, da un momento all’altro, Lercaro viene rimosso e «L’Osservatore Romano» riferisce che ciò è accaduto «a motivo dell’età avanzata e delle condizioni di salute» del cardinale. Niente di vero. La reazione di Lercaro è, scrive Melloni, di «sconcerto furibondo». Sconcerto destinato ad aumentare quando il cardinale riceve una lettera del segretario di Stato Amleto Giovanni Cicognani in cui, per conto del Papa, gli viene preannunciato «un assegno mensile» per «alleviare l’Archidiocesi dell’onere del suo sostentamento». È «un’offerta che sfiora la volgarità», sostiene Melloni; quelle parole costituiscono per Lercaro «uno schiaffo violento e consapevole». Nel frattempo, sul «Tempo» e sul «Borghese» appaiono indiscrezioni che definiscono (da destra) i contorni politici del conflitto tra il cardinale di Bologna e la Chiesa di Roma. «Il Borghese» si addentra in questioni dottrinali argomentate con perizia, alle quali si aggiunge l’accusa a Lercaro d’aver dissestato il bilancio della sua archidiocesi. Non senza malizia gli viene contrapposta la figura «eccezionale» del vescovo di Reggio Emilia, monsignor Gilberto Baroni, che — secondo il «Borghese» — avrebbe gestito il patrimonio ecclesiastico con maggior oculatezza. Era giunto il momento di un incontro riparatore tra Lercaro e Paolo VI. Incontro che il Papa gli concesse, il 21 marzo, dopo essersi cautelato avvertendolo che avrebbe risposto alle sue «questioni» con le «spiegazioni» a lui «consentite». Il colloquio avvenne alla data stabilita e a Lercaro — che subito dopo ne riferì a Giuseppe Dossetti e a Giuseppe Alberigo — parve risolutivo. Il Papa gli avrebbe addirittura avanzato l’ipotesi di tornare sul trono vescovile da cui era stato brutalmente deposto. Una riparazione, rileva Melloni, che sarebbe stata «talmente fragorosa da poter apparire come il suo contrario». Lercaro in quel colloquio avanzò il sospetto che il suo successore, Antonio Poma, avesse cospirato per accelerarne la destituzione. Paolo VI gli ricordò che era stato proprio lui a scegliere Poma come suo successore. Ma la storia non era finita. Trascorsero cinque giorni e il segretario del papa, monsignor Pasquale Macchi, mandò al più stretto collaboratore di Lercaro, don Arnaldo Fraccaroli, una strana lettera in cui si accennava agli «incauti amici» del cardinale che «in buona fede» facevano «correre su riviste e su altri stampati pensieri, considerazioni, notizie che sono certo falsificazioni di quanto lui pensa». E che sarebbero state all’origine del «doloroso anche se silenzioso scandalo». Lercaro, dipinto come «un allocco in balia di non si sa chi», scrisse allora un indignato promemoria e lo mandò al Papa. Si rese necessario una secondo incontro, il 24 aprile, ma stavolta Lercaro si vide costretto a chiudere unilateralmente il proprio caso. Che non verrà riaperto neanche a fine 1968, quando per i tipi di Gribaudi verrà dato alle stampe un libro di don Lorenzo Bedeschi favorevole a Lercaro (ancorché disinformato). Al «libretto» verrà dedicata un’acida nota anonima pubblicata sull’«Osservatore Romano della Domenica». Morale di questa tormentata, intricata vicenda? Scrive Melloni che Lercaro fu una «figura principesca nello stile e austera nei modi». Teologo e «animatore attivo nel movimento». Porporato «corteggiato proprio dal “partito romano”» che cercò invano di usarlo contro Montini nel conclave del 1963. Ma «presto inviso alle destre ecclesiastiche e politiche che pure avrebbero dovuto apprezzare il suo anticomunismo creativo». Lercaro, prosegue Melloni, venne puntato tra il 1966 e il 1967 e «demolito» nel 1968 «con una logica che travalica il copione maoista del “colpirne uno per educarne cento”». Quale lo scopo recondito di questa iniziativa ai suoi danni? Chi «ordì e perpetrò quella violenza istituzionale» — risponde Melloni — guardava direttamente a Roma e «ai difficili equilibri delle grandi figure della curia postconciliare fra le quali prevaleva l’aggregato… che pensava di poter replicare l’operazione di accerchiamento realizzata nel pontificato pacelliano». Per riuscire in questa impresa, tali ambienti dovevano «isolare definitivamente Paolo VI dalla maggioranza di cui era espressione», «ustionarne le suscettibilità e le apprensioni», «manipolarne le vulnerabilità», «creare — negli interstizi della sua linea di condotta — fatti compiuti che ne compromettessero la credibilità». E «portarlo se mai all’orlo delle dimissioni». Proprio così, scrive Melloni: le dimissioni! Volevano questi ambienti «impedire che la Chiesa italiana potesse liberarsi della tiepidezza politicante che di lì a poco l’avrebbe esiliata per molto tempo dal papato». Sterilizzando con questa operazione, «a lungo o per sempre», la «fecondità del Vaticano II». E con il caso Lercaro andarono a segno. Almeno in parte. Uscì nel 1967 La tunica stracciata (Sates), duro attacco di Tito Casini al cardinale Giacomo Lercaro. Dopo la rimozione dello stesso Lercaro dalla diocesi di Bologna, Lorenzo Bedeschi intervenne in sua difesa con il saggio Il cardinale destituito (Gribaudi, 1968). Alcuni libri sono stati dedicati al cardinale da Arnaldo Fraccaroli, tra cui Giacomo Lercaro. Il cardinale che io ho conosciuto (Paoline, 1986) e Giacomo Lercaro. Un pastore per il nostro tempo (Minerva, 2005). Da segnalare anche: Nazario Sauro Onofri, Le due anime del cardinale Lercaro (Cappelli, 1987). Il saggio di Melloni sarà presentato a Milano il 16 novembre durante la rassegna BookCity. Interverranno con l’autore Marco Garzonio, Fulvio De Giorgi e Silvia Scatena.

Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 5 ottobre 2019. In mezzo ai fuochi incrociati che, dall' America come da alcune Sacre Stanze, tentano di farlo cadere, e tra scandali finanziari e minacce di scismi, papa Francesco oggi celebra un Concistoro che sa tanto di controffensiva. Con la creazione di 13 nuovi cardinali di cui 10 sotto gli 80 anni, il numero dei porporati elettori di nomina bergogliana supera la maggioranza assoluta: 67 su 128 (43 sono stati scelti da Benedetto XVI, 18 da Giovani Paolo II). Bergoglio mette le mani sul prossimo conclave. Dunque, sulla sua successione. Una svolta non solo numerica: i prelati che alle 16 nella basilica di San Pietro ricevono la berretta rossa rappresentano temi chiave del pontificato: periferie, migranti, apertura al mondo, dialogo interreligioso, ambiente, Europa. Francesco blinda così la linea della Chiesa che verrà.

L' assedio. «Vi chiedo di pregare per me»: il Pontefice argentino lo dice alla fine di ogni incontro. Da qualche tempo aggiunge: «Ne ho davvero bisogno». Un' ammissione dell'accerchiamento di questa fase del papato. Nel recente viaggio in Africa, ai Gesuiti ha spiegato il motivo: «Il Papa è tentato, è molto assediato. Davvero sento il bisogno di chiedere l' elemosina della preghiera». Il Vescovo di Roma è consapevole di avere nemici e avversari. Anche "in casa". Le riforme, la scelta della Chiesa in uscita, la lotta ai privilegi, la predilezione per gli ultimi e tra loro i migranti, e ora anche il Sinodo sull' Amazzonia: tutti terreni su cui si scatena il "fuoco", anche "amico".

Il Sinodo e gli scismi. «Non ho paura di uno scisma nella Chiesa», ha recentemente scandito, replicando a chi evoca scissioni di parti del mondo ecclesiastico ostili al pontificato. Il fronte anti Bergoglio avrebbe origine e alimento negli ambienti conservatori degli Stati Uniti. Francesco è visto come fumo negli occhi per le posizioni sui temi ambientali ed economici. Per la parziale apertura ai divorziati risposati. E per l' accordo con la Cina. Poi, c' è il Sinodo sull' Amazzonia, che si apre domani tra moniti e avvisaglie di scissione nel caso si mettessero in discussione aspetti della dottrina ritenuti irriformabili. Per molti l' assemblea dei vescovi potrà diventare un campo di battaglia dirimente per il futuro del pontificato e per la geopolitica degli schieramenti che potranno consolidarsi in vista della scelta del prossimo papa. In particolare, rovente potrà diventare la questione dei «viri probati»: in queste tre settimane si discuterà la possibilità di ordinare sacerdoti, in zone remote, uomini anziani e sposati «di provata fede» per rimediare alla carenza del clero. Tutto questo mentre "da sinistra", o meglio dalla Germania, i vescovi stanno lavorando a un sinodo parallelo per avviare riforme («rivoluzioni», le chiama qualcuno) su temi estremamente sensibili nei Sacri Palazzi: su tutte, apertura alle coppie omosessuali e diaconato femminile. I guai finanziari Al di là delle mura vaticane si trema per lo scossone dell' inchiesta sulle operazioni finanziarie che ha preso di mira gli uffici della Segreteria di Stato e dell' Autorità di Informazione finanziaria (Aif) della Santa Sede, l' authority anti-riciclaggio. Va avanti l'indagine sul nuovo presunto scandalo, legato tra l' altro all' acquisizione per 200 milioni di euro di un immobile di pregio a Londra tramite società locali, sollevato lo scorso giugno dalle denunce dello Ior e del Revisore generale dei bilanci vaticani. Clamore ha suscitato la sospensione immediata e il divieto di entrare in Vaticano per cinque dirigenti, tra cui due note personalità come monsignor Mauro Carlino e il direttore dell' Aif Tommaso Di Ruzza. Il prossimo Conclave Scorrendo l' elenco dei neo-"principi della Chiesa" che vengono nominati oggi, è evidente la predilezione di Francesco per uomini di Chiesa in diocesi di frontiera. I prelati della Curia romana sono tre: il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso Miguel Angel Ayuso Guixot, spagnolo, in prima linea nel dialogo con l' islam. José Tolentino Calaça de Mendonça, portoghese, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Michael Czerny, gesuita, sottosegretario della sezione Migranti del Dicastero per lo Sviluppo umano. L' unico italiano è Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e figura simbolo della Comunità di Sant' Egidio: diventa il nuovo uomo forte della Chiesa italiana. L'altro vescovo diocesano europeo è il lussemburghese Jean-Claude Höllerich, gesuita. Due i latinoamericani: il cubano Juan de la Caridad García Rodríguez e il guatemalteco Alvaro Leonel Ramazzini Imeri. Due in Africa: Fridolin Ambongo Besungu, cappuccino, arcivescovo di Kinshasa nella Repubblica democratica del Congo; e il salesiano di origini spagnole Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, in Marocco. Infine, uno dall' Asia: Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, arcivescovo di Jakarta, in Indonesia. È sempre più chiaro uno degli obiettivi di Papa Bergoglio: rendere la Chiesa davvero universale.

Vaticano, Papa Francesco e le inquietanti parole di Ratzinger ai nuovi cardinali: "Siate fedeli al Pontefice". Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Un pulmino ha accompagnato i 13 nuovi cardinali nominati da Papa Francesco al cospetto del Papa Emerito Joseph Ratzinger. Giunti al Monastero Mater Ecclesiae per rendere omaggio a Benedetto XVI, i neo-porporati (tutti di comprovata fede - e ideologia - bergogliana) si sono sentiti rivolgere queste parole: "Ricordatevi sempre il valore della fedeltà al Papa". Un discorso, riferito dal portavoce vaticano Matteo Bruni, che come anche la Stampa sottolinea appaiono "significative" perché giungono "in un momento di forti turbolenze per la Chiesa". La fedeltà al Santo Padre dovrebbe essere valore implicito per qualsiasi cardinale, ma sono tempi duri in Vaticano, tra scandali morali, intrighi finanziari e immobiliari e soprattutto spaccature teologiche e di indirizzo generale, con l'ala più conservatrice della Chiesa che sembra agitare sempre più spesso lo spettro dello scisma. Bergoglio ha voluto mandare un primo segnale proprio dal Concistoro, "blindando" la linea progressista di un Papato terzomondista, filo-laicista e dialogante con le altre religioni. 

Vaticano, Papa Francesco e "monsignor Tortellino" diventato cardinale: ong, migranti e Islam, ora tutto torna. Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Qualcuno lo ha ribattezzato "Monsignor Tortellino", con perfidia. Oggi però Don Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, è uno dei 13 nuovi cardinali scelti da Papa Francesco per riscrivere il Conclave a propria immagine e somiglianza. E in effetti Don Matteo con l'apertura al tortellino ripieno di carne di pollo per permettere anche ai bolognesi di fede islamica di festeggiare la festa del patrono incarna alla perfezione la linea "bergogliana" del Vaticano, all'insegna del dialogo e del multiculturalismo, anche religioso. Un avvicinamento che rischia, come nel caso della "provocazione" bolognese, di cancellare storia e identità culturale, ben oltre un semplice piatto di tortellini. Nel cardinale Zuppi, ricorda il Messaggero, "Papa Francesco ha apprezzato la passione genuina con la quale ha avviato - in tempi non sospetti - un lavoro di accoglienza verso migranti, barboni, disadattati, rom. Per decenni è stato parroco di riferimento a Trastevere, a pochi passi dal quartier generale della comunità. Inizialmente una specie di scantinato poi una realtà importante, difficilmente assimilabile ad altre perché Sant'Egidio è un po' ong, un po'istituzione religiosa, un po' avamposto di frontiera attrezzato a dialogare con tutti, compreso lo sfaccettato mondo politico". Insomma, l'uomo giusto al posto giusto e nel momento giusto.

Vaticano, Papa Francesco contro l'Occidente lancia il suo "partito economico": il Santo Padre in politica. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 7 Ottobre 2019. Papa Francesco e i bergogliani di rito terzomondista (ormai una vera e propria corrente interna al cattolicesimo, pensate che il neocardinale Michale Czerny ha scelto per il suo crocifisso il legno di un barcone approdato a Lampedusa) devono prima o poi sciogliere un' aporia. Quella che allontana, fino a renderle inconciliabili, due loro proposizioni chiave. L' Occidente è degenerato, i suoi frutti avvelenati, in testa l' esperienza coloniale e il libero mercato, hanno infettato la pianta genuina dell' umanità. L' Occidente deve salvare il mondo, riscattare tutti i dannati della terra, ospitare qualunque essere umano intenda migrare, perfino per questioni di clima. Scusate, semplifica il buzzurro cresciuto a Coca Cola e telefilm yankee che è in noi, ma se questo modello è così dannifero, perché volete trapiantarci più persone possibili?

Autoflagellazione - Ieri, ad esempio, il Papa ha aperto le celebrazioni del Sinodo sull' Amazzonia (una questione evidentemente più sentita in Vaticano rispetto ai 300 milioni di cristiani perseguitati nel mondo) con un classico: l' alimentazione del senso di colpa. «Quante volte c' è stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall' avidità dei nuovi colonialismi». Il filosofo francese Pascal Bruckner lo chiamava il singhiozzo dell' uomo bianco: l' autocondanna per tutti i mali del mondo. Che nel discorso papale diventa condanna dei politici sovranisti, i quali portano avanti un' agenda torbida dettata dal profitto e dall' interesse nazionale, nel caso di Bolsonaro: «Il fuoco appiccato da interessi che distruggono, come quello che recentemente ha devastato l' Amazzonia, non è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio si alimenta con la condivisione, non coi guadagni». È un racconto ideologico, non una predica spirituale, e come tutti i racconti simili cozza contro la realtà: gli anni di massima deforestazione dell' Amazzonia brasiliana sono stati il 1995 e il 2004. Presidenti: il socialdemocratico Cardoso e il comunista Lula. Non importa, quello che conta per Jorge Mario Bergoglio è mettere in discussione l' unico modello di sviluppo che ha mostrato di funzionare alla prova della storia, il capitalismo.

Bergoglionomics - È il senso dell' evento battezzato molto seriosamente «Economy of Francesco», presentato in questi giorni e già entrato nella vulgata come «la Davos francescana». La kermesse della Bergoglionomics si terrà infatti dal 26 al 28 marzo prossimi ad Assisi, e consisterà in un incontro con operatori economici under 35 da cui dovrebbe scaturire un «patto per una nuova economia». Come ha scritto lo stesso Papa nella lettera di presentazione «ai giovani economisti, imprenditori di tutto il mondo» (quelli vecchi, che hanno già dimostrato di saper generare posti di lavoro, Francesco li dà evidentemente per irredimibili), si tratta di «correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell' ambiente, l' equità sociale, la dignità dei lavoratori». Un misto tra la sempreverde teologia della liberazione e il gretinismo globale imperante. Il punto è sempre quello, sbaraccare la principale invenzione occidentale, che ha garantito alle popolazioni benessere come nessun' altra: il mercato. L' Occidente va «corretto», è tarlato all' origine. Ci aspettiamo, di conseguenza, che il prossimo appello papale ai migranti suoni così: non venite, per nessun motivo, in una terra così dannata. Giovanni Sallusti

Migranti, pro Lgbt e anti-sovranismo: ecco i nuovi cardinali del Papa. Dieci nuovi cardinali elettori creati da papa Francesco. Il Conclave adesso è a trazione progressista. Bergoglio ha la maggioranza assoluta. Giuseppe Aloisi, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. Papa Francesco ha creato tredici nuovi cardinali attraverso il concistoro di ieri, ma solo dieci potranno votare al prossimo Conclave per via dei raggiunti limiti di età degli altri. Abbiamo già annotato come Jorge Mario Bergoglio, tramite queste nomine, possa vantare adesso la maggioranza assoluta tra i cardinali che fanno parte del sacro collegio. Se non altro perché li ha creati lui. Ma non sono tanto gli aspetti numerici ad essere circostanziati da alcuni media quanto l'appartenenza di questi nuovi principi della Chiesa al progressismo dottrinale. Con tutto ciò che comporta. Nel corso del primo concistoro, il Santo Padre aveva posto la berretta rossa sul capo di di Gherard Ludwig Mueller, per esempio, che proprio progressista non è. Ora è uno dei critici delle tendenze odierne. Gli ecclesiastici presenti ieri pomeriggio nella Basilica di San Pietro, invece, quelli che hanno ricevuto la dignità cardinalizia, sembrano appartenere alla medesima visione del mondo. "Terra, casa e lavoro" è il triplice insegnamento del pontefice argentino. I diritti che devono essere sempre garantitì erga omnes. I dieci, come tanti altri alti ecclesiastici, ne condividono le istanze, con qualche particolarità. Il vertice dei vescovi europei ora è un cardinale. Il gesuita belga Hollerich si era già fatto notare durante la scorsa campagna elettorale per le europee per via delle sue continuative critiche al populismo-sovranista. Pure il cardinale Zuppi, l'arcivescovo bolognese che ieri è stato l'unico italiano ad essere stato elevato, condivide il fatto che gli "indipendentisti" non facciano "il bene del Paese". Tra coloro che hanno esultato quando l'alto ecclesiastico nativo di Roma è divenuto cardinale, vale la pena nominare il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti. Ma Monsignor Matteo Maria Zuppi è anche quello che ha aperto a una pastorale Lgbt, scrivendo anche introduzione al libro sul tema di un altro gesuita, James Martin, che Papa Francesco ha ricevuto in udienza pochi giorni fa. Qualche elemento accomunante, insomma, c'è. Per quanto il Conclave rimanga un'assise complessa da colorare mediante cromatismi ideologici. Del pensiero relativo all'accoglienza dei migranti è quasi futile parlarne: l'immagine plastica è quella del neo cardinale canadese Michael Czerny, che ha optato per un crocifisso cardinalizio fatto di legno derivante da un'imbarcazione con a bordo migranti che avevano individuato Lampedusa quale meta. Ogni cardinale ha un crocifisso appeso al collo. Ma ogni cardinale ha anche uno stemma, che svolge la funzione di traccia dell'opera pastorale. In quello di Czerny, come questa pagina Facebook ha testimoniato, spicca un barcone migratorio. Torniamo per un secondo a Jean Claude Hollerich. Le sue dichiarazioni di ieri hanno interessato ancora l'agone della politica. Il neo cardinale, stando a quanto si apprende dall'Agi, ha rimarcato la necessità di"salvaguardare la democrazia, altrimenti i populismi e le loro promesse false torneranno". Siamo dinanzi la costante della sua Weltanschauung. Se è vero che in Vaticano esistono correntisimi, quindi, questo può essere definito il concistorio più progressista tra quelli che hanno avuto luogo in questi sei anni e mezzo. Se dovessimo contare alla maniera di un calcolo elettorale, scopriremmo che il Papa della Chiesa cattolica non ha i due terzi del sacro collegio, quelli che servono per l'elezione di un Papa, ma supera il 50% del totale per porporati creati, ben 67. E nessuno può dire che quello di ieri sia stato l'ultimo concistoro convocato dall'argentino.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 6 ottobre 2019. È stato definito il conclave più a immagine e somiglianza di Francesco. In chiave politica hanno parlato del conclave più «avanzato», nel senso di progressista, mai realizzato. Certamente i nuovi cardinali creati ieri dal Papa sono caratterizzati in gran parte dall' essere pastori in «uscita», tra cui spiccano esperti di dialogo con l' islam e porpore impegnate nell' accoglienza dei migranti. Le parole di Francesco nella celebrazione di ieri hanno fatto un chiaro riferimento all' importanza di andare a cercare «gli scartati» come faceva Gesù: il Papa desidera cardinali capaci di riconoscersi oggetto della compassione di Dio e quindi, a loro volta, capaci di autentica compassione verso i fratelli. Anche l' indirizzo di saluto rivolto a Francesco dal neo cardinale Angel Ayuso Guixot, 67 anni, da maggio presidente del pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, insiste sul mantra del pontificato. «Lei, Santo Padre, con la sua instancabile opera», ha detto, «ci ha più volte invitato ad essere una Chiesa in "uscita", ad andare alle periferie esistenziali, a camminare sulla strada del dialogo ecumenico ed interreligioso». Il limite di 120 cardinali elettori, fissato nel 1973 da papa Paolo VI, ieri è stato superato portando il numero di elettori a 128 e per la prima volta i cardinali creati da Francesco saranno la maggioranza assoluta. Sono, infatti, 67 gli elettori creati in questi sei anni di pontificato in sei concistori: uno all' anno. Il papa argentino plasma il collegio cardinalizio, come ha ricordato in una recente intervista a Religion digital un fedelissimo di papa Bergoglio, il cardinale tedesco Walter Kasper, che ha detto: «Si ha l' impressione che con le nomine al cardinalato, ciò che il Papa vuole è assicurare la sua successione». Una blindatura che secondo Kasper non ammette ritorni a un passato definito «imperiale» e che il popolo non accetterebbe perché, sono ancora parole del teologo tedesco, «vuole un Papa normale e umano». Una figura chiave per comprendere la nuova infornata di cardinali è rappresentata dal gesuita slovacco-canadese Michael Czerny, 73 anni, dal 2016 sottosegretario della sezione migranti del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Oltre ad aver collaborato alla stesura dell' enciclica «verde» di Francesco, la Laudato sii, è anche uno dei segretari speciali del Sinodo panamazzonico che inizia oggi in Vaticano. Ecco incarnati tutti i temi più caratteristici del pontificato, non a caso nello stemma cardinalizio di Czerny campeggia un inusuale barcone carico di migranti. Il neo porporato ha twittato una foto della sua croce pettorale che indossa da venerdì, quando è stato ordinato vescovo: «Il legno della croce proviene da una barca utilizzata per attraversare il mare mediterraneo ed arrivare a Lampedusa da parte dei migranti. La targa dietro riporta la parola Suscipe, che significa ricevere». Il suo confratello gesuita Antonio Spadaro, direttore della Civiltà cattolica, e super consigliere del Papa, ha subito rilanciato sullo stesso social con un bel primo piano della croce e ha ribadito il messaggio, se per caso non fosse abbastanza chiaro: «Il legno della croce è legno da Lampedusa». L' altro gesuita creato cardinale è l' arcivescovo di Lussemburgo, monsignor Jean-Claude Hollerich, 61 anni, che appena arrivato a Roma venerdì si è fatto immortalare su Instagram a tavola con Luca Casarini, l' ex no global, Beppe Caccia e don Mattia Ferrari, tutti impegnati nella Ong Mediterranea saving humans, nata nell' ottobre 2018 con lo scopo più o meno diretto di aggirare gli ostacoli dei decreti Salvini e raccogliere migranti dai barconi nel Mediterraneo per portarli in Italia. Le parole del neo cardinale a commento della tavolata saranno piaciute a Nichi Vendola e al deputato di Leu Erasmo Palazzotto che hanno fatto da garanti del prestito che ha permesso la nascita della Ong. «Abbiamo discusso di alcune importanti questioni relative alla crisi migratoria», ha commentato sua eminenza Hollerich, «e abbiamo discusso per molte ore del loro duro lavoro in mare. Ora voglio solo dire: grazie per tutto quello che state facendo! State davvero facendo il lavoro del Signore. Sono commosso dalle vostre storie e dalla vostra esperienza. Luca, Beppe, Don Mattia: potete sempre contare su di me! Continuate la buona battaglia! Dio vi benedica!». L'unico italiano creato cardinale elettore è l' arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi, arrivato a Roma in treno accompagnato da molti bolognesi, tra cui Romano Prodi che del neo porporato cresciuto nella Comunità trasteverina di S. Egidio è da sempre un grande «tifoso». Quando Zuppi da Roma arrivò a Bologna per succedere a Carlo Caffarra, Prodi non esitò a rallegrarsi in modo eloquente. Non è un segreto per nessuno che parte della diocesi di Bologna con Giacomo Biffi prima, e con Caffarra poi, avesse un po' sofferto la presenza di due cardinali non molto in sintonia con alcuni figli spirituali di don Giuseppe Dossetti. Zuppi, reduce dalla mezza fake news del tortellino al pollo, ha festeggiato venerdì il patrono della città felsinea con un' omelia centrata sul concetto di «accoglienza». Gli altri cardinali elettori vengono dalle periferie geografiche, c' è il vescovo di Rabat in Marocco, monsignor Lopez Romero, il vescovo dell' Avana, Juan de La Caridad García Rodríguez, il congolese Fridolin Ambongo Besungu, l' arcivescovo di Jakarta, Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, e il guatemalteco Ramazzini Imeri. Creato cardinale anche l' archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, monsignor José Tolentino Medonça, teologo portoghese che ha predicato gli esercizi spirituali al Papa e che pare essere un ammiratore di suor Maria Teresa Forcades, la benedettina spagnola con simpatie femministe, queer e aperta persino all' aborto.

"In Vaticano complotto contro Papa Francesco, vogliono nuovo conclave": l'accusa del cardinale Kasper. (reuters). Il grande elettore di Bergoglio, ex responsabile dei rapporti ecumenici, denuncia in un'intervista alla tv tedesca il clima di ostilità contro il pontefice, con persone che strumentalizzano lo scandalo pedofilia, scrive Paolo Rodari il 18 gennaio 2019 su "La Repubblica". "Ci sono persone che semplicemente non amano questo pontificato. Vogliono che finisca il prima possibile per avere quindi, per così dire, un nuovo conclave. Vogliono anche che vada in loro favore, che abbia un risultato che si adatti alle loro idee". Il cardinale Walter Kasper non è una personalità di secondo piano nel piccolo ma variegato mondo vaticano. Ex responsabile dei rapporti ecumenici, è stato uno dei grandi elettori di Francesco nel conclave del 2013. Da sempre vicino a una Chiesa tedesca che postula la necessità di demitizzare il centralismo romano, Kasper è fine teologo e profondo conoscitore delle dinamiche interne all'orbe cattolico. Per tutto questo la sua denuncia non è secondaria: i nemici del Papa, dice in sostanza, sognano una nuova convocazione del collegio cardinalizio per mettere la parole fine su quello che a posteriori sarà ricordato come uno dei pontificati più rivoluzionari della storia, la dottrina di sempre calata caso per caso nelle sofferenze dell'uomo. Per Kasper il piano è chiaro: gli oppositori di Francesco puntano ad arrivare a un cambio di leadership - non ha caso l'ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò ha chiesto espressamente "le dimissioni" del Pontefice - usando dell'attuale crisi degli abusi sessuali dei preti. È su Francesco che vogliono addossare la colpa degli insabbiamenti, seppure questi abbiano radici lontane. Kasper parla all'interno di "Report München", un programma trasmesso dall'emittente statale tedesca ARD che include anche interviste al cardinale americano Raymond Burke e alla vittima di pedofilia irlandese Marie Collins. Il porporato tedesco sostiene che ci sono settori nella Chiesa che stanno approfittando della crisi degli abusi sessuali come piattaforma per far fuori Francesco. Burke è stato uno dei quattro prelati che ha scritto e pubblicato i cinque "dubia" sull'esortazione apostolica post-sinodale di Francesco del 2016, Amoris Laetitia, che ha aperto cautamente la porta alla possibilità che i cattolici divorziati e risposati ricevano la comunione. In una lettera del 26 agosto 2018, pubblicata l'ultimo giorno del viaggio di Francesco a Dublino, Viganò accusò Francesco di aver ignorato le accuse di cattiva condotta mosse contro l'ex-cardinale Theodore McCarrick, attualmente sotto inchiesta per tre accuse di abuso di minori, e ha chiesto le dimissioni del Pontefice. Su ARD Kasper dice che gli oppositori del Papa stanno usando una strategia "inappropriata", cercando di trasformare la discussione sulla questione degli abusi "in una discussione su Papa Francesco". Si tratta, a suo dire, di "un abuso di abuso". E ancora: "Questo distoglie l'attenzione dal vero problema, e questa è la parte peggiore".

NUOVA PUNTATA DELLA SERIE MONSIGNOR VIGANÒ VS BERGOGLIO. Salvatore Cernuzio per La Stampa l'11 giugno 2019. Il Papa che mente su McCarrick. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che hanno commesso anche loro «errori» sul caso dell’ex arcivescovo di Washington perché sono «esseri umani», mentre Francesco dovrebbe dimettersi. Lui costretto ad un auto-esilio dopo aver accusato la «mafia gay» regnante in Vaticano. Nuovi documenti pieni di rivelazioni. Gli ingredienti che hanno condito la saga di monsignor Carlo Maria Viganò ci sono tutti nell’intervista che l’ex nunzio negli Usa ha rilasciato oggi al Washington Post. Non una intervista nel verso senso del termine, ma un epistolario lungo due mesi condotto via mail (8mila parole in risposta a 40 domande) tra i due giornalisti Chico Harlan e Stefano Pitrelli e l’arcivescovo che ha rifiutato di incontrarli di persona. Dalla pubblicazione del suo clamoroso dossier dell’agosto 2018 in cui metteva in stato d’accusa il Pontefice, non è chiaro per quali particolari motivi, Viganò ha scelto infatti di vivere nascosto in un rifugio segreto dal quale invia, ciclicamente, lettere e comunicati. Sono numerose le dichiarazioni rilasciate in questi mesi, sempre tramite la consueta rete di siti e blog tradizionalisti che hanno contribuito alla diffusione del suo memoriale, con cui l’arcivescovo si ritaglia un ruolo da protagonista della Chiesa o commenta le notizie correnti. L’ex nunzio, che - come ricorda il quotidiano statunitense - era sempre in prima fila ad eventi della Chiesa conservatrice o marce pro-life, non appare in pubblico da una decina di mesi, contatta la gente tramite Skype con un account diverso dal suo nome e dice di essere diventato «più attento a chi incontro e a cosa dico». Ai due giornalisti che gli ponevano domande personali rifiuta di rispondere perché, spiega, sono «irrilevanti per i gravi problemi della Chiesa». «La mia vita è abbastanza normale», scrive in una mail, e in un’altra si definisce un «anziano» che «apparirà tra poco davanti al Buon Giudice». Viganò taglia corto anche sullo scandalo di corruzione che, grazie ad un’inchiesta condotta proprio dal Post, vede protagonista il vescovo di Wheeling in West Virginia, Michael J. Bransfield, che avrebbe elargito grosse somme di denaro della diocesi come «regali» a vescovi e cardinali per assicurarsi la loro protezione. Nella lista figura anche monsignor Carlo Maria Viganò, il quale spiega ora che sarebbe stato un affronto rifiutare del denaro che ha poi donato in beneficenza. L’ex rappresentante del Papa negli Usa, invece, si sofferma a lungo sulle dichiarazioni del Papa alla tv messicana Televisa, in cui affermava di non sapere nulla dei crimini di McCarrick, altrimenti avrebbe agito. Viganò – che afferma di essere stato proprio lui ad informare Bergoglio, nel 2013, delle malefatte dell’allora pastore di Washington - si dice «immensamente triste» per il fatto che Francesco «ha mentito palesemente al mondo intero»: «Come si può dimenticare tutto questo, specialmente un Papa?». Finora non ci sono documenti in grado di comprovare tali affermazioni, così come non ci sono prove evidenti che confermino l’altro leitmotiv dei documenti dell’ex nunzio, ovvero il fatto che Papa Francesco fosse a conoscenza e avesse quindi ignorato le sanzioni imposte segretamente da Benedetto XVI a McCarrick. Indicazioni come il non apparire in pubblico ed evitare viaggi che l’ex cardinale aveva sistematicamente ignorato già sotto il pontificato di Ratzinger. «La verità verrà fuori» assicura Viganò, lasciando intuire di aver in mano ancora altri documenti ma che «non è ancora arrivato il momento per me di rilasciare qualcosa» e invitando invece le gerarchie vaticane a rendere pubblica la documentazione nei loro archivi «supponendo che non l’abbiano ancora distrutta». «I risultati di un’indagine onesta» della Santa Sede - annunciata dal Vaticano ad ottobre e ancora in corso, come confermato recentemente dal cardinale Parolin - «sarebbero disastrosi per l’attuale papato», afferma. Certo, ammette Viganò (forse per la prima volta), uno studio così «approfondito» potrebbe danneggiare la reputazione anche dei precedenti Pontefici, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. È sotto i loro pontificati, infatti, che McCarrick, di cui la Santa Sede - stando alle dichiarazioni dello stesso Viganò - conosceva fatti e misfatti, ha vissuto un’ascesa che lo ha portato a presiedere l’arcidiocesi di Washington, divenendo una delle figure ecclesiali più influenti negli Usa e a Roma, grazie anche alla sua “Papal Foundation” dispensatrice di importanti donazioni. «Questo», afferma Viganò, «non è una buona ragione per non cercare la verità». E in ogni caso «Benedetto XVI e Giovanni Paolo II sono esseri umani, e possono anche aver commesso errori. Se lo hanno fatto, noi vogliamo conoscerli. Perché dovrebbero rimanere nascosti? Tutti possiamo imparare dai nostri errori». La stessa benevolenza sembra non valere per il Pontefice regnante: Viganò dice di aver ammorbidito, «a posteriori», l’invito a dimettersi, tuttavia continua a valutarla come opzione nel caso in cui il Papa «rifiuti di ammettere i suoi errori e chiedere perdono». Nell’intervista l’ex diplomatico difende il suo operato: «Il silenzio mi renderebbe complice degli abusatori e causerebbe altre vittime». Poi torna a battere il chiodo sulla questione omosessualità della Chiesa, ribadendo la controversa teoria che sarebbe questa la radice di gran parte degli abusi del clero. Sì, ci sono studi che confermano che non ci sia alcun nesso tra orientamento sessuale e probabilità di commettere abusi, come ricordato anche nel Summit di febbraio in Vaticano. Ma ci sono anche «prove schiaccianti», secondo Viganò, ovvero il fatto che l’80% delle vittime di abusi sia di sesso maschile, intorno ai 14 anni di età. La crisi degli abusi sessuali sarebbe «molto meno grave» se il «problema dell’omosessualità nel sacerdozio fosse onestamente riconosciuto e adeguatamente affrontato», afferma monsignor. E aggiunge: «È stupefacente che la parola “omosessualità” non sia apparsa una sola volta, in nessuno dei recenti documenti ufficiali della Santa Sede». Evidentemente, dice, è ancora viva e potente quella «mafia gay» tra le mura apostoliche, che in passato «ha sabotato ogni sforzo di riforma». 

Papa Francesco, il durissimo attacco di Burke e tradizionalisti: islam e gay, accuse-terremoto in Vaticano. Libero Quotidiano il 10 Giugno 2019. Ancora una volta, scende in campo il cardinale Raymond Leo Burke, esponente di spicco del "fronte tradizionalista" che in Vaticano si oppone, di fatto, al pontificato di Papa Francesco. Burke e il fronte tradizionalista hanno infatti diffuso un testo che mira a correggere quelli che bollano come errori della Chiesa cattolica di oggi. L'impronta di Bergoglio non viene direttamente chiamata in causa, ma i riferimenti appaiono evidenti. L'impressione è che Burke e i suoi fedelissimi abbiano volto rimarcare, ancora una volta, la preoccupazione per la "confusione imperante" nel Vaticano di oggi. Il documento, diffuso integralmente sul sito cdi Corrispondenza romana, mette al centro la visione che la dottrina cattolica dovrebbe avere sul tema delle "istanze Lgbt". Chi ha firmato la dichiarazione, in buona sostanza, richiama il Vaticano su più fronti citando il Catechismo. Burke e gli altri firmatari insistono sulla necessità di chiarezza che deriva dall'apertura della Chiesa al mese dell'orgoglio gay. Si pensi a quanto fatto da James Martin, gesuita e progressista, oltre che consultore del Vaticano, il quale su Twitter ha augurato "buon mese del Pride" alla comunità Lgbt. Il vescovo Athanasius Schneider e l'insieme di ecclesiastici che sostengono la dichiarazione mettono nero su bianco che "le unioni che hanno il nome di matrimonio senza possederne la realtà, non possono ricevere la benedizione della Chiesa, poiché ciò è contrario alla legge naturale e divina". Nel documento, poi, si parla del rapporto tra cattolici e islam: "I musulmani e tutti quelli che non hanno fede in Gesù Cristo, Dio e uomo, anche se monoteisti - sottolinea il fronte tradizionalista - non possono rendere a Dio la stessa adorazione dei cristiani, cioè il culto soprannaturale in Spirito e Verità di quanti hanno ricevuto lo Spirito di adozione filiale". Non è quindi possibile, secondo Burke e gli altri, una equiparazione gerarchica tra le due confessioni: critica che in questo caso sembra direttamente rivolta a Francesco. Il testo, assai critico, viene valorizzato anche dalla firma del cardinal Janis Pujats, che è l'ex arcivescovo di Riga, e di altri due arcivescovi dell'Europa dell'Est. Nel documento fanno capolino anche altre questioni dottrinali che potrebbero essere stravolte, o quantomeno modificate, nel corso del prossimo Sinodo che si terrà in Amazzonia: dal celibato dei consacrati al fatto che, ad oggi, non possa esistere alcuna forma di diaconato femminile.

Quello "spin doctor" del Papa che spinge la Chiesa a sinistra. Padre Antonio Spadaro è il vero spin doctor del Papa. Il gesuita, direttore de La Civiltà Cattolica, promuove una Chiesa "in uscita" e "ospedale da campo", scrive Giuseppe Aloisi, Sabato 19/01/2019, su "Il Giornale".  Il Papa - dicono i ben informati - ha uno "spin doctor". Un ecclesiastico che, stando ai racconti, muove le fila da dietro, promuovendo istanze progressiste e facendo sì che la Chiesa cattolica non si dimostri troppo distante dalle "cose del mondo". Si chiama padre Antonio Spadaro, gesuita, dirige La Civiltà Cattolica, ha da poco pubblicato un manifesto che sembra preludere alla discesa in campo di un "partito dei cattolici" e oggi, Il Foglio, ne ha presentato un ritratto davvero dettagliato. Spadaro non piace ai tradizionalisti. Vale subito la pena sottolinearlo. I "nemici del Papa", come li chiama il cardinale Walter Kasper, che ha in qualche modo ipotizzato l'esistenza di un complotto teso a far dimettere il Santo Padre, hanno spesso annoverato il padre gesuita all'interno dell'elenco dei comunicatori vaticani, quelli che costituirebbero un gruppo posto a presidio della "rivoluzione - loro la intendono in senso modernista - bergogliana". Nella stessa elencazione viene citato spesso pure il vaticanista Andrea Tornielli, neo incaricato in Santa Sede. Proprio padre Spadaro, del resto, avrebbe avuto un ruolo cruciale per la nomina di Andrea Monda a direttore de L'Osservatore Romano. Bergoglio, in vista di un anno che si annuncia complesso, sta rivisitando la squadra che lo accompagnerà da qui in futuro. Spadaro non si muove: per Francesco è una certezza. Ma perché i conservatori sono soliti osteggiare - almeno in termini dottrinali - quanto avanzato dall'ecclesiastico appartenente alla Compagnia di Gesù? Il direttore del La Civiltà Cattolica - basta leggere quello che scrive per comprenderlo - è un sostenitore della "Chiesa in uscita" anche detta "ospedale da campo". Un'istituzione ecclesiastica sempre meno attenta alle questioni spirituali e sempre più incline a occuparsi dei bisogni delle periferie. Una concezione pragmatica, che per i crtici più aspri nasconde una certa involuzione culturale. Quasi come se Spadaro volesse trasformare i meccanismi curiali e ripensare le priorità di base, rendendo la Chiesa cattolica qualcosa di molto simile a una Ong. Il cardinale Mueller si è spesso scagliato conto questa visione. Il padre gesuita, in sintesi, vorrebbe un'Ecclesia spostata a sinistra. Il quotidiano diretto da Cerasa ha evidenziato come, tra gli amici del direttore, ci sia pure Martin Scorsese. Quello di "Taxi Driver", "Casinò" e "Kundun". Ma non bisogna rimanere di stucco: il Vaticano, sotto questo pontificato, ha iniziato a utilizzare i media in modo assiduo. Il fine è quello di diffondere la pastorale del vescovo di Roma, ma dietro a questa prassi rinnovata ci sarebbe, ancora una volta, la regia del nostro. Infine la geopolitica: si dice che i gesuiti siano spesso andati a braccetto con il potere, che la loro stessa missione, pellegrina e globalizzante, non possa che adagiarsi su Cesare, inteso come colui che si occupa della cosa pubblica. Bene, Spadaro è uno dei sostenitori più acclarati dell'accordo provvisorio stipulato tra Repubblica popolare cinese e Santa Sede per la nomina dei vescovi. Andare verso Cesare, appunto. Se per il cardinale Zen il patto stipulato rappresenta un tradimento, per i "guardiani della rivoluzione" costituisce un'occasione di riconciliazione piena per i cattolici cinesi. L' "ospedale da campo" che abbraccia il mondo e magari - insistono i conservatori - lo coccola troppo, al punto di far sparire le differenze - considerate necessarie - tra Chiesa cattolica e modernità.

Papa Francesco: “Xenofobia una malattia. Sarà sconfitta da potenti invasioni”. Ludovica Colli su Il Primato Nazionale l'11 Settembre 2019. Papa Francesco, sul volo di ritorno dall’Africa, torna a lanciare uno dei suoi allarmi preferiti: quello contro la xenofobia. Stavolta l’ha definita una malattia e l’ha messa in correlazione con il populismo. E circa le sue posizioni sui temi sociali e politici, ci tiene a precisare che non è “comunista”, perché dice “le stesse cose di Giovanni Paolo II”. “Le xenofobie tante volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici. Ho detto la settimana scorsa o l’altra che delle volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34“. Così il Pontefice risponde ad una domanda su cosa nel pensa del problema dell’educazione dei giovani in Africa. “Si vede – ha aggiunto Bergoglio – che c’è un ritornello in Europa, ma anche in Africa. Io ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia. Ma non è un problema solo dell’Africa, è una malattia umana, come il morbillo. E’ una malattia, ti viene, entra in un Paese, entra in un continente. E mettiamo muri, no? E i muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangono dentro i muri rimarranno soli, e alla fine della storia sconfitti per delle invasioni potenti“. Il modo di non rimanere sconfitti è l’accoglienza, sembra essere il ragionamento del Pontefice. “Ma la xenofobia è una malattia: una malattia ‘giustificabile’, tra virgolette, non la purezza della razza, ad esempio, per nominare una xenofobia del secolo scorso”.

“Non sono comunista, dico le stesse cose di Giovanni Paolo II”. Alla domanda se tema uno scisma nella Chiesa Usa, Papa Bergoglio ha replicato che è “il Concilio Vaticano II che ha creato queste cose, forse lo stacco più conosciuto è quello di Lefevbre, sempre c’è l’azione scismatica nella Chiesa”. Secondo il Pontefice, “uno scisma è sempre uno stato elitario, dall’ideologia staccata dalla dottrina, una ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca, e diventa dottrina, tra virgolette, ma per un tempo”. Per evitare gli scismi, “io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o l’altro Papa o l’altro Papa… Ad esempio. Le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. "Ma il Papa è troppo comunista, eh", entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sulla ideologia, lì c’è la possibilità di uno scisma”.

Amazzonia e biodiversità. Papa Bergoglio ha parlato anche dell’Amazzonia, prendendo posizioni che farebbero la gioia della piccola Greta e di tutti gli integralisti ambientalisti. I “governanti stanno facendo di tutto per l’Amazzonia?”, la domanda di alcuni giornalisti. “Alcuni più, alcuni meno”, la sua risposta. Ma il Pontefice ha sottolineato che “la lotta più grande è quella per la biodiversità. La difesa dell’ambiente naturale la portano avanti i giovani che hanno una grande coscienza, perché dicono: Il futuro è nostro”. Ludovica Colli

I DANNI (EVITABILI) DELLE INTERVISTE AEREE DEL PAPA. Matteo Matzuzzi per Il Foglio l'11 settembre 2019. Come sovente accade, e non per colpa dei giornalisti, le frasi ad effetto che più resteranno dei viaggi papali sono quelle pronunciate quando i viaggi sono finiti. Con l'effetto – ed è su questo che forse in curia e a Santa Marta dovrebbero riflettere – di archiviare le spedizioni intercontinentali in poche ore, almeno a livello mediatico. Le frasi che restano sono quelle pronunciate in aereo, parlando a braccio con gli inviati che a Francesco pongono domande su tutto, dalla deforestazione in Africa ai vescovi invischiati in faccende di abusi sessuali e relative coperture (si ricordi il caso cileno). Il celeberrimo “Chi sono io per giudicare?” che gli valse la copertina della rivista gay The Advocate come uomo dell’anno 2013, rientra in questa casistica di massime aeree. Come quella dei figli e dei conigli nelle Filippine. Stavolta il Papa ha regalato perle anche all’andata, mentre si recava in Mozambico (poi tappe in Madagascar e alle Mauritius) quando ha detto che “è un onore essere attaccato dagli americani”, provocando un mezzo incidente che solo la saggezza e tempestività del direttore della Sala stampa vaticana, capace in poco tempo di precisare cosa il Pontefice volesse dire in realtà, e la generosa dose di edulcorante gettata da Vatican News che titolava la notizia “Il pregio di un rilievo”, hanno evitato. Al ritorno, Francesco ha parlato di scisma, argomento delicatissimo specie ora che gli americani conservatori non fanno mistero di non poterne più dell’attuale governo vaticano e i tedeschi progressisti minacciano ogni cosa minacciabile se le loro istanze non saranno accolte nei prossimi mesi. Scisma? “Nella chiesa – ha detto il Papa – ce ne sono stati tanti. Sempre c’è l’azione scismatica nella chiesa. E’ una delle azioni che il Signore lascia alla libertà umana. Ma io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Poi mi viene da pensare: è il popolo di Dio a salvare dagli scismi, perché gli scismatici sempre hanno una cosa in comune, si staccano dal popolo e dalla fede del popolo di Dio. Il popolo Dio sempre aggiusta e aiuta”. Uno scisma, ha aggiunto Bergoglio, “è sempre uno stato elitario, ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano gli scismi. Ma non ho paura. Io rispondo alle critiche. Ad esempio le cose sociali che dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, io copio lui. Oppure, la primazia di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio, la morale dell’ideologia, per così dire pelagiana, che ti porta alla rigidità”. Le critiche, poi, sono le benvenute: “A me piace quando si ha l'onestà di dirle. Non mi piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, magari ti sorridono con tutti i denti e poi ti pugnalano alle spalle. La critica è un elemento di costruzione e può avviare un dialogo. Invece la critica delle pillole di arsenico è un po’ buttare la pietra e nascondere la mano”, si legge nella trascrizione pubblicata da Avvenire. Dopo sei anni e mezzo di pontificato, il momento di maggiore interesse di un viaggio papale (accade così nelle redazioni dei giornali, è sufficiente notare la copertura sul cartaceo e sul web) è l'intervista conclusiva. Fatta con il Papa in piedi, stanco, tra turbolenze e vassoi della cena in arrivo. Domande a raffica su tutto lo scibile che in qualche modo c'entri con la chiesa: dal destino del vescovo Barros, con Francesco che in buona fede lo difende – salvo poi venire avvertito che le cose non stanno proprio come gli erano state raccontate – al destino delle bottiglie di plastica monouso all'interno del territorio vaticano. Se c'è un Papa che non avrebbe bisogno delle interviste ad alta quota per far conoscere il suo pensiero, questi è proprio Francesco. Che ha dato dimostrazione di sapere padroneggiare (e bene) la scena e altre modalità di comunicazione. Con qualche scoramento: quando ad esempio tuona contro il gender – “Uno sbaglio della mente umana” – e sui giornali non si legge neppure mezzo trafiletto.

Papa Francesco: «Per me è un onore  che gli americani mi attacchino». Pubblicato mercoledì, 04 settembre 2019 da Gian Guido Vecchi su Corriere.it. «Per me è un onore che mi attacchino gli americani». Sul volo che lo porta in Mozambico, Francesco sorride mentre soppesa tra le mani un libro dalla copertina a stelle e strisce e il titolo eloquente: Comment l’Amérique veut changer de Pape, ovvero «Come l’America vuole cambiare Papa». Scritto dal giornalista Nicolas Senèze, del quotidiano cattolico La Croix, il libro esce oggi in Francia e ricostruisce le manovre condotte nell’ultimo anno dalla galassia dell’estrema destra cattolica Usa per cercare di spingere il Papa alle dimissioni e orientare un nuovo conclave. L’autore ne ha regalato una copia a Bergoglio che lo considera con interesse, «ah eccolo, mi dicevano che ancora non si trovava», e poi lo consegna ai collaboratori perché glielo custodiscano, «questa è una bomba!». Quelle di Francesco sono esclamazioni, mentre cammina sereno in fondo all’aereo e saluta uno ad uno i giornalisti che lo seguono nel viaggio. Ma certo la frase sugli americani suona molto dura, tanto che di lì a un’ora il portavoce vaticano Matteo Bruni precisa: «In un contesto informale, il Papa ha voluto dire che considera sempre un onore le critiche, particolarmente quando vengono da pensatori autorevoli, e in questo caso da una nazione importante». È comunque notevole l’attenzione del Papa per una questione divenuta evidente a partire dalla lettera dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio negli Usa, che nell’agosto dell’anno scorso arrivò a chiedere le dimissioni di Francesco, un attacco deliberato e organizzato sul tema della lotta alla pedofilia. Il testo venne diffuso da una rete di blog conservatori tra Usa e Italia e fu solo l’inizio. Il libro di Senèze mette in fila tutti gli attacchi dell’ultimo anno e ne mostra la matrice comune in un mondo americano non molto consistente ma molto ben finanziato e rappresentato da personaggi come Steve Bannon. Sono diverse le cose che alla «galassia» dell’ultradestra danno fastidio, nel magistero del pontefice argentino: a cominciare dalla Chiesa «povera e per i poveri», le critiche al neoliberismo e all’«economia che uccide», la denuncia del traffico di armi che prospera sulle guerre, il dialogo con la Cina o la difesa dell’ambiente, dall’enciclica Laudato si’ al prossimo Sinodo sull’Amazzonia. Lo stesso viaggio di sei giorni nell’Africa subsahariana, del resto, dispiegherà parte di questi temi. Francesco è atterrato nel tardo pomeriggio a Maputo; venerdì volerà in Madagascar e lunedì prossimo raggiungerà le isole Mauritius, prima di rientrare a Roma martedì. In Mozambico, Francesco è arrivato a sostenere il processo di pace iniziato con l’accordo del ’92 ma visiterà anche un centro per bambini di strada e un centro medico per la cura dei malati di Aids, e parlerà della crisi climatica e della rapina delle risorse, in un Paese colpito dalla deforestazione e devastato dai cicloni. In aereo, il Papa ha invitato a pregare per le vittime degli uragani nelle Bahamas.

Il Papa: «Uno scisma  in America? Non lo temo  ma prego per evitarlo». Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Gian Guido Vecchi su Corriere.it. L’aereo sorvola il Kilimangiaro quando Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito in Mozambico, Madagascar e Mauritius. All’andata, nel commentare un libro sugli attacchi contro di lui dell’ultradestra cattolica americana, aveva esclamato: per me è un onore che mi attacchino. Ora risponde sereno, ma secco: «Io prego che non ci sia uno scisma, ma non ho paura, nella Chiesa ci sono stati tanti scismi». E parla, tra l’altro, delle «xenofobie che tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici» («A volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34»), delle «guerre che non risolvono niente», di devastazioni ambientali e corruzione, della denatalità europea«per attaccamento al benessere».

Santità, negli Usa ci sono forti critiche e alcune persone a lei vicine hanno parlato di un complotto contro di lei. C’è qualcosa che questi critici non capiscono dal suo pontificato, o che lei ha imparato dalle critiche?

«Le critiche aiutano sempre, quando uno riceve una critica subito deve fare autocritica, e dire questo è vero, non è vero…Delle critiche io vedo sempre i vantaggi. A volte ti arrabbi, ma i vantaggi ci sono. Le critiche non sono soltanto degli americani ma un po’ dappertutto, anche in Curia, almeno quelli che le fanno hanno l’onestà di dirlo. E me piace questo, non mi piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, ti fanno un sorriso che ti fanno vedere i denti e poi ti pugnalano da dietro. Questo non è leale, non è umano. La critica vera è un elemento di costruzione. Invece la critica delle pillole di arsenico è un po’ come buttare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi che non vogliono sentire la risposta alla critica. Invece una critica leale, “io penso questo, questo, questo…”, è aperta alla risposta e costruisce, aiuta. Se dico “questo del Papa non mi piace”, faccio una critica e aspetto la risposta, vado da lui e parlo, scrivo un articolo e gli chiedo di rispondere. Questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non volere bene alla Chiesa, è andare dietro ad una idea fissa, cambiare Papa, cambiare stile, o fare uno scisma, questo è chiaro no? Una critica leale è sempre ben ricevuta, almeno da me».

Lei ha paura di uno scisma nella chiesa americana?

«Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Concilio Vaticano I e l’ultima votazione, quella sull’infallibilità, un bel gruppo se ne è andato, si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i veterocattolici per essere fedeli alla tradizione della Chiesa, poi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno l’ordinazione delle donne. Ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro ad un’ortodossia e pensavano che il Concilio avesse sbagliato. Anche il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefèbvre. Sempre c’è l’azione scismatica nella Chiesa, è una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi. Prego perché non ce ne siano, perché c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente, prego che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, a come ha incominciato la Chiesa: con tanti scismi, uno dietro l’altro, basta leggere la storia della Chiesa. Gli ariani, gli gnostici, i monofisiti, tutti questi… È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi, gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo, dalla fede del popolo di Dio. Quando al concilio di Efeso ci fu una discussione sulla maternità di Maria, il popolo - questo è storico - era all’entrata della cattedrale e quando i vescovi entravano per fare il concilio, stavano con i bastoni e glieli facevano vedere e gridavano, “Madre di Dio, Madre di Dio”. Come dicendo: se voi non fate questo, ecco cosa vi aspetta. Il popolo di Dio sempre aggiusta e aiuta. Uno scisma è sempre una situazione elitaria, dall’ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano gli scismi. Ma non ho paura. Io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o l’altro Papa o l’altro Papa… Ad esempio le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. “Ma il Papa è troppo comunista, eh ”! Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sulla ideologia lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è la ideologia, cioè la primazia di una morale asettica, sulla morale del popolo di Dio. La morale dell’ ideologia, così pelagiana, ti porta alla rigidità. E oggi abbiamo tante, tante scuole di rigidità dentro della Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che alla fine finiranno male. Quando voi vedrete cristiani, vescovi e sacerdoti rigidi, dietro di quello ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate da questi attacchi, perché stanno passando un problema, e dobbiamo accompagnarle con mitezza».

Cosa pensa del fenomeno della xenofobia in Africa?

«Ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia. Ma non è un problema solo dell’Africa, è una malattia umana, come il morbillo. È una malattia, ti viene, entra in un Paese, in un continente. E mettiamo muri, no? E i muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangono dentro i muri rimarranno soli e alla fine della storia saranno sconfitti da invasioni potenti. Ma la xenofobia è una malattia, “la purezza della razza”, ad esempio, per nominare una xenofobia del secolo scorso. Le xenofobie tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici. Delle volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello in Europa, ma anche in Africa. Anche voi in Africa avete un problema culturale che dovete risolvere. Io ricordo che ne ho parlato in Kenya: il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, di avvicinamento fra le diverse tribù per fare una nazione. Abbiamo commemorato il venticinquesimo della tragedia del Rwanda, poco tempo fa. Un effetto del tribalismo. Io ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi, di darsi la mano, e dire “No al tribalismo, no al tribalismo”, dobbiamo dire no. Anche questo anche è una chiusura e una xenofobia, una xenofobia domestica. Si deve lottare contro questo: sia alla xenofobia di un Paese con un altro, sia alla xenofobia interna».

E del problema dell’educazione dei giovani in Africa?

«L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane. Come ho detto a Strasburgo la madre Europa è quasi diventata la nonna Europa, è invecchiata. Stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Non so in quale Paese, ma è una statistica ufficiale del governo di quel Paese: nell’anno 2050 in quel Paese ci saranno più pensionati che gente che lavora. È tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Ho un’opinione personale: penso che la radice sia il benessere, attaccarsi al benessere. Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, fare turismo, un figlio è un rischio, non si sa mai… È un benessere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato in Colombia e a Cartagena: le persone che mi mostravano i bambini. Dicevano: questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale con una nonna che faceva vedere il bambino e diceva: questo è il mio trionfo. Voi avete la sfida di educare questi giovani. L’educazione in questo momento è prioritaria. Il primo ministro di Mauritius mi diceva che ha in mente la sfida di far crescere un sistema educativo per tutti, la gratuità del sistema educativo è importante perché ci sono centri di educazione di alto livello ma a pagamento. Ce ne sono ma occorre moltiplicarli perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi su salute ed educazione sono fondamentali».

Lei ha parlato con il presidente del Mozambico. Quali aspettative ha in relazione al processo di pace?

«Oggi si identifica il Mozambico con il lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e bassi, fino a quell’abbraccio storico. Mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare lo sforzo di aiutare che questo processo di pace vada a avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me. È stato un processo di pace molto lungo, perché ha avuto una prima tappa, poi una caduta, poi un’altra, con lo sforzo di capi di partiti contrari, per non dire nemici, di andare a trovarsi l’un l’altro, uno sforzo anche pericoloso, alcuni rischiavano la vita. Vorrei ringraziare tutto la gente che ha aiutato, dall’inizio, dal primo che ha iniziato in un caffè. In un caffè c’era gente che parlava e c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio – sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre – (Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna ndr) che ha iniziato il processo di pace lì. E poi ha continuato con l’aiuto di tanta gente di Sant’Egidio ed è arrivato a questo risultato. Non dobbiamo essere trionfalisti in queste cose. Il trionfo è la pace, non abbiamo diritto a essere trionfalisti perché la pace ancora è fragile nel Paese come nel mondo, è fragile e la si deve trattare “a pennellate”, come i bambini, con molta tenerezza, delicatezza, perdono, pazienza, per farla crescere e che sia robusta. Ma è il trionfo del Paese, la pace è la vittoria del Paese. E questo vale per tutti i Paesi che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Ho a cuore il tema della pace. Quando c’è stata la celebrazione alcuni mesi fa dello sbarco in Normandia ricordo che c’erano i capi dei governi a fare memoria dell’inizio della fine di una guerra crudele e di una dittatura anti umana e crudele come il nazismo e il fascismo: ma su quella spiaggia sono rimasti quarantaseimila soldati, eh! Il prezzo della guerra. Vi confesso: quando sono andato a Redipuglia ho pianto: per favore, mai più la guerra. Quando sono andato ad Anzio mi sentivo allo stesso modo. Dobbiamo lavorare con questa coscienza: le guerre non risolvono niente. Anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono l’umanità. Dovevo dire questa cosa davanti a un processo di pace sul quale prego perché vada avanti e mi auguro che resti forte».

In Madagascar ha parlato della crisi ambientale, come in Amazzonia…

«Esiste un inconscio collettivo per cui l’Africa va sfruttata. Noi dobbiamo liberare l’umanità da questo. E il punto più forte dello sfruttamento è l’ambiente naturale, la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa ho ricevuto i cappellani del mare. Nell’udienza c’erano sette ragazzi pescatori, mi hanno detto: “In alcuni mesi abbiamo recuperato quasi sei tonnellate di plastica”. L’intenzione di preghiera di questo mese è proprio la protezione degli oceani. In Vaticano abbiamo proibito la plastica. Poi ci sono i grandi polmoni dell’umanità. Uno in centro Africa, uno in Brasile, in tutta la zona amazzonica… E ci sono piccoli polmoni dello stesso genere. Bisogna difendere l’ecologia, la biodiversità che è la nostra vita, difendere l’ossigeno . La lotta più grande è quella per la biodiversità. La difesa dell’ambiente naturale la portano avanti i giovani che hanno una grande coscienza, perché dicono: “Il futuro è nostro… Col tuo fai quello che vuoi, ma non col nostro”. Cominciano a ragionare un po’ di questo. L’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono. Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. L’anno scorso, nell’estate, quando ho visto quella nave che navigava nel Polo Nord come se niente fosse ho sentito angoscia. E poco tempo fa abbiamo tutti visto la fotografia del funerale simbolico a un ghiacciaio che non c’era più, credo in Groenlandia».

I governi, a suo parere, stanno facendo tutto il possibile?

«Alcuni fanno di più, altri di meno. Alla base dello sfruttamento ambientale c’è una parola brutta brutta: la corruzione. Quando si considera la responsabilità sociale e politica come un guadagno personale. Pensiamo ai tanti sfruttati nelle nostre società, in Europa. Il caporalato non lo hanno inventato gli africani. E così la domestica pagata un terzo del dovuto, le donne ingannate e sfruttate e costrette alla prostituzione nel centro delle nostre città…Tutto questo è sfruttamento ambientale e anche umano, per corruzione».

Attualmente in Madagascar molti giovani vivono in una famiglia molto complessa, a causa della povertà i genitori sono molto occupati…

«In Madagascar il problema della famiglia è legato al problema della povertà. La mancanza di lavoro e anche allo sfruttamento, tante volte, nel lavoro. Quanti impedimenti no? Per esempio, nella cava di granito, coloro che vi lavorano guadagnano un dollaro e mezzo al giorno. Le leggi sul lavoro, le leggi che proteggono la famiglia, questo è fondamentale. E anche i valori familiari, che ci sono ma tante volte vengono distrutti per la povertà. Ieri in Mauritius, dopo la Messa, ho visto una bambina - aveva due anni, più o meno - che si era persa e piangeva perché non trovavano i genitori. E lì ho visto il dramma di tante bambini e giovani che perdono il legame familiare. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani. Questo è un dovere dello Stato».

Lei ha menzionato in un messaggio di ringraziamento il popolo delle Chagos (tenute dal Regno Unito anche dopo la fine della dominazione coloniale e rivendicate da Mauritius: Il Tribunale dell’Aja e l’Assemblea Onu hanno chiesto ai britannici la restituzione, ndr). Il primo ministro di Mauritius l’ha ringraziata per avere ricordato le sofferenze della popolazione Chagos, le cui isole sono occupate dalla Gran Bretagna. Oggi c’è una base militare Usa. Come si può aiutare il popolo delle Chagos a rientrare?

«Io vorrei ripetere la dottrina della Chiesa. Noi riconosciamo le organizzazioni internazionali e diamo loro la capacità di giudicare internazionalmente. Pensiamo per esempio al tribunale internazionale dell’ Aja o alle Nazioni Unite: loro parlano, e se siamo una umanità dobbiamo obbedire. È vero che non sempre le cose che sembrano giuste per tutta l’umanità saranno giuste alle nostre tasche, ma si deve obbedire alle istituzioni internazionali, per questo sono state create le Nazioni Unite e il Tribunale Internazionale. Perché quando c’è qualche lotta interna o tra i paesi, si va li a risolvere come fratelli civilizzati. Poi c’è un altro fenomeno – lo dico chiaro, ma non so se è un fenomeno del nostro caso - ed è quando arriva la liberazione di un popolo e lo Stato dominante deve andare via. In Africa ci sono state tante liberazioni, dalla Francia, la Gran Bretagna, il Belgio, l’Italia. Alcune liberazioni sono andate bene ma in tutti gli Stati che occupavano c’è sempre la tentazione di portarsi via qualcosa in tasca: sì, io dò la liberazione a questo popolo ma qualche briciola me la porto; per esempio, io concedo la liberazione al Paese ma dal pavimento in su, il sottosuolo rimane mio…Non so se è vero, è un esempio, ma sempre c’è questa tentazione e io credo che le organizzazioni internazionali debbano fare anche un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti quello che hanno fatto per quel paese e riconoscendo la buona volontà di andarsene, e aiutandoli, con libertà, con fratellanza. Ma è un lavoro culturale lento dell’umanità e in questo le istituzioni internazionali ci aiutano tanto e dobbiamo andare avanti, facendo forti istituzioni internazionali. Le Nazioni Unite, l’ Unione Europea siano più forti non nel senso del dominio ma della giustizia, fratellanza e unità. C’è un’altra cosa che vorrei approfittare di dire: oggi non ci sono colonizzazioni geografiche, almeno non tante, ma ci sono colonizzazioni ideologiche che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiarla e omogeneizzare l’umanità. La colonizzazione ideologica cerca cancellare l’identità degli altri per farli uguali. Arrivano con proposte ideologiche che vanno contro la natura e la storia e i valori di quel popolo, ma dobbiamo rispettare l’identità dei popoli, così cacciamo via tutte le colonizzazioni».

Secondo lei come sarà la comunicazione del futuro? Andrà un giorno in Spagna?

«Io avrei bisogno del pallone di cristallo, per rispondervi. Ci andrò in Spagna, spero, se vivo. Ma la priorità dei viaggi in Europa è: i Paesi piccoli, poi i più grandi. Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso come era, per esempio, la comunicazione quando io ero ragazzo, ancora senza tv. Con la radio, col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno e si vendeva di notte, con i volontari… Ciò che rimane come una cosa costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, un avvenimento, e distinguerlo dall’interpretazione. È importante che sia il fatto al centro e sempre accostarsi al fatto. Succede anche a noi, nella Curia: c’è un fatto, lo si racconta, ma viene abbellito, impreziosito, ognuno ci mette del suo, non con cattive intenzioni, ma la dinamica è questa. L’essenza del comunicatore è sempre riferire il fatto: il fatto è questo, la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo. Una volta mi raccontarono la storia di Cappuccetto Rosso, però ci aggiunsero l’interpretazione e così la storia finiva con Cappuccetto Rosso e la nonna che facevano un brindisi con il lupo. Insomma: l’interpretazione cambia il fatto».

Sappiamo che a lei non piace visitare dei Paesi durante le campagne elettorali. Eppure lo ha fatto in Mozambico a un mese dalle elezioni, essendo il presidente che l’ha invitata uno dei candidati.

«Non è stato uno sbaglio, è stata un’opzione presa liberamente. Perché la campagna elettorale che comincia in questi giorni passava in secondo piano di fronte al processo di pace. L’importante era la visita per aiutare a consolidare il processo di pace. E questo è più importante di una campagna che ancora non era ancora iniziata. Cominciava nei giorni scorsi, alla fine della mia visita. E poi ho potuto salutare gli avversari politici, per sottolineare che l’importante era quello e non fare il tifo per questo presidente, che io non conosco e non so come la pensa e non so neppure come la pensano gli altri. Per me era più importante sottolineare l’unità del Paese. Ma quel che ha detto è vero: dobbiamo staccarci dalle campagne dei vari Paesi».

Il Papa sul volo di ritorno dall'Africa: "Non ho paura di uno scisma nella Chiesa". Bergoglio torna sulle critiche che gli rivolgono sul suo pontificato: "Prego che non ci siano divisioni". E sulla xenofobia: "È una malattia umana, ma chi costruisce muri rimane solo". Paolo Rodari il 10 settembre 2019 su La Repubblica. "Prego che non ce ne siano, ma non ho paura di uno scisma nella Chiesa. È una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana". Francesco sul volo di ritorno da Antananarivo verso Roma a conclusione del suo viaggio in Africa torna sulle critiche che alcuni settori, "anche all'interno della curia" rivolgono al suo pontificato - "sono pillole d'arsenico" che "ti pugnalano da dietro", afferma senza paura - e sulla possibilità che una parte dei fedeli si stacchino per fondare una loro Chiesa. Uno scisma, dice, è "una situazione elitaria, un'ideologia staccata dalla dottrina". Molte critiche sono scatenate dalle sue parole in materia sociale, ma, spiega, "quello che dico io lo diceva Giovanni Paolo II, io copio lui". Mentre, rivela, "oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro alla Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che finiranno male". E, in ogni caso, continua, quando si vedono "cristiani, vescovi, sacerdoti, rigidi", significa che "dietro ci sono dei problemi. Non c'è la sanità del Vangelo". La conferenza stampa sul volo di ritorno dall'Africa è occasione per il Papa per tornare su tanti argomenti caldi. Fra questi le guerre che dilaniano l'Africa: "Tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace", dice. E chiede: "Per favore, mai più la guerra". Spiega poi da che cosa è favorita la denatalità in Europa: "Il benessere è la radice dell'inverno demografico". E dice che la "xenofobia" è "una malattia umana, come il morbillo" che "tante volte cavalca i cosiddetti populismi politici. Ma chi costruisce i muri rimane solo". E ancora: "Sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel '34. Si vede che c'è un ritornello in Europa". E infine l'affondo sullo sfruttamento ambientale: "La lotta più grande è quella per la biodiversità", dice. Mentre "lo sfruttamento dell'ambiente è un'incoscienza collettiva". Ci sono alcuni che criticano il suo pontificato, mentre alcune delle personalità a lei più vicine hanno parlato dell'esistenza di un complotto contro di lei. C'è qualcosa che questi critici non capiscono del suo pontificato, o c'è qualcosa che lei ha imparato dalle critiche?

"Le critiche sempre aiutano, quando uno riceve una critica subito deve fare autocritica, e dire questo è vero, questo non è vero. Delle critiche io vedo sempre i vantaggi. Delle volte ti arrabbi, ma i vantaggi ci sono. Nel viaggio di andata verso Maputo uno di voi mi ha dato il libro "Così l'America vuole cambiare Papa" - del giornalista de La Croix, Nicolas Seneze, ndr - . Le critiche non sono soltanto da parte degli americani, ma sono un po' dappertutto, anche in curia. Alcuni hanno l'onestà di dirle, e a me piace questo. A me non piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, fanno un sorriso che ti fanno vedere i denti e poi ti danno una pugnalata da dietro. Questo non è leale, non è umano. La critica vera è un elemento di costruzione. Invece la critica delle pillole di arsenico è un po' come buttare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, questo non aiuta. Aiuta semmai i piccoli gruppetti chiusi che non vogliono sentire la risposta alla critica. Quando si dice: 'Questa cosa del Papa non mi piace'... significa che io faccio una critica e aspetto la risposta, vado da lui e parlo e scrivo un articolo e gli chiedo di rispondere. Questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica, invece, senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non volere bene alla Chiesa, è andare dietro a un'idea fissa, cambiare Papa, cambiare stile, o fare uno scisma".

Lei ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? "Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Concilio Vaticano I, sull'ultima votazione, quella dell'infallibilità, è successo che un bel gruppo se ne è andato, si è staccato dalla Chiesa, ha fondato i vetero-cattolici per essere fedele alla tradizione della stessa Chiesa. Poi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno l'ordinazione delle donne. Ma allora erano rigidi, andavano dietro a un'ortodossia pensando che il Concilio avesse sbagliato. Anche il Concilio Vaticano II ha creato queste cose, forse lo stacco più conosciuto è quello di Marcel Lefebvre. Ma sempre c'è l'azione scismatica nella Chiesa. È una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c'è di mezzo la salute spirituale di tanta gente. Prego che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c'è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Pensiamo all'inizio della Chiesa, come ha incominciato la Chiesa con tanti scismi, uno dietro l'altro, basta leggere la storia. È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici sempre hanno una cosa in comune, si staccano dal popolo, dalla fede del popolo, dalla fede del popolo di Dio. E quando al Concilio di Efeso ci fu una discussione sulla maternità di Maria, il popolo, questo è storico, stava all'entrata della cattedrale con i bastoni, faceva vedere loro i bastoni e gridava: 'Madre di Dio, Madre di Dio'. Come dicendo: se voi non fate questo, ecco cosa vi aspetta. Il popolo di Dio sempre aggiusta e aiuta. Uno scisma è sempre una situazione elitaria, un'ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano gli scismi. Ma non ho paura. Comunque io parlo delle cose sociali e le cose che dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. 'Ma il Papa è troppo comunista', dicono, e così entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sulla ideologia lì c'è la possibilità di uno scisma. L'ideologia è la primazia di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. Invece la morale dell'ideologia ti porta alla rigidità e oggi abbiamo tante, tante scuole di rigidità dentro alla Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che finiranno male. Quando vedete cristiani, vescovi, sacerdoti, rigidi, dietro di loro ci sono dei problemi, non c'è la sanità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti, miti con le persone che sono tentate da questi attacchi, perché stanno passando un problema, e dobbiamo accompagnarle con mitezza".

Cosa pensa del problema della xenofobia in Africa? "Non è un problema solo dell'Africa, è una malattia umana, come il morbillo. È una malattia, ti viene, entra in un Paese, entra in un continente. Per cui si dice: mettiamo muri, no? Ma i muri lasciano soli coloro che li fabbricano. Si lasciano fuori tante persone, ma coloro che rimangono dentro i muri rimangono soli, e alla fine della storia sconfitti perché le invasioni sono potenti. Le xenofobie tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici. Sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel '34. Si vede che c'è un ritornello in Europa, ma anche in Africa. Anche voi in Africa avete un problema culturale che dovete risolvere. Ne ho parlato in Kenya: il tribalismo. Ci vuole un lavoro di educazione, di avvicinamento fra le diverse tribù per fare una nazione. Abbiamo commemorato il 25esimo della tragedia del Rwanda, poco tempo fa. Un effetto del tribalismo. Ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi, di darsi la mano, e dire: 'No al tribalismo, no al tribalismo'. Dobbiamo dire no. Anche il tribalismo è una xenofobia, una xenofobia domestica, ma è pure una xenofobia".

Uno dei temi di questo viaggio è stato la protezione dell'ambiente naturale. Ne ha parlato in tutti i suoi discorsi, anche coi giovani. Ha parlato della protezione degli alberi, degli incendi, della deforestazione. La stessa cosa sta accadendo in questo momento in Amazzonia. Lei crede che i governi di queste aree amazzoniche stiano facendo di tutto per proteggere questo polmone del mondo?

"C'è un inconscio collettivo per cui l'Africa va sfruttata. È una cosa incosciente, noi non pensiamo: 'L'Europa va sfruttata'. Dobbiamo liberare l'umanità da questi inconsci collettivi. Il punto più forte di questo sfruttamento, non solamente in Africa ma dappertutto nel mondo, è l'ambiente naturale. La deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa ho ricevuto i cappellani del mare. Nell'udienza c'erano sette ragazzi pescatori che pescavano in una barca che non era più lunga di questo aereo. Pescavano con mezzi meccanici. Un po' degli avventurieri. Mi hanno detto questo: 'Da alcuni mesi fino a oggi abbiamo recuperato quasi sei tonnellate di plastica.' Sei tonnellate di plastica, questa è una realtà. In Vaticano abbiamo abolito la plastica. Nelle intenzioni di preghiera di questo mese del Papa c'è proprio la protezione degli oceani che ci danno anche l'ossigeno. Difendere l'ecologia, la biodiversità che è la nostra vita, difendere l'ossigeno. La lotta più grande è quella per la biodiversità. La difesa dell'ambiente naturale la portano avanti i giovani che hanno una grande coscienza, perché dicono: 'Il futuro è nostro...'. La scorsa estate, quando ho visto la foto di quella nave che viaggiava nel Polo Nord come se niente fosse, ho sentito angoscia. Alcuni mesi fa abbiamo visto tutti la fotografia dell'atto funebre che hanno fatto credo in Groenlandia, dove qualche ghiacciaio è scomparso. Hanno fatto un atto simbolico per attirare l'attenzione. Sono rimasto commosso da un articolo di Franca Giansoldati del Messaggero che non ha risparmiato le parole a proposito dello sfruttamento ambientale. La parola brutta è la parola corruzione. Ho bisogno di fare questo, ma per fare questo debbo sforestare quello, quell'altro, quell'altro. Ho bisogno del permesso del governo, o dei governi, provinciale, nazionale... La domanda che molti si sentono dire per avere l'approvazione un progetto è: 'E per me quanto?'. Sfacciatamente. Questo succede in Africa, in America Latina, anche in Europa, dappertutto. Quando si prende la responsabilità socio-politica, come medaglia personale, si sfruttano i valori, si sfrutta la natura, si sfrutta tanta gente. Pensiamo anche a tanti operai sfruttati nelle nostre società. Il caporalato non lo hanno inventato gli africani! L'abbiamo in Europa: la domestica pagata un terzo di meno di quello che si deve non l'hanno inventata gli africani. Le donne ingannate e sfruttate per fare la prostituzione nel centro delle nostre città non è cosa inventata dagli africani. Anche da noi c'è questo sfruttamento non solo ambientale, ma anche umano. E questa è per corruzione".

Cosa pensa del problema dell'educazione dei giovani in Africa?

"L'africa è un continente giovane, ha vita giovane. Come ho detto a Strasburgo, invece, la madre Europa è quasi diventata la nonna Europa, è invecchiata. Stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Secondo una statistica ufficiale di in un Paese europeo nell'anno 2050 ci saranno più pensionati che gente che lavora. È tragico. Qual è l'origine dell'invecchiamento dell'Europa? Ho un'opinione personale: penso che il benessere sia la radice, l'attaccarsi al benessere. Dicono: 'Stiamo bene, non facciamo figli perché dobbiamo comprare la villa, fare turismo, un figlio è un rischio, non si sa mai...'. È un benessere che ti porta a invecchiare. Invece l'Africa è vita. Qui, come in Colombia e a Cartagena, ho trovato persone che mi mostravano i bambini. Dicevano: 'Questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria'. Lo stesso gesto l'ho visto in Europa orientale, con una nonna che faceva vedere il bambino e diceva: 'Questo è il mio trionfo'. A voi la sfida di educare questi giovani. L'educazione in questo momento è prioritaria. Il primo ministro di Mauritius mi diceva che ha in mente di introdurre un sistema educativo gratuito per tutti. La gratuità del sistema educativo è importante, perché ci sono centri di educazione di alto livello, ma a pagamento. Ce ne sono, ma occorre moltiplicarli perché l'educazione arrivi a tutti. Le leggi su salute ed educazione sono oggi la chiave".

Lei ha potuto parlare col presidente del Mozambico. Quali aspettative ha in relazione al processo di pace avviato nel Paese?

"Mi auguro che il processo di pace vada avanti, prego per questo. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, come ha detto Benedetto XV prima di me. È stato un processo di pace molto lungo, che ha avuto varie tappe, con lo sforzo dei capi di partiti contrari, per non dire nemici, di incontrarsi anche rischiando la vita. L'inizio è stato in un caffè: c'era gente che parlava e c'era un sacerdote della Comunità di Sant'Egidio - sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre - che lì ha iniziato il processo di pace. Poi con l'aiuto di tanta gente è arrivato a questo risultato. Non dobbiamo essere trionfalisti in queste cose. Il trionfo è la pace. Non abbiamo diritto a essere trionfalisti perché la pace è fragile in Mozambico e nel mondo, la si deve trattare con molta tenerezza, delicatezza, perdono, pazienza, affinché cresca e sia robusta. Ma è il trionfo del Paese, la pace è la vittoria del Paese. E questo vale per tutti i Paesi che si distruggono con la guerra: le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Quando c'è stata, alcuni mesi fa, la celebrazione dello sbarco in Normandia ricordo che c'erano i capi dei governi a fare memoria dell'inizio della fine di una guerra crudele e di una dittatura anti umana come il nazismo e il fascismo: ma su quella spiaggia sono rimasti quarantaseimila soldati, eh! È il prezzo della guerra. Vi confesso: quando andai al sacrario di Redipuglia piansi: per favore mai più la guerra, le guerre non risolvono niente. Anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono l'umanità".

Come la Chiesa può aiutare ad accompagnare i giovani nelle crisi familiari?

"La famiglia ha un ruolo chiave in questo. In Madagascar c'è il problema della famiglia, legato al problema della povertà. La mancanza di lavoro e anche lo sfruttamento. Penso a coloro che nella cava - di Antananarivo, ndr - , guadagnano un dollaro e mezzo al giorno. Sono fondamentali le leggi sul lavoro, le leggi che proteggono la famiglia. Ieri a Mauritius, dopo la messa, c'era un poliziotto che teneva per mano una bambina. Si era persa e piangeva perché non trovavano i genitori. La polizia ha dato l'annuncio che venissero a prenderla e intanto l'accarezzava... Lì ho visto il dramma di tanti bambini e giovani che perdono il legame familiare. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani, è un dovere dello Stato! Poi è necessario che tutta la società abbia coscienza che avere un bambino è un tesoro perché fa crescere la patria, fa crescere i valori che daranno sovranità alla patria. Una cosa che mi ha colpito in tutti e tre i Paesi visitati è stato il fatto che la gente salutava quando passavo. E c'erano anche i bambini piccoli che salutavano. Così entravano nella gioia".

Una domanda sulle isole Chagos. Il primo ministro l'ha ringraziata per avere ricordato le sofferenze della popolazione chagos, le cui isole sono occupate dalla Gran Bretagna. Oggi c'è un'attiva base militare. Come si può aiutare il popolo chagos?

"Vorrei ripetere la dottrina della Chiesa per la quale esistono le organizzazioni internazionali che hanno la capacità di giudicare. Si deve obbedire alle istituzioni internazionali. Quando c'è qualche lotta interna tra i Paesi si va lì a risolvere come fratelli civilizzati. Poi c'è un altro fenomeno: quando arriva la liberazione di un popolo, ad esempio in Africa ci sono state tante liberazioni dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dall'Italia, sempre c'è stata la tentazione da parte di questi Paesi di portarsi via qualcosa: 'Si, ti dò la liberazione, ma qualche briciola me la porto via'. Credo allora che le organizzazioni internazionali debbano fare anche un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti ciò che hanno fatto per quel Paese e riconoscendo la buona volontà di andarsene, e aiutandoli, con libertà, con fratellanza. Ma è un lavoro culturale lento. Vorrei approfittare per dire che se oggi non ci sono colonizzazioni geografiche, almeno non tante, ci sono tuttavia colonizzazioni ideologiche che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiare quella cultura e così omogeneizzare l'umanità. È l'immagine della globalizzazione come una sfera: tutti uguali, ogni punto equidistante dal centro. Mentre la vera globalizzazione non è una sfera, ma un poliedro, dove ogni popolo e nazione conserva la propria identità, ma si unisce a tutta l'umanità. Mentre la colonizzazione ideologica cerca di cancellare l'identità degli altri per farli uguali. Dobbiamo rispettare l'identità dei popoli, e questa è una premessa da rispettare sempre così da cacciare via tutte le colonizzazioni".

Mauritius ha un'importante tradizione di dialogo interreligioso, cosa pensa?

"Mi ha colpito molto la capacità di unità e di dialogo interreligioso. Non si cancella la differenza fra le religioni, ma si sottolinea che siamo tutti fratelli e tutti dobbiamo parlare. Mauritius in questo senso ha dato un segnale di maturità. La prima cosa che ho trovato ieri entrando in episcopio è stato un mazzo di fiori bellissimo. Chi me lo ha inviato? Il grande Imam. Essere fratelli. La fratellanza umana è la base. Per questo ai missionari dico di non fare proselitismo. Il proselitismo vale per la politica, per lo sport: "Vieni nella mia squadra". Ma non per la fede. Che cosa significa per te, Papa, evangelizzare. C'è una frase di san Francesco di Assisi che mi ha illuminato tanto: "Portate il Vangelo e se fosse necessario anche con le parole". Cioè evangelizzare è quello che noi leggiamo nel libro degli Atti degli apostoli, è testimonianza. È la testimonianza che provoca la domanda, ma tu perché vivi così? Perché fai questo? E lì spiego: per il Vangelo. L'annuncio viene dopo la testimonianza. La testimonianza è il primo passo dell'evangelizzazione. È lo Spirito Santo che porta i cristiani e i missionari a dare testimonianza. Le proposte religiose che prendono il cammino del proselitismo non sono cristiane. Cercano dei proseliti, non adoratori di Dio e della verità. L'esperienza interreligiosa di Mauritius è molto bella. Nell'incontro interreligioso non solo c'erano solo cattolici, ma anche musulmani e persone di altre religioni e tutti eravamo fratelli".

Durante la messa in Madagascar c'era un milione di persone...

"C'era il popolo autoconvocatosi. C'erano persone che danzavano sotto la pioggia ed erano felici. E così alla veglia notturna. Il dato ufficiale non lo so. Dico che ce n'erano un po' meno, facciamo 800mila. Ma il numero non interessa. Interessa il popolo, gente che era arrivata a piedi, dal pomeriggio prima, che è stata alla veglia e ha dormito lì. Ho pensato a Rio de Janeiro nel 2013, a quando tanti dormirono sulla spiaggia e volevano stare con il Papa. Mi sono sentito umiliato, piccolissimo, davanti a questa grandiosità della sovranità popolare. Qual è il segno che un gruppo di persone è popolo? La gioia. C'erano dei poveri, c'era gente che non aveva mangiato per stare lì. Erano gioiosi. Invece, quando i gruppi o le persone si staccano dal senso popolare della gioia, perdono la gioia. È uno dei primi segnali, la tristezza dei soli. La tristezza di coloro che hanno dimenticato le loro radici culturali. Avere coscienza di essere un popolo è avere coscienza di una identità".

Secondo lei come sarà la comunicazione del futuro? Verrà un giorno in Spagna?

"Prima di tutto, andrò in Spagna, spero, se vivo, ma la priorità dei viaggi in Europa è: i paesi piccoli. Poi quelli più grandi. Secondo, non so come sarà la comunicazione del futuro. Ma penso come era la comunicazione quando ero ragazzo, ancora senza tv, con la radio, col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno. Si vendeva di notte, con i volontari. Era una comunicazione precaria ma era comunicazione. In ogni caso ciò che rimane come costante nella comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, un avvenimento, e distinguerlo dall'interpretazione. Una cosa che danneggia la comunicazione è l'interpretazione. La comunicazione è sempre una cosa 'mobile', ma è facile passare dal fatto all'interpretazione. È importante che ci sia il fatto al centro. Vale anche per noi, nella curia: c'è un fatto, lo si racconta, ma viene abbellito, impreziosito, ognuno ci mette del suo. Non lo si fa con cattive intenzioni, ma è la prassi. Mentre l'essenza del comunicatore è sempre quella di riferire il fatto e distinguere il fatto dall'interpretazione. Spesso si scrive "si dice che...". Sì, si può dire, certo, ma poi bisogna avere l'onestà di verificare l'oggettività del "si dice che". L'oggettività è un altro dei valori che bisogna garantire nella comunicazione. Inoltre: la comunicazione deve essere umana, totalmente umana. Umana significa costruttiva, cioè deve essere per l'altro. La comunicazione non può essere usata come strumento di guerra, perché distrugge. L'altro giorno commentavo con padre Rueda un articolo sulla capacità distruttiva della lingua, è come l'arsenico. La comunicazione deve essere al servizio della costruzione e non della distruzione. Quando la comunicazione è al servizio della distruzione? Quando difende progetti non umani. Pensiamo per esempio alla propaganda nelle dittature del secolo passato. Le dittature erano molto abili nella comunicazione tutta costruita. Fomentavano guerre, divisioni, erano distruttive. Mentre ci vuole coerenza ai fatti".

Tommaso Farina per “Libero Quotidiano” il 10 settembre 2019. Il Papa della pizza, del pane, del tartufo, del supermercato. Papa Francesco, nei suoi discorsi, per farsi capire meglio ama parlare delle cose buone da mangiare, del cibo, della tavola. Strano? Fino a un certo punto: i grandi miracoli di Gesù sono spesso avvenuti a tavola, o al cospetto di un bel pesce arrosto. E Papa Bergoglio vede nella tavola un elemento necessario alle sue catechesi, al cospetto del popolo di Dio. Perciò, un sacerdote che ben conoscete, don Pierluigi Plata, già autore del sito web Assaggi di Vangelo, si è preso la briga di trascrivere e commentare tutte le citazioni culinarie del Sommo Pontefice. Il frutto di questo certosino lavoro è un libro appena apparso nei negozi: Apparecchiare la Santità, edito dalla Libreria Editrice Vaticana. Il gustoso volumetto può fregiarsi della prefazione del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, e si trova in vendita a circa 12 euro. Meno di 200 pagine che si leggono in scioltezza, e che contengono spunti oltremodo interessanti. Don Plata spiega un po' la genesi e il criterio del suo lavoro: «Ascoltando costantemente Papa Francesco, mi sono accorto che usa parecchie immagini, vere e proprie metafore sul cibo, sul mangiare e bere. Ho fatto una bella ricerca su tutte le omelie, gli Angelus, le udienze generali del mercoledì, gli interventi: e mi sono accorto che il materiale è proprio tanto. Ho scelto gli spunti più acuti, dando loro un ordine». Tanta carne al fuoco quindi. Ma quali sono le premesse? «Sono partito facendo notare come per il Papa non ci sia un unico tipo di fame. C' è la fame fisiologica. E c' è la fame d' altro: di affetto, di conoscenza, di spiritualità. Appunto questo è il senso delle metafore del Papa, che seguono direttamente lo scopo delle immagini evangeliche». Così, tutto è partito da una dichiarazione del Papa: «La chiesa non è un supermercato». In che senso? «La Chiesa non è un negozio dove coi soldi compri latte, pane e tutto il resto. I Sacramenti sono gratuiti, estranei alle logiche del commercio. Dio si è offerto a tutti». Da queste premesse, don Plata ha scritto una specie di lista della spesa, coi singoli alimenti, la loro fotografia, la simbologia. Il più importante, inutile a dirsi, è il pane. «Pane, per Francesco, è anzitutto l' Eucarestia. Ma non solo: il Papa evoca il pane per simboleggiare il compenso della dignità del lavoro, la base su cui l' uomo fonda la sua sopravvivenza». E lo stesso vale per l' acqua: «L' acqua è come l' oro, senza acqua non c' è vita. E il Papa invita a non monopolizzarla o privatizzarla: tutti ne hanno diritto». Il Papa però è anche buongustaio, al punto di tirare in ballo perfino il tartufo: Dove cresce il tartufo? Nelle profondità della terra. È legato a doppia mandata al suolo in cui nasce. Il tartufo, per Papa Bergoglio, diventa un' immagine delle radici che ci legano, e che non si possono rinnegare: oltretutto è pregiatissimo, oltre che difficile da trovare, e questo ne caratterizza l' importanza. Guai a guardare al futuro senza considerare le nostre radici». E il tartufo non è l' unico fungo di cui troviamo traccia nella predicazione papale: «I funghi sono visti come una metafora della condizione sacerdotale e delle vocazioni: i preti non sono come funghi che nascono all' improvviso dopo la pioggia: hanno avuto anni di formazione, una cultura, una famiglia». E poi c' è la mela. Nella Genesi non si parla strettamente di mela, ma solo di albero. Eppure, Francesco usa la mela come simbolo di qualcosa di seduttivo e ambiguo: «La mela è qualcosa di allettante, bello nella sua esteriorità, ma capace di contenere un verme. Mai farsi attirare solo da un bell' aspetto, ecco che significa». Francesco va oltre gli ingredienti. Parla anche di piatti compiuti. Ad esempio, la pizza. E si prosegue così: la fede è come un dessert, ma tutto il dessert, non solo la panna che vi si può aggiungere. Non un ingrediente opzionale, ma tutta quanta la torta. E le merendine? Saziano ingannevolmente, magari togliendoci la fame quando dovremmo invece fare una cena o un pranzo che ci danno ciò di cui l' organismo ha bisogno: un po' come prestare attenzione alle cose inutili e agli appagamenti momentanei, invece che all' essenziale che ci realizza davvero. Il resto lo scoprirete.

 “CI SONO SETTORI FUORI E DENTRO IL VATICANO CHE PREMONO PER FAR DIMETTERE PAPA FRANCESCO”. Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 21 agosto 2019. «Il Papa è il Papa e guida la Chiesa in questo momento. Personalmente non sono a conoscenza di altro. E poi sono cose affiorate anche in altri periodi storici». Il cardinale Lorenzo Baldisseri, l'uomo che Francesco ha voluto a capo del Sinodo dei Vescovi (e che sta preparando l'assemblea dedicata al tema dell'Amazzonia) interviene per sminuire di importanza la lettura di chi vede nei continui attacchi a Papa Bergoglio un piano elaborato negli Usa per sfiancarlo e farlo dimettere. Baldisseri rispolvera la storia e alza le spalle, come dire che non c'è nulla di nuovo. Assicura di non avere letto niente a proposito.  È però praticamente sicuro che si tratti di un deja vu sul quale, in questo scorcio ferragostano, non vale la pena soffermarsi o prestarvi troppa importanza. Del resto la storia delle dimissioni papali risale al Medio Evo, anche se all'epoca i papi non si dimettevano liberamente ma vi erano costretti da concili, da correnti rivali della nobiltà romana, a volte persino da congiure ordite da potenze europee. Certo a quel tempo il papato si faceva notare più per il ruolo politico che per l'impegno pastorale, mentre oggi Papa Francesco si concentra soprattutto su quest'ultimo terreno. Ma se il cardinale Baldisseri allontana la vicenda senza indugiare probabilmente abituato dalla sua lunga carriera in diplomazia - il venezuelano padre Arturo Sosa il Preposito Generale della Compagnia di Gesù - un altro personaggio chiave del pontificato di Papa Francesco, sembra pensarla in diverso modo. Il messaggio che lancia dal Meeting di Rimini è piuttosto chiaro: «Francesco non ci pensa proprio alle dimissioni». Alla kermesse cattolica in corso in Romagna Sosa si è presentato vestito di bianco. Lui, il Papa Nero come viene chiamato il capo dell'ordine fondato da Sant'Ignazio da Loyola ha tenuto una lunga relazione parlando dello sguardo innovativo apportato dal primo pontefice gesuita, decodificandone gesti e azioni, e rimarcando che in Francesco vi è un senso di responsabilità verso i poveri che soffrono che riporta all'obbedienza verso il Vangelo. Poi però è andato dritto al nocciolo. Tanto per cominciare ha ammesso di conoscere bene le forze negative che si stanno muovendo per destabilizzare il pontificato. «Ci sono settori fuori e dentro il Vaticano che premono per far dimettere Papa Francesco, con lo scopo ultimo di fare in modo che il prossimo pontefice agisca in senso contrario alle linee guida espresse dall'attuale pontificato». Interpellato dall'Adnkronos ha misurato le parole, scelto con cura gli aggettivi, calibrato i toni. «Ci sono persone, sia all'interno che all'esterno della Chiesa, che vorrebbero che Papa Francesco desse le dimissioni, ma il pontefice non lo farà. Credo che la strategia finale di questi settori non sia tanto quella di costringere' Papa Francesco a lasciare, quanto di incidere sull'elezione del prossimo pontefice, creando le condizioni affinché il prossimo Papa non continui ad approfondire il cammino che Francesco ha invece indicato e intrapreso». Sosa delinea una sorta di strategia della tensione. A preoccuparlo un po' è l'orizzonte. Penso sia essenziale che il cammino intrapreso da Francesco continui, secondo la volontà della Chiesa espressa chiaramente nel Concilio Vaticano II, di cui Papa Francesco è figlio legittimo e diretto.

Quegli avversari di Papa Francesco che premono per le sue dimissioni. Francesco Boezi su it.insideover.com il 20 Agosto 2019. Papa Francesco non soddisfa le aspettative di alcuni ambienti conservatori. È un assunto buono per l’Europa, ma soprattutto per gli Stati Uniti. Esiste un dissidio, soprattutto dottrinale ed ideologico, tra il conservatorismo tradizionalista e le priorità pastorali di questo pontificato. Anzi, stando al libro del giornalista Nicolas Senéze, c’è qualcosa di più: un tentativo, magari un disegno neppure troppo velato, di far sì che Jorge Mario Bergoglio rinunci al soglio di Pietro o per invertire di netto la rotta intrapresa in questi sei anni e mezzo. Qualcosa che parte dagli States, ma che sfiora Visegràd, la Chiesa africana e settori ampli del cattolicesimo del Vecchio Continente. C’è questa ventilazione, ma ce ne sono anche altre. Come quella di Padre Artur Sosa, superiore generale dei gesuiti, che all’Adnkronos ha dichiarato quanto segue: “Ci sono persone, dentro e fuori dalla Chiesa, che vorrebbero che papa Francesco desse le dimissioni, ma il pontefice non lo farà”. Torniamo per un attimo all’opera libraria francese. L’opera è intitolata “Come l’America vuole cambiare il papato”. Senéze, che scrive sul quotidiano La Croix, ha messo insieme i fatti. Dal consiglio, per così dire, contenuto nell’ormai noto memorandum dell’ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò, quello in cui il consacrato italiano accusa il Papa di non aver tenuto conto delle sanzioni disposte da Joseph Ratzinger nei confronti di Theodore McCarrick, che è poi stato scardinalato e ridotto allo stato laicale per via delle accuse di abusi, alla disapprovazione espressa dal guru Steve Bannon: se c’è una terra in cui l’operato dell’ex arcivescovo di Buenos Aires viene messo in discussione, quella è bagnata dal Pacifico e dall’Atlantico. Il cardinale più critico nei confronti del corso bergogliano? Raymond Leo Burke è del Wisconsin. Dicono che sia vicino a Donald Trump, ma per ora ha soprattutto alimentato il dibattito attorno alla necessità che la dottrina cattolica rimanga quella che è sempre stata. E queste sono solo premesse. Secondo quanto riportato da IlMessaggero, i contrasti nascono per via di due priorità contenute nella piattaforma pastorale: l’ecologia integrale, che verrà rilanciata con il Sinodo sull’Amazzonia e che è stata importata con l’enciclica Laudato Sì, e la battaglia mossa contro le distorsioni del capitalismo. Il 2020 sarà anche l’anno di Assisi. Nella città umbra, il pontefice argentino ricuserà le diseguaglianze sociali, proponendo un’altra economia, la sua: “The Economy of Francesco”. Certo è come certe multinazionali, che poggiano la loro azione sulla globalizzazione e su un mondo sempre più aperto al libero commercio, non possano condividere gli afflati di assistenzialismo e di terzomondismo. “Terra, casa, lavoro” è il trittico di questo Papa. Una parte di clero, poi, vorrebbe che la Chiesa cattolica si limitasse alla sfera spirituale. “A Cesare quel che è di Cesare”, insomma. Bergoglio tira dritto e sigilla un’alleanza con i movimenti popolari del pianeta. Dagli indios ai migranti, passando per le comunità rom e per alcuni organizzazioni d’opposizione alle grandi opere, come i no Tav e i no Expo: sono loro gli “scartati” della contemporaneità. É in loro che le gerarchie ecclesiastiche della Chiesa cattolica confidano. C’è una “trasformazione sociale”, com’è stata chiamata dallo stesso vescovo di Roma, da portare a dama. Esiste o no un filo rosso che collega, come un nesso di causalità, l’avversione proveniente dal conservatorismo tradizionalista, statunitense e non, e le necessità individuate dal Santo Padre per il pianeta che verrà? Questa è la domanda da porsi quando si ventila l’ipotesi di un complotto. La sensazione è che non esistano troppe evidenze. Gli attacchi, poi, vengono portati avanti in maniera pubblica. Se esistono delle trame e delle insidie, sono abbastanza manifeste. I nomi degli oppositori di Bergoglio sono noti. Il cardinale Gherard Mueller, nel novembre del 2017, arrivò a dichiarare quanto segue: “C’è un fronte dei gruppi tradizionalisti, così come dei progressisti, che vorrebbe vedermi a capo di un movimento contro il Papa”. Tante fonti, in questi giorni, citano il cardinale Walter Kasper: pure il tedesco, che è un progressista conclamato, ha movimentato la scena vaticana, supponendo l’esistenza di un piano per arrivare a un “nuovo Conclave”. Perché quello è l’orizzonte finale di questa traiettoria. Un altro pontefice “bergogliano” significherebbe sconfitta definitiva per il “mondo tradizionale”. Qualche anno dopo le “dimissioni” di Benedetto XVI, i tradizionalisti di The Remnant chiesero a Donald Trump d’indagare sulle possibili pressioni di derivazione democratica. La storia delle macchinazioni statunitensi per influire sui destini del papato non è così nuova. É il Papa, poi, ad aver traghettato la Chiesa a sinistra o gli americani che vogliono condurla a destra? É un’altra domanda valida. Il Sinodo panamazzonico di ottobre sarà una buona occasione per misurare la consistenza di un’opposizione interna. Quella esiste. Bisogna comprendere se per obiettivo ha le dimissioni del papa regnante o, in maniera banale, il ripristino di quello che, per semplificazione, chiameremo “ratzingerismo”.

GLI STATI UNITI VOGLIONO FAR DIMETTERE BERGOGLIO! Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 20 Agosto 2019. L'estate più calda degli ultimi secoli per via del riscaldamento climatico il Papa l'ha mitigata grazie alla temperatura costante dell'aria condizionata. Francesco è rimasto chiuso a Santa Marta dove si è portato avanti con il lavoro in sospeso, preparandosi all'imminente viaggio africano ma senza tralasciare di aggiornarsi sui focolai di tensione che, qui e là, puntano a fiaccare il suo pontificato e a metterlo in difficoltà alimentando divisioni e sottoponendolo a continui stress. Da qualche giorno è in vendita nelle librerie francesi un saggio scritto dal giornalista Nicolas Senéze, del quotidiano cattolico La Croix, il cui titolo riassume tre anni di trincea: «Come l'America vuole cambiare Papa» (Edition Bayard). Una cronaca che inizia con gli attacchi frontali a Bergoglio esattamente un anno fa, alla fine di agosto, quando si trovava in Irlanda. L'ex nunzio a Washington, Carlo Maria Viganò, con una lettera ad alcuni blog di stampo conservatore apriva ufficialmente la guerra al pontificato, mettendone in luce incoerenze e tatticismi, e chiedendogli risposte su alcune vicende interne alla Chiesa in merito alla gestione del dossier pedofilia. Viganò domandava apertamente le dimissioni del Papa. I bombardamenti sono continuati sempre più pesanti e, man mano che passavano i mesi, mostravano di avere una matrice comune a diversi centri di potere, collegabili a Steve Bannon, l'ideologo al quale si era affidato anche il presidente Trump. Ma la variegata geografia del fronte anti Bergoglio si è svelata meglio successivamente mostrando addentellati nell'entourage del presidente brasiliano Bolsonaro fino a lambire, in Italia, la rete sovranista di Matteo Salvini. I confini non sempre definiti e identificabili ad una prima lettura, fanno salire il livello di preoccupazione in Vaticano. Qualche mese fa il cardinale tedesco Kasper, commentando le bordate contro il pontefice, dava una lettura semplice mettendo a nudo quello che nessuno fino a quel momento osava esplicitare: «Ci sono persone che semplicemente non amano questo pontificato. Vogliono che finisca il prima possibile per avere quindi, per così dire, un nuovo conclave. Vogliono anche che vada in loro favore, che abbia un risultato che si adatti alle loro idee». Kasper faceva capire che esiste un piano negli inner circle americani: gli oppositori di Francesco vorrebbero arrivare a un cambio di leadership. Naturalmente un ribaltone in Vaticano non è cosa semplice, nonostante l'ex nunzio abbia attaccato frontalmente il pontefice facendo leva sulla crisi degli abusi ignorando però che la maggior parte degli insabbiamenti ha radici lontane. Per esempio, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, in Vaticano, l'input che arrivava era di non denunciare il pedofilo alle autorità ma di sistemarlo senza sollevare scandali. Va detto che in questo momento i fronti aperti che squassano la Chiesa di Francesco non sono pochi, sia dentro che fuori le Mura Leonine. L'elenco è lungo. Al di là delle tradizionali dissidi interni alla curia (dove peraltro sono riprese a circolare le lettere dei corvi), affiorano le divisioni in Germania. L'episcopato tedesco (il più generoso dopo quello americano) è spaccato e tra qualche mese sarà chiamato a decidere su riforme tabù, come il celibato sacerdotale e l'apertura alle donne. All'esplosivo caso tedesco si aggiunge la crisi degli abusi negli Stati Uniti e quella in Cile; a questo segue la crisi che colpisce i vescovi francesi anch'essi sottoposti a verifiche sul tema delle violenze; poi il malcontento sotto traccia per le aperture al governo in Cina; infine, la delusione dei polacchi per la scarsa considerazione della memoria di Giovanni Paolo II finita in un angolo. Insomma, sulla scrivania di Francesco i problemi non cessano di accavallarsi. Nicolas Seneze individua in due documenti l'origine di tanta ostilità nei confronti del pontefice da parte di diversi centri di potere esterni. La loro reazione va ricondotta alla esortazione apostolica Evangelii Gaudium (per la critica alla teoria della ricaduta favorevole del libero mercato secondo cui il profitto degli uni avrebbe benefiche ricadute su tutti. Per il Papa si tratta di una opinione mai confermata dai fatti, che esprime una fiducia «grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare»). Dall'altra parte c'è l'enciclica Laudato Sì dedicata alla tutela ambientale, un testo che getta le basi per una rivoluzione dal basso e arrivare a un movimento planetario capace di scardinare gli stili di vita occidentali e fare spazio a una nuova coscienza sull'ambiente. Niente emissioni di C02, stop ai consumi degli idrocarburi, ripensare in chiave globale i comportamenti individuali anche al supermercato. Un testo del genere, da parte dell'unica figura morale di livello planetario, non poteva che impensierire seriamente tante lobby, a cominciare da quella dei petrolieri americani, alla quale si è presto unita la lobby della finanza e quella dell'agroindustria. Secondo la tesi, il redde rationem interno alla Chiesa potrebbe arrivare con il sinodo sull'Amazzonia. C'è chi già soffia sul fuoco. E alcuni cardinali di stampo conservatore hanno già fatto filtrare che altri strappi alla dottrina - stavolta sul celibato sacerdotale oppure sulle donne diacono - difficilmente si potrebbero sopportare.

Paolo Rodari per “la Repubblica” il 4 ottobre 2019. «Le critiche sul Sinodo? Sui preti sposati abbiano fatto solo proposte». Lorenzo Baldisseri, cardinale, segretario speciale del Sinodo dei vescovi che domenica prossima apre in Vaticano i lavori dedicati ai problemi dell' Amazzonia, smorza così le accuse arrivate dal mondo conservatore, in particolare da un' uscita del cardinale ultraottantenne Walter Brandmüller, per cui il piano dell'assise sarebbe quello di mettere in discussione il celibato ecclesiastico. «Se ne parlerà», ha detto Baldisseri, ricordando che in questo modo hanno voluto le consultazioni precedenti ai lavori, nelle quali è stato richiesto soltanto «che si studiasse la possibilità che in zone remote dell' Amazzonia senza preti vengano ordinati anziani sposati di provata fede». «Alla fine tutti saremo cum Petro et sub Petro , seppure con opinioni diverse», dice invece il cardinale brasiliano Claudio Hummes, elettore di Bergoglio che più di dieci anni fa, da prefetto del Clero, si attirò le ire dei conservatori per aver ricordato un'ovvietà: il celibato, spiegò, non è un dogma. La sensazione, a pochi giorni dall'apertura dei lavori, è che sul Sinodo si stia giocando una partita durissima, che mira a mettere in discussione l' intero pontificato in corso. I conservatori minacciano addirittura uno scisma nel caso il Sinodo cambi aspetti della dottrina da loro ritenuti irriformabili. Ma uno scisma potrebbe arrivare anche da sinistra. La Chiesa tedesca, infatti, guidata oggi dal cardinale Reinhard Marx e da sempre teologicamente distante da Roma, vuole portare avanti un Sinodo parallelo per mettere in cantiere riforme - dalla benedizione per le coppie omosessuali al diaconato femminile - sulle quali ancora Oltretevere si predica prudenza. Nel mezzo Francesco, il Papa che, come ha dimostrato un recente lavoro di Vatican News , parla spessissimo, ad esempio nelle catechesi del mercoledì, della dottrina di sempre, smentendo chi ritiene che si dedichi prevalentemente ad altro. Il mondo conservatore da mesi sostiene la tesi, non ancora suffragata da prove, secondo cui i lavori del Sinodo saranno pilotati per abbattere certezze dottrinarie, fra queste appunto la legge del celibato ecclesiastico. E che in questo senso il Papa e i suoi fedelissimi avrebbero già deciso. Nei pressi dell' Università Lateranense, sede dell' Istituto Giovanni Paolo II, lo scontro è aperto e pubblico. La vecchia guardia dell' Istituto che ha avuto fra le sue guide il cardinale Carlo Caffarra, oggi esautorata dai suoi incarichi dopo un profondo rinnovamento guidato da Vincenzo Paglia e Pierangelo Sequeri e voluto da Bergoglio, accusa direttamente il Papa di voler tradire l' intero magistero di Karol Wojtyla in materia di famiglia. Francesco, che ritiene che la dottrina vada applicata caso per caso e per questo, in Amoris laetita, ha aperto alla possibilità di dare la comunione ai divorziati risposati, va avanti per la sua strada. L'ex leadership dell'Istituto nel quale sono stati confezionati i dubia (le richieste di chiarimenti sulla dottrina in seguito proprio alle aperture sui divorziati risposati, cui il Papa non ha mai voluto rispondere) è rimasta senza cattedre nonostante proteste e appelli. Sei anni di opposizione dura al papato, probabilmente, sono troppi anche per un vescovo di Roma come Bergoglio che, nei primi anni dopo l'elezione a marzo 2013, non pensionò nessuno della vecchia curia vaticana in cui era scoppiato, con effetti deflagranti, il primo Vatileaks. Il Sinodo ha effetti geopolitici che vanno oltre le mere beghe intraecclesiali. La sua sola convocazione è un messaggio chiaro alle politiche economiche che sfruttano il territorio senza dare alcun vantaggio alle popolazioni indigene. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro si è detto preoccupato del Sinodo perché «quelli - i vescovi, ndr - stanno cercando di creare nuovi Paesi dentro al territorio brasiliano». «Vogliono rubarci l'Amazzonia», ha detto, tesi seccamente smentita da Erwin Krauter, vescovo di Xingù. Mentre Hummes ha ribadito: «La Chiesa vive in Brasile da quattro secoli, sappiamo di cosa parliamo». La diplomazia di Francesco ha intenti internazionali precisi. I suoi viaggi, come molte delle convocazioni romane, mirano a mettere sotto i riflettori le popolazioni più emarginate. Fu così nel 2017, quando in Myanmar e Bangladesh disse che «il nome di Dio è anche Rohingya». In Cile, qualche mese dopo, incontrò la minoranza Mapuche vessata dalla dittatura di Pinochet. Quindi, a Puerto Maldonado, nel cuore dell' Amazzonia peruviana, ebbe uno storico incontro con gli indios. E infine il Sinodo: il primo Papa latinoamericano porta a Roma la voce degli ultimi, nonostante critiche e crescenti opposizioni.

Amazzonia, il sogno del Papa prende piede: preti indios. I vescovi riuniti per il Sinodo panamazzonico discutono sul da farsi: viri probati o diaconi permanenti, ma il Papa vuole comunque che gli indigeni divengano parte integrante della Chiesa del futuro. Giuseppe Aloisi, Venerdì 11/10/2019, su Il Giornale. "Stiamo cercando di mettere in pratica quello che il Papa ci chiede: far partecipare gli indigeni nel dare un volto alla Chiesa amazzonica. Ma per farlo hanno bisogno di ministri propri". Il vescovo Wilmar Santin conosce le intenzioni del pontefice argentino e ritiene che i preti indios possano essere una soluzione alle necessità pastorali dei territori panamazzonici. Il Sinodo è in corso. I padri sinodali hanno anche iniziato a discutere di diaconato femminile, ma la riforma più vociferata è quella sui "viri probati": indigeni che hanno contratto un matrimonio nel corso della loro esistenza, ma che hanno anche dimostrato di essere uomini di "chiara fede". Almeno tanto quanto è sufficiente per amministrare i sacramenti al posto dei sacerdoti, che in Amazzonia mancano, e gestire le realtà ecclesiastiche della foresta sudamericana. Il cardinale Claudio Hummes, relatore generale dei lavori sinodali, sembra convinto che questo dei viri probati sia un buon modo per fare fronte a un problema, che è soprattutto numerico: in Amazzonia non risiedono tanti sacerdoti quanti ne servirebbero. E i consacrati a disposizione della Chiesa cattolica non possono percorrere certe distanze chilometriche. Da qui, la necessità di uscire dall'impasse. Per il "fronte tradizionale", però, il celibato è un dogma non soggetto a modifiche, per quanto le novità possano essere parziali. Ieri il cardinale Gherard Ludwig Mueller ha espresso tutta la sua contrarietà. L'iter può insomma subire complicazioni. Pure perché gli ecclesiastici perplessi non sono pochi: è forse un motivo sufficiente affinché i vescovi optino per una deliberazione più soft, ossia - come riportato anche dall'edizione odierna de Il Giorno - quella sul diaconato permanente. I diaconi non fanno parte del clero, ma possono officiare ad alcuni sacramenti. E difficilmente un indirizzo di questo tipo può essere contestato. Se non altro perché non si tratterebbe affatto di una innovazione senza precedenti. Papa Francesco vuole comunque che l'evangelizzazione in Amazzonia passi dall'integrazione piena dei popoli indigeni. La strada che conduce alle decisioni temporanee - perché poi devono essere avallate dal vescovo di Roma - termina il prossimo 27 ottobre. Da quel momento in poi, la Chiesa cattolica conoscerà meglio il suo futuro.

 “NEMMENO IL PAPA PUÒ ABOLIRE IL CELIBATO DEI PRETI”. Paolo Rodari per “la Repubblica” il 10 ottobre 2019. Nell' appartamento che era di Joseph Ratzinger ai tempi in cui guidava la Dottrina della fede, il prefetto emerito dell' ex Sant'Uffizio Gerhard Müller sfoglia le bozze del suo ultimo libro "Affinché siate una benedizione" (Cantagalli). Dodici lettere sul sacerdozio in libreria nei giorni in cui il Sinodo s'interroga sulla possibilità di aprire il sacerdozio ai «viri probati», uomini anziati sposati e di provata fede.

Cosa pensa?

«Penso sia sbagliato introdurre i "viri probati". Ci sono già dei diaconi sposati. Se li introduciamo devono rispettare la consuetudine della Chiesa antica: devono vivere in castità».

Ma se sono sposati, come fanno?

«Anche nella Chiesa ortodossa, che pure ha aperto in questo senso, i sacerdoti sposati devono vivere in castità nei giorni che precedono la celebrazione della messa. Non conosce il Sinodo Trullano del 692? Lì, sotto pressione dell' imperatore, venne sciolta la legge del celibato, ma solo la Chiesa ortodossa vi aderì. Non quella latina. Per questo chi vuole inserire la pratica dei preti sposati nella Chiesa latina non conosce la sua storia».

Eppure il celibato è soltanto una legge ecclesiastica.

«Non è una qualsiasi legge che può essere cambiata a piacimento. Ma ha profonde radici nel sacramento dell' ordine. Il prete è rappresentante di Cristo sposo e ha una spiritualità vissuta che non può essere cambiata».

Benedetto XVI però ha permesso ai sacerdoti anglicani che si convertono di restare sposati.

«Si tratta di eccezioni. Gli apostoli hanno lasciato tutto per andare dietro a Gesù. Cristo è il modello per i ministri, i preti. E questa cosa non può essere cambiata da spinte secolari. E nemmeno si può contraddire il Concilio Vaticano II che in "Presbyterorum ordinis", al numero 16, parla del celibato e del legame di convenienza fra chi rappresenta Cristo celibe sposo e la Chiesa».

Senza il celibato non diminuirebbero anche gli abusi sessuali commessi da preti?

«No, è falso. Ciò nasconde una falsa antropologia. Un abuso è una contraddizione contro la castità. Gli abusi avvengono ovunque, non soltanto nel sacerdozio. E non dobbiamo dimenticare che statisticamente più dell' 80 per cento delle vittime non sono bambini, ma adolescenti maschi. Ciò significa che molti abusi sono commessi da persone che non vogliono rispettate il sesto comandamento. Nessuno dovrebbe essere ammesso al sacerdozio se non accetta di vivere secondo i comandamenti di Dio e le esortazioni di Cristo. Ho scritto il mio libro per i tanti preti buoni e fedeli costretti a subire accuse per colpa di alcuni che sbagliano».

È vero che parte del mondo conservatore è pronto allo scisma se il Sinodo cambia questioni fondamentali della dottrina?

«Uno scisma è contro la volontà di Gesù, ed è il tradimento delle sane parole di Gesù o della dottrina degli apostoli. Il magistero agirà nel solco della tradizione apostolica della Chiesa, del resto non può fare altrimenti. Nessun Papa, né la maggioranza dei vescovi, possono cambiare dogmi della fede o leggi del diritto divino secondo i propri piaceri. La tradizione della Chiesa non è un gioco che si può modellare a piacimento».

C'è chi la dipinge come un nemico di Francesco.

«Il Papa deve riflettere su alcuni suoi adulatori. Coloro che dicono queste cose tecnicamente sono ignoranti. Ho scritto un libro di 600 pagine sul Papa e sul papato, la più estesa monografia attuale in merito. Avversari del Papa sono quelli che negano che il papato sia un' istituzione divina, che vogliono cambiare la dottrina rivelata senza tener conto del Vaticano I e II. Chi dice queste cose fa un grave danno alla credibilità della Chiesa cattolica».

Cosa pensa dell'ordinazione femminile?

«Non se ne può parlare perché dogmaticamente è impossibile arrivare a tanto».

Si sono levate proteste all' interno dell' Istituto Giovanni Paolo II contro il suo rinnovamento.

Alcuni docenti hanno perso la cattedra e hanno detto che si sta tradendo l' intero magistero di Wojtyla. È così?

«Era un grande sbaglio distruggere quest' Istituto, un attentato contro la qualità intellettuale della teologia cattolica. Nel mondo accademico sono tutti senza parole: impensabile licenziare dei docenti per il loro pensiero veramente ortodosso. Fra l' altro non è un pensiero che tradisce la dottrina, quindi non si capisce perché mandarli via».

Papa Francesco:  «Io tentato e assediato, pregate per me». Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. «È importante che la gente preghi per il Papa e per le sue intenzioni. Il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo»: così papa Francesco durante l’incontro con i Gesuiti nel recente viaggio in Africa. Lo riferisce su Civiltà Cattolica il direttore, padre Antonio Spadaro. «Quando Pietro era imprigionato, la Chiesa ha pregato incessantemente per lui. Se la Chiesa prega per il Papa, questo è una grazia. Io davvero - dice Francesco - sento continuamente il bisogno di chiedere l’elemosina della preghiera».

Da Duc in altum - il blog di Aldo Maria Valli - il 27 settembre 2019.  Cari amici di Duc in altum, così come le vie del Signore anche le possibilità di restare sconcertati da papa Francesco sono infinite. Il padre Antonio Spadaro pubblica oggi sulla Civiltà cattolica  la conversazione che Francesco ha avuto il 5 e l’8 settembre scorso con i gesuiti del Mozambico e del Madagascar in occasione del suo viaggio apostolico in Africa. Il resoconto si intitola La sovranità del popolo di Dio e vi possiamo leggere le risposte che il papa ha dato ai suoi confratelli durante l’incontro. Ma perché parlo di sconcerto? Perché a un certo punto, rispondendo alla domanda del padre Bendito Ngozo, che lo interpella sul problema delle sette protestanti e del proselitismo, il papa racconta: «Oggi ho sentito una certa amarezza quando ho concluso l’incontro con i giovani. Una signora mi ha avvicinato con un giovane e una giovane. Mi è stato detto che facevano parte di un movimento un po’ fondamentalista. Lei mi ha detto in perfetto spagnolo: “Santità, vengo dal Sud Africa. Questo ragazzo era indù e si è convertito al cattolicesimo. Questa ragazza era anglicana e si è convertita al cattolicesimo”. Ma me lo ha detto in maniera trionfale, come se avesse fatto una battuta di caccia con il trofeo. Mi sono sentito a disagio e le ho detto: “Signora, evangelizzazione sì, proselitismo no”». Ho letto e riletto, ma c’è scritto proprio così. Capite? Anziché abbracciare i due convertiti, fare festa con loro e benedirli, il papa li ha praticamente sgridati, ed ha rimproverato la signora per averli aiutati a diventare cattolici! Nella sua risposta il papa introduce la solita distinzione tra evangelizzazione e proselitismo, un discorso che ha fatto molte volte. Ma, al di là di questa distinzione (sulla quale si può discutere), come può avere un atteggiamento simile nei confronti di chi è arrivato alla fede cattolica provenendo da un’altra esperienza religiosa? La signora di cui parla si sarà anche pronunciata “in maniera trionfale”, ma come biasimarla? Se ti trovi davanti al papa, e hai la possibilità di presentargli due giovani convertiti al cattolicesimo, un certo cedimento alla soddisfazione può essere più che comprensibile. E invece il papa (dico: il papa, il capo visibile della Chiesa cattolica) se la prende a male. Ma nel dialogo con i confratelli gesuiti c’è un altro punto che lascia più che perplessi. Si trova là dove il papa, tuonando contro il clericalismo (e anche questa non è una novità) dice: «Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Ecco, dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi. Ho dovuto intervenire di recente in tre diocesi per problemi che poi si esprimevano in queste forme di rigidità che nascondevano squilibri e problemi morali. Una delle dimensioni del clericalismo è la fissazione morale esclusiva sul sesto comandamento. Una volta un gesuita, un grande gesuita, mi disse di stare attento nel dare l’assoluzione, perché i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore “angelicità”: orgoglio, arroganza, dominio… E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria. Ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all’ingiustizia sociale, alla calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne. La Chiesa oggi ha bisogno di una profonda conversione su questo punto. D’altra parte, i grandi pastori danno alla gente molta libertà. Il buon pastore sa condurre il suo gregge senza asservirlo a regole che lo mortificano. Il clericalismo invece porta all’ipocrisia. Anche nella vita religiosa». Non voglio entrare nella questione riguardante quali peccati siano più gravi, se quelli legati alla sfera sessuale o quelli sociali, perché mi sembra un discorso che non porta da nessuna parte. Mi concentro invece sul parallelo che il papa fa tra il “clericale”, inteso come arrampicatore e persona moralmente corrotta, e il “rigido”, esemplificato dalla figura del giovane prete in tonaca nera. E dico che qui siamo a un livello di insinuazione e di maldicenza del tutto inaccettabile. In base a che cosa il papa sostiene che il giovane sacerdote che si veste da prete, con tonaca e cappello, è un “rigido” e come tale un clericale e una persona moralmente corrotta? Com’è possibile che un papa si esprima in questo modo nei confronti di chi ha a cuore la propria identità di sacerdote? Discorsi come questi, difficilmente digeribili perfino se fatti al bar, non sono tollerabili. Mettiamoci nei panni (è il caso di dirlo) di un prete che per amore della propria identità si veste abitualmente da prete, con tonaca e cappello. Il papa in pratica lo addita come perverso e ipocrita, come persona dalla quale stare alla larga. Ma come si permette? E che dire del concetto secondo cui «i grandi pastori danno alla gente molta libertà»? Che significa? Libertà in che senso? Su che cosa si basa tale affermazione? Dove vuole arrivare? Perché i cattolici, che hanno il diritto di capire bene che cosa intende il supremo pastore in materia di fede e dottrina, devono essere ormai nutriti in questo modo, da un papa che appare ostile a tutto ciò che è cattolico e produce ambiguità, maldicenze, insulti e allusioni cattive e ingiustificate? Per carità di patria, anzi di Chiesa, non mi occupo di altri punti del dialogo del papa con i gesuiti. Mi chiedo soltanto: fino a quando dovremo sopportare questa svalutazione, questo immiserimento, questa sconcertante opera di progressivo degrado della figura papale e della sua autorità?

Sinodo, Papa Francesco nel mirino: il piano per permettere il matrimonio tra preti. Caterina Maniaci su Libero Quotidiano il 28 Settembre 2019. La battaglia è già iniziata da tempo, ma alla vigilia dei lavori del Sinodo speciale sull' Amazzonia e una ecologia integrale sull' ambiente e la sua protezione, la polemica si fa più accesa. E si allunga la lista di cardinali e uomini importanti della gerarchia ecclesiale che puntano il dito contro quello che potrebbe avvenire, che si prevede o si auspica che avvenga, nelle tre settimane di lavori in Vaticano, dal 6 al 27 ottobre. Persino il cardinale George Pell, dalla sua cella di prigione in Australia, detenuto dopo l' arresto per presunte molestie sessuali ai danni di minorenni - con tanti dubbi irrisolti - nonostante la difficile situazione, non ha esitato a divulgare un sofferto appello per evitare che questo Sinodo diventi una sorta di cavallo di Troia per introdurre idee e risoluzioni tali da scuotere le fondamenta stesse dell' istituzione della Chiesa. Ossia la fine del celibato per i sacerdoti, il sacerdozio femminile, le delicate posizioni in materia di etica, la comunione ai divorziati...Ora, a pochi giorni dell' inizio ufficiale, ecco che altri tre porporati rivolgono critiche severe all'Instrumentum laboris, il documento base dell' imminente sinodo, oltre che al generale stato di confusione in cui, a loro giudizio, la Chiesa si dibatte. i tedeschi Dopo i tedeschi Walter Brandmuller e Gerhard Muller, esprimono dubbi e preoccupazioni il cardinale Robert Sarah, originario della Guinea, prefetto della Congregazione per il culto divino, Raymond Burke, statunitense, già presidente del supremo tribunale della segnatura apostolica, e il venezuelano Jorge Urosa Savino, arcivescovo emerito di Caracas. Uomini diversi, per esperienza, formazione, sensibilità, ma uniti dalla stessa preoccupazione. Nel sito Settimo cielo, a cura del vaticanista Sandro Magister, sono riportate con la consueta puntualità e documentazione le dichiarazioni di questi ultimi giorni. In particolare colpisce quello che ha spiegato il cardinale Sarah in un' intervista al National Cattolica Register. Con la solita forza e passione, senza alcuna polemica contro l' attuale pontificato, il porporato riporta le intenzioni, espresse da più parti, di trasformare questo sinodo in «un laboratorio per la Chiesa universale» e che dopo questo sinodo «nulla sarebbe stato come prima». Se questo fosse vero, si tratterebbe di una «attività disonesta e menzognera», perché in realtà questa convocazione «ha un obiettivo locale e determinato: l' evangelizzazione dell' Amazzonia», e infatti sono pochi i vescovi invitati a partecipare. Il timore è che «alcuni dell' Occidente confischino questa assemblea per portare avanti i loro progetti. Penso in particolare all' ordinazione di uomini sposati, alla creazione di ministeri femminili o al fatto di dare una giurisdizione a dei laici. Questi punti toccano la struttura della Chiesa universale. Non potrebbero essere discussi in un sinodo particolare e locale». Evangelizzazione - Il cardinale si definisce «colpito e indignato» per il fatto che «i bisogni spirituali dei poveri in Amazzonia siano presi a pretesto per sostenere progetti che sono tipici di un cristianesimo borghese e mondano». Una chiesa ricca, mondana, quella del Nord Europa - in particolare tedesca - all' attacco dei fondamenti dell' istituzione ecclesiale, che le chiese più povere, soprattutto africane, difendono questi fondamenti. Poiché queste chiese ricche finanziano quelle povere, si credono in diritto di imporre il proprio punto di vista ideologico. Sarah chiede inoltre di non farsi intimidire, di «innalzare un baluardo di preghiere e sacrifici in modo che nessuna breccia giunga a ferire la bellezza del sacerdozio cattolico». A questo proposito ricorda che papa Francesco ha sempre difeso il celibato dei preti, sostenendo che si tratta di «un dono per la Chiesa». L' ultimo intervento risale al 27 gennaio di quest' anno, di ritorno dalla giornata mondiale della gioventù di Panama. Ma le pressioni saranno forti. Francesco di recente ha ammesso di aver bisogno di preghiere, perché «il Papa è tentato, è molto assediato: solo la preghiera del suo popolo può liberarlo», come ha dichiarato nel suo incontro con i gesuiti nel recente viaggio in Africa e come riferisce su Civiltà Cattolica il direttore, padre Antonio Spadaro. Caterina Maniaci

Franca Giansoldati per il Messaggero il 23 settembre 2019.  Inizia stamattina a Fulda la sessione plenaria della Conferenza Episcopale tedesca destinata ad avviare un percorso di cambiamenti nella Chiesa cattolica in Germania. In Vaticano osservano con grandissima preoccupazione questo laboratorio di idee che è stato messo in piedi dalla maggior parte dei vescovi tedeschi (causando divisioni e spaccature), come del resto testimoniano alcuni scambi di lettere e documenti tra Roma e Berlino sulle iniziative in atto. Il cardinale Reinherd Marx ha parlato più volte con il Papa per rassicurarlo che non ci sarà nessuno scisma all'orizzonte, cercando di allontanare il fantasma di Lutero. Sul tappeto ci sono riforme strutturali che vanno a mettere in discussione alcune aree tabù sulle quali finora si è poggiata la Chiesa moderna: il sacerdozio femminile, l'abolizione del celibato sacerdotale, una maggiore libertà su temi riguardanti la morale sessuale. Che la Chiesa cattolica tedesca sia in fermento lo dimostrano anche le proteste delle donne cattoliche. Anche ieri davanti alla cattedrale gotica di Colonia hanno manifestato per richiedere coraggio e aprire al sacerdozio femminile, esattamente come già avviene nelle Chiese protestanti e riformate. Alcuni mesi fa hanno dato vita ad una estesa rete femminile che si chiama Maria 2.0 per vigilare sulle riforme. La scorsa settimana il cardinale Marx, a Roma, ha assicurato a distanza che per le donne si aspetta posizioni nuove e audaci, sicuramente «una loro inclusione nei processi di leadership a ogni livello», aggiungendo però che «la via del sacerdozio è sbarrata” dal magistero papale. Anche Papa Bergoglio è impaurito all'idea di aperture simili, anche se tra poco in Vaticano si aprirà il Sinodo sull'Amazzonia dove verrà affrontata apertamente la questione del diaconato femminile, necessario – almeno per le zone amazzoniche – a garantire ad alcune regioni distanti la possibilità di un servizio pastorale continuo. A Fulda la sessione plenaria autunnale della Conferenza è composta da 69 membri . Un anno dopo la pubblicazione dello studio -Abuso sessuale di minori da parte di sacerdoti cattolici, diaconi e religiosi maschili nell’area della Conferenza episcopale tedesca”(studio Mhg) -, le deliberazioni si sono concentrate sui preparativi per la via sinodale. Il Vaticano vigilerà che ogni passaggio sia conforme al codice di diritto canonico e non contenga strappi alla dottrina. In questo contesto i vescovi discuteranno gli aspetti sostanziali della lettera di Papa Francesco alla Germania del 29 giugno 2019.

Da corriere.it il 14 settembre 2019. Il populismo è «un pericolo»: lo ha sottolineato Papa Francesco nell’udienza con i vescovi orientali cattolici in Europa, convenuti a Roma in occasione del consueto incontro annuale organizzato dal Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa (Ccee). «Questo è un pericolo della nostra società: i particolarismi che diventano populismi e vogliono comandare e uniformare tutto», ha sottolineato il pontefice chiedendo ai presuli che anche la Chiesa locale eviti la «tentazione di chiudersi in sé stessa e di cadere in particolarismi nazionali o etnici escludenti».

L’esortazione alla carità. Per papa Francesco bisogna invece abbracciare il debole e il diverso. «Quando ci chiniamo insieme sul fratello che soffre, quando diventiamo insieme prossimi di chi patisce solitudine e povertà, quando mettiamo al centro chi è emarginato, come i bambini che non vedono la luce, i giovani privati di speranza, le famiglie tentate di disgregarsi, gli ammalati o gli anziani scartati, già camminiamo insieme nella carità che sana le divisioni». Il Pontefice ha esortato: «Aiutiamoci a vivere la carità verso tutti. Essa non conosce territori canonici e giurisdizioni».

«I soldi sono un veleno». Il Papa ha anche lanciato un appello alla sobrietà. «È amando che passano in secondo piano quelle realtà secondarie a cui siamo ancora attaccati, anche i soldi che sono un veleno, il diavolo entra dalle tasche, non dimenticatelo»: lo ha detto il Papa nell’incontro con i vescovi cattolici orientali. Amando - ha aggiunto Papa Francesco - «vengono in primo piano le uniche che restano per sempre: Dio e il prossimo».

Il messaggio ai detenuti. Bergoglio ha incontrato anche la Polizia penitenziaria, e ha inviato un messaggio di incoraggiamento ai detenuti : «Non soffocate la speranza», dice loro, consapevole della durezza delle condizioni. Tra «le difficoltà» delle carceri c’è «in particolare» il problema del «sovraffollamento degli istituti penitenziari, che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento», segnala il Papa. «Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero», ha detto il pontefice Per Bergoglio «l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare».

Mattia Feltri per “la Stampa” il 3 maggio 2019. Direttore Vespa, per lei il 2019 è il cinquantesimo anno in Rai. «Sono stato fortunato. Ho vinto il concorso 1968-69: fui primo di 23 ammessi su un migliaio. Non immaginavo di farcela, mentre mio padre ci credeva. Scommettemmo un televisore a colori poi, grazie a Ugo La Malfa che per una politica pauperistica era contrario, la tv a colori arrivò solo nel '77, e mio padre era morto. La regalai a mia madre».

Si ricorda il primo servizio?

«Quella era una Rai in cui si facevano telecronache del 2 giugno, pezzi su Salvo D' Acquisto. Il mio primo servizio fu sulla regata storica delle Repubbliche marinare, figuriamoci. Era giugno, ma già a dicembre ero su Piazza Fontana».

Come no. Lei annunciò l' arresto del colpevole, Pietro Valpreda, che poi fu assolto.

«Me ne pentii. Ma, se si va a vedere i giornali dell' epoca, era una gara linguistica a chi trovava il termine più brutale: mostro, boia. Del resto nessuno dubitava della colpevolezza di Valpreda, e per dire che il processo mediatico non è un' invenzione di oggi».

Lei per esempio fa processi in tv, coi famosi plastici. Ma ce n' è davvero bisogno?

«Non capisco: se i giornali pubblicano piantine, scene del delitto, indagano va bene. Se lo faccio io è tv spettacolo».

Forse non dovrebbe farlo nessuno.

«Questo è un altro discorso. Ma la copertura mediatica dei processi è arte antica».

Prima di piazza Fontana ci fu lo sbarco sulla Luna, raccontato nel suo ultimo libro.

«Una notte straordinaria, con la diretta di Tito Stagno e Andrea Barbato, un evento che andò oltre la cronaca, interpellava l' umanità, il senso della sua presenza nel cosmo, infatti c' erano ospiti di ogni tipo, dal regista Michelangelo Antonioni al poeta Alfonso Gatto».

È il servizio che l' ha segnata di più?

«No. È stato l' evento più importante di tutta la seconda metà del Novecento, ma lì facevo il portatore d' acqua, com' era giusto. Dal punto di vista professionale mi ha segnato il sequestro e l' omicidio di Aldo Moro.

La mattina del rapimento corsi in Rai e dovetti tenere la diretta per ore, alcune decine di minuti sulla base di due righe dell' Ansa. Sono rimasto blindato in Rai per cinquantacinque giorni. Due volte sono andato al cinema e dovevo segnalare alle maschere il posto dov' ero seduto, in caso di emergenza. Poi feci anche la diretta subito dopo il ritrovamento del cadavere».

Lì la si vede sconvolto.

«Un po' sì, ma ero soprattutto trafelato perché ero corso su per le scale a dare la notizia prima che partisse la pubblicità. Però, al di là del caso Moro, l' incontro fondamentale è con Wojtyla».

Le telefonò in diretta.

«Avevamo un rapporto antico.L' ho conosciuto un anno prima che diventasse Papa: era il '77 e volevo intervistare il cardinale Wyszynski, primate di Polonia, ma fu impossibile. Mi indicarono il cardinale Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Cenammo a Roma, c' era Pierluigi Varvesi, allora giornalista Rai e oggi laico consacrato a Gesù. Varvesi diceva che i preti non dovevano insegnare, e Wojtyla si infuriò, dava i pugni sul tavolo: venite a vedere come si vive in Polonia con la dittatura comunista, diceva.

Nella foga, bevve mezza bottiglia di Chivas. Poi andai a intervistarlo a Cracovia e ne fui così impressionato che gli dissi se non fosse ora di un Papa polacco. Forse è presto, mi rispose. In effetti servì l' intermezzo di Papa Luciani, il primo a parlare di sé in prima persona, senza usare il plurale maiestatis. Giovanni Paolo I fu indispensabile perché arrivasse Giovanni Paolo II».

Molti pensano che la Rai, quella del servizio pubblico, morì a Vermicino col piccolo Alfredino Rampi.

«Non lo so, ma ero totalmente contrario a quella interminabile diretta. Pregai il direttore Emilio Fede di sospenderla perché mi parevano tutti impegnati a lucrare sulla pelle di un povero bimbo. Pure il presidente Pertini, che fu un vero eroe della Resistenza, uno dei pochi che l' ha fatta davvero, ma a Vermicino voleva essere il primo ad abbracciare Alfredino, che invece morì. Pertini non amava i bambini, amava le telecamere. La diretta andò avanti e io me ne tirai fuori, tornai a casa».

Alla fine della Prima repubblica lei sembrava finito, invece doveva ancora cominciare. Porta a Porta è del '96.

«Nel '93 fui messo in punizione perché ero il giornalista del vecchio regime. Pensate che, quando ci fu l' attentato a San Giovanni in Laterano, ci andai e mi imbattei in Papa Wojtyla col presidente Scalfaro e il capo della polizia Parisi. Un colpo notevole. Albino Longhi, direttore del Tg1, disse che il servizio poteva andare in onda purché non si vedesse la mia faccia. Ma, per dire come vanno le cose, poco dopo riuscii a intervistare Silvio Berlusconi, che non conoscevo, e bastò perché all' indomani fossi di nuovo in prima serata».

È un piccolo ed esaustivo trattato sulla Rai. Però fu lei a dire che la Dc era il suo editore di riferimento.

«Lo rivendico. Ci sono cose che non si possono dire, ma sono vere. La Rai è controllata dal Parlamento dentro cui c' è una maggioranza che esprime un governo. Il resto è ipocrisia. Allora poi al Tg2 c' era Alberto La Volpe e Sandro Curzi al Tg3, il primo militante del Psi il secondo del Pci, mentre io non ho mai fatto una riunione di partito».

Sono intrusivi i politici?

«Lo so che non mi crede nessuno, ma poco o niente. Ci provavano nella Prima repubblica solo quelli dei piccoli partiti perché hanno bisogno di spazio, i partiti grandi conoscevano la nostra correttezza e lo spazio dovuto».

Più che la questione dell' editore di riferimento, colpisce la necessità della Rai, e anche sua, di spettacolarizzare la cronaca per gli ascolti. Eppure ci sono due miliardi di canone. Non è un tradimento del servizio pubblico?

«No. Negli Usa c' è la Pbs, la tv pubblica, rigorosa e raffinata, ma non la guarda nessuno. Il mercato, con cui ci confrontiamo, ci impone di essere di qualità e appetibili, e secondo me ci riusciamo spesso».

La sua intervista a Riina jr ubbidì a questa logica?

«La rifarei sempre, come Enzo Biagi intervistò Buscetta e Liggio, e perché solo da quella intervista si capì in pieno l' impunità di Riina latitante».

Ma non è umiliante per lei avere a che fare con nuovi editori di riferimento che non sanno nulla?

«Assolutamente no, sarei ingeneroso. Chi ci governa, ma anche chi sta all' opposizione, è lo specchio di una generazione che sa poco, e quasi nulla del passato, e io che ho un' età e un' esperienza ho gioco facile a ricordargli il necessario».

Quanto ancora andrà avanti?

«Dipende dal buonumore del Padreterno, che fin qui mi ha molto assistito, e dalla fiducia nella mia azienda».

Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera il 23 aprile 2019. Un santo vestito di bianco si affloscia tra le sue braccia. Il maggiordomo lo stringe a sé, poi lo adagia sul sedile della campagnola e gli regge la testa. Il santo ha l' indice della mano sinistra mozzato da un colpo di pistola e un buco nella veste candida, ma dall' addome non esce sangue. «Pessimo segnale», rievoca oggi il maggiordomo con l' occhio da poliziotto, l' unica persona al mondo a figurare alla voce «Familiari del Papa» nell' Annuario pontificio. «Guardai il segretario don Stanislao Dziwisz e balbettai: speriamo». Angelo Gugel, aiutante di camera di San Giovanni Paolo II, prima d' ora non aveva mai parlato con nessuno, tantomeno con un giornalista. Né dei tre pontefici che servì per 28 anni, né di ciò che accadde il 13 maggio 1981, quando in piazza San Pietro il terrorista turco Ali Agca sparò al Papa polacco. C' è una pietra bianca, murata per terra vicino al colonnato del Bernini, a ricordare il punto esatto dell' attentato. «Quello che pochi sanno», rivela, «è che ve n' è un' altra uguale, con lo stemma pontificio e la data in numeri romani, anche nell' atrio dei Servizi sanitari del Vaticano, dove sdraiammo il Santo Padre sul pavimento, prima di trasportarlo in ambulanza al Policlinico Gemelli». Alla fine risultò che l' emorragia interna aveva provocato la perdita di tre litri di sangue. Il cameriere lasciò l' ospedale solo a intervento chirurgico concluso, dopo aver avvoltolato in un unico fagotto la talare e la canottiera chiazzate di rosso brunastro. Gugel, 83 anni venerdì prossimo, veneto di Miane (Treviso), dice d' aver visto uno dei miracoli del vicario di Cristo venuto da Cracovia e salvato dalla Madonna di Fatima.

Compiuto su chi?

«Su Maria Luisa Dall' Arche, che è mia moglie dal 1964. La nostra primogenita nacque morta. Facemmo voto di mettere come secondo nome Maria a tutti i figli che la Madonna ci avesse concesso. Ne arrivarono tre: Raffaella, Flaviana e Guido. La quarta si chiama Carla Luciana Maria in onore di Karol e di papa Luciani. È nata nel 1980 per intercessione di Wojtyla».

Che accadde?

«Insorsero gravissimi problemi all' utero. I ginecologi del Policlinico Gemelli, Bompiani, Forleo e Villani, escludevano che la gravidanza potesse proseguire. Un giorno Giovanni Paolo II mi disse: "Oggi ho celebrato la messa per sua moglie". Il 9 aprile Maria Luisa fu portata in sala operatoria per un parto cesareo. All' uscita, il dottor Villani commentò: "Qualcuno deve aver pregato molto". Sul certificato di nascita scrisse "ore 7.15", l' istante in cui la messa mattutina del Papa era al Sanctus. A colazione, suor Tobiana Sobotka, superiora delle religiose in servizio nel Palazzo Apostolico, informò il Pontefice che era nata Carla Luciana Maria. "Deo gratias", esclamò Wojtyla. E il 27 aprile volle essere lui a battezzarla nella cappella privata».

Come divenne aiutante di camera?

«Ero stato due anni in seminario. Sarei finito contadino con i miei genitori e mio fratello. Invece Giovanni Sessolo, sostituto della Sacra penitenzieria apostolica, nativo di Oderzo, mi fece presentare domanda come guardia palatina. I carabinieri assunsero informazioni in paese. Convocato a Roma il 2 febbraio 1955, scoprii che l' incarico era onorifico, senza stipendio. E così mi arruolarono come gendarme pontificio».

Al servizio di Pio XII.

«Esatto. Mentre papa Pacelli passeggiava nei Giardini vaticani, nessuno di noi doveva farsi vedere. Solo nella residenza estiva di Castel Gandolfo potevamo porgergli il saluto in ginocchio, con il moschetto a terra».

Giovanni XXIII era più espansivo?

«Con lui potevi parlare. Gli ricordai che da patriarca di Venezia aveva visitato Follina, frazione vicino a casa mia. "Bei tempi, bei tempi allora", sospirò».

E Paolo VI?

«Mi ammalai di Tbc. Dopo una lunga convalescenza, gli scrissi una supplica. Mi riprese in servizio al Governatorato».

Perché Giovanni Paolo I scelse lei come aiutante di camera?

«Era stato il mio vescovo a Vittorio Veneto. Conosceva mia mamma e mia moglie. Aveva ordinato prete mio cognato don Mario Dall' Arche. Durante il Concilio, gli avevo fatto da autista a Roma ed era venuto a cena a casa nostra. Lo salutai alla vigilia del conclave. Lui si schermì: "Mi fa gli auguri perché mi salvi l' anima?"».

Pensava che ne sarebbe uscito papa?

«No. Tant' è che il 26 agosto 1978 raggiunsi la mia famiglia in vacanza a Miane. Il 3 settembre le suore dell' asilo ricevettero una telefonata da Camillo Cibin, il capo della Gendarmeria: "Dite a Gugel di tornare subito a Roma con un vestito nero". Corsi a comprarmene uno a Farra di Soligo e mi precipitai in Vaticano. Papa Luciani mi accolse così: "Lei è al mio servizio. In qualsiasi momento venissi a mancare, tornerà a occupare lo stesso posto che aveva prima"».

Quasi una profezia.

«Già. La prima domenica, dopo l' Angelus, gli dissi: Santo Padre, ha visto quanta gente in piazza San Pietro? Replicò: "Vengono perché il Papa è nuovo". Teneva i discorsi a braccio. "È così difficile parlare e scrivere in modo semplice", mi confidò».

La notte in cui morì lei era nel Palazzo Apostolico?

«No, mi aveva congedato alle 20.30: "Buona notte, Angelo, ci vediamo domani". Arrivai il giorno dopo alle 7. Giaceva nel letto. Mi prostrai a baciargli le mani. La salma era ancora tiepida».

Sentir parlare di omicidio la turba?

«Mi addolora. È una stupidaggine. Il pomeriggio precedente al decesso il Papa non stava bene. Io stesso gli portai una pastiglia prima che si coricasse».

Niente che lasciasse presagire la fine?

«A cena mangiò pochissimo. Ricordo che a tavola parlò con i suoi segretari dell' Apparecchio alla morte, il libro di Sant' Alfonso Maria de' Liguori».

Come fu assunto da Karol Wojtyla?

«Trascorsi due giorni dall' elezione, il sostituto della Segreteria di Stato, Giuseppe Caprio, telefonò alle 11.30 in Governatorato dicendo: "Il signor Gugel si presenti nell' appartamento privato del Papa così com' è vestito". Salii all' ultimo piano del Palazzo Apostolico. Le gambe mi tremavano. C' erano solo prelati polacchi, ero l' unico a parlare italiano».

Più un traduttore che un cameriere.

«Rimasi interdetto quando la mattina del 22 ottobre 1978, prima di recarsi in piazza San Pietro per l' inizio solenne del pontificato, il Santo Padre mi chiamò nel suo studio e mi lesse l' omelia che avrebbe pronunciato di lì a poco: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l' uomo. Solo lui lo sa!". Mi chiese di segnalargli le pronunce sbagliate e con la matita si appuntava dove far cadere gli accenti. Due mesi dopo, incontrando i miei ex colleghi della Gendarmeria, se ne uscì con una frase che mi lasciò di stucco: "Se sbaglio l' accento di qualche parola, il 50 per cento è colpa di Angelo", e mi sorrise».

Arturo Mari, fotografo dell'«Osservatore Romano», mi raccontò d' aver assistito a un esorcismo di Wojtyla dopo l' udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro.

«C' ero anch' io. Una ragazza bestemmiava con la bava alla bocca. La voce era cavernosa. Un vescovo scappò via per la paura. Il Santo Padre pregava in latino, senza scomporsi. Alla fine le toccò il capo e subito il volto dell' indemoniata si distese in un' espressione di pace. Lo vidi compiere un rito analogo in un salottino dell' Aula Nervi, sempre dopo un' udienza».

Ma lei si sentiva davvero «familiare del Papa», come recita la qualifica prevista nell' ambito della «Famiglia pontificia»?

«Sì. Soprattutto mi sentii tale il 19 giugno 1990. Wojtyla aveva ospite a cena il presidente Francesco Cossiga quando arrivò una telefonata: mio figlio era stato investito da un' auto della polizia e sbalzato a terra dallo scooter. Don Stanislao accorse in ospedale. Guido era in coma profondo, nessuna speranza di sopravvivenza, tanto che gli fu impartita l' estrema unzione. Si precipitò anche l' arcivescovo Fiorenzo Angelini, che lo fece trasferire al San Giovanni. Dopo molti giorni, il ragazzo si risvegliò e mi disse: "Papà, sono venuti tre barboni". Solo allora compresi che si era recato a pregare al suo capezzale anche l' attuale patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli, che era stato ricevuto da Sua Santità con altri due prelati ortodossi, in rappresentanza di Demetrio I».

Lei aveva le chiavi di casa del Papa?

«Per la precisione era la chiave dell' ascensore che dal Cortile Sisto V porta nell' appartamento pontificio. Capitò che la perdessi, durante una passeggiata con Giovanni Paolo II sulla spiaggia dell' ospedale Bambino Gesù, a Palidoro».

E che cosa fece?

«Usai quella di scorta. La cosa incredibile è che, tornati al mare 15 giorni dopo, ritrovai la chiave perduta».

Erano frequenti le gite in incognito?

«Diciamo che non tutte quelle che facevamo apparivano sui giornali. Il Santo Padre adorava le montagne dell' Abruzzo. Quando Sandro Pertini nel 1984 si unì a noi per un' escursione sull' Adamello, nel volo da Villafranca al Trentino scoprimmo che aveva paura dell' elicottero. Al rifugio i commensali insistevano perché il presidente pronunciasse il nome del piatto che i gestori avevano preparato: strozzapreti. Niente da fare, anzi s' irritò. Non voleva mancare di rispetto al Papa».

È stato scritto che Wojtyla era ghiotto di pietanze della tradizione polacca: pierogi e torta di formaggio.

«In 27 anni non l' ho mai udito chiedere qualcosa. Mangiava ciò che trovava».

Mi hanno riferito che metteva il parmigiano anche sull' insalata.

«Questo è vero».

Come mai rimase aiutante di camera di papa Ratzinger solo per nove mesi?

«Avevo già compiuto 70 anni. In Vaticano è l' età della pensione. Fui richiamato in occasioni particolari. Stetti con il Santo Padre a Castel Gandolfo per tutto il mese di agosto del 2010. Al termine gli dissi che mi ero sentito come in famiglia. Rispose: "Ma lei è sempre in famiglia!"».

Tempo per la sua vera famiglia gliene restava?

«Poco, poco, poco. Per fortuna c' era lei». (Guarda con tenerezza la moglie).

Che cosa ha provato il giorno in cui per lo scandalo Vatileaks fu arrestato Paolo Gabriele, il suo successore, accusato d' aver rubato documenti al Papa?

«Me lo aspettavo. Mi era stato chiesto di addestrarlo. Ma non mi sembrava che fosse interessato a imparare».

È più tornato a trovare Benedetto XVI?

«Sì, e l' ho visto lucidissimo. Solo le gambe sono malferme. È costretto a celebrare messa stando seduto».

I giornali scrissero che Raffaella, la sua figlia maggiore, doveva essere rapita al posto di Emanuela Orlandi.

«Assurdo. Ero in Polonia con Wojtyla quando ci fu il sequestro. Non è vero che le due ragazze frequentassero la stessa scuola. E all' epoca la mia famiglia non risiedeva ancora in Vaticano. In seguito, per evitare a Raffaella ogni giorno lunghi tragitti in bus, preferimmo iscriverla nel convitto delle suore Maestre Pie. Ma furono le stesse precauzioni che anche Cibin, il capo della Gendarmeria, adottò per la propria figlia».

Una certa Rita Gugel, indicata come sua parente, figurava in alcune società alle quali era interessato il faccendiere Flavio Carboni, processato e assolto per l' omicidio del banchiere Roberto Calvi.

«Falsità. Non la conosco. Nemmeno a Miane, dove tutti si chiamano Gugel, l' hanno mai sentita nominare».

Del suo mezzo secolo al servizio della Santa Sede quale giorno le resta più impresso nella memoria?

«Il 2 aprile 2005, quando tutta la mia famiglia fu ammessa a congedarsi da Karol Wojtyla che stava morendo. L' ultima ad arrivare fu Carla Luciana Maria. Appena entrò in camera, il Papa si ridestò dal torpore, spalancò gli occhi e le sorrise. Come per dirle: "Ti riconosco, so chi sei"».

Marco Bonatti per “Avvenire” 15 marzo 2018. Fin dall'inizio la porpora ha accompagnato l' avventura dei Salesiani: Giovanni Cagliero, inviato da don Bosco in Patagonia, fu cardinale dal 1915 al 1926; e dopo di lui ne vennero altri, dal polacco Hlond al cinese Zen oggi vescovo emerito di Hong Kong. Non può stupire, dunque, che un cardinale salesiano raccolga i ricordi e le esperienze di una vita per raccontare i suoi Papi; nel suo caso, 7: da Pio XII a Francesco passando per Roncalli, Montini, Luciani, Wojtyla, Ratzinger. Tarcisio Bertone, 84 anni, ha presentato ieri il suo libro nel cuore di Valdocco, in quella "sala Sangalli" che ricorda uno dei Salesiani più importanti e amati degli ultimi decenni, rettore della basilica e "mente" delle comunicazioni sociali della diocesi di Torino coi cardinali Ballestrero, Saldarini e Poletto. A presentare il volume il direttore dell' editrice Elledici, Valerio Bocci, e il giornalista del sito Vatican insider, Domenico Agasso jr. Il libro del cardinale Bertone, intitolato appunto I miei Papi, non si sottrae alle notizie di cronaca - o alle fake news - circolate negli ultimi anni, come quelle relative alla metratura del suo appartamento in Vaticano (sulla cui ristrutturazione, ha detto il porporato, il Papa era informato). Ma il volume tocca soprattutto il lavoro svolto dal cardinale in questi decenni e i ruoli svolti. Bertone ha infatti ricoperto l' incarico di segretario di Stato vaticano, è stato camerlengo di Santa Romana Chiesa; arcivescovo a Vercelli e Genova, professore e rettore dell'Università Salesiana; e ha portato a termine missioni delicate, dal caso Milingo alla gestione del "terzo segreto di Fatima": fu lui a dialogare con suor Lucia e a mettere a punto il confronto tra le carte lasciate dalla religiosa e i suoi ricordi prima di morire. «Non ci sono altri segreti da rivelare - ha ricordato ieri - perché quel che era scritto è stato detto tutto». Nella prefazione il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, riepiloga i ricordi e illumina sulla personalità di Bertone, non dimenticandone la passione sportiva. Ma è l'amicizia - profonda, duratura - con Giovanni Paolo II e con Joseph Ratzinger che il porporato ha voluto sottolineare ieri a Valdocco. Un'amicizia che va oltre la stima e le fedeltà nelle "missioni di lavoro". Bertone ha rievocato le vicende più difficili che hanno portato alle dimissioni di Benedetto XVI, ricordando che il Papa aveva cominciato a parlarne già un anno prima, nell' aprile 2012, motivandole con le condizioni della sua salute; e di come lui, con gli altri collaboratori più stretti, abbia cercato di "ritardare" questo momento, pur rispettando pienamente la volontà del Pontefice. «Per altro - ha detto ancora Bertone - già Giovanni Paolo II aveva pensato seriamente alla rinuncia, e così Paolo VI. E molto prima Pio XII si era preparato a questa eventualità, immaginando di poter essere rapito o impedito nel suo ministero da Adolf Hitler, quando l'esercito tedesco occupò Roma». Infine Francesco. Il cardinale è stato per sette mesi suo segretario di Stato e ha conservato col Papa "venuto dalla fine del mondo" un rapporto cordiale di amicizia anche dopo aver lasciato i suoi incarichi.

Elvira Serra per il Corriere della Sera il 20 dicembre 2017.

Ha sempre creduto ciecamente in Dio?

«Ciecamente mai. La fede è faticosa, è una lotta, come dice San Paolo, non è una pace. Nella fede si vivono tanti dubbi, poi l' amore per il Signore Gesù Cristo vince sul dubbio e si va avanti così. Ma si ricordi che il monaco è un esperto di ateismo».

Come è possibile?

«Il monaco sa che ogni uomo ha l' inferno dentro di sé, ha delle regioni non evangelizzate, degli abissi che deve esplorare. Gli atei sentono una vicinanza e una simpatia per i monaci per la ricerca solitaria profonda in cui a volte nell' oscurità si incontra la nientità, che è niente di niente: sa che vertigini può dare?».

Enzo Bianchi è un uomo piccolo e vero. Si definisce «terrigno», «terrestre». È veloce, nervoso, proteso all' essenziale. Ci incontriamo a Bose, nella comunità che ha fondato l' 8 dicembre 1965 e che oggi conta 55 fratelli e 35 sorelle, comprese le «fraternità» di Assisi, Cellole, Civitella San Paolo e Ostuni. Parla chiaro, semplice. E si illumina di una gioia quasi infantile quando mostra sull' iPhone i frutti del suo orto: insalata canadese anche in inverno, peperoni piccoli e rossi d' estate e una pianta di pomodori cresciuta sul marciapiede di fronte alla sua «cella», tra le portulache.

Cominciamo dalle donne. Quali sono state più decisive per lei?

«Ho un debito enorme verso mia mamma, Angela. Ha fortemente voluto la mia nascita contro il parere di tutta la famiglia, perché era malata di cuore e asmatica e già non aveva portato a termine una prima gravidanza. Mio padre mi disse tante volte: "Tra te e lei preferivo lei"».

Un' immagine di sua madre.

«Davanti a un crocicchio, quando mi portava dai nonni a Montabone: con le sue braccia magrissime fragili mi spingeva verso la croce e mi diceva "abbraccia il Signore". Era il suo affido estremo, avevo tre o quattro anni. Poi la ricordo seduta ai fornelli mentre cucinava, faticava a stare in piedi per la malattia: ci preparava patate fritte quasi tutte le sere. È morta il 17 settembre 1951, a 32 anni, quando io ne avevo otto. L' anno dopo al Galliera di Genova cominciarono a operare la stenosi mitralica, di cui soffriva».

Altre donne?

«Elvira, la maestra, che chiamavo Etta. E Norma, la postina, detta Coco perché usava la coccoina, la colla: chiedevo di andare da lei per attaccare i pezzi colorati. Tutte e due molto credenti, molto diverse, mi hanno mantenuto agli studi e mi hanno permesso di viaggiare».

Fidanzate?

«Sui vent' anni ho avuto due ragazze con cui c' è stato un rapporto di giovani innamorati. Si sono sposate, ci vediamo ancora quando vengono a trovarmi a Bose».

Nessuna, dopo, l' ha mai fatta vacillare nella scelta monastica?

«No, dopo che ho preso la decisione non ho mai più avuto tentazioni di lasciare il celibato».

Però in passato ha dichiarato di aver sentito la mancanza di un figlio.

«Sì, l' ho sentita qualche volta come una nostalgia impossibile».

Tornando indietro ne adotterebbe uno?

«No, nella vita monastica non si dà un legame di quel tipo. Per un figlio bisogna avere caratteristiche paterne e assicurargli una madre: non sarebbe nella mia storia e nella mia verità».

Le donne sono importanti a Bose?

«Siamo fin dall' inizio una comunità di uomini e donne, e questo si deve a Maritè, Maria Teresa, la prima sorella».

A gennaio avete scelto un priore maschio.

«È sempre possibile che in una prossima elezione venga eletta una donna: non c' è assolutamente impedimento. Le gerarchie restano parallele: il fratello priore non ha giurisdizione diretta sulle sorelle, che rispondono alla loro responsabile. Lo stesso varrebbe al contrario».

Dicono che le sorelle siano più sacrificate dei fratelli, a partire dall' abbigliamento.

«Questo non è vero. I lavori manuali sono condivisi e lo stesso gli impegni intellettuali. C' è magari chi è geloso e vorrebbe in altre comunità la libertà che c' è a Bose. Sull' abbigliamento, l' unica regola è vestire in modo semplice e con colori scuri, ognuno sceglie da solo».

Qual è la preghiera che le risuona di più?

«Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me. Non ho tante cose da dire al Signore...».

Quale brano del Vangelo le piace di più?

«Quello che chiedo venga letto al mio funerale ed è il capitolo di Giovanni 21. Gesù chiede a Pietro: "Simone, mi ami più di tutte le tue cose?". Attenzione, traducono "mi ami più di tutti gli altri", ma sarebbe vergognoso se Gesù mettesse in concorrenza Pietro con gli altri discepoli. Qui ci sono due verbi, agapao , ti amo, e fileo , ti voglio bene. Pietro risponde sempre ti voglio bene, lo stesso farò io quando mi sarà chiesto conto».

Perché non «ti amo»?

«Perché noi non conosciamo l' amore fino in fondo, a Gesù possiamo dire solo: cerco di volerti bene. Pietro sapeva di avere rinnegato Gesù tre volte, e io come posso dire di non averlo mai rinnegato?».

Quando?

«Gesù dice: avevo fame e non mi avete dato da mangiare; avevo sete e non mi avete dato da bere; ero malato e non mi siete venuti a trovare. Questi sono i peccati di omissione e io non posso dire di non averli fatti. Sono quelli che mi bruciano di più la lingua quando annuncio il Vangelo, perché dico agli altri quello che nella vita non sempre sono riuscito a fare».

Ha detto che siamo più propensi a dare 50 euro ai terremotati che a spenderne 10 per ospitarli in casa. Voi a Bose li avete ospitati?

«Terremotati no, ma da anni ospitiamo alcuni migranti. Di certo non inviamo sms con 1 o 5 euro, ma finanziamo progetti in Africa e borse di studio in Medio Oriente. Resto convinto che il giorno in cui la Chiesa ha organizzato la carità, a partire dal IV secolo, il precetto dell' amore del prossimo si è indebolito. Di recente ho scritto che i parroci non dovrebbero più organizzare cene per i poveri a Natale, ma chiedere a ogni famiglia di chiamarne uno alla propria tavola. Mio padre, socialista, non credente, non ha mai fatto la carità a un povero sulla porta, lo ha sempre fatto sedere alla nostra tavola, pure se era cencioso, puzzolente e scalzo».

Dove vorrebbe essere sepolto?

«In un luogo discreto senza che ci sia troppa memoria di me. In realtà da vent' anni c' è un accordo con il Cimitero dei servi di Maria a Monte Senario, vicino a Firenze. Ma oggi ho più dubbi, desidero un posto più semplice e comune».

Ha scritto decine di libri. Uno su tutti?

«Due. Pregare la parola , del '71: ha fatto scoprire la lectio divina . E Il pane di ieri , un libro di sapienza umana, pubblicato nel 2008».

Ora a cosa sta lavorando?

«A un testo sulla vecchiaia, che uscirà in primavera con il Mulino, dove annoto ciò che mi sembra necessario per viverla con gioia».

Quali segnali osserva su di sé?

«Tanti. Il primo è l' udito: tre anni fa al mare i miei amici mi parlavano e siccome non capivo mi dicevano: ma stai diventando sordo? L' altro è la vista: da due mesi porto sempre gli occhiali, prima solo per guidare. E poi un' altra cosa: nella mia cella per andare a letto devo fare le scale; l' anno scorso ho fatto mettere dei corrimani...».

Qual è il regalo materiale a cui tiene di più?

«Mi regalano prodotti da mangiare, che condivido con gli altri. Oppure rose».

Rose?

«Sì, bianche o rosse sono quelle che preferisco, non amo tanto le rose pallide».

Ha conosciuto sei papi. Che ricordo ne ha?

«Pio XII è stato il papa dell' ammirazione di un ragazzo: a 9 anni sono stato da lui e gli ho portato una damigianina di vino del Monferrato, ero stato premiato per la conoscenza del Vangelo con altri bambini di ogni regione».

Papa Giovanni?

«Grazie a lui e al Concilio esiste Bose».

Paolo VI.

«L' ho amato per la finezza spirituale, la cultura, la capacità di sentire la modernità e anche la sua sofferenza».

Giovanni Paolo I.

«È stato una meteora, nulla da dire».

Giovanni Paolo II.

«Da un lato lo amavo per le aperture all' umanità e alle religioni, dall' altro mi sembra che qualche volta avesse una interpretazione restrittiva del Concilio Vaticano II».

Benedetto XVI.

«Per me un grande teologo e un caro amico che conosco dal 1976. Mi ha nominato esperto a due sinodi: è stato un gesto di elezione e fiducia verso di me di cui gli sarò sempre grato».

E ora Papa Francesco.

«Mi sembra che abbia portato nella Chiesa una primavera, un' apertura, un clima di libertà e un' attenzione ai poveri di cui mi rallegro».

Quand' è San Enzo?

«Non c' è. Mia madre mi ha battezzato Giovanni; mio padre che non voleva il nome di un santo mi ha registrato in Comune come Enzo».

Si candida a diventare lei il primo santo?

«Non solo non succederà, ma non ne ho nessun desiderio. Resto critico sui criteri con cui si fanno i santi, sovente per contingenze storiche: non sempre vedo ragioni di esemplarità».

Ma la sua vita è esemplare!

«No, davvero. E non glielo dico per umiltà, io sono una persona molto terra terra, tentazioni verso l' alto non le ho mai avute».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 9 novembre 2017. «Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro». Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l'«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l' affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi. Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai "sta in cielo", come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell' omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l' opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d' interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento». E c' è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant' Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d' aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l' esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com' è noto nel nulla. Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal '72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover' uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all' improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. () Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: "Esamini questi!". Ma lui non sa neppure da dove cominciare». In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all' ordine: "S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973". In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato "Cisalpine Fund", che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...». Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant' Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l' ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c' è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste». Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un' intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant' Apollinare all' epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».

Dal “Corriere della Sera” il 9 novembre 2017. (...) Tra i diversi episodi, un' imbarazzante intercettazione telefonica del 12 ottobre 1993 tra il gendarme vaticano Raul Bonarelli e un uomo da lui chiamato «Capo», identificato poi in Camillo Cibin, ispettore del corpo della Gendarmeria, che all' epoca si chiamava Vigilanza del Vaticano. È una giornata cruciale, siamo alla vigilia dell' interrogatorio che Bonarelli deve rendere all' autorità giudiziaria italiana sulla vicenda Orlandi.

Cibin: Ho parlato con Sua Eccellenza Bertani... E dice... per testimone, e dici quello che sai... che sai della Orlandi? Niente! Noi non sappiamo niente!... Sappiamo dai giornali, dalle notizie che sono state portate fuori! Del fatto che è venuto fuori di competenza... è... dell' Ordine Italiano.

Bonarelli: Ah, così devo dire?

C.: Ebbè, eh... che ne sappiamo noi? Se te dici: io non ho mai indagato... l' Ufficio ha indagato all' interno... questa è una cosa che è andata poi... non dirlo che è andata alla segreteria di Stato. 

B.: No... no, noi io all' interno non devo dire niente.

C.: Niente.

B.: Devo dire, io all' interno non devo dire niente, all' esterno è stata...

C.: All' esterno però, quando è stata la magistratura vaticana... se ne interessa la magistratura vaticana... tra di loro, questo qua... niente dici, quello che sai te, niente!

B.: Cioè, se mi dicono però se sono dipendente vaticano, che mansioni svolgo, non lo so, mi dovranno identificare, lo sapranno chi sono.

C.: Eh, sapranno, perché che fai, fai servizio e turni e sicurezza della Città del Vaticano, tutto qua?

B.: Eh... Va bene, allora domani mattina vado a fare questa testimonianza, poi vengo, vero?

Andrea Tornielli per “la Stampa” il 4 novembre 2017. Per la prima volta grazie a una documentata inchiesta, avvincente come un' indagine poliziesca e accurata come una ricerca storica, viene fatta definitivamente chiarezza sulle circostanze della morte di Giovanni Paolo I, che nel 1978 regnò soltanto 33 giorni: poco prima di cenare per l' ultima volta il Papa ebbe un malore, sottovalutato da tutti. Arriva in libreria martedì 7 novembre un volume basato su documenti e testimonianze inedite, che mette la parola fine al «giallo» sulla scomparsa del Pontefice veneto. Ha la prefazione del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e s' intitola «Papa Luciani. Cronaca di una morte» (Piemme, pp. 252, 17 euro). Lo ha scritto la giornalista Stefania Falasca, vice-postulatrice della causa, che ha interrogato testimoni fino ad oggi mai ascoltati, avendo accesso ai fascicoli secretati della Santa Sede e alle cartelle cliniche. Si chiama suor Margherita Marin, oggi ha 76 anni, e all' epoca dei fatti era la più giovane delle religiose venete a servizio del Papa. È stata lei ad entrare, all' alba del 29 settembre 1978, nella stanza da letto di Giovanni Paolo I subito dopo suor Vincenza Taffarel, l'anziana religiosa che da oltre vent' anni assisteva Luciani. È lei a testimoniare per la prima volta che cosa accadde nelle ore precedenti la morte improvvisa del Papa. È lei a smentire che fosse affaticato e quasi schiacciato dal peso della nuova responsabilità: «L'ho veduto sempre tranquillo, sereno, pieno di fiducia, sicuro». È lei ad attestare che non seguiva diete particolari e che mangiava ciò che mangiavano gli altri. Ecco come Giovanni Paolo I trascorre le sue ultime ore di vita, il pomeriggio del 28 settembre: «Ero a stirare nel guardaroba con la porta aperta e lo vedevo passare avanti e indietro. Camminava nell'appartamento con i fogli in mano che stava leggendo... Ricordo che vedendomi stirare mi disse anche: "Suora, vi faccio lavorare tanto... ma non stia a stirare tanto ben la camicia perché è caldo, sudo e bisogna che le cambi spesso... Stiri solo il colletto e i polsi, che il resto non si vede mica sa...». Dalle testimonianze incrociate, tra le quali c' è quella dell' aiutante di camera Angelo Gugel, viene fatta chiarezza sul malore che Luciani ebbe quella sera, poco prima di cena, mentre pregava con il segretario irlandese John Magee. Ne parla un documento fino ad oggi segreto, redatto nei giorni successivi alla morte. Lo ha scritto Renato Buzzonetti, primo medico ad essere chiamato al capezzale del Papa morto. Nella dettagliata relazione da lui indirizzata alla Segreteria di Stato il 9 ottobre 1978 si parla dell'«episodio di dolore localizzato al terzo superiore della regione sternale, sofferto dal S.Padre verso le 19,30 del giorno della morte, protratto per oltre cinque minuti, verificatosi mentre il Papa era seduto ed intento alla recita di Compieta con il padre Magee e regredito senza alcuna terapia». È una testimonianza decisiva, perché raccolta nell' immediatezza della morte: non fu aperta la Farmacia vaticana e non venne avvertita nemmeno suor Vincenza, che era infermiera e che proprio quella sera parlò al telefono con il medico curante del Papa, Antonio Da Ros, residente a Vittorio Veneto, senza fare alcuna menzione al malore. A Luciani non vennero dunque somministrati farmaci, non venne chiamato un medico per accertamenti, nonostante il nuovo Papa avesse accusato un forte dolore al petto, sintomo del problema coronarico che quella stessa notte gli avrebbe fermato il cuore. Padre Magee nella sua testimonianza agli atti ha raccontato che era stato lo stesso Pontefice a non voler avvertire il dottore. Buzzonetti ne sarà messo a conoscenza solo il giorno dopo, davanti alla salma composta sul letto. Il libro di Falasca, grazie alle nuove testimonianze, fa emergere alcune contraddizioni nei racconti dei due segretari particolari del Pontefice. Don Diego Lorenzi, il sacerdote orionino che aveva seguito Luciani da Venezia, non era presente al momento in cui il Papa ebbe il malore in cappella. E la sera del 28 settembre, subito dopo cena, lasciò l'appartamento. Giovanni Paolo I, attesta suor Margherita Marin nel verbale agli atti della causa, aveva deciso di sostituirlo. La mattina del 29 settembre non furono i segretari a rinvenire il corpo del Pontefice, ma suor Vincenza e suor Margherita. Il Papa non aveva toccato il caffè che era stato lasciato per lui in sacrestia alle 5,15, e così suor Vincenza dopo aver bussato più volte, entrò in camera e disse: «Santità, lei non dovrebbe fare questi scherzi con me!». La religiosa infatti era debole di cuore. «Poi mi chiamò uscendo scioccata - racconta suor Margherita - entrai allora subito anch' io e lo vidi.... Toccai le sue mani, erano fredde, vidi e mi colpirono le unghie un po' scure». Tra i documenti inediti in appendice del libro ci sono le cartelle cliniche dalle quali si evince che già nel 1975, nel corso di un ricovero, era stato segnalato un minimo di patologia cardiovascolare, trattata con anticoagulanti e considerata risolta. E c'è anche l'appunto con le domande che i cardinali prima del nuovo conclave vogliono rivolgere, nella più totale segretezza, ai medici che avevano avuto a che fare con il Papa in occasione dell'imbalsamazione. I porporati attraverso la Segreteria di Stato chiedono se «l'esame della salma» consentiva di «escludere lesioni traumatiche di qualsiasi natura»; se fosse accertata la diagnosi di «morte improvvisa» e infine domandano: «la morte improvvisa è sempre naturale?». Dubbi seri e significativi: i cardinali non escludevano a priori l'ipotesi di una morte provocata. Smentita invece dai medici.

Lorenzo Bertocchi per la Verità il 9 giugno 2017. «Era il 1993. Giunti al palazzo presidenziale di Khartum, la situazione prese una piega inaspettata e nella concitazione rimasi, mio malgrado, rinchiuso nello studio del presidente sudanese Omar Al Bashir. Imbarazzato mi nascosi dietro una tenda e quello che ho sentito poco dopo mi sconvolse». A raccontarlo è Arturo Mari, fotografo ufficiale di ben sette pontefici, da Pio XII fino ai primi mesi del pontificato di papa Francesco, quando ha lasciato la professione di una vita. Con Giovanni Paolo II ha trascorso 27 anni di lavoro concedendosi solo sei giorni di ferie, incontrandolo praticamente tutti i giorni dalla prima messa del mattino. Arturo Mari ha compiuto 104 viaggi intercontinentali insieme al Papa polacco, tra cui, appunto, quello del febbraio 1993 in Sudan. «Dopo un benvenuto piuttosto freddo da parte del presidente, il Santo Padre si rivolse al sacerdote arabo che faceva da interprete e gli disse: "Adesso lei tradurrà alla lettera tutto quello che dirò"». Omar Al Bashir era al potere dal 1989 grazie a un golpe con cui aveva rovesciato il primo ministro democraticamente eletto; nel 1991 aveva proclamato la sharia nel Nord del Paese, insieme a un nuovo codice penale, e li faceva rispettare da una sorta di polizia religiosa. «Da dietro la tenda», racconta Mari, «ebbi modo di sentire le parole precise che il Papa rivolse al presidente: "Egregio signor presidente, lei è un criminale! Ma un vero criminale! Lei comprende quanti milioni di persone sono morte, uccise per colpa sua? Lei che dovrebbe essere un padre per questa gente. Invece arma le mani del Nord del Sudan contro il Sud. Musulmani contro cristiani; fratelli e sorelle armati per mano sua si uccidono a vicenda. Lei è un criminale!"». Il presidente, scioccato, non sapeva cosa dire, mentre il Santo Padre continuava ad affrontarlo apertamente. Al Bashir provò a reagire: "Egregio signore, forse lei è male informato". "Senta", rispose il Papa, "io sarò anche male informato e tutto il mondo è malinformato, ma lei è un criminale! Si ricordi: un giorno lei dovrà rendere conto a Dio di tutto questo! Un giorno lei si vergognerà davanti a Dio di tutto questo!". Era così Giovanni Paolo II, un difensore della vita, della fede e della pace». Il racconto è riportato anche nel libro Toccare la santità. Il cammino umano e spirituale di Giovanni Paolo II (edizioni Fede & Cultura), scritto a quattro mani da Arturo Mari e dal sacerdote polacco Robert Skrzypczak. Le pagine con i ricordi del fotografo sono perle di vita vissuta accanto a un santo. «Giovanni Paolo II», dice Mari alla Verità, «è sempre stato molto franco con i capi di Stato, specialmente quando si recava in aeree geografiche dove venivano calpestati i diritti dei più deboli. In questo non è mai stato tenero con i potenti, fino ai massimi livelli. Non ha mai avuto paura. Ricordo, per esempio, le forti pressioni su Bill Clinton affinché si decidesse ad intervenire diplomaticamente per la pace nei Balcani». È noto che cosa accadde durante il viaggio in Nicaragua nel 1983, quando Giovanni Paolo II si trovò davanti il padre Ernesto Cardenal, che aveva appoggiato i sandinisti e in quel momento era ministro alla Cultura. «Il sacerdote, con il fratello gesuita Fernando e Miguel d' Escoto Brockmann», racconta Mari, «era uno dei tre consacrati che avevano dedicato la loro esistenza alla causa sandinista, movimento di ispirazione marxista. All' aeroporto di Managua, dopo il consueto protocollo, il Papa chiese al presidente Daniel José Ortega di poter salutare i membri del governo. Quando si trovò davanti Ernesto Cardenal, guardandolo dritto negli occhi, gli chiese: "E lei, padre, che cosa sta facendo qui? Questo non è il suo posto, il suo posto è in parrocchia, in servizio per la povera gente. Non qui!"». Durante quel viaggio vi fu anche l' episodio della messa. «Il Santo Padre iniziò la celebrazione dell' eucaristia e, in quel preciso momento, le prime tre file», rievoca Mari, «si alzarono in piedi e cominciarono a scandire slogan sandinisti: "Libertad, queremos la paz, Sandino". Il Santo Padre iniziò l' omelia e le tre file si rialzarono in piedi e iniziarono a fare un gran baccano. Non lo lasciavano parlare, volevano impedirlo a tutti i costi. Ma non bastava. Avevano anche staccato tutti i cavi dei microfoni; non si sentiva più la voce del Papa. E poi arrivò il colmo. <Stavo facendo le foto quando un signore, armato di pistola, mi fece indietreggiare. Il Santo Padre continuava la sua omelia, ma era tutto inutile. Alla fine alzò la sua croce astile verso il cielo e esclamò: "In hoc signo vinces, in hoc signo vinces". Con questo segno vincerai, come apparve scritto in cielo all' imperatore romano Costantino nel 312 alla battaglia di Ponte Milvio. E la gente alzò la voce. Il Papa aveva formulato il suo: "Non abbiate paura!"». Più volte il fotografo del Papa si è trovato in situazioni pericolose. «Il 13 maggio 1981 ero in piazza San Pietro di fianco a Giovanni Paolo II quando subì l' attentato. La papamobile era appena arrivata all' altezza del Colonnato del Bernini, sulla destra, quando l' attentatore premette il grilletto. Il Santo Padre cadde a mezzo metro di distanza da me. Il primo proiettile lo colpì al fianco e fuoriuscì, finendo all' interno dell' auto. Il secondo proiettile sfiorò il dito della mano del Papa, che la teneva appoggiata sul bordo per reggersi mentre la macchina era in movimento». Mari ne è sicuro: «La Madonna ha protetto Giovanni Paolo II, facendo deviare il proiettile». Figlio di un sampietrino, Mari scatta foto dall' età di 6 anni. Il padre lo iscrisse alla scuola Pianciani per fotoreporter e lui vinceva concorsi, finché il conte Giuseppe Dalla Torre di Sanguinetto, direttore dell' Osservatore Romano, venne a sapere che il figlio di uno dei custodi della basilica di San Pietro era un mezzo prodigio. Lo assunse. «Il 9 marzo 1956», ricorda Mari, «scattai la mia prima foto a Pio XII per il quotidiano della Santa Sede. Quant' era ieratico! Gli succedette Giovanni XXIII, la gente lo chiamava il Papa buono, ma per me è stato innanzitutto un grande papa. Durante il conclave del 1958 ho corso il rischio di essere scomunicato. Mentre eleggevano il nuovo pontefice, io mi trovavo nel Cortile di San Damaso. Con una macchina fotografica in mano, mi sentivo il signore dell' universo. Entrai nella Cappella Sistina, tutto euforico, rompendo con la spalla il legnetto della chiusura della porta. In quel momento sentii: "Arturo, Arturo, Arturo!". Mi spaventai e cominciai a correre giù dalle scale. Arrivato alla Sala Regia, all' improvviso mi trovai di fronte papa Giovanni XXIII. <In quel momento, il cardinale Eugène Tisserant, camerlengo di Santa Romana Chiesa, cominciò a gridare: "Fuori! Scomunica! Sei scomunicato!". Ma il Santo Padre, con la sua dolce voce, disse: "Eminenza, guardi quel ragazzo! Guardi questi occhi, guardi che forza di lavoro, come si dedica e come ama il proprio lavoro! Come si può scomunicare una persona del genere? Glielo perdoniamo, non è vero?"». Per i papi con cui ha lavorato Mari ha una definizione sintetica e precisa. Paolo VI? «Un grande papa, ma molto timido. Seguiva le orme del predecessore, con lui iniziarono i primi grandi viaggi all' estero». Papa Luciani? «Un papa stella cometa. Con i suoi 33 giorni non abbiamo avuto l' opportunità di poter comprendere bene quale fosse il suo messaggio, la sua idea di pontificato, la sua strada». Benedetto XVI? «Uomo di grande cultura e di grande affabilità», scrive Mari nel libro. «Il suo è stato un pontificato segnato da tante sofferenze. E oserò dire che, qualche volta, lui ha vissuto queste sofferenze in solitudine, da solo con l' aiuto di Dio. Con quale dignità e umiltà mi disse alla fine: "Perdonami, non ce la faccio più, sono anziano, perdonami". Lui chiede il perdono, perché non ce la fa più. Tutte le parole per me valgono meno di zero di fronte a questo». «Potrei raccontarvi tante cose su Giovanni Paolo II», scrive. «In questo momento però, vorrei riportare le parole dette dai potenti di questa terra: Giovanni Paolo II è stato un uomo che ha cambiato il volto del mondo. E credo che in questa affermazione si racchiuda tutto il suo pontificato: nella forza del dialogo e della preghiera, fino all' ultimo istante della sua vita. Ricorderò sempre quel suo sorriso, quando ho avuto la fortuna di salutarlo per l' ultima volta, e ho visto quegli occhi sorridenti quando si congedava da noi». Lo conosceva da tempo, da prima della sua elezione, dai tempi del concilio Vaticano II. «Quando lo vidi comparire al balcone di San Pietro, mi lanciai in grida di gioia. E qui iniziò per me un cammino, un viaggio che mai nella vita mi sarei aspettato. Ho potuto trascorrere 27 anni vicino a un santo in terra, un santo vivente». Il cardinale Camillo Ruini ha dichiarato che i miracoli compiuti per intercessione di Giovanni Paolo II sono stati molti, anche quando era ancora in vita. Le è mai capitato, chiediamo al fotografo dei papi, di vivere un episodio miracoloso al fianco del santo papa polacco? «Ricordo un episodio», dice Mari alla Verità, «avvenuto all' ospedale Bambin Gesù di Roma. Ci recammo nel reparto oncologico. Nell' ultima stanzetta vi erano tre lettini. Arrivato al terzo letto, il Santo Padre viene accolto dalla mamma del piccolo ricoverato, che era molto agitata e teneva il bambino in braccio, avrà avuto 3 o 4 mesi. Il bimbo era pieno di tubi che gli uscivano dalla testa, la madre con forza lancia il piccolo nelle braccia di Giovanni Paolo II e grida: "Aiutami tu, ti prego. Tu sei un santo puoi aiutarmi! Fa' che mio figlio guarisca!". <Di fronte a queste parole molto forti, il Papa comincia ad accarezzare il bambino e con l' indice lo tocca sotto il mento. Il piccolo apre la bocca quasi in un sorriso, e a questo punto la madre si butta alle ginocchia del Santo Padre e ancora gli dice: "Aiutami ti prego! Aiutalo, tu sei un santo, fa' che il mio bambino guarisca!". Giovanni Paolo II, sempre con grande tranquillità, fa alzare la donna, la accarezza, mette il bambino nelle sue braccia e gli parla sottovoce. A quel punto compare un sorriso sul volto della madre, che lo saluta dicendo: "Io sono sicura che tu lo guarirai". Dopo due giorni ricevemmo la notizia che il bambino era guarito. Era come se non gli fosse mai successo nulla».

Clemente XIV. Il Papa che cancellò i gesuiti. Clemente XIV a 250 anni dall’elezione. La vita del Papa che cancellò i gesuiti. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Era nato il 31 ottobre 1705 a Santarcangelo di Romagna (all’epoca parte dello Stato Pontificio, attualmente in provincia di Rimini) Lorenzo Ganganelli, poi eletto Papa il 19 maggio 1769 (250 anni fa) con il nome di Clemente XIV. Un Pontefice che dovette misurarsi con l’assolutismo monarchico e con la diffusione delle idee illuministe, che minacciavano l’influenza della Chiesa. Proveniente dall’ordine francescano, Clemente XIV è passato alla storia soprattutto per aver soppresso la Compagnia di Gesù, allora oggetto di forti polemiche, con il breve apostolico Dominus ac Redemptor del 21 luglio 1773. Ma la sua opera presenta molti altri aspetti meritevoli di essere approfonditi.

Storia. Clemente XIV soppresse i Gesuiti «per amore»? Scrive Filippo Rizzi mercoledì 1 agosto 2018 su Avvenire. Una ricerca di Isidoro Liberale Gatti sull’uomo smonta la vulgata di un Papa strumento di congiura e ne mostra la volontà di preservare la Chiesa dallo scontro politico. Fu veramente un acerrimo nemico dei gesuiti o subì in modo neutrale gli eventi del Settecento l’ultimo Papa francescano della storia («un onest’uomo» come lo definì Stendhal), il frate minore conventuale Lorenzo Ganganelli (1705-1774) salito sulla Cattedra di Pietro nel 1769 (dopo un Conclave durato ben tre mesi dove venne eletto all’unanimità) col nome di Clemente XIV, noto per avere soppresso, attraverso il breve Dominus ac redemptor il 21 luglio 1773, la Compagnia di Gesù? Fu un gesto estremo, un segno di “resa” (come lo definì lo storico Ludwig von Pastor) per compiacere le antigesuitiche corti borboniche (e con essi i giansenisti e il Portogallo del marchese di Pombal) o invece fu un atto di lungimiranza per salvare, nel solco del suo predecessore Benedetto XIV, il Papato e lo Stato della Chiesa nella sua libertà d’azione dalle ingerenze delle potenze cattoliche? Per quest’ultima tesi propende, attraverso una ricca documentazione (fatta di fonti inedite), un confratello di papa Ganganelli il francescano conventuale Isidoro Liberale Gatti, storico di formazione e da anni membro del Collegio dei penitenzieri apostolici della Basilica di San Pietro a Roma. Recentemente questo religioso veneto ha dedicato proprio al Papa romagnolo la sua ultima fatica Il conclave del 1769 e l’elezione di Clemente XIV. Alcune sue visite devozionali nelle Chiese di Roma(L’Apostoleion, pagine 268+64, s.i.p.); un saggio che non solo cancella qualsiasi ombra o alone della leggenda “nera” del Papa antigesuita, ma che racconta nel dettaglio come la sua elezione papale non fu frutto di ricatto, ma al massimo di un compromesso tra le istanze delle corti, che volevano l’eliminazione dei gesuiti e il partito capeggiato da molti cardinali (tra cui il segretario di Stato Luigi Maria Torrigiani e fedelissimo del papa defunto Clemente XIII) che avrebbero difeso a spada tratta i figli di sant’Ignazio, guidati allora dal mite preposito generale, il fiorentino Lorenzo Ricci. «La mia ricerca su papa Clemente – racconta lo studioso francescano – è a metà del guado, perché già nel 2012 ho realizzato un volume sulla vita da semplice frate e da cardinale di Ganganelli. Ora mi accingo a pubblicare un terzo volume sugli ultimi giorni di vita del Pontefice e sulla vicenda del breve Dominus ac redemptor che ancora fa tanto discutere gli storici…». Nelle oltre 200 pagine di questa pubbli- cazione vengono raccontati gli aspetti inediti di questo Papa (fu tra i primi ad apprezzare il talento musicale di Mozart, fu un provetto cavallerizzo e l’ispiratore del Giubileo del 1775) la sua fede mariana (da buon scotista fu un devoto dell’Immacolata Concezione), i suoi atti di mecenatismo e di pietà verso i poveri, gli infermi ma anche la gente comune (tra cui la mitigazione di alcune norme anti-giudaiche) della Città eterna o le sue grandi amicizie con i santi del suo tempo da Paolo della Croce (che ne vaticinò l’elezione al soglio di Pietro) ad Alfonso Maria de’ Liguori (che lo assistette nelle ultime ore di vita); o ancora come contrastò nella Roma del suo tempo il triste fenomeno della prostituzione, del nudismo a Fontana di Trevi e della pedofilia con pene durissime (come l’uso della frusta). «In questa severità fu un antesignano – evidenzia fra Isidoro Liberale Gatti – dell’azione attuale di papa Bergoglio». A colpire sono i dettagli sul Conclave del 1769: su come venne eletto questo “semplice” frate e teologo di fama (unico porporato di quel Sacro Collegio proveniente da un Ordine religioso), dell’evento inaspettato dell’ingresso nel marzo di quell’anno all’interno della clausura della Cappella Sistina dell’imperatore d’Austria Giuseppe II e del granduca di Toscana Pietro Leopoldo I, le note spesso colorite e sprezzanti di cardinali influenti come Filippo Maria Pirelli, Gaetano Fantuzzi (che lo considerava “pazzo”) o del potentissimo François-Joachim de Bernis che volle sondare per primo le reali intenzioni del futuro Clemente XIV sul destino degli ignaziani, ormai espulsi (molti dei quali sbarcati avventurosamente nel porto della pontificia e quindi “amica” Civitavecchia) e caduti in disgrazia un po’ ovunque. «Il cardinale Ganganelli – scrive l’autore del saggio – forte della sua competenza giuridica, partiva sempre dal principio giuridico che ogni legittimo sommo Pontefice ha la potestà nella Chiesa di approvare una nuova Congregazione, e anche di scioglierne una vecchia». E questo fu il principio chiave (tra cui il non aver promesso in chiave simoniaca per la sua elezione al Soglio di Pietro lo scioglimento della Compagnia di Gesù), a giudizio di padre Gatti, a cui si attenne durante tutto il lungo Conclave fra Lorenzo. Ma il desiderio più intimo di Ganganelli (proprio perché provenendo da un Ordine religioso ne conosceva i problemi) secondo il suo biografo, sposando in questo la tesi dello storico Mario Rosa, era quella di una riforma della Compagnia di Gesù (un tentativo che quasi due secoli prima azzardò un altro papa francescano conventuale, Sisto V) che forse ne avrebbe evitato lo scioglimento. A tanti anni di distanza dalla morte di questo Pontefice il suo stile di buon pastore è ancora offuscato (confermato anche dalle fonti francescane del suo tempo) dal gesto della soppressione dell’Ordine loyoliano: una testimonianza di questo ci arriva dallo stesso papa Francesco (che scelse di chiamarsi così in onore di quel Poverello d’Assisi di cui proprio il Ganganelli si sentì sempre figlio) che rievocò il giorno successivo alla sua elezione il suggerimento ironico di alcuni cardinali: «Chiamati Clemente XV così ti vendichi di Clemente XIV che sciolse la Compagnia…». Proprio papa Bergoglio è tornato spesso (basti pensare alla celebrazione nella Chiesa del Gesù a Roma nel settembre del 2014 per i 200 anni della ricostituzione della Compagnia) a parlare del lungo periodo della soppressione del suo Ordine (17731814) rileggendo in quell’uscita di scena ufficiale in seno alla Chiesa (se si esclude la profetica presenza dei gesuiti nelle terre non cattoliche di Russia e Prussia) dei suoi confratelli come un momento di «tribolazione», ma anche di un tempo per sperimentare «l’umiltà» e lo «spirito di obbedienza». Forse a tanti anni di distanza dalla scomparsa di questo Pontefice rimangono ancora attuali le parole pronunciate per l’orazione funebre (anno 1774) proprio da un ex gesuita Simone Mattzell: «Quanti mezzi non ha impiegati il Santo Padre per il corso di cinque anni per evitare di venire a questo estremo! No, non fu l’odio, ma il suo zelo per la tranquillità della Chiesa che armò il suo braccio paterno del fulmine che ci ha colpiti».

Libro. La Compagnia di Francesco, i gesuiti dal Concilio Vaticano II a papa Bergoglio. Filippo Rizzi mercoledì 17 luglio 2019 su Avvenire. Lo storico La Bella ripercorre gli ultimi 60 anni dell'Ordine ignaziano: da Arrupe a Kolvenbach fino all'elezione del cardinale di Buenos Aires. L'ammirazione di Benedetto XVI per gli Esercizi. Ammirati, temuti, invidiati per il «nostro modo di procedere» (la famosa frase attribuita a Jeronimo Nadal) nel mondo, attenti ai "segni dei tempi" come indica il Vaticano II ma anche guardati con sospetto e diffidenza per lo stile di esercitare, in contesti spesso difficili e incrinati (come la teologia morale e non solo) l' arte del «discernimento degli Spiriti». È il ritratto che rispecchia, in un certo senso, l' ultimo spezzone della plurisecolare storia dei gesuiti negli ultimi sessant'anni della loro lunga esistenza, incominciata nel 1540 con la fondazione della Compagnia di Gesù da parte di sant'Ignazio di Loyola. E un libro scritto, con dovizia di particolari e dettagli inediti, dallo storico Gianni La Bella I gesuiti. Dal Vaticano II a papa Francesco (Guerini, pagine 368, euro 34) ritorna proprio sull' ultimo tratto di strada percorso dagli ignaziani tra il 1965 e il 2019; il saggio riparte anche da studi precedenti compiuti proprio da La Bella su questo avvincente argomento come il volume, edito dal Mulino nel 2007, Pedro Arrupe. Un uomo per gli altri, ma aggiunge rispetto ad allora nuove tessere del complesso mosaico attorno alla dinamica vita all'interno della Compagnia di Gesù: tra queste ovviamente l'elezione al soglio di Pietro del primo gesuita nella storia della Chiesa cattolica, l'argentino Jorge Mario Bergoglio.

Paolo VI e Arrupe: incomprensioni ma anche stima per "don Pedro". Con una scrittura agile e avvincente il volume si apre proprio con l' elezione nel 1965 del secondo basco alla guida dell' ordine dopo Ignazio, Pedro Arrupe: si scopre, da queste pagine, lo stile carismatico e all'inizio "conservatore" del gesuita di Bilbao, considerato l' ultimo "Papa nero" del Novecento; grazie a questa nuova ricerca si evince come da provinciale del Giappone Arrupe fosse considerato dai suoi stessi confratelli come "inadatto" al governo e ritenuto spesso "ingenuo" per la sua eccessiva fiducia nel mondo e nelle relazioni umane. Ma affiora anche un altro aspetto singolare sulla complessa biografia di Arrupe: Paolo VI, che ebbe occasioni di attrito e di divergenze di vedute proprio con il gesuita spagnolo soprattutto durante la celebrazione della famosa XXXII Congregazione generale della Compagnia di Gesù (l'assise del 1974-1975 che voleva estendere il famoso IV voto di obbedienza a tutti i gesuiti), conservava prima di morire nell'agosto del 1978 nel suo inginocchiatoio un testo profetico (anno 1977) di "don Pedro" dedicato al tema della missione e dell'obbedienza dei gesuiti alla Sede Apostolica. Il volume ripercorre gli anni del generalato di Arrupe (1965-1983) - mettendo tra l'altro in risalto il rischio di "scisma" degli ignaziani delle province spagnole, che non si riconoscevano nello stile di "aggiornamento" post-conciliare impresso dalla gerarchia dell'ordine, il difficile momento del "commissariamento" della Compagnia (1981-1983) voluto da Giovanni Paolo II con la nomina di un suo delegato di fiducia, il milanese Paolo Dezza coadiuvato dal gesuita "sardo-giapponese" Giuseppe Pittau, fino all'elezione dell'olandese Peter Hans Kolvenbach. In questa parte del saggio vengono riproposti in una lunga carrellata di eventi tutti gli attriti, "incomprensioni", punti di scontro tra l' Ordine e la Santa Sede sotto i pontificati di Montini, Luciani e Wojtyla. Non è un caso che La Bella ritorni sui tanti casi di dissenso che videro spesso gesuiti di fama (basti pensare alle istanze di molti figli di sant'Ignazio a favore della teologia della liberazione, di un'opzione preferenziale per i poveri, o alle critiche di Karl Rahner all'Humanae vitae di Paolo VI) spesso in contrasto con il magistero ufficiale della Chiesa di allora.

Kolvenbach il generale che diede gli Esercizi a Giovanni Paolo II. L' autore si sofferma soprattutto sul difficile passaggio di generalato tra il carismatico Arrupe e Kolvenbach e riconoscendo a quest' ultimo un gesuita olandese «molto spirituale» di aver governato con mitezza e lungimiranza per 25 anni (1983-2008) la «minima Compagnia di Gesù» e grazie al suo stile di aver riconquistato la fiducia "perduta" di Giovanni Paolo II. Si scopre, ad esempio, che la stima verso Kolvenbach fu confermata anche da un dettaglio singolare: nel 1987 toccherà proprio al gesuita olandese (unico preposito della Compagnia chiamato a rivestire questo prestigioso incarico) a guidare gli esercizi spirituali per la Quaresima al Papa e alla curia romana; imposterà le sue meditazioni, su suggerimento dell'allora cardinale Ratzinger, su una lettura spirituale della Parola di Dio. Il volume regala tante piccole istantanee inedite, come l' applauso unanime che i gesuiti della XXXIV Congregazione generale nel 1995 tributarono al loro antico "commissario", il 93enne cardinale Paolo Dezza, per aver fatto riguadagnare, in un certo senso, un alto grado di stima e di fiducia della Compagnia verso il suo primo e diretto "superiore". O ancora si evince l'ammirazione di Benedetto XVI per la pratica squisitamente ignaziana degli Esercizi appresa alla scuola del suo esegeta di fiducia, il gesuita Albert Vanhoye.

Bergoglio e il rischio di una Compagnia "commissariata". Il testo nella parte finale racconta l'eccezionalità che vive la Compagnia in questi anni dove papa Francesco, che proviene da questo ordine di chierici regolari, sia in un certo senso il "primo superiore" di questa famiglia religiosa; si scopre sempre, tra queste pagine, che l' allora arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Bergoglio, nel 2007 fosse stato indicato dalla Santa Sede (Benedetto XVI, l'allora Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, e indirettamente anche il cardinale Franc Rodé, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata) come l' uomo giusto - un autentico "gesuita perfetto" - che padre Kolvenbach doveva consultare e a cui fare affidamento per «verificare» con il porporato argentino il rispetto del «carisma delle origini», lo stato di salute dell'ordine e la fedeltà a quel Sentire cum Ecclesia tanto caro a Ignazio di Loyola. Affiora da queste pagine che proprio l'intervento e i suggerimenti provvidenziali di Bergoglio (la testimonianza arriva anche dal successore di Kolvenbach, Adolfo Nicolás Pachón) scongiurarono un secondo commissariamento dei gesuiti da parte della Sede Apostolica in anni recentissimi. La Bella intravede nella felice coincidenza di un primo Pontefice gesuita che ora ha al suo fianco per la prima volta un preposito generale di provenienza non europea ma latino-americana come lui, il venezuelano Arturo Sosa Abascal (in carica dal 2016), l'occasione privilegiata per tutti i figli di sant'Ignazio e non solo per attuare quella riforma (anche interiore) della Chiesa di cui parla proprio papa Francesco nella sua enciclica programmatica del suo Pontificato: l'Evangelii gaudium.

Il retroscena sulla morte di Luciani: "Voleva denunciare i gesuiti". Papa Luciani avrebbe voluto denunciare l'ala più a sinistra dei gesuiti. La stessa corrente ecclesiastica, oggi, sarebbe arrivata ai vertici del Vaticano. Francesco Boezi, Mercoledì 05/09/2018, su Il Giornale. Denunciare "l'ala deviata" dei gesuiti: questa sarebbe stata l'intenzione di Papa Luciani. Una tra le ultime, stando a quanto raccontato dal professor Francesco Agnoli sulle pagine de La Verità, espressa prima di morire. La narrazione è stata in qualche modo correlata al cosiddetto "dossier Viganò", quello nel quale l'ex nunzio apostolico degli Stati Uniti ha accusato Papa Francesco di non aver fatto nulla nei confronti di Thedore McCarrick, nonostante fosse a conoscenza dei suoi comportamenti e abusi. Il documento, tuttavia, presenterebbe delle incongruenze e il cardinale statunitense, come i lettori ricorderanno, è stato però “scardinalato” proprio da Bergoglio. Fatto sta che il giornalista, collegando questa vicenda ad alcune presunte rivelazioni contenute nel memoriale composto da undici pagine, ha ricordato come Giovanni Paolo I, l'ultimo papa italiano, avesse espresso la volontà di porre un freno alle novità dottrinali apportate dai gesuiti in materia di dottrina morale. Specie quelle promosse da quel correntone che ha svolto un ruolo di sdoganamento tematico all'interno della Chiesa cattolica durante il 68'. Il punto, sottolineato anche da monsignor Viganò, è questo: molti ecclesiastici appartenenti a quell'ala, che è considerata ultraprogressista, durante i giorni nostri, sono stati creati cardinali. Elevazioni avvenute durante il pontificato di Papa Francesco. Come se una certa sinistra, insomma, avesse preso il sopravvento successivamente all'ultimo Conclave. Il primo nome citato, però, è quello di Vincent O'Keefe: "Un gesuita, morto il 22 luglio del 2012, la cui storia è importantissima per collegare passato e presente...". Lo stesso Thedore McCarrick avrebbe partecipato all'operazione culturale aperturista promossa da questa "ala deviata" negli anni della ribellione giovanile. Poi il racconto dello scontro con Giovanni Paolo I: Pedro Arrupe, uno degli esponenti più in vista nella Compagnia di Gesù dell'epoca, avrebbe dichiarato che il nuovo Papa sarebbe stato disponibile a rivisitare le posizioni della Chiesa in materia d'omosessualità, aborto e sacerdozio delle donne. Il tutto all'interno di un'intervista, la stessa che avrebbe così provocato l'irritazione dell'ultimo pontefice italiano. Si dice addirittura che Luciani fosse arrivato a ipotizzare lo scioglimento o comunque un duro provvedimento in caso di mancata ricezione dei suoi dettami sulla necessità di non modificare la dottrina. Giovanni Paolo I avrebbe voluto stroncare l'ala gesuitica attraverso un discorso pubblico che, a causa della morte improvvisa, non è mai stato tenuto. Anedotti, questi, che sarebbero stati raccontati da un altro gesuita, padre Malachi Martin. Vincent O'Keefe e Theodore McCarrick, tornando a un passaggio precedente, avrebbero condiviso "amicizia" e "battaglie ideali". Anche altri ecclesiastici divenuti cardinali "sotto" Bergoglio sarebbero accostabili alla corrente ultraprogressista: Farrell, Tobin e Cupich. Lo stesso James Martin, il gesuita "pro Lgbt" divenuto consulente del Vaticano in materia di comunicazione, farebbe parte di questo insieme. La sintesi delle tesi sostenute nell'articolo è questa: ecclesiastici di sinistra, appartenenti o vicini alla fazione più riformista dei gesuiti, gli stessi che Luciani avrebbe voluto "stoppare", hanno preso il sopravvento durante gli ultimi cinque anni e mezzo.

Quel discorso "pungente" che Papa Luciani non fece in tempo a leggere ai gesuiti perchè morì… Francesco Frigida il 24 Febbraio 2018 su papaboys.org. Questo Discorso Giovanni Paolo I NON fece in tempo a leggerlo perché morì la notte stessa… le parole precise erano queste: “non permettete che insegnamenti e pubblicazioni di gesuiti abbiano a causare confusione e disorientamento in mezzo ai fedeli; ricordatevi che la missione affidatavi dal Vicario di Cristo è di annunciare, in maniera bensì adatta alla mentalità di oggi, ma nella sua integrità e purezza, il messaggio cristiano, contenuto nel deposito della rivelazione, di cui interprete autentico è il Magistero della Chiesa…”; il testo integrale il sito Vaticano non lo ha mai pubblicato, ma lo troverete qui nel sito ufficiale dedicato a Papa Luciani. Carissimi Padri della Compagnia di Gesù, A tre anni dalla conclusione della XXXII Congregazione Generale siete venuti da tutte le Province dell’Ordine a Roma per riflettere insieme, per consultarvi, per fare un esame di coscienza, intorno al vostro Preposito Generale, circa la vita e l’apostolato della Compagnia, secondo quanto prescrivono le Costituzioni. Desidero dirvi, anzitutto, la mia gioia per questo mio primo incontro con un gruppo così qualificato di figli di S. Ignazio e, altresì, manifestare a voi, ed in voi a tutti i vostri confratelli sparsi per il mondo, la riconoscenza della Chiesa per tutto il bene che il vostro Ordine, fin dalla sua fondazione, ha operato nella Chiesa : un gruppo unito e compatto, quasi una “compagnia di ventura”, desiderosa di mettersi, non alla mercé delle ambizioni politiche di signorotti della terra, ma “sub crucis vexillo Deo militare, et soli Domino et Ecclesiae Ipsius Sponsae, sub Romano Pontifice, Christi in terris Vicario, servire”. L’ iniziale piccolo gruppo, riunito attorno ad Ignazio di Loyola, non si lasciò scoraggiare da alcuna difficoltà, ma, dilatando i propri orizzonti, si lanciò, “ad maiorem Dei gloriam”, alle forme più svariate di apostolato, come sono già descritte nella “Formula Instituti”, approvata dal mio Predecessore Paolo III, nel 1540, e confermata da Giulio III, nel 1550. La Compagnia di Gesù, aperta fin dalle sue origini alle complesse problematiche spirituali emergenti dalla cultura rinascimentale, si presentava saldamente compatta ed unita con uno speciale vincolo al Romano Pontefice a Lui obbedendo “sine ulla tergiversatione aut excusatione illico” d ogni disposizione concernente il progresso spirituale delle anime, la propagazione della fede e le missioni. I Papi hanno costantemente e puntualmente voluto esternarvi la loro fiducia. Non posso, in questo momento, non ricordare il mio immediato e venerato Predecessore, il compianto Paolo VI, il quale ha tanto amato, ha tanto pregato, ha tanto operato, ha tanto sofferto per la Compagnia di Gesù. Cito – tra i suoi vari documenti, testimoni della sua paterna sollecitudine per il vostro Ordine – la Lettera del 15 settembre 1973, scritta in vista della convocazione della XXXII Congregazione Generale; il mirabile discorso del 3 dicembre 1974, proprio all’ inizio della medesima Congregazione Generale, nel quale, parlando anche nella sua qualità di “Superiore Supremo della Compagnia”, dava alcune preziose indicazioni come espressione delle sue speranze nei lavori che stavano per iniziare; ed infine, la Lettera del 15 febbraio 1975, nella quale, ribadendo il suo “rispetto profondo e l’ amore appassionato” verso la Compagnia, riaffermava che essa aveva “una spiritualità, una dottrina, una disciplina, un’ obbedienza, un servizio, un esempio da custodire, da testimoniare”. Ho provato sereno conforto nell’ apprendere che, tra gli argomenti che dovrete trattare nelle vostre riflessioni in comune, ci sarà anche quello che riguarda l’ applicazione delle osservazioni fatte dal Santo Padre Paolo VI. Anch’ io mi unisco ai miei Predecessori nel dirvi l’affetto che provo per il vostro Ordine, tra l’altro, anche per la lunga consuetudine che mi ha legato al Padre Felice Cappello, mio conterraneo e lontano parente, la cui memoria è sempre in benedizione. Ma poiché voi, in questi giorni nel raccoglimento e nella preghiera, dovete procedere ad un esame circa lo stato della Compagnia, mediante una valutazione sincera, realistica e coraggiosa della situazione oggettiva, analizzandole, se necessario, le deficenze, le lacune, le zone d’ ombra, voglio affidare alla vostra responsabile meditazione, alcuni punti che mi stanno particolarmente a cuore. Nel vostro lavoro apostolico abbiate sempre presente il fine proprio della Compagnia “Istituita principalmente per la difesa e propagazione della fede e per il profitto delle anime nella vita e dottrina cristiana” (Formula dell’ Istituto). A questo fine spirituale e soprannaturale va subordinata ogni altra attività, che dovrà essere esercitata in maniera adatta ad un Istituto religioso e sacerdotale. Voi ben conoscete e giustamente vi preoccupate dei grandi problemi economici e sociali, che oggi travagliano l’umanità e tanta connessione hanno con la vita cristiana. Ma, nella soluzione di questi problemi, sappiate sempre distinguere i compiti dei sacerdoti religiosi da quelli che sono propri dei laici. I sacerdoti devono ispirare e animare i laici all’adempimento dei loro doveri, ma non devono sostituirsi ad essi, trascurando il proprio specifico compito nella azione evangelizzatrice. Per questa azione evangelizzatrice, S. Ignazio esige dai suoi figli una soda dottrina, acquistata mediante una lunga e accurata preparazione. Ed è stata una caratteristica della Compagnia la cura sollecita di presentare nella predicazione e nella direzione spirituale, nell’ insegnamento e nella pubblicazione di libri e riviste, una dottrina solida e sicura, pienamente conforme all’ insegnamento della Chiesa, per cui la sigla della Compagnia costituiva una garanzia per il popolo cristiano e vi meritava la particolare fiducia dell’ Episcopato. Procurate di conservare questa encomiabile caratteristica; non permettete che insegnamenti e pubblicazioni di gesuiti abbiano a causare confusione e disorientamento in mezzo ai fedeli; ricordatevi che la missione affidatavi dal Vicario di Cristo è di annunciare, in maniera bensì adatta alla mentalità di oggi, ma nella sua integrità e purezza, il messaggio cristiano, contenuto nel deposito della rivelazione, di cui interprete autentico è il Magistero della Chiesa. Questo naturalmente comporta che negli istituti e facoltà, ove si formano i giovani gesuiti, sia parimente insegnata una dottrina solida e sicura, in conformità con le direttive contenute nei decreti conciliari e nei successivi documenti della Santa Sede riguardanti la formazione dottrinale degli aspiranti al sacerdozio. E ciò è tanto più necessario in quanto le vostre scuole sono aperte a numerosi seminaristi, religiosi e laici, che le frequentano proprio per la sodezza e sicurezza di dottrina che sperano di attingervi. Insieme con la dottrina, deve starvi particolarmente a cuore la disciplina religiosa, che ha pure costituito una caratteristica della Compagnia ed è stata da alcuni indicata come il segreto della sua forza. Acquistata attraverso la severa ascesi ignaziana, alimentata da un’intensa vita spirituale, sorretta dall’ esercizio di una matura e virile obbedienza, essa naturalmente si manifestava nell’ austerità della vita e nell’ esemplarità del comportamento religioso. Non lasciate cadere queste lodevoli tradizioni; non permettete che tendenze secolarizzatrici abbiano a penetrare e turbare le vostre comunità, a dissipare quell’ ambiente di raccoglimento e di preghiera in cui si ritempra l’ apostolo, ed introducano atteggiamenti e comportamenti secolareschi, che non si addicono a religiosi. Il doveroso contatto apostolico col mondo non significa assimilazione al mondo; anzi, esige quella differenziazione che salvaguarda l’ identità dell’ apostolo, in modo che veramente sia sale della terra e lievito capace di far fermentare la massa. Siate perciò fedeli alle sagge norme contenute nel vostro Istituto; e siate parimente fedeli alle prescrizioni della Chiesa riguardante la vita religiosa, il ministero sacerdotale, le celebrazioni liturgiche, dando l’ esempio di quella amorosa docilità alla “nostra Santa Madre Chiesa gerarchica” – come scrive S. Ignazio nelle “Regole per il retto sentire con la Chiesa” – perché essa è la “vera sposa di Cristo, Nostro Signore” (cf. Exerc. Spirit., n. 353). Questo atteggiamento di S. Ignazio verso la Chiesa deve essere tipico anche dei suoi figli; e mi piace a questo proposito ricordare la lettera dello stesso Santo a S. Francesco Borgia, del 20 settembre 1548, nella quale raccomandava “L’ umiltà e la riverenza verso la nostra Santa Madre Chiesa e quelli che hanno il compito di governarla e di ammaestrarla” (Epist. et Instruct., 11, 236). Accogliete queste mie paterne raccomandazioni con lo stesso spirito di sincera carità con cui ve le rivolgo, unicamente desideroso che la vostra e mia Compagnia anche oggi pienamente corrisponda alle intenzioni del Fondatore ed alle attese della Chiesa e del mondo. Precedano i Superiori col loro esempio “Forma facti gregis ex animo” (1 Petr. 5, 3) e con la loro azione paterna, ma ferma e concorde, conscii della loro responsabilità davanti a Dio e alla Chiesa. Cooperino tutti i Padri e Fratelli, memori dei sacri impegni che hanno assunto con la loro professione religiosa in questo Ordine, unito al Vicario di Cristo con uno speciale vincolo di amore e di servizio.E’ il Vicario di Cristo che vi parla, è il nuovo Papa che tanto aspetta e spera della Compagnia, dal suo molteplice e coraggioso apostolato, e ripete fiduciosamente all’odierno Preposito Generale quel detto, attribuito – se ben ricordo – a Papa Marcello II e rivolto a S. Ignazio: “Tu milites collige et bellatores instrue; nos utemur” (N. Orlandini, Historia Societatis Iesu, p. I, I. XV, n. 3). La Chiesa anche oggi ha bisogno di apostoli fedeli e generosi che, come tanti figli della Compagnia, sappiano intraprendere e sostenere le più gravi e urgenti imprese apostoliche. “Ovunque nella Chiesa – diceva il mio venerato Predecessore Paolo VI – anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto fra le esigenze brucianti dell’ uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i Gesuiti” (Discorso del 3 dicembre 1974). Ma quanto più ardue e difficili sono le imprese apostoliche a cui siete chiamati, tanto maggiore è la necessità di intensa vita interiore e costante unione con Dio, di cui S. Ignazio vi ha lasciato così luminoso esempio. Da semplice Vescovo, quante volte ho portato S. Ignazio come modello da imitare ai miei sacerdoti! “Sia ciascuno di voi come Ignazio, in contemplatione activus et in actione contemplativus”, dicevo. E sottolineavo che già S. Agostino aveva scritto: “Nessuno deve essere così contemplativo da non pensare all’ utilità del prossimo; né così attivo da non cercare contemplazione di Dio” (De Civ. Dei, XIX, 19; PL 41, 647). Per realizzare questo ideale è necessario vivere intimamente la propria consacrazione a Dio, osservare in pienezza i voti religiosi, conformarsi fedelmente alle regole del proprio Istituto, come hanno fatto i Santi della vostra Compagnia. Proprio nel giorno della sua professione religiosa, il gesuita S. Pietro Claver sottoscriveva l’atto con le parole: “Pietro, schiavo dei negri per sempre”, consegnandosi, per i quarant’ anni di vita che gli rimanevano, alle stive delle navi negriere, al porto e alle capanne di Cartagena, fratello vero di tutti i miseri che, dall’ Africa, venivano portati a lavorare come schiavi in America. Anch’ egli, però, in questa immane opera, come S. Ignazio, fu “in actione contemplativus”, fedelissimo, nella lettera e nello spirito, alle Regole della Compagnia.In questo modo, il fervore delle opere, unito alla santità della vita autenticamente religiosa, renderà efficace e feconda la vostra azione apostolica e sarà un magnifico esempio, che avrà un benefico influsso, sia nella Chiesa, sia specialmente in molti istituti religiosi, che guardano alla Compagnia di Gesù come un costante punto di riferimento.Con questi voti, invoco sui vostri lavori, larga effusione dei lumi dello Spirito Santo e impartisco di gran cuore a voi ed a tutti i Padri e fratelli della Compagnia sparsi in ogni parte del mondo, la mia Paterna Benedizione Apostolica.

L'IMPEGNO ANTIMASSONICO. Papa Luciani e la guerra di dottrina con i gesuiti. Lanuovabq.it il 13-11-2017. Giovanni Paolo I richiamava i tanti gesuiti affascinati da Massoneria, dottrine marxiste, politica, sociologia e sociale, più che a Cristo stesso, per poi radicare questo errore in un fatto: l'allontanamento dalla "solida dottrina". Nella seconda puntata su Albino Luciani abbiamo affrontato la sua adesione profonda all'enciclica così dibattuta del suo predecessore, l'Humanae vitae. Divenendo papa, Luciani sapeva benissimo che avrebbe dovuto prendere sulle spalle una croce molto pesante. Si presentò subito al popolo di Dio come egli era: un insegnante di catechismo per fanciulli ed un pastore. Per Luciani non vi era alcuna difficoltà a tenere insieme le due cose: il pastore non vuole che nessuna delle sue pecore vada dispersa, per questo è pronto ad indicare ad ognuna, con tutto l'amore e la pazienza possibili, la retta via dell'ovile. Uno dei suoi pochi testi rimasti si intitola Catechetica in briciole, e contiene riflessioni come questa: "Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio... Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano". Per Luciani il catechismo ha anche il grande merito di mettere nel cuore il senso del peccato, il rimorso: "il rimorso non lascerà loro aver pace nel peccato e presto tardi li ricondurrà al bene". In questo era del tutto fedele alla Tradizione della Chiesa, che lungi dal separare verità e amore, carità e giustizia, misericordia e castigo, tiene insieme queste realtà inscindibili. All'inizio d'anno del seminario, il 20 settembre 1977, Luciani si era rivolto così ai suoi giovani: "Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare". Nei 33 giorni di pontificato Giovanni Paolo I si trovò di fronte a grandi difficoltà. Aveva intenzione, come si è già visto, di rinnovare la Curia, di riformare lo Ior e di affrontare il dossier spinoso dei prelati iscritti alla massoneria. La lista dei 121 massoni stilata da Mino Pecorelli proprio nel 1978 conteneva non soltanto il nome di Paul Marcinkus, con cui Luciani aveva avuto a che discutere da patriarca di Venezia, ma anche quello di Donato De Bonis, braccio destro di Marcinkus, sul cui operato criminoso si è fatto luce soltanto pochi anni orsono, e i gesuiti Roberto Tucci, direttore della Radio Vaticana, Virgilio Levi, vicedirettore de L’Osservatorio Romano e Giovanni Caprile, firma insigne della Civiltà cattolica. Che fossero davvero massoni, Luciani certamente non lo sapeva, ma tutto fa pensare che avrebbe voluto andare a fondo della questione. Era convinto, infatti, che le idee rivoluzionarie che attecchivano tra i gesuiti, soprattutto i giovani, spesso sprezzanti vesrso la Tradizione e la Dottrina, rappresentassero un grosso problema per la Chiesa. Anzitutto per le loro innovazioni in campo dottrinale, così ben esemplificate dall'opera del gesuita Karl Ranher, non certo un amante del catechismo; in secondo luogo per i loro cedimenti in campo morale; infine, per la loro apertura al mondo, massoneria compresa. Il vaticanista Benny Lay, ne Il mio Vaticano, ricorda spesso come la questione dei gesuiti fosse all'ordine del giorno anche all'epoca di Paolo VI. Per esempio il 9 marzo 1970 Benny Lay scrive: "La nota con cui radio vaticana ha condannato le dichiarazioni di tre docenti gesuiti della Gregoriana a favore del divorzio è più severa del comunicato della Compagnia di Gesù..."; il 12 ottobre 1973, invece, Lay ricorda "il duro linguaggio, accompagnato da severi moniti, con cui Paolo VI si è rivolto ai gesuiti per la partecipazione della loro assemblea"; il 7 marzo 1974 nota che padre Tucci "ha risposto picche al cardinal Benelli" che gli chiedeva di partecipare ad una serie di conferenze per attivare i parroci romani contro il divorzio; il 27 febbraio del 1975 ricorda che "la maggioranza dell'assemblea dei gesuiti... ha bocciato la candidatura di padre Paolo Dezza, confessore di Montini", cioè del papa. Una questione che angustiava Montini, ed ancora di più Luciani (vedi ad esempio 30 Giorni, del 9 settembre 1993) era l'intenso dialogo aperto da alcuni gesuiti, tra cui il citato padre Caprile, con la massoneria. Il vaticanista Ignazio Ingrao, nel suo documentatissimo Il concilio segreto (Piemme, 2013) dedica un paragrafo al tema. Il titolo è: "Una loggia dei gesuiti?" Ingrao ricorda appunto i sospetti su padre Tucci e padre Caprile, finiti anche nelle lista di prelati massoni pubblicata da Panorama, ma soprattutto i fatti certi: "Ciò che è invece storicamente accertato è l'impegno profuso dal gesuita Caprile e dal religioso paolino Esposito nel promuovere incontri bilaterali con i massoni subito dopo il concilio. Dal 1960 al 1979 si svolgono ben nove 'conversazioni bilaterali'. Per due volte i massimi vertici della massoneria italiana varcano il portone della sede della Civiltà cattolica per incontrarsi con i gesuiti...". E' certo che Luciani non vedeva di buon occhio tali incontri bilaterali, che riceveranno il definitivo stop, dopo la sua morte, grazie a due cardinali tedeschi, Joseph Stimpfle e Joseph Ratzinger. Fatto sta che nei suoi 33 giorni di pontificato non riuscì a fare chiarezza e pulizia, nè compiere molti atti di governo, nè a scrivere che poche lettere, molto brevi e per lo più di circostanza. L'unica lettera lunga e approfondita è quella rivolta "Ai gesuiti". Avrebbe dovuto leggerla e consegnararla il 30 settembre 1978, cioè due giorni dopo la morte, in occasione di una speciale udienza ai procuratori della Compagnia di Gesù convenuti a Roma da ogni parte del mondo.

Si tratta di un testo ricco in cui, a parte i saluti di rito, vi sono continui richiami e severi moniti. Il papa cominciava così: "Ma poichè voi, in questi giorni dovete procedere ad un esame circa lo stato della Compagnia mediante una valutazione sincera, realistica e coraggiosa della situazione oggettiva, analizzando se necessario le deficienze, le lacune, le zone d'ombra, voglio affidare alla vostra responsabile meditazione alcuni punti, che mi stanno particolarmente a cuore". Deficienze, lacune, zone d'ombra: come inizio, non è dei più lusinghieri. Voi, continuava il papa, "vi preoccupate dei grandi problemi economici e sociali che oggi travagliano l'umanità", "ma nella soluzione di questi problemi sappiate sempre distinguere i compiti dei sacerdoti religiosi da quelli che sono propri dei laici. I sacerdoti devono ispirare e animare i laici all'adempimento dei loro doveri, ma non devono sostituirsi ad essi, trascurando il proprio compito specifico nell'azione evangelizzatrice". In parole povere, il papa richiamava i tanti gesuiti dediti affascinati dalle dottrine marxiste, dediti alla politica, alla sociologia, al sociale, più che a Cristo stesso, per poi radicare questo errore in un fatto: l'allontanamento dalla "solida dottrina". Bisogna qui ricordare che il nome scelto da Luciani, Giovanni Paolo I, era anche in onore di san Paolo, colui che aveva scritto, nella II lettera a Timoteo: "Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero".

Se nel passo di Paolo la parola "dottrina" ritorna ben due volte, affiancata, in un caso, dall'aggettivo "sana", nel prosièguo del discorso di Giovanni Paolo I ai gesuiti la sottolineatura è ancora maggiore, l'insistenza quasi imbarazzante. Il papa ripete più e più volte una parola che molti gesuiti non vogliono più sentire. Egli infatti ricorda che "Sant'Ignazio esige dai suoi figli una soda dottrina"; raccomanda, tre righe sotto, di essere fedeli ad una "dottrina solida e sicura, pienamente conforme all'insegnamento della Chiesa"; invita poi a "non permettere che insegnamenti e pubblicazioni di gesuiti abbiano a causare confusione e disorientamento in mezzo ai fedeli", e aggiunge: "ricordatevi che la missione affidatavi dal vicario di Cristo è di annunciare, in maniera bensì adatta alla mentalità di oggi, ma nella sua integrità e purezza, il messaggio cristiano, contenuto nel deposito della rivelazione". Il concetto non è abbastanza esplicito e forte? Luciani lo ripete ancora, invitando i gesuiti a formare i giovani con "una dottrina solida e sicura" perchè chi frequenta le loro scuole lo fa "per la sodezza e sicurezza di dottrina che sperano di attingervi". Ma non è finita. Il papa continua: "Non lasciate cadere queste lodevoli tradizioni (legate ad una severa disciplina religiosa, ndr); non permettete che tendenze secolarizzatrici abbiano a penetrare e turbare le vostre comunità", perchè "il doveroso contatto apostolico col mondo non significa assimilazione al mondo, anzi esige quella differenziazione che salvaguardia l'identità dell'apostolo, in modo che veramente sia sale della terra e lievito capace di far fermentare la massa".

Giovanni Paolo I, come si è detto, morirà prima di pronunciare questo discorso. Ma un anno dopo, il 21 settembre 1979, Giovanni Paolo II, che avrà sempre un rapporto molto conflittuale con i Gesuiti, forse riecceggiuando il discorso del suo predecessore, ripeterà loro di dare al novizi una "formazione dottrinale con solidi studi filosofici e teologici secondo le direttive della Chiesa, e formazione apostolica indirizzata a quelle forme di apostolato che sono proprie della Compagnia, aperte sì alle nuove esigenze dei tempi, ma fedeli a quei valori tradizionali che hanno perenne efficacia". Ancora una volta si trovano le due parole tanto invise: dottrina e tradizione.

Breve biografia di Albino Luciani (Giovanni Paolo I). Pubblicato su libertaepersona.org il 4 Agosto 2018 Da Francesco Agnoli. Si è cominciato a parlare in questi tempi di Albino Luciani, di cui ricorrono l’anno prossimo i 40 anni dalla morte. Luciani è stato una meteora: solo 33 giorni di pontificato, che sono rimasti però nel cuore di molti. Per due motivi: per la sua evidente e innata simpatia e bonarietà e per le circostanze in parte misteriose della sua morte. Cosa intendeva fare, quell’uomo venuto dal Veneto, per la Chiesa universale? Chi non gli lasciò il tempo di farlo? Il buon Dio, o gli uomini?

La morte. L’idea che Luciani sia stato ucciso non è soltanto una boutade giornalistica. Non è solo l’ipotesi di David Yallop e del suo best seller da 4 milioni di copie. Ci hanno creduto, più o meno, anche molti uomini di Chiesa, molti fedeli e persino dei cardinali. Giacomo Biffi, per esempio, in Memorie e disgressioni di un cardinale italiano, ricorda anzitutto che Luciani non era il personaggio mellifluo che spesso ci hanno descritto. Buono sì, ma anche forte. Scrive Biffi: “Era un solido uomo di governo che non temeva di prendere decisioni coraggiose e non era di quelli che lasciano correre. Purtroppo non ha avuto il tempo di dimostrarlo...”. A questo punto l’ex cardinale di Bologna ricorda che Luciani fu l’unico vescovo italiano a prendere provvedimenti contro la Fuci, che si era schiarata per il divorzio. Poi, descrivendo la morte di Luciani, Biffi non si espone, ma sembra lasciare intendere di avere qualche sospetto. Ricorda infatti che il cardinale di Milano, Colombo, ricevuta la notizia della morte del papa, ebbe a confidargli: “Ma se gli ho parlato ieri sera!… Nulla poteva far presagire questa immane sciagura… Giovanni Paolo I mi parlava personalmente e a lungo con tono normalissimo, dal quale non traspariva nessuna stanchezza e nel quale non era possibile arguire qualsiasi malore fisico“. Biffi ci tiene dunque a ricordare, con molta cautela, ma quasi facendole sue, le perplessità e lo stupore del cardinale Colombo. Al quale, come ricordava Marco Tosatti su La stampa parecchi anni orsono, intervistando don Giovanni Gennari, Luciani aveva esposto alcune sue idee di governo piuttosto chiare: Luciani voleva rimuovere dei prelati progressisti come il segretario di Stato Jean Villot, Ugo Poletti e Agostino Casaroli, e dare più spazio a personalità di “conservatori” come il cardinal Pericle Felici, grande ammiratore di san Pio X e il cardinal Giovanni Benelli. Non è forse un caso che tutte le ricostruzioni che portano avanti dei sospetti sulla morte di Luciani, tirino in ballo proprio Villot, e, con lui, Paul Marcinkus.

Ior e massoneria. Eh sì, perchè un’altra idea che Luciani aveva di sicuro era proprio la radicale riforma dello Ior. Infatti, come ricorda lo storico Pietro Melograni in Dieci perchè sulla Repubblica, conosceva i rapporti tra lo Ior, Marcinkus, Sindona e Calvi, ed aveva avuto modo di scontrarsi con questo grumo di potere quando era patriarca, causa l’acquisto, da parte di Calvi e ad insaputa del clero veneto, della Banca Cattolica del Veneto. Luciani era un uomo del popolo, e in quegli anni in cui il marxismo faceva presa anche tra i cattolici, riteneva che l’amore per la povertà e per i poveri della Chiesa di Cristo non poteva continuare ad essere oscurato dalle malefatte della banca vaticana. Verrebbe da dire, andando un po’ oltre con la fantasia, che se Luciani non ce la fece, con lo Ior, perchè morì prima, neppure Benedetto XVI ha avuto successo: pur avendo chiamato un banchiere cattolico integerrimo come Ettore Gotti Tedeschi, deciso a rompere con il passato, si è visto tradito dal suo segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e ha assitito impotente al defenestramento di colui al quale si era rivolto, quasi in concomitanza con la sua abdicazione! E del resto, da allora allo Ior non è successo nulla di veramente decisivo…Tornando a Luciani, alcuni anni fa Aldo Maria Valli, nel suo Il forziere dei papi. Storia, volti, misteri dello IOR, rammentava una frase del cardinale brasiliano Aloisio Lorscheider: “Lo dico con dolore, il sospetto rimane nel cuore, è come un’ombra amara, un interrogativo a cui non si è data piena risposta”. Un sospetto che non è mai sparito del tutto, se Giovanni Vian conclude così la sua breve biografia di Giovanni Paolo I (Dizionario biografico degli Italiani, Treccani): “Giovanni Paolo I morì nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1978, quasi certamente per una patologia dell’apparato cardiocircolatorio, in circostanze che non sono state ancora completamente chiarite”.

Il mistero sulla morte di Luciani è amplificato da due fatti. Il primo: è risaputo che egli aveva intenzione di fare chiarezza anche sui prelati iscritti alla massoneria. Due anni prima, esattamente il 12 settembre del 1976, la rivista OP (Osservatore Politico) del giornalista Mino Pecorelli, ucciso misteriosamente tre anni dopo, nel 1979, aveva infatti pubblicato una lista di “presunti prelati massoni”, tra i quali i già citati Villot e Poletti e il cardinale Sebastiano Baggio. Il dossier aveva fatto molto scalpore in Vaticano, e non è escluso che la decisione di allontanare Villot e Poletti, e di richiamare a Roma, al posto di Villot, quel cardinal Benelli cui Paolo VI aveva dato il compito di indagare proprio sui prelati massoni, fosse legata anche a questo. Quanto a Baggio, egli sarà, nei 33 giorni di pontificato di Luciani, uno suo strenuo e tenace oppositore. Il secondo fatto che rende avvincente e misteriosa la morte di Luciani è il seguente: nel 1977, cioè 60 anni dopo le appariziooni di Fatima, Luciani incontrò suor Lucia. Secondo fonti attendibili, ne ricevette un avvertimento: la Chiesa sarebbe passata attraverso una penosa apostasia, una immensa crisi. Quindici anni dopo la morte del fratello papa, nell’agosto 1993, Edoardo Luciani, ebbe a confidare al settimanale cielino Il Sabato: “Io penso che il suo presagio di una morte repentina, da Papa, fosse legato ad un lungo colloquio che Albino ebbe con l’ unica veggente di Fatima ancora in vita. Incontrò suor Lucia l’ 11 luglio 1977, in Portogallo. Giusto un anno prima del Conclave da cui uscì papa. Mio fratello ne uscì sconvolto. Ogni volta che nel colloquio con noi ne faceva cenno, diventava pallido in volto. Come se un pensiero oscuro lo turbasse nel profondo. Tutti noi ne siamo rimasti sempre impressionati. Ora, a posteriori, mettendo insieme tutti gli accenni fatti da mio fratello in vari colloqui, è tutto chiaro. Quel giorno la veggente gli disse qualche cosa che riguardava non solo la Chiesa, ma anche la sua vita, il destino che Dio gli preparava. Potrei aggiungere altri particolari, ma preferisco tenerli per me, non so neanche perchè abbia confidato questi pensieri...”. Morto di morte naturale (tesi forse più probabile); ucciso da qualcuno che voleva fermarlo; oppure semplicemente schiacciato dalle sue infermità, dalle responsabilità, e dall’opposizione sorda, anch’essa testimoniata da innumerevoli fonti attendibili (si veda Benny Lay nel suo Il mio Vaticano), che gli fu opposta subito dopo l’elezione da alcuni potenti curiali che temevano la svolta? Quasi impossibile saperlo, ma questo non impedisce di approfondire cosa pensasse davvero Luciani del suo tempo e della Chiesa del suo tempo, al di là delle ricostruzioni di comodo. E cosa pensasse, per esempio, dell’enciclica tanto dibattuta, Humanae vitae, uscita proprio dieci anni prima della sua elezione. Lo vedremo in una prossima puntata, ricorrendo agli scritti dello stesso Luciani e ad alcuni testimoni ancora viventi.

Luciani e Humanae vitae. Siamo nel 1968, l’anno in cui esce l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sarà il suo calvario e romperà definitivamente la possibilità per la Chiesa di annullarsi nel mondo. Molti cardinali, interi episcopati del nord Europa attaccano Montini, reo di aver detto un no deciso alla rivoluzione dei costumi allora imperante; un no deciso, per essere sintetici, alla pillola anticoncezionale, vista come l’inizio della separazione tra sesso e procreazione, ma anche tra uomo e donna. Oggi, mentre assistiamo all’incalzare della fecondazione artificiale o dell’utero in affitto, che proseguono in questa scissione di ciò che in natura è strettamente connesso, l’enciclica Humanae vitae dovrebbe essere rilanciata e spiegata, perchè non perde affatto la sua validità, e perchè è stata confermata da tutti i papi successivi. Invece assistiamo, 50 anni dopo, ad un tentativo di rimetterla in discussione, all’interno della Chiesa. Alcuni commentatori, come Andrea Tornielli, per suffragare tale tesi, chiamano in causa proprio Albino Luciani, sostenendo che l’allora patriarca di Venezia, prima dell’enciclica di Montini, fosse favorevole alla pillola.

Ma le cose stanno proprio così?

Monsignor Gino Oliosi, esorcista ed ex penitenziere della diocesi Verona, docente di filosofia e teologia, autore di svariate pubblicazioni per l’editore Fede & Cultura, ha conosciuto bene Albino Luciani, con cui ha spesso collaborato. Ci racconta: “L’enciclica uscì in un momento in cui ero insieme ad Albino Luciani per un seminario. Ebbi il compito di leggerla e spiegarla. Mi buttai nell’impresa e sostenni una posizione che il futuro Giovanni Paolo I trovò corretta e sposò senza indugi. Tanto è vero che Luciani, subito dopo, incontrò personalmente tutti i sacerdoti della sua diocesi per spiegarla e farla accettare a chi non la avesse ancora compresa. La posizione è la seguente: l’enciclica di Montini esprime con intelligenza e fede profonda il pensiero della Chiesa, per il quale da una parte è impossibile separare ciò che Dio stesso ha unito, senza svilire e corrompere la sessualità umana; dall’altra, tenendo insieme oggettivo e soggettivo, occorre essere sempre pronti a sostenere e ad accogliere chi, avendo sbagliato, cerca di rialzarsi. La morale cattolica, infatti, non è la morale kantiana, ma esprime una tensione, umana e perciò fragile, verso il bene. In fondo è lo stesso ragionamento che la chiesa ha sempre fatto, anche per la castità prematrimoniale: infrangerla costituisce peccato, ma perdonabile nella misura in cui vi sia il tentativo di rialzarsi. Lo stesso, ancora, si deve dire del rapporto tra due persone che, dopo un matrimonio fallito, stanno insieme: Giovanni Paolo II ricordava che devono vivere non more uxorio, ma more sororio, perchè il matrimonio cattolico è indissolubile. Certamente può capitare che nel loro sforzo di vivere castamente, cadano: l’importante è che si sforzino di non ricadere. Non possiamo, invece, rendere buono e giusto, accettabile di per sè, ciò che non lo è mai, e che la Chiesa e la Bibbia chiamano adulterio“. Questa posizione, in cui oggettivo e soggettivo non sono in conflitto, verrà sempre ribadita, anche nel Vademecum per i confessori su alcuni punti di morale attinenti alla vita coniugale, a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 12 febbraio 1997. Vi si legge infatti al punto 2.4: “La Chiesa ha sempre insegnato l’intrinseca malizia della contraccezione, cioè di ogni atto coniugale reso intenzionalmente infecondo. Questo insegnamento è da ritenere come dottrina definitiva ed irriformabile. La contraccezione si oppone gravemente alla castità matrimoniale, è contraria al bene della trasmissione della vita (aspetto procreativo del matrimonio), e alla donazione reciproca dei coniugi (aspetto unitivo del matrimonio), ferisce il vero amore e nega il ruolo sovrano di Dio nella trasmissione della vita umana”. Mentre al 3.5: “Il confessore è tenuto ad ammonire i penitenti circa le trasgressioni in sé gravi della legge di Dio e far sì che desiderino l’assoluzione e il perdono del Signore con il proposito di rivedere e correggere la loro condotta. Comunque la recidiva nei peccati di contraccezione non è in se stessa motivo per negare l’assoluzione; questa non si può impartire se mancano il sufficiente pentimento o il proposito di non ricadere in peccato”. Ma torniamo ad Albino Luciani. La testimonianza di mons. Gino Oliosi riguardo al patriarca di Venezia e al suo rapporto con Humanae vitae è confermata dai suoi scritti e dal più imponente studio sul tema, I veleni della contraccezione (ESD), a cura del medico e bioeticista Renzo Puccetti. In quest’opera imprescindibile si analizza, grazie ad una bibliografia sterminata, sia il dibattito interno alla Chiesa che portò ad Humanae vitae, sia la validità scientifica, oggi ancora più evidente di ieri, dell’encliclica stessa. Ebbene, proprio a riguardo di Luciani, Puccetti ricorda un passaggio della sua omelia in occasione della Messa in suffragio di Paolo VI, il 9 agosto 1978, pochi giorni prima della sua elezione al soglio di Pietro, nella Basilica di san Marco.

Rievocando il papa defunto, Luciani affermava: “La fede da conservare e da difendere fu il primo punto del suo programma. Nel discorso dell’incoronazione, il 30 giugno 1963, aveva dichiarato: «Difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza». San Paolo aveva scritto ai Galati: «Se un angelo del cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema» (Gal 1, 8). Angeli, ai nostri giorni, possono venire considerati la cultura, la modernità, l’aggiornamento, tutte cose cui teneva moltissimo papa Paolo. Ma quando esse gli parvero contrarie al Vangelo e alla sua dottrina, egli disse no inflessibilmente. Basti accennare alla Humanae vitae, al suo “Credo”, alla posizione da lui presa circa il catechismo olandese, alla chiara affermazione sull’esistenza del diavolo. Qualcuno ha detto che l’Humanae vitae è stata un suicidio per Paolo VI, il crollo della sua popolarità e l’inizio di critiche feroci. Sì, in un certo senso, ma egli l’aveva previsto e, sempre con san Paolo, s’era detto: «… È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?… Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo» (Gal 1, 10). San Paolo aveva anche detto di sé: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2, 20). Paolo VI confidò: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio [pontificale] non già perché io abbia qualche attitudine o io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che egli, non altri, la guida e la salva». Ha anche detto: «Il Papa ha le pene, che gli provengono anzitutto dalla propria insufficienza umana, la quale ad ogni istante si trova di fronte e quasi in conflitto con il peso enorme e smisurato dei suoi doveri e della sua responsabilità». Ciò arriva talvolta sino all’agonia”. Non bisogna dimenticare, per capire Luciani, che egli era anzitutto un catechista, e che riteneva che la “dottrina” non fosse un vecchio arnese passato di moda da sostituire con una pastorale proteiforme e nebulosa, ma fosse, al contrario, l’origine e il fine della pastorale stessa. In questo si trovò sempre in grande conflitto con un pensiero, così ben analizzato da Stefano Fontana nel suo La nuova chiesa di Karl Rahner (Fede & Cultura) allora sempre più pervasivo: quello, appunto, del gesuita Karl Rahner. Su questo argomento torneremo nella prossima puntata.

Luciani e i Gesuiti: un forte scontro. Divenendo papa, Luciani sapeva benissimo che avrebbe dovuto prendere sulle spalle una croce molto pesante. Si presentò subito al popolo di Dio come egli era: un insegnante di catechismo per fanciulli ed un pastore. Per Luciani non vi era alcuna difficoltà a tenere insieme le due cose: il pastore non vuole che nessuna delle sue pecore vada dispersa, per questo è pronto ad indicare ad ognuna, con tutto l’amore e la pazienza possibili, la retta via dell’ovile. Uno dei suoi pochi testi rimasti si intitola Catechetica in briciole, e contiene riflessioni come questa: “Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio… Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano”. Per Luciani il catechismo ha anche il grande merito di mettere nel cuore il senso del peccato, il rimorso: “il rimorso non lascerà loro aver pace nel peccato e presto tardi li ricondurrà al bene”. In questo era del tutto fedele alla Tradizione della Chiesa, che lungi dal separare verità e amore, carità e giustizia, misericordia e castigo, tiene insieme queste realtà inscindibili. All’inizio d’anno del seminario, il 20 settembre 1977, Luciani si era rivolto così ai suoi giovani: “Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare“. Nei 33 giorni di pontificato Giovanni Paolo I si trovò di fronte a grandi difficoltà. Aveva intenzione, come si è già visto, di rinnovare la Curia, di riformare lo Ior e di affrontare il dossier spinoso dei prelati iscritti alla massoneria. La lista dei 121 massoni stilata da Mino Pecorelli proprio nel 1978 conteneva non soltanto il nome di Paul Marcinkus, con cui Luciani aveva avuto a che discutere da patriarca di Venezia, ma anche quello di Donato De Bonis, braccio destro di Marcinkus, sul cui operato criminoso si è fatto luce soltanto pochi anni orsono, e i gesuiti Roberto Tucci, direttore della Radio Vaticana, Virgilio Levi, vicedirettore de L’Osservatorio Romano e Giovanni Caprile, firma insigne della Civiltà cattolica. Che fossero davvero massoni, Luciani certamente non lo sapeva, ma tutto fa pensare che avrebbe voluto andare a fondo della questione. Era convinto, infatti, che le idee rivoluzionarie che attecchivano tra i gesuiti, soprattutto i giovani, spesso sprezzanti verso la Tradizione e la Dottrina, rappresentassero un grosso problema per la Chiesa. Anzitutto per le loro innovazioni in campo dottrinale, così ben esemplificate dall’opera del gesuita Karl Ranher, non certo un amante del catechismo; in secondo luogo per i loro cedimenti in campo morale; infine, per la loro apertura al mondo, massoneria compresa. Il vaticanista Benny Lay, ne Il mio Vaticano, ricorda spesso come la questione dei gesuiti fosse all’ordine del giorno anche all’epoca di Paolo VI. Per esempio il 9 marzo 1970 Benny Lay scrive: “La nota con cui radio vaticana ha condannato le dichiarazioni di tre docenti gesuiti della Gregoriana a favore del divorzio è più severa del comunicato della Compagnia di Gesù…”; il 12 ottobre 1973, invece, Lay ricorda “il duro linguaggio, accompagnato da severi moniti, con cui Paolo VI si è rivolto ai gesuiti per la partecipazione della loro assemblea”; il 7 marzo 1974 nota che padre Tucci “ha risposto picche al cardinal Benelli” che gli chiedeva di partecipare ad una serie di conferenze per attivare i parroci romani contro il divorzio; il 27 febbraio del 1975 ricorda che “la maggioranza dell’assemblea dei gesuiti… ha bocciato la candidatura di padre Paolo Dezza, confessore di Montini”, cioè del papa. Una questione che angustiava Montini, ed ancora di più Luciani (vedi ad esempio 30 Giorni, del 9 settembre 1993) era l’intenso dialogo aperto da alcuni gesuiti, tra cui il citato padre Caprile, con la massoneria. Il vaticanista Ignazio Ingrao, nel suo documentatissimo Il concilio segreto (Piemme, 2013) dedica un paragrafo al tema. Il titolo è: “Una loggia dei gesuiti?“ Ingrao ricorda appunto i sospetti su padre Tucci e padre Caprile, finiti anche nelle lista di prelati massoni pubblicata da Panorama, ma soprattutto i fatti certi: “Ciò che è invece storicamente accertato è l’impegno profuso dal gesuita Caprile e dal religioso paolino Esposito nel promuovere incontri bilaterali con i massoni subito dopo il concilio. Dal 1960 al 1979 si svolgono ben nove ‘conversazioni bilaterali’. Per due volte i massimi vertici della massoneria italiana varcano il portone della sede della Civiltà cattolica per incontrarsi con i gesuiti…”. E’ certo che Luciani non vedeva di buon occhi tali incontri bilaterali, che riceveranno il definitivo stop, dopo la sua morte, grazie a due cardinali tedeschi, Joseph Stimpfle e Joseph Ratzinger. Fatto sta che nei suoi 33 giorni di pontificato non riuscì a fare chiarezza e pulizia, nè compiere molti atti di governo, nè a scrivere che poche lettere, molto brevi e per lo più di circostanza. L’unica lettera lunga e approfondita è quella rivolta “Ai gesuiti”. Avrebbe dovuto leggerla e consegnararla il 30 settembre 1978, cioè due giorni dopo la morte, in occasione di una speciale udienza ai procuratori della Compagnia di Gesù convenuti a Roma da ogni parte del mondo.

Si tratta di un testo ricco in cui, a parte i saluti di rito, vi sono continui richiami e severi moniti. Il papa cominciava così: “Ma poichè voi, in questi giorni dovete procedere ad un esame circa lo stato della Compagnia mediante una valutazione sincera, realistica e coraggiosa della situazione oggettiva, analizzando se necessario le deficienze, le lacune, le zone d’ombra, voglio affidare alla vostra responsabile meditazione alcuni punti, che mi stanno particolarmente a cuore”. Deficienze, lacune, zone d’ombra: come inizio, non è dei più lusinghieri. Voi, continuava il papa, “vi preoccupate dei grandi problemi economici e sociali che oggi travagliano l’umanità”, “ma nella soluzione di questi problemi sappiate sempre distinguere i compiti dei sacerdoti religiosi da quelli che sono propri dei laici. I sacerdoti devono ispirare e animare i laici all’adempimento dei loro doveri, ma non devono sostituirsi ad essi, trascurando il proprio compito specifico nell’azione evangelizzatrice“. In parole povere, il papa richiamava i tanti gesuiti dediti affascinati dalle dottrine marxiste, dediti alla politica, alla sociologia, al sociale, più che a Cristo stesso, per poi radicare questo errore in un fatto: l’allontanamento dalla “solida dottrina”. Bisogna qui ricordare che il nome scelto da Luciani, Giovanni Paolo I, era anche in onore di san Paolo, colui che aveva scritto, nella II lettera a Timoteo: “ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero“.

Se nel passo di Paolo la parola “dottrina” ritorna ben due volte, affiancata, in un caso, dall’aggettivo “sana”, nel prosièguo del discorso di Giovanni Paolo I ai gesuiti la sottolineatura è ancora maggiore, l’insistenza quasi imbarazzante. Il papa ripete piùe più volte una parola che molti gesuiti non vogliono più sentire. Egli infatti ricorda che “Sant’Ignazio esige dai suoi figli una soda dottrina“; raccomanda, tre righe sotto, di essere fedeli ad una “dottrina solida e sicura, pienamente conforme all’insegnamento della Chiesa”; invita poi a “non permettere che insegnamenti e pubblicazioni di gesuiti abbiano a causare confusione e disorientamento in mezzo ai fedeli”, e aggiunge: “ricordatevi che la missione affidatavi dal vicario di Cristo è di annunciare, in maniera bensì adatta alla mentalità di oggi, ma nella sua integrità e purezza, il messaggio cristiano, contenuto nel deposito della rivelazione”. Il concetto non è abbastanza esplicito e forte? Luciani lo ripete ancora, invitando i gesuiti a formare i giovani con “una dottrina solida e sicura” perchè chi frequenta le loro scuole lo fa “per la sodezza e sicurezza di dottrina che sperano di attingervi”. Ma non è finita. Il papa continua: “Non lasciate cadere queste lodevoli tradizioni (legate ad una severa disciplina religiosa, ndr); non permettete che tendenze secolarizzatrici abbiano a penetrare e turbare le vostre comunità”, perchè “il doveroso contatto apostolico col mondo non significa assimilazione al mondo, anzi esige quella differenziazione che salvaguardia l’identità dell’apostolo, in modo che veramente sia sale della terra e lievito capace di far fermentare la massa”.

Giovanni Paolo I, come si è detto, morirà prima di pronunciare questo discorso. Ma un anno dopo, il 21 settembre 1979, Giovanni Paolo II, che avrà sempre un rapporto molto conflittuale con i Gesuiti, forse riecceggiuando il discorso del suo predecessore, ripeterà loro di dare al novizi una “formazione dottrinale con solidi studi filosofici e teologici secondo le direttive della Chiesa, e formazione apostolica indirizzata a quelle forme di apostolato che sono proprie della Compagnia, aperte sì alle nuove esigenze dei tempi, ma fedeli a quei valori tradizionali che hanno perenne efficacia“. Ancora una volta si trovano le due parole tanto invise: dottrina e tradizione.

Illustrissimi. Per farsi un’idea di cosa pensasse davvero papa Luciani su tante questioni è utile rispolverare un suo libretto, intitolato Illustrissimi, edito per la I volta nel 1976, ma corretto per una nuova edizione, da Luciani stesso, poco prima di morire. Illustrissimi sono i personaggi celebri con cui l’allora patriarca di Venezia immagina di dialogare: san Bonaventura e san Francesco di Sales, Alessandro Manzoni e Guglielmo Marconi, Gilbert Chesterton e Mark Twain…

Questo dialogare produce, come scrive Igino Giordani nella prefazione, una “apologetica potente, se pur bonaria, senza sottintesi e senza ampollose citazioni culturali, ricca di episodi della vicenda quotidiana”, attraverso cui Luciani mostra ad ogni passo di amare gli uomini e le donne del suo tempo, ma anche di sfidare senza paura pregiudizi ed errori della cultura contemporanea. Ragionando amorevolmente con i suoi interlocutori, un po’ come avrebbe fatto decenni dopo il cardinal Giacomo Biffi, Luciani discerne di continuo tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che viene da Dio e ciò che viene dal diavolo. Sì, perchè il diavolo torna spesso nei suoi ragionamenti, per mettere in guardia da coloro che lo vedono dovunque, ma anche dalla “più riuscita beffa del diavolo”, quella di “far credere agli uomini che egli non esiste”. Luciani crede di vivere in un’epoca caratterizzata da “un tremendo vuoto morale e religioso”, in cui “gli adùlteri, i sadici, gli omosessuali dagli psicologi del profondo sono praticamente quasi sempre scusati…“. Chiacchierando con san Luca, in un brano intitolato Proibito proibire, scrive: “tutta una letteratura pare avere per parola d’ordine: ‘dagli al padre’ e rende il padre responsabile di quasi tutto. Un’altra letteratura, propagandando una liberalizzazione completa da ogni legge, chiede contraccezione senza freni, aborto a piacimento della madre, divorzio a volontà, relazioni prematrimoniali, omosessualità, uso di stupefacenti”. Poche righe più sotto, accennando ad una certa retorica sui poveri in auge nella Chiesa, afferma: “è bene avere scelto la causa dei poveri, degli emarginati, del Terzo Mondo. Attento però, con la scusa dei poveri lontani, a non trascurare i poveri vicini… Sei per la grande causa della pace. Benissimo, ma attento che non si verifichino le parole di Geremia profeta: ‘Van dicendo: pace pace, ma di pace non c’è neanche l’ombra’. La pace infatti costa: non si fa a parole, ma con sacrifici e rinunce amorose da parte di tutti. Non è neppure possibile ottenerla solo con sforzi umani: occorre l’intervento di Dio“. Qua e là, con bonomia e cordialità, Luciani lancia frecciate non tanto verso il mondo ateo, quanto contro quei cattolici che vogliono aggiornare di continuo il deposito della fede, ignorando che “Cristo è il medesimo ieri, oggi e per i secoli” e che quelle che per il mondo sono “idee vecchie e sorpassate, sono spesso idee di Dio, delle quali è scritto che non passerà neppure una virgola!“. Così Luciani mette in guardia i teologi che si accostano troppo al marxismo, trasformando Cristo in una sorta di sindacalista e di rivoluzionario; i credenti che fanno sempre la comunione, ma trascurano la confessione; gli ecumenisti che dimenticano che “la fede non è pluralista” e che esiste una sola Verità. Critica coloro che ripetono come pappagalli pensieri alla moda, in nome dell’aggiornamento e del “dialogo”, e che in nome delle novità smantellano “allegramente tutto l’edificio passato”, mettendo in soffitta “quadri, statue” e la sacralità dei riti…Spesso, per concludere, Luciani torna su un argomento: la crisi in cui versa la società gli sembra eclatante nel campo della morale. In nome della libertà, del femminismo, della “promozione” della donna, afferma, si gonfiano i numeri degli aborti clandestini, si propaganda l’aborto legale, nonostante esso sia “un trauma per la salute della donna, per i parti e i figli successivi”; nonostante “psicologi e psichiatri segnalino altre cattive conseguenze” che “sonnecchiano nel subconscio della donna che ha abortito, ma riemergono in seguito in tempo di crisi“; nonostante l’aborto liberi non la donna, ma il suo “partner, marito o no, da noie e seccature, permettendogli di dare corso ai suoi desideri sessuali senza assumere i relativi doveri“. (buona parte di questo breve saggio è comparsa, a puntate, su La Nuova Bussola quotidiana)

Emanuela Orlandi e i gesuiti, quei misteri tra 1981 e 1983... Antonio Goglia su blitzquotidiano.it il 18 Aprile 2016. Emanuela Orlandi e i gesuiti, quei misteri tra 1981 e 1983. Una nuova teoria di Antonio Goglia. Emanuela Orlandi e i Gesuiti, che  collegamenti ci sono fra la scomparsa di una adolescente che domina la cronaca nera da 33 anni e il potentissimo ordine da cui proviene l’attuale Papa, Francesco? L’articolo di Antonio Goglia è preceduto da una premessa di Pino Nicotri.

L’ex carabiniere Antonio Goglia mi ha inviato un suo nuovo scritto che a suo avviso spiega perché e per opera di chi sarebbe avvenuto l’ormai mitico e mitologico “rapimento  di Emanuela Orlandi”. Non condivido neppure una parola di quanto scritto da Goglia, e considero anche questa sua nuova fatica letteraria un volo pindarico. La cui attendibilità appare traballante anche per alcune affermazioni specifiche:

– dire che l’attentato del 1981 alla vita di Papa Wojtyla “fu notoriamente organizzato all’ interno del Vaticano” è un’affermazione affascinante, ma NON è supportata da nessuna prova e indizio degno di tale nome;

– scrivere che Papa Luciani quando morì “era intento a leggere L’imitazione di Cristo” significa ignorare quanto è emerso da ricerche accurate, e cioè che le monache addette al servizio del pontefice quando scoprirono che era morto spostarono alcuni oggetti sul comodino affianco al letto di Luciani e gli misero tra le mani il libro “L’imitazione di Cristo” per dare una pennellata di santità ed edificazione a quella che era invece una morte sopraggiunta nel sonno, una morte cioè per così dire banale. Tutte le insinuazioni, le illazioni e i sospetti riguardo la possibilità che Luciano sia stato ucciso sono nate da quell’improvvida decisione di alterare la scena;

–  Riguardo la morte di padre Arrupe, scrivere “Stando a fonti degne di credito” senza però citarne neppure una non conferisce certo autorevolezza e credibilità al testo.

Nonostante tutto ciò, credo valga la pena leggere il nuovo articolo di Goglia, se non altro per l’impegno profuso nel cercare collegamenti anche se purtroppo solo per deduzione.

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L’articolo di Antonio Goglia. Nonostante diverse inchieste siano state condotte, i mirabili accadimenti che videro coinvolto il Vaticano durante i primi anni ottanta sono rimasti avvolti nel mistero. Il “provvidenziale” decesso di Albino Luciani, il ferimento del Pontefice avvenuto il 13 maggio 1981, il ritrovamento del cadavere del banchiere Roberto Calvi appeso sotto la campata del ponte dei Frati Neri a Londra il 17 giugno 1982 e la sparizione della “cittadina vaticana” Emanuela Orlandi avvenuta il 22 giugno 1983.  Quattro eventi epocali, quattro avvenimenti rimasti privi di una spiegazione oltre quella apparente. Di Albino Luciani si registrò il decesso dipendente da un infarto acuto del miocardio e si diede grande risonanza al fatto che la morte era sopraggiunta mentre il Pontefice era intento a leggere “L’ imitazione di Cristo”, il testo caro a Ignazio da Loyola fondatore della Compagnia di Gesù; il ferimento di Karol Woytjla, Papa Giovanni Paolo II, rimasto il “gesto di un folle” non riconducibile a nessun reale mandante; la morte del banchiere Calvi ritenuta da molti, addirittura, un suicidio (Sic!), avvenuto però in un luogo evocativo: il ponte dei Frati Neri; ed, infine, la scomparsa della “cittadina vaticana” Emanuela Orlandi: trentadue anni di silenzi e depistaggi. Un caso che in tanti vorrebbero ricondurre a problematiche adolescenziali.  Per ciascuno di questi fatti si potrebbe parlare di comode semplificazioni o di uso indiscriminato del rasoio di Occam.  Gli eventi citati possono essere inquadrati nello scenario del furioso conflitto tra la Santa Sede e la Compagnia di Gesù sotto il generalato del padre Pedro Arrupe, durato formalmente dal 1965 al 1983, risalendo la sua esautorazione all’ autunno del 1981. Durante la XXXII Congregazione Generale (1974 – 1975) convocata per stabilire le grandi linee del rinnovamento dei gesuiti alla luce del Concilio Vaticano II,  la Compagnia di Gesù compì la “scelta decisiva” di …… “impegnarsi sotto il vessillo della Croce, nella battaglia per la fede, e la lotta, che essa include, per la giustizia (…) vedendo in tale scelta l’ elemento centrale che definisce, nel nostro tempo, l’ identità dei gesuiti nel loro essere e nel loro operare”. Infatti, spiega la XXXII Congregazione Generale …. “la missione della Compagnia di Gesù oggi è il servizio della fede, di cui la promozione della giustizia costituisce un’ esigenza assoluta”, come si evince dal fondamentale Decreto 4, “La nostra missione oggi: diaconia della fede e promozione della giustizia”. Questa “scelta decisiva” della “lotta per la giustizia” sta all’ origine di tutte le altre che la Compagnia avrebbe compiuto negli anni successivi. Essa fu il frutto di un lungo discernimento compiuto per dare una risposta alla missione che Paolo VI aveva affidato ai gesuiti: combattere l’ ateismo contemporaneo. Infatti, aveva spiegato il Papa ai gesuiti della XXXI Congregazione Generale, il 7 maggio 1965,  …. “l’ ateismo è voler fare a meno di Dio. Si manifesta in forma diverse, ma tutte egualmente funeste: c’è l’ ateismo di coloro che affermano che Dio non c’è o che non è possibile conoscerlo, ed è l’ ateismo culturale. C’é poi l’ ateismo di coloro che tutto ripongono nel piacere e che vivono senza Cristo, senza speranza nella promessa e senza Dio in questo mondo, ed è l’ ateismo pratico dei comportamenti e del costume”….Quindi Paolo VI aggiungeva…“alla Compagnia di Gesù Noi affidiamo il mandato di resistere vigorosamente con forza congiunte all’ ateismo (…) combattano perciò i figli di Ignazio con rinnovato valore questa buona battaglia (…) si diano dunque all’ investigazione, alla pubblicazione di scritti, discutano tra di loro, preparino specialisti (…) innalzino preghiere”… Il Papa così concludeva: …“e affinché con più slancio e alacrità vi dedichiate a quest’ impresa, tenete presente che questo compito non lo avete scelto di vostra iniziativa, ma vi è stato dato dalla Chiesa, dal Sommo Pontefice”… (Discorso ai padri della XXXI Congregazione Generale 1965 – 1966). La risposta della Compagnia giunse a maturazione con la “scelta decisiva” della Congregazione Generale XXXII (1974 – 1975) : … “il cammino verso la fede e il cammino verso la giustizia sono inseparabili (…) fede e giustizia sono indivise nel Vangelo”. Da quel momento i gesuiti hanno intensificato il loro impegno evangelico, fino all’ effusione del sangue, al sacrificio ed al martirio, contro tutte le forme di violenza e di ingiustizia ritenute altrettante manifestazioni dell’ ateismo contemporaneo. Questa apertura missionaria provocò equivoci, ambiguità ed imprudenze da parte di non pochi gesuiti che interpretarono in senso sociologico – politico la “promozione della giustizia”: moltissimi gesuiti si diedero all’ impegno politico aderendo a posizioni marxiste estremiste. Questo nuovo spirito che animava la Compagnia di Gesù produsse una sorta di arruolamento generale rivolto a tutti i gesuiti, una chiamata alle armi per combattere le forze dell’ ingiustizia rappresentate in particolare dai regimi dittatoriali centro – sud americani. Durante la XXXII Congregazione Generale dei gesuiti (1974 – 1975) fu sottoposta all’ approvazione dell’ assemblea l’ estensione del c.d. Decreto 4 “circa missiones”, sull’ impegno del gesuita per la promozione della giustizia, a tutta la Compagnia di Gesù contravvenendo alle indicazioni del Pontefice Paolo VI e del Segretario di Stato Cardinale J.M. Villot.  Il Decreto 4 avrebbe autorizzato, e di fatto autorizzò, tutti i gesuiti a combattere nel senso letterale della parola in nome della giustizia. Il Pontefice Paolo VI, che aveva percepito la pericolosità di questo orientamento,  incaricò il Cardinale Villot di rammentare ai padri congregati il divieto assoluto di discutere l’ argomento inerente il Decreto 4 .  Il documento fu, invece, discusso e approvato a larghissima maggioranza, la lettera del Cardinale Villot era stata tenuta nascosta ai congregati per volere del Generale Pedro Arrupe. La reprimenda del papa fu incisiva, ma per i gesuiti il decreto era passato. Divennero milizia marxista in nome della Croce.  La natura sacerdotale dell’ intero corpo apostolico della Compagnia era messa in discussione. La figura del Padre Arrupe assunse in questo processo una posizione estremamente rilevante poiché aveva impresso un’ accelerazione al cambiamento in senso progressista. Arrupe fu accusato, inoltre, di mancanza di chiarezza e di energia nel governo dell’ Ordine, le sue linee guida furono interpretate in quegli anni come una sorta di “liberi tutti”.  Fu soprattutto sul fronte dell’ impegno teologico politico che il “liberi tutti” divenne devastante: per un ordine così costituzionalmente impegnato nell’ evangelizzazione dei paesi lontani e poveri, l’ adesione alla Teologia della Liberazione fu assolutamente inevitabile. Può essere utile richiamare a questo punto una considerazione dell’ illustre gesuita e teologo tedesco Karl Rahner che rappresenta efficacemente l’ adesione della Compagnia alla Teologia della Liberazione:  «Che i poveri debbano essere trattati in maniera più decente; che non sia lecito opprimere i deboli; che in America Latina vi siano tremende ingiustizie sociali: su questi e simili dati, cristiani e marxisti possono benissimo trovarsi d’accordo. Là dove la povera gente viene sfruttata, il marxista e il cristiano devono lottare insieme per l’eliminazione di un simile sfruttamento.» Il problema politico – sociale divenne assolutamente centrale soprattutto relativamente al Centro e al Sud America dove la Compagnia di Gesù era fortemente coinvolta in esperienze nelle fabbriche, nella guerriglia, nelle vicende dei preti operai, nell’ analisi marxista ed in scelte politiche e di vita che nulla avevano a che fare con il sacerdozio e la vita religiosa.  Chiarito questo punto fondamentale, deceduto Paolo VI, che pure aveva sanzionato la Compagnia di Gesù per certe “fughe in avanti”, l’ elezione di Albino Luciani fu percepita da alcuni come un’ indesiderabile rappresentanza proprio della Chiesa dei poveri, inopportuna in quel momento storico. L’ ex Patriarca di Venezia era intento nella lettura de “L’ imitazione di Cristo”, testo carissimo ad Ignazio di Loyola, quando venne sorpreso dalla morte. Come un’ allusione, un avvertimento proprio alla Compagnia di Gesù. Un’ allusione che si ripeterà in occasione del ritrovamento di un altro cadavere, quello del banchiere Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei “Frati Neri”, i gesuiti appunto. Con l’ elezione di Karol Woytjla lo scontro divenne acerrimo. Il papato era schierato al fianco degli USA, la Compagnia combatteva, letteralmente, sul fronte opposto con gravissime perdite.  Nella primavera del 1981, la Compagnia di Gesù era in subbuglio, le denunzie che piovevano sul generalato erano tante e tremende: si andava dai conventi, dove si viveva come in albergo, alle università, dove i sacerdoti insegnanti avevano assunto un atteggiamento laicale. Il giornale dei gesuiti di Newark, negli USA, pubblicò poesie blasfeme sulla Madonna. In questo clima maturò l’ idea di attentare alla vita del Pontefice polacco (Iustum Necar Reges Impios). L’ attentato eseguito materialmente dal turco Mehmet Alì Agca fu notoriamente organizzato all’ interno del Vaticano ed è rimasto sostanzialmente impunito o, meglio, gestito secondo una sorta di “domestic jurisdiction”.  L’ attentato ebbe luogo il 13 maggio 1981, il Pontefice rimase presso il Policlinico “Gemelli” durante i successivi tre mesi, ne uscirà soltanto il 14 agosto. Per il Vaticano, secondo chi scrive, la responsabilità dell’ attentato fu ben presto chiara stando a quanto si verificò in seguito. Arrupe, ad ogni modo direttamente incolpevole, era partito per un lungo viaggio intercontinentale alcuni giorni dopo l’ attentato, al suo ritorno, il 7 agosto 1981, non appena sceso dall’ aereo fu condotto presso la casa generalizia dei gesuiti, sita in Borgo Santo Spirito in Roma.  Le cronache raccontano la vicenda diversamente, riferendo di un ictus, ma è lecito ritenere che si sia trattato di un escamotage utile a ridurre la portata dei successivi eventi e ad evitare reazioni scomposte nella comunità gesuita.  Nello stesso senso induce a ritenere il fatto che dell’ asserito malore del Papa nero, del generale dei gesuiti, non vi è alcuna traccia sul quotidiano “L’ Osservatore Romano”, organo di stampa della Santa Sede, che non diede alcuna notizia del fatto. Stando a fonti degne di credito, padre Arrupe fu visitato soltanto nel dicembre del 1981, ben quattro mesi dopo il suo rientro, dal Dottor Robert White, un neurochirurgo statunitense, e da alcuni colleghi italiani. I sanitari mediante un dopscan rilevarono la stenosi (ostruzione) parziale della carotide interna quale causa dell’ attacco ischemico (e non emorragico che produce sintomi e conseguenze più eclatanti) che aveva colpito il padre Arrupe decidendo, infine, di non intervenire chirurgicamente.  Nell’ oscuramento di Arrupe, fa propendere per un’ interpretazione diversa da quella della disabilità fisica anche un’ altra circostanza: Arrupe fu sempre cosciente e poté designare un suo vicario. Si trattava di Vincent O’ Keefe (Societas Jesu), uno statunitense ardente ultraprogressista, “libero pensatore del momento” secondo il senatore Giulio Andreotti. O’ Keefe non era gradito al Vaticano: Woytjla non ne apprezzava lo stile personale e l’ impostazione di governo, lo ritenva inadeguato alla carica di Generale e lo considerava pericoloso continuatore dell’ opera di Arrupe. Per la cronaca O’ Keefe fu presidente della Fordham University, l’ università gesuita di New York. Martedì 6 ottobre 1981, il Segretario di Stato Agostino Casaroli si portò presso la residenza di Borgo S. Spirito per notificare ad Arrupe una comunicazione del Papa Giovanni paolo II relativa alla sua esautorazione ed alla nomina di un delegato pontificio che … “mi rappresenti più da vicino nella Compagnia, che si occupi della preparazione della Congregazione generale che bisognerà convocare al momento opportuno e che insieme, in mio nome, abbia la sovrintendenza del governo della Compagnia, fino all’ elezione del nuovo preposito generale. A tal fine, nomino mio delegato per la Compagnia di Gesù il padre Paolo Dezza (Societas Jesu) e dispongo che sia aiutato dal padre Joseph Pittau (S.J.)”…Si trattava di due esponenti dell’ ala conservatrice dei gesuiti chiamati a riformare l’ Ordine. Nello stesso tempo Giovanni paolo II aveva inteso evitare la celebrazione di una Congregazione Generale che avrebbe visto una vastissima rappresentatività culturale e geografica di gesuiti discutere di problemi ritenuti troppo scottanti per l’ intera chiesa cattolica: America latina, rapporti con il marxismo, ruolo della donna nella Chiesa, celibato dei preti.  La Compagnia era stata commissariata. Un evento gravissimo e senza precedenti.  Risulta che l’ Arcivescovo Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, anch’ egli gesuita, e l’ Arcivescovo Ballestrero, Arcivescovo di Torino, un carmelitano, intervennero per sconsigliare al Pontefice l’ adozione del severo provvedimento. L’ interpretazione generale della stampa fu quella che il Papa stesse rimuovendo Pedro Arrupe. Il settimanale internazionale di notizie cattoliche, il “Tablet” di Londra, commentò che questa decisione era stata un brutale insulto nei confronti del generale. Nell’ Ordine la notizia ebbe l’ effetto di una bomba, paragonabile a quella della soppressione della Compagnia da parte di Clemente XIV nel 1733: il 27 ottobre 1983, dalla Repubblica Federale Tedesca, 18 gesuiti, tra i quali il già citato teologo Karl Rahner, inviarono una lettera di protesta al Papa: …  “l’ esperienza della Storia ha dimostrato che anche il Papa può sbagliare (…) il Pontefice nutre sfiducia nei confronti dell’ Ordine, come è evidente nel tacere le vere ragioni della Sua oscura decisione (…) la decisione di Sua  Santità si discosta tanto dalla forma di agire della Santa Sede con la Compagnia di Gesù da suscitare, in non pochi di noi, notevoli problemi di coscienza (…) Santo Padre! Ci lasci scegliere il nostro futuro Superiore Generale (…). A partire dal giorno della sua destituzione di fatto, ma non de jure, Arrupe continuò a ricevere visite da tutto il mondo.  Come già detto p. Paolo Dezza, ottantenne, già antagonista di Arrupe nelle precedenti elezioni del Generale, era il capofila dei conservatori dentro la Compagnia di Gesù.  Il delegato pontificio apportò modifiche radicali a quelli che egli stesso definì “indirizzi spirituali”, prorogando il periodo di formazione dei novizi ed affrontando profondamente problematiche dottrinali e di disciplina religiosa.  L’ 8 dicembre del 1982 il Pontefice, ritenendo sufficiente la punizione inflitta ai gesuiti e completata l’ opera di restaurazione della Compagnia, autorizzò la convocazione della XXXIII Congregazione Generale durante la quale i gesuiti avrebbero potuto nuovamente scegliere autonomamente il loro massimo esponente.  All’ atto della sua nomina, nell’ ottobre del 1981, Dezza aveva accennato al fatto che la Congregazione generale dovesse tenersi dopo la pubblicazione del nuovo Codice di Diritto Canonico per il fatto che alcuni adeguamenti avrebbero potuto rendersi necessari alla legislazione della Compagnia di Gesù. In particolare, si riferiva alle norme contenute nel Decreto 4 sull’ impegno, la missione del gesuita per la promozione della giustizia, formale adesione alla Teologia della Liberazione, approvato a larghissima maggioranza nel corso della XXXII Congregazione Generale. In effetti, il Codice di Diritto Canonico fu definitivamente approvato nel gennaio del 1983 ed entrò in vigore soltanto nel novembre 1983. Durante queste periodo successivo alla promulgazione del Codice di Diritto Canonico tutte le costituzioni degli Ordini religiosi dovettero essere riesaminate, modificate o confermate.  La Costituzione della Compagnia di Gesù richiese un impegno particolarmente intenso proprio per gli “adeguamenti” che richiedeva. Adeguamenti fortemente contrastati dalla fronda gesuita più oltranzista che non desiderava che alcuna modifica venisse apportata al Decreto 4 “circa missiones” che aveva formalizzato la “Scelta Decisiva” della Compagnia di Gesù. E’ in questa fase che si verifica il sequestro e la definitiva sparizione della giovane “cittadina vaticana” Emanuela Orlandi e la conseguente richiesta di scarcerazione del turco Alì Agca, un atto di clemenza che avrebbe avuto, tra le altre cose, un vastissimo valore propagandistico. La Congregazione Generale si tenne nell’ ottobre 1983, Pedro Arrupe presentò le sue dimissioni venendo definitivamente eclissato, anche, de jure dopo essere stato esautorato de facto. La Compagnia “addomesticata” elesse quale Generale l’ olandese Kolvenbach. Nel novembre il Codice di Diritto Canonico poté entrare finalmente in vigore. Si chiudeva così un periodo denso di eventi le cui vere cause furono tenute nascoste all’ opinione pubblica mondiale.

·         Il Vaticano e la Massoneria.

Papa Francesco, le prove del legame tra la sua Chiesa e la massoneria: un attacco durissimo, scrive l'11 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Fari puntati sui legami tra il Vaticano e la massoneria. Un caso che si aprì con un intervento del cardinale Gianfranco Ravasi su Il Sole 24 ore, quando il 14 febbraio del 2016 scriveva un articolo titolato: "Cari fratelli massoni". Come sottolinea Il Giornale, fu l'occasione per lanciare un messaggio ben preciso: basta chiusure e pregiudizi, è l'ora del dialogo, cerchiamo quello che ci unisce e non quello che ci divide. Non a caso, da allora sono iniziati degli incontri nelle diocesi italiane con l'attiva partecipazione del Grande Oriente d'Italia (Goi). Eppure, la massoneria, è per definizione molto lontana dalla Chiesa Cattolica. E la ragione è molto semplice: la Chiesa ha sempre ravvisato il carattere satanico del progetto massonico e quindi la sua pericolosità per i fedeli cattolici. Eppure, ora, sottolinea sempre l'articolo del quotidiano di via Negri, si segue il metodo del "pastoralismo", la base del pontificato di Papa Francesco. In buona sostanza, una Chiesa che si disinteressa della dottrina, nella teoria sempre valida ma in pratica anche pronta ad essere scardinata. Si torna dunque all'articolo di Ravasi, una sorta di "via libera" a una nuova era. Non a caso, da quel commento in poi sono stati organizzati diversi appuntamenti: ha iniziato il Grande Oriente d'Italia in Sicilia, organizzando un convegno a Siracusa il 12 novembre 2017, a cui ha partecipato il vescovo di Noto, Antonio Staglianò. Dunque la palla è passata alla Chiesa: alla fine di ottobre un incontro si è svolto a Gubbio, organizzato dalle Acli e dalla sezione umbra del Grande Oriente. Incontro ceh fu anche sponsorizzato però dalla vicina diocesi di Assisi, che fece dietrofront solo dopo che la notizia è rimbalzata su giornali nazionali. Quindi si passa all'inizio di novembre, dove si è fatto lo stesso a Matera, con la "benedizione" del vescovo locale. Strani e irrituali legami, dunque, quelli tra la Chiesa di Francesco e la massoneria. Legami che fanno discutere e che vengono difesi da chi, nella Chiesa stessa, predica una religione universale. Non è un caso che gli organizzatori di questi eventi abbiano sempre criticato la visione identitaria della Chiesa, che sarebbe superata con l'avvento di Papa Francesco. Durissima la chiusa dell'articolo de Il Giornale. "Oggi sembra esserci una folla di teologi e prelati che ardono dal desiderio di abbandonare la via di Cristo per confondersi con il mondo, e soprattutto con il Potere di questo mondo".

Papa Francesco, i massoni lo applaudono: siamo con te, scrive il 10 Gennaio 2019 Andrea Emmanuele Cappelli su Libero Quotidiano". «Tutti i massoni del mondo si uniscono alla richiesta del Papa per la fraternità tra persone di diverse religioni»: il messaggio d' apertura alla Chiesa Cattolicaguidata da Jorge Mario Bergoglio proviene dal mondo della massoneria spagnola. A rilanciarlo è anche il profilo Twitter della Gran Logia de España, che ha accolto entusiasticamente il messaggio di Natale del Pontefice. La cosa non deve destare eccessivo stupore: se durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI i rapporti tra il Vaticano e le principali logge europee erano di reciproca diffidenza, da qualche anno a questa parte la situazione sembra essere mutata. A documentarlo (lo scorso novembre) è stato anche il sito del nostro quotidiano, ricordando un intervento del cardinale Gianfranco Ravasi sul Sole 24Ore (14 febbraio 2016), dal titolo piuttosto eloquente: "Cari fratelli massoni". All' epoca, diversi giornalisti interpretarono la cosa come un tentativo di stabilire un contatto fra due mondi un tempo lontani. Non a caso, il vescovo di Noto Antonio Staglianò partecipò a un convegno organizzato dal Grande Oriente d' Italia a Siracusa il 12 novembre 2017, mentre a Gubbio (ottobre 2018) l'Acli locale e la sezione umbra del Grande Oriente organizzarono un evento assieme, come avvenne a Matera pochi giorni dopo. Leggi anche: Diego Fusaro massacra Papa Francesco, David Parenzo impazzisce: "Cialtrone cosmico", volano insulti. Secondo gli osservatori più critici, a favorire questa "sinergia" sarebbe una visione anti-identitaria della Chiesa. Insomma, l'auspicio di una determinata corrente politico-ideologica (più vicina al mondialismo e a una concezione di "fratellanza universale" capace di superare le differenze politiche, culturali, nazionali e persino religiose) è che sia proprio Papa Francesco a imprimere tale cambio di paradigma. Come riportato dal giornalista e saggista Aldo Maria Valli all' interno del suo blog, «nel suo messaggio natalizio dalla loggia centrale del Vaticano - scrivono i massoni del Grande Oriente Español - Papa Francesco ha chiesto il trionfo della fratellanza universale tra tutti gli esseri umani». Il passaggio chiave, secondo la loggia iberica, sarebbe il seguente: «E così, con la sua incarnazione, il Figlio di Dio ci indica che la salvezza passa attraverso l'amore, l'accoglienza, il rispetto per questa nostra povera umanità che tutti condividiamo in una grande varietà di etnie, di lingue, di culture, ma tutti fratelli in umanità! Allora le nostre differenze non sono un danno o un pericolo, sono una ricchezza». In effetti, se si opera una semplificazione, il concetto espresso non si discosta più di tanto dai messaggi politici degli esponenti liberal e di area democratica. Sempre Valli ricorda l'attestato di stima espresso da Gustavo Raffi (Gran Maestro del Grande Oriente d' Italia fino al 2014) all' indirizzo di Bergoglio: «Osserviamo con attenzione e rispetto come questo papa stia accelerando i tempi di un cambiamento epocale entro l'orizzonte di strutture tradizionalmente restie ad accogliere i fermenti di innovazione. E di riflesso il suo influsso si riverbera ben oltre i confini delle sagrestie». Andrea Emmanuele Cappelli 

La massoneria spagnola ringrazia il Papa per il dialogo tra religioni. Un'organizzazione massonica spagnola ha ringraziato il Papa per la sua presa di posizione in materia di dialogo interreligioso, scrive Giuseppe Aloisi, Mercoledì 09/01/2019, su "Il Giornale". "​Tutti i massoni del mondo si uniscono alla richiesta del papa per 'la fraternità tra persone di diverse religioni'". La massoneria spagnola, plaudendo a quanto fatto sinora da Bergoglio per tutelare e alimentare il dialogo interreligioso, è stata piuttosto esplicita. A riportare la notizia, tra gli altri, è stato il vaticanista Aldo Maria Valli. Qualcuno è rimasto di stucco, ma la mossa potrebbe essere interpretata pure come una provocazione. Il fatto è che un'organizzazione massonica iberica, a torto o a ragione, sembra pensarla come il pontefice argentino in materia d'ecumenismo. La Gran Logia de Espana ha elogiato l'omelia che il Santo Padre ha pronunciato per la Natività: "Papa Francesco - si legge nel testo in questione - ha chiesto il trionfo della fratellanza universale tra tutti gli esseri umani: “Il mio augurio di buon Natale - aveva detto l'ex arcivescovo di Buenos Aires - è un augurio di fraternità. Fraternità tra persone di ogni nazione e cultura. Fraternità tra persone di idee diverse, ma capaci di rispettarsi e di ascoltare l’altro. Fraternità tra persone di diverse religioni". Il Papa, quindi, si era sì riferito alla pacificazione religiosa, ma pure al multiculturalismo. Un richiamo che la massoneria spagnola sembra condividere nella sua interezza. Ma c'è dell'altro. Le parole del pontefice si distanzierebbero, così, da una certa prassi consolidata: Bergoglio avrebbe segnato un solco tra la condanna diretta alla massoneria, che la Chiesa cattolica ha pronunciato in tempi non sospetti, e l'attuale visione delle cose. Le varie posizioni che i papi hanno preso nel corso degli anni sarebbero state superate. Difficile, allo stato delle cose, comprendere cosa ne pensa il Vaticano di questo inaspettato plauso. Certo è che i critici del papa potrebbero utilizzare la vicenda per sostenere che il cattolicesimo si stia allontanando, ancora una volta, dai suoi dettami tradizionali. Aldo Maria Valli non ha nascosto il suo pensiero e ha scritto che questo è il "papa più apprezzato dalla massoneria internazionale".

·        La Chiesa e la Santa Inquisizione.

Danilo Taino per il "Corriere della sera” il 31 ottobre 2019. È l'ora delle streghe. In occasione di Halloween 2019, Amazon Prime ha per esempio preparato i «20 migliori film di streghe» da guardare per l'occasione del 31 ottobre, da Hocus Pocus ad Amori e Incantesimi, dal Mago di Oz a The Witches of Eastwick. Ora: pare che in Europa di streghe non ce ne siano più. Ma ci sono state! O meglio: nella cultura e nelle leggi dei secoli scorsi sono davvero esistite, donne che di solito uscivano dai canoni prestabiliti oppure più semplicemente incontravano l' odio di qualcuno che le accusava. Fatto sta che in certi periodi, tra 1500 e 1600 , ci furono vere isterie di massa legate al fenomeno. Ci ricorda adesso Statista.com che Peter Leeson e Jacob Russ hanno pubblicato uno studio - Witch Trials , Processi di streghe, 2018 - nell' Economic Journal nel quale analizzano 43 mila processi tenutisi tra il 1300 e il 1850 (in totale, in Europa si sono tenuti più di 80 mila giudizi contro streghe e in un'alta quota di essi si è arrivati a una condanna a morte, regolarmente eseguita, spesso con il fuoco). La strepitosa tesi dei due economisti è che all' origine ci sia stata una «concorrenza non di prezzo tra le chiese cattolica e protestante per la quota di mercato religiosa». La sfida stava nello stabilire, davanti agli occhi dei cristiani da conquistare, chi offrisse la migliore protezione. In termini generali, dove c' era più concorrenza c' è stata più caccia alle streghe. Il record assoluto di processi si è tenuto nell' area che oggi è la Germania, culla del protestantesimo: 16.474 con 9.587 condanne a morte. Al secondo posto la Svizzera, dove le morti sono state 4.105 su 5.691 processi. A giudizio sono andate 3.373 streghe in Scozia, dove c' era una forte concorrenza tra diverse forme di protestantesimo, e 190 sono state uccise. In Italia ha prevalso la moderazione, dal momento che il conflitto per la conquista dei fedeli era meno acceso: 544 a giudizio per 60 roghi. La Spagna un po' peggio: 1.948 processi per stregoneria ma uno solo finito con la condanna capitale. Stabilite le quote di mercato, il fenomeno è andato via via scemando fino a sparire. In Europa. In qualche altra parte del mondo rimane, probabilmente con radici diverse. Cacce alle streghe sono state registrate abbastanza di recente in Papua Nuova Guinea e nell' Africa subsahariana. In Camerun e in Arabia Saudita ci sono ancora leggi contro la stregoneria.

Il memoriale della Scozia per la strage delle streghe. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Vennero imprigionate, torturate e uccise a migliaia. La loro colpa presunta: essere in rapporto col demonio, praticare la magia nera. In altre parole, la stregoneria. La realtà dei fatti: essere donne in un universo sottomesso al potere maschile. La caccia alle streghe che imperversò in Europa fra il Quindicesimo e il Diciottesimo secolo può essere giustamente definita il primo femminicidio di massa. E il pozzo nero di quella orrenda strage fu la Scozia: dove le esecuzioni furono in proporzione cinque volte più numerose che nel resto d’Europa. Ora, quasi 400 anni dopo l’ultimo martirio, avvenuto nel 1727, a Edimburgo stanno pensando di espiare — in parte — quanto commesso dai loro avi e onorare la memoria delle vittime: erigendo un monumento nazionale alle cosiddette «streghe». Furono almeno 2.500 le persone messe a morte in Scozia per stregoneria: i maschi non erano immuni dalla persecuzione, ma l’85 per cento delle vittime furono donne. E molte altre migliaia vennero processate e torturate. «Per un Paese di così piccole dimensioni, è impressionante», ha commentato al Guardian Julian Goodare, professore di storia all’università di Edimburgo e autore, assieme a Louise Yeomans, di un database sulla caccia alle streghe. L’accanimento degli scozzesi si spiega con diversi fattori, in particolare il rigorismo morale assunto dalla riforma protestante in quella regione, che si coniugava a una atavica misoginia. Ma a dare il sigillo supremo dell’autorità alle persecuzioni ci aveva pensato lo stesso sovrano di Scozia, Giacomo IV — che poi salì al trono d’Inghilterra come Giacomo I — il quale era notoriamente ossessionato dalla stregoneria tanto da pubblicare in prima persona un trattato sulla demonologia. «Giacomo IV fornì la legittimazione iniziale — ha commentato lo storico — ma credo che il tutto sarebbe avvenuto comunque a causa della intensità della Riforma scozzese». La caccia alle streghe non è infatti un fenomeno medievale, come spesso si crede, ma ha direttamente a che fare con la formazione dell’Europa moderna e con i suoi elementi costitutivi, la Riforma protestante e la Controriforma cattolica. Entrambe si proponevano di re-evangelizzare il Continente europeo, nella consapevolezza che fino ad allora la cristianità era rimasta un velo superficiale che nascondeva un’ampia sopravvivenza di credenze pagane. E le portatrici di questa sapienza antica erano in primo luogo le donne, depositarie di saperi ancestrali che si traducevano in pratiche non conformi alla religione ufficiale. Di qui l’accusa di «stregoneria» e il furore ideologico e pratico volto a estirpare questi residui di un passato da rimuovere. «Le donne erano nel mirino anche a causa della loro sessualità — sottolinea Goodare — e perseguite per adulterio e rapporti extramatrimoniali». Perché in una società incentrata sul dominio maschile sui corpi il sesso femminile è qualcosa di potenzialmente eversivo, al pari delle pratiche «stregonesche». Ma non di solo questo si trattava. «Queste donne erano prese di mira perché vulnerabili — ha sottolineato Kate Stewart, l’esponente del partito nazionalista scozzese che guida gli sforzi per erigere il memoriale —. Alcune di loro possedevano terreni di cui altri, di solito uomini, volevano impadronirsi; oppure erano vedove o nubili, o in ogni modo apparivano e parlavano e si comportavano in modo differente». Kate Stewart sta lavorando a una proposta dettagliata per il memoriale: «Il messaggio riguarda l’essere più tolleranti verso le persone che appaiono diverse — ha detto —. Quell’epoca era un periodo difficile per le donne: ma trecento anni più tardi veniamo ancora accusate per il modo nel quale ci vestiamo o agiamo. Tutto questo deve cambiare».

Katharina, Agnes e le altre: battaglia del pastore  per le «streghe». Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Paolo Valentino, su Corriere.it. Katharina Lips venne torturata per giorni nelle segrete del Tribunale di Marburgo. Le misero le gambe in uno stivaletto spagnolo. Le slogarono tutte le ossa con il sistema della cremagliera, le tirarono i capelli con l’annodamento fino a strapparglieli. E a ogni nuova sevizia, le stesse domande: «Sei una strega? Sei allieva del diavolo?». «No», continuò a rispondere, tra dolori atroci e urla disumane, la moglie dello Schulmeister di Betziesdorf, un villaggio dell’Assia. Era il maggio del 1672. Dovettero rilasciarla su cauzione, ormai un relitto. Il marito non volle riprenderla in casa. Ma la sua libertà non durò a lungo. Un anno dopo, la nipote sedicenne Anna Schnabel denunciò se stessa e la zia come streghe: Anna venne impiccata, Katharina di nuovo torturata e di nuovo rifiutò di confessare. Non la uccisero, ma venne cacciata dalla città. Katharina Lips e sua nipote sono due delle oltre 25 mila persone (donne, ma anche molti uomini e bambini) che nel XVI e XVII secolo furono vittime della «caccia alla streghe» nel territorio del Sacro Romano Impero Germanico, martiri della superstizione diffusa, dello zelo criminale della Santa Inquisizione e della complicità delle autorità civili che emettevano materialmente le sentenze. Cinquecento anni dopo, buona parte di queste persone sono ancora tecnicamente colpevoli ai sensi delle accuse portate contro di loro: aver interagito col diavolo. Contro questa storica ingiustizia un pastore evangelico renano combatte da quasi vent’anni. Fondatore dell’Arbeitkreis Hexenprozesse, Hartmut Hegeler vuole riabilitare le presunte fattucchiere, maghi, bimbi indemoniati che vennero torturati, impiccati, annegati, arsi vivi, restituendo loro onore e dignità. La sua non è solo una battaglia rivolta a fare i conti con un passato oscurantista: «Vorremmo che le città tedesche rinnovassero la memoria di anni bui, per ricordare a tutti di cosa sono capaci gli esseri umani verso i propri simili, quando si ha paura di guerre, pestilenze, catastrofi naturali o quando si deve trovare un colpevole per l’improvvisa malattia di un bimbo o un raccolto andato a male». Sono più di 40 i Comuni della Germania e della Svizzera, che hanno risposto positivamente alle sollecitazioni di Hegeler. Una delle riabilitazioni più celebri, esempio per altri borgomastri, è stata quella della nobildonna Katharina Henot, che nel 1627 venne strangolata da un boia sulla pubblica piazza a Colonia, accusata di aver provocato un’epidemia di vermi ulcerosi in un convento di suore. Nel giugno 2012, il comune renano ha riabilitato Henot e altre 37 persone che in passato i tribunali cittadini avevano giudicato colpevoli di stregoneria e mandate a morte. Fra di loro c’era una bambina di 8 anni. Ma non sempre l’accoglienza alle richieste del settantaduenne pastore è stata favorevole. A Düsseldorf per esempio, nel 2011, le autorità rifiutarono la riabilitazione di Agnes Olmans, una donna bruciata viva il 23 agosto 1738 insieme alla vicina quattordicenne Helena Curtens, che l’aveva accusata di «avere una tresca amorosa col maligno». L’adolescente aveva problemi psichici, documentati da medici nel processo. La motivazione del rifiuto? «Düsseldorf non è l’erede in diritto delle giurie popolari che allora giudicavano». Hegeler sospetta che sul diniego abbia pesato il parere scritto di un teologo cattolico, al quale il Comune si era rivolto, secondo il quale le due donne, stando ai documenti del processo «erano dedite a pratiche superstiziose» al tempo proibite per legge, quindi la condanna a morte era (sic) giustificata. Il parere era stato respinto, ma secondo Hegeler i politici della Cdu di Düsseldorf volevano evitare problemi con la comunità ecclesiastica. Non è solo un problema dei cattolici. Anche Lutero, ricorda il pastore, giustificava nel 1526 l’uccisione delle presunte streghe «perché fanno molti danni». Eppure una mozione firmata da migliaia di persone, da lui indirizzata in occasione dei 500 anni della Riforma alla Chiesa evangelica tedesca con la richiesta di dichiarare una volta e per sempre illegali i processi alle streghe, finora non ha avuto risposta. «Io non desisto, continuerò a chiederlo», dice Hegeler.

·        La Chiesa ed i guru-santoni-guaritori-esorcisti.

Usa, i libri di Harry Potter rimossi da una scuola cattolica: "Un consiglio degli esorcisti". Gli studenti della St. Edward Catholic School di Nashville non possono più accedere alla saga di J. K. Rowling: i sette libri sono stati rimossi dalla loro biblioteca. Il reverendo: "Le maledizioni e gli incantesimi contenuti nelle pagine rischiano di evocare spiriti maligni nel momento stesso in cui vengono letti". Katia Riccardi il 3 settembre 2019 su La Repubblica. Accio, attira oggetti. Depulso li allontana, Diminuendo per rimpicciolirli, Evanesco per farli sparire, Engorgio Skullus ingrandisce la testa di una persona, Quietus abbassa il suono della voce. Fino ai cattivi. Il Sectumsempra è un incantesimo oscuro che causa profonde lacerazioni al volto, alla gola e al petto. La Maledizione Cruciatus causa dolore estremo, la Maledizione Imperius permette a chi lo utilizza di assumere il controllo totale sulle azioni di chi lo subisce. Sono tantissimi. Nella saga di Harry Potter ogni incantesimo ha una determinata formula, che va pronunciata impugnando o agitando la bacchetta magica. Molte formule derivano da parole di origine latina o greca antica, cosa che ovviamente J. K. Rowling sa bene. Ora una scuola cattolica privata a Nashville ha rimosso i sette libri della serie dalla sua biblioteca, dicendo che includono "maledizioni e incantesimi reali, che se letti da un essere umano rischiano di evocare spiriti maligni". Lo ha riportato il giornale locale Tennessean: il pastore della scuola cattolica di St Edward, che insegna ai bambini fino agli otto anni, ha inviato una email ai genitori per avvertirli di essere in contatto con "diversi" esorcisti che gli avrebbero consigliato di rimuovere i libri di Potter dalla biblioteca scolastica. "Questi libri presentano la magia sia come 'buona', per il bene, che diabolica, nel male, cosa non vera, ma in realtà si tratta di un inganno intelligente", ha scritto il reverendo Dan Reehil. "Le maledizioni e gli incantesimi usati nei libri sono vere e proprie maledizioni, veri incantesimi. Un essere umano rischia di evocare spiriti maligni nel momento stesso in cui li legge". Maledizioni, incantesimi. Rebecca Hammel, sovrintendente delle scuole della diocesi cattolica di Nashville, ha dichiarato al Tennessean che Reehil aveva inviato l'email su richiesta di un genitore. Ha aggiunto anche che "può farlo", perché "ogni pastore ha l'autorità canonica di prendere tali decisioni per la sua scuola parrocchiale". Secondo il giornale, i libri erano a disposizione sugli scaffali della biblioteca fino alla fine del precedente mandato, ma ora la scuola ha aperto una nuova biblioteca e i libri sono stati rimossi. Eliminati nel trasloco. Se i genitori considerano le storie "appropriate, speriamo che guidino i loro figli e le loro figlie a comprenderne il contenuto attraverso la lente della fede", ha aggiunto Hammel, "non censuriamo, ci assicuriamo solo che ciò che mettiamo nelle nostre biblioteche scolastiche sia materiale adatto all'età delle nostre classi". I libri, ha spiegato, si trovano ancora nelle altre scuole della stessa diocesi. I libri di Harry Potter hanno attirato richieste di censura e varie controversie già dal primo della serie, Harry Potter e la pietra filosofale, pubblicato nel 1997. Nel 1999, è stato il libro più osteggiato degli Stati Uniti mentre nell'elenco dell'American Library Association l'intera serie figura tra le più contestate del 2000-2009. Secondo l'Ala, i libri "glorificavano la magia e l'occulto, confondendo i bambini e spingendoli a tentare l'emulazione degli incantesimi e delle maledizioni che leggono". Nel 2001, il pastore della Christ Community Church di Alamogordo, Nuovo Messico, ha supervisionato un rogo pubblico dei libri di Potter e una biblioteca locale ha risposto al gesto con un'esibizione per dire al pubblico: "Harry è vivo e vegeto, almeno nella nostra biblioteca". Mentre era ancora cardinale nel 2003, il futuro papa Benedetto XVI ha descritto i libri come "sottili seduzioni che agiscono inosservate e questo distorce profondamente il cristianesimo nell'anima prima che possa crescere correttamente", scrisse l'allora cardinale, prefetto dell'ex Sant'Uffizio, ad una studiosa tedesca autrice di un volumetto contrario alla saga di Harry Potter. La corrispondenza fu resa nota solo anni dopo, poco prima dell'uscita del sesto libro della storia del mago più famoso (e amato) del mondo.

IL DIAVOLO ESISTE DAVVERO? Franca Giansoldati per il Messaggero il 24 agosto 2019. Il diavolo esiste davvero o è solo una invenzione simbolica? La domanda sulla presenza di Satana tra gli uomini non è per niente scontata e ha sollevato un putiferio al Meeting di Rimini facendo litigare a distanza fazioni contrapposte. L'incendio è divampato quando il Papa Nero – il Generale dei Gesuiti- padre Arturo Sosa, rispondendo ad una domanda, spiegava che «nel linguaggio di sant’Ignazio il diavolo è lo spirito cattivo che porta l'uomo a fare le cose che vanno contro lo spirito di Dio. Che esiste come il male personificato in diverse strutture ma non nelle persone, perché non è una persona, è una maniera di attuare il male». Sosa ha però aggiunto, per fare capire meglio il concetto, che il diavolo «non è una persona come lo è una persona umana. È una maniera del male di essere presente nella vita umana. Il bene e il male sono in lotta permanente nella coscienza umana, e abbiamo dei modi per indicarli. Riconosciamo Dio come buono, interamente buono. I simboli sono parte della realtà, e il diavolo esiste come realtà simbolica, non come realtà personale». Lucifero equiparato a un simbolo? Apriti cielo. A stretto giro si sono scatenati sul web i giudizi di molti fedeli e organizzazioni cattoliche sconvolte per questo dotto distinguo che è stato visto come l'inizio di una eresia. La vicenda è cresciuta di intensità fino a che l'Associazione Internazionale Esorcisti (AIE) è dovuta scendere in campo per fare chiarezza, polemizzando con le posizioni di padre Sosa. «Di fronte a queste gravi e disorientanti affermazioni, peraltro già espresse in passato da padre Sosa è doverosa qualche puntualizzazione dottrinale alla luce del magistero, anche dell’attuale Pontefice». Gli esorcisti sono partiti dal magistero espresso nel Concilio Lateranense IV su angeli e demoni che «implica una vincolante adesione di fede. La posizione di Abascal, pertanto, si pone all’infuori del magistero ordinario e straordinario-solenne». In pratica il Papa Nero è un eretico. «L’esistenza reale del diavolo, quale soggetto personale che pensa e agisce e che ha fatto la scelta di ribellione a Dio, è una verità di fede che fa parte da sempre della dottrina cristiana. Tale verità viene ribadita da un documento della Congregazione della fede (…) un insegnamento che corrisponde a tutta la tradizione dei Padri della Chiesa e dei Papi». In precedenza Paolo VI, il 15 novembre 1972, durante l’udienza generale del mercoledì, affrontava il tema in questione. Partendo dal male esistente nel mondo, egli dichiarava che esso è «occasione ed effetto di un intervento in noi e nel nostro mondo di un agente oscuro e nemico, il demonio. Il male non è più soltanto una deficienza, ma un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa. Sappiamo così che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero». Papa Francesco, dopo la sua elezione in diverse circostanze ha ribadito la realtà del demonio. Il Papa precisa che quando si parla della lotta contro il demonio, non si tratta di un contrasto con la mentalità mondana né con le inclinazioni personali verso il male, ma più puntualmente ci si riferisce a una lotta contro un essere reale, «che - puntualizzano gli esorcisti - è il principe del male».

La villa di fantasmi e omicidi dove i satanisti sono di casa. L'edificio, a pochi chilometri da Lecco, è considerato fra i più infestati al mondo. Tutto cominciò con una leggenda...Diana Alfieri, Mercoledì 19/06/2019, su Il Giornale. Sul suo conto girano storie di ogni tipo: orrendi omicidi, strane sparizioni e persino una fontana che zampilla sangue. E in effetti, il suo aspetto fatto di pareti scrostate, finestre sfondate, graffiti sui muri e resti di bivacchi, hanno un che di inquietante, tanto da essere considerata uno dei luoghi abbandonati più infestati di spettri al mondo. In realtà Villa De Vecchi di Bindo, frazione di Cortenova, in Provincia di Lecco, non ha niente a che vedere coi fantasmi. Conosciuta nel mondo dell'esoterismo mondiale come la «Casa Rossa», venne realizzata a metà dell'800 dal conte Felice De Vecchi, eroe delle Cinque Giornate di Milano e comandante della Guardia Nazionale. Fu costruita in un parco di 130 mila metri quadri e costò 44.063 lire. L'edificio, che nell'architettura richiama la passione per l'oriente del nobile milanese, ha due piani e un seminterrato dedicato a cucina, più un terzo piano, mai realizzato, dove sarebbe dovuto essere allestito un osservatorio astronomico. La leggenda vorrebbe che un brutto giorno il conte, di ritorno da una passeggiata nei boschi, trovò la moglie orrendamente assassinata e la figlioletta scomparsa. Disperato, abbandonò subito la tenuta, che nel giro di poco tempo sarebbe diventata un luogo maledetto. C'è chi giura di avere sentito il lamento di una donna provenire da una delle finestre e chi invece di avere udito il suono di un piano. Altri si dicono convinti che la fontana che una volta ornava il parco ha zampillato sangue. Tuttavia, l'investitura a luogo maledetto a livello internazionale, è arrivata grazie a una voce molto particolare, che riguarda una delle figure più inquietanti e discusse del satanismo mondiale: Aleister Crowley. Nei primi anni Venti lui e i suoi adepti iniziarono un lungo viaggio attraverso l'Italia alla ricerca del posto giusto dove fermarsi e dare vita a una comunità dedita al culto di satana e ai sacrifici umani. Prima che Mussolini lo buttasse fuori dal paese per attività antifasciste, la leggenda vuole che abbia preso in considerazione proprio la Casa Rossa, ma dopo avervi dormito per un paio di notti decise di levare le tende. Crowley, comunque, trovò quello che cercava a Cefalù, dove fondò l'Abbazia di Thelema, e negli anni Settanta divenne anche fonte d'ispirazione delle musiche dei Led Zeppelin, che trasformarono la sua abitazione sulle rive del lago di Loch Ness, la mitica Boleskine House, in uno studio di registrazione. Ma cosa c'è di reale nei racconti su spettri e sangue nella Casa Rossa? Nulla ovviamente. Lo sostengono più di tutti gli abitanti di Bindo, in particolare Giuseppe Negri, ottantenne, figlio di Antonio ed erede dell'ultimo custode della Villa. Fatica a capire da dove siano nate quelle voci: nessuno morì di morte violenta e nessuno sparì. Il conte e la moglie morirono di morte naturale e gli eredi abbandonarono la villa nel '38. Durante la guerra, la tenuta venne abitata da alcuni sfollati e, nel '59, la acquistarono i Medici di Marignano. Infine, all'inizio degli anni Ottanta, venne rilevata da alcune famiglie di imprenditori locali. Nessuno spettro, nessuna maledizione, nessun fatto di sangue. I primi racconti del terrore sulla Villa arrivarono dai bambini che andavano in villeggiatura nella valle. E forse sono stati proprio quei racconti, amplificati prima dal turismo di massa e poi da internet, a dare l'inizio a tutto. A questo si aggiunga che lo stato di profondo abbandono e degrado in cui la tenuta è scivolata a partire dagli anni Settanta e la sua sagoma effettivamente un po' inquietante, potrebbero avere fatto il resto. Da oltre 30 anni, la Villa è stata prima saccheggiata e devastata e poi trasformata in un bivacco per tossicodipendenti. Senza contare le messe nere che alcuni gruppi di satanisti della domenica hanno effettivamente organizzato all'interno delle sue stanze. La sua fama di casa maledetta si estende comunque anche oltre confine. Il colosso digitale Usa Buzzfeed l'ha classificata fra le sette case più infestate al mondo mentre gli inglesi l'hanno fatta entrare nel novero delle «20 Haunting Abandoned Mansions of the World». In molti sostengono che la frana del 2002 avrebbe potuto porre fine drasticamente all'edificio ma i detriti e il fango che travolsero case e aziende, non lo travolsero. Che siano state davvero delle forze occulte a difenderla? Resta il fatto che il futuro della Villa De Vecchi è estremamente incerto. Comune, Provincia e Sovrintendenza hanno discusso più volte il recupero, ma tutti i piani sono regolarmente falliti. Nel 2012 si mobilitò anche il Fai, il Fondo ambientale italiano: Villa De Vecchi non è certo Venaria Reale, ma ha diversi elementi di pregio e valore. Anche in quella circostanza, tuttavia, l'opera di sensibilizzazione si arenò di fronte ai costi del piano di riqualificazione: circa sei milioni di euro. Infine, sempre Provincia e Sovrintendenza hanno stabilito un pericolo di tipo idrogeologico medio-alto, bloccando così, per il momento, ogni possibile intervento di restauro (nel 2002 la Villa fu sfiorata da una valanga che travolse Bindo). Se Casa Rossa è forse il più famoso esempio di edificio maledetto, a condividerne la sorte ce ne sono molti altri sparsi per la penisola. Fra le più celebri in Liguria si trova in località Scogna Sottana in provincia di La Spezia. Un tempo abitata da un giovane musicista che morì a causa di una lunga e dolorosa malattia, la casa rimase poi vuota ma si narra che il violino prenda a suonare da solo di notte anche da dentro la sua bacheca. Una delle attrazioni turistiche più popolari non solo di Mantova ma di tutta la regione, il Castello Gonzaga ha anch'esso una reputazione alquanto sinistra. Agnese Visconti, figlia del signore di Milano, andò in sposa a Francesco Gonzaga, signore di Mantova. La vita coniugale iniziò senza intoppi ma poi il cugino della giovane, Gian Galeazzo Visconti, uccise lo zio per impossessarsi del potere. Agnese chiese al marito di aiutarla a vendicare la morte di suo padre ma lui rifiutò per ragioni politiche. Ella allora decise di ribellarsi. Per fermarla venne istituito un falso processo e fu condannata a morte. Si dice che il suo spirito vaghi ancora in quella che fu la sua dimora in vita.

VATTENE A FARE IL GURU. Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 6 maggio 2019. «Piacere, sono un verme della terra». Si presentava così Natuzza Evolo, la mistica di Paravati. «Mamma Natuzza», come la chiamavano tutti, è considerata la più famosa dei circa 200 veggenti e guaritori - o sedicenti tali - cattolici e cristiani, a cui ogni anno si rivolgono 60mila italiani, secondo le stime del Cesnur (Centro studi nuove religioni) apprese da La Stampa. È una galassia formata da gruppi spesso non numerosi, anche solo di una decina di persone, molti dei quali non riescono a istituzionalizzarsi dopo la morte del fondatore. Una grande parte forma un mondo sommerso poco quantificabile. Questi visionari sono dei "piccoli e medi padre Pio", il santo di Pietrelcina a cui molti di loro si ispirano. Sono figure più o meno tollerate dalla Chiesa, spesso sono borderline, trattate con sospetto dai vescovi. E qualcuno è stato scomunicato. Certamente non Natuzza, che anzi è lanciata verso la beatificazione. Nata nel 1924 e morta nel 2009, ha sin dall' infanzia delle visioni. Un numero sempre maggiore di persone accorre all'abitazione di questa strana signora senza istruzione. «Sa leggere nell'anima», dice la gente. Le autorità religiose esortano alla prudenza; Natuzza viene anche ricoverata in un ospedale psichiatrico. Due su tutti i suoi prodigi: riceve le stimmate - come padre Pio - e ha il dono della bilocazione. Si va da lei per ricevere conforto, «trovare il senso della vita». E anche per sconfiggere malattie. Dalla sua popolarità nascono gruppi di preghiera, i "Cenacoli Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime". E oggi sorge tra le colline del Vibonese il Santuario in onore di Natuzza: ogni anno ci vanno migliaia di fedeli in cerca di qualche miracolo o «illuminazione». Con Natuzza la vicenda si è chiusa positivamente, ma in genere il compito della Chiesa di fronte a questi fenomeni è complesso. «Non è sempre immediato distinguere quelli autentici da quelli che non lo sono», spiega il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur. Il primo criterio è l' obbedienza all' autorità ecclesiastica. Poi partono esami, indagini, studi, che spesso portano a restrizioni, magari precauzionali. La situazione paradossalmente si complica quando questi personaggi «si battono per stare dentro la Chiesa, confidando magari di essere compresi di più e meglio dal vescovo successore», dice Introvigne. Sono i «gruppi cattolici di frangia», come li definisce il Cesnur. Per esempio, tra chi vuole stare nel recinto cattolico ci sono i volontari dell' Opera Padre Gabriele, seguaci anche di Gabriella Pasquali Carlizzi. L'Opera è un' associazione onlus, con sede a Sant'Angelo Romano (Roma), nata dal carisma di Gabriele Maria Berardi (1912-1984). Pasquali Carlizzi (1947-2010), sua "figlia spirituale", diventa nota alle cronache per gli "eventi straordinari" che le capitano dal 1988, quando inizia a ricevere, in una sorta di "filo diretto" dal Cielo, "messaggi" che lei ritiene provenienti da padre Gabriele e da altre "Autorità Celesti". Si tratterebbe di comunicazioni che riguardano vicende giudiziarie e politiche, conterrebbero profezie, avvertimenti e denunce per le autorità, e permetterebbero di svelare misteri irrisolti, come quello del mostro di Firenze. Il marito, Carmelo Maria Carlizzi, ci racconta che «ancora oggi, ogni giorno, in nome mia moglie e di padre Gabriele, autore nella sua vita di vari miracoli, i volontari assistono alcune centinaia di poveri a Roma». E a Sant' Angelo Romano «ci sono momenti di preghiera a cui partecipano alcune decine di persone che si riuniscono per riflettere sui messaggi del fondatore e di Gabriella». Invece la Missione Divina è fondata a Roma, nel 1936, dal trasteverino Basilio Roncaccia (1876-1959), che mette a disposizione i doni celesti ricevuti, fra cui quello di sanare dai mali. Luigia Paparelli (1907-1984) si converte al movimento di Roncaccia e ne diventa leader anch' essa. Oggi sono circa 15mila i membri - "Apostoli" - frazionati in svariati gruppi, in Italia e all' estero. Cerca anche guarigioni chi va a Placanica, in provincia di Reggio Calabria, per gli incontri di preghiera di fratel Cosimo Fragomeni, ex contadino che, nel 1968 ,avrebbe ricevuto il compito dalla Madonna. In migliaia salgono al santuario di Nostra Signora dello Scoglio per un colloquio spirituale e per affidare speranze e sofferenze. C' è chi testimonia di «essere guarita da un tumore osseo», come Rita Tassone. E chi di essere stato «raddrizzato, perdendo la gobba». Non è dentro la Chiesa cattolica invece Roberto Casarin. A Leinì, nel torinese, i pellegrini vengono accolti in una struttura simile a un monastero con un tempio da mille posti a sedere. La domenica si riempie di devoti che accorrono per la celebrazione, non una messa ma un "darshan", liturgia guidata da "swami" Roberto o dai suoi "ramia", uomini e donne sacerdoti di Anima Universale. Quella di Casarin è una religione cristiana nuova che unisce Bibbia e fede in Gesù e Maria a quella nella reincarnazione in nuove vite umane. Swami Roberto è stato scomunicato nel 2010 dal cardinale Severino Poletto. Anima Universale celebra battesimi (solo dopo la maggiore età), matrimoni e funerali. Ha una seconda comunità a Riese Pio X, in Veneto. Ramia Riccardo Fertino ci conferma l'esistenza di «innumerevoli testimonianze di guarigione e grazie ricevute». Poi aggiunge: «Abbiamo grande affluenza anche dall' estero, in particolare dalle nazioni europee di lingua francese: Francia, Svizzera, Belgio. E anche da Stati Uniti, Portogallo, Inghilterra e Australia». Non c'è «tesseramento né un registro», spiega, ma «sappiamo che i nostri fedeli sono alcune migliaia». Finora abbiamo parlato di figure che hanno qualche genere di «rivelazione». Ma c'è un'altra distinzione da fare, secondo Introvigne: è «di tipo politico, a seconda dell'atteggiamento verso la Chiesa e papa Francesco». È una realtà «emersa in gran parte in questo pontificato, con gruppi che contestano da sinistra - pochissimi, per la verità - e soprattutto da destra Jorge Mario Bergoglio». Tra i progressisti c' è - a Cintano (TO), diocesi di Ivrea - l' Opera Cenacolo familiare di don Salvatore Paparo, che predica l' abolizione dell' obbligo del celibato sacerdotale. Il fronte destro - estremo - è occupato in particolare dal prete palermitano don Alessandro Minutella, che si sente in missione per riparare ai mali causati da Bergoglio. La Chiesa, ovviamente, non l'ha presa bene, e l' arcidiocesi di Palermo lo ha scomunicato per «eresia e scisma». Minutella lancia continue accuse contro Francesco durante omelie e attraverso i suoi canali web, dove lo seguono alcune migliaia di follower. Tra le sue invettive, l'«impostura della falsa Chiesa, multinazionale della falsità. Prostituta indegna, venduta ai poteri del mondo». Per Introvigne, in realtà, Minutella è qualcosa di più del carismatico reazionario: «Rappresenta un fenomeno nuovo, perché salda il visionarismo alla politica ecclesiastica». Minutella sostiene infatti di percepire «locuzioni soprannaturali», entrando in contatto con la Madonna, gli angeli e alcuni santi. E garantisce: in un terreno non lontano da Palermo sgorga un'«acqua miracolosa» con poteri terapeutici. Smentisce la Chiesa: «E' un' invenzione».

VADE RETRO! Da Leggo il 7 maggio 2019. Angeli in marmo che vegliano sulla città. Un trionfo di croci e immagini sacre. Nonostante ciò, anche nel cuore di Roma si può nascondere il diavolo. Lo dicono le leggende, fornendo addirittura indirizzi della sua presenza dal Pantheon all'Aventino. E lo conferma la religione. Si è inaugurata, ieri, a Roma, la XIV edizione del corso sull'esorcismo e la preghiera di liberazione, organizzato da Istituto Sacerdos dell'ateneo pontificio Regina Apostolorum e Gris-Gruppo di ricerca e informazione Socio-religiosa. Sono 241 i partecipanti da 42 Paesi. «Il nostro impegno - dice padre Luis Ramirez, legionario di Cristo dell'Istituto Sacerdos - è la formazione accademica di sacerdoti, laici impegnati e tutti i professionisti che si possono trovare a gestire problematiche legate al tema». L'analisi della questione «ha ridotto notevolmente il numero di persone considerate possedute, che oggi sono molto poche», specifica, ma è fondamentale l'analisi «per distinguere la possessione demoniaca da altri fattori, come alterazioni da droghe o malattie nervose». Nella valutazione bisogna «essere realisti, senza sottovalutare i fenomeni demonologici perché il demonio esiste e ci sono casi reali e concreti».

Vade Retro! Le storie incredibili dei posseduti. Abbiamo incontrato padre Amorth, uno degli esorcisti più famosi del mondo che combatte una lotta quotidiana che va oltre l'umano. Panorama 1 giugno 2019. Giuliana dice di aver scoperto di essere posseduta dal Diavolo durante un viaggio in Lazio. Italiana, sposata con un italiano ma residente nella Svizzera tedesca, ha deciso di andare a visitare assieme al fratello il santuario di Montalto di Castro, in provincia di Viterbo. Il primo segno mostruoso è arrivato dentro la chiesa, davanti a una statua di San Giovanni Paolo II. Osservando l’immagine del Papa, il volto di Giuliana è cambiato. I lineamenti sono rimasti gli stessi, ma l’espressione è radicalmente mutata, come se non fosse più lei, come se sotto la sua pelle si fosse annidato qualcos’altro, qualcosa di malvagio. Anche il colore degli occhi è rimasto uguale, ma lo sguardo è diventato… diverso. Giuliana ha indicato San Giovanni Paolo II, e ha sputato parole rabbiose dalla bocca: «È lui. È lui che mi ha rubato tanti giovani». Il fratello, a pochi passi da lei, ha sentito quel sibilo furente ed è impallidito. Ha capito che qualcosa non andava. Con un po’ di timore le ha chiesto: «Ma che dici, che cosa succede?». A quel punto, Giuliana si è girata. O, meglio, si è girata la testa di Giuliana, perché quell’espressione, quella voce e quello sguardo non potevano essere i suoi. La donna ha guardato il fratello e ha scandito: «Io sono Lui». Nel giro di pochi giorni, Giuliana e suo fratello si sono rivolti a padre Cesare Truqui, l’erede di padre Amorth. Truqui (autore di Professione esorcista, edito da Piemme) è nato a Sonora, nel nord del Messico, ma vive in Svizzera e ogni giorno, tra le montagne, conduce una dura battaglia contro il demonio. «Sono stato ordinato sacerdote, nel 2004, a Roma» racconta. «Facevo parte della congregazione dei Legionari di Cristo, e ho cominciato in quel periodo a seguire il corso per esorcisti. Sono entrato in contatto con i più importanti esorcisti: padre Francesco Bamonte, padre Giancarlo Gramolazzo e poi padre Gabriele Amorth. Li ho conosciuti tutti e tre, con padre Bamonte ho assistito al mio primo esorcismo, su un uomo che era posseduto e in meno di un anno è stato liberato. Non avevo mai pensato di diventare un esorcista. Credevo che non fosse la mia vocazione».

Invece oggi è uno degli esorcisti più famosi del mondo. È lui a raccontarci la storia di Giuliana. «Era davvero posseduta. Ho seguito il suo caso per un anno e mezzo, poi per lei e suo marito era diventato faticoso raggiungermi: dovevano fare tre ore e mezza di macchina da Zurigo, dove vivono, per venire da me. Così l’ho affidata alle cure di un altro sacerdote bravissimo, mio amico. Non so se sia stata liberata. So però come è iniziato il suo travaglio. Da ragazza aveva capelli bellissimi, li curava molto. Un giorno, dopo un taglio, la parrucchiera le chiese di poter conservare le ciocche per le parrucche. In realtà, quei capelli furono utilizzati per un rito satanico. E così Giuliana è stata posseduta». Viene da chiedersi come faccia padre Truqui a conoscere questi dettagli, e la risposta non è quella che ci si potrebbe aspettare: «Lo so perché lo ha detto il demonio durante un esorcismo, altrimenti non potrei esserne a conoscenza». Quando gli parliamo, padre Cesare è a Roma, sta frequentando un corso per esorcisti che, tra laici e religiosi, ospita circa 220 persone. «Durante il corso un esorcista mio amico mi ha mostrato immagini sconvolgenti. Sono state scattate a Tiquana durante l’esorcismo di una donna americana. Nelle foto si vede una mano uscire dall’orecchio della signora, segno di una possessione fortissima. Non è un fotomontaggio, le assicuro, ma un caso molto serio». Mentre racconta del suo lavoro, padre Truqui non potrebbe essere più tranquillo. «Dico sempre ai giornalisti: se foste invitati a un esorcismo, rimarreste delusi» sorride. «Non capitano le cose che si vedono in certi film. L’esorcismo è un rito semplice, si utilizza quello dei riti sacramentali. Si mette la stola, si fa l’aspersione di tutti i presenti e si segue il rituale, che si trova su Google. Come può essere così potente un rituale che inizia, come tanti altri, con il segno della croce? Beh, Dio ha dato a questi sacramenti un particolare potere. Di solito l’esorcismo si svolge in un luogo sacro. Conviene che il sacerdote non sia da solo, se l’esorcismo si svolge su donne è bene che siano accompagnate dal marito e dai parenti. Poi, preferibilmente, deve esserci un gruppo di preghiera che accompagna il sacerdote. Mesi fa ho seguito una persona che è venuta qui in montagna una settimana per sottoporsi a esorcismo ogni giorno. Durante il rito avevo con me due laici che pregavano molto. Alla fine la persona mi ha detto di aver sentito qualcosa di diverso. Si è accorto che il demonio era indebolito dalla presenza di queste persone».

Di esorcisti, in Italia, ce ne sono 240: il numero degli iscritti all’Associazione internazionale esorcisti (Aie), fondata nel 1990 dal francese René Chenesseau e da padre Gabriele Amorth, che raccoglie 404 iscritti a livello mondiale. Il nostro è uno dei Paesi al mondo con più esorcisti, e le persone che a essi si rivolgono in cerca di conforto sono quasi 500 mila ogni anno. «Se è vero che le possessioni vere rappresentano l’1-2 per cento dei casi che ogni esorcista affronta, è altrettanto vero che ogni esorcista riceve tutte le settimane decine di persone: si fa in fretta a raggiungere un numero congruo di presunti posseduti» spiega don Gianni Sini, celebre esorcista sardo attivo dagli anni Ottanta e parroco di Nostra Signora de La Salette, a Olbia. Di queste 500 mila persone, il 65 per cento sono donne, per lo più del Centro e del Sud. Ma anche al Nord i casi non mancano. Fu il cardinale Angelo Scola, nel 2012, ad aumentare da 6 a 12 gli esorcisti in servizio a Milano. «Purtroppo alcune diocesi ancora ne sono sprovviste, mentre altre ne hanno più di uno» dice don Sini. «La possessione è solo una delle possibilità. Ci sono anche altre forme: le ossessioni, le vessazioni. Quel che ci preoccupa è che negli ultimi anni molti sono bambini, anche molto piccoli: 4-5-7 anni». Nel suo recente libro De cura obsessis. Riconoscere i casi di possessione diabolica, intervenire e accompagnare le persone con problemi spirituali, padre Paolo Carlin racconta il caso di una ragazzina di 14 anni «che, apparentemente con la forza di volontà, spostava oggetti o li lanciava contro la nonna che pregava». Per qualcuno parlare di possessione diabolica è una follia medievale. Ma in tutte le culture del mondo la possessione è presente, anche se in forme diverse. Leggere per credere Il diavolo in corpo (Meltemi), capolavoro dell’etnografia appena tradotto in italiano che racconta casi di possessione in Malesia, Niger e altri Paesi tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila. «A seconda del Paese cambia il modo in cui la possessione si attiva» dice Massimo Centini, antropologo e autore di Posseduti. Voci e storie di chi ha incontrato il Diavolo (Piemme). «Nella nostra cultura si viene posseduti dal diavolo. In altre si viene posseduti dagli spiriti o dagli antenati, e la cosa non è necessariamente negativa. Se nel Medioevo si parlava di possessione diabolica, dal Positivismo in poi questi fenomeni sono attribuiti alla malattia mentale. Io, da non credente, penso non convenga sbarrare tutte le porte. Ci sono fenomeni che non possiamo spiegare. E la possessione è un argomento che genera più domande che risposte». Forse è per questo che l’argomento continua a suscitare tanto interesse. Di possessione diabolica si occupano decine di film usciti negli ultimi anni, o serie tv come L’esorcista, tratta dal capolavoro di William Peter Blatty (portato al cinema da William Friedkin). Proprio Friedkin, nel 2017, ha girato il documentario The Devil and Father Amorth, ora visibile su Netflix. Una pellicola sconvolgente, che contiene il filmato di un esorcismo praticato da padre Amorth poco prima della morte. Chissà, magari voi siete fra quelli che pensano che parlare di esorcismo nel 2019 sia da pazzi. Beh, allora vi consigliamo di dare uno sguardo alla pellicola di Friedkin. Ricordatevi che è priva di effetti speciali, e fate molta attenzione al modo in cui parla la donna a cui padre Amorth fa il segno della croce sulla fronte durante il rito. Ascoltate a fondo i suoni che emette la poverina, e provate a non rabbrividire.

Da I Lunatici Radio2 il 3 ottobre 2019. Don Antonio Mattatelli, esorcista, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. L'esorcista si è lasciato andare ad una dichiarazione che ha scioccato i due conduttori: "Se mi è mai capitato di essere tentato da Satana presentatosi sotto le vesti di una donna? Sono cose private, ma voglio dire una cosa che forse lascerà sgomento qualcuno. Esistono le cosiddette streghe. Ci sono delle donne che hanno poteri malefici che hanno fatto un patto con il diavolo e che più hanno rapporti sessuali più rafforzano il loro potere malefico. Se riescono ad avere rapporti sessuali con un sacerdote il sacerdote viene distrutto ma loro acquistano potere. Dite che vengono i brividi a sentir parlare di streghe? Eppure queste cose esistono. Una volta mi pare di aver incontrato una strega. Ma fuggi. Scappai". Sul dibattito legato al crocifisso nelle scuole: "Dietro chi chiede di togliere il crocifisso dalle classi c'è Satana. Lo dico senza dubbio. La laicità è una cosa, il laicismo un'altra. La laicità nasce con Cristo. Libera Chiesa in libero Stato. La laicità non esclude riferimenti religiosi nella società. Il Ministro Fioramonti ha perso una buona occasione per tacere. C'è periodicamente questo attacco alla croce che è un simbolo culturale, identitario della nostra Italia". Mattatelli, poi, ha parlato dei giovani che manifestano ogni venerdì in difesa dell'ambiente: "Non credo che i cambiamenti climatici dipendano dai comportamenti umani per più del 5%. Sono fattori indipendenti dal comportamento umano.  Propongo un giorno di sciopero globale contro il peccato. Se i cuori rimangono sporchi ed egoisti anche se non sporchiamo la terra non riusciremo a salvare il pianeta. Non bastano le manifestazioni. C'è un qualcosa che sfugge. Se quelli che comandano, i poteri forti, non decidono di cambiare le cose, il singolo può fare poco. La crisi attuale è soprattutto spirituale e morale".

·        L’Esoterismo.

Il castello di Wewelsburg la fortezza dell’occulto costruita da Himmler per allevare i gerarchi SS. Gustavo Ottolenghi il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio. La roccaforte, sede dell’ordine del Sole Nero, doveva essere il santuario del nazionalsocialismo. Il ministro dell’Interno la fece diventare il centro esoterico del Reich: nella sala principale si dovevano riunire I 12 “iniziati”. A circa metà della strada tra Dortmund e Hannover, in Germania, nella regione Renania settentrionale/ Vestfalia, nel circondario di Padenborn, su una collina attorno alla cittadina di Bueren, si trova un antico castello, Wawen (da cui Wawenburg, cittàdel castello di Wawen), che ha un posto importante nella storia del nazismo tedesco. Si tratta di una singolare costruzione, nota sin dall’anno 1000 come fortezza di Wifilburg, fatta erigere in pietra su un antichissimo terreno di sepolture, dal Conte Fríederich von Arnsberg ( 1123), i cui eredi lo vendettero (1300) al Conte di Weldeck. Costui a sua volta donò il castello al Vescovo della città di Padenborn ( 1415) e, nel 1650, dopo la Guerra dei Trent’anni, esso passò ai Vescovi- principi, dapprima nella persona del Vescovo Theodor Adolf von der Recke e quindi in quella del vescovo Ferdínand von Fdrstenberg, che lo mantennero per oltre un secolo e mezzo. Nel 1802, nel corso delle guerre napoleoniche, la Prussia invase la Renania e il castello divenne possesso prussiano. Conclusasi nel 1815 l’epopea napoleonica, il castello ritornò alla amministrazione del Circondario di Padenborn nella persona del suo Sindaco, ma nello stesso anno fu colpito da un incendio, che ne causò alcuni diroccamenti e danneggiò alquanto la Torre nord. Questa venne ricostruita e ristrutturata nel 1925 e, con l’occasione, il castello fu arricchito con un ostello, un ristorante e un piccolo museo. E fu nel 1933 che il Reichfuehrer SS Heinrich Himmler ( uno dei più stretti collaboratori di Hitler) che era alla ricerca di un sito adatto alla installazione di una elitaria ‘ Reichsfuehrerschule SS’ ( Scuola per la educazione ideologica degli ufficiali SS) scelse a quello scopo il castello di Wawelsburg, in quanto vicino a due luoghi simbolo delle mitologia, della gloria e del potere degli antichi germani. Il primo di questi luoghi era la foresta di Teutoburgo ( ove, nel 9 d. C., le tribù germaniche di Arminio distrussero in tre giorni le tre legioni romane del console Publio Quintilio Varo, bloccandone l’invasione) e il secondo l'Externsteine ( formazione rocciosa megalitica già sede di culti pagani, che comprendeva l’albero sacro che collegava la terra al ove i sassoni, nel 772 d. C., avevano opposto feroce resistenza a Carlo Magno). La zona si prestava anche alla costruzione di una città modello delle SS, con uffici, edifici commerciali, impianti sportivi, a costituire la base del "Zentrum der neuen Welt" ( Centro del nuovo mondo) vagheggiato da Himmler, con il castello come cuore e cervello della città. Il Reichsfuehrer affittò pertanto il castello dal Sindaco di Padenborn per 100 anni alla somma simbolica di 100 marchi all’anno e dette l’incarico di ristrutturarlo all’architetto Siegfried Taubert secondo le sue direttive, con l’intervento economico del R. A. D. ( Reichsarbeitsdíenst – Ufficio statale del lavoro) ed ideologico dell’” Ahnenerbe” ( Società SS per le ricerche su storia, cultura e antropologia della razza ariana, fondata dallo stesso Himmler). Alla ristrutturazione del castello ( nel quale scomparvero, l’ostello, il museo e il ristorante) contribuirono successivamente anche, dal 1938, gli architetti Hermann Bartels e Walter Franzius l’esoterista Karl Maria Wiligut ( detto "Weisthor", da sempre maestro di esoterismo cL Himmler), che si rifecero, nella ricostruzione, al leggendario castello di Camelot di Re Artù, e a quello di Marienburg ( Polonia) che era stato fondato nel 1270 dai Cavalieri dell’Ordine Teutonico. Attualmente il castello appare esternamente nella sua struttura originale in stile barocco West Renaissance, orientato in modo anomalo con asse Nord- Sud e non Est- Ovest, ed è costituito da due bracci uniti fra di loro ad angolo acuto a formare una punta come di lancia ( a sembianza della mitica lancia di Longino che trafisse il costato di Gesù), con una torretta al termine di ogni braccio e un’altra, più grande, alta e imponente al vertice del triangolo. Internamente si trova un ampio cortile triangolare con 12 porte ( sei per ogni braccio) affacciate su di esso, che immettono al loro interno e un portale centrale che si apre nella Torre nord, tutte decorate con simboli allegorici. In ciascun braccio ci sono 12 stanze, ognuna delle quali portava il nome di uno degli eroi della storia o della mitologia germanica, quali Widukind, Parsifal, Sigfrido, Enrico XII di Baviera ‘ il Leone’, Re Artù Pendragone: una, col nome di Ernico I di Sassonia, era riservata a Himmler, il quale credeva di essere la reincarnazione del re sassone. Nel braccio orientale del castello si trovava una imponente biblioteca, ricca di oltre 12.000 volumi raccolti sulla storia dei popoli ariani nei secoli. La parte più interessante ed importante del Castello era la grande Torre nord centrale, che presentava due piani sovrapposti: quello superiore costituiva la “Obergruppenfuehresaal SS”, quello inferiore formava la cripta, detta "Walhalla" ( Paradiso dei guerrieri morti in combattimento nella mitologia nordica). Il primo locale presentava una vasta sala circolare, al centro della quale era una tavola rotonda (rimembranze arturiane) con attorno 12 scranni destinati agli Obergruppenfuehrer “iniziati” e scelti personalmente da Himmler. Sul pavimento, un mosaico verde rappresentava una grande ruota solare nera ("Schwarze sonne") con inseriti 12 raggi formati da svastiche stilizzata (rune della vittoria ) convergenti al centro su un disco probabilmente d’oro massiccio. Essa era destinata alle riunioni dei 12 iniziati sotto la presidenza del Capo supremo Himmler. Il locale inferiore era destinato alle celebrazioni funebri degli ufficiali SS caduti gloriosamente in guerra ed era formato da un’altra sala circolare in corrispondenza di quella superiore, circondata da 12 colonne, ciascuna posta su un piedistallo. Una grande svastica runica sul soffitto incombeva su una fossa circolare centrale nel pavimento, nella quale era destinata ad ardere una fiamma perenne ( peraltro quasi mai accesa). Nella parete est della cripta era stata ricavata una nicchia, chiusa da uno sportello bronzeo, destinata a conservare i "Totenkopfring" degli alti ufficiali SS defunti: un anello d’argento con all’esterno un teschio e fronde di quercia, sul tipo di quello del mitico eroe scandinavo Thor, e all’interno una incisione col nome del possessore e la data della consegna. Nel 1935 venne inaugurata la "Reichfuehrerschule SS", nella quale gli allievi ufficiali SS avrebbero appreso la preistoria, storia medioevale dei nibelungi, dei teutoni e dei sassoni e il folklore popolare delle antiche genti germaniche, fondamenti per la fondazione di una elite razziale tedesca pura, basata su una religione, laica che, nel credo dei futuri ufficiali, avrebbe dovuto soppiantare il Cristianesimo in tutte le sue forme, dimostrando e affermando la superiorità della razza ariana su tutte le altre. Il Castello divenne anche sede segreta di un alto Ordine cavalleresco esoterico, mistico, alchemico denominato del "Sole nero di Thule" ( Il Sole nero è un antico simbolo druidico, segno di potenza assoluta, che lo pone al centro della galassia, di cui il Sole bianco del nostro sistema solare era un satellite. Thule era una mitica isola, scomparsa, ritenuta sede della originaria, primigenia razza ariana). L’Ordine era costituito da 12 Cavalieri "iniziati", tutti ufficiali superiori delle SS al cui decesso subentrava un altro parigrado sempre scelto dal Capo Himmler. Anche qualche civile, per volontà del Capo, entrò, negli anni, a far parte dei 12 “iniziati” ( Oswald Wirth, esorcista e cartomante; Karl Maria Viligut, esoterista, con accreditamento del grado di Obergruppenfuehrer). Il numero di 12 era stato stabilito da Himmler, suggestionato dal fatto che 12 era il numero perfetto ( 12 gli Apostoli di Gesù, 12 i segni zodiacali, 12 i mesi dell’anno, 12 gli Dei dell’Olimpo, 12 i Cavalieri della Tavola Rotonda, 12 le Tavole dell’eroe assiro- babilonese Gilgamesh) e quindi 12 sarebbero state le Divisioni delle Waffen SS e 12 i gradi della gerarchia militare. E questa fu solo una delle numerose manifestazioni della sua esaltazione maniacale, fra le più eccentriche delle quali era la cerimonia di iniziazione di alcuni ufficiali superiori SS, basata sulla loro aspersione con “acqua potenziata” nella quale erano fatte cadere gocce del sangue dei “martiri del putch fallito di Monaco” ( 1923), spremute da una delle bandiere naziste che erano state immerse in quel sangue e sulla loro inspirazione di aria soffocante prodotta dal bruciamento di alcuni frammenti di tali bandiere. Nel castello non ebbe mai luogo alcuna cerimonia e neppure vi si svolsero riunioni di Obergruppenfuehrer, eccetto una nella loro sala, nel marzo 1941 quando vi si discusse la pianificazione della operazione “Barbarossa’ contro la Russia; e un’altra nel Wahalla allorchè, nell’ottobre 1942, venne cremato, nella fossa centrale, il corpo di un alto ufficiale SS morto in guerra, le cui ceneri, raccolte in una teca, vennero poste in cima a una delle colonne della cripta. Il Wewelsburg perse ogni significato e importanza dal 1944, quando la Germania venne invasa dalle truppe alleate sbarcate nel giugno in Normandia; la Reishschule SS aveva cessato la sua attività sin dall’ottobre 1942. Nel marzo 1945, nel timore che il castello cadesse nelle mani dei militari della terza Divisione fanteria U. S. A., giunta a poche decine di chilometri da Biíren, Himmler ordinò al comandante rimasto nel castello di distruggerlo completamente ma, a causa della scarsità di esplosivo a disposizione, venne danneggiato solo parzialmente il braccio est e la struttura generale si Salvò. Dopo un periodo di oblio, il castello venne ricuperato e attualmente ospita un museo.

·        I preti di (da) Strada.

Ecco tutti i "preti rossi" affascinati dalle "sardine". I "preti di strada" iniziano ad aderire al "movimento delle sardine". Per questi ecclesiastici, la situazione è grave. Sono i soliti anti-Salvini. Francesco Boezi, Giovedì 12/12/2019, su Il Giornale. Dal "digiuno a staffetta" per protestare contro i porti chiusi di Matteo Salvini alle "sardine" il passo è breve. E infatti i "preti di strada" non si sono smentiti, manifestando prossimità agli anti-salviniani del movimento nato nelle piazze italiane e arrivando persino a condividere la strategia di fondo, che è anzitutto quella della rimostranza pubblica. Nel corso di queste ore, gli appelli si sono moltiplicati. Prima di oggi c'era stata qualche adesione formale, come quella di Suor Giuliana Galli, che non si è limitata alla banale approvazione. Padre Bartolomeo Sorge, gesuita, aveva persino paragonato il simbolo dei primi cistiani con quello utilizzato dalle "sardine". Ieri, poi, è stato il turno della "simpatia" provata dall'ex segretario della Cei Nunzio Galantino. I virgolettati dell'ex vertice dei vescovi sono arrivati attraverso una trasmissione andata in onda su Radio Capital, Ma è in queste ore - magari proprio in virtù dello sdoganamento di Nunzio Galantino - che la questione sembra divenire sempre più seria e partecipata. Perché c'è una parte di Chiesa cattolica che non intende nascondere di condividere le preoccupazioni di chi - in queste settimane - continua a far parlare di sè, pur contestando un partito politico che siede all'opposizione.

Stando a quanto riportato dall'Adnkronos, è lecito raccontare di come padre Alex Zanotelli - da sempre considerato vicino a posizioni progressiste - abbia invitato le nuove generazioni ad alimentare una vera e propria azione "contro l'odio", rimarcando pure come sia necessario "più coraggio". La scorsa estate padre Alex Zanotelli si era fatto promotore, assieme ad altri "preti rossi", di quel "digiuno a staffetta" sopracitato. Bisognava garantire l'accoglienza dei migranti. Adesso il governo è cambiato, così come l'atteggiamento nei confronti di coloro che cercano rifugio sulle nostre coste, ma le istanze di Zanotelli sono sempre le stesse. E puntano comunque a contrastare l'ex ministro dell'Interno e la sua piattaforma ideologica.

Poi c'è il caso di Don Sigurani, che ha constatato come, dal suo punto di vista, la "situazione" sia "grave". Quindi le "sardine" e il loro modo di declinare sul pratico quel sentimento sono più che utili. Un altro di questi preti che ha già dato prova di vicinanza alle sardine è Don Biancalani, che è però finito in una sorta di bufera mediatica derivante dall'esecuzione di "Bella Ciao" nella chiesa in cui è incaricato. Le convinzioni sono comuni, mentre la novità - come premesso - è rappresentata dalla costanza con cui questi ecclesiastici distribuiscono giudizi positivi. In alcuni casi, sembra che i consacrati vogliano premiare solo la partecipazione politica dei giovani.

In questo senso, per esempio, possono essere interpretate le parole del segretario di Stato, il cardinal Pietro Parolin. In altri, invece, si può arrivare ad immaginare un'alleanza organica tra alcuni emisferi clericali e le "sardine". E le "sardine" incassano sostegno, nonostante la loro provenienza idealistica non appaia troppo compatibile con quello che la Chiesa cattolica ha, almeno negli anni passati, espresso in termini valoriali. Si pensi, per esempio, alle battaglie del cardinal Camillo Ruini per i "valori non negoziabili". Lotte che sembrano distanti anni luce dalle priorità del sardinismo, che guarda da tutt'altra parte. La storia però è cambiata. E magari anche l'Ecclesia.

Quei comunisti preti…Nino Spirlì Domenica, 24 novembre 2019 su Il Giornale. Pensavamo che quel dono blasfemo del comunista Morales, ex rossotiranno boliviano, quella croce infangata dalla falce e martello fosse segno della fine. Invece, no! Nella chiesa di bergoglio, dove è concesso mangiare ai piedi dell’altare, ballare assieme a frati deficienti di Credo, cantare con monache vergini quanto Messalina sul letto di morte, ora si intonano canzoni partigiane come fossero Osanna e Alleluia! La vergogna si manifesta nella parrocchia del prete dei neri in piscina, ma lui  non è l’unico rosso in tonaca. I seminari, negli ultimi anni, hanno scaricato in giro per le chiese di tutto il mondo migliaia di preti scomunicati prima ancora di essere ordinati! E sì! Perché la scomunica di Pio XII contro il comunismo  NON È STATA MAI CANCELLATA! Peraltro, oggi, anche l’UE si è svegliata ed ha accomunato il comunismo al nazismo, quale orrore dell’Umanità. La Chiesa, no! La chiesa del papampero, alla quale, ormai, manca solo il grembiulino massonico sopra tutti gli altri sacri paramenti, mantiene vivi i preti rossi, mentre commissaria le congregazioni, gli ordini e i luoghi santi in odore di Tradizione. È la fine del Cattolicesimo! E la morte viene da dentro, mentre il Popolo di Dio corre verso le Confraternite che si riferiscono alla Tradizione e, anche, verso il Cristianesimo Ortodosso. Noi, speranzosi, teniamo duro. Resteremo nelle nostre parrocchie fino all’ultima messa dell’ultimo prete “alla vecchia maniera”. Il giorno dopo, pregheremo in greco, in russo, in latino. Ma non ci consegneremo ai soviet in tonaca. Canne e incenso non legano…

PS: Tempo fa, un prete rosso della mia diocesi alla mia domanda “Sei più prete o più comunista?” rispose “Sono prima comunista e poi prete”: non ho mai partecipato ad una messinscena celebrata da quel manigoldo!

Pistoia, don Biancalani canta Bella Ciao in chiesa. La Lega: «Siamo all’assurdo». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 su Corriere.it. Lo aveva annunciato ai fedeli, don Massimo, e promesso ai tanti extra-comunitari ai quali ha aperto le porte della chiesa di Vicofaro, immediata periferia di Pistoia. E, nonostante il no deciso del vescovo, il parroco ha intonato «Bella Ciao», il canto diventato l’emblema dei partigiani e della Resistenza in Italia ma anche simbolo nel mondo della battaglia contro l’ingiustizia dei regimi totalitari. Don Massimo Biancalani, diventato famoso per le sue battaglie a favore dei diseredati di ogni etnia e provenienza e soprattutto per le polemiche (con tanto di annunci di querele) contro Salvini non ha intonato «Bella Ciao» durante la messa alla quale hanno partecipato sessanta fedeli e anche qualche esponente politico, ma al termine della funzione religiosa. Dopo la benedizione e il consueto «andate in pace» si è intrattenuto nel tempio con una trentina di persone e qui ha intonato le prime parole «una mattina mi sono svegliato/ e ho trovato l’invasor...» In molti lo hanno seguito in coro ma non sono mancate le polemiche. Il parlamentare della Lega, Edoardo Ziello, sul suo profilo Facebook ha postato un video del parroco mentre intona il canto partigiano. «Don Biancalani fa cantare ‘Bella Ciao’ nella sua chiesa. Siamo davvero all’assurdo e poi qualcuno si lamenta se i cristiani praticanti sono sempre di meno... Questo prete non rappresenta il mio credo!», ha scritto il deputato. Sul suo profilo Facebook don Massimo, che ha subito minacce anonime e ammonimenti da parte di esponenti di Forza Nuova, ha scritto che «Anche Vicofaro non si lega. Nessun dialogo con chi fomenta odio». Adesso sarà il vescovo, monsignor Tardelli, a dire l’ultima parola e non si escludono provvedimenti disciplinari contro il parroco.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera” il 26 novembre 2019. Dopo avere detto «la Messa è finita, andate in pace», don Massimo Biancalani è rimasto in guerra davanti all’altare e ha cominciato a cantare «Bella Ciao», iscrivendo Gesù Cristo al movimento delle sardine. Senza dubbio il parroco antileghista avrà prima interpellato il superiore celeste, ma è probabile che ci sia stato qualche problema di comunicazione: chi scacciò dal tempio i mercanti difficilmente vi accoglierebbe certi cantanti. Non è questione di testo, ma di contesto. Provate a immaginare una piazza del Venticinque Aprile che intona il «Gloria in excelsis Deo». Pensereste di essere precipitati in una teocrazia. Allo stesso modo una canzone partigiana che risuona sotto le volte di una chiesa assomiglia, più ancora che a una profanazione, a un’appropriazione indebita. Come se un parroco ultrà montasse sul pulpito del Duomo per dirigere cori da stadio. Come se un politico baciasse madonne e rosari durante un comizio (questo forse qualcuno lo ha fatto). Si sente parlare di punizioni imminenti da parte del vescovo, quando magari basterebbe suggerire al prete-sardina l’ascolto quotidiano di una sonata di Bach. Rilassa i nervi e schiarisce le idee. «Bella Ciao» è assurta nel tempo a inno planetario contro l’oppressione. Se don Biancalani smania dalla voglia di cantarla in un luogo di culto, potrebbe trasferire la sua ugola nella cattedrale di Hong Kong. Intonare «Bella Ciao» dentro una chiesa ha senso solo nelle nazioni in cui è vietato, o pericoloso, farlo altrove.

Dall’account facebook di Christian Raimo il 26 novembre 2019. Il pezzetto di Gramellini oggi è di una disonestà intellettuale talmente dichiarata e sconcertante che va riportato per intero. Perché ci si trova dentro la filigrana del pensiero reazionario che è diventato egemone in Italia: fallacie argomentative, cinismo a buon mercato, paternalismo aggressivo, qualunquismo spacciato per saggezza, cattolicesimo da Restaurazione, un fastidio livido per tutto ciò che odora di povero o di libertà.

Sardine in tonaca a cantare Bella Ciao a Messa. La intonavano i partigiani che ammazzavano i preti. Francesco Storace mercoledì 27 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Non abbiamo alcun bisogno delle sardine in tonaca a cantare Bella Ciao. E’ davvero penosa la messinscena di questo Biancalani che fa il prete e non si capisce perché. La liturgia prevede canti religiosi e preghiere. E non inni e canzoni di guerra. Ne torniamo a scrivere dopo aver letto parole importanti sull’Avvenire, che invita a non scambiare la Chiesa per la piazza. Ma la gravità dell’accaduto c’è tutta, perché questo signore non dovrebbe dire messa. Tanto è vero che grida su Facebook “Vergogna” proprio ad Avvenire (foto sopra). Biancalani non rispetta i fedeli. E costringe chi non la pensa come lui a disertare la funzione. E poco importa se la sciocchezza di Bella Ciao, in quel di Pistoia, arriva subito dopo la fine del rito. E’ una scusa infantile per mascherare un atto politico nel luogo sbagliato.

A Messa la preghiera e non Bella Ciao. Possiamo essere liberi, se credenti, di andare a messa senza essere costretti a sorbirci un comizio? Certo, c’è qualche pericoloso precedente, ma è ugualmente vergognoso e irrispettoso delle persone che in parrocchia vanno solo per pregare. Tanto più, caro Biancalani, che di preti ammazzati da quelli che cantavano Bella Ciao ne è piena la storia, a partire proprio dalla Toscana, tristemente protagonista di episodi simili a quelli del triangolo rosso emiliano. Storie di morte all’indomani della guerra. Comunisti rossi che ammazzavano partigiani bianchi e preti. Ma lui canta Bella Ciao in spregio persino ad essi  per farsi bello con pessima pubblicità. Non è questa la nostra Chiesa, rischieremmo di dire quasi bestemmiando. Ma qualcosa deve accadere anche da quelle parti perché simili sceneggiate sono diventate insopportabili. Ci sta che il Papa e i suoi pastori predichino accoglienza per lo straniero. Anche se pure loro dovrebbero comprendere le difficoltà dell’Italia. Ma in fondo è il loro “mestiere”. Quel che suona davvero clamoroso – anche se ahinoi non più inaspettato, purtroppo – è pretendere di mischiare fede politica e religiosa (se quest’ultima c’è ancora in tizi del genere Biancalani).

I preti ammazzati dai partigiani. Dovrebbe studiare – quell’uomo in tonaca che non riusciamo a chiamare sacerdote – la storia dei preti “sacchettati”. Si prendeva, in quel dopo 1945, un sacchetto di stoffa, lo si riempiva con qualche manciata di sabbia e poi giù  col micidiale manganello sul corpo della vittima. Non restavano lividi né segni sulla pelle e si ledevano gli organi interni senza uccidere subito. Così furono ammazzati i primi, don Luigi Grandetti (17 dicembre 1946), e l’anno successivo don Pietro Maraglia. Una dozzina i sacerdoti assassinati nella regione dove oggi predica strane cose Biancalani in quel dopoguerra insanguinato di allora. Il sacrificio di quei religiosi è svillaneggiato a messa, quando la funzione termina e comincia il coro di Bella Ciao. E’ l’offesa peggiore a quegli uomini di fede, e si oltraggia anche Nostro Signore, che fu crocifisso non certo per far fare la resistenza a Biancalani. Basta con queste vergogne, che pretendono di elevare a valore universale la faziosità che trova residenza persino in una parrocchia. Umilmente, lo chiediamo alla Chiesa di Roma. Bene la presa di distanza del vescovo locale, giusta la posizione di Avvenire, ma vogliamo sapere se domenica prossima i fedeli potranno andare a messa, magari senza essere accolti da Bandiera Rossa.

Don Biancalani canta "Bella Ciao" a messa e i fedeli gli voltano le spalle. Dopo il siparietto provocatorio di domenica mattina in cui Don Biancalani ha deciso di cantare "Bella Ciao" al termine della funzione religiosa, siamo andati a sentire come i fedeli hanno interpretato questa iniziativa. Costanza Tosi, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Don Massimo Biancalani torna a far discutere. Il prete di Vicofaro che da sempre non ha fatto mistero del suo astio nei confronti delle idee politiche della destra populista di Matteo Salvini ha deciso di sbandierare ancora una volta la sua posizione. Con una differenza. Sì, perchè a questo giro, il parroco pistoiese, ha cercato di coinvolgere anche i fedeli, organizzando un coro sulle note di "Bella Ciao" proprio al termine di una funzione religiosa. Un’opposizione all’opposizione. Cavalcando l’onda delle sardine. La canzone diventata simbolo dei partigiani per don Massimo Biancalani meritava di essere citata tra le mure della casa di Dio perché "è un momento della nostra storia importante". Sui motivi di questa iniziativa il prete ci ha risposto di aver utilizzato quelle note per tramandare un messaggio di lotta e resistenza contro le ingiustizie. "Anche noi stiamo ogni giorno lottando contro le ingiustizie accogliendo i migranti. Siamo dei resistenti della solidarietà". ha dichiarato a due passi dal sagrato di Santa Maria Maggiore. Sì, ma tutto questo poco ha a che fare con la la parola del Signore. Sarà forse stata una provocazione nei confronti di qualcuno? "Non è un capriccio, né una provocazione"- aveva sottolineato alla AdnKronos don Massimo. Che con noi invece ritratta: “Predicare il Vangelo è sempre una provocazione”. E questa volta la proposta a fine messa non è piaciuta neanche ai fedeli. All’invito a partecipare al siparietto provocatorio hanno aderito in pochi. "Anche dei suoi adepti non c’era quasi nessuno. C’erano una decina di giornalisti, qualche curioso come me e una ventina di partecipanti", racconta un signore della zona. Che poi confessa di non aver gradito: "Non mi è piaciuto, non era né il luogo, né il momento adatto". Eh già. Così aveva spiegato anche la Diocesi pochi giorni addietro e subito dopo l’annuncio dell’iniziativa sulla pagina Facebook di don Massimo, in una nota. "Quanto pubblicamente dichiarato da un presbitero di questa diocesi sui social in questi giorni - si legge nella nota - ci chiama a dire con molta chiarezza che in chiesa nelle celebrazioni liturgiche non si possono eseguire canti inadeguati alla liturgia, come del resto il buon senso dovrebbe già far capire. Alla manifestazione pubblica di una posizione non corretta in campo ecclesiale purtroppo non si può che rispondere con un’altra pubblica e netta presa di posizione di biasimo nei confronti di un comportamento provocatorio assolutamente inopportuno e oltretutto controproducente, che arriva dopo ripetuti richiami a una maggiore attenzione all’uso dei social". Richiamo a cui il parroco non ha dato ascolto pur di tirare avanti nella sua lotta politica. Ma d’altronde non ne fa mistero e quando gli domandiamo se la parola di Dio non debba essere esente dai colori della politica ricorre ad una nuova interpretazione: "Se politica si intende come servizio al bene comune la Chiesa deve occuparsene eccome". Ma se davvero con il canto tipico delle sinistre il prete di Vicofaro voleva far passare un messaggio che abbraccia i principi del Vangelo, una cosa è certa: non ha saputo spiegarlo ai parrocchiani. Che, del movente, hanno tutt’altra idea. “Lo chiamano don ego, ecco, credo che sia così” ci dicono in piazza.

Non punite don Biancalani, il prete che ha cantato Bella Ciao. Don Andrea Gallo avrebbe fumato il sigaro e vi avrebbe detto “Ieri, oggi, domani, sempre Resistenza!” Ilfuturoblog il 26 novembre 2019. Don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro, è di nuovo sulle prime pagine dei giornali. Tempo fa la sua storia e quella del centro d’accoglienza che gestisce erano state alla ribalta della cronaca. Matteo Salvini era vice premier, la propaganda per i decreti sicurezza imperversava e Vicofaro, insieme a Riace, ne divenne suo malgrado l’epicentro. Numerosi attacchi, molte minacce, una macchina dell’odio scatenatissima il cui punto più basso fu toccato quando don Biancalani postò la foto dei suoi ragazzi in piscina scrivendo “oggi… PISCINA!!! Loro sono la mia patria, i razzisti e i fascisti i miei nemici!” E Salvini rispose:  “Questo Massimo Biancalani, prete anti-leghista, anti-fascista e anti-italiano, fa il parroco a Pistoia. Non è un fake! Buon bagnetto“. Oggi, di nuovo, a dare il la è il capo della Lega Matteo Salvini: “Ricordate il prete toscano che vorrebbe portare tutta l’Africa in Italia? Oggi concertino sardinante di Bella Ciao… a Messa! Tra un po’ lo vedremo a Sanremo! (Roba da matti!)“. Don Massimo Biancalani ha, infatti, concluso la messa con il canto simbolo della Liberazione. Sacro e profano. La politica sull’altare. “Più ancora che una profanazione, un’appropriazione indebita” strombazza Massimo Gramellini sulle pagine del Corriere della Sera chiamandolo prete-sardina. E già si parla di punizioni in arrivo da parte del vescovo che, in realtà, intervistato da Avvenire, si dice solo molto amareggiato. Questa, però, non è solo la storia di Don Biancalani. E’ la storia dei preti partigiani, che forse abbiamo tutti dimenticato, di quei tanti che persero la vita nella difesa dei loro parrocchiani e dei loro concittadini, nella lotta contro l’oppressione nazista e fascista. E poi questa è anche la storia dei preti di strada, come don Luigi Ciotti e Padre Alex Zanotelli. Come don Andrea Gallo. Tutti e tre hanno cantato Bella Ciao in chiesa e mai nessuno ne aveva fatto un caso, anzi a Genova ai funerali del “Gallo” Bella Ciao la cantarono tutti, dentro e fuori la chiesa. Lui avrebbe voluto farne l’inno nazionale. L’8 dicembre del 2010 al termine della Messa nella Chiesa di San Benedetto per festeggiare i 40 anni della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, don Gallo salutò i presenti intonando “Bella Ciao” accompagnato da Gino Paoli. Un paio di anni più tardi replicò sventolando la immancabile sciarpa rossa e augurando a tutti Buon Natale. Certo, Don Gallo. Don Gallo che citava tanto spesso Antonio Gramsci. Lo fece anche a Gattatico dove vennero trucidati i fratelli Cervi in un meraviglioso discorso intitolato “Partigiano della Costituzione”. In quell’occasione raccontò: “A quindici anni ho partecipato alla guerra partigiana. Mio fratello era comandante e io ero giovanissimo.  Il motto di quella brigata mio fratello lo scriveva da tutte le parti. Gli ho detto: «Non scrivere, che poi i tedeschi ci vengon dietro». Il motto era ed è il primo messaggio che voglio dare a voi: «Osare la speranza». Son venuto qui per cantare con voi, coi fratelli, per la libertà, per la giustizia, per la pace, per la democrazia che sta morendo! Quando andai con la brigata, quindici anni e rotti, mia madre mi guarda e dice: «Cosa fai?». «Vado con Dino, mio fratello, comandante.» La mamma piangeva. Ma capiva. Non potevo fare altro. A volte arrivavo a casa, lasciavo la borsa alla mamma. Poi ripartivo… Tutta la Resistenza non è venuta a predicare la verità: è venuta a testimoniarla! Sulla mia scrivania, se venite a Genova, vedrete le fotografie di Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore, Gelindo, fucilati il 28 dicembre 1943. Nel ’43 scoppiò la ribellione. È questa  la lotta quotidiana. Attenti, un’altra domanda: qual era l’obiettivo prioritario della lotta della Resistenza? Abbattere il nazifascismo per ottenere la pace. Noi facevamo la guerra, perché credevamo fosse l’ultima. Questo è il punto. Oggi chiediamo: se il 25 aprile ha ancora qualcosa da dire ai giovani e ai giovanissimi, vale la pena di insistere o non si rischia di passare per pedanti custodi di un cerimoniale superato? Io dico di no, che vale la pena insistere, però ad una condizione: che non si beatifichi la Resistenza. Si parli dei resistenti, ecco perché ho ricordato i nostri compagni Cervi, a uno a uno. Resistenti, donne e uomini in carne e ossa, giovani alla ricerca di una vita. Oggi invece stiamo vivendo l’esatto contrario dello spirito della Resistenza e del 25 aprile, che io ho personalmente vissuto. La maggioranza degli italiani, bisogna che ce lo diciamo (qui siamo in tanti, a Reggio Emilia si respira antifascismo…), a mio avviso non sono nemmeno lontanamente antifascisti. «È sempre meglio un fascista che un comunista», da anni me lo dicono! Però io non sono venuto qui per fare lezioni, non sono uno studioso, son venuto qui per mettermi in discussione, con voi… quando tornerò a Genova, a Dio piacendo, voglio essere più uomo, più partigiano, più cristiano, più prete, più coordinatore di comunità, più antifascista… Più anticapitalista! È qui il casino.” (Il canto del Gallo, Chiarelettere editore) Ecco, non punite don Massimo Biancalani perché ha voluto essere più uomo, più partigiano, più cristiano, più prete, più coordinatore di comunità, più antifascista, più anticapitalista.

Vescovo "bacchetta" don Biancalani ("Che amarezza...") e Salvini ("Fa polemica scorretta"). Valdinievoleoggi.it il 26/11/2019.  «Una grande amarezza». E' così che il vescovo Fausto Tardelli commenta l'iniziativa presa da don Massimo Biancalani, che domenica ha cantato assiene a un gruppo di fedeli “Bella ciao” al termine della messa nella parrocchia di Vicofaro, nonostante proprio dalla diocesi fosse arrivato un "altolà". L'Avvenire ha intervistato monsignor Tardelli, il quale ha detto di non riuscire "proprio a capire come dei fedeli possano non tener conto nella celebrazione liturgica di quelle che sono le indicazioni della Chiesa", aggiungendo che don Biancalani lo avrebbe fatto "quasi a mo’ di sfida". Dice poi di aver cantato lui stesso Bella ciao ("Un bellissimo canto") e racconta che anche il padre è stato partigiano e ha combattuto i nazifascisti sulle Alpi Apuane. "Ma Bella ciao non è un canto liturgico e non è appropriato cantarlo in chiesa", specifica. Ma poi la bacchettata del vescovo si rivolge anche verso il leader della Lega Matteo Salvini: «Provo profonda amarezza inoltre per l’ulteriore, e prevedibile, strumentalizzazione di questa vicenda da parte del senatore Salvini, che non perde l’occasione per entrare in polemica, in modo scorretto, nel contesto ecclesiale. Una ulteriore dimostrazione di miopia e, alla fine, di scarso di interesse nei confronti del mondo ecclesiale, “usato”, più che sostenuto».

Il prete anti-Salvini insulta ancora: "È un pezzo di m..." Il prete che aveva invitato a uccidere il ministro dell’Interno, va ancora all'attacco: "È dannoso per la democrazia". Pina Francone, Mercoledì 19/06/2019 su Il Giornale. Dopo aver invitato a uccidere Matteo Salvini, ora gli dà del pezzo di "emme". Don Giorgio De Capitani, il prete che ha appunto evocato la morte, per uccisione, del leader della Lega, è stato ospite de La Zanzara su Radio 24, cercando di mettere una pezza a quella delirante uscita. Ma la pezza è peggio del buco. E, infatti, ai microfoni della trasmissione radiofonico, dice: "Era una cosa paradossale per dire come Salvini sbaglia quando gode che un negoziante uccide una persona, così io sbaglio dicendo che bisogna ammazzare Salvini […] Un paradosso. Sto dicendo che il mio ragionamento è sbagliato, così lui capirà che il suo è sbagliato. Salvini mette sempre quei suoi post dicendo che hanno fatto bene ad ammazzare il ladro, dai...". Dunque, rincara la dose: "Salvini è un pericolo per la democrazia. L’ho definito più volte un pezzo di merda. Ma non ho detto di farlo fuori perché via Salvini ne arriverà un altro che è peggio". Poi l'uomo di Chiesa se la prende con i cittadini-elettori: "Il problema è il popolo, chi lo vota ragiona con la pancia. Quando lui dice che bisogna difendersi anche ammazzando il ladro, io allora dico bisogna che anch’io mi difenda ammazzando te che considero un ladro di democrazia. Ma è un puro ragionamento, cavoli, ci rendiamo conto ad un certo punto che siamo in mezzo ad una massa di cretini che non sanno neppure leggere tra le righe di chi si esprime?". Infine, dopo aver insultato – dandogli del "coglione" - uno dei conduttori de La Zanzara, che lo aveva criticato per le sue uscite più che colorite, il sacerdote svela di aver votato il Partito Democratico, turandosi il naso: "Ho sempre votato la sinistra. Il male minore. Una volta pure Bertinotti…".

Don Luigi Ciotti il prete di strada che si crede ministro non di Dio ma dello Stato. Schierato contro il dl sicurezza e contro Salvini, perchè insignito del premio Don Tonino Bello. Carlo Franza su Il Giornale il 5 agosto 2019. Si salvi chi può dai preti di strada, preti guerriglieri che hanno interpretato e interpretano il Vangelo di Cristo come fosse il Corano. Quel battaglione italiano di preti di strada (ne cito alcuni, Don Andrea Gallo, il fu Don Tonino Bello, Padre Alex Zanotelli, Don Luigi Ciotti, Don Gino Rigoldi, Mons. Giancarlo Bregantini, ecc. ecc.) hanno preso a modello  Padre Camilo Torres Restrepo (Bogotà 1929- Dipartimento  di Santander 1966) che è stato un presbitero, guerrigliero e rivoluzionario colombiano, precursore della Teologia della Liberazione,  cofondatore della prima Facoltà di Sociologia e membro dell’ Esercito di liberazione nazionale colombiano. Durante la sua vita promosse il dialogo tra il marxismo rivoluzionario e il cattolicesimo. Alla base di questa corrente ideologica che è la teologia della liberazione vanno comunque individuati due errori maggiori, che Loredo sottolinea con forza: l’uno di carattere teologico e l’altro di ordine socio-economico. Il primo era stato focalizzato da Papa Ratzinger quando aveva evidenziato come nella teologia della liberazione la centralità non sia più per Dio e nemmeno per la persona umana: al cuore ci sono i movimenti, le battaglie politiche (anche armate), le rivendicazioni economiche. Tesi queste che sono state appannaggio di pochi preti confusionari provenienti da Brasile o Colombia, ed oggi sono invece professate dalle più alte gerarchie cattoliche(Cardinale Parolin, il Cardinale Becciu, il Cardinale Bassetti, il Cardinale Montenegro, Mons. Galantino, ecc.)  e da Papa Bergoglio. Questo vuol dire che la situazione è davvero seria e le conseguenze potrebbero essere devastanti. Ed  è stato con l’arrivo di Bergoglio sul trono di Pietro che la Chiesa ha iniziato a deragliare declinandosi sulla via delle Chiese latinoamericane. Ecco le principali formazioni guerrigliere dell’America Latina. 

COLOMBIA. I due gruppi ancora in attività sono le Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) e l’Eln (Esercito di liberazione nazionale). Le Farc, guidate da Manuel Marulanda Velez, "Tirofijo", forti di circa seimila uomini, hanno incassato nel ‘91 duecento miliardi di lire con le estorsioni ai latifondisti, il denaro ricavato dalla connivenza con i narcos e i proventi di 370 sequestri di persona. L’ Eln, che ha per leader l’ex prete spagnolo Manuel Pérez e circa duemila aderenti, ha avuto entrate per 100 miliardi con i sequestri e con le tangenti estorte sugli appalti per la riparazione degli oleodotti danneggiati negli attentati. 

CILE. Il movimento "Lautaro", dietro generici proclami contro il “governo reazionario”, sembra in realtà essere infiltrato da agenti dei servizi segreti. Si limita ad azioni sporadiche. 

GUATEMALA. Alcuni anni fa, al termine di una difficile trattativa a Madrid, sembrava che la strada della pacificazione nazionale fosse stata imboccata, ma l’ Urng (Unione rivoluzionaria nazionale guatemalteca) guidata da Rodrigo Asturias ha bloccato il negoziato per la mancanza di assicurazioni sul rispetto dei diritti umani. Ha scritto  Tornielli su La Stampa del 7 settembre 2017: “Erano giovani di classe media ma capaci, come nessun altro, di parlare ai campesinos. Erano innamorati della Cuba castrista, eppure allergici al dogmatismo sovietico. Erano anche preti, frati e suore, arruolatisi a centinaia. L’Eln, l’Esercito di Liberazione Nazionale, fin dal 1964 è qualcosa di unico in Sudamerica. Non a caso è l’ultima guerriglia a resistere. E non a caso è così difficile negoziare coi suoi comandanti, come sta facendo da mesi lo Stato colombiano a Quito, in Ecuador… La storia dell’Eln e quella della Chiesa si incrociano così tanto che qualcuno l’ha definito un “convento armado”. La teologia della liberazione qui ha raccolto come da nessun’altra parte”.

Senza allontanarci troppo dal nostro discorso di base, tutti sparano a zero contro Salvini, il PD con i suoi Zingaretti & Company, la sinistra estrema, il M5stelle, il Vaticano, Papa Bergoglio e la chiesa con i suoi vescovi allergici al Vangelo, e in primis i preti guerriglieri, che utilizzano il pulpito come fosse un palco  da elezioni. Tutti questi si sono spaventati al massimo per la politica della Lega e di Salvini, visto che   la gente ha finalmente aperto occhi e orecchi, e sa da che parte andare senza lasciarsi abbindolare dalla scuola di “umanitudine” sventagliata da Papa Bergoglio. D’altronde i sondaggi di questi giorni davano la Lega di Salvini al 38%. C’è di più, perchè i sondaggi volano e portano la Lega in alto; ecco perchè sparano a zero i preti guerriglieri come Don Luigi Ciotti; perché   ora spunta anche un ultimo sondaggio, proprio nei giorni in cui il vicepremier è a Milano Marittima, per qualche giorno di vacanza. Cosa dice l’ultimo sondaggio? Dà Salvini al 55 per cento. Esatto, il 55 per cento. La domanda, però, non è: votereste la Lega? Bensì: “Vorreste Matteo Salvini come vicino d’ombrellone?“. Più della metà del campione ha risposto affermativamente. Significativo plebiscito. Il curioso sondaggio è di Spot and Web, che raccoglie anche alcune delle motivazioni espresse da chi ha votato sì: “Mi sembra una persona alla mano“; “Gli parlerei di sicurezza e immigrati“; “Vorrei chiedergli perché ha cambiato idea sul Sud”. Per inciso nel sondaggio – di cui dà conto anche il nostro  Il Giornale – al secondo posto si piazza Giuseppe Conte con il 46%, al terzo si  piazza  Luigi Di Maio con il  32 per cento. Per Salvini resta quel 55%, che in una certa misura spiega anche il consenso politico di cui godono oggi lui e la Lega. L’Associazione Libera e Don Ciotti  hanno coniato il motto “La disumanità non diventi legge”. Questo prete guerrigliero che ha nome Don Luigi Ciotti, invece di andare in Africa ad evangelizzare i militanti dell’Isis,  sta conducendo un battaglia contro il dl Sicurezza bis, che rappresenta proprio in queste ore, l’ultimo provvedimento all’ordine del giorno del governo gialloverde prima della pausa agostana. Se la politica si interroga,  il “prete di strada” non palesa incertezze e strombazza come non mai.

Il vertice di Libera, argomenta così la politica salviniana, asserendo  a suo dire   che tutto ciò che è nel Dl Sicurezza è  “Aberrazione giuridica”. Matteo Salvini non viene nominato, ma in relazione ai compiti cui è deputato il dicastero del Viminale e degli Interni, Don Luigi Ciotti, attraverso un video pubblicato su YouTube da L’ufficio stampa di Acmos e Libera Piemonte, avanza una tesi: il ministro dell’Interno si trova già nella condizione di poter incidere sulla gestione dei fenomeni migratori in maniera “enorme”, spropositata. Quello che il dl sicurezza prescrive, secondo il prete guerrigliero don Luigi Ciotti  costituisce una “estensione” che è una vera e propria “invasione di campo”. Non si accorge il prete soldato che è proprio lui ad aver invaso il campo della politica invece che quello del Vangelo. Il prete guerrigliero attivista ventila un’opinione altamente politicizzata, e si dimena come un cane rabbioso osservando che ciò che sarà approvabile domani è un “ennesimo segno di un’ambizione sfrenata, indifferente alla divisione dei poteri su cui si fonda la democrazia”. Sproloqui, certo, di chi pensa come il nostro prete di strada di officiare in senso comunista,   e infine ancora prediche su prediche sull’accoglienza dei migranti. E come un novello Messia, visto che da qualche mese un generale milanese lo ha insignito del Premio Don Tonino Bello, Don Ciotti mette tutti in allerta avvertendo  sui rischi comportati dall’avvento del populismo: “Questo decreto sicurezza non è segno di governo ma di gestione cinica del potere, tramite mezzi di cui la storia del Novecento ci ha fatto conoscere gli esiti tragici: la propaganda ossessiva, la sistematica manipolazione della realtà, la rappresentazione della vittima e del debole come nemico invasore, capro espiatorio”. Solita predica, soliti schiamazzi, solita liturgia che hanno fatto allontanare tanti cristiani dalle chiese ormai deserte. Questa battaglia di Don Luigi Ciotti e con lui tutto il codazzo di preti, vescovi e cardinali che ossequiano Papa Bergoglio e le sue direttive ormai troppo lontane da Cristo,  sono il segno che la Chiesa di Roma ha perso troppi colpi e troppo potere. La causa è da trovarsi proprio nel comportamento di questi preti guerriglieri alla Don Luigi Ciotti che pensano di latinoamericanizzare l’Italia e l’Europa. Ma l’Italia della Lega, di Salvini e dei liberali non ci sta. Carlo Franza

Don Ciotti, una vita (sotto scorta) contro le mafie e la droga. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Gian Paolo Orbezzano su Corriere.it. C’è la Torino buona dei santi operai (Bosco, Cafasso, Allamano...) contro diavoletti e spiritelli utili per sedute medianiche acchiappagonzi e finte messe nere, del miracoloso Cottolengo contro la pubblicizzata beneficenza pelosa dei riccastri, del Sermig pro migranti contro il razzismo residuo (questi terroni...) o rinascente. E del Gruppo Abele (dal 1965, primo nome Gioventù Impegnata) con oltre cinquanta attività diciamo di servizio, ergo contro gli ipocriti dell’assistenza, del bla-bla-bla del dire tanto senza fare nulla. Abele come quel buono che si sa, con il cattivo Caino che diceva «sono forse io il custode di mio fratello?», fondatore ancorché non ancora «don» Luigi Ciotti (Pieve di Cadore, 10 settembre 1945), famiglia operaia, all’inizio degli Anni 50 emigrata a Torino per lavoro, prima residenza il capannone del cantiere dove il padre di Luigi lavorava come muratore. Devo passare alla prima persona, spero un bel po’ singolare. Il giovane giornalista sportivo che incontra il giovane seminarista, e nasce un’amicizia forte che sta per compiere il mezzo secolo. Il giornalista che ha la prima figlia e la seconda e ha don Ciotti cioè l’amico Luigi o Gigi che gli manda in casa a fare da perfette baby sitter le ragazze strappate alla strada, alla prostituzione. Il battesimo, padrino don Ciotti, del terzo figlio del giornalista officiato in un capannone industriale fra giovani che hanno lasciato la droga, cantano, brindano con vino rosso delle vigne di Bersellini allenatore del Torino. Forse è per tutto questo che posso fare a don Luigi Ciotti, adesso più noto in Italia come fondatore di Libera (1995) contro le mafie, un’intervista magari un po’ diversa da quella quasi rituale del giornalista arrembante con e se del caso contro il personaggio celebre.

La prima domanda è preoccupata: ti voglio un bene pieno di riconoscenza e mi preoccupa la tua salute. Che ne è delle minacce di morte che accompagnano il tuo lavoro per Libera? Ti so scortatissimo, e una volta mi mettesti a parte di un piano circostanziato e terribile...

«Sono tenuto a non rendere pubblico questo risvolto del mio impegno. Posso dire che nel corso degli anni c’è stata una escalation grave ed allarmante, culminata con l’ordine di uccidermi emesso dal boss di Cosa Nostra Totò Riina, intercettato in carcere. Parlo di escalation, perché già negli anni Settanta il Gruppo Abele, impegnato anche contro le mafie della droga, riceveva minacce».

Accetteresti una carica politica?

«Me l’hanno offerta alcune volte: mai avuto dubbi a rifiutare. Politica è per un cristiano mettersi al servizio del bene comune, diretta conseguenza del servizio a Dio. Paolo VI definì la politica come “la più alta ed esigente forma di carità”. Per questo nel mio piccolo ho sempre cercato di saldare Cielo e Terra, riconoscendo il volto di Cristo nei tanti “poveri cristi” incontrati nel mio cammino. Papa Francesco ha detto che la religione non esiste solo per preparare le anime al Cielo».

Cosa pensi delle Madonne e dei rosari di Salvini?

«Una bestemmia, un sacrilegio, un uso della religione offensivo, totalmente inaccettabile. Chi si professa credente e poi respinge i “poveri cristi” chiudendo porti e costruendo muri, calpesta lo spirito e l’essenza del Vangelo. Oltre che della Costituzione».

Tu, come Sandro Ciotti, celebre radiocronista, siete del Cadore: per nascita tu, per avi lui. Là c’era nel Medioevo una compagna di mercenari privi di anagrafe, per chiamarli dicevano «ehi tu» che in dialetto veneto fa «ciò ti». Da qui compagnia dei Ciò-ti, dei Ciotti, e il vostro cognome. Una premonizione? La vocazione religiosa è una chiamata...

«Vocazione più che scegliere è essere scelti, strumenti di un disegno nel quale riconosciamo la nostra essenza. La mia la comprese il cardinale Pellegrino che, facendomi sacerdote, mi affidò come parrocchia la strada, dove Terra e Cielo spesso s’incontrano e si abbracciano».

Abbiamo un amico comune, Gianfranco Caselli, grande magistrato. Tu blando tifoso juventino assisteresti a un derby strizzato fra noi due supergranata?

«Ero ragazzo quando, inizio anni Sessanta, ho messo piede in uno stadio. Poche volte e stop. Penso che lo sport tutto e il calcio in particolare dovrebbero essere ripensati alla base, in funzione del loro valore sociale e del loro enorme potenziale educativo. Invece troppo spesso gli stadi diventano luoghi non di sport ma di insulti, di aggressione e persino d’infiltrazione mafiosa».

Liberalizzazione delle droghe leggere. A che punto siamo?

«È un tema delicato che non ammette semplificazioni. Occorre porsi il problema della domanda, non solo quello dell’offerta. Senza contare che le droghe sono già di fatto liberalizzate: il mercato è “affare” delle mafie, in concorso o lotta fra loro, secondo appunto logiche di mercato. Bisogna puntare su educazione, cultura, lavoro. Il problema della droga è quello di una società frantumata, diseguale, che deruba il futuro delle persone, ridotte a strumenti di profitto. E c’è poi una droga di cui nessuno parla, ma che produce effetti non meno devastanti: la droga del potere».

Te ne offro una dose teorica: hai a disposizione un atto di potere, e cosa fai?

«Niente. Non credo nel potere e dunque meno che mai nel potere assoluto. Credo nel costruire le cose insieme, nel noi. Bisogna liberarsi dall’io, che nel potere trova uno strumento di affermazione e di distruzione, ponendosi al di fuori ed al di sopra della vita. La vita non è in funzione dell’io, ma l’io della vita».

Guido Ceronetti scriveva che i torinesi, e tu ormai lo sei, fanno cose anche buone ma a condizione che non si sappia, per paura, nobile ma comoda, di dare disturbo. Io sono amico di Giampiero Boniperti, gloria juventina: lo dicono avaro, è generosissimo, guai se lo si sa.

«Si può vivere la propria ricchezza come un mezzo e non un fine. Come uno strumento per limitare diseguaglianze e ingiustizie sociali. Insomma è possibile non avere problemi economici ed essere generosi. Come Giampiero Boniperti».

Per non finire col calcio, come spesso a Torino accade: don Ciotti sa che io so che tanti anni fa una malattia era planata su di lui, eravamo preoccupati, lui ringrazia i medici, ma io dico che chi crede ai miracoli è autorizzato a pensarci su. D’altronde è un miracolo Libera nel Paese della supermafia, è un miracolo ormai «lungo» il Gruppo Abele, che è case, comunità, servizi di accoglienza, società editrice (due riviste, tanti libri), progetti in Africa e una sede in una vecchia fabbrica ristrutturata offerta da Gianni Agnelli, che apprezzò assai la vicinanza di don Ciotti al suo povero figlio suicida Edoardo, «fragile e profondo» secondo il sacerdote.

Da “Libero quotidiano” il 3 dicembre 2019. «La rovina della Chiesa non sono i pochi preti, ma sono i preti che ci sono: cominciando dai cardinali». Così don Antonio Mazzi, parlando a "Uno, nessuno, 100Milan" su Radio24 in occasione dei suoi 90 anni. E se diventasse Papa? «Chiuderei il Vaticano e San Pietro diventerebbe una chiesa normale. I Musei Vaticani li darei in affitto ai giapponesi e ai cinesi. I cardinali li manderei in Africa, che c' è bisogno di preti».

Don Antonio Mazzi, il prete pazzo di Dio e dei suoi ragazzi. Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it da Pier Luigi Vercesi. La vicenda umana di don Antonio Mazzi sembra scritta da Gabriel García Márquez: una storia perennemente sospesa in tragiche realtà magicamente trasformate in ritorni alla vita. Contemplando i suoi primi novant’anni, questo «pazzo» di Dio, come il colonnello Aureliano Buendía di fronte al plotone d’esecuzione in Cent’anni di solitudine, racconta di quando lo condussero a conoscere l’acqua. Era il 1951 e il Po stava inghiottendo cinque paesi aggrappati agli argini ferraresi. Fu il battesimo di un ventunenne ancora adolescente, un mascalzone veronese cresciuto senza il padre (morto di broncopolmonite quando lui aveva appena 15 mesi), allevato da una madre beghina che mai smise il lutto e campò malamente la famiglia ricamando lenzuola e fazzoletti. Antonio e il fratello, nato 5 mesi dopo la disgrazia paterna, schivarono una vita di zappa e mungiture studiando nei convitti dei preti per bambini poveri. Ma Antonio, del suo, ci metteva poco. Pessimo studente, in terza media venne bocciato per cattiva condotta: con l’elastico agganciato a indice e pollice in una rudimentale fionda centrò l’occhiale della prof di matematica. Odiava preti e giaculatorie, non sapeva che farsene della vita, ma imparava a scrivere e a cantare. Lo prese sotto la sua ala protettrice il prof di italiano e lo salvò insegnandogli a suonare la pianola. Non un Natale o una Pasqua a casa, tanto non c’era nulla da mangiare. Però gli fecero frequentare il liceo classico, lasciandolo grufolare in biblioteca a caccia di letture proibite: il Cantico dei cantici, ad esempio (troppo sensuale). Avrebbe fatto l’insegnante di lettere, guadagnandosi l’università come educatore nella Città del Ragazzo di Ferrara, nata da un’idea del vescovo di quella città rossissima, dove il seminario era rimasto senza aspiranti preti. Fu lì che fece la conoscenza dell’acqua, nella terribile inondazione del ’51. Il Po ululava nella notte, i pompieri gli chiesero di salire sul barcone e di occuparsi dei bambini strappati ai flutti. Ce n’era uno di sei mesi, altri di due, quattro anni, annichiliti dallo spavento. Il mattino dopo si disse: «Ho sbagliato a leggere la vita, devo leggerla meglio». Finita l’emergenza andò dal vescovo per farsi prete, ma non di parrocchia, uno che aiuta gli altri. «Prima devi convertirti!». «Mi convertirò», rispose. Dio non l’aveva chiamato, l’aveva tirato dentro. Il nonno socialista scosse la testa: «Possibile che non trovi un altro mestiere?». «Nonno, bastardo come sono, è inutile che metta su una famiglia mia». La Città del Ragazzo di Ferrara accolse centinaia di bambini rimasti senza genitori. Pomeriggio e notte Antonio si occupava di loro, la mattina all’alba percorreva 13 chilometri in bici per andarsi ad addormentare nelle aule di teologia. Divenne prete senza troppo sofisticare, tanto non c’era concorrenza in zone dove il Primo maggio, da Comacchio a Ferrara, non si vedeva la strada, tante erano le biciclette di chi sfilava con il pugno alzato. Alla prima Messa pasquale, l’ormai don Antonio aveva 5 donne in chiesa. E per fortuna il vescovo l’aveva autorizzato a non chiedere, a chi si confessava, se era comunista (era prevista la scomunica). All’alba dei Sessanta, chiarito che la rivoluzione d’Ottobre non si sarebbe consumata, a Ferrara rifiorirono le vocazioni. Ora servivano educatori a Primavalle, quartiere talmente malfamato di Roma da far sembrare Quarto Oggiaro una cartolina. Cinque pretini per 40 mila disperati. Un giorno entra in canonica una ragazzina di dieci anni: «Mamma dice se mi dai un po’ di soldi per mangiare». «Non li ho, se aspetti chiediamo al parroco». La bimba si alza il vestitino fino al petto e sotto non ha nulla. «Mamma ha detto di fare così». Don Antonio le fa cenno di ricoprirsi, non la sgrida né giudica la madre, trova solo qualche soldo e la invita a giocare all’oratorio. Con otto palloni si fanno miracoli e tante partite di calcio, soprattutto se si è tifosi dell’Inter e con una passione per Mariolino Corso come don Antonio. Viene il ’68, a Primavalle c’è persino un religioso che scappa con una prostituta. Il pretino torna al Nord. Dove c’è una causa arrischiata lui ci finisce dentro. Sull’onda delle idee di Basaglia, avvia un centro per togliere i ritardati dai manicomi; rischia l’arresto appoggiando i primi obiettori di coscienza. Il vescovo di Verona lo chiama: «Sei comunista?». «Perché, i comunisti sono contro la guerra? Loro no, ma noi cristiani sì». Un giorno gli chiedono di andare a dirigere un istituto dalle parti di Crescenzago, perché don Luigi Verzé lascia per occuparsi di un ospedale. Siamo già negli anni Ottanta. Lì di fronte c’è parco Lambro, divenuto una landa desolata di tossici e spacciatori. Leggerlo sui giornali fa paura, ma quando dalla finestra della direzione vedi i ragazzi salire sulla collinetta, iniettarsi la droga e piantare la siringa nella corteccia dell’albero... quando li senti gridare e le sirene ululano disperate... allora è orrore. Quel giorno alcuni ragazzi arrivano trafelati: «Don Antonio corri...». Sulla collinetta c’è il cadavere di un giovane di sedici anni, uno dei migliori della scuola, il figlio del vicepreside. Era entrato lì e lo avevano sfidato. Per forza o debolezza aveva mostrato il braccio e il primo buco in 40 secondi gli aveva tolto la vita. Don Antonio lo prese tra le braccia come un Cristo deposto dalla croce e lo consegnò alla disperazione del padre dicendogli: «Adesso della scuola ti occupi tu. Lì fuori hanno bisogno di me». Per prima cosa si fece prestare da amici tre camper e convinse una quindicina di tossici e tre con l’Aids a fare insieme il giro d’Italia. Uno dei malati morì per strada ma nessuno si bucò più. Era cominciata l’ennesima avventura del prete che sembra amare più Giuda di Pietro: drogati, disabili e ora ex terroristi. Dissociati e pentiti, grazie alla legge Gozzini potevano lasciare il carcere e lavorare con lui. Drammatica la parabola di Marco Donat Cattin, il figlio del leader Dc. Rientrò dalla Francia, cominciò a lavorare con i drogati a Verona e venne travolto da un’automobile mentre cercava di estrarre dalle lamiere una vecchietta rimasta vittima di un incidente. Don Antonio lo compose nella bara e gli diede la sua benedizione. Una storia di padre e figlio, come la sua. Davanti al tavolo da lavoro di don Mazzi alla comunità Exodus c’è un Pinocchio di legno a grandezza quasi naturale. «Sei tu», gli chiedo. «Non lo so, però credo si sia perso quando lasciò Geppetto e si sia ritrovato quando riuscì a raggiungerlo nella pancia della balena». Già, in mezzo a un mare d’acqua, come la notte in cui l’Antonio che si sentiva uno scartino della vita si ritrovò padre dei bambini resi orfani dal Po.

Don Mazzi: «Io eretico da 90 anni ma non sono ancora stanco». Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 da Corriere.it. «Ma no, ma quali 90 anni? Sì, lo so che ce li ho, per carità, ma è che sono passati così velocemente che fatico persino a pensarmi così tanto più giovane di adesso a Primavalle, nel ’68...». Si interrompe di colpo e con il solito tono ironico, ancora intriso della cadenza veneta delle origini, precisa: «Però fino al 30 novembre ne avrò ancora 89». In tempo, allora, per un altro impegno fissato per domenica 29 settembre: l’incontro-convegno sull’adolescenza dal titolo «Ragazzi Fuoriserie», dalle 10 alle 13, nella sede di Exodus, al Parco Lambro. Don Antonio Mazzi sta per entrare nella basilica di Sant’Ambrogio dove si celebra una messa proprio per benedire il suo traguardo anagrafico, alla presenza — tra gli altri — dell’arcivescovo Mario Delpini e del sindaco Giuseppe Sala. Del resto questo prete veronese è stato ed è ancora un protagonista attivo della vita metropolitana, esplorata sempre nel suo lato oscuro, vissuta sul versante più dolente e problematico. Dopo le esperienze da giovane prete, a Ferrara e poi al centro giovanile della parrocchia San Filippo Neri nella borgata romana di Primavalle, dal 1979 è direttore dell’Opera don Calabria di Milano in via Pusiano, a ridosso del Parco Lambro. All’epoca era quello il più grande mercato europeo dello spaccio di stupefacenti. E avere a che fare quotidianamente con i ragazzi che si uccidevano lentamente di buco in buco spinge don Mazzi a mettere in piedi, nel 1980, il Progetto Exodus e alla fondazione della Comunità Exodus per il recupero di ragazzi tossicodipendenti. Nel 1984, dopo aver organizzato la pulizia del Parco Lambro ottiene dal Comune la Cascina «Molino Torrette», che diventerà la base da cui partiranno tutte le sue iniziative.

Don Antonio, si sente stanco, adesso che sta per compiere 90 anni?

«Ma no, stanco no. Però mi fa effetto ripensare al mio passato, e comunque lo faccio perché me lo sta chiedendo lei. Mi rivedo nella borgata romana negli anni della contestazione, con Franco Basaglia tra i matti che si cercava di portare fuori da quei posti orrendi, con i tossicodipendenti del Parco Lambro nella Milano degli anni 80... Tutto mi sembra trascorso a una tale velocità che fatico a convincermi di aver assistito in diretta al Concilio Vaticano II. Comunque stanco no, semmai amareggiato».

Per cosa?

«Be’, direi che i motivi non mancano. Guardando in casa mia, posso dire che mi piacerebbe che questa chiesa fosse ancora più attenta a quello che succede, i preti non devono comportarsi come impiegati del Padreterno e nella società dei consumi devono stare molto attenti ai simboli».

Erano meglio quelli di prima?

«No, non ho detto questo, anche perché io non guardo mai al passato ma sempre al presente. Però i bisogni dei giovani sono sempre diversi e chiamano forte».

E il presente di Milano è anche un fiorentissimo mercato della droga. Non è cambiato niente dagli anni del parco Lambro?

«No, io credo siano cambiate molte cose. Se non altro nell’estrazione sociale dei ragazzi che si buttano sull’eroina, che adesso si rimedia a Rogoredo per pochi euro: i tossici del parco Lambro erano figli di un’altra Italia, erano tagliati fuori, marginali, oggi a Rogoredo si trova una media borghesia che si trascina addosso altri tipi di disagi. Quindi l’approccio è lo stesso: più che rincorrerli su e giù per boschi e parchi bisogna agire sulle cause di quel disagio».

E quali sono, secondo lei?

«Mi sembra proprio che in Italia non ci siano più adulti. siamo diventati direttamente vecchi. Dove sono i punti di riferimento quarantenni? Io non ne vedo, in nessun ambito. E intanto si è smarrita persino l’idea di stare insieme, il concetto di comunità, di società, di amicizia. Può sembrare una litania, ma io mi chiedo davvero quali siano i valori proposti adesso dalle nuove generazioni di presunti adulti. E senza gli adulti i ragazzi non crescono».

E Milano? Come vede la città in cui vive e opera da mezzo secolo?

«Ah io non mi unisco ai cori di gaudio. Mi sembra sia diventata superficiale. Sì, è bella, si è data un bel vestito, una bella apparenza, ma quella è soltanto la crosta. Sotto non c’è un’anima. E quella è più difficile trovarla, perché c’è da mettersi in discussione e guardare bene anche dentro la sofferenza. Quindi Milano si sente bene perché non pensa in profondità. Perciò lasciamo perdere quelle cose tipo “guida morale d’Italia”, per favore».

·        Quanto guadagna un prete?

Quanto guadagna un prete? Mini salario, poche offerte: vita da sacerdote. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. I sacerdoti hanno dalla Chiesa in media 1.100 euro. La marmitta dell’auto, per dire. Meno male che sono figlio unico». E che c’entra, scusi? «C’entra perché mi si era rotta, milleduecento euro. E per fortuna, a 47 anni, ci sono ancora mamma e papà che mi aiutano, nel caso so di potere contare su di loro». Don Dino Pirri, parroco marchigiano a Grottammare, si fa una risata, in fondo ci sono cose peggiori che restare appiedati. Però, mentre infuriano i (ricorrenti) scandali finanziari vaticani, pure una marmitta può far capire che un prete, come buona parte dei parrocchiani, di norma non naviga nell’oro. Talvolta la percezione è diversa, «magari la gente pensa che siamo pagati dal Vaticano e se vado a comprare un paramento con i miei soldi c’è chi si stupisce, ma non ve lo passano? Ma noi non viviamo fuori dal mondo, siamo persone normali». Il che, peraltro, è un bene: «Talvolta devi stare attento per arrivare alla fine del mese, magari devi rinviare una visita medica, ma lo stesso accade a tanti parrocchiani e questo ci avvicina. Del resto io prendo sui 1.100 euro al mese, ci sono famiglie che ci vivono, e se faccio un’opera di carità o offro una pizza ai ragazzi in parrocchia pago con i miei soldi. Le persone “sgamano” subito se un prete è attaccato ai soldi o fa la cresta».Una vita normale. Nell’ultimo consiglio della Cei, il 26 settembre, la «remunerazione» dei sacerdoti è stata aumentata per la prima volta dopo dieci anni, e di appena 20 euro al mese. Per scelta dei vescovi, dal 2009 era rimasta bloccata, senza adeguamenti all’inflazione, come «segno di partecipazione» alla crisi. Il sistema nato con la legge 222 del 1985 prevede che ogni prete abbia un certo numero di «punti», secondo gli incarichi e l’anzianità, con un minimo di 80. Ora si è deciso che l’anno prossimo il «punto» passerà dai 12,36 di dieci anni fa a 12,61 euro: lo stipendio minimo salirà da 988,80 a 1.008,80 euro lordi al mese per dodici mesi, non c’è tredicesima. In media, un parroco arriva a prendere tra i 1.200 e i 1.300 euro e un vescovo tra i 1.500 e i 1.600. Se ha già uno stipendio, ad esempio come insegnante, la remunerazione si limita a colmare la differenza. Gli oltre 31 mila preti nel sistema dell’Istituto per il sostentamento del clero vengono sostenuti dalle offerte e per buona parte dai fondi dell’otto per mille. I soldi risparmiati con il blocco delle retribuzioni, milioni di euro, sono serviti alla Cei per aumentare gli stanziamenti in opere di carità: dai 205 milioni del 2009 ai 275 milioni del 2017, ultimo dato disponibile, mentre le spese per il clero scendevano da 381 a 350 milioni. E questo in un momento storico nel quale le offerte dei fedeli per i sacerdoti crollano: dai 17 milioni e 470 mila euro del 2005 ai 9 milioni e 609 euro del 2017. C’entra la crisi economica e un mondo sempre più secolarizzato, chiaro, ma c’entrano soprattutto gli scandali nella Chiesa, dagli abusi sessuali su minori alle finanze.«La gente, giustamente, non ci fa più sconti», considera don Ivan Maffeis, sottosegretario e portavoce della Cei: «Il calo delle offerte è un segno di disaffezione e mancanza di fiducia. Ma quello che non dovrebbe permetterci di dormire è che con i nostri scandali noi sconcertiamo e allontaniamo le persone dall’appartenenza ecclesiale. Papa Francesco dice che i pastori devono avere l’“odore delle pecore”. Le pecore non ti lasciano, sono loro che ti tengono in piedi e tengono in piedi anche la tua fede». Qui sta l’essenziale: «La Chiesa italiana è radicata nel territorio, tanti parroci servono con semplicità e umiltà. A un prete non manca nulla, anche se non ha un grande stipendio, perché la gente gli vuole bene. La gente è disposta a perdonare tante cose, ma quello che non ci perdona è l’attaccamento ai soldi. È una vita sobria che oggi testimonia la tua fedeltà al Vangelo». Monsignor Paolo Lojudice, 55 anni, da quattro mesi arcivescovo di Siena, è stato vescovo ausiliare di Roma e prima ancora, per otto anni, parroco a Tor Bella Monaca, periferia estrema della Capitale: «Devi vivere come vive la tua gente, per esserle vicino. Non è questione di pauperismo, a me non è mai mancato nulla e intere famiglie ci campano, con ottocento o mille euro al mese. Ci sono le spese normali, la benzina, il bollo, qualche capo di vestiario: due o tre bastano, cambi abito solo se si usura. Poi, certo, dipende dalle situazioni». L’essenziale, riflette Lojudice, è la condivisione. «A Tor Bella Monaca mi ritrovai un complesso monumentale, ai tempi l’avevano costruito così, solo la sala della canonica era 120 metri quadrati. Avevo la tentazione di andare a vivere nel prefabbricato, poi capimmo che l’unico modo di avere diritto allo spazio era condividerlo: aprire un centro diurno per i bambini, un ambulatorio medico per i poveri...». Stesso problema da arcivescovo di Siena: «Io che vivo in un palazzo del Seicento, nell’arcivescovado, mi sono chiesto: è giusto che resti qui? Mi sono ritagliato due stanzette, una è la camera da letto e l’altra lo studio con una scrivania e i libri. Per il resto, si tratterà di farne un uso intelligente, aprirlo. Sto pensando ad un pranzo per i poveri nella giornata mondiale del 17 novembre, a momenti di incontro, cercheremo di capire come sfruttare ogni spazio...

·        Ex preti ed ex suore: cosa fanno?

CHE LAVORO FANNO GLI EX PRETI E LE EX SUORE? Mauro Leonardi per Agi il 2 settembre 2019. Quando nel parlare comune ci si riferisce alle persone in difficoltà, in genere si intendono categorie che già si conoscono, quelle che bene o male ricevono visibilità o anche aiuto, come per esempio i migranti. Esiste però anche la realtà di chi ha intrapreso un cammino religioso e per qualsiasi motivo ad un certo punto se ne trova fuori. Non si tratta solo di sopravvivenza materiale, che è già una priorità assoluta, ma anche dell'aspetto emotivo e affettivo che va rimodulato e ricreato. Si tratta di provare a far ripartire una rete di affetti e di legami, magari lasciati prima della scelta vocazionale, e non più ritrovati all'uscita. Il tentativo del blog Come Gesù si muove in questa linea cercando non solo di far trovare un lavoro all'ex prete o alla ex suora, ma anche di creare un "cordone umanitario" che rompa la solitudine.

Don Mauro Leonardi, con la sua iniziativa di cercare lavoro per ex-preti ed ex-suore attraverso il suo blog Come Gesù ha scatenato un bel vespaio...

«Me ne sono accorto anch'io!»

Com'è andata?

«Don Patricello racconta che quando diventò parroco nella Terra dei Fuochi la gente si rivolgeva a lui per qualsiasi cosa: all'inizio si meravigliava, poi capì: non c'era nessuno ad aiutare i poveretti e perciò la gente si rivolgeva al prete. A me è accaduto qualcosa del genere. Grazie al blog, ai social, ai libri, alla televisione, ho una certa visibilità, e così di tanto in tanto c'è chi mi manda Curriculum: in genere rispondevo di non poter fare nulla ma poi, soprattutto quando mi sono cominciate ad arrivare richieste di ex-suore ed ex-preti, mi sono detto: davvero non posso fare nulla?»

Perché in realtà cosa succede?

«La situazione più difficile riguarda le ex-suore. Per quanto riguarda gli ex-preti, soprattutto se pensiamo alle diocesi più grandi ed organizzate (per esempio Roma o Milano) i vescovi trovano spesso - anche se non sempre - il modo di aiutare. Una strada, frequentemente, è quella dell'insegnante di religione. Un esempio fulgido, ma che può ingannare, è quello di Vito Mancuso. Che dietro di lui aveva una personalità lungimirante come quella del Cardinal Martini. Mancuso si è fatto prete a 23 anni e dopo un anno ha chiesto la dispensa. Da lì è iniziata la sua carriera di teologo, saggista e scrittore ma, ovviamente, non va sempre bene come a lui».

In che senso?

«Quando un prete lascia dopo un anno è una cosa, se accade dopo dieci anni o dopo venti, o pure di più, è un'altra. Sia chiaro che io non voglio gettare la croce addosso alle istituzioni, che rispetto a tanti anni fa sono, a riguardo, molto cambiate in positivo. Un tempo chi lasciava era solo visto come "un traditore" o "una traditrice", adesso, spesso, non è più così anche se, a onor del vero, qua e là questa mentalità esiste ancora. Però neppure si può tacere che i problemi esistono eccome, anche dal punto di vista psicologico».

Può spiegare meglio?

«È la fiera dei non detti. Noi ti aiutiamo a fare l'insegnate di religione, o quest'altro lavoro, ma tu, ovviamente, non c'è bisogno che faccia sapere che eri suora ... capisce? Si usano questi eufemismi, questi giri di parole. In tal modo si getta un giudizio pesante come il piombo su un pezzo di vita importante, magari, tra una cosa e l'altra, durato vent'anni: perché dovrei vergognarmi di aver provato a fare la suora e di non esserci riuscita? Oppure il prete? Oltretutto, magari la colpa di quello che viene visto come fallimento non è poi solo del singolo...»

Però?

«Però il problema, prima che ideologico, è assolutamente pratico. Pensiamo ai casi normali, che non sono quelli dei preti giovani e brillanti delle diocesi prestigiose come quello di Vito Mancuso, ma quelli di suore (magari straniere) che hanno fatto parte di congregazioni o monasteri piccoli, che contano poche unità. Spesso, per entrare nell'ordine, hanno lasciato tutto: che so, anche la patente di guida. Se fanno parte di ordini contemplativi, magari, sebbene siano persone colte (a volte anche dotte) non hanno corrispondenti titoli di studio. A volte, se la scelta è avvenuta in disaccordo con la famiglia, esiste poi anche la lontanza affettiva dai parenti. Si sentono dire (e anche con ragione): dieci anni fa, quando papà era allettato avevamo bisogno di te e tu non ci hai aiutato, adesso cosa vuoi da noi? La vita è dura per tutti, è già tanto se riusciamo a cavarcela da soli senza accollarci anche il peso della tua vita. Noi te lo avevamo detto che non eravamo d'accordo con la tua scelta...»

Ma le consorelle o i confratelli dell'ex non aiutano?

«Dipende. Ci sono casi e casi. Pensi a chi lascia l'ordine per motivi di salute: smette perché non ce la fa a fare la vita della suora. Se non ce la fa dentro, crede ce la faccia fuori? E comunque, con tutta la buona volontà, un monastero di clausura che vede una consorella lasciare la comunità dopo vent'anni, per i motivi che siano, cosa può fare? Ha l' obbligo canonico di aiutare per un anno dal punto di vista economico, e questo lo fa, ma poi cosa succede? Un monastero di clausura non è un'agenzia di collocamento».

Lei cosa propone?

«Io non ho la bacchetta magica e non voglio gettare la croce addosso a nessuno. Ripeto, rispetto a qualche decennio fa, si sono fatti tanti passi in avanti, però il problema è lontano dall'essere risolto: e sto pensando solo al reinserimento nella società civile, figurarsi se penso a quello nella vita ecclesiale. Io, con le persone che collaborano al blog, posso magari aiutare a risolvere qualche problema concreto, ma penso soprattutto di poter fare un certo lavoro di sensibilizzazione culturale, di cui ringrazio anche AGI. Dobbiamo essere noi, la società tutta, a dirci se ci va bene che dei nostri figli e delle nostre figlie rischino la vita "alla carta di Dio", e poi essere coerenti. Non possiamo essere tutti felici se le loro vocazioni vanno bene e poi lasciarli solo se vanno in modo diverso».

·        I no dei Testimoni di Geova.

Grazia Longo per La Stampa il 30 settembre 2019. La religione che vince sull’etica e sulla scienza. La fede che batte la medicina, anche a costo della morte. Una settantenne testimone di Geova della provincia di Caserta ha perso la vita perché ha rifiutato di sottoporsi a una trasfusione di sangue. La pensionata, malata di gastrite sanguinante, aveva assolutamente bisogno della trasfusione per sopravvivere, ma ha preferito pagare con la morte pur di non tradire il suo credo religioso. Sostenuta, peraltro, dai familiari che hanno scelto di rispettare la sua volontà piuttosto che vederla sana e viva. A raccontare la drammatica vicenda è il medico che l’aveva in cura. Il primario della chirurgia dell’ospedale di Piedimonte Matese (Caserta), Gianfausto Iarrobino, è rimasto così colpito da avvertire l’esigenza di sfogarsi su Facebook. «Sono trent’anni che faccio il chirurgo ed è la prima volta che rimango impotente contro una decisione drastica di una mia paziente che per motivi religiosi rifiuta le cure e muore» ha scritto dopo che venerdì sera, la paziente, è deceduta per emorragia causata da una gastrite, perché così come aveva dichiarato al momento del ricovero «a causa di motivi religiosi non poteva accettare trasfusioni di sangue». «Oggi sono triste e contemporaneamente incazzato nero - ha spiegato il dottore-. Una paziente è venuta meno nel mio reparto perché ha rifiutato una trasfusione di sangue. Era testimone di Geova. L'avrei salvata di certo, ma ha rifiutato ed è morta. I figli ed i parenti solidali con lei. Ho fatto di tutto. Mi sono scontrato con tutti i familiari ma... nulla». Non solo, i figli hanno anche approvato in modo plateale. «Alla fine - prosegue il medico - i figli si sono esaltati dicendo: “mamma sei stata grande, hai dato una lezione a tutti i medici ed a tutto il reparto”. Mi chiedo: 1) come può una religione ancora oggi permettere un suicidio 2) come è possibile che io deputato per giuramento a salvare le vite umane, sia stato costretto a presenziare e garantire un suicidio assistito?». La storia ha sconvolto il chirurgo: «Ho lasciato sulla mia pagina social un commento amaro su questa triste storia e non pensavo che avesse tanto scalpore. Ho ricevuto tante telefonate da colleghi e amici che la pensano come me. Rispetto le idee di tutti ma il mio compito è fare di tutto per salvare una vita umana. Sono rimasto basito perché la donna poteva salvarsi come è successo in due altri casi, sempre persone testimoni di Geova. In un episodio avemmo l’autorizzazione dal tribunale dei minorenni perché il ragazzo non aveva ancora 18 anni e in un altro caso il paziente non era cosciente e quindi in quel caso non c’era l’espressa volontà del ricoverato di rifiutare le cure e quindi entrambi i pazienti furono salvati». Ma venerdì sera purtroppo non è andata così. «Sia la donna sia i familiari - conclude Iarrobino - hanno negato il consenso alla terapia di trasfusione». Ma i tre figli della donna raccontano la loro verità: «I medici non l’hanno saputa curare. Tant’è che non hanno nemmeno fatto indagini strumentali che permettessero di trovare il luogo esatto dell'emorragia così da fermarla il prima possibile. Si sono limitati a chiedere insistentemente di praticare l'emotrasfusione. Ma a cosa sarebbe servita se il problema di fondo era la perdita di sangue? Le hanno dato farmaci per alzare l’emoglobina solo alla fine dietro nostra insistenza». Per questo non escludono di denunciare i medici.

Testimone di Geova dice no a trasfusione, morta «L'avrei salvata al 100%». Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 da Corriere.it. Ha rifiutato la trasfusione che avrebbe potuto salvarle la vita a causa di forti motivazioni religiose ed è morta pochi giorni dopo. È accaduto, come raccontano Il Mattino e Il Messaggero, nel Casertano. La protagonista è una donna di 70 anni, testimone di Geova. Gianfausto Iarrobino — primario del Reparto di Chirurgia generale dell’ospedale di Piedimonte Matese, quello in cui la donna era ricoverata — non ha potuto far altro che arrendersi di fronte alla volontà di non ricevere cure, ribadita più volte dalla donna, che è sempre rimasta cosciente. I familiari dell’anziana, anch’essi testimoni di Geova, ne hanno sostenuto e difeso la scelta. L'ospedale ha anche interpellato un giudice per verificare se fosse possibile intervenire, ma il magistrato non ha autorizzato i sanitari a scavalcare le volontà della loro paziente. Dopo la morte della donna, il primario ha raccontato su Facebook quanto accaduto. «Oggi sono triste e incazzato nero», ha scritto Iarrobino, «l’avrei salvata al 100%, ma ha rifiutato ed è morta. I figli ed i parenti solidali con lei. Mi sono scontrato con tutti. Alla fine i figli si sono esaltati dicendo: mamma sei stata grande, hai dato una lezione a tutti i medici e tutto il reparto». Il medico chiude il suo post con due domande: «Mi chiedo: come può una religione permettere ancora oggi un suicidio? Come è possibile che io deputato per giuramento a salvare le vite umane, sia stato costretto a presenziare e garantire un suicidio assistito?». Alla fine dello sfogo social, il dottor Iarrobino ha poi collocato un hashtag che fa riferimento all'eutanasia. Il caso della donna, però, non ha a che vedere con le circostanze che sono state oggetto della recente sentenza della Corte Costituzionale sul fine vita (che riguardano l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale o affetto da una patologia irreversibile, che causi di sofferenze ritenute intollerabili). Chi aderisce alla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova (riconosciuta dallo Stato come confessione religiosa) rifiuta le trasfusioni in virtù di un'interpretazione letterale del precetto biblico "astenetevi dal sangue" (Atti 15:297). Il diniego alle cure è tutelato dal diritto previsto dalla Costituzione a rifiutare il trattamento medico «se non per disposizione di legge» (art. 32). Il medico non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente, se non in casi eccezionali, ad esempio se ci si trova in un quadro di emergenza e il paziente non è in grado di prestare il proprio consenso/esprimere dissenso. Il diritto viene meno anche quando i genitori si trovano a imporre ostacoli terapeutici a un figlio minorenne: in quel caso, previa autorizzazione del Tribunale dei Minori, i sanitari possono intervenire con una trasfusione (un caso che si è verificato a Legnano pochi giorni fa). 

Dice no alla trasfusione. La rabbia  del medico: «Come un suicidio». Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 su Corriere.it da Agostino Gramigna. La donna deceduta era testimone di Geova. Il medico: i figli mi hanno dato un opuscolo in cui è scritto cosa prescrive la loro religione in caso di ricovero in ospedale. MI sarei dovuto attenere a quello che c’era scritto? Ma andiamo...«Provate a mettervi nei miei panni. Sono un dottore, di fronte ho una paziente in ospedale che ha delle perdite di sangue ma è del tutto autonoma e vigile. Una donna che nonostante i miei scongiuri e le mie suppliche firma la sua morte. Si lascia morire, di fronte a me che non posso fare niente. Anzi: avrei potuto fare molto, salvarle la vita. Invece ho dovuto assistere ad un suicidio». La storia è di quelle che farà discutere come tutte le vicende legate fortemente alla vita e alla morte. Tanto più in un periodo in cui si discute molto di «suicidio assistito» dopo che la Consulta ha chiesto sulla materia un intervento del legislatore. Il dottore in questione si chiama Gianfausto Iarrobino, primario del Reparto di Chirurgia generale dell’ospedale di Piedimonte Matese (Caserta), dove per tre giorni è stata ricoverata un’anziana donna di 70 anni. Al terzo giorno la donna è morta di emorragia. Non ha accettato la trasfusione del sangue perché contraria ai precetti della sua religione. È una testimone di Geova. Il precetto dice che non si può mischiare il proprio sangue a quello di altri. La donna ha firmato per ben due volte un foglio in cui ribadiva di rifiutare la trasfusione. Iarrobino ha fatto conoscere la storia postando su Facebook il suo privatissimo sentimento. «Ero provato, arrabbiato, deluso. Sono stato anche aggredito dai figli della signora che mi chiedevano di rispettare la volontà della mamma e di non intromettermi. Mi sono sfogato e ho posto una domanda: come può una religione dare la morte?».

La lettera. La vicenda si è poi arricchita di un nuovo capitolo. La lettera scritta dai figli della donna in cui hanno tracciato in modo diverso la sequenza dei fatti. I parenti non vogliono esser giudicati come invasati e fondamentalisti. «Paragonare la morte di nostra madre a un suicidio assistito è semplicemente falso». La realtà, affermano, è più problematica e non ha nulla a che fare solo con la religione. «Amavamo nostra madre e l’abbiamo ammirata per la sua fede e il suo coraggio oltre che per l’amore che aveva per la vita». I familiari accusano l’ospedale di averla curata in modo inadeguato. Di non aver praticato una condotta medica alternativa alla trasfusione. «Quando ha chiesto ogni terapia possibile tranne che col sangue i medici non le hanno somministrato prontamente farmaci che innalzassero i valori dell’emoglobina». La rezione del dottore è piccata. «Mi hanno chiesto l’eritropoietina, è vero, per aumentare la massa del sangue. Ma ho spiegato che non si poteva realizzare in un solo giorno e che non c’era tempo. Mi hanno dato pure un opuscolo dei testimoni di Geova in cui è scritto cosa prescrive la loro religione in casi di cura. Mi sarei dovuto attenermi a quell’ opuscolo? Ma andiamo...» La vicenda si è poi arricchita di un nuovo capitolo. La lettera scritta dai figli della donna in cui hanno tracciato in modo diverso la sequenza dei fatti. I parenti non vogliono esser giudicati come invasati e fondamentalisti. «Paragonare la morte di nostra madre a un suicidio assistito è semplicemente falso». La realtà, affermano, è più problematica e non ha nulla a che fare solo con la religione. «Amavamo nostra madre e l’abbiamo ammirata per la sua fede e il suo coraggio oltre che per l’amore che aveva per la vita».

·        Ecologia. Il climate-change tra religione e politica.

Schönborn: “Grido del Sinodo: per salvare il mondo serve una conversione ecologica”. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. «In questi giorni sto rileggendo il profeta Geremia. Continuava a dire: andiamo diritti verso il disastro, convertitevi, cambiate vita, c’è ancora tempo. Ma non gli hanno creduto». Il cardinale Christoph Schönborn, 74 anni, arcivescovo di Vienna e grande teologo domenicano, siede assorto nell’aula Paolo VI prima della sessione pomeridiana del Sinodo sull’Amazzonia. Il Papa lo ha nominato nella commissione per la stesura del documento finale che sarà votato sabato. Il cardinale abbassa lo sguardo sui suoi appunti: «Ciò che mi colpisce è che il grido più drammatico sia venuto dagli esperti».

E cosa vi hanno detto, eminenza?

«Nell’ultimo degli interventi in aula, il grande climatologo Hans Schellnhuber ha detto, semplicemente: “L’evidenza scientifica è che la distruzione della foresta amazzonica è la distruzione del mondo”. Così, secco. E questa chiamata drammatica è ciò che questo Sinodo vuole e deve dire a tutto il mondo, anzitutto al mondo industrializzato, ricco».

Come?

«Un vescovo amazzonico ha osservato: voi europei volete che noi proteggiamo la foresta, ma non volete cambiare il vostro stile di vita. Se c’è un filo rosso nel documento finale è la parola “conversione”, tante volte ripetuta da Papa Francesco. Conversone ecologica, conversione culturale, conversione sociale, conversione pastorale…».

Nel testo greco dei Vangeli conversione è «metanoia», alla lettera significa «cambiare il modo di pensare»…

«Proprio così. La conversone comincia con il pensare e si mostra nell’agire. L’urgenza della conversione ecologica, la tutela del creato, è inseparabile da altre due urgenze che ha rilevato questo Sinodo. La protezione delle minoranze, anzitutto. La situazione dei popoli indigeni e la loro sorte minacciata è stato un grande tema dell’assemblea. E anche in questo caso, come diceva Schellnhuber, l’Amazzonia è il “test case” per tutto il pianeta. E poi c’è il terzo grido».

Quale?

«La conversione sociale, la giustizia sociale. La situazione di una economia che distrugge e uccide, come aveva detto Papa Francesco, e uccide letteralmente. Un vescovo locale ci ha raccontato di un villaggio che si chiama “Trecentos”: ha scoperto che questo nome ricorda trecento lavoratori rurali assassinati dal proprietario dell’azienda che li piegava come schiavi. C’è una economia agraria ed estrattiva che non ha alcun rispetto né della natura né delle persone».

Molti negano i cambiamenti climatici o sono indifferenti. Cosa può fare la Chiesa?

«Anche nel Sinodo, dopo l’intervento del professor Schellnhuber, alcuni dicevano: mah, drammatizza…Non li accuso, è umano, anch’io sento in me stesso questo pensiero, “non può essere così drammatico!”. Per questo bisogna arrivare ad una quarta conversone, quella pastorale: la sfida dell’evangelizzazione. Perché senza il senso di Cristo, della sua Croce e resurrezione, senza la forza del Vangelo non avremo la forza di cambiare vita».

Sta dicendo non si può trovare altrimenti?

«Sì. Umanamente non avremo mai la forza di convertirci perché comporta sacrifici, rinunciare ad un certo stile di vita, scegliere la solidarietà. Tutto questo non è possibile se io sono il centro del mondo. Il Vangelo mi dice invece che l’altro, il povero e il bisognoso, è la porta della salvezza».

Cosa direbbe a quei cattolici conservatori che paventavano un cedimento del Sinodo agli «idoli pagani»?

«Il cristianesimo nella sua storia ha sempre integrato. Purificato e integrato».

Si è parlato molto dell’ordinazione sacerdotale di «viri probati», uomini anziani sposati, per compensare la mancanza di clero. La maggior parte dei padri sinodali amazzonici lo chiede, ci sono d’altra parte forti resistenze. Che succederà?

«Credo se ne parlerà in modo prudente: prima dovete cominciare con i diaconi permanenti, poi si vedrà. Quella dei diaconi permanenti è una possibilità che esiste da sempre nella Chiesa, rilanciata dal Concilio Vaticano II. A Vienna, per esempio, ne abbiamo 180, la maggior parte sposati, e prestano servizio nelle parrocchie e nelle comunità».

E le donne?

Escluso dai Papi il sacerdozio - «quella porta è chiusa», ha ripetuto Francesco - si parlava di diaconato o di «ministeri»… «Il tema delle donne diacono è allo studio, ci sono posizioni diverse su cosa fosse il diaconato femminile nei primi secoli cristiani, il magistero darà una riposta. Ma intanto io vedo la realtà concreta. In una regione come l’Amazzonia ci hanno spiegato che la maggior parte delle comunità è retta da donne. Ma sempre più, anche altrove, le comunità sono pienamente aperte alle donne anche in ruoli di responsabilità. A Vienna ne abbiamo tante in ruoli di direzione, ci sono le assistenti pastorali che presiedono la liturgia della parola nelle chiese dove non c’è la messa domenicale, donne che celebrano i funerali, catechiste…Del resto il parroco è il responsabile principale ma non è un monarca: c’è un lavoro di équipe. Nella formazione dei futuri sacerdoti sarà importante che fin dall’inizio imparino come il servizio presbiterale sia di comunione. L’esperienza dell’Amazzonia, in questo senso, è esemplare».

Vaticano, Papa Francesco e i dettami di Ratzinger: "Bisogna occuparsi di ecologia e giustizia sociale". Libero Quotidiano il 5 Ottobre 2019. Molte sono state le critiche mosse dagli ultraconservatori nei confronti di Papa Francesco, reo di occuparsi di tematiche quali ecologia e giustizia sociale che non dovrebbero essere di suo interesse, polemiche che si sono poi acuite dopo che questi ha indetto un Sinodo sull'Amazzonia. Eppure, come rende noto l'Huffington Post, anche tali temi rientrano tra gli interessi della Chiesa e il fautore di questa linea di pensiero è niente poco di meno che il predecessore di Bergoglio al soglio pontificio: Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger. L'ex pontefice tedesco, nella sua enciclica Caritas in Veritate del 7 luglio 2009, scriveva che giustizia sociale ed ecologia sono temi centrali nel magistero della Chiesa e lo fece in risposta a delle obiezioni sollevate in merito da alcuni membri della Dottrina della Fede, il dicastero che Bergoglio presiedeva prima di divenire il nuovo Papa. La Congregazione provò addirittura a redigere un testo alternativo per correggere quanto vergato da Benedetto XVI, ritardando la promulgazione dell'enciclica stessa, dato che il testo doveva essere molto più elevato a livello teologico per essere collegato alle verità della fede, ma alla fine, Ratzinger riuscì a prevalere. La stessa cosa potrebbe accadere anche con l'enciclica attualmente redatta da Francesco Laudato Sì, che non è ben vista dall'ala tradizionale della Chiesa, anche se il pontefice argentino non ha fatto altro che seguire i dettami del suo predecessore e dare seguito al Vaticano II, come da lui stesso dichiarato a più riprese.

Il rosario contro la Chiesa di Greta: "Tesi eretiche al sinodo amazzonico". L'iniziativa del fronte tradizionalista per denunciare le "eresie" che si discuteranno nel sinodo per l'Amazzonia. I manifestanti: "I riti degli sciamani non hanno nulla a che fare con la Chiesa". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. "Dire che la Chiesa deve imparare dagli sciamani o assimiliare i loro riti sacri è totalmente eretico". Non ha dubbi Alessandro, uno dei partecipanti all'iniziativa di preghiera organizzata a Roma da un gruppo di laici alla vigilia dell'apertura dei lavori del sinodo sull'Amazzonia. L'assemblea dei vescovi voluta dal Papa per discutere di "Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale" è l'ennesimo motivo di scontro con l'ala conservatrice. Cardinali, monsignori, ma anche tanti fedeli che contestano il documento di lavoro preparatorio. "Contiene dichiarazioni inaccettabili dal punto di vista della dottrina e della fede che i nostri padri ci hanno trasmesso", spiega Aldo Maria Valli, vaticanista, che incontriamo in piazza. Le questioni dibattute sono tante, e vanno dal "radicalismo ecologista", alla proposta di inglobare i riti delle popolazioni indigene, passando per la possibilità di conferire l'ordinazione sacerdotale agli anziani sposati e "ministeri ufficiali" alle donne. "Abbiamo visto anche ieri una cerimonia sconcertante nei giardini vaticani, all'insegna del paganesimo, situazioni che non hanno nulla di cattolico", denuncia il giornalista. La preoccupazione è che si vada a scalfire la dottrina, questa volta in nome dell'ecologismo. Tra le opzioni che si discuteranno, infatti, c'è anche quella di evangelizzare le popolazioni locali con l'ordinazione dei cosiddetti "viri probati", anziani indigeni "rispettati dalla comunità", che potrebbero amministrare i sacramenti pur avendo già "una famiglia costituita e stabile". Affermazioni che, secondo i critici del documento, potrebbero portare verso l'abolizione del celibato per i sacerdoti. Dure critiche in questo senso sono state espresse nei giorni scorsi da cardinali conservatori come Gherard Mueller, Raymond Leo Burke e Walter Brandmueller, ma anche da porporati sinora allineati al pontificato di Francesco. È il caso del canadese Marc Ouellet: "Per avere un viso amazzonico, la Chiesa non ha bisogno di un sacerdozio uxorato", ha detto in una recente conferenza stampa. Le trecento persone arrivate da tutta Italia per sgranare il rosario all'ombra di San Pietro si oppongono al "tentativo di modernizzare la Chiesa reinterpretando le sacre scritture". Mentre i cattolici tradizionalisti chiedono chiarezza sui "valori non negoziabili", come vita e famiglia, e denunciano un senso di "smarrimento", dall'altro lato c'è chi preme per le riforme. Il Papa è "assediato" da una parte dalla conferenza episcopale tedesca che lavora per l'abolizione del celibato e l'introduzione del diaconato femminile e dai conservatori, che invece gli chiedono di tenere la barra dritta, minacciando addirittura lo scisma, come nel caso dei vescovi americani. A tenere banco c'è la questione dell'ecologia, al centro del pontificato di Bergoglio. "Bisogna ricordare però che la creazione è stata fatta per l'uomo e quindi, prima di tutto c'è da difendere la vita umana", spiega un altro manifestante che contesta il dogmatismo di movimenti come quello di Greta Thunberg. Secondo Valli ultimamente "l'ecologismo ha preso il posto del Vangelo". "Ma non tutti i cattolici – avverte - sono disposti ad essere a farsi manipolare in questo modo". Lo slancio verde di parte della Curia romana non convince neppure il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, preoccupato che in nome dell'ambientalismo l'Amazzonia venga posta sotto un protettorato transnazionale. Michael Czerny, neo cardinale e segretario speciale del Sinodo ha ribattuto come: "La migliore risposta della Chiesa è l'ascolto degli indigeni, cosa che, forse, gli altri non fanno". Ma dall'altra parte dell'Oceano i fedeli promettono battaglia per arginare quella che chiamano "deriva modernista". "I nemici della Chiesa consapevoli o meno che siano – avverte Valli - sono proprio al suo interno e ai suoi vertici, e questo ci preoccupa molto". 

Il climate-change come arma di distrazione e distruzione di massa. Piccole Note su Il Giornale il 5 ottobre 2019. Il climate-change come arma di distrazione di massa. Questo il senso di un articolo di Anshel Pfeffer su Haaretz, che commenta una dichiarazione sull’ultima assemblea generale dell’Onu di Danny Danon, ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite. Il climate-change, ha dichiarato Danon, “è importante e dovremmo discuterne di più, ma dal nostro punto di vista, un grande risultato è che Israele non sia stato messo discussione” in tale sede. Vero, in genere alle assemblee dell’Onu c’era sempre posto per dibattere della crisi israelo-palestinese, cosa non avvenuta nell’ultima sessione plenaria. Il fatto è che “in un mondo ideale – scrive Pfeffer – dovrebbe essere possibile combattere per due cause contemporaneamente; chiedere un’azione urgente sul clima e allo stesso tempo giustizia per i palestinesi”.

Climate-change o dark climate. “Ma la triste verità è che, indipendentemente da ciò che dicono i teorici dell’intersezionalità [la capacità di attendere a differenti ingiustizie contemporaneamente ndr.], l’intervallo di attenzione umana è limitato e non tutte le ingiustizie possono essere combattute nello stesso tempo”. Non solo, “il livello di attenzione e di energia speso per determinate questioni raramente sono commisurati alla loro reale importanza e rilevanza nello schema generale delle cose”.  Da qui, la possibilità, anzi la triste realtà, che la causa del climate-change oscuri questioni umanitarie ben più tragiche. E ancora, sempre riferendosi al quadro della criticità israelo-palestinese, Pfeffer rileva che, al contrario dei nazionalisti Usa, che con Trump relativizzano fin troppo la questione ambientale, i nazionalisti israeliani potranno invece usare questa “causa” per presentarsi come salvatori del mondo. Così Pfeffer: “Preparati, dunque, per future campagne di pubbliche relazioni che reclamizzano i metodi rivoluzionari [israeliani] della gestione delle risorse idriche e delle reti di energia solare all’avanguardia”, tecnologie che peraltro Tel Aviv possiede, annota Pfeffer, il quale fa però rilevare all’opposto l’inquinamento ad opera di alcune imprese israeliane, che sarà ovviamente tacitato.Ancora più interessante il cenno successivo, nel quale il cronista israeliano scrive: “Non sorprenderti se, tra un paio d’anni, la soluzione per i guai di Gaza sarà ‘mascherata’ in termini ambientali, piuttosto che politici, e se Hamas sarà accusato di provocare un disastro ecologico”. Rilievi intelligenti quelli di Pfeffer, che hanno un orizzonte ben più ampio della criticità israelo-palestinese, per la quale, peraltro, va specificato – come fa il cronista – che il suo oscuramento non va addebitato solo all’emergenza climatica. Tante e diversificate le cause dell’oblio. Ma resta vero che il climate-change può e sarà usato per distrarre da emergenze umanitarie ben più gravi. E anzi, chi gestisce l’agenda della protesta, che non è certo l’adolescente Greta Thumberg, potrà usarlo contro suoi nemici o percepiti tali.

L’emergenza ambientale strumento di pressioni politiche. Al futuro Gheddafi di turno – cioè un Capo di Stato che non risponde a certo potere –  non saranno addossate solo mancanze sul piano dei diritti umani, ma anche sul piano ambientale. Non solo i crimini contro il suo popolo, come avvenuto in maniera strumentale per il Colonnello libico (vedi National Interest), ma anche contro l’ambiente, per rappresentare il reprobo come una minaccia per la sopravvivenza stessa del pianeta. Un po’ quel che è avvenuto di recente, in termini minori, per il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, additato come un criminale globale per l’incendio divampato in Amazzonia. Accuse utili a mettere in crisi figure e Paesi invisi al potere globale, quello che agita lo spettro del pericolo ambientale, anche solo per costringerli a fare certe scelte piuttosto che altre. Ad esempio per spingerli a spendere i soldi pubblici per rendere le proprie imprese meno inquinanti piuttosto che per produrre sviluppo per i suoi cittadini, per creare in tal modo malcontento nel Paese stesso, utile per un eventuale cambio di regime (soft o hard che sia). L’emergenza ambientale può essere usata anche in altro modo: non è certo casuale che gli attivisti del climate-change abbiano annunciato una manifestazione volta a chiudere il centro di Londra, protesta che segue il tentativo di spruzzare della vernice rossa sul ministero del Tesoro. Il blocco di Londra servirà a disturbare il conducente, ovvero Boris Johnson: ne assorbirà attenzione ed energie, sottratte così alla sua azione politica in un momento tanto decisivo per la Brexit. Si tenga presente che quanti remano contro la Brexit finora hanno usato tattiche dilatorie. Più il tempo passa senza che il referendum venga attuato, più i suoi fautori, logorati, potrebbero essere tentati di rinunciarvi, data l’impossibilità di concretizzarlo. Né sfugge che un movimento che dovrebbe essere apolitico sia diventato invece un attore politico: basta vedere le recenti elezioni austriache, dove lo spettro del cosiddetto populismo è stato esorcizzato dall’avanzata dei Verdi. Insomma, il climate-change può essere usato, e sarà usato, in vari modi. Non si butta niente, come il maiale. Ps. Sottrarre i temi ambientalisti a certo potere sarà compito ingrato, ma necessario dato che sono drammaticamente reali.